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I MISERABILI VOL. III - ctsbasilicata.it · quei miserabili da cui sorsero gli apostoli e i martiri, pensava san Girolamo quando diceva quella parola misteriosa: "Fex urbis, lex orbis"

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I MISERABILI VOL. III

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SOMMARIO

PARTE QUINTA - GIOVANNI VALJEAN 5

I MISERABILI VOL. III

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Victor Hugo

I MISERABILI

Volume III

I MISERABILI VOL. III

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PARTE QUINTA - GIOVANNI VALJEAN

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Libro 1

LA GUERRA FRA QUATTRO MURI

1. CARIDDI NEL SOBBORGO SANT'ANTONIO E

SCILLA NEL SOBBORGO DEL TEMPIO

Le due barricate più memorabili, che l'osservatore delle

malattie sociali possa ricordare, non appartengono al

periodo in cui è collocata l'azione di questo libro. Quelle

due barricate, simboli tutt'e due, sotto due aspetti diversi,

d'una terribile situazione, sbucarono da sotto terra nella

fatale insurrezione del giugno 1848, la più grande guerra

per le vie che abbia mai visto la storia.

Accade talvolta che anche contro i princìpi, anche contro la

libertà, l'uguaglianza e la fratellanza, anche contro il

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suffragio universale, anche contro il governo popolare, dal

fondo delle sue angosce, dei suoi scoraggiamenti, delle sue

privazioni, delle sue febbri, delle sue miserie, dei suoi

miasmi, delle sue ignoranze, delle sue tenebre, quella

grande disperata, che è la canaglia, protesti, e la plebaglia

dia battaglia al popolo.

I pezzenti assaltano il diritto comune; l'oclocrazia insorge

contro la democrazia.

Sono giornate lugubri, perché c'è sempre un pizzico di

diritto anche in quella demenza, un pizzico di suicidio in

quel duello; e le parole accattoni, canaglia, oclocrazia,

plebe, che vorrebbero essere altrettante ingiurie,

dimostrano, ahimé! la colpa di chi regna piuttosto che

quella dei diseredati.

Dal canto nostro, non pronunciamo mai queste parole

senza dolore e senza rispetto, poiché, quando la filosofia

investiga i fatti a cui esse corrispondono, vi trova spesso

molte grandezze accanto alle miserie. Atene era

un'oclocrazia; i pezzenti hanno fatto l'Olanda; la plebaglia

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salvò più d'una volta Roma, e la poveraglia seguiva Gesù

Cristo.

Non c'è pensatore che non abbia talvolta contemplato le

magnificenze delle infime classi. A quella poveraglia, a

tutta quella povera gente, a tutti quei vagabondi, e a tutti

quei miserabili da cui sorsero gli apostoli e i martiri,

pensava san Girolamo quando diceva quella parola

misteriosa: "Fex urbis, lex orbis". Le esasperazioni della

folla che soffre e sanguina, le sue insensate violenze contro

i princìpi che informano la sua vita, il ricorso alla forza

contro il diritto, sono colpi di stato popolari e devono

essere repressi. L'uomo probo si sacrifica e combatte la

folla proprio per amore di essa. Ma come la trova scusabile

pur tenendole testa! Come la venera pur resistendole! E'

uno di quei rari momenti in cui, pur facendo ciò che è

doveroso, si sente qualcosa che sconcerta e quasi

sconsiglia di andare oltre; si persiste, se è necessario; però

la coscienza soddisfatta è triste, e il compimento del

dovere si unisce alla stretta del cuore.

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Il giugno 1848, affrettiamoci a dichiararlo, fu un

avvenimento a sé, quasi impossibile a essere classificato

nella filosofia della storia. Tutte le parole vanno messe da

parte quando si parla di quella straordinaria sommossa,

nella quale si sentì la santa istanza del lavoro che

reclamava i suoi diritti. La si dovette combattere, ed era un

dovere, perché attaccava la Repubblica; ma, in fondo, che

cosa fu il giugno 1848? Una rivolta del popolo contro se

stesso.

Quando non si perde di vista l'argomento, non ci sono

digressioni; sia dunque concesso di richiamare l'attenzione

del lettore sulle due barricate assolutamente uniche, di cui

abbiamo parlato e che caratterizzano l'insurrezione.

Una sbarrava l'ingresso del sobborgo di Sant'Antonio,

l'altra difendeva le vicinanze del sobborgo del Tempio.

Quelli che sotto il luminoso cielo azzurro di giugno videro

sorgersi davanti quei due terribili capolavori della guerra

civile, non li dimenticheranno mai.

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La barricata Sant'Antonio era mostruosa; era alta tre piani

e larga settecento piedi. Sbarrava da un angolo all'altro la

vasta imboccatura del sobborgo, vale a dire tre vie.

Franosa, frastagliata, dentellata, seghettata, scanalata da

una immensa fenditura, rafforzata da contrafforti che erano

altrettanti bastioni, con delle punte qua e là, potentemente

addossata ai due grandi promontori di case del sobborgo,

essa sorgeva come una costruzione ciclopica in fondo alla

formidabile piazza che ha visto il 14 luglio. Altre diciannove

barricate erano disposte nelle vie dietro quella barricata

madre, la cui sola vista faceva capire che nel sobborgo

l'immensa sofferenza era arrivata al punto estremo in cui

un'angoscia sta per diventare una catastrofe. Di che era

fatta quella barricata? Delle macerie di tre case a sei piani

demolite apposta, dicevano alcuni. Del prodigio di tutte le

collere, dicevano gli altri. Aveva il deplorevole aspetto di

tutte le costruzioni dell'odio: la rovina. Si poteva chiedere:

- Chi ha costruito questo? - e si poteva chiedere pure: -

Chi ha distrutto questo? - Era l'improvvisazione della

rivolta. Guarda:

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quell'imposta, quel cancello, quel tavolato quello stipite,

quel caldano rotto, quella marmitta fessa. Date tutto,

buttate tutto!

spingete, rotolate, abbattete,smantellate,sconvolgete,

rovesciate tutto. Era la collaborazione della pietra, della

lastra, della trave, della sbarra di ferro, del cencio, del

vetro infranto, della sedia spagliata, del torso di cavolo,

dello strofinaccio, dello straccio e della maledizione. Era il

grandioso e il meschino. Era l'abisso parodiato dalla

confusione. Era la massa accanto all'atomo, il pezzo di

muro divelto e la scodella infranta; una minacciosa

fratellanza di tutti i rottami; Sisifo vi aveva gettato la sua

roccia, Giobbe il suo coccio. Terribile, insomma. Era

l'acropoli degli scalzacani. Alcuni carretti rovesciati

frastagliavano la scarpata; un carrettone immenso era

messo di traverso, con l'asse rivolta al cielo, e sembrava

una ferita su quella facciata tumultuosa; un omnibus issato

allegramente a forza di braccia in cima al cumulo, come se

gli architetti di quella costruzione selvaggia avessero voluto

aggiungere il monellesco al terribile, porgeva il timone a

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non si sapeva quali cavalli dell'aria. Quel gigantesco

ammasso, quell'alluvione della sommossa faceva pensare a

un gigantesco sovrapporsi di tutte le rivoluzioni; il '93

sull'89, il 9 termidoro sul 10 agosto, il 18 brumaio sul 21

gennaio, il vendemmiale sul pratile, il 1848 sul 1830. Il

luogo ne valeva la pena, e quella barricata era degna di

apparire nello stesso posto da cui era scomparsa la

Bastiglia. Se l'oceano formasse delle dighe, le costruirebbe

così. Su quel deforme affastellamento era impressa la furia

dei flutti. Quali flutti? La folla. Pareva di vedere un tumulto

pietrificato; pareva di sentir ronzare, al di sopra di quella

barricata, come se avessero là il loro alveare, le enormi api

tenebrose del progresso violento. Era una sterpaglia?

un baccanale? una fortezza? Sembrava costruita a colpi

d'ala dalla vertigine. C'era qualcosa della cloaca in quella

ridotta, e qualcosa di olimpico in quello scompiglio. Si

vedevano in quel disordine pieno di disperazione travi di

tetti, pezzi di mansarde con la loro tappezzeria di carta a

colori, invetriate di finestre con tutti i vetri, piantate tra le

macerie in attesa del cannone, fumaioli smantellati,

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armadi, tavole, banchi, una confusione urlante, e quelle

mille miserabili cose, rifiuti dello stesso mendicante, che

contengono insieme qualcosa di furibondo e di

insignificante. Si sarebbe detto che fosse il cenciume d'un

popolo, cenciume di legno, di ferro, di bronzo, di pietra e

che il sobborgo Sant'Antonio lo avesse buttato là, alla sua

porta, con una colossale scopa, formando con la sua

miseria la sua barricata.

Massi simili a ceppi patibolari, catene spezzate, cavalletti di

legno che parevano forche, ruote orizzontali sporgenti dalle

macerie, aggiungevano a quell'edificio dell'anarchia la tetra

immagine dei vecchi supplizi sofferti dal popolo. La

barricata Sant'Antonio si faceva arma di tutto; tutto quello

che la guerra civile può scagliare sul capo della società

usciva da essa; non era un combattimento, ma un

parossismo; le carabine che difendevano quella ridotta, e

fra esse anche alcuni tromboni, lanciavano cocci di

terraglia, ossicini e persino rotelline di comodini da notte:

proiettili pericolosi per via del rame. Quella barricata era

forsennata; lanciava nel cielo un clamore inesprimibile; in

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certi momenti, provocando l'esercito, si copriva di folla e di

tempesta; una moltitudine di teste infiammate la

coronava; un brulichio la riempiva; aveva una cresta

spinosa di fucili, di sciabole, di bastoni, di scuri, di picche,

di baionette; una grande bandiera rossa sbatteva al vento;

vi si udivano grida di comando, canzoni di battaglia, rulli di

tamburi, singhiozzi di donne, e le tenebrose risate dei

morti di fame. Era smisurata e vivente; e da essa, come

dal dorso d'un animale elettrico, usciva uno scoppiettio di

fulmini. Il genio della rivoluzione copriva con la sua nube

quella cima su cui brontolava quella voce di popolo che

somigliava alla voce di Dio; una maestà strana emanava da

quella titanica gerla di macerie. Era un mucchio di lordure

ed era il Sinai.

Come abbiamo detto più su, essa assaliva in nome della

Rivoluzione. Chi? la Rivoluzione. Quella barricata, ossia il

caso, lo smarrimento, il malinteso, l'ignoto, aveva di fronte

l'assemblea costituente, la sovranità del popolo, il suffragio

universale, la nazione, la Repubblica; era la "Carmagnola"

che sfidava la "Marsigliese".

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Sfida insensata, ma eroica, poiché quel vecchio sobborgo è

un eroe.

Il sobborgo e la sua ridotta si prestavano man forte: il

sobborgo s'appoggiava alla ridotta, la ridotta si addossava

al sobborgo. La vasta barricata si stendeva come una

scogliera, contro la quale andava a infrangersi la strategia

dei generali d'Africa. Le sue caverne, le sue escrescenze, le

sue verruche, le sue gibbosità facevano le boccacce, per

così dire, e ghignavano sotto il fumo.

La mitraglia svaniva nell'informe; le palle vi si affondavano,

inghiottite, inabissate; le palle riuscivano solo a fare dei

buchi; a che serve cannoneggiare il caos? E i reggimenti,

abituati alle più selvagge visioni di guerra, guardavano con

occhio inquieto quella ridotta che era come una bestia

feroce, irsuta come un cinghiale, enorme come una

montagna.

A un quarto di lega, dall'angolo della via del Tempio che

sbocca sul boulevard presso lo Chateau d'Eau, se si

sporgeva avidamente la testa fuori della punta formata

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dalla vetrina del magazzino Dallemagne, si scorgeva

lontano, al di là del canale, nella via che sale le rampe di

Belleville, al punto culminante della salita, una muraglia

strana che giungeva al secondo piano della facciata, specie

di tratto d'unione delle case di destra con quelle di sinistra,

come se la via avesse ripiegato da sé il suo muro più alto

per chiudersi bruscamente. Quel muro era fatto di selci, e

si ergeva diritto, freddo, perpendicolare, livellato con la

squadra, tirato con l'archipenzolo. Mancava il cemento, è

vero, ma, come in certe costruzioni romane, la rigidità

architettonica non era turbata. Dall'altezza se ne

indovinava lo spessore. La sommità era matematicamente

parallela alla base. A tratti sulla sua superficie grigia, si

distinguevano delle feritoie quasi invisibili, che

somigliavano a fili neri; erano separate le une dalle altre da

spazi regolari. La via era deserta a perdita d'occhio; tutte

le finestre e tutte le porte erano chiuse. In fondo si ergeva

quello sbarramento che faceva della via un angiporto;

muro immobile e tranquillo; non vi si vedeva nessuno, non

vi si udiva nulla; non un grido, non un rumore, non un

soffio. Un sepolcro.

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L'accecante sole di giugno inondava di luce quella scena

terribile.

Era la barricata del sobborgo del Tempio.

Appena giunti sul terreno e vedutala, era impossibile,

anche ai più audaci, non diventare pensosi davanti a

quell'apparizione misteriosa. Era aggiustata, incastrata,

levigata, rettilinea, simmetrica e funebre. C'era la scienza e

c'erano le tenebre. Si sentiva che il capo di quella barricata

era un geometra o uno spettro. Guardandola si parlava

sottovoce.

Se qualcuno, soldato, ufficiale o rappresentante del popolo,

si arrischiava ad attraversare la via deserta, si udiva un

sibilo acuto e leggero, e il passante cadeva ferito o morto,

o se sfuggiva, si vedeva penetrare in una imposta chiusa,

in una connessura di selci, nell'intonaco d'un muro una

pallottola e qualche volta un biscaglino, poiché i difensori

della barricata s'erano fatti due cannoncini con due tubi di

ferro del gas, chiusi a un'estremità con argilla e stoppa.

Non facevano spreco inutile di polvere. Quasi tutti i colpi

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andavano a segno. C'erano qua e là dei cadaveri, e pozze

di sangue sul lastricato. Mi ricordo d'una farfalla che

svolazzava su e giù per la via. L'estate non abdica mai.

Nei dintorni, gli androni, erano ingombri di feriti.

Si era sorvegliati da qualcuno che restava invisibile e si

capiva che tutta la strada era presa di mira.

I soldati della colonna d'assalto, ammassati dietro quella

specie di schiena d'asino formata dal ponte del canale

all'ingresso del sobborgo del Tempio, osservavano gravi e

pensosi quella lugubre ridotta, quella immobilità, quella

impassibilità, da cui veniva la morte. Alcuni strisciavano col

ventre a terra fino alla curva del ponte, attenti a non

mostrare il loro chepì.

Il valoroso colonnello Monteynard ammirava fremendo

quella barricata. - "Com'è costruita bene!" - diceva a un

deputato. "Non un ciottolo che sporga; sembra di

porcellana". - In quel momento una palla gli spezzò la

croce sul petto e cadde.

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- Vili! - dicevano. - Ma si mostrino dunque! si lascino

vedere!

non osano, si nascondono! - La barricata del sobborgo del

Tempio, difesa da ottanta uomini, assalita da diecimila,

resistette tre giorni. Al quarto si fece come a Zaatcha e a

Costantina, si fecero delle brecce nelle case, si calarono dai

tetti, e la barricata fu presa. Neppure uno degli ottanta vili

pensò di fuggire; furono uccisi tutti, eccetto il capo,

Barthélemy, di cui parleremo tra breve.

La barricata Sant'Antonio era il rombo dei tuoni, quella del

Tempio il silenzio: c'era tra queste due ridotte la differenza

che esiste tra il formidabile e il sinistro; l'una sembrava

una gola, l'altra una maschera.

Ammesso che la gigantesca e tenebrosa insurrezione del

giugno fosse composta d'una collera e d'un enigma, nella

prima barricata si sentiva il drago e dietro la seconda la

sfinge.

Queste due fortezze erano state costruite da due uomini

chiamati l'uno Cournet, l'altro Barthélémy: Cournet aveva

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fatto la barricata Sant'Antonio, Barthélémy quella del

Tempio, e ognuna era l'immagine del suo artefice.

Cournet era di alta statura, con le spalle larghe, la faccia

rubiconda, il pugno robusto, il cuore ardimentoso, l'anima

leale, l'occhio sincero e terribile. Intrepido, energico,

irascibile, tempestoso; l'uomo più cordiale, il più

formidabile combattente.

La guerra, la lotta, la mischia erano la sua aria respirabile e

lo mettevano di buon umore. Era stato ufficiale di marina,

e dal gesto e dalla voce s'indovinava che usciva dall'oceano

e veniva dalla tempesta; continuava la burrasca nella

battaglia. Tranne il genio, c'era in Cournet qualcosa di

Danton, come, tranne la divinità, c'era in Danton qualcosa

di Ercole.

Barthélémy, magro, sparuto, pallido, taciturno era una

specie di monello tragico che, schiaffeggiato da una

guardia di polizia, l'attese, l'uccise, e a diciassette anni fu

mandato in galera.

Quando ne uscì, costruì quella barricata.

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Più tardi, cosa fatale, a Londra, proscritti tutti e due,

Barthélémy uccise Cournet. Fu un duello funebre. Qualche

tempo dopo, preso nell'ingranaggio d'una di quelle

misteriose avventure in cui vi si immischia la passione,

catastrofi nelle quali la giustizia francese vede delle

circostanze attenuanti e l'inglese vede solo la morte,

Barthélémy fu impiccato. Il tetro edificio sociale è così fatto

che, grazie alle privazioni materiali e all'oscurità morale,

quell'essere sventurato che conteneva un'intelligenza

certamente solida, forse grande, cominciò col bagno in

Francia e finì con la forca in Inghilterra. Barthélémy, in

tutte le occasioni, innalzava una sola bandiera: quella nera.

2. CHE FARE NELL'ABISSO SE NON CHIACCHIERARE?

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Sedici anni valgono qualcosa nella silenziosa educazione

della sommossa, e il giugno 1848 la sapeva più lunga del

giugno 1832.

Per questo a paragone delle due barricate colossali che

abbiamo or ora descritte, quella della via Chanvrerie non

era che un abbozzo, un embrione; però, per quell'epoca,

era formidabile.

Gli insorti, sotto l'occhio di Enjolras, poiché Mario non

guardava più nulla, avevano approfittato della notte. La

barricata era stata non solo riparata, ma accresciuta,

rialzata di due piedi.

Alcune spranghe di ferro infisse tra le pietre somigliavano a

lance in resta; ogni sorta di rottami portati da tutte le parti

aumentavano il groviglio esteriore. La ridotta era stata

magistralmente rifatta come un muro di dentro e come un

roveto di fuori.

Avevano riattato la scala di selci che permetteva di

montarvi su come ad un muro di cittadella.

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Avevano riordinato anche l'interno della barricata,

sgombrato la sala al pianterreno, trasportato l'ambulatorio

in cucina, compiuto la bendatura ai feriti, raccolto la

polvere sparsa per terra e sulle tavole, avevano fuso altre

palle, fabbricato altre cartucce, ripulito tutto, spazzato i

rottami, rimosso i cadaveri.

Questi ultimi vennero ammucchiati nel vicolo Mondétour,

che era libero, e il cui selciato restò per molto tempo

insanguinato. Fra i morti c'erano quattro guardie nazionali.

Enjolras fece porre in disparte le loro divise.

Enjolras aveva consigliato due ore di sonno, e un suo

consiglio era un ordine; tuttavia solo tre o quattro ne

approfittarono.

Feuilly impiegò quelle due ore a incidere sul muro

dirimpetto alla bettola questa iscrizione:

"VIVA I POPOLI!" Queste tre parole, incise nella pietra con

un chiodo, si leggevano ancora nel 1848.

Le tre donne avevano profittato della tregua notturna per

scomparire definitivamente; il che permise agli insorti di

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respirare con maggior libertà. Erano riuscite a rifugiarsi in

una casa vicina.

La maggior parte dei feriti potevano e volevano ancora

combattere.

Nella cucina trasformata in ambulatorio, sopra materassi e

mucchi di paglia, c'erano cinque uomini feriti gravemente,

tra cui due guardie municipali, che vennero medicate per

prime.

Nella sala al pianterreno rimasero solo Mabeuf sotto il suo

drappo nero e Javert legato al palo.

- Questa è la sala mortuaria, - disse Enjolras.

In fondo a questa sala rischiarata appena da una candela,

c'era la tavola col morto che, stando dietro al palo come

una sbarra orizzontale, formava una grande croce che

andava da Javert in piedi a Mabeuf disteso.

Il timone dell'omnibus, benché spezzato dalla fucileria,

sporgeva ancora abbastanza per potervi attaccare una

bandiera.

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Enjolras, che possedeva la qualità del capo di far sempre

quello che diceva, appese a quell'asta l'abito bucherellato e

insanguinato del vegliardo ucciso.

Non era possibile nessun pasto. Non c'era né pane né

carne. Da sedici ore che erano là, i cinquanta uomini della

barricata avevano esaurito le scarse provvigioni della

bettola. A un dato momento, ogni barricata che resiste

diventa inevitabilmente la zattera della Medusa. Bisognò

rassegnarsi alla fame. Si era alle prime ore di quella

giornata spartana del 6 giugno, quando nella barricata

Saint-Merry, Jeanne circondata da insorti che chiedevano

pane, rispondeva, a tutti i combattenti: - A che serve?

Sono le tre; alle quattro saremo morti.

Non essendo più possibile mangiare, Enjolras proibì di

bere:

interdì il vino e razionò l'acquavite.

In cantina avevano trovato una quindicina di bottiglie

piene, suggellate ermeticamente. Enjolras e Combeferre le

esaminarono e quest'ultimo risalendo disse: - Sono vecchi

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rimasugli di papà Hucheloup, che faceva il droghiere. -

Deve essere vino schietto, - osservò Bossuet. - Fortuna che

Grantaire dorme: se fosse sveglio dureremmo fatica a

salvare queste bottiglie. - Malgrado i mormorii, Enjolras

mise il suo veto sulle quindici bottiglie, e perché nessuno le

toccasse e venissero considerate come una cosa sacra, le

fece collocare sotto la tavola su cui giaceva Mabeuf.

Verso le due del mattino si contarono: erano ancora in

trentasette.

Cominciava a spuntare l'alba. Avevano spento la torcia già

ricollocata nel suo alveo di pietre. L'interno della barricata,

quella specie di cortiletto sulla via, era immerso nelle

tenebre e somigliava, attraverso il vago orrore

crepuscolare, al ponte di una nave disalberata. I

combattenti che vi si muovevano sembravano fantasmi

neri. Al di sopra di quel terribile nido di ombre si

abbozzavano lividamente i piani delle case mute; in alto,

pallidi, i fumaioli. Il cielo aveva quella graziosa sfumatura

indecisa, che è forse il bianco ed è forse l'azzurro; gli

uccelli vi volavano con grida festose; l'alta casa che

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formava il fondo della barricata, essendo volta a levante,

aveva sul tetto un lieve riflesso roseo. Il vento mattinale

agitava al finestrino del terzo piano i capelli grigi sulla testa

dell'ucciso.

- Sono contento che abbiano spento la torcia - disse

Courfeyrac a Feuilly; - quella fiamma che tremolava al

vento mi dava noia; pareva che avesse paura. La luce delle

torce somiglia alla saggezza dei vili; rischiara male perché

trema.

L'alba risveglia le menti come gli uccelli; tutti discorrevano.

Joly, vedendo un gatto passeggiare sopra una gronda, ne

cavò uno sfogo filosofico:

- Cos'è il gatto? - diss'egli. - Un correttivo. Il buon Dio,

avendo creato il sorcio disse tra sé: - Ecco che ho

commesso una sciocchezza. - E creò il gatto, che è l'errata-

corrige del sorcio.

Il sorcio, più il gatto, è la prova riveduta e corretta della

creazione.

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Combeferre, circondato da studenti e da operai, parlava dei

morti, di Prouvaire, di Bahorel, di Mabeuf e anche di Le

Cabuc, e della severa tristezza di Enjolras:

- Armodio e Aristogitone, Bruto, Cherea, Stephanus,

Cromwell, Carlotta Corday, Sand, tutti dopo il colpo ebbero

il loro momento d'angoscia. Il nostro cuore è così fremente

e la vita umana è un tal mistero, che anche dopo un

omicidio civico, anche dopo un omicidio liberatore, se

esiste, il rimorso di aver ucciso un uomo supera la gioia

d'aver servito il genere umano.

E un minuto dopo - sono così i meandri dello scambio di

parole - per una transizione venuta dai versi di Prouvaire,

Combeferre comparava tra loro i traduttori delle Georgiche,

Raux con Cournand, Cournand con Delille, e specialmente i

prodigi della morte di Cesare; e per questa parola, Cesare,

il discorso tornò a Bruto.

- Cesare - diceva Combeferre - cadde giustamente.

Cicerone fu severo con Cesare, ed ebbe ragione; la sua

severità non è la diatriba. Quando Zoilo insulta Omero,

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quando Mevio insulta Virgilio, quando Visé insulta Molière,

quando Pope insulta Shakespeare, quando Fréron insulta

Voltaire, si compie una vecchia legge d'invidia e di odio, i

geni attirano l'ingiuria, i grandi uomini eccitano sempre i

latrati. Ma tra Zoilo e Cicerone bisogna distinguere.

Cicerone è un giustiziere col pensiero, come Bruto con la

spada. Dal canto mio, biasimo la giustizia della spada; ma

l'antichità l'ammetteva. Cesare, violatore del Rubicone,

conferendo, come provenienti da lui, le dignità che

provenivano dal popolo, non alzandosi quando entrava il

Senato, faceva, come dice Eutropio, cose da re e quasi da

tiranno, "regia ac poene tyrannica". Era un grand'uomo;

tanto peggio, o tanto meglio: la lezione è più alta. Le sue

ventitré ferite mi commuovono meno dello sputo in fronte

a Gesù Cristo. Cesare è pugnalato dai senatori, Cristo è

schiaffeggiato dai servi. Dal maggiore oltraggio si sente il

Dio.

Bossuet, dominando dall'alto di un mucchio di selci quelli

che discorrevano, esclamava:

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- O Cidateneo, o Mirrino, o Probalinto, a grazie dell'Eantide!

Oh!

chi m'insegnerà a pronunciare i versi d'Omero come un

greco di Laurio o di Edapteon!

3. RAGGI E OMBRE

Enjolras era andato a fare una ricognizione, uscendo per il

vicolo Mondétour e strisciando rasente le case.

Dobbiamo dire che gli insorti erano pieni di speranza. Il

modo con cui avevano respinto l'assalto notturno, faceva

loro quasi disprezzare anticipatamente l'assalto dell'alba: lo

aspettavano e ne sorridevano, sicuri del successo come

della giustizia della loro causa. D'altronde stava per arrivar

loro evidentemente un aiuto: ci contavano. Con quella

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facilità di profezia trionfante che è uno degli elementi di

forza del combattente francese, essi dividevano in tre fasi

certe la giornata che stava per cominciare:

alle sei del mattino la rivolta d'un reggimento "che era

stato lavorato"; a mezzogiorno, l'insurrezione di tutta

Parigi; al tramonto, la rivoluzione.

Si udiva la campana a stormo di Saint-Merry, che dal

giorno prima non aveva mai sostato un minuto; prova che

l'altra barricata, la grande, quella di Jeanne, resisteva

ancora.

Tutte queste speranze si comunicavano da un gruppo

all'altro con una specie di bisbiglio allegro e formidabile,

che somigliava al ronzio bellicoso d'un alveare di api.

Ricomparve Enjolras di ritorno dalla sua fosca passeggiata

d'aquila nell'oscurità esterna; ascoltò un momento tutta

quella gioia con le braccia incrociate e una mano sulla

bocca; poi, fresco e roseo nel biancore crescente del

mattino, disse:

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- Tutta la guarnigione di Parigi vi è contro, e un terzo di

essa preme sulla vostra barricata; di più, la guardia

nazionale. Ho riconosciuto gli sciaccò del quinto di linea e i

gagliardetti della sesta legione. Sarete assaliti tra un'ora.

Quanto al popolo, ieri ha tumultuato, ma questa mattina

non si muove. Nulla da attendere, nulla da sperare, né un

sobborgo né un reggimento.

Siete abbandonati.

Queste parole caddero sul ronzio dei gruppi, con l'effetto

che fa su uno sciame la prima goccia del temporale. Tutti

rimasero muti.

Ci fu un momento d'inesprimibile silenzio nel quale si

sarebbe potuto sentir volare la morte. Fu un breve

momento.

Una voce dal fondo più oscuro dei gruppi, gridò ad

Enjolras:

- E sia. Solleviamo la barricata a venti piedi d'altezza e

restiamoci tutti. Cittadini! facciamo la protesta dei

cadaveri.

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Dimostriamo che, se il popolo abbandona i repubblicani, i

repubblicani non abbandonano il popolo.

Simili parole che liberavano dalla penosa nube delle ansietà

individuali il pensiero di tutti, furono accolte con una

acclamazione entusiastica.

Non si è mai saputo il nome dell'uomo che parlò in tal

modo. Era qualche operaio ignoto, uno sconosciuto, un

dimenticato, un passante eroe, il grande anonimo che si

trova sempre a lato alle crisi umane e alle genesi sociali,

che al momento opportuno dice in modo solenne la parola

decisiva e svanisce nelle tenebre, dopo aver per un minuto

rappresentato il popolo e Dio nella luce di un lampo.

Quella risoluzione inesorabile era talmente nell'aria del 6

giugno 1832, che quasi alla stessa ora gli insorti della

barricata Saint- Merry cacciavano quel clamore rimasto

storico e raccolto nel processo: - Facciamoci uccidere qui

fino all'ultimo.

Come si vede, le due barricate, benché isolate,

comunicavano tra di loro.

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4. CINQUE Dl MENO, UNO DI PIU'

Quando l'uomo qualunque che decretava "la protesta dei

cadaveri" ebbe parlato ed espresso la formula dell'anima

comune, da tutte le bocche uscì un grido di strana e

terribile soddisfazione, funebre per il significato, trionfale

per l'accento:

- Viva la morte! Restiamo qui tutti.

- Perché tutti? - chiese Enjolras.

- Tutti! tutti!

Enjolras riprese:

- La posizione è buona, la barricata è bella: trenta uomini

bastano. Perché sacrificarne quaranta?

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Essi risposero:

- Perché nessuno vorrà andarsene.

- Cittadini - gridò Enjolras, e nella sua voce c'era una

vibrazione quasi irritata - la Repubblica non è abbastanza

ricca di uomini per fare inutili spese. La gloria è uno sciupo.

Se per alcuni il dovere consiste nell'andarsene, questo

dovere dev'essere compiuto come un altro.

Enjolras, l'uomo-principio, aveva sui suoi corregionari

quella specie di onnipotenza che si sviluppa dall'assoluto;

tuttavia, per quanto grande fosse quell'onnipotenza, ci

furono dei mormorii.

Capo fino alla punta delle unghie, Enjolras, vedendo che si

mormorava, insisté, riprendendo alteramente:

- Quelli che hanno paura di trovarsi in trenta soltanto, lo

dicano.

I mormorii raddoppiarono.

- Del resto - osservò una voce in un gruppo - andarsene è

facile a dire. La barricata è circondata.

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- Non dalla parte dei Mercati - disse Enjolras. - La via

Mondétour è libera, e per la via dei Predicatori si può

raggiungere il mercato degli Innocenti.

- E là - riprese un'altra voce del gruppo - si è presi: si

casca in qualche pattuglione di fanteria o di guardia

nazionale. Vedono passare un uomo in camiciotto e in

berretto: - Da dove vieni tu?

Saresti mai della barricata? - Gli guardano le mani: Tu

odori di polvere. Fucilato.

Enjolras senza rispondere toccò Combeferre alla spalla e

tutti e due entrarono nella sala al pianterreno.

Uscirono dopo un momento, Enjolras portando sulle braccia

distese le quattro divise che aveva fatto mettere in

disparte, Combeferre dietro con le buffetterie e gli sciaccò.

- Con questa divisa - disse Enjolras - ci si può mescolare

nelle file e sfuggire. Ecco provveduto ad ogni modo per

quattro.

E gettò le uniformi sul suolo disselciato.

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Lo stoico uditorio non si scosse. Allora Combeferre prese la

parola:

- Su via, bisogna avere un po' di pietà. Sapete di che si

tratta qui? Si tratta delle donne. Vediamo, ci sono sì o no le

mogli? ci sono sì o no i figlioli? ci sono sì o no delle madri

che ninnano col piede le culle e che hanno un mucchio di

bambini intorno? Chi di voi non ha mai visto il seno di una

nutrice alzi la mano. Ah!

voi volete farvi ammazzare. Anch'io che vi parlo lo voglio,

ma non voglio sentirmi intorno dei fantasmi di donne che si

torcono le braccia. Morite, sia pure, ma non fate morire. I

suicidi come quelli che si compiono qui sono sublimi; ma il

suicidio è ristretto, non ammette estensione, e appena

tocca i parenti, il suicidio si chiama assassinio. Pensate alle

testoline bionde e ai capelli bianchi. Ascoltate. Poc'anzi

Enjolras, me l'ha detto lui, ha visto sull'angolo di via del

Cigno una povera finestra al quinto piano rischiarata da

una candela, e sul vetro l'ombra vacillante d'una testa di

vecchietta, che pareva avesse passato la notte ad

aspettare. Forse è la madre di uno di voi. Ebbene se ne

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vada colui, si affretti di andare a dire a sua madre: -

Eccomi, mamma! - E sia tranquillo, quello che s'ha da fare

qui si farà lo stesso. Quando col lavoro si sostengono i

propri cari; non si ha più il diritto di sacrificarsi; sarebbe un

disertare la famiglia.

E quelli che hanno le figliole! e quelli che hanno le sorelle!

Ci pensate? Voi vi fate uccidere, eccovi morti, sta bene; e

domani?

Delle ragazze che non hanno pane, è una cosa terribile.

L'uomo mendica, la donna si vende. Oh! quelle vezzose

creature così graziose e così tenere, con le cuffiette

infiorate, che cantano, cinguettano, riempiono la casa di

castità, che sono un profumo vivente, che dimostrano

l'esistenza degli angeli nel cielo con la purezza delle vergini

sulla terra, quella Giannina, quella Lisetta, quella Mimì,

quelle adorabili e oneste creature che formano la vostra

benedizione e il vostro orgoglio, mio Dio, avranno fame!

Che volete che vi dica? C'è un mercato di carne umana; e

non certo con le vostre mani di ombre, frementi intorno a

esse, impedirete loro di entrarci! Pensate alla via, pensate

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al lastrico coperto di passanti, pensate alle botteghe

dinanzi alle quali le donne scollacciate vanno su e giù nel

fango. Quelle donne furono pure anch'esse. Pensi alle sue

sorelle, chi ne ha. La miseria, la prostituzione, le guardie di

polizia, San Lazzaro, ecco dove vanno a cadere quelle belle

fanciulle così delicate, quelle fragili meraviglie di pudore, di

gentilezza e di bellezza, più fresche dei lilla nel mese di

maggio. Ah! voi vi siete fatti uccidere! ah! non siete più là!

Sta bene: avete voluto sottrarre il popolo alla monarchia e

abbandonate le vostre figlie alla polizia! Amici, badate,

abbiate compassione! Non avete l'abitudine di pensare

troppo alle donne, alle sventurate donne. Vi fidate perché

non hanno ricevuto l'educazione dell'uomo, perché si

impedisce loro di leggere, di pensare, di occuparsi di

politica; ma impedirete loro di recarsi questa sera alla

morgue a riconoscere i vostri cadaveri? Vediamo, è

necessario che quelli che hanno famiglia siano buoni figlioli,

e ci diano una stretta di mano, e se ne vadano, ci lascino

qui soli a fare quello che c'è da fare. Lo so che ci vuole

coraggio per andarsene, che è una cosa difficile, ma è

tanto più meritoria. Voi dite: - Ho un fucile, sono alla

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barricata; tanto peggio, ci resto. Si fa presto a dire tanto

peggio. Amici miei c'è un domani; voi non ci sarete a quel

domani, ma le vostre famiglie ci saranno. E quanti

patimenti! Ecco qua un piccino grazioso e sano, che ha le

guance, come due mele, che ciancia, cinguetta, garrisce e

ride, che sentiamo fresco sotto il braccio: sapete che cosa

diventa quando è abbandonato? Ne ho visto uno proprio

piccino, alto così. Suo padre era morto. Una povera

famiglia lo raccolse per carità, ma non aveva pane per sé,

e il piccino aveva sempre fame. Era d'inverno. Il bimbo non

piangeva. S'avvicinava alla stufa, in cui non c'era mai

fuoco, il cui tubo era saldato con la creta; staccava con i

suoi ditini un po' di quella creta e la mangiava. Aveva il

respiro rauco, il volto livido, le gambe flosce, il ventre

grosso; non diceva mai nulla; se gli parlavano, non

rispondeva. Morì. Lo portarono a morire all'ospizio Necker,

ove io ero interno, e dove lo vidi.

Ora, se ci sono dei padri tra voi, dei padri per cui è una

felicità passeggiare la domenica tenendo nella loro buona

mano robusta la manina del loro figliolo, ciascuno di quei

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padri si raffiguri in quel piccino il suo. Quel povero piccino,

me lo ricordo, mi sembra di vederlo, nudo sulla tavola

anatomica, con le costole che formavano dei rialzi nella

pelle, come le fosse nell'erba di un cimitero. Trovarono nel

suo stomaco una specie di fanghiglia e della cenere tra i

denti. Su via, mettiamoci una mano sulla coscienza e

prendiamo consiglio dal nostro cuore. Le statistiche

constatano che la mortalità dei fanciulli abbandonati è del

cinquanta per cento. Si tratta delle mogli, ripeto, delle

madri, delle giovinette, dei bimbi. Vi si parla di voi, forse?

Sappiamo bene chi siete, sappiamo bene che siete tutti

coraggiosi, per Dio!; sappiamo bene che avete tutti

nell'anima la gioia e la gloria di dare la vita per la grande

causa; sappiamo bene che vi sentite chiamati a morire

utilmente e magnificamente, che ciascuno di voi ci tiene

alla sua parte di trionfo. Benissimo. Ma voi non siete soli a

questo mondo. Ci sono altre creature a cui dovete pensare;

non dovete essere egoisti.

Tutti chinarono la testa con aria cupa.

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Strane contraddizioni del cuore umano nelle sue ore più

sublimi!

Combeferre, che parlava così, non era orfano; si ricordava

delle madri degli altri e dimenticava la propria. Andava a

farsi uccidere, era "egoista".

Mario, digiuno, febbricitante, successivamente

abbandonato da tutte le speranze, naufragato nel dolore, e

più cupo dei naufragi, saturo di emozioni violente,

sentendo venir la fine, s'era sempre più sprofondato in

quello stupore visionario che precede sempre l'ora fatale

volontariamente accettata.

Un fisiologo avrebbe potuto studiare in lui i sintomi

crescenti di quell'assopimento febbrile conosciuto e

classificato dalla scienza, che sta al dolore come la voluttà

al piacere. Anche la disperazione ha le sue estasi. Mario

era a quel punto. Assisteva a tutto come dal di fuori: come

abbiamo già detto, le cose che accadevano sotto i suoi

occhi gli sembravano lontane; scorgeva l'insieme, ma i

particolari gli sfuggivano; vedeva gli altri andare e venire

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attraverso un fiammeggiamento; udiva le voci come dal

fondo d'un abisso.

Tuttavia quella scena lo commosse; c'era in essa una punta

che penetrò sino a lui e lo risvegliò. Non aveva che un'idea,

morire, e non voleva distrarsene; ma nel suo funebre

sonnambulismo pensò che, pur perdendosi, non gli era

vietato di salvare qualcuno.

Prese la parola:

- Enjolras e Combeferre hanno ragione; niente sacrifici

inutili; mi unisco a essi, e bisogna far presto. Combeferre

vi ha detto delle cose decisive: tra voi ci sono di quelli che

hanno famiglia, che hanno madre, sorelle, moglie, figli;

questi, escano dalle file.

Nessuno si mosse.

- Gli ammogliati e i sostegni di famiglia fuori dalle file!

ripeté Mario.

Godeva grande autorità: se Enjolras era il capo della

barricata egli ne era il salvatore.

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- Ve l'ordino - gridò Enjolras.

- Ve ne prego - disse Mario.

Allora, agitati dalla parola di Combeferre, scossi dall'ordine

di Enjolras, commossi dalla preghiera di Mario, quegli

uomini eroici cominciarono a denunciarsi l'un l'altro. - E'

vero, disse un giovanotto a un uomo maturo, tu sei padre

di famiglia, vattene. - Tu piuttosto, rispose l'uomo, che

mantieni due sorelle. - E scoppiò una lotta inaudita;

nessuno voleva farsi mettere alla porta dalla morte.

- Affrettiamoci! - disse Courfeyrac - tra un quarto d'ora non

saremo più in tempo.

- Cittadini - riprese Enjolras - qui siamo in repubblica e

regna il suffragio universale. Designate voi stessi quelli che

devono allontanarsi.

Obbedirono, e dopo pochi minuti cinque erano

unanimemente destinati e uscivano dalle file.

- Sono cinque! - esclamò Mario.

Le divise erano soltanto quattro.

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- Ebbene - risposero i cinque - è necessario che uno resti.

E fu allora che la generosa contesa ricominciò.

- Tu hai una moglie che ti ama. - Tu hai la tua vecchia

mamma. Tu non hai più né padre né madre, che sarà dei

tuoi tre fratellini? - Tu sei padre di cinque bambini. - Tu hai

diritto di vivere; hai diciassette anni, è troppo presto.

Quelle grandi barricate rivoluzionarie erano appuntamenti

di eroismi; l'inverosimile vi diventava naturale, e quegli

uomini non si meravigliavano gli uni degli altri.

- Fate presto - ripeté Courfeyrac.

Dai gruppi si gridò a Mario:

- Designate voi quello che deve rimanere.

- Sì - dissero i cinque - scegliete: noi vi obbediremo.

Mario non credeva gli fosse più possibile un'emozione;

pure, all'idea di dover scegliere un uomo per la morte,

tutto il sangue gli rifluì al cuore. Avrebbe impallidito, se

avesse potuto impallidire ancora.

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Si avanzò verso i cinque che gli sorridevano; ciascuno, con

nell'occhio quella gran fiamma che si vede in fondo alla

storia sulle Termopili, gli gridava:

- Io! io! io!

Mario, stupidamente, li contò; erano sempre cinque; poi

chinò gli occhi sulle quattro divise.

In quell'istante una quinta divisa cadde, come dal cielo,

sulle altre quattro.

Il quinto uomo era salvo.

Mario alzò gli occhi e riconobbe il signor Fauchelevent.

Valjean era entrato allora nella barricata.

Fosse per informazioni prese, fosse istinto, fosse caso, egli

giungeva per il vicolo Mondétour: grazie alla sua divisa di

guardia nazionale, era passato facilmente.

La vedetta posta dagli insorti nel vicolo Mondétour non

credette di dover dare l'allarme per una sola guardia

nazionale; l'aveva lasciato entrare nella via pensando: -

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Probabilmente è un rinforzo, o alla peggio un prigioniero. -

Il momento era troppo grave, perché la sentinella potesse

distrarsi dal suo dovere e dal suo posto d'osservazione.

Nel momento in cui Valjean era entrato nella ridotta

nessuno l'aveva notato, poiché tutti gli sguardi erano fissi

sui cinque prescelti e sulle quattro divise. Egli invece aveva

visto e compreso, e spogliatosi silenziosamente dell'abito,

l'aveva gettato sugli altri.

L'emozione fu indescrivibile.

- Chi è quell'uomo? - chiese Bossuet.

- E' un uomo che salva gli altri - rispose Combeferre.

Mario aggiunse con voce grave:

- Io lo conosco.

Quella garanzia bastava a tutti.

Enjolras si volse a Valjean:

- Cittadino, siate il benvenuto.

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E aggiunse:

- Saprete che stiamo per morire.

Valjean, senza rispondere, aiutò l'insorto, a cui salvava la

vita, a indossare la sua divisa.

5. QUALE ORIZZONTE SI VEDA DALL'ALTO DELLA

BARRICATA.

In quell'ora fatale e in quel luogo inesorabile, la situazione

di tutti aveva come risultante e come culmine la malinconia

suprema di Enjolras.

Egli aveva in sé la pienezza della rivoluzione; pure era

incompleto, per quanto può esserlo l'assoluto; somigliava

troppo a Saint-Just e non abbastanza ad Anacarsi Clotzx.

Tuttavia nella società degli amici dell'A B C la sua mente

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aveva finito col subire una certa influenza delle idee di

Combeferre; da qualche tempo, usciva a poco a poco dalla

stretta forma del dogma, si lasciava andare alle espansioni

del progresso, ed era giunto ad accettare, come evoluzione

definitiva e magnifica,la trasformazione della grande

repubblica francese in un'immensa repubblica umana.

Quanto ai mezzi immediati, data una situazione violenta,

egli li voleva violenti; in questo non mutava; era rimasto di

quella scuola epica e formidabile che si riassume nella

parola: Novantatré.

Stava ritto sulla gradinata di ciottoli, con un gomito sulla

bocca della carabina, pensoso; e trasaliva, come se su di

lui passassero dei soffi: i luoghi in cui c'è la morte danno di

queste impressioni di tripodi. Dalle sue pupille, piene dello

sguardo interno, uscivano come delle fiamme soffocate. A

un tratto, alzò la testa, e i suoi capelli biondi rovesciati

all'indietro come quelli dell'angelo sulla fosca quadriga fatta

di stelle, furono come una criniera di leone rizzata in un

fiammeggiamento d'aureola. Disse:

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- Cittadini, v'immaginate voi l'avvenire? Le vie delle città

inondate di luce, dei rami verdi sulle soglie, le nazioni

sorelle, gli uomini giusti, i vecchi che benedicono i fanciulli,

il passato che ama il presente, i pensatori in piena libertà, i

credenti in piena uguaglianza, per religione il cielo, Dio

prete diretto, la coscienza umana divenuta altare, non più

odi, la fraternità dell'opificio e della scuola, per pena e

ricompensa la notorietà, a tutti il lavoro, per tutti il diritto,

su tutti la pace, non più sangue versato, non più guerre, e

le madri felici! Domare la materia, è il primo passo;

realizzare l'ideale, il secondo.

Riflettete a quel che ha già fatto il progresso. Anticamente,

le prime schiatte umane vedevano con terrore passare

dinanzi ai loro occhi l'idra che soffiava sulle acque, il drago

che eruttava fuoco, il grifone che era il mostro dell'aria e

volava con ali di aquila e artigli di tigre; bestie spaventose

che stavano al di sopra dell'uomo. Noi abbiamo domato

l'idra, ed essa si chiama battello a vapore; abbiamo

domato il drago e si chiama locomotiva; siamo sul punto di

domare il grifone, è già in nostro potere, e si chiama

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l'areostato. Il giorno in cui quest'opera prometeica sarà

compiuta, e l'uomo avrà definitivamente aggiogato alla sua

volontà la triplice Chimera antica, l'idra, il drago e il

grifone, egli sarà padrone dell'acqua, del fuoco e dell'aria,

e sarà per il resto della creazione animata quello che gli

antichi dèi erano una volta per lui. Coraggio e avanti! Dove

andiamo noi, cittadini?

Andiamo verso la scienza fatta governo, verso la forza

delle cose divenuta la sola forza pubblica, verso la legge

naturale che ha in se stessa la sua sanzione e la sua

penalità e che si prolunga con l'evidenza, verso un sorgere

di verità che somiglia al sorgere del giorno. Noi andiamo

verso l'unione dei popoli, verso l'unità dell'uomo. Non più

finzioni, non più parassiti. La realtà governata dalla verità,

ecco lo scopo. La civiltà terrà le sue assise al culmine

dell'Europa, e più tardi nel centro dei continenti, in un gran

parlamento d'intelligenza. Già qualcosa di simile si è visto.

Gli anfizioni tenevano due sedute all'anno, una a Delfo,

luogo degli dèi, l'altra alle Termopili, luogo degli eroi.

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L'Europa avrà i suoi anfizioni, li avrà l'intero globo; la

Francia porta nei suoi fianchi questo avvenire sublime: sarà

questa la gestazione del secolo diciannovesimo. Ciò che fu

abbozzato dalla Grecia è degno d'essere compiuto dalla

Francia.

Ascoltami tu, Feuilly, valente operaio, uomo del popolo,

uomo dei popoli, io ti venero. Sì, tu vedi chiaramente il

futuro; sì, tu hai ragione. Tu non avevi né padre né madre,

Feuilly, e hai adottato per madre l'umanità, per padre il

diritto. Tu stai per morire qui, vale a dire per trionfare.

Cittadini, checché avvenga oggi, tanto con la sconfitta,

quanto con la vittoria, noi stiamo per compiere una

rivoluzione. Come gli incendi illuminano un'intera città, le

rivoluzioni illuminano tutto il genere umano.

E quale rivoluzione faremo? L'ho detto, la rivoluzione del

Vero.

Dal punto di vista politico c'è un solo principio, la sovranità

dell'io si chiama Libertà. Quando due o parecchie di queste

sovranità si associano, comincia lo Stato. Ma in questa

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associazione non c'è nessuna abdicazione; ciascuna

sovranità concede una certa quantità di se stessa per

formare il diritto comune; questa quantità è la stessa per

tutti; e questa identità di cessione fatta da ciascuno a tutti

si chiama Eguaglianza. Il diritto comune non è altro che la

protezione di tutti che s'irradia sul diritto di ciascuno; e

questa protezione di tutti su ciascuno si chiama Fraternità.

Il punto d'intersezione di tutte queste sovranità che si

aggregano si chiama Società. Questa intersezione essendo

un'unione, quel punto è un nodo, donde ciò che si chiama

vincolo sociale. Alcuni dicono contratto sociale; ma è la

stessa cosa, essendo la parola contratto etimologicamente

formata con l'idea di legame. Intendiamoci

sull'eguaglianza, poiché se la libertà è la cima,

l'eguaglianza è la base.

L'eguaglianza, o cittadini, non è tutta la vegetazione allo

stesso livello, una società di giganteschi fili d'erba e di

querce nane, un vicinato di gelosie che si castrano tra loro;

ma significa, civilmente che tutte le attitudini abbiano lo

stesso sfogo, politicamente che tutti i voti abbiano lo

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stesso peso, religiosamente che tutte le coscienze abbiano

lo stesso diritto.

L'eguaglianza ha un organo; l'istruzione gratuita e

obbligatoria.

Il diritto all'alfabeto: ecco da dove bisogna cominciare. La

scuola primaria imposta a tutti, la secondaria offerta a

tutti, ecco la legge. Dalla scuola identica esce la società

eguale. Sì, insegnamento! Luce! Luce! tutto viene dalla

luce e tutto vi ritorna.

Cittadini, il secolo diciannovesimo è grande, ma il secolo

ventesimo sarà felice. Allora più niente di simile alla

vecchia storia; non si dovrà più temere, come oggi, una

conquista, un'invasione, un'usurpazione, una rivalità di

nazioni a mano armata, un'interruzione di civiltà

dipendente dal matrimonio d'un re, una nascita nelle

tirannie ereditarie, una ripartizione di nazionalità decisa da

un congresso, uno smembramento per il crollare d'una

dinastia, una lotta fra due religioni che cozzano come due

capri delle tenebre sul ponte dell'infinito; non si dovrà più

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temere la fame, lo sfruttamento, la prostituzione per

miseria, la miseria per disoccupazione, e il patibolo, e la

spada, e le battaglie e tutti i brigantaggi del caso nella

foresta degli avvenimenti. Si potrebbe quasi dire: non ci

saranno più avvenimenti. Il genere umano sarà felice:

compirà la sua legge come il globo terrestre compie la sua;

si ristabilirà l'armonia tra l'anima e l'astro; quella graviterà

intorno alla verità come questa intorno alla luce. Amici,

l'ora in cui siamo e in cui vi parlo, è fosca; ma sono questi

gli acquisti terribili dell'avvenire. Una rivoluzione è un

pedaggio. Oh! il genere umano sarà liberato, rialzato, e

confortato! Noi glielo promettiamo su questa barricata. E

donde emetteremmo il grido d'amore se non dall'alto del

sacrificio? Fratelli miei, è questo il luogo di congiunzione di

quelli che pensano e di quelli che soffrono; questa barricata

non è fatta né di selci né di travi né di ferramenta; ma di

due mucchi, uno d'idee, l'altro di dolori. La miseria qui

s'incontra con l'ideale, qui il giorno abbraccia la notte e le

dice: - Io muoio con te e tu rinascerai con me.

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Dalla stretta di tutte le desolazioni scaturisce la fede. I

patimenti portano qui la loro agonia, e le idee la loro

immortalità; e questa agonia e questa immortalità stanno

per mescolarsi e comporre la nostra morte. Fratelli, chi

muore qui, muore nelle irradiazioni dell'avvenire; e noi

penetriamo in una tomba tutta penetrata d'aurora.

Enjolras s'interruppe più che non tacesse; le sue labbra

continuarono ad agitarsi silenziosamente, come se parlasse

a se stesso, sicché tutti lo guardarono attenti, cercando di

udirlo ancora. Non ci furono applausi ma un lungo

mormorio. La parola è un soffio e i fremiti delle intelligenze

somigliano ai fremiti delle foglie.

6. MARIO FOSCO. JAVERT LACONICO

Vediamo che cosa avveniva nella mente di Mario.

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Ricordiamo il suo stato d'animo. Come abbiamo già detto,

tutto quanto accadeva non era per lui che visione. Il suo

apprezzamento era torbido: Mario, ripetiamo, era sotto le

grandi ali tenebrose aperte sugli agonizzanti; si sentiva

nella tomba, si sentiva già dall'altra parte del muro, e non

vedeva più le facce dei vivi se non con gli occhi di un

morto.

Come mai il signor Fauchelevent era là? E perché vi era?

Che ci veniva a fare? Mario non si rivolse tutte queste

domande.

D'altronde, essendo proprio della nostra disperazione

avvolgere gli altri come noi stessi, gli pareva logico che

tutti venissero là a morire.

Solo, pensò a Cosetta con uno stringimento di cuore.

Fauchelevent non gli parlò, non lo guardò, e non parve

neppure che lo udisse quando Mario alzò la voce per dire: -

Io lo conosco.

Quanto a Mario, quel contegno del signor Fauchelevent lo

sollevava, e se si potesse usare una tal parola per simili

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espressioni, diremmo che gli piaceva. Egli si era sempre

sentito nell'assoluta impossibilità di rivolgere la parola a

quell'uomo enigmatico, che era per lui al tempo stesso

equivoco e imponente.

Inoltre da molto tempo non lo aveva visto, ciò che, per il

carattere timido e riservato di Mario, accresceva ancora

quella impossibilità.

I cinque uomini designati, che ora somigliavano

perfettamente a guardie nazionali, uscirono dalla barricata

per il vicolo Mondétour. Uno di essi se ne andò piangendo.

Prima di allontanarsi baciarono quelli che restavano.

Quando i cinque uomini rimandati alla vita furono partiti,

Enjolras pensò al condannato a morte:

entrò nella sala terrena; Javert, legato al palo, meditava.

- Hai bisogno di qualche cosa? - gli chiese Enjolras.

Javert rispose:

- Quando mi ucciderete?

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- Aspetta. Abbiamo bisogno di tutte le nostre cartucce in

questo momento.

- Allora datemi da bere.

Enjolras gli porse egli stesso un bicchier d'acqua e, siccome

Javert era legato, lo aiutò a bere.

- Non vuoi altro? - riprese il giovane.

- Sto male a questo palo - rispose Javert. - Non siete stati

troppo teneri lasciandomi qui tutta la notte. Legatemi come

volete, ma potete benissimo distendermi sopra una tavola,

come l'altro.

E con un moto del capo accennò il cadavere di Mabeuf.

Il lettore si ricorderà che in fondo alla sala c'era una tavola

larga e lunga sulla quale avevano fuso le palle e fabbricato

le cartucce. Ora che tutte le cartucce erano fatte e tutta la

polvere adoperata, quella tavola era libera.

Per ordine d'Enjolras, quattro insorti sciolsero Javert dal

palo, mentre un quinto gli teneva una baionetta appuntata

sul petto. Gli lasciarono le mani legate dietro il dorso, gli

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misero ai piedi una corda di frusta, sottile e forte, che gli

permetteva di muovere dei passi di quindici pollici, come ai

condannati che salgono il patibolo, e lo fecero camminare

fino alla tavola in fondo, sulla quale lo stesero,

strettamente legato a mezzo il corpo.

Per maggiore sicurezza con una corda passata intorno al

collo, aggiunsero, al sistema di legature, che gli rendevano

impossibile la fuga, quel legame detto nelle prigioni

martingala, che parte dalla nuca, si biforca sullo stomaco,

e va a raggiungere le mani dopo essere passato tra le

gambe.

Mentre legavano Javert, un uomo, sul limitare della porta,

lo esaminava con attenzione straordinaria. L'ombra da lui

proiettata fece volgere la testa al prigioniero, che alzò gli

occhi e riconobbe Valjean. Non trasalì neppure: abbassò

fieramente le palpebre e si limitò a dire: - E' naturale.

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7. LA SITUAZIONE SI AGGRAVA

Il giorno cresceva rapidamente; ma non una finestra si

apriva, non una porta si socchiudeva; era l'aurora, ma non

il risveglio.

L'estremità della via Chanvrerie opposta alla barricata,

sgombrata dalle truppe, come abbiamo già detto, pareva

libera, e si offriva ai passanti con una tranquillità sinistra.

La via San Luigi era muta come il viale delle sfingi a Tebe;

non un essere vivente nei crocicchi imbiancati da un

riflesso di luce. Non c'è cosa più lugubre di quel chiarore

nelle vie deserte.

Non si vedeva nulla, ma si udiva: un movimento misterioso

avveniva a qualche distanza. Evidentemente il momento

critico si avvicinava. Come la sera precedente, le sentinelle

ripiegarono, ma questa volta tutte.

La barricata era più forte che al momento del primo

assalto: dopo la partenza dei cinque era stata ancora

rialzata.

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Per consiglio della sentinella che aveva vegliato dalla parte

dei Mercati, Enjolras, temendo una sorpresa alle spalle,

prese una risoluzione grave: fece barricare il piccolo

budello del vicolo Mondétour fino allora libero: al quale

scopo disselciarono un altro pezzo di strada. In quel

momento la ridotta, chiusa da tre lati, dinanzi nella via

della Chanvrerie, a sinistra la via del Cigno e della Petite-

Truanderie, a destra verso il vicolo Mondétour, era

veramente quasi inespugnabile; è vero che vi si era anche

fatalmente rinchiusi. Aveva tre fronti, ma non più alcuna

uscita. - Fortezza, ma trappola - disse Courfeyrac ridendo.

Enjolras fece ammucchiare vicino alla porta della bettola

una trentina di selci "strappate in più" diceva Bossuet.

Ora il silenzio dalla parte donde doveva venire l'assalto era

così profondo, che Enjolras fece riprendere a ciascuno il

posto di combattimento.

Fu distribuita a tutti una razione di acquavite.

Nulla di più curioso di una barricata che si prepara a

sostenere un assalto. Ognuno sceglie il suo posto come a

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teatro; chi si appoggia col fianco, chi col gomito, chi con la

spalla; alcuni si formano un sedile coi ciottoli, uno si

allontana da uno spigolo di muro che gli dà fastidio, un

altro si ripara dietro una sporgenza che lo può proteggere.

I mancini sono preziosi: prendono i posti incomodi per gli

altri. Molti si dispongono in modo da poter combattere

seduti: vogliono stare a proprio agio per uccidere e

comodamente per morire. Nella funesta guerra del giugno

1848 un insorto, terribile per la precisione del tiro, che si

batteva dall'alto di una terrazza, vi si era fatto portare una

poltrona alla Voltaire, ma un colpo di mitraglia andò a

cercarvelo.

Non appena il capo ha comandato di stare pronti alla

battaglia, cessano tutti i movimenti disordinati, non più va

e vieni dall'uno all'altro, né crocchi né individui a parte;

tutto quello che è nelle mani converge e si muta in

aspettazione di assalto. Una barricata prima del pericolo è

un caos, nel pericolo è disciplina:

il pericolo produce l'ordine.

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Appena Enjolras ebbe preso la sua carabina a due colpi e si

fu collocato a una specie di merlo che s'era riservato, tutti

tacquero. Lungo la muraglia di selci si udì uno scoppiettio

confuso di piccoli rumori: caricavano i fucili.

Del resto gli atteggiamenti erano più fieri e più fiduciosi che

mai; l'eccesso del sacrificio rinvigorisce: non avevano più

speranza, ma rimaneva loro la disperazione: la

disperazione, ultima arma che dà talvolta la vittoria, come

disse Virgilio. Le risorse supreme escono dalle estreme

risoluzioni. Imbarcarsi nella morte è talora il mezzo per

sfuggire al naufragio, e il coperchio della bara diventa

allora una tavola di salvezza.

Come la sera precedente, l'attenzione di tutti era rivolta, e

quasi diremmo appoggiata, all'estremità della via, ora

illuminata e visibile.

L'attesa non fu lunga. Il movimento ricominciò dalla parte

di San Leo, ma non somigliava a quello del primo assalto.

Uno sbattere di catene, i trabalzi inquietanti di qualche

cosa di pesante, un tinnire di bronzo saltellante sul

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selciato, una specie di fracasso solenne, annunciarono

l'avvicinarsi di una sinistra massa ferrigna. Trasalirono le

viscere di quelle vecchie vie tranquille, aperte e costruite

per la feconda circolazione degli interessi e delle idee, e

non fatte per il rotolare mostruoso delle ruote di guerra. Le

pupille di tutti i combattenti fisse sull'estremità della via

divennero selvagge.

Apparve un cannone.

Gli artiglieri spingevano il pezzo calettato nella parte

posteriore della carretta, mentre l'avantreno era stato

staccato.

Due artiglieri sostenevano l'affusto, quattro stavano alle

ruote, altri seguivano col cassone. Si vedeva fumare la

miccia accesa.

- Fuoco! - gridò Enjolras.

Tutta la barricata fece fuoco, con uno scoppio spaventoso,

e una valanga di fumo nascose cannone e cannonieri. Dopo

qualche secondo, dissipatasi la nube, cannone e cannonieri

ricomparvero; i serventi del pezzo finivano di spingerlo di

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fronte alla barricata lentamente, correttamente, senza

affrettarsi. Nessuno era stato colpito. Poi il capo pezzo,

pesando sulla culatta per elevare il tiro, si mise a puntare il

cannone con la gravità di un astronomo che punta un

cannocchiale.

- Bravi cannonieri! - esclamò Bossuet.

E tutta la barricata batté le mani.

Un momento dopo, gagliardamente portato nel mezzo della

via, a cavalcioni del rigagnolo, il pezzo era in batteria,

aprendo la sua gola formidabile contro la barricata.

- Su via, allegri! - disse Courfeyrac. - Ecco i mezzi brutali.

Dopo il buffetto, il pugno. L'esercito stende verso di noi la

sua zampa grossa. La barricata sta per essere scossa

seriamente: la moschetteria tasta, il cannone prende.

- E' un pezzo da otto, nuovo modello - aggiunse

Combeferre. - Per poco che si oltrepassi la proporzione di

dieci parti di stagno su cento di rame, questi cannoni sono

soggetti a scoppiare: l'eccesso di stagno li rende troppo

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teneri; e allora capita che abbiano delle bolle e delle

caverne nella lumiera. Per ovviare a questo pericolo e poter

forzare la carica converrebbe forse tornare al procedimento

del secolo quattordicesimo, la cerchiatura, rivestire

esteriormente il cannone dalla culatta fino agli orecchioni

con una serie di anelli d'acciaio senza saldatura. Intanto si

rimedia al difetto come si può: si arriva a riconoscere dove

sono i vani e le caverne nella lumiera a mezzo del gatto;

ma c'è un mezzo migliore, la stella mobile di Gribeauval.

- Nel secolo decimosesto, - osservò Bossuet, - i cannoni si

rigavano.

- Sì, - riprese Combeferre, - questo aumenta la forza

balistica, ma diminuisce la precisione del tiro. Inoltre nel

tiro a breve distanza la traiettoria non ha tutta la rigidità

desiderabile, la parabola si esagera, e il cammino che

percorre il proiettile non è più abbastanza rettilineo perché

possa colpire gli oggetti intermedi; eppure quest'ultima è

una necessità del combattimento, che cresce d'importanza

con la prossimità del nemico e la precipitazione del tiro.

Questo difetto di tensione nella curva del proiettile, nei

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cannoni rigati del sedicesimo secolo derivava dalla

debolezza della carica, la quale in quella specie di ordigni è

imposta da alcune necessità balistiche, come per esempio

la conservazione degli affusti. Insomma quel despota che è

il cannone non può tutto quello che vuole; la forza è una

grossa debolezza.

Una palla da cannone non percorre che seicento leghe

all'ora; la luce ne percorre settantamila al secondo. Tale è

la superiorità di Cristo su Napoleone.

- Ricaricate le armi, - disse Enjolras.

In che modo il rivestimento della barricata si sarebbe

comportato al colpo di cannone? Ci sarebbe stata una

breccia? Era questo il problema. Mentre gli insorti

ricaricavano i fucili, gli artiglieri caricavano il pezzo.

L'ansietà era profonda nella ridotta.

Partì il colpo e scoppiò la detonazione.

- Presente! - gridò una voce allegra.

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E mentre la palla di cannone si abbatteva sulla barricata,

Gavroche si slanciava dentro.

Egli giungeva dalla parte di via del Cigno, e aveva

scavalcato agilmente lo sbarramento accessorio di fronte al

dedalo della Petite-Truanderie.

Gavroche fece più effetto nella barricata che non il colpo di

cannone.

La palla si era perduta fra l'ammasso dei rottami: aveva

tutt'al più spezzato una ruota dell'omnibus, e finito di

rompere il vecchio carretto Anceau.

Vedendo ciò là barricata si mise a ridere.

Continuate, - gridò Bossuet agli artiglieri.

8. GLI ARTIGLIERI SI FANNO PRENDERE SUL SERIO

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Circondarono Gavroche.

Ma non ebbe tempo di raccontare nulla. Mario, fremente, lo

trasse in disparte.

- Che vieni a fare, qui?

- Oh bella! - rispose il fanciullo. - E voi?

E guardò fisso Mario con la sua sfrontatezza epica; e i suoi

occhi erano ingranditi dall'intrepida luce che contenevano.

Mario proseguì con accento severo:

- Chi ti ha detto di ritornare? Hai almeno consegnato la

lettera al suo indirizzo?

Gavroche non era senza qualche rimorso riguardo a quella

lettera, di cui, per la fretta di ritornare alla barricata, si era

disfatto, più che non l'avesse consegnata. Era obbligato a

confessare a se stesso di averla affidata un po'

leggermente a quello sconosciuto, di cui non aveva

nemmeno potuto distinguere il volto. E' vero che

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quell'uomo era a testa scoperta, ma questo non bastava.

Insomma egli si faceva su quel punto delle piccole

rimostranze interiori, e temeva i rimproveri di Mario; quindi

per cavarsi d'impaccio, adottò il procedimento più

semplice: mentì con audacia.

- Cittadino, ho consegnato la lettera al portinaio. La

signora dormiva. La riceverà allo svegliarsi.

Inviando quel biglietto, Mario aveva due scopi, dire addio a

Cosetta e salvare Gavroche; ma dovette contentarsi della

metà di quanto desiderava.

Intanto, l'invio della lettera e la presenza del signor

Fauchelevent nella barricata, questo ravvicinamento gli si

presentò alla mente. Mostrò a Gavroche il signor

Fauchelevent.

- Conosci quell'uomo?

- No, - rispose Gavroche.

Come abbiamo già ricordato, aveva visto infatti Valjean

solo di notte.

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Le congetture torbide e traballanti sbozzate dalla mente di

Mario svanirono. Che cosa ne sapeva egli delle opinioni del

signor Fauchelevent? Forse era un repubblicano; quindi la

sua presenza era del tutto naturale in quella mischia.

Intanto Gavroche era già all'altro estremo della barricata

gridando: - Il mio fucile!

Courfeyrac glielo fece restituire.

Il birichino avvertì "i compagni", com'egli li chiamava, che

la barricata era bloccata, e che egli aveva durato non poca

fatica per ritornare. Un battaglione di linea, i cui fucili a

fasci erano nella Petite-Truanderie, guardava il lato della

via del Cigno; dal lato opposto, la guardia municipale

occupava la via del Predicatori: di fronte, avevano il grosso

dell'esercito.

Dopo le quali informazioni, Gavroche aggiunse:

- Vi autorizzo a conciarli come meritano.

Intanto Enjolras, dietro alla sua feritoia, con l'orecchio teso

spiava.

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Gli assalitori, senza dubbio poco soddisfatti del colpo di

cannone, non l'avevano ripetuto.

Una compagnia di fanteria di linea era andata a occupare

l'estremità della via, dietro il cannone: i soldati

disselciavano il mezzo della via e vi costruivano con le

pietre un muricciolo basso, una specie di scarpa, che non

aveva più di diciotto pollici di altezza, e che faceva fronte

alla barricata. Nell'angolo a sinistra di quella scarpa si

vedeva la testa di colonna di un battaglione di guardia

nazionale del circondario, ammassato nella via San Dionigi.

Enjolras, sempre di vedetta, credette di distinguere il

rumore particolare che si fa quando si ritirano dai cassoni

le cartucce a mitraglia, e vide il capo-pezzo cambiare il

puntamento e piegare leggermente a sinistra la bocca del

cannone. Quindi i cannonieri si misero a caricarlo, e il

capo-pezzo, presa egli stesso la miccia, l'avvicinò al

focone.

- Abbassate la testa, accostatevi al muro e giù tutti, in

ginocchio lungo la barricata! - gridò Enjolras.

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Gli insorti, che avevano lasciato i loro posti di battaglia

all'arrivo di Gavroche, ed erano sparsi dinanzi all'osteria, si

precipitarono alla rinfusa verso la barricata; prima che

l'ordine di Enjolras fosse eseguito, avvenne lo sparo col

rantolo spaventoso di una scarica di mitraglia. E tale era

infatti.

Il colpo, diretto verso il vano tra la barricata e la casa

vicina, aveva rimbalzato sul muro, e quel terribile rimbalzo

fece due morti e tre feriti.

Se si continuava così, la barricata non poteva resistere. La

mitraglia penetrava.

Ci fu un mormorio costernato.

- Impediamo ad ogni modo il secondo colpo - disse

Enjolras.

E, spianata la carabina, prese di mira il capo-pezzo, che in

quel momento, chino sulla culatta del cannone, rettificava

e fissava definitivamente il tiro.

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Quel capo-pezzo era un bel sergente cannoniere,

giovanissimo, biondo, col viso dolcissimo, con la fisionomia

intelligente, propria di quell'arma predestinata e

formidabile che, a forza di perfezionarsi nell'orrore, deve

finire per uccidere la guerra.

Combeferre, in piedi vicino a Enjolras, contemplava quel

giovane.

- Che peccato! - disse. - Che orribile cosa sono queste

carneficine! Su via, quando non ci saranno più re, non ci

saranno più guerre. Tu, Enjolras, prendi di mira quel

sergente, ma non lo guardi. Figurati che è un grazioso

giovane, e intrepido, si vede che riflette; sono molto

istruiti, quei giovani artiglieri; ha un padre, una madre, una

famiglia, probabilmente ama, ha tutt'al più venticinque

anni, potrebbe essere tuo fratello.

- Lo è, - rispose Enjolras.

- Sì, - riprese Combeferre, - ed è anche mio. Ebbene non

uccidiamolo.

- Lasciami stare. Quel che è necessario, è necessario.

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E una lacrima scorse lentamente sulla gota di marmo di

Enjolras.

Nello stesso tempo tirò il grilletto della carabina. Brillò un

lampo: l'artigliere girò due volte su se stesso con le braccia

tese in avanti e la testa alta come per aspirare l'aria, quindi

si rovesciò di fianco sul pezzo e vi rimase immoto. Si

vedeva dal centro del dorso uscire diritto uno zampillo di

sangue. La palla gli aveva attraversato il petto da parte a

parte. Era morto.

Si dovette trasportarlo e sostituirlo con un altro; erano

alcuni minuti guadagnati.

9. USO DI QUELLA VECCHIA DESTREZZA DI

BRACCONIERE E DI QUEL TIRO INFALLIBILE CHE

INFLUIRONO SULLA CONDANNA DEL 1796.

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Nella barricata si incrociavano le opinioni. Il tiro del

cannone stava per ricominciare, e con quella mitraglia era

questione di un quarto d'ora. Era assolutamente necessario

ammortire i colpi.

Enjolras lanciò quest'ordine:

- Bisogna mettere là un materasso.

- Non ne abbiamo - rispose Combeferre; - ci sono sopra i

feriti.

Valjean, seduto in disparte sopra un pilastrino, all'angolo

della bettola, col fucile tra le gambe, fino a quel momento

non aveva preso parte a niente di quanto avveniva, e

pareva non udire i combattenti dire intorno a lui: - Ecco un

fucile che non fa nulla.

All'ordine di Enjolras, si alzò.

Il lettore ricorderà che, all'arrivo dell'assembramento in via

della Chanvrerie, una vecchia, prevedendo la moschetteria,

aveva messo un materasso dinanzi alla propria finestra.

Era una finestra di granaio, sul tetto d'una casa a sei piani

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situata un po' in fuori alla barricata. Il materasso, posto di

traverso e sostenuto di sotto da due pertiche per far

asciugare la biancheria, era retto in alto da due corde, che

da lontano sembravano spaghi ed erano annodate a due

chiodi infissi negli stipiti della finestra.

Sullo sfondo del cielo, le due corde si vedevano

distintamente come capelli.

- Qualcuno può prestarmi una carabina a due colpi? -

chiese Valjean.

Enjolras, che aveva ricaricato la sua, gliela porse.

Valjean prese di mira la finestra e tirò.

Il colpo spezzo una delle due corde che reggevano il

materasso, che restò così appeso a un solo filo.

Valjean tirò il secondo colpo; l'altra corda andò a sferzare i

vetri della soffitta, e il materasso, sdrucciolando tra le due

pertiche, cadde nella via.

La barricata applaudì.

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Tutte le voci gridarono:

- Ecco un materasso.

- Si - osservò Combeferre, - ma chi andrà a prenderlo?

Infatti il materasso era caduto fuori della barricata, tra gli

assedianti e gli assediati. Ora la morte del sergente

artigliere aveva inasprito la truppa; da qualche minuto i

soldati si erano distesi ventre a terra dietro il riparo di

ciottoli da loro costruito, e per supplire al forzato silenzio

del pezzo, che taceva aspettando che fosse riorganizzato il

servizio, avevano aperto il fuoco contro la barricata. Gli

insorti non rispondevano a quella moschetteria per

economizzare le munizioni, e le fucilate andavano a

rompersi contro la trincea, ma la via, attraversata da tante

pallottole, era terribile.

Valjean uscì dall'apertura, entrò nella via, attraversò la

tempesta di fucilate, andò verso il materasso, lo raccolse,

se lo caricò sul dorso e rientrò nella barricata.

Egli stesso lo assestò nel vano, fissandolo contro il muro in

modo che gli artiglieri non potessero vederlo.

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Ciò fatto, stettero ad aspettare il colpo di mitraglia.

Il quale non tardò.

Il cannone vomitò con un ruggito il suo pacco di mitraglia,

ma non ci fu nessun rimbalzo: la mitraglia andò a

spegnersi sul materasso. L'effetto previsto era raggiunto: i

combattenti rimanevano illesi.

- Cittadino, - disse Enjolras a Valjean, - la repubblica vi

ringrazia.

Bossuet, che ammirava e rideva, gridò:

- E' una cosa immorale che un materasso abbia tanta

potenza; è il trionfo di quel che si piega su quello che

fulmina. Ma non importa: gloria al materasso che annulla

un cannone.

10. AURORA

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In quello stesso momento, Cosetta si svegliava.

La sua camera era piccola, pulita, discreta, con un'alta

finestra a levante sulla corte interna della casa.

Cosetta non sapeva nulla di quanto accadeva a Parigi: il

giorno prima si era ritirata presto in camera; e non era

presente quando la Toussaint aveva detto: - C'è del

movimento.

Essa aveva dormito poche ore, ma bene, e aveva fatto dei

dolci sogni, forse anche un po' perché il suo lettuccio era

molto bianco; qualcuno, che poi era Mario, le era apparso

avvolto in una luce. E si svegliò con il sole negli occhi, ciò

che nel primo momento le fece l'impressione che il sogno

continuasse.

Il suo primo pensiero, uscendo da quel sogno, fu ridente:

Cosetta si sentì tutta rassicurata. Come Valjean poche ore

innanzi, attraversava quella reazione dell'anima che

assolutamente non vuol saperne della sventura. Si mise a

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sperare con tutte le sue forze, senza sapere perché. Poi fu

presa da uno stringimento di cuore:

erano già tre giorni che non vedeva Mario. Ma rifletté che

egli doveva aver ricevuto la sua lettera, che sapeva dove

ritrovarla, e che egli aveva tanto spirito, e che avrebbe

trovato il mezzo di arrivare fino a lei. - E questo

certamente oggi, e forse questa mattina stessa. - Era

giorno chiaro, ma, dal raggio molto orizzontale, pensò che

doveva essere molto presto e che tuttavia bisognava

alzarsi, per ricevere Mario.

Sentiva di non poter vivere senza Mario, che per

conseguenza questo bastava, e che Mario sarebbe venuto.

Nessuna obiezione ammissibile: era una cosa certa. Già era

abbastanza mostruoso aver sofferto tre giorni, era una

cosa orribile da parte del buon Dio.

Ora quella crudele contrarietà che veniva dall'alto era una

prova attraversata; Mario stava per arrivare, e con una

buona notizia.

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La giovinezza è fatta così: si asciuga presto gli occhi, trova

inutile il dolore e non lo accetta.

Del resto la fanciulla non riusciva a ricordare quello che

Mario le aveva detto intorno a quell'assenza che doveva

durare un giorno solo, e quale spiegazione le aveva dato.

Tutti hanno osservato con quanta destrezza la moneta che

lasciamo cadere per terra corre a nascondersi, e con che

arte sa rendersi irreperibile. Ci sono dei pensieri che ci

giocano lo stesso tiro: si rannicchiano in un angolo del

cervello, ed è finita; sono perduti; impossibile tornare a

porvi su la memoria. Cosetta si indispettiva un po' del

piccolo sforzo inutile che faceva per ricordarsi, e diceva a

se stessa che non le stava bene e che era assai colpevole

aver dimenticato delle parole dette da Mario.

Uscì dal letto e fece le sue abluzioni dell'anima e del corpo,

la preghiera e la toletta.

A tutto rigore, si può introdurre il lettore in una camera

nuziale, non in quella di una vergine. Il verso l'oserebbe

appena; la prosa non deve.

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E' l'interno d'un fiore non ancora sbocciato, è un candore

nell'ombra, l'intima cella d'un giglio chiuso, che non deve

essere guardato dall'uomo finché non sia stato guardato

dal sole. La donna ancora in boccio è sacra. Quel letto

innocente che si scopre, quell'adorabile semi-nudità che ha

paura di se stessa, quel piede che si rifugia in una

pantofola, quel seno che si vela dinanzi allo specchio come

se lo specchio fosse una pupilla, quella camicia che si

affretta a risalire e a nascondere la spalla per un mobile

che scricchiola o una vettura che passa, quei cordoncini

allacciati, quelle fibbie agganciate, quei laccetti tirati, quei

trasalimenti, quei piccoli brividi di freddo e di pudore, quei

movimenti squisitamente spauriti, quell'inquietudine quasi

alata mentre non c'è nulla da temere, le fasi successive

dell'abbigliarsi, graziose come le nuvole dell'aurora, sono

tutte cose che non sta bene descrivere, e che è già troppo

indicare.

L'occhio dell'uomo dev'essere ancora più religioso dinanzi

al levarsi d'una fanciulla, che dinanzi al levarsi d'una stella;

la possibilità di raggiungerla deve volgersi in un aumento di

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rispetto. La peluria della pesca, la pruina della prugna, il

cristallo radiante della neve, la calugine sull'ala della

farfalla, sono cose rozze in confronto di quella castità che

non sa neppure d'essere casta. La fanciulla è appena una

luce di sogno e non è ancora una statua. La sua alcova è

nascosta nella parte oscura dell'ideale, e il contatto

indiscreto dello sguardo offende quella vaga penombra.

Contemplare è profanare.

Noi dunque non descriveremo per nulla quel soave

tramestìo del risveglio di Cosetta.

Un racconto orientale dice che la rosa era stata creata da

Dio bianca, ma che avendola Adamo guardata un momento

mentre si schiudeva, essa ebbe vergogna e divenne rossa.

Noi siamo di quelli che si sentono turbati dinanzi ai fiori e

alle fanciulle, perché li troviamo degni di venerazione.

Cosetta si vestì prontamente, si pettinò, si acconciò, cosa

molto semplice a quell'epoca, quando le donne non si

gonfiavano le ciocche e le bende con cuscinetti e barilotti, e

non si mettevano le crinoline nei capelli. Quindi aprì la

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finestra e girò gli occhi tutt'intorno, sperando di scoprire un

po' della via, un angolo di casa, qualche pezzo di lastrico,

da cui spiare l'arrivo di Mario.

Ma non si vedeva nulla del di fuori. La corte interna era

circondata da muri abbastanza alti, e si intravedevano

soltanto alcuni giardini, che a Cosetta sembrarono orribili.

Per la prima volta in vita sua trovò dei fiori brutti. Prese il

partito di guardare il cielo, quasi credendo che Mario

potesse giungere di là.

A un tratto scoppiò in pianto: non per mobilità d'animo, ma

perché il suo stato era fatto di speranze alternate di

scoraggiamenti.

Sentì confusamente un non so che di orribile; poiché infatti

le cose passano nell'aria. Pensò che non era sicura di nulla,

che perdersi di vista era come andar perduti l'uno per

l'altro; e l'idea che Mario potesse tornare a lei dal cielo le si

affacciò non più sorridente, ma lugubre.

Poi ritornò la calma, e la speranza, e una specie di sorriso,

inconscio ma fiducioso, in Dio.

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Tutti ancora dormivano nelle case: un silenzio da cittadina

di provincia; non un'imposta aperta, chiuso anche il casotto

del portinaio. La Toussaint non era alzata e Cosetta ritenne

naturalmente che suo padre dormisse. Doveva aver

sofferto e soffrire ancora, poiché diceva tra sé che suo

padre era stato cattivo. Ma faceva assegnamento su Mario:

era impossibile che quella luce si eclissasse. Si pose a

pregare. Ogni tanto sentiva a una certa distanza delle

sorde scosse, e pensava: - E' strano che aprano e chiudano

i portoni così di buon mattino. - Erano i colpi di cannone

che battevano la barricata.

Pochi piedi sotto la finestra di Cosetta, nella vecchia

cornice del muro tutta nera c'era un nido di rondini, il quale

con la sua curva sporgeva un po' dalla cornice, sicché

dall'alto si poteva vedere l'interno del piccolo paradiso. La

madre era dentro, con le ali aperte a ventaglio sulla sua

covata, mentre il padre svolazzava, partiva e ritornava,

portando nel suo becco cibo e baci. ll giorno nascente

dorava quella scena di felicità, la gran legge del

"Moltiplicatevi" era là sorridente e augusta, e quel dolce

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mistero si schiudeva nella gloria del mattino. Cosetta, coi

capelli al sole e l'anima nelle chimere, illuminata dall'amore

di dentro e dall'aurora di fuori, si chinò quasi

macchinalmente, e senza forse osare di confessare a se

stessa che pensava nello stesso tempo a Mario, si mise a

guardare quegli uccelli, quella famiglia, quel maschio e

quella femmina, quella madre e quei piccoli, col profondo

turbamento che un nido suscita in una vergine.

11. IL COLPO DI FUCILE CHE NON FALLA MAI E NON

UCCIDE NESSUNO

Il fuoco degli assalitori perdurava; la moschetteria e la

mitraglia si alternavano, senza grave danno in verità. Solo

la parte superiore della facciata di Corinto ne soffriva: la

finestra del primo piano e gli abbaini del tetto, crivellati

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dalla mitraglia e dai biscaglini, si deformavano lentamente,

e i combattenti che vi si erano appostati avevano dovuto

allontanarsene. Del resto, continuare a lungo il fuoco è la

tattica dell'assalto alla barricata, allo scopo di esaurire le

munizioni degli insorti se commettono l'errore di

rispondere.

Quando si vede, dal loro fuoco rallentato, che non hanno

più né polvere né palle, si dà l'assalto. Enjolras non era

caduto nell'insidia: la barricata non rispondeva.

A ogni fuoco del plotone, Gavroche si gonfiava la gota con

la lingua, segno di alto disprezzo.

- Va bene, - diceva, - lacerate pure la tela; ci occorrono le

filacce.

Courfeyrac interpellava la mitraglia intorno ai suoi scarsi

effetti e diceva al cannone:

- Diventi prolisso, mio caro.

Nelle battaglie avviene di essere presi dalla curiosità come

al ballo. E' probabile che quel silenzio della ridotta

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cominciasse a inquietare gli assedianti e a far loro temere

qualche incidente inaspettato, e che sentissero il bisogno di

vedere chiaro attraverso quel mucchio di selci, di sapere

cosa avveniva dietro quel muro impassibile che riceveva i

colpi senza ribatterli. Il fatto è che a un tratto gli insorti

videro un elmo brillare al sole sopra un tetto vicino; era un

pompiere appoggiato a un alto fumaiolo, che pareva messo

là di sentinella. Il suo sguardo piombava a picco nella

barricata.

- Ecco un sorvegliante incomodo, - esclamò Enjolras.

Valjean aveva reso la carabina a Enjolras, ma teneva il suo

fucile.

Senza dire una parola, prese di mira il pompiere, e un

attimo dopo l'elmo, colpito da una palla, cadeva

rumorosamente nella via. Il soldato, spaventato, si affrettò

a sparire.

Il suo posto fu preso da un secondo osservatore, questa

volta un ufficiale. Valjean, che aveva ricaricato il fucile,

mirò il nuovo venuto, e mandò l'elmo dell'ufficiale a

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raggiungere quello del soldato. L'ufficiale non insistette e si

ritirò prontamente; e questa volta l'avviso fu compreso:

nessuno più apparve sul tetto, si rinunciò a spiare la

barricata.

- Perché non avete ucciso l'uomo? - chiese Bossuet a

Valjean.

Valjean non rispose.

12. IL DISORDINE PARTIGIANO DELL'ORDINE

Bossuet mormorò all'orecchio di Combeferre:

- Non ha risposto alla mia domanda.

- E' un uomo che pratica la bontà a colpi di fucile, - rispose

Combeferre.

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Chi ha serbato qualche ricordo di quell'epoca lontana, sa

che la guardia nazionale del circondario era valorosa contro

le insurrezioni, e che nelle giornate del giugno 1832 essa fu

accanita e intrepida in modo particolare. Il pacifico

bettoliere di Pantin, a cui la sommossa rendeva vuoto "il

negozio", diventava un leone a vedere deserta la sua sala

da ballo, e si faceva ammazzare per salvare l'ordine

rappresentato dall'osteria. In quell'epoca, borghese ed

eroica insieme, di fronte alle idee che avevano i loro

cavalieri, gli interessi avevano i loro paladini.

Il prosaicismo della persona non toglieva nulla alla bravura

del gesto. La diminuzione dell'incasso induceva certuni a

cantare la Marsigliese. Si versava liricamente il proprio

sangue per il proprio banco, si difendeva con spartano

entusiasmo la bottega:

questo immenso diminutivo della patria.

In fondo, diciamolo, in tutto questo non c'era nulla che non

fosse molto serio. Erano gli elementi sociali che entravano

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in lotta, nella speranza che un giorno si mettessero in

equilibrio.

Un altro segno di quel tempo era l'anarchia mista al

paternalismo di governo (parola barbara del partito

dell'ordine). Si stava per l'ordine, ma senza disciplina. Il

tamburo batteva a casaccio, per ordine del tal colonnello

della Guardia nazionale, diane capricciose; la tale guardia

si batteva per conto suo e di testa sua. Nei momenti di

crisi, nelle "giornate" si prendeva consiglio più dagli istinti

che dai capi. Nell'esercito dell'ordine c'erano dei veri

guerriglieri, gli uni della spada come Fannicot, gli altri della

penna come E. Fonfrède.

La civiltà, rappresentata disgraziatamente allora da un

mucchio di interessi più che da un gruppo di princìpi, era o

si credeva in pericolo e mandava il grido d'allarme; e

ciascuno, facendosi centro, la difendeva, la soccorreva e la

proteggeva di testa sua.

Il primo venuto si attribuiva l'incarico di salvare la società.

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Lo zelo si spingeva talvolta fino alla strage. Un qualunque

drappello della guardia nazionale si costituiva di propria

autorità in consiglio di guerra, e in cinque secondi

giudicava e fucilava un insorto fatto prigioniero. Giovanni

Prouvaire fu ucciso per una improvvisazione di questo

genere. Legge feroce di Lynch, che nessun partito ha il

diritto di rimproverare agli altri, perché è applicata dalla

repubblica in America come dalla monarchia in Europa.

Questa legge di Lynch veniva aggravata dagli errori. Un

giovane poeta, di nome Paolo Amato Garnier, in un giorno

di sommossa, fu inseguito sulla piazza Reale, con le

baionette alle spalle, e riuscì a mettersi in salvo

rifugiandosi in un portone. Gridavano: - "Ecco un altro

sansimoniano!" - e volevano ucciderlo. Egli portava

sottobraccio un volume delle memorie di Saint-Simon, e

una guardia leggendo sul libro la parola Saint-Simon aveva

gridato: - A morte!

Il 6 giugno 1832, una compagnia di guardie nazionali,

comandata dal capitano Fannicot, si fece scioccamente e

volentieri decimare in via Chanvrerie. Questo fatto, per

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quanto strano, fu constatato dall'inchiesta giudiziaria che

seguì alla insurrezione. Il capitano Fannicot, borghese

impaziente e ardito, una specie di soldato di ventura

dell'ordine, di quelli che abbiamo or ora caratterizzati,

governativo fanatico e indisciplinato, non seppe resistere

alla tentazione di far fuoco prima del tempo e all'ambizione

di espugnare la barricata da solo, vale a dire con la sua

compagnia. Esasperato dalla successiva apparizione della

bandiera rossa e del vecchio abito che scambiò per una

bandiera nera, biasimava i generali e í capi radunati in

consiglio, i quali ritenevano che non fosse ancora giunto il

momento dell'assalto decisivo, e lasciavano, secondo la

celebre frase di uno di loro "che l'insurrezione si cuocesse

nel suo brodo". Dal canto suo, egli trovava la barricata

matura, e siccome ciò che è maturo deve cadere, tentò la

prova.

Egli comandava uomini decisi come lui, degli "arrabbiati",

come disse un teste. La sua compagnia, quella stessa che

aveva fucilato il poeta Prouvaire, era la prima del

battaglione attestato all'angolo della strada. Quando meno

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c'era da aspettarselo, il capitano lanciò i suoi uomini contro

la barricata; ma quell'attacco, eseguito più con buona

volontà che con strategia, costò caro alla compagnia

Fannicot. Prima che fosse arrivata a due terzi della strada,

fu accolta da una scarica generale della barricata. Quattro,

tra i più audaci, che correvano avanti, vennero fulminati a

bruciapelo al piede della ridotta; e così quel manipolo

coraggioso di guardie nazionali, uomini assai valorosi ma

senza tenacia militare, dopo qualche esitazione, dovette

ripiegare lasciando quindici cadaveri sul lastrico. Quel

momento di esitazione diede tempo agli insorti di ricaricare

le armi, e una seconda scarica, molto micidiale, colse gli

assalitori prima di raggiungere la cantonata che serviva

loro da riparo. Per un momento furono presi tra due fuochi

e ricevettero la scarica del pezzo d'artiglieria, il quale, non

avendo ricevuto alcun ordine, non aveva sospeso il fuoco.

L'intrepido e imprudente Fannicot fu colpito dalla mitraglia;

fu ucciso dal cannone, vale a dire dall'ordine.

Quell'attacco, più furioso che serio, irritò Enjolras.

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- Imbecilli! - disse. - Fanno uccidere i loro uomini e ci

fanno consumare le munizioni.

Enjolras parlava da quel vero generale di sommossa che

era.

L'insurrezione e la repressione non lottano ad armi pari.

L'insurrezione è più facilmente esauribile, ha solo pochi

colpi da tirare e pochi combattenti da opporre: una giberna

vuota, un uomo ucciso non si sostituiscono. La repressione

invece, avendo l'esercito, non conta gli uomini, e, avendo

Vincennes, non conta i colpi. A ogni uomo della barricata

può opporre un reggimento, a ogni cartuccia un arsenale.

Sono lotte di uno contro cento, che finiscono sempre con la

distruzione delle barricate. A meno che la rivoluzione,

scoppiando bruscamente, non venga a gettare nella

bilancia la sua fiammeggiante spada d'arcangelo: il che

accade qualche volta. Allora tutti si sollevano, il selciato

ribolle, le ridotte popolari pullulano. Parigi è presa da un

sovrano fremito, si sviluppa il "quid divinum", c'è nell'aria

un 10 agosto, un 29 luglio, appare una prodigiosa luce, le

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fauci spalancate della forza indietreggiano, e l'esercito, il

leone, si vede davanti ritto e tranquillo il profeta: la

Francia.

13. BAGLIORI CHE PASSANO

Nel caos dei sentimenti e delle passioni che difendono una

barricata c'è un po' di tutto; c'è la bravura, la giovinezza, il

punto d'onore, l'entusiasmo, l'ideale, la convinzione,

l'accanimento del giocatore, e soprattutto la speranza

intermittente.

Uno di questi momenti, uno di questi vaghi fremiti di

speranza attraversò rapidamente la barricata della

Chanvrerie, quando meno se l'aspettavano.

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- Sentite! - esclamò d'improvviso Enjolras sempre in

vedetta. - Pare che Parigi si risvegli.

E' certo che nella mattinata del 6 giugno l'insurrezione

ebbe per un'ora o due una certa recrudescenza.

L'ostinazione della campana a stormo di Saint-Merry

rianimò qualche velleità. Via del Pero e via Gravilliers

fecero un tentativo di barricata. Davanti a Porta San

Martino un giovane armato di carabina attaccò da solo uno

squadrone di cavalleria. In pieno boulevard, allo scoperto,

mise un ginocchio a terra, alzò il fucile, fece fuoco, uccise il

capo- squadrone e si volse indietro dicendo: "Eccone un

altro che non ci farà più male". - Fu sciabolato. In via San

Dionigi, una donna tirava sulle guardie municipali, da

dietro una persiana abbassata, di cui ogni tanto si

vedevano tremare le stecche. Un ragazzo di quattordici

anni fu arrestato in via Cassonnerie con le tasche piene di

cartucce. Furono assaliti vari corpi di guardia. Un

reggimento di corazzieri, alla cui testa marciava il generale

Cavaignac de Baragne, all'imbocco di via Bertin Poirée, fu

accolto da una nutrita e inattesa fucileria. In via Planche-

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Mibray, da sopra i tetti, scagliarono sulla truppa cocci di

stoviglie e utensili domestici: cattivo segno. Quando al

maresciallo Soult, il vecchio luogotenente di Napoleone,

riferirono questo fatto, questi si fece pensoso, ricordando la

frase di Suchet a Saragozza: - "Quando le vecchie ci

rovesciano sulla testa i loro vasi da notte, siamo perduti!".

Quei sintomi generali che si manifestavano al momento in

cui si credeva localizzata la sommossa, quell'accesso di

collera che riprendeva il sopravvento, quelle faville che

volavano qua e là al di sopra delle profonde masse di

combustibile che sono i quartieri di Parigi, tutto questo

insieme rese inquieti i capi militari.

Questi si affrettarono a spegnere quei principi di incendio,

e fino a che non furono soffocate queste faville, ritardarono

l'assalto alle barricate della Maubuée, della Chanvrerie e di

Saint-Merry, per aver da fare solo con esse e poter

concludere tutto d'un colpo. Alcune colonne furono lanciate

nelle vie in agitazione, spazzando le grandi, inondando le

piccole, a destra, a sinistra, ora lentamente e con

precauzione, ora a passo di carica.

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I soldati sfondavano le porte delle case da cui s'era tirato,

e nello stesso tempo la cavalleria manovrava per

disperdere i gruppi sui boulevard. Quella repressione non

avvenne senza quel rumore e senza quel fracasso

tumultuoso che è proprio dell'urto tra l'esercito e il popolo.

Ed era proprio questo che Enjolras udiva negli intervalli tra

la fucileria e le cannonate. Inoltre, aveva visto passare in

fondo alla via dei feriti sulle barelle, e diceva a Courfeyrac:

- Quei feriti non sono opera nostra.

La speranza durò breve tempo; presto il barlume si eclissò.

In meno di mezz'ora tutto svanì. Fu come un lampo senza

fulmine, e gli insorti sentirono ricadere sopra di loro quella

immensa cappa di piombo che l'indifferenza del popolo

getta sugli ostinati che abbandona.

La sommossa generale che pareva vagamente abbozzata

era già abortita, e l'attenzione del ministro della guerra

come Ia strategia dei generali potevano adesso

concentrarsi su tre o quattro barricate rimaste in piedi.

Il sole saliva all'orizzonte.

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Un insorto chiese a Enjolras:

- Abbiamo fame qui. Dovremmo morire senza mangiare?

Enjolras, sempre appoggiato col gomito alla sua feritoia,

senza perdere di vista l'estremità della strada, fece un

cenno di testa affermativo.

14. ENJOLRAS INNAMORATO

Courfeyrac, seduto su un sasso accanto a Enjolras,

continuava a farsi beffe del cannone, e ogni qual volta

passava col suo mostruoso rumore quel cupo nugolo di

proiettili che si chiama mitraglia, lui lo salutava con parole

ironiche.

- Ti spolmoni, povero vecchio bestione, mi fai pena; il tuo è

uno strepito inutile; non sono tuoni ma colpi di tosse.

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E intorno ridevano.

Courfeyrac e Bossuet, il cui coraggioso buon umore

cresceva col pericolo, sostituivano, come madame Scarron,

lo scherzo al cibo, e poiché mancava il vino, mescevano a

tutti la giocondità.

- Io ammiro Enjolras, - diceva Bossuet. - La sua

impassibile temerità mi sorprende. Egli vive solo, e questo

lo rende un po' triste; si lamenta della sua grandezza che

lo costringe alla vedovanza. Noi altri abbiamo più o meno

delle ragazze che ci fanno impazzire, vale a dire ci fanno

coraggiosi. Chi è innamorato come una tigre il meno che

possa fare è di battersi come un leone. E' un bel modo di

vendicarsi dei tiri birboni che ci fanno le nostre ragazze.

Orlando si fa uccidere per far arrabbiare Angelica. I nostri

eroismi derivano tutti dalle nostre donne. Un uomo senza

donna è una pistola senza cane. E' la donna che fa scattare

l'uomo. E intanto, Enjolras non ha donne, non è

innamorato, e tuttavia trova il modo di essere intrepido. E'

inaudito che si possa essere freddi come il ghiaccio e arditi

come il fuoco.

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Enjolras fingeva di non ascoltare; ma se qualcuno gli fosse

stato vicino l'avrebbe udito mormorare sottovoce: "Patria".

Bossuet rideva ancora quando Courfeyrac esclamò:

- Qualcosa di nuovo!

E facendo la voce d'un usciere, aggiunse:

- Io mi chiamo Pezzo-da-otto.

Infatti era entrato in scena un nuovo personaggio, un

secondo cannone. Gli artiglieri fecero rapidamente la

manovra e misero subito quel secondo pezzo in batteria

accanto al primo. Cominciava a delinearsi la fine.

Pochi momenti dopo, i due pezzi manovrati rapidamente,

tiravano contro la ridotta, mentre i fuochi di fila della linea

e delle guardie nazionali sostenevano l'artiglieria.

A qualche distanza si udiva un altro cannoneggiamento.

Mentre i due pezzi si accanivano contro la ridotta di via

Chanvrerie, altri due, uno puntato su via san Dionigi e

l'altro su via Aubry-le- Boucher, crivellavano la barricata

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Saint-Merry. I quattro cannoni si facevano eco

lugubremente.

I latrati di quei tetri mastini da guerra si rispondevano.

I due cannoni che battevano ora la barricata di via

Chanvrerie tiravano uno a mitraglia, l'altro a palla.

Quello che tirava a palla era puntato un po' alto e il tiro era

calcolato in modo che il proiettile colpiva l'orlo estremo

della parte superiore della barricata, la sgretolava, ne

sbriciolava i ciottoli sugli insorti come scoppi di mitraglia.

Lo scopo di questo tiro era quello di allontanare i difensori

dalla cima della barricata e di costringerli a rintanarsi

nell'interno; vale a dire annunciava l'assalto.

Una volta cacciati i combattenti dalla cresta della barricata

con le palle di cannone, e dalle finestre della bettola con la

mitraglia, le colonne destinate all'attacco potevano

avventurarsi nella via senza essere prese di mira, e forse

anche senza essere viste, scalare improvvisamente la

barricata, come la sera precedente e, chissà, prenderla di

sorpresa.

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- Dobbiamo assolutamente far diminuire il fastidio di quei

cannoni, - disse Enjolras; e gridò: - Fuoco sugli artiglieri!

Erano tutti pronti. La barricata che taceva da tanto tempo

fece un fuoco disperato e sette o otto scariche si

succedettero con una specie di rabbia e di gioia. La via si

riempì di fumo accecante.

Qualche minuto dopo, attraverso quella nebbia striata di

fiamme, si poterono discernere confusamente i due terzi

degli artiglieri distesi sotto le ruote dei cannoni. Quelli

rimasti in piedi continuavano a servire i loro pezzi con

severa tranquillità. Ma il fuoco era rallentato.

- Così va bene, - disse Bossuet a Enjolras. - Buon

successo.

- Un altro quarto d'ora di questo buon successo e non ci

saranno più di dieci cartucce nella barricata.

A quanto pare, Gavroche udì questa frase.

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15. GAVROCHE DI FUORI

D'un tratto Courfeyrac vide qualcuno ai piedi della

barricata, di fuori, nella via, sotto le pallottole.

Gavroche aveva preso nell'osteria un paniere per le

bottiglie, era uscito passando per il vano aperto, ed era

tranquillamente occupato a vuotare nel paniere le giberne

piene di cartucce delle guardie nazionali uccise sotto la

scarpata della ridotta.

- Che fai? - chiese Courfeyrac.

Gavroche alzò il capo:

- Cittadino, riempio il mio paniere.

- Ma non vedi la mitraglia?

- Già! Piove! E poi? - rispose Gavroche.

- Rientra, - gridò Courfeyrac.

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- Un momento, - disse il monello.

E con un balzo, avanzò nella via.

Il lettore ricorderà che la compagnia Fannicot, ritirandosi,

aveva lasciato dietro di sé una striscia di cadaveri.

Una ventina di morti giacevano qua e là sul selciato per

tutta la lunghezza della strada; una ventina di giberne per

Gavroche, una provvista di cartucce per la barricata.

Il fumo nella strada faceva come una nebbia. Chi ha visto

una nuvola impigliata in una gola di montagna fra due

dirupi a picco, può immaginarsi quel fumo rinchiuso e come

addensato tra due fosche ali di case alte. Esso saliva

lentamente e si rinnovava continuamente. C'era quindi una

caligine graduale che rendeva pallida la stessa luce del

giorno. Era molto se i combattenti si vedevano da una

parte e dall'altra della via che era molto breve.

Quell'oscuramento, probabilmente voluto e predisposto dai

capi dell'assalto alla barricata, fu utile a Gavroche.

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Sotto la protezione di quel velo di fumo e grazie alla sua

piccolezza, Gavroche poté spingersi molto avanti nella via

senza essere scorto, e saccheggiò le prime sette o otto

giberne senza gran pericolo.

Strisciava ventre a terra, galoppava a quattro zampe,

stringeva il paniere tra i denti, si contorceva, scivolava,

ondeggiava, serpeggiava da un morto all'altro, e vuotava le

giberne come una scimmia sguscia una noce.

Dalla barricata, a cui era molto vicino, non ardivano

gridargli di tornare, temendo di attirare su di lui

l'attenzione degli altri.

Sul cadavere di un caporale trovò una sacca di polvere.

- Per la sete! - disse mettendosela in tasca.

A furia di andare avanti, giunse al punto in cui la nebbia

della fucileria diveniva trasparente. Cosicché i fucilieri

appostati dietro il rialzo dei ciottoli, e quelli della guardia

nazionale ammassati dietro la cantonata della via, a un

tratto si mostrarono a dito qualcosa che si muoveva nel

fumo.

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Mentre Gavroche era intento a sbarazzare delle sue

cartucce un sergente disteso presso un pilastro, una palla

colpì il cadavere.

- Diamine! - fece Gavroche. - Mi ammazzano i miei morti!

Una seconda pallottola fece sprizzare faville dalle selci

accanto a lui; una terza gli rovesciò il paniere.

Allora si rizzò in piedi, diritto, con i capelli al vento, le mani

sui fianchi, l'occhio fisso alle guardie nazionali che tiravano,

e si mise a cantare:

"E colpa di Voltaire, se son brutti a Nanterre; è colpa di

Rousseau, se son sciocchi a Palaisseau".

Poi, raccolto il paniere, ci mise dentro, senza perderne una,

tutte le cartucce che ne erano cadute, e avanzando verso

la fucileria, andò a spogliare un'altra vittima. Là una quarta

pallottola fece cilecca. E Gavroche cantò:

"Se non sono notaro è colpa di Voltaire; sono un uccellino

per colpa di Rousseau".

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Una quinta pallottola riuscì soltanto a strappargli la terza

strofa:

"Ho un carattere allegro per colpa di Voltaire; ho per

corredo la miseria per colpa di Rousseau".

E così continuò per qualche tempo.

Era uno spettacolo spaventoso e incantevole. Gavroche,

preso a bersaglio, prendeva in burla la fucileria. Pareva

divertirsi un mondo. Era il passerotto che becca il

cacciatore. A ogni scarica una strofetta. Gli tiravano

continuamente ma senza mai colpirlo.

Soldati e guardie mirandolo ridevano. Egli si stendeva a

terra, si raddrizzava, si nascondeva nel vano d'una porta,

poi balzava, spariva, ricompariva, scappava, ritornava,

rispondeva alla mitraglia con un marameo, e frattanto

raccoglieva le cartucce, vuotava le giberne e riempiva il

paniere. Gli insorti, senza respiro per l'ansietà, lo

seguivano con gli occhi; la barricata trepidava, e lui

cantava. Non era un fanciullo, non era un uomo, ma uno

strano monello folletto. Pareva il nano invulnerabile della

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battaglia. Le pallottole lo inseguivano, ma lui era più lesto

di loro. Giocava a un terribile rimpiattino con la morte; e

ogni volta che la faccia camusa dello spettro si avvicinava,

il monello le dava m buffetto.

Però una palla meglio tirata e più traditrice delle altre, finì

col colpire il fanciullo folletto; e si vide Gavroche barcollare,

poi abbattersi. Tutta la barricata mandò un urlo. In quel

pigmeo c'era qualcosa di Anteo. Toccare il lastrico per il

monello è come toccar la terra per il gigante. Gavroche era

caduto ma per rialzarsi. Restò seduto per terra, mentre

una striscia di sangue gli rigava il volto. Alzò le due braccia

e, guardando dalla parte donde era venuta la palla, si mise

a cantare:

"Sono caduto per terra per colpa di Voltaire; col naso nel

rigagnolo per colpa di..." Non finì. Una seconda palla dello

stesso tiratore lo inchiodò.

Questa volta si abbatté col volto sul selciato e non si mosse

più.

La piccola grande anima aveva preso il volo.

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16. COME DA FRATELLO SI DIVENTA PADRE

In quello stesso momento c'erano nel giardino del

Lussemburgo perché l'occhio del dramma deve essere

presente dovunque - due fanciulli che si tenevano per

mano: uno aveva circa sette anni, l'altro cinque. Inzuppati

dalla pioggia, camminavano al sole dei viali. Il maggiore

guidava il minore. Erano cenciosi e pallidi.

Avevano l'aspetto di uccelli selvatici. Il più piccolo diceva:

Ho fame!

Il più grande, già un po' protettore, conduceva il fratellino

con la mano sinistra e teneva nella destra una bacchetta.

Erano soli nel giardino, che era deserto e con i cancelli

chiusi per misura di polizia, a causa dell'insurrezione. Le

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truppe che vi avevano bivaccato ne erano uscite a causa

del combattimento.

Come si trovavano là quei due ragazzi? Erano forse fuggiti

da qualche corpo di guardia lasciato aperto? erano forse

scappati da qualche baraccone di saltimbanchi fermo nei

dintorni, alla barriera dell'Inferno, o sulla spianata

dell'Osservatorio, o nel vicino crocevia dominato dal

frontone su cui stava scritto:

"Invenerunt parvulum pannis involutum"? forse la sera

precedente avevano eluso la sorveglianza dei guardiani e

avevano passato la notte in quei casotti dove si leggono i

giornali? Fatto sta che andavano a zonzo e sembravano

liberi. Andare a zonzo ed essere liberi significa essere

sperduti. Infatti quei due poveri piccini erano sperduti.

Erano proprio quei due bambini per i quali Gavroche era

stato tanto in pensiero, come il lettore ricorda.

Figli di Thénardier, dati a nolo alla Magnon, attribuiti a

Gillenormand, e ora foglie cadute da tutti quei rami senza

radici, e portate dal vento.

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I loro vestiti, decenti ai tempi della Magnon, perché le

servivano di réclame di fronte a Gillenormand, erano

diventati cenci.

Quelle creature appartenevano ormai ai "fanciulli

abbandonati", che la polizia raccoglie, smarrisce e ritrova

sul lastrico di Parigi.

Ci voleva il trambusto di una giornata come quella perché

quei piccoli miserabili si trovassero in quel giardino, dal

quale i sorveglianti li avrebbero scacciati se li avessero

visti. I bimbi poveri non sono ammessi nei giardini pubblici.

Eppure, si dovrebbe riflettere che tutti i fanciulli hanno

diritto ai fiori.

Quei due vi si trovavano grazie ai cancelli chiusi. Erano in

contravvenzione. Introdottisi di soppiatto nel giardino,

c'erano restati. La chiusura dei cancelli non elimina la

vigilanza, che continua; questa però si rallenta e si riposa;

e gli ispettori, commossi anch'essi dalla pubblica

preoccupazione e interessati più all'esterno che all'interno,

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non badavano al giardino e non avevano visto i due

contravventori.

Il giorno prima aveva piovuto; e anche un po' la mattina.

Ma di giugno le piogge non contano. Dopo un temporale, ci

si accorge appena che quella bella giornata bionda ha

pianto. D'estate la terra si asciuga presto come la gota di

un fanciullo. Nei giorni del solstizio, la luce meridiana è,

per così dire, penetrante; invade tutto; s'attacca e si

sovrappone alla terra come una specie di sanguisuga. Pare

che il sole abbia sete; un acquazzone scola via, e una

pioggia è subito bevuta. Al mattino tutto sgocciola; a

mezzogiorno tutto è impolverato.

Non c'è nulla di più bello di un prato lavato dalla pioggia e

asciugato dal sole; è una frescura tiepida. I giardini e i

prati quando hanno l'acqua alle radici e il sole nei rami,

diventano come incensieri che fumano con tutti i loro

profumi. Tutto ride, canta, si offre. Si prova una certa

ebbrezza. La primavera è un paradiso provvisorio. Il sole

aiuta l'uomo a pazientare.

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Ci sono delle creature che non chiedono nulla di più;

viventi che, possedendo l'azzurro del cielo, dicono: ci

basta! pensatori assorti nel prodigio, i quali attingono

dall'idolatria per la natura l'indifferenza del bene e del

male; contemplatori del cosmo meravigliosamente distolti

dall'uomo, che non comprendono come mai ci si occupi

della fame di questi e della sete di quelli, della nudità del

povero nell'inverno, della incurvatura di una piccola spina

dorsale, del giaciglio, della soffitta, della prigione, dei cenci

delle ragazze che tremano dal freddo, quando invece si può

sognare sotto gli alberi; menti pacifiche e terribili,

implacabilmente soddisfatte. Cosa strana, a essi basta

l'infinito.

Essi ignorano quel gran bisogno dell'uomo, il finito, che

implica l'abbraccio. Non pensano al finito, che implica quel

sublime lavoro che è il progresso. Sfugge loro l'indefinito

che nasce dalla combinazione umana e divina dell'infinito e

del finito.

Purché si trovino di fronte all'immensità, sorridono. Mai la

gioia, sempre l'estasi. Inabissarsi: ecco la loro vita. La

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storia dell'umanità per loro non è altro che un piano

frammentario. Il Tutto non c'è; il vero Tutto è estromesso.

A che giova occuparsi di quell'accessorio che è l'uomo? Può

darsi che questi soffra; ma osservate Aldebaran che sorge!

Non voglio sapere se la madre non ha più latte e se il

neonato muore; guardate invece che meraviglioso rosone

forma un disco di abete visto al microscopio; confrontatelo

col più bel merletto! Quei pensatori si dimenticano di

amare. Lo zodiaco influisce su di loro al punto da impedire

di vedere il fanciullo che piange. Dio eclissa in essi la loro

anima.

E' una famiglia di spiriti che sono nello stesso tempo grandi

e piccini. Orazio ne faceva parte; anche Goethe; forse

anche La fontaine: tutti magnifici egoisti dell'infinito,

tranquilli spettatori del dolore, i quali, se il tempo è bello,

non vedono Nerone, ai quali il sole nasconde il rogo, che

starebbero a guardare ghigliottinare per cercarvi un effetto

di luce, che non sentono né un grido, né un singhiozzo, né

un rantolo, né una campana a stormo; gente, che crede

che tutto va bene solo perché è il mese di maggio, che si

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dichiara sempre contenta finché ha sul capo nuvole di

porpora e d'oro, ed è decisa a essere felice fino a che non

si sia esaurito lo scintillio degli astri e il canto degli uccelli.

Costoro sono degli splendidi tenebrosi. Non pensano che

sono da compiangere; ma lo sono. Chi non piange non

vede. Bisogna ammirarli e compiangerli, come si

compiangerebbe chi ammirerebbe un essere che fosse

notte e giorno insieme, che non avesse occhi ma soltanto

un astro in mezzo alla fronte.

L'indifferenza di questi pensatori è, secondo alcuni, una

filosofia superiore. Sia pure! ma in questa superiorità c'è

qualcosa di malato. Si può essere immortale e zoppo, come

Vulcano; si può essere più o meno che uomo. L'incompleto

immenso si trova nella natura. Chi sa se il sole non sia

cieco?

Ma allora di chi fidarsi? "Solem dicere quis falsum audeat"?

Sicché anche certi geni, certi uomini superiori, certi

uomini- astri potrebbero ingannarsi? Dunque, anche quello

che è lassù, al culmine, allo zenit, quello che manda tanta

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luce sulla terra vedrebbe poco, male, o niente affatto? Non

è disperante il caso?

No. Dunque che cosa c'è al di sopra del sole? Dio.

Il 6 giugno 1832, verso le undici del mattino, il

Lussemburgo, solitario e spopolato, era bello. Gli alberi e i

prati mandavano profumi e riflessi. Le rame, folli di luce

meridiana, parevano cercassero di abbracciarsi. C'era nei

sicomori un chiasso di capinere, i passerotti trionfavano, i

picchi si arrampicavano su per gli ippocastani dando

beccate nei buchi della corteccia. Le aiuole accettavano la

legittima regalità dei gigli. Il più bel profumo è quello che

emana dal candore. Si respirava l'acuto profumo dei

garofani. Le vecchie cornacchie di Maria dei Medici

amoreggiavano tra i grandi alberi. Il sole dorava,

imporporava e accendeva i tulipani, che non sono altro che

tutte le variazioni della fiamma diventate fiori, e attorno ai

calici dei tulipani turbinavano le api, scintille di quei fiori-

fiamme. Tutto era grazia e gaiezza, anche la pioggia vicina,

la quale, recidiva, non aveva nulla di inquietante per i

mughetti e per i caprifogli, che ne dovevano approfittare.

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Le rondini minacciavano graziosamente di volar troppo

basso. Chi stava là dentro respirava la felicità. La vita

aveva un buon odore. Tutta quella natura esalava candore,

aiuto, assistenza, paternità, carezza, aurora. I pensieri che

venivano dal cielo erano teneri, come una manina di bimbo

offerta al bacio.

Sotto gli alberi, le statue nude e bianche avevano vesti di

ombra a strappi di luce; quelle dee erano tutte in cenci di

sole; erano avvolte di raggi da tutte le parti. Attorno alla

grande vasca, la terra era già asciutta sì che pareva quasi

bruciata. Spirava un venticello capace di sollevare piccole

nuvole di polvere. Alcune foglie gialle rimaste dall'ultimo

autunno s'inseguivano allegramente come tanti monelli.

Quell'abbondanza di luce dava una certa sicurezza. Vita,

linfa, calore, effluvi traboccavano. Si sentiva la creazione,

la sorgente enorme; in tutti quei venticelli impregnati di

amore, in quello scambio di riverberi e di riflessi, in quel

prodigioso dispendio di raggi, in quella mescita infinita di

oro fluido si sentiva la prodigalità dell'inesauribile; e dietro

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a quello splendore, come dietro a un sipario di fiamme, si

intravedeva Dio, il milionario di stelle.

Grazie alla sabbia, non c'era una pozzanghera; grazie alla

pioggia non c'era un granello di polvere. I fiori si erano

appena lavati, e tutti i velluti, tutti i rasi, tutte le vernici,

tutti gli ori che escono dalla terra in forma di fiori erano

irreprensibili.

Tutta quella magnificenza era linda. Il gran silenzio della

natura felice inondava il giardino: silenzio celeste che

s'accorda con mille musiche, col tubare dei colombi, col

ronzio delle api, col palpito del vento. L'intera armonia

della stagione si accordava in un grazioso insieme; le

entrate e le uscite della primavera avvenivano nell'ordine

voluto; finivano i lillà e cominciavano i gelsomini; alcuni

fiori erano in ritardo, alcuni insetti in anticipo;

l'avanguardia delle farfalle rosse di giugno fraternizzava

con la retroguardia delle farfalle bianche di maggio; i

platani mettevano la corteccia nuova; la brezza scavava

delle ondulazioni nella magnifica enormità degli

ippocastani. Era una cosa splendida. Un veterano della

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vicina caserma, guardando attraverso il cancello diceva:

Ecco la primavera sotto le armi e in gran tenuta!

Tutta la natura si nutriva; la creazione stava a tavola; la

gran tovaglia azzurra era distesa in cielo e la gran tovaglia

verde sulla terra; il sole illuminava tutto. Dio aveva

imbandito il pasto universale. Ogni essere aveva il suo cibo

o il suo pastore.

I colombi trovavano la cappuccina, i fringuelli il miglio, i

cardellini la paperina, il pettirosso i vermi, l'ape i fiori, la

mosca i moscerini, e il verdone le mosche. Talvolta si

mangiavano gli uni con gli altri, il che costituisce il mistero

del male misto al bene; però nessuna bestia aveva lo

stomaco vuoto.

I due piccoli derelitti erano giunti presso la grande vasca.

Un po' turbati da tutta quella luce cercavano di nascondersi

- istinto del povero e del debole davanti alla magnificenza,

anche impersonale - e si mantenevano dietro la baracca

dei cigni.

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Di tanto in tanto, se spirava un alito di vento, si udivano

grida confuse, rumori, una specie di rantoli tumultuosi che

erano fucilate, e colpi sordi che erano cannonate. Sopra i

tetti dalla parte dei Mercati c'era del fumo. Una campana

che suonava in lontananza pareva che chiamasse.

I due bimbi sembravano indifferenti a quei rumori. Ogni

tanto il più piccolo ripeteva: - Ho fame!

Quasi contemporaneamente ai due bimbi, un'altra coppia si

avvicinava allo stagno. Era un ometto di cinquant'anni che

guidava per mano un ometto di sei; certamente padre e

figlio. Il ragazzetto portava una grossa focaccia.

A quell'epoca, alcune case limitrofe, in via Madame e in via

Inferno, possedevano una chiave del Lussemburgo, di cui

facevano uso gli inquilini quando i cancelli erano chiusi.

Questa tolleranza fu in seguito soppressa. Quel padre e

quel figlio uscivano certamente da una di quelle case.

I due piccoli mendicanti, vedendo venire quel "signore", si

nascosero di più.

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L'uomo era un borghese, probabilmente lo stesso che

Mario un giorno, attraverso la sua febbre amorosa, aveva

sentito suggerire al figlio di "evitare gli eccessi", presso

quella stessa grande vasca. Aveva un aspetto affabile e

altero, e una bocca che sorrideva sempre e non si chiudeva

mai. Quel sorriso meccanico, prodotto da una mascella

troppo grande, da troppo poca pelle, mostrava i denti

anziché l'anima.

Il fanciullo, con la sua focaccia già addentata, pareva sazio.

Era vestito da guardia nazionale a causa della sommossa,

mentre il padre era in borghese per prudenza.

Padre e figlio si erano fermati presso la vasca, in cui

stavano a sollazzarsi due cigni. Quel borghese sembrava

avere per i cigni una particolare ammirazione; e aveva

questo di somigliante con loro, che camminava alla loro

maniera.

Per il momento i due cigni nuotavano ed erano superbi. Se

i due piccoli mendicanti avessero ascoltato e fossero stati

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in età da comprendere, avrebbero potuto raccogliere le

parole di un uomo grave. Il padre diceva al figlio:

- Il saggio s'accontenta di poco. Guarda me, figlio mio. Io

non amo il fasto, non vesto mai abiti fregiati d'oro e di

pietre preziose, lascio questo falso splendore alle anime

malfatte.

In quel momento le grida che provenivano dalla parte dei

Mercati raddoppiarono, insieme al suono della campana e

ai rumori.

- Che cos'è questo chiasso? - chiese il fanciullo.

- Sono saturnali, - rispose il padre.

A un tratto scorse i due piccoli cenciosi, immobili dietro il

casotto verde dei cigni.

- Ecco il principio, - disse.

E dopo una pausa aggiunse:

- L'anarchia penetra in questo giardino.

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Frattanto il figlio morse la focaccia, ma sputò il morso e

improvvisamente scoppiò a piangere; - Perché piangi?

- Non ho più fame, - disse il bambino.

Il sorriso del padre si accentuò.

- Non è necessario aver fame per mangiare una focaccia.

- Non mi piace; è dura.

- Non ne vuoi più?

- No.

Allora il padre, indicandogli i cigni:

- Gettala a quei palmipedi.

Il ragazzo esitò. Non volerne non è una bella ragione per

dare la focaccia ad altri.

Il padre proseguì:

- Sii umano; abbi pietà degli animali.

La focaccia cadde molto vicino all'orlo.

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I cigni erano lontani, nel mezzo della vasca, e non avevano

visto né il borghese né la focaccia. Vedendo allora che la

focaccia poteva andare a fondo e commosso da quell'inutile

naufragio, il borghese si dette a fare movimenti telegrafici

per attirare i cigni. Questi scorsero qualcosa che

galleggiava e si diressero, virando di bordo, verso la

focaccia con la stupida maestà che si addice a bestie

bianche.

- I cigni capiscono i segnali, - disse il borghese, felice di

avere dello spirito.

In quel momento il lontano tumulto della città si accrebbe

improvvisamente, e questa volta parve sinistro. Certe

folate di vento parlavano con maggiore chiarezza di altre. Il

vento che soffiava in quel momento portò chiaramente dei

clamori, degli spari di fila e le lugubri risposte della

campana a stormo e del cannone. Tutto questo coincise

con una nuvola nera che nascose inaspettatamente il sole.

I cigni non erano ancora arrivati alla focaccia.

Torniamo a casa, - disse il padre. - Assaltano le Tuileries.

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Riprese la mano del figlio e continuò:

- Dalle Tuileries al Lussemburgo corre solo la distanza che

separa la monarchia dall'istituzione dei Pari; non è molta.

Fra poco pioveranno le fucilate.

E guardando la nuvola:

- E forse verrà anche la pioggia; anche il cielo si mette in

mezzo; il ramo cadetto a casa.

- Vorrei vedere i cigni mangiare la focaccia, - disse il

fanciullo.

- Sarebbe un'imprudenza, - rispose il padre. - E condusse

via il suo piccolo borghese, che, rimpiangendo i cigni,

continuò a volgere la testa verso la vasca, finché un gomito

del viale non gliela ebbe nascosta.

Frattanto, contemporaneamente ai cigni, i due piccoli

vagabondi si erano avvicinati alla focaccia galleggiante. Il

più piccolo guardava la focaccia, il più grande il borghese

che se ne andava.

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Padre e figlio entrarono nel labirinto dei viali che conduce

alla grande scalinata del boschetto dalla parte di via

Madame.

Non appena questi furono scomparsi, il più grande si stese

sull'orlo della vasca e aggrappandosi con la sinistra, chino

sull'acqua, fino al punto di poterci cadere dentro, allungò la

destra con la bacchetta verso la focaccia. I cigni, vedendo il

nemico, si affrettarono, e affrettandosi produssero un'onda

utile al piccolo pescatore. Mentre i cigni arrivavano la

bacchetta toccò la focaccia. ll fanciullo dette un colpo lesto,

accostò la focaccia, spaventò i cigni, la prese e si raddrizzò.

La focaccia era bagnata, ma essi avevano fame e sete. Il

maggiore ne fece due parti, una grossa e l'altra piccola,

tenne la piccola per sé e dando la grossa al fratellino,

disse:

Cacciati questo nel gozzo.

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17. MORTUUS PATER FILIUM MORITURUM EXPECTAT

Mario si era precipitato alla barricata e Combeferre lo

aveva seguito. Ma era troppo tardi. Gavroche era morto.

Combeferre raccolse il paniere della cartucce, Mario

raccolse Gavroche.

Ahimé! - pensava, - quel che il padre aveva fatto per suo

padre, egli lo faceva per il figlio, con questa differenza che

Thénardier aveva riportato il colonnello vivo, mentre lui

riportava il figlio morto.

Quando rientrò nella ridotta con Gavroche tra le braccia,

aveva il volto inondato di sangue come il ragazzo.

Chinandosi per raccogliere Gavroche, una palla gli aveva

sfiorato la testa, senza che lui se ne accorgesse.

Courfeyrac si tolse la cravatta e gli bendò la fronte.

Gavroche fu deposto sulla stessa tavola di Mabeuf, e sui

due corpi fu disteso lo scialle nero.

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Combeferre distribuì le cartucce del paniere, e ne

toccarono quindici ciascuno.

Valjean stava sempre allo stesso posto, immobile presso il

pilastrino. Quando Combeferre gli consegnò le sue quindici

cartucce, lui scrollò il capo.

- Questo è proprio un eccentrico, - disse Combeferre a

Enjolras sottovoce. - Trova la scusa di non combattere su

questa barricata.

- Ma questo non gli impedisce di difenderla, - aggiunse

Enjolras.

- L'eroismo ha i suoi eccentrici, - riprese Combeferre.

Courfeyrac che aveva udito aggiunse:

- Però è diverso da papà Mabeuf.

Bisogna notare che il fuoco che batteva la barricata ne

disturbava appena l'interno. Chi non ha mai attraversato il

turbine di questa specie di guerra, non può formarsi

un'idea degli strani momenti di tranquillità che si uniscono

a quelle convulsioni. Si va, si viene, chiacchierando,

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scherzando, dondolandosi. Un tale di nostra conoscenza ha

udito un combattente che gli diceva in mezzo alla

mitraglia: - "Qui ci troviamo come a colazione tra

giovanotti". - La ridotta di via Chanvrerie sembrava dunque

assai calma. Tutte le peripezie e tutte le fasi stavano per

esaurirsi. La posizione, da critica era diventata minacciosa,

e da minacciosa probabilmente stava per diventare

disperata. A mano a mano che la situazione diventava

sempre più confusa, la luce dell'eroismo imporporava

sempre più la barricata. Enjolras, grave, la dominava con

l'atteggiamento di un giovane spartano che consacra la sua

spada nuda al cupo genio di Epidota.

Combeferre, con un grembiule davanti, medicava i feriti;

Bossuet e Feuilly fabbricavano cartucce con la polvere della

fiaschetta che Gavroche aveva tolto al caporale ucciso, e il

primo diceva al secondo: - "Tra un poco prenderemo la

diligenza per un altro pianeta". - Courfeyrac, sulle poche

selci che s'erano riservate vicino a Enjolras, disponeva e

allineava tutto un arsenale, lo stocco, il fucile, due pistole

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grandi e una corta, con la cura di una fanciulla che mette

in ordine gli arnesi della toletta.

Valjean silenzioso guardava il muro di fronte. Un operaio

con una cordicella si fissava in testa un gran cappello di

paglia di mamma Hucheloup, "per paura dei colpi di sole",

diceva. I giovani affiliati alla Cougourde di Aix

chiacchieravano allegramente come se avessero premura

di parlare il loro vernacolo per l'ultima volta. Joly, che

aveva preso lo specchio della vecchia bettoliera, si

guardava la lingua. Alcuni combattenti, avendo trovato in

un cassetto delle croste di pane ammuffito, le mangiavano

avidamente.

Mario era inquieto per quello che tra poco gli avrebbe detto

suo padre.

18. L'AVVOLTOIO DIVENTATO PREDA

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Insistiamo su un fenomeno psicologico che è proprio delle

barricate. Non dobbiamo omettere nulla che riguarda il

carattere di questa guerra sorprendente.

Checché si possa dire della strana tranquillità interna di cui

abbiamo parlato, la barricata, per coloro che ci stanno

dentro, resta pur sempre una visione.

Nella guerra civile c'è qualcosa dell'apocalisse; tutte le

nebbie dell'ignoto si mescolano a quei fiammeggiamenti

selvaggi; le rivoluzioni sono sfingi, e chiunque ha

attraversato una barricata crede di essere passato

attraverso un sogno.

Che cosa si provi in un luogo come quello, lo abbiamo già

indicato a proposito di Mario e ne vedremo le conseguenze:

è qualcosa di più e di meno della vita. Chi esce da una

barricata non sa più le persone che vi ha conosciuto; fu

terribile, ma lui lo ignora; si trovò circondato da idee che

combattevano con volto umano, ebbe la testa nella luce

dell'avvenire. C'erano dei cadaveri distesi e dei fantasmi in

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piedi. Le ore erano interminabili e sembravano eternità.

Vide passare delle ombre; che cosa erano? Vide delle mani

sporche di sangue. Era un fracasso spaventevole, ma era

pure un orribile silenzio; c'erano delle bocche aperte che

gridavano e altre bocche aperte che tacevano; si stava nel

fumo, forse nelle tenebre.

Crede di essere stato in un sinistro trasudamento delle

profondità ignote; scorge qualcosa di rosso nelle sue

unghie; ma non se ne ricorda più.

Torniamo in via Chanvrerie.

A un tratto, tra le due scariche, si udirono lontano suonare

le ore.

- E' mezzogiorno, - disse Combeferre.

I dodici colpi non erano ancora scoccati, che Enjolras si

rizzò e dall'alto della barricata lanciò questi ordini con voce

tonante:

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- Portate le selci in casa e mettetele sulle finestre. Metà

degli uomini ai fucili, l'altra metà ai sassi. Non c'è tempo da

perdere.

Un plotone di guastatori, con la scure in spalla, era apparso

in fondo alla via in ordine di battaglia.

Non poteva essere che la testa di una colonna! Di quale?

Evidentemente di quella d'assalto. I guastatori incaricati di

demolire la barricata devono sempre precedere i soldati

incaricati di dare la scalata.

Si era giunti al momento che Clermont-Tonnerre nel 1822

chiamava "il colpo di grazia".

L'ordine di Enjolras fu eseguito con la fretta precisa che è

propria delle navi e delle barricate, gli unici luoghi di

combattimento da cui è impossibile scappare. In meno di

un minuto, due terzi delle selci che Enjolras aveva fatto

ammucchiare davanti alla porta di Corinto vennero

trasportate al primo piano e alle soffitte, e prima che fosse

trascorso un altro minuto, quelle selci disposte

magistralmente l'una sull'altra chiudevano a metà la

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finestra del piano principale e degli abbaini. Da alcuni

interstizi accuratamente lasciati da Feuilly, che era il

principale costruttore, si potevano far passare le canne dei

fucili. L'armamento delle finestre fu eseguito più facilmente

perché la mitraglia era cessata. I due cannoni adesso

tiravano a palla al centro della barricata per aprirvi una

breccia per l'assalto.

Quando le selci destinate all'estrema difesa furono messe a

posto, Enjolras fece trasportare al piano superiore le

bottiglie deposte sotto la tavola su cui giaceva Mabeuf.

- Chi le berrà? - chiese Bossuet.

- Loro, - rispose Enjolras.

Quindi barricarono la finestra del piano terreno e tennero

pronte le traverse di ferro che servivano a sprangare di

notte internamente la porta della bettola.

La fortezza era completata; la barricata era il bastione, la

bettola il torrione.

Con le selci che restavano chiusero il vano.

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Poiché gli assedianti di una barricata sanno che i difensori

sono sempre obbligati a economizzare le munizioni,

attendono ai loro preparativi con una calma irritante, si

espongono al fuoco prima del tempo più per trarre in

inganno che per il desiderio di affrettare l'assalto.

I preparativi di un assalto si fanno sempre con una

metodica lentezza. Dopo viene la folgore.

Quella lentezza permise a Enjolras di rivedere e di

perfezionare ogni cosa. Dal momento che quegli uomini

dovevano morire, voleva che la loro morte fosse un

capolavoro.

Disse a Mario:

- Noi siamo due capi. Io vado a dare gli ultimi ordini per

l'interno; tu resta fuori a osservare.

Mario si mise in vedetta sulla cresta della barricata.

Enjolras fece inchiodare la porta della cucina che come

ricorderemo era l'infermeria. - Non deve schizzare nulla sui

feriti, - disse.

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Dette le ultime istruzioni nella sala al pianterreno con voce

scattante ma perfettamente tranquilla. Feuilly ascoltava e

rispondeva a nome di tutti.

- Al primo piano tenete pronte le scuri per tagliare la scala.

Ne avete?

- Sì, - rispose Feuilly.

- Quante?

- Due accette e una grossa scure.

- Va bene. Noi siamo ventisei combattenti. Quanti fucili

abbiamo?

- Trentaquattro.

- Otto di più. Teneteli caricati e sottomano. Sciabole e

pistole alle cinture. Venti uomini alla barricata. Sei agli

abbaini e alla finestra per far fuoco sugli assalitori

attraverso le feritoie.

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Nessuno deve essere inutile qui. Tra poco, quando il

tamburo batterà la carica, i venti di giù si precipitino sulla

barricata; i primi arrivati prenderanno i posti migliori.

Date queste disposizioni, si volse a Javert e disse:

- Non mi dimentico di te.

E posando una pistola sulla tavola, aggiunse:

- L'ultimo che uscirà di qui fracasserà il cranio a questa

spia.

- Qui dentro? - chiese una voce.

- No; non mischiamo questo cadavere ai nostri. Si può

scavalcare la piccola barricata nel vicolo Mondétour, alta

solo quattro piedi. Questi è ben legato; che venga

trascinato là e giustiziato.

C'era in quel momento qualcuno più impaziente di Enjolras

ed era Javert.

In quel punto apparve Valjean. Era confuso nel numero

degli insorti. Ne uscì e chiese a Enjolras:

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- Siete voi il comandante?

- Sì.

- Poco fa mi avete ringraziato.

- In nome della Repubblica. La barricata fu salvata due

volte: da Mario Pontmercy e da voi.

- Credete che meriti una ricompensa?

- Certo.

- Ebbene, ne chiedo una.

- Quale?

- Bruciare le cervella a quell'uomo.

Javert alzò la testa, vide Valjean e fece un movimento

impercettibile, dicendo:

- E' giusto.

Enjolras, mentre ricaricava la pistola, volse gli occhi e

disse:

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- Nessuno si oppone?

Poi, rivolto a Valjean:

- Prendetevi lo spione.

Valjean si impossessò di Javert, sedendosi all'estremità

della tavola; afferrò la pistola, e un lieve scricchiolìo

annunciò che l'aveva caricata.

Quasi in pari tempo si sentì un suono di tromba.

- All'armi! - gridò Mario dall'alto della barricata.

Javert si mise a ridere, con quel suo riso muto, e

guardando fisso gli insorti, disse loro:

- Voi non siete per niente migliori di me.

- Fuori tutti! - comandò Enjolras.

Gli insorti si lanciarono fuori tumultuosamente, ma

nell'uscire furono colpiti nella schiena, se così possiamo

esprimerci, da queste parole di Javert:

Arrivederci tra poco!

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19. LA VENDETTA DI VALJEAN

Quando Valjean si trovò solo con Javert, sciolse la corda

che teneva legato il prigioniero alla tavola. Quindi gli fece

cenno di alzarsi. Javert obbedì con quell'indefinibile sorriso

che riassume la supremazia dell'autorità incatenata.

Valjean prese Javert per la martingala come si

prenderebbe una bestia da soma per la cavezza, e

tirandoselo dietro, uscì dalla bettola lentamente, perché

l'altro avendo ancora legate le gambe poteva muovere

soltanto dei passi molto brevi.

Valjean teneva impugnata la pistola. Attraversarono così il

trapezio interno della barricata. Gli insorti, attenti

all'assalto imminente, volgevano loro le spalle. Soltanto

Mario, collocato all'estremità sinistra dello sbarramento, li

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vide passare, e quel gruppo della vittima e del carnefice si

illuminò della luce spettrale che aveva nell'anima.

A fatica, ma senza mai lasciarlo un istante, Valjean fece

scalare al prigioniero la barricata di via Mondétour.

Quando l'ebbero scavalcata, si trovarono soli nel vicolo.

Nessuno li vedeva. Il gomito delle case li nascondeva alla

vista degli insorti.

I cadaveri ritirati dalla barricata formavano a qualche passo

di distanza un orribile mucchio.

Tra i morti si distingueva una faccia livida, una capigliatura

disciolta, una mano forata e un seno di donna seminuda.

Era Eponina.

Javert guardò di sbieco quella morta e, profondamente

calmo, disse:

- Mi pare di conoscere quella ragazza.

Poi si volse a Valjean.

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Questi si mise la pistola sotto il braccio e fissò Javert con

uno sguardo che non aveva bisogno di parole per dire: -

Javert, sono io!

Javert rispose:

- Prenditi la rivincita.

Valjean trasse di tasca un coltello e lo sfoderò.

- Un coltello, - disse Javert; - hai ragione, è più adatto per

te!

Valjean tagliò la martingala che legava il collo al

prigioniero, poi tagliò le corde che aveva ai polsi, poi,

abbassandosi, tagliò quelle dei piedi. Rialzandosi, disse:

- Siete libero.

Javert non si stupiva facilmente; tuttavia, per quanto fosse

sempre padrone di sé, non poté trattenere una

commozione. Restò stupito e immobile.

Valjean continuo:

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- Non credo che potrò uscire di qui. Tuttavia, se per caso

ne uscissi, sappiate che abito in via Homme-Armé, numero

sette, sotto il nome di Fauchelevent.

Javert ebbe una contrazione di tigre che gli dischiuse un

angolo della bocca, e mormorò tra i denti:

- Bada!

- Andate, - disse Valjean.

Javert riprese:

- Hai detto Fauchelevent, via Homme-Armé, numero sette?

- Numero sette.

Si abbottonò l'abito, riprese la sua rigidità militare, fece un

mezzo giro, incrociò le braccia puntellandosi il mento con

una mano e s'incamminò verso i Mercati. Valjean lo

seguiva con lo sguardo. Dopo alcuni passi Javert si voltò e

gridò a Valjean:

- Voi mi annoiate. Uccidetemi piuttosto.

Javert non si accorgeva di non parlare col tu a Valjean.

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- Andate, - gli rispose Valjean.

Javert si allontanò a passi lenti e un momento dopo svoltò

l'angolo di via dei Predicatori.

Quando il poliziotto scomparve, Valjean scaricò la pistola in

aria.

Poi rientrò nella barricata e disse:

- E' fatto.

Intanto ecco che cos'era accaduto.

Più occupato dall'esterno che dall'interno della barricata,

Mario fino allora non aveva guardato attentamente lo

spione legato nel fondo oscuro della sala. Quando lo vide

alla luce del giorno mentre scavalcava la barricata per

andare a morte, lo riconobbe.

Un ricordo improvviso gli attraversò la mente. Si ricordò

dell'ispettore di via Pontoise, delle due pistole che gli aveva

dato e di cui egli, Mario, si era servito in quella stessa

barricata. Non solo ricordò la fisionomia ma anche il nome.

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Quel ricordo però era nebbioso e torbido come tutte le sue

idee.

Non fu un'affermazione ma una domanda che si rivolse,

chiedendosi:

- Non è forse quello l'ispettore di polizia che mi disse di

chiamarsi Javert?

Era forse ancora in tempo per fare qualcosa a favore di

quell'uomo? ma bisognava innanzitutto sapere se era

proprio Javert. Interpellò Enjolras che proprio allora aveva

preso posto all'altra estremità della barricata.

- Enjolras?

- Eh!

- Come si chiama quell'uomo?

- Quale?

- L'agente di polizia. Sai il nome?

- Certo, ce l'ha detto.

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- E come si chiama?

- Javert.

Mario si rizzò.

In quel momento si sentì il colpo di pistola.

E Valjean ricomparve dicendo:

- E' fatto.

Una fredda ombra attraversò il cuore di Mario.

20. I MORTI HANNO RAGIONE E I VIVI NON HANNO

TORTO

Stava per iniziare l'agonia della barricata.

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Tutto concorreva alla tragica maestà di quel supremo

momento.

Mille misteriosi rumori nell'aria, il respiro delle masse

armate in movimento nelle strade ma che non si vedevano,

il galoppo intermittente della cavalleria, il pesante

trabalzare dell'artiglieria in marcia, i fuochi di fila e le

cannonate che s'incrociavano nel dedalo di Parigi, i fumi

della battaglia che salivano dorati dal sole al di sopra dei

tetti, le grida lontane, incerte e confusamente terribili,

lampi di minaccia dappertutto, la campana a stormo di

Saint-Merry che ora aveva l'accento del singhiozzo, la

mitezza della stagione, lo splendore del cielo pieno di sole

e di nuvole, la bellezza della giornata e lo spaventoso

silenzio delle case.

Fin dal giorno precedente le file di case di via Chanvrerie

erano diventate due muraglie sinistre. Porte chiuse,

finestre chiuse, imposte chiuse.

In quell'epoca così diversa dall'attuale, quando arrivava

l'ora in cui il popolo voleva farla finita con uno stato di cose

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durato troppo a lungo, quando la collera universale era

sparsa nell'atmosfera, quando la città acconsentiva a

sollevare i suoi ciottoli, quando l'insurrezione faceva

sorridere la borghesia sussurrandole all'orecchio la sua

parola d'ordine, allora gli abitanti, compenetrati per così

dire della sommossa, diventavano gli ausiliari dei

combattenti, e la casa fraternizzava con la fortezza

improvvisata che a essa si appoggiava. Quando invece i

tempi non erano maturi, quando l'insurrezione non era

completamente approvata, quando la massa sconfessava il

movimento, allora i combattenti erano perduti, la città

tutt'intorno alla rivolta si mutava in deserto, le anime

s'agghiacciavano, si chiudeva ogni luogo di rifugio, e la via

diventava un passaggio per aiutare l'esercito a prendere la

barricata.

Non si può far marciare un popolo più presto di quello che

vuole.

Guai a chi tenta di forzargli la mano! Il popolo non si lascia

costringere. Allora, abbandona l'insurrezione a se stessa;

gli insorti diventano tanti appestati; Ogni casa è una rupe,

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ogni porta rifiuta di aprirsi, ogni facciata è un muro: muro

che vede, sente e non vuole. Potrebbe socchiudersi e

salvare; no, quel muro è un giudice, vi osserva e vi

condanna. Che cosa triste quelle case sbarrate! Sembrano

morte e sono vive. La vita è come sospesa, ma continua;

da ventiquattro ore nessuno è uscito e nessuno manca.

Nell'interno di quella rocca vanno, dormono, si alzano,

vivono in famiglia, bevono, mangiano, hanno paura: che

cosa terribile! La paura scusa quella formidabile

inospitalità, e c'è la circostanza attenuante dello

sbigottimento. Talvolta la paura è diventata anche

passione. Il terrore può cambiarsi in furia, come la

prudenza in rabbia; donde quella espressione così

profonda: "gli arrabbiati moderati". Ci sono eccessi di

supremo spavento da cui esce come da un lugubre fumo,

la collera. - Che cosa vogliono costoro? Non sono mai

contenti. Compromettono gli uomini pacifici.

Come se non ne avessimo abbastanza delle rivoluzioni! Che

cosa sono venuti a fare? Se la sbrighino ora! Peggio per

loro. Hanno quello che si meritano. E' una cosa che non ci

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riguarda. Intanto la nostra via è tutta crivellata dalle

pallottole. Un mucchio di mascalzoni. Soprattutto, non

aprite la porta! - E la casa assume l'aspetto di una tomba.

L'insorto davanti a quella porta agonizza; vede arrivare la

mitraglia e le sciabole sguainate, grida, sa che lo sentono

ma non gli apriranno; ci sono dei muri che potrebbero

proteggerlo, degli uomini che potrebbero salvarlo; quei

muri hanno orecchie di carne, e quegli uomini cuori di

pietra.

Chi accusare?

Nessuno e tutti.

I tempi immaturi in cui viviamo.

Sempre a suo rischio e pericolo, l'utopia si trasforma in

insurrezione, la protesta filosofica si trasforma in protesta

armata, Minerva si trasforma in Pallade. L'utopia che

diventa impaziente e si trasforma in sommossa sa quello

che l'attende. Il più delle volte arriva troppo presto; allora

si rassegna, e invece del trionfo accetta stoicamente la

catastrofe. Senza lamentarsi, anzi discolpandoli, essa serve

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coloro che la rinnegano, e la sua magnanimità consiste

nell'accettare l'abbandono. E' indomita contro l'ostacolo,

mite verso l'ingratitudine.

D'altronde, è ingratitudine?

Sì, dal punto di vista del genere umano.

No, dal punto di vista dell'individuo.

Il progresso è il modo d'essere dell'uomo. La vita generale

del genere umano si chiama progresso. Il progresso

cammina e percorre il grande viaggio umano e terrestre

verso la meta celeste e divina; ha le sue soste durante le

quali raduna il gregge in ritardo; ha le sue fermate in cui

medita davanti a qualche splendida terra di Canaan che si

svela all'improvviso al suo orizzonte; ha le sue notti in cui

dorme; e una delle più angosciose ansietà del pensatore è

di vedere l'ombra sull'anima umana, di toccare nelle

tenebre il progresso addormentato senza poterlo svegliare.

- "Dio è forse morto!" - diceva un giorno all'autore di

questo libro Gérard de Nerval, confondendo il progresso

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con Dio e l'interruzione del movimento con la morte

dell'Ente supremo.

Ha torto chi dispera. Il progresso si sveglia infallibilmente

e, tutto sommato, si potrebbe dire che ha camminato,

anche addormentato, perché è cresciuto. Quando lo

rivediamo in piedi, lo troviamo cresciuto. Essere sempre

tranquillo non dipende dal progresso, come non appartiene

al fiume. Non mettete dighe, non lanciatevi dei macigni;

l'ostacolo fa spumeggiare l'acqua e ribollire l'umanità. Di là

provengono i torbidi; ma dopo quei torbidi, si riconosce che

ha fatto del cammino. Finché non viene ristabilito l'ordine,

il quale non è altro che la pace universale, finché non

regnano l'armonia e l'unità, il progresso avrà per tappe le

rivoluzioni.

Che cosa è dunque il progresso? L'abbiamo detto: la vita

permanente dei popoli.

Orbene, accade talvolta che la vita momentanea degli

individui opponga resistenza alla vita esterna dell'umanità.

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Diciamolo senza amarezza, l'individuo ha il suo interesse

distinto, e può senza inganno guardare questo suo

interesse e difenderlo; il presente ha la sua quantità

scusabile di egoismo; la vita temporanea ha il suo diritto e

non è sempre tenuta a sacrificarsi all'avvenire. La

generazione che attualmente è di passaggio sulla terra non

è obbligata ad abbreviarlo per le generazioni future e che

sono in fondo uguali a lei. - Io esisto - mormora quel

qualcuno che si chiama Tutti - Io sono giovane e

innamorato, io sono vecchio e voglio risparmiarmi, io sono

padre di famiglia, lavoro, faccio buoni affari, ho delle case

da affittare, ho una rendita in titoli, sono contento, ho

moglie e figli, e tutto questo mi piace, voglio vivere,

lasciatemi in pace.

- Ed è da questo che in certe ore s'abbatte un freddo

profondo sulle magnanime avanguardie del genere umano.

D'altronde, bisogna convenire che l'utopia, facendo la

guerra, esce dalla sua sfera radiosa. Essa, la verità di

domani, prende a prestito dalla menzogna il suo

procedimento, la battaglia. Essa, l'avvenire, agisce come il

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passato; essa, l'idea pura, diventa via di fatto; associa al

suo eroismo una violenza, di cui è giusto che sia

responsabile: violenza di occasione e di ripiego, contraria ai

princìpi e per la quale è fatalmente punita. L'utopia-

insurrezione combatte col vecchio codice militare alla

mano; fucila le spie, condanna a morte i traditori, sopprime

gli esseri viventi e li getta nelle tenebre ignote; si serve

della morte: cosa grave. Pare che l'utopia non abbia più

fede nella sua luce che è la sua forza irresistibile c

incorruttibile. Colpisce con la spada; ma nessuna spada è

semplice; tutte le spade hanno il doppio taglio, e chi ferisce

con uno, si ferisce con l'altro.

Fatta questa riserva, con tutta severità, ci è impossibile

non ammirare, riescano o no, i gloriosi combattenti

dell'avvenire, i confessori dell'utopia. Anche quando non

riescono sono venerabili, e forse proprio nell'insuccesso

acquistano una maggiore maestà. La vittoria, quando

arriva secondo il progresso, merita l'applauso dei popoli;

ma una disfatta eroica merita la loro commozione; l'una è

magnifica, l'altra è sublime. Per noi che preferiamo il

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martirio al successo, John Brown è più grande di

Washington, e Pisacane è più grande di Garibaldi.

E' pur necessario che qualcuno stia per i vinti.

La società è ingiusta verso quei grandi pionieri

dell'avvenire che falliscono.

Si accusano i rivoluzionari di seminare lo spavento. Ogni

barricata sembra un attentato. Si incriminano le loro idee,

credono sospetto il loro scopo, temono le loro intenzioni

nascoste, denunciano la loro coscienza. Rimproverano loro

di innalzare, di costruire e ammassare contro il fatto

sociale dominante un cumulo di miserie, di dolori, di

iniquità, di lamenti, di disperazioni, e di strappare dai

bassifondi blocchi di tenebre per aprirvi dei spiragli e

combattere. Gridano loro: - Voi disselciate l'inferno! - Ma

essi potrebbero rispondere: Proprio per questo la nostra

barricata è fatta di buone intenzioni.

Certo, è preferibile la soluzione pacifica. Conveniamo che

quando si vedono le pietre si pensa all'orso, ed è una

buona volontà di cui la società si allarma. Ma dipende dalla

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società salvare se stessa, e noi facciamo appello proprio

alla sua buona volontà. Non è necessario nessun rimedio

violento. Studiare il male amichevolmente, constatarlo, poi

guarirlo: ecco a che cosa la invitiamo.

Comunque, anche caduti, soprattutto caduti, questi uomini

che su tutto il mondo, con l'occhio fisso alla Francia lottano

per la grande opera con la inflessibile logica dell'ideale,

sono augusti.

Essi danno la loro vita in puro dono per il progresso,

adempiono alla volontà della Provvidenza, compiono un

gesto religioso.

Obbedendo a una disposizione divina, discendono nella

tomba all'ora fissata, col medesimo disinteresse di un

attore che ha recitato la sua parte, e accettano quei

combattimenti senza speranza, quella stoica scomparsa,

per guidare verso le sue splendide e supreme conseguenze

universali il magnifico movimento umano iniziato in modo

irresistibile il 14 luglio 1789. Simili soldati sono dei

sacerdoti. La Rivoluzione francese è un'opera di Dio.

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Del resto, e bisogna aggiungere questa distinzione alle

altre già fatte in un precedente capitolo, ci sono le

rivoluzioni rifiutate che si chiamano sommosse. Quando

scoppia una insurrezione, è un'idea che subisce l'esame

davanti al popolo. Se il popolo lascia cadere la pallina nera,

l'idea è bocciata e l'insurrezione è un'impresa sballata.

Entrare in guerra a ogni invito, a ogni desiderio dell'utopia,

non è una dote dei popoli. Le nazioni non hanno sempre e

a ogni momento il temperamento dei martiri e degli eroi.

Sono positive. A priori, ripugnano l'insurrezione; prima di

tutto, perché essa ha quasi sempre come risultato una

catastrofe, e poi perché ha sempre per punto di partenza

una astrazione.

Infatti, e qui sta il bello, coloro che si sacrificano lo fanno

sempre e solo per l'ideale. Una insurrezione è un

entusiasmo.

L'entusiasmo può andare in collera, e quindi ricorrere alle

armi.

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Ma ogni insurrezione che prende di mira un governo o un

regime, ha una meta più alta. Così per esempio, e

insistiamo su questo, i capi dell'insurrezione del 1832, e in

particolare i giovani entusiasti di via Chanvrerie, non

combattevano precisamente contro Luigi Filippo; anzi, la

maggior parte, parlando francamente, rendevano giustizia

alle qualità di quel re che stava tra la monarchia e la

repubblica, e nessuno lo odiava. Essi assalivano il ramo

cadetto del diritto divino in Luigi Filippo, come avevano

assalito il ramo primogenito in Carlo Decimo; e quello che

volevano rovesciare, rovesciando la monarchia in Francia,

come abbiamo già spiegato, era l'usurpazione dell'uomo

sull'uomo e del privilegio sul diritto in tutto il mondo. Parigi

senza re ha per contraccolpo il mondo senza despoti. Essi

ragionavano così. Senza dubbio, il loro scopo era lontano,

forse vago e timoroso davanti allo sforzo, però era grande.

E' così. E si sacrificano per queste visioni, che per i

sacrificati sono sempre illusioni, ma illusioni alle quali, alla

fine, è commista tutta la certezza umana. L'insorto

poetizza e abbellisce l'insurrezione, e si lancia in quelle

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tragiche scene inebriandosi di quello che sta per fare. Forse

può riuscire.

Sono in pochi. Hanno di fronte un esercito intero. Ma

difendono il diritto, la legge naturale, la sovranità di

ciascuno su se stesso che non ha abdicazione possibile, la

giustizia, la verità, e all'occorrenza moriranno come i

trecento spartani. Non pensano a don Chisciotte ma a

Leonida. Vanno avanti, e una volta avviati, non

indietreggiano, si precipitano a testa bassa, sperando una

vittoria inaudita, la rivoluzione completata, il progresso

rimesso in libertà, l'ingrandimento del genere umano, la

liberazione universale, e, nel caso di sconfitta, le Termopili.

Questi combattimenti per il progresso non riescono, e ne

abbiamo detto il perché. La folla è restìa allo slancio dei

paladini.

Quelle pesanti masse che sono le moltitudini, fragili a

causa della loro stessa pesantezza, temono le avventure. E

nell'ideale c'è dell'avventura.

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Inoltre, non bisogna dimenticare che ci sono gli interessi,

poco amici dell'ideale e del sentimento. Talvolta lo stomaco

paralizza il cuore.

La bellezza e la grandezza della Francia consiste nel

mettere meno pancia degli altri popoli, e di stringere più

facilmente la correggia. E' la prima a svegliarsi, l'ultima ad

addormentarsi. Va avanti e indaga.

Questo perché è artista.

L'ideale non è altro che il punto culminante della logica

come il bello è la cima del vero. I popoli artisti sono anche i

popoli logici. Amare la bellezza significa amare la luce. Per

questo, la fiaccola dell'Europa, vale a dire della civiltà, fu

portata prima dalla Grecia, che la consegnò all'Italia, la

quale la consegnò alla Francia. Divini popoli illuminatori!

"Vitae lampada tradunt!".

Cosa meravigliosa! La poesia di un popolo è l'elemento del

suo progresso. La quantità di incivilimento si misura dalla

quantità di immaginazione. Però un popolo civilizzatore

deve restare un popolo virile. Corinto, sì; ma Sibari no. Chi

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diventa effeminato si imbastardisce. Non bisogna essere né

dilettante né virtuoso, ma artista. In materia di civiltà non

bisogna essere raffinati ma sublimi. A questa condizione, il

modello dell'ideale viene offerto al genere umano.

L'ideale moderno ha il suo tipo nell'arte e il suo mezzo

nella scienza. Per mezzo della scienza si realizzerà quella

augusta visione dei poeti che è il bello sociale. Si rifarà

l'Eden con A + B. Al punto in cui è giunta la civiltà, la

esattezza è un elemento necessario dello splendore, e il

sentimento artistico non è soltanto servito ma completato

dall'organo scientifico. La fantasia deve calcolare. L'arte

che conquista deve avere come punto di appoggio la

scienza che cammina. La solidità della cavalcatura è una

cosa importante. Lo spirito moderno è il genio della Grecia

che ha per vincolo il genio dell'India: Alessandro

sull'elefante.

Le razze pietrificate nel dogmatismo o demoralizzate dal

guadagno sono inadatte a guidare la civiltà. La

genuflessione davanti all'idolo o davanti allo scudo

atrofizza il muscolo che cammina e la volontà che va

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innanzi. L'estasi ieratica o mercantile diminuisce lo

splendore di un popolo, abbassa il suo orizzonte

abbassando il suo livello, e gli toglie quella intelligenza

umana e divina insieme dello scopo universale che forma le

nazioni missionarie. Babilonia e Cartagine non hanno un

ideale. Atene e Roma hanno e conservano, anche

attraverso lo spessore tenebroso dei secoli, un'aureola di

civiltà.

La Francia è della stessa razza della Grecia e dell'Italia. E'

ateniese per il bello e romana per il grande. Inoltre, essa è

buona; si dona; più degli altri popoli è disposta

all'abnegazione e al sacrificio. Però, questa disposizione ora

la prende e ora la lascia; ed è questo il grande pericolo per

quelli che corrono quando lei vuole soltanto camminare,

oppure camminano quando essa vuole fermarsi. La Francia

ha le sue ricadute di materialismo, e in certi momenti le

sue idee, che ostruiscono quel cervello sublime, non hanno

più niente che ricordi la grandezza francese, e hanno le

dimensioni del Missouri o della Carolina del Sud. Che farci?

La gigantessa fa parte della nana, l'immensa Francia ha i

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suoi capricci di piccolezza. Ecco tutto. Non c'è niente da

dire. I popoli, come gli astri, hanno il diritto d'eclisse. E

tutto va bene, purché ritorni la luce e l'eclissi non degeneri

in notte.

Alba e resurrezione sono sinonimi. La riapparizione della

luce è identica alla persistenza dell'io.

Constatiamo questi fatti con tranquillità. La morte sulla

barricata o la tomba nell'esilio, per l'abnegazione è una

eventualità accettabile. Il vero nome dell'abnegazione è

disinteresse. Gli abbandonati si lascino abbandonare, gli

esiliati si lascino esiliare, e noi limitiamoci a supplicare i

grandi popoli a non indietreggiare quando indietreggiano.

Col pretesto di tornare alla ragione, non bisogna andar

troppo oltre nella discesa.

La materia, il minuto, gli interessi, il ventre esistono; però

bisogna fare in modo che il ventre non diventi la sola

saggezza.

La vita momentanea ha il suo diritto, l'ammettiamo, ma

anche la vita permanente ha il suo diritto. L'essere saliti,

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ahimé! non impedisce di cadere. Questo si costata nella

storia più spesso che non si creda. Una nazione illustre

gusta l'ideale, poi morde il fango e lo trova buono; e se le

chiedono perché abbandona Socrate per Falstaff, risponde:

- Perché mi piacciono gli uomini di Stato.

Ancora una parola prima di continuare il nostro racconto.

Una battaglia come quella che stiamo descrivendo non è

altro che una convulsione per l'ideale. Il progresso

impastoiato è malaticcio e ha queste tragiche epilessie.

Questa malattia del progresso, la guerra civile, noi

l'abbiamo dovuta incontrare sulla nostra strada. E' una

delle fasi fatali, un atto e insieme un intermezzo del nostro

dramma, il cui perno è un dannato sociale, e il cui vero

titolo è: "il progresso".

Il progresso.

Questo grido che lanciamo spesso è tutto il nostro

pensiero. Al punto in cui siamo col nostro dramma, l'idea in

esso contenuta deve subire ancora una prova, ed è per

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questo che ci sarà concesso se non di sollevarne il velo

almeno di farne trasparire la luce.

Il libro che il lettore ha sotto gli occhi in questo momento

è, nell'insieme e nei particolari, qualunque possano essere

le sue interruzioni, le sue eccezioni e le sue debolezze, la

marcia dal male al bene, il cammino dall'ingiustizia alla

giustizia, dal falso al vero, dalla notte al giorno,

dall'appetito alla coscienza, dalla putrefazione alla vita,

dalla bestialità al dovere, dall'inferno al cielo, dal nulla a

Dio. Il suo punto di partenza è la materia, quello d'arrivo

l'anima. L'idra al principio, l'angelo alla fine.

21. GLI EROI

Improvvisamente il tamburo suonò la carica.

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L'attacco fu un uragano. La vigilia, nell'oscurità, gli

attaccanti si erano avvicinati alla barricata come una boa,

silenziosamente Ora, in piena luce, in una via a imbuto, la

sorpresa era del tutto impossibile; d'altronde, la forza s'era

già smascherata, il cannone aveva cominciato il suo ruggito

e l'esercito si precipitava sulla barricata. Ora l'abilità

consisteva nella furia.

Una numerosa colonna di fanteria, intervallata da guardie

nazionali e guardie municipali a piedi e appoggiata da

masse compatte che si sentivano senza vederle, sboccò

nella via a passo di carica, coi tamburi battenti, con le

trombe squillanti, con gli zappatori in testa, e

imperturbabile sotto i proiettili, piombò sulla barricata col

peso di una trave di bronzo contro un muro.

Il muro tenne fermo.

Gli insorti fecero un fuoco impetuoso. La barricata assalita

ebbe una criniera di lampi. L'assalto fu tanto forsennato

che la barricata fu per un momento inondata dagli

assalitori, ma si scrollò di dosso i soldati come il leone

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scuote i cani e si coprì di assediati come la scogliera si

copre di schiuma, per ricomparire un momento dopo

dirupata, nera e formidabile.

La colonna, costretta a ripiegare, restò compatta nella via,

allo scoperto, ma terribile, e rispose alla ridotta con una

fucileria spaventosa. Chiunque abbia visto un fuoco

d'artificio ricorda quel fascio formato da un incrociarsi di

fulmini che si chiama "rosa".

Pensate questa rosa non già verticale ma orizzontale, con

una pallottola, con un pallino, con un biscaglino

all'estremità di ciascuno dei suoi getti di fuoco, e mentre

sgrana la morte col suo grappolo di folgori. La barricata era

là sotto.

Dalle due parti c'era un'uguale decisione. Il coraggio era

quasi barbaro e si univa a un'eroica ferocia che cominciava

col sacrificio di se stesso. Era l'epoca in cui una guardia

nazionale si batteva come uno zuavo. La truppa voleva

farla finita, l'insurrezione voleva lottare. Quando si accetta

l'agonia nel vigore della gioventù, l'intrepidezza diventa

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frenesia. Ognuno in quella mischia era ingigantito dall'ora

suprema. La via fu tappezzata di cadaveri.

La barricata aveva a un'estremità Enjolras, all'altra Mario.

Il primo che era il comandante di tutta la barricata, si

teneva riparato; tre soldati caddero l'uno dietro l'altro

davanti alla sua feritoia senza essere stato scorto. Mario

invece combatteva allo scoperto, si offriva come bersaglio

sporgendo con più di mezzo busto dalla cima della ridotta.

Non c'è un prodigo più violento dell'avaro che prende il

morso per i denti; non c'è un uomo più terribile nell'azione

quanto un sognatore. Mario era tremendo e pensoso; stava

nella mischia come in un sogno; si sarebbe detto che un

fantasma facesse a schioppettate.

Le cartucce degli assediati si esaurivano, ma non i

sarcasmi. In quel turbine di tomba che li avvolgeva essi

ridevano.

Courfeyrac stava a testa nuda.

- Che cosa ne hai fatto del cappello? - chiese Bossuet.

E Courfeyrac rispose:

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- Sono riusciti a portarmelo via a cannonate.

Oppure dicevano delle frasi sdegnose.

- Capite! - esclamava Feuilly con amarezza. - Quegli

uomini (e citava i nomi, nomi noti e anche celebri, alcuni

dell'antico esercito) che avevano promesso di raggiungerci

e avevano giurato di aiutarci, che si erano impegnati

sull'onore, che sono i nostri generali, ecco che ci

abbandonano.

E Combeferre si limitava a rispondere con un grave sorriso:

- Ci sono persone che osservano le regole dell'onore come

le stelle, molto da lontano.

L'interno della barricata era talmente cosparso di cartucce

che pareva avesse nevicato.

Gli assalitori avevano il numero, gli insorti la posizione.

Essi stavano in cima a un muro e fulminavano a bruciapelo

i soldati, che inciampavano tra i morti e i feriti ed erano

impastoiati nella scarpata della barricata. Quella barricata,

costruita com'era e meravigliosamente rafforzata, era

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veramente una di quelle posizioni in cui un pugno di uomini

tiene in scacco una legione.

Tuttavia la colonna di attacco, sempre accresciuta e

ingrossata sotto la pioggia delle palle, si avvicinava

inesorabilmente, e ora, a poco a poco, a passo a passo, ma

con sicurezza, stringeva la barricata, come la vite stringe lo

strettoio.

Gli assalti si susseguivano e l'orrore cresceva.

Allora, su quel cumulo di selci, in quella via Chanvrerie

scoppiò una lotta degna d'un muro di Troia. Quegli uomini

sparuti, cenciosi, spossati, digiuni da ventiquattro ore,

senza aver dormito, che possedevano pochi colpi da

sparare e si tastavano le tasche vuote di cartucce, quasi

tutti feriti, con la testa o il braccio bendato da una fascia

sporca e insanguinata, che avevano negli abiti dei buchi da

cui colava sangue, armati soltanto di cattivi fucili e di

vecchie sciabole inattaccate, diventarono dei titani. La

barricata fu dieci volte raggiunta, assalita, scalata, ma mai

presa.

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Per farsi un'idea di quella lotta bisognerebbe immaginare di

appiccare il fuoco a un cumulo di coraggi terribili e di stare

a guardare l'incendio. Non era una mischia ma l'interno di

una fornace. Le bocche respiravano fiamme, i volti erano

straordinari; la forma umana vi pareva impossibile;i

combattenti fiammeggiavano, ed era una cosa formidabile

vedere andare e venire quel fumo rosso, quelle salamandre

della mischia. Rinunciamo a descrivere le scene successive

e simultanee di quella grandiosa carneficina. Soltanto

l'epopea ha diritto di dedicare dodicimila versi a una

battaglia.

Si sarebbe detto che stava lì l'inferno del bramanesimo, il

più terribile dei diciassette abissi, che il Veda chiama la

Foresta delle spade.

Si battevano a corpo a corpo, piede contro piede, a colpi di

pistola, a sciabolate, a pugni, da lontano, da vicino,

dall'alto, dal basso, da tutte le parti, dai tetti, dalle finestre

della bettola, dagli spiragli delle cantine, in cui alcuni erano

sgusciati. Uno contro sessanta. La facciata di Corinto

mezzo smantellata era orribile. La finestra, tatuata dalla

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mitraglia, aveva perduto vetri e telai ed era ridotta a un

buco informe tumultuosamente turato con le pietre.

Bossuet fu ucciso, Feuilly fu ucciso, Courfeyrac fu ucciso,

Joly fu ucciso; Combeferre trapassato da due baionettate

nel petto mentre rialzava un soldato ferito ebbe appena il

tempo di guardare il cielo e spirò.

Mario, sempre combattendo, era così crivellato di ferite

principalmente alla testa, che il suo volto spariva sotto il

sangue e pareva che avesse la faccia coperta da una

grossa pezzuola rossa.

Soltanto Enjolras era incolume. Quando non aveva più

armi, allungava una mano e un insorto gli dava una lama

qualunque. Non aveva più che un mozzicone della quarta

spada: una più di Francesco Primo a Melegnano.

Nei nostri vecchi poemi eroici, Esplandiano armato con una

bipenne di fuoco assale il gigantesco marchese Swantibore,

il quale si difende lapidando il cavaliere con le torri che

sradica. I nostri antichi affreschi ci mostrano i duchi di

Bretagna e di Borbone, a cavallo, armati di tutto punto,

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con stemmi e divise di guerra, che si affrontano con le

mazze alla mano, con celate, con gambali e guanti di ferro,

l'uno con la gualdrappa di ermellino e l'altro con una

gualdrappa azzurra; Bretagna col suo leone tra le due

estremità della corona, Borbone col casco fatto d'un

mostruoso giglio a visiera. Ma per essere magnifico non è

necessario portare, come Yvon, il morione ducale, né avere

in pugno come Esplandiano una fiamma viva, né come

Filete padre di Polidamante aver portato da Efiro una

buona armatura dono del re Eufete; basta sacrificare la

vita con convinzione e con fedeltà. Quel piccolo soldato

ingenuo, ieri contadino della Beauce o del Limosino, che

nel giardino del Lussemburgo, con la sua durlindana al

fianco circuisce le bambine; quel giovane pallido studente,

chino sopra un pezzo anatomico o sopra un libro, biondo

adolescente che si taglia la barba con le forbici; pigliateli

tutti e due, infondete a essi il senso del dovere, metteteli

l'uno contro l'altro nel crocicchio Boucherat oppure

nell'angiporto Planche-Mibray, fate che l'uno combatta per

la sua bandiera e l'altro per il suo ideale, e tutti e due

credano di combattere per la patria, e allora la lotta sarà

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colossale; e l'ombra prodotta da quel fantaccino e da quello

studente alle prese nel gran campo epico in cui si dibatte

l'umanità, sarà uguale all'ombra proiettata da Megarione re

della Licia piena di tigri, che stringe tra le sue braccia

l'immenso Aiace uguale agli dei.

23. CORPO A CORPO

Quando rimasero come capi soltanto Enjolras e Mario alle

due estremità della barricata, il centro sostenuto per tanto

tempo da Courfeyrac, Joly, Bossuet, Feuilly e Combeferre,

cedette. Il cannone, senza aprire una breccia praticabile,

aveva sbrecciato abbastanza largamente a mezzaluna il

centro della barricata; in quel punto, la cresta del muro,

sotto le palle, era crollata e i rottami, ora dentro ora

fuori,avevano finito con l'ammonticchiarsi dai due lati della

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trincea e formare due scarpate: una di dentro e l'altra di

fuori. Il pendìo esterno offriva all'assalto un piano inclinato.

Fu tentato l'ultimo assalto, che riuscì. La massa irta di

baionette e lanciata a passo di carica giunse irresistibile, e

il denso schieramento frontale della colonna d'assalto

apparve tra il fumo sopra la scarpata. Questa volta era

finita. Il gruppo degli insorti che difendeva il centro

indietreggiò disordinatamente.

Allora in alcuni si ridestò il fosco amore della vita. Presi di

mira da quella foresta di fucili non vollero più morire. E' un

momento quello in cui l'istinto della conservazione urla e la

bestia riappare nell'uomo. Erano addossati all'alta casa a

sei piani che formava il fondo della barricata. Quella casa

poteva essere la salvezza. Quella casa era sprangata e

come murata dal basso in alto. Ma prima che la truppa

fosse nell'interno della ridotta, una porta aveva il tempo di

aprirsi e di chiudersi, bastava la durata di un lampo, e la

porta di quella casa, socchiusa a un tratto e richiusa subito

rappresentava la vita per quei disperati. Dietro quella casa

c'erano le strade, la possibile fuga, lo spazio libero. Si

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misero a battere contro quella porta con i calci dei fucili e

con i piedi, chiamando, gridando, supplicando, giungendo

le mani. Nessuno aprì. Dal finestrino del terzo piano, la

testa del morto li guardava.

Ma Enjolras, Mario e sette o otto altri raggruppatisi con loro

s'erano lanciati e li proteggevano. Enjolras aveva gridato ai

soldati: - Non avanzate! - e un ufficiale che non aveva

ubbidito era stato ucciso da Enjolras. Egli stava adesso nel

breve spazio interno alla barricata, addossato alla casa di

Corinto, con la spada in una mano, la carabina nell'altra,

tenendo aperta la porta della bettola, di cui sbarrava il

passaggio agli assalitori. Gridò ai disperati: - C'è una sola

porta aperta, ed è questa! - E coprendoli col suo corpo,

affrontando da solo un battaglione, se li fece passare di

dietro. Tutti si precipitarono. Egli, maneggiando la carabina

come se fosse un bastone, e descrivendo quello che gli

schermitori chiamano un mulinello, deviò le baionette

intorno e davanti a sé, ed entrò per ultimo nella bettola. Fu

un momento terribile; i soldati volevano entrare e gli

insorti volevano chiudere; e la porta fu finalmente chiusa

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con tanta violenza che staccò, lasciandole attaccate allo

stipite, le cinque dita di un soldato che vi si era

aggrappato.

Mario restò fuori. Una fucilata gli aveva spezzato una

clavicola; si sentì svenire e stava per cadere quando, con

gli occhi già chiusi, ebbe la sensazione di una mano

vigorosa che lo afferrava.

Nel momento dello svenimento ebbe appena il tempo di

formulare questo pensiero unito al supremo ricordo di

Cosetta: Sono prigioniero; mi fucileranno.

Enjolras, non vedendo Mario tra i rifugiati nella bettola

ebbe la stessa idea. Ma quello era il momento in cui

ognuno ha appena il tempo di pensare alla propria morte.

Pose la sbarra alla porta, tirò i chiavistelli e chiuse a doppia

mandata la serratura, mentre di fuori i soldati con i fucili e

gli zappatori con le scuri la battevano furiosamente. Gli

assalitori stavano riuniti contro quella porta. Cominciava

l'assedio alla bettola.

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I soldati erano pieni di collera. La morte del sergente di

artiglieria li aveva irritati, e inoltre, cosa più funesta. nelle

ore precedenti all'attacco era corsa voce che gli insorti

mutilavano i prigionieri e che nella bettola c'era il cadavere

di un soldato decapitato. Questo genere di dicerie fatali

s'accompagna ordinariamente alle guerre civili; e fu

appunto una falsa voce che più tardi causò la catastrofe di

via Transnonain.

Appena barricata la porta, Enjolras disse ai compagni:

- Vendiamo cara la pelle!

Poi si avvicinò alla tavola su cui giacevano Mabeuf e

Gavroche.

Sotto il drappo nero si vedevano le due forme ritte e

rigide: una grande, l'altra piccola, e i due volti si

delineavano confusamente sotto le fredde pieghe del

sudario. Una mano, la mano del vecchio, usciva di sotto il

panno e penzolava.

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Enjolras si chinò e baciò quella mano venerabile, come il

giorno avanti aveva baciato la fronte. Erano gli unici baci

dati in vita sua.

Abbreviamo. La barricata aveva lottato come una porta di

Tebe; la bettola lottò come una casa di Saragozza. Simili

resistenze sono feroci. Si vuol morire purché si uccida.

Quando Suchet dice:

- Arrendetevi!

Palafox risponde:

- Dopo la guerra a cannonate, la guerra a coltello.

Nulla mancò all'assalto della bettola Hucheloup, né le selci

che piovevano dalle finestre e dal tetto sugli assedianti e

che esasperavano i soldati con le loro orribili ammaccature,

né le fucilate dalle cantine e dalle soffitte, né il furore

dell'attacco, né la rabbia della difesa, né infine, quando la

porta fu abbattuta, la frenetica follia della strage.

Precipitandosi nella bettola, inciampando con i piedi nei

battenti della porta sfondata, gli assalitori non trovarono

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neppure un combattente. La scala a chiocciola, tagliata a

colpi di scure, giaceva in mezzo alla sala, dove alcuni feriti

finivano di spirare, e tutti i viventi erano saliti al primo

piano, dove per il buco del pavimento, che era stato

l'ingresso della scala, scoppiò un fuoco terrorizzante. Erano

le ultime cartucce. Quando queste furono consumate,

quando quei formidabili agonizzanti non ebbero più né

polvere né palle, ognuno prese due delle bottiglie di cui

abbiamo parlato, messe in disparte da Enjolras, e tennero

fronte alla scalata con quelle mazze spaventosamente

fragili.

Erano bottiglie di acido solforico. Noi raccontiamo come

sono le cupe circostanze della carneficina. L'assedio,

ahimé! si fa scudo di tutto. Il fuoco greco non disonorò

Archimede, la pece bollente non disonorò Baiardo. Tutta la

guerra è orrore, e non c'è da scegliere. La fucileria degli

assedianti, benché impacciata e dal basso in alto, era

micidiale. L'orlo del buco nel pavimento fu ben presto

circondato di teste morte, da cui colavano lunghi fili rossi e

fumanti. Il fracasso era inesprimibile. Il fumo rinchiuso e

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bruciante faceva quasi notte in quella battaglia. Ci

mancano le parole per esprimere l'orrore giunto a quel

grado. In quella lotta diventata ormai infernale non c'erano

più uomini; non c'erano più dei giganti contro colossi. Quel

luogo somigliava più alle descrizioni di Milton e di Dante

che a quelle di Omero, demoni che assalivano, spettri che

resistevano. Era l'eroismo mostruoso.

23. ORESTE DIGIUNO E PILADE UBRIACO

Alla fine, montando l'uno sull'altro, aiutandosi con lo

scheletro della scala, arrampicandosi ai muri,

aggrappandosi al soffitto, abbattendo la resistenza degli

ultimi difensori sull'orlo della botola, una ventina di uomini

tra soldati, guardie nazionali e guardie municipali, alla

rinfusa, la maggior parte sfigurati dalle ferite al volto

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ricevute in quella terribile ascensione, accecati dal sangue,

furiosi, inferociti, irruppero nella sala del primo piano. In

piedi, restava soltanto Enjolras. Senza cartucce, senza

spada, aveva in mano soltanto la canna della carabina, di

cui aveva spezzato il calcio sulla testa di quelli che

entravano.

Aveva messo il bigliardo tra lui e gli assalitori,

indietreggiando verso un angolo della stanza, e là, con lo

sguardo fiero, con la testa alta, con quel mozzicone d'arma

in pugno, era ancora abbastanza minaccioso per fare del

vuoto attorno a lui. Una voce gridò:

- E' il capo! è quello che ha ucciso l'artigliere. Dal momento

che s'è messo là, ci sta bene; ci resti pure. Fuciliamolo sul

posto.

- Fucilatemi, - disse Enjolras.

E gettando via il mozzicone di carabina, incrociò le braccia

e offrì il petto.

L'audacia di ben morire commuove sempre. Non appena

Enjolras incrociò le braccia accettando la morte, cessò nella

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sala lo strepito della lotta e quel caos si mutò subito in una

calma sepolcrale. Sembrava che la minacciosa maestà di

Enjolras, disarmato e immobile, pesasse su quel tumulto, e

che soltanto con l'autorità del suo sguardo tranquillo, quel

giovane, l'unico che non avesse una ferita, altero,

insanguinato, bellissimo, indifferente come un uomo

invulnerabile, costringesse quella sinistra turba a ucciderlo

con rispetto. La sua bellezza, accresciuta in quel momento

dalla fierezza, era uno splendore; e siccome non pareva più

stanco di quel che non fosse ferito, dopo quelle tremende

ventiquattr'ore trascorse, era vermiglio e roseo.

Forse parlava di lui quel testimonio che più tardi davanti al

consiglio di guerra diceva: - C'era un insorto che udii

chiamare Apollo. - Una guardia nazionale che aveva preso

di mira Enjolras abbassò l'arma dicendo:

- Mi pare di fucilare un fiore!

Dodici uomini si schierarono nell'angolo opposto a Enjolras.

Prepararono silenziosamente i loro fucili.

Un sergente gridò:

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- Pronti!

Intervenne un ufficiale.

- Aspettate!

E rivolgendosi a Enjolras:

- Volete che vi bendino gli occhi?

- No.

- Siete voi quello che ha ucciso il sergente d'artiglieria?

- Sì.

Da qualche minuto Grantaire s'era svegliato.

Ricordiamo che Grantaire dormiva dal giorno precedente

nella sala superiore della bettola, seduto sopra una sedia e

appoggiato a un tavolino. Aveva realizzato in tutta la sua

forza la vecchia metafora: ubriaco morto. L'abominevole

intruglio di acquavite, birra, assenzio l'aveva immerso nel

letargo. Poiché il tavolino a cui stava appoggiato era

piccolo e non poteva servire da barricata, glielo lasciarono,

ed egli era rimasto sempre nella stessa posizione, riverso

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sul tavolino con la testa tra bottiglie, bicchieri e boccali,

dormendo di quel sonno profondo dell'orso intorpidito e

della mignatta sazia. Nulla era valso a destarlo, né la

fucileria, né le cannonate, né la mitraglia che penetrava

nella stanza attraverso la finestra, né il prodigioso strepito

dell'assalto. Rispondeva di tanto in tanto al cannone con un

ronfo. Pareva che stesse in attesa di una palla che gli

risparmiasse la fatica di svegliarsi. Parecchi cadaveri gli

giacevano attorno, e alla prima occhiata nulla lo

distingueva da quei profondi dormienti della morte.

Il rumore non sveglia un ubriaco, ma il silenzio sì. E' una

stranezza che abbiamo notato spesso. Il crollare di ogni

cosa attorno a lui accresceva il sonno di Grantaire; la

rovina lo cullava; invece quella specie di sosta del tumulto

davanti a Enjolras fu una scossa per il suo sonno pesante.

Fu per lui come quando una vettura al galoppo si ferma di

botto e i viaggiatori assopiti si svegliano. Grantaire si rizzò

di soprassalto, stese le braccia, si fregò gli occhi, guardò,

sbadigliò e capì.

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L'ubriachezza quando finisce somiglia a una tenda che si

lacera.

Si scorge tutt'insieme in una sola occhiata quello che

nascondeva.

Tutto si affaccia d'un tratto alla memoria; e l'ubriacone che

non sa nulla di quanto è accaduto da ventiquattro ore, non

ha neppure finito di schiudere le palpebre che già è al

corrente di tutto. Le idee gli ritornano con una improvvisa

lucidità. L'oblio prodotto dall'ebbrezza, specie di nebbia che

accieca il cervello, si dissipa e cede ii campo alla chiara e

netta ossessione delle cose reali.

I soldati, con l'occhio fisso su Enjolras, non s'erano

neanche accorti di Grantaire, relegato com'era in un angolo

e quasi nascosto dietro il bigliardo. Il sergente si accingeva

a ripetere l'ordine: -Pronti! - quando udirono a un tratto

una voce che gridò forte accanto a essi:

- Viva la repubblica! Ci sono anch'io!

Grantaire s'era alzato.

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L'immenso bagliore di tutto il combattimento al quale

Grantaire non aveva partecipato,apparve nello sguardo

lucente dell'ubriacone trasfigurato.

Ripeté: - Viva la repubblica! - Attraversò la sala con passo

fermo e andò a prendere posto davanti ai fucili, ritto

accanto a Enjolras, dicendo:

- Fatene due con un colpo solo!

E rivoltosi a Enjolras, gli chiese gentilmente:

- Permetti?

Enjolras gli strinse la mano sorridendo. Il suo sorriso non

era finito che i fucili spararono. Enjolras, colpito da otto

fucilate, restò addossato al muro come se le palle ve lo

avessero inchiodato. Soltanto la testa si chinò. Grantaire,

fulminato gli si abbatté ai piedi.

Poco dopo, i soldati sloggiarono gli insorti rifugiati alla

sommità della casa. Questi tiravano attraverso una grata di

legno nel granaio. Si combatteva fin sopra i tetti. Si

gettavano i corpi dalle finestre, alcuni vivi. Due soldati, che

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tentavano di rialzare l'omnibus fracassato, furono uccisi da

due colpi di carabina tirati dagli abbaini. Un uomo in blusa

era precipitato di lassù, con una baionetta nel ventre, e

rantolava a terra. Un soldato e un insorto scivolavano sul

pendio del tetto: non vollero lasciarsi e caddero tenendosi

stretti in un abbraccio feroce.

Uguale lotta avveniva in cantina; grida, fucilate, calpestio

feroce; poi silenzio. La barricata era presa.

I soldati cominciarono a perquisire le case attorno,

inseguendo i fuggitivi.

24. PRIGIONIERO

Mario era prigioniero. Prigioniero di Giovanni Valjean.

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La mano che l'aveva afferrato alle spalle, mentre cadeva

perdendo la conoscenza, era quella di Valjean.

Valjean non aveva partecipato al combattimento, ma vi si

era esposto soltanto. Senza di lui, in quella suprema fase

di agonia nessuno avrebbe pensato ai feriti; grazie a lui,

presente dappertutto nella carneficina come una

Provvidenza, quelli che cadevano erano rialzati, trasportati

nella sala al pianterreno e medicati. Negli intervalli,

riparava la barricata. Ma le sue mani non fecero nulla che

somigliasse a un colpo, a un attacco o anche a una difesa

personale. Taceva e soccorreva. Del resto, aveva appena

qualche graffio. Le pallottole lo avevano sempre schivato.

Se entrando in quel sepolcro, il suicidio faceva parte dei

suoi scopi segreti, era fallito sotto questo aspetto. Ma

dubitiamo che avesse pensato al suicidio, che è un gesto

condannato dalla religione.

Nella densa caligine del combattimento, pareva che Valjean

non vedesse Mario, e invece non l'aveva mai perduto di

vista; e quando lo vide abbattuto da una fucilata, con

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l'agilità di una tigre, gli piombò sopra come a una preda e

se lo portò via.

In quel momento l'assalto era così violentemente

concentrato su Enjolras e sulla porta della bettola che

nessuno scorse Valjean attraversare il campo disselciato

della barricata, sostenendo sulle braccia Mario svenuto e

sparire dietro l'angolo della casa di Corinto.

Il lettore ricorderà che quell'angolo formava una specie di

promontorio sulla strada, riparando dalle pallottole e dalla

mitraglia, e anche dagli sguardi, pochi metri quadrati di

terreno.

Così talvolta negli incendi una stanza non brucia, così nei

mari più tempestosi, al di là di un promontorio o al di là di

una scogliera, c'è un cantuccio tranquillo. In quella specie

di ripiegamento del trapezio interno della barricata aveva

agonizzato Eponina.

Lì Valjean si fermò, depose Mario a terra, si addossò al

muro e guardò attorno. La situazione era spaventevole.

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Per il momento, forse per due o tre minuti, quell'angolo di

muro era un ricovero. Ma come uscire da quel massacro?

Ricordava l'angoscia in cui si era trovato otto anni prima in

via Polonceau e del modo in cui era riuscito a sfuggire; ma

ciò che allora era difficile adesso pareva impossibile.

Davanti a lui stava quella implacabile e sorda casa a sei

piani, che pareva abitata soltanto dal cadavere prono alla

finestra; a destra aveva la barricata abbastanza bassa che

chiudeva via Petite-Truanderie; sembrava facile scavalcare

quell'ostacolo, ma al di là della cresta della barricata si

scorgeva una fila di baionette. Era la fanteria, appostata al

di là della barricata. Varcare la barricata significava andare

a cercare un fuoco di fila, e ogni testa che fosse apparsa

sulla cima del muro di pietra sarebbe servita di bersaglio a

sessanta fucili. A sinistra, dietro la cantonata, c'era il

campo di battaglia, cioè la morte.

Che fare?

Soltanto un uccello avrebbe potuto cavarsi di là.

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Bisognava decidersi subito, trovare un espediente,

appigliarsi a un partito. A pochi passi da lui si combatteva.

Per fortuna, tutti si accanivano contro un punto solo: la

porta della bettola. Ma se a un soldato fosse venuta l'idea

di aggirare la casa o di assalirla di fianco, tutto sarebbe

finito per Valjean.

Questi guardò la casa di fronte a lui, guardò la barricata

vicina, poi guardò a terra con la violenza del momento

supremo, come se volesse scavarsi un buco con gli occhi.

A furia di guardare, in quella sua agonia si disegnò

qualcosa di confusamente percettibile e prese forma ai suoi

piedi, come se lo sguardo avesse avuto la capacità di far

sorgere la cosa richiesta.

A qualche passo da lui, ai piedi della piccola barricata così

spietatamente custodita e spiata di fuori, sotto delle selci

che la nascondevano in parte, vide una grata di ferro posta

a livello del suolo. Quella grata, formata da grosse sbarre

trasversali, era larga circa due piedi quadrati, la cornice di

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lastre che la manteneva era stata divelta, e anche la grata

era quasi divelta.

Attraverso le sbarre, s'intravedeva un vano buio, qualcosa

di simile alla gola di un camino o d'una cisterna. Valjean

ebbe un fremito. La sua vecchia scienza delle evasioni gli si

presentò alla mente come un bagliore. Scostare le selci,

sollevare la grata, caricarsi sulle spalle Mario inerte come

un corpo morto, calarsi con quel fardello sulle spalle,

aiutandosi con i gomiti e con i ginocchi, in quella specie di

pozzo fortunatamente poco profondo, lasciarsi ricadere

sopra la testa la pesante botola di ferro, sulla quale i sassi

smossi si rovesciarono di nuovo, prendere piede su una

superficie lastricata a tre metri al di sotto del suolo, fu cosa

di qualche minuto appena, eseguita come nel delirio, con

una forza da gigante e una rapidità di aquila.

Si trovò con Mario sempre svenuto in una specie di lungo

corridoio sotterraneo, dove c'era pace profonda, silenzio

assoluto, notte.

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Provò di nuovo la stessa sensazione che aveva provato

quando dalla via era finito nel convento; però questa volta

non portava più Cosetta ma Mario.

Adesso udiva appena, al di sopra di sé, come un vago

mormorio, il formidabile tumulto della bettola presa

d'assalto.

Libro 2

L'INTESTINO DEL LEVIATAN

1. LA TERRA IMPOVERITA DAL MARE

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Parigi ogni anno butta nell'acqua venticinque milioni. E non

è una metafora. Come, e in che modo? Di giorno e di

notte. Con che scopo? Nessuno. Con quale pensiero? senza

pensarci. Perché? per niente. Per mezzo di quale organo?

per mezzo del suo intestino. E qual è questo intestino? la

fogna.

Venticinque milioni è la più modesta delle somme

approssimative date dalle valutazioni speciali.

La scienza, dopo aver proceduto lungamente a tentoni,

oggi sa che il concime più fecondo ed efficace è il concime

umano. A nostra vergogna dobbiamo notare che i cinesi lo

sapevano prima di noi.

Non c'è contadino cinese, dice Eckeberg, che, recandosi in

città, non ne riporti, alle due estremità del suo bambù, due

secchi pieni di ciò che noi chiamiamo pozzo nero. Per

mezzo del concime umano, la campagna in Cina è ancora

giovane come ai tempi di Abramo, e il frumento cinese

rende fino a centoventi volte. Nessun guano è paragonabile

per fertilità ai rifiuti della capitale. Una grande città è il più

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potente stercorario. Usare della città per concimare la

campagna significa essere certi del risultato. Se il nostro

oro è fimo in compenso il nostro fimo è oro.

Che cosa ne fanno di questo oro-concime? Lo buttano via.

Si spediscono con grandi spese convogli di navi per

raccogliere al polo australe gli escrementi delle procellarie

e dei pinguini, e si butta a mare l'incalcolabile elemento di

ricchezza che si ha sottomano: tutto il concime umano e

animale che il mondo perde, se fosse restituito alla terra

invece di gettarlo nell'acqua, basterebbe a nutrirlo.

I mucchi di immondizie raccolti agli angoli delle vie, le

bigonce trabalzate per via durante la notte, le fetide botti

della nettezza urbana, i luridi scoli di melma sotterranea

che il selciato vi nasconde, sapete che cosa sono? Sono i

prati fioriti, l'erba verde, il timo, la salvia; sono la

selvaggina, il bestiame, il muggito dei buoi alla sera, il

fieno odoroso, il frumento dorato, il pane sulla nostra

tavola, il sangue caldo nelle nostre vene, la salute, la gioia,

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la vita. Così vuole quella misteriosa creazione che è

trasformazione sulla terra e trasfigurazione in cielo.

Raccogliete quegli avanzi nel gran crogiuolo, e ne uscirà la

vostra abbondanza. Nutrire la terra è nutrire gli uomini.

Voi siete padroni di perdere tale ricchezza e di ritenermi

ridicolo; ma questo è il capolavoro della vostra ignoranza.

Le statistiche hanno calcolato che la sola Francia, per la

bocca dei suoi fiumi, versa ogni anno all'Atlantico mezzo

miliardo.

Notate che con quei cinquecento milioni si pagherebbe un

quarto delle spese del bilancio. Ma l'abilità dell'uomo è tale

che preferisce sbarazzarsene gettandoli nell'acqua. E' la

sostanza del popolo che viene portata via, qui a goccia a

goccia, là a ondate, dal miserabile vomito delle nostre

fogne nei fiumi, e dal gigantesco vomito dei fiumi

nell'oceano. Ogni fiotto di spurgo delle nostre cloache ci

costa mille franchi. Per questo la terra diventa povera e

l'acqua inquinata; la fame esce dal solco e la malattia dal

fiume.

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E' notorio, per esempio, che il Tamigi avvelena Londra.

Quanto a Parigi, in questi ultimi anni, si è dovuta trasferire

più a valle, al di sotto dell'ultimo ponte, la maggior parte

degli sbocchi delle fognature.

Un duplice apparecchio tubolare provvisto di valvole e di

chiuse di sfogo, aspirante e premente, un sistema

elementare di fognatura, semplice come il polmone

dell'uomo, è già in funzione in molti comuni d'Inghilterra;

basterebbe a condurre nella nostra città l'acqua pura dei

campi e a respingere nella campagna l'acqua grassa della

città; e questo va e vieni, che è il più semplice di tutti,

tratterrebbe in casa nostra i cinquecento milioni che

gettiamo fuori. Ma si pensa a ben altro.

Il sistema attuale fa il male con l'intenzione di fare il bene;

l'intenzione è buona, il risultato è triste. Credono di

purgare la città e fanno intristire la popolazione. Una fogna

è un malinteso.

Quando il drenaggio, con la sua duplice funzione di

restituire quello che prende, avrà sostituito la fogna,

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semplice lavaggio che impoverisce, allora, combinando

tutto questo con i dati di una nuova economia sociale, sarà

decuplicato il prodotto della terra e il problema della

miseria sarà particolarmente attenuato. Se poi vi

aggiungete anche la soppressione dei parassitismi, l'avrete

risolto completamente.

Intanto, la ricchezza pubblica se ne va a mare e la

dispersione continua. L'Europa si rovina così per

esaurimento.

Quanto alla Francia, abbiamo indicato la cifra. Ora, poiché

Parigi contiene una venticinquesima parte della

popolazione francese, e poiché i rifiuti parigini sono i più

ricchi, ci teniamo al di sotto della verità calcolando a

venticinque milioni la perdita di Parigi nel mezzo miliardo

che la Francia butta via ogni anno.

Questi venticinque milioni impiegati in pubblica assistenza

raddoppierebbero lo splendore della capitale. Essa invece li

spende in cloache, cosicché si può dire che la grande

prodigalità, la festa meravigliosa, la pazzia, l'orgia, la

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dispersione dell'oro, il fasto, il lusso, la magnificenza di

Parigi è la sua fogna.

Così, nella cecità d'una cattiva economia politica si fa

annegare e si lascia andare alla deriva, a perdersi nei

gorghi, il benessere di tutti. Ci dovrebbero essere delle reti

di Saint-Cloud per la pubblica ricchezza.

Economicamente il fatto può riassumersi così: Parigi è un

secchio senza fondo.

Questa città modello, questo figurino delle capitali ben

fatte, di cui ogni popolo vuole avere una copia, questa

metropoli dell'ideale, questa patria augusta dell'iniziativa,

dell'impulso e dell'esperimento, questo centro e ritrovo

degli ingegni, questa città nazione, questo alveare

dell'avvenire, questo meraviglioso insieme di Babilonia e di

Corinto, dal punto di vista ora accennato farebbe

meravigliare un contadino cinese.

Imitate Parigi e vi rovinerete.

Del resto, specialmente in questo sciupio insensato, Parigi

non fa altro che imitare.

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Queste sorprendenti assurdità non sono nuove. Non si

tratta di sciocchezze recenti. Gli antichi agivano come i

moderni. "Le cloache di Roma, dice Liebig, assorbirono

tutto il benessere del contadino romano". Quando ebbe

rovinato con la sua fognatura la campagna romana, Roma

esaurì l'Italia, e quand'ebbe messo l'Italia nella sua cloaca,

vi versò dentro la Sicilia, poi la Sardegna, poi l'Africa. La

cloaca di Roma ha inghiottito il mondo. Offriva il suo gorgo

alla città e all'universo, "urbi et orbi". Città eterna, cloaca

insondabile.

In queste come in altre cose, Roma dà l'esempio. E Parigi

segue questo esempio con tutta la stoltezza propria della

città di spirito.

Per i bisogni dell'operazione sulla quale già ci siamo

spiegati, Parigi ha sotto di sé un'altra Parigi, una Parigi di

fogne, con le sue vie, i suoi crocicchi, le sue piazze, i suoi

angiporti, le sue arterie e la sua circolazione. E' di fango,

con in meno la forma umana.

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Non bisogna adulare nessuno, neppure un grande popolo;

dove c'è tutto, c'è anche l'ignominioso accanto al sublime;

e se Parigi contiene Atene, la città della intelligenza, Tiro,

la città della forza, Sparta, la città della virtù, Ninive, la

città del prodigio, contiene pure Lutezia, la città del fango.

D'altronde, il segno della potenza sta anche in questo, e la

titanica sentina di Parigi realizza tra i monumenti lo strano

ideale rappresentato nell'umanità da alcuni uomini, come

Machiavelli, Bacone, Mirabeau: il grandioso obiettivo.

Il sottosuolo di Parigi, se l'occhio potesse attraversarne la

superficie, presenterebbe l'aspetto di una colossale

madrepora.

Una spugna non ha maggior numero di buchi e di corridoi

della zolla di terra di sei leghe di circonferenza, su cui posa

l'antica città. Senza tener conto delle catacombe, che

formano il sotterraneo a parte, senza tener conto della

inestricabile rete della conduttura del gas, del vasto

sistema tubolare per la distribuzione dell'acqua potabile, le

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sole fogne formano un prodigioso e tenebroso intreccio, un

labirinto che ha per filo conduttore il proprio declivio.

Là in quella umida caligine appare il sorcio, che sembra il

frutto della gestazione di Parigi.

2. STORIA ANTICA DELLA CLOACA

Se si potesse scoperchiare Parigi, la rete sotterranea delle

cloache vista a volo d'uccello, presenterebbe sulle due rive

una specie di grossa ramaglia innestata al fiume. Sulla riva

destra, la cloaca di cinta sarà il tronco di quella ramaglia, i

condotti secondari saranno i rami, e gli angiporti i

ramoscelli.

Questa immagine è soltanto sommaria ed è esatta soltanto

in parte, giacché l'angolo retto, abituale in quella specie di

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ramificazioni sotterranee, è rarissimo nelle ramificazioni

vegetali.

Per farsi un'idea più esatta di quella strana pianta

geometrica, bisogna supporre di vedere un bizzarro

alfabeto orientale, disegnato su uno sfondo nero, intricato

come un cespuglio, le cui lettere difformi siano saldate le

une alle altre, in una confusione apparente e come a caso,

ora agli angoli ora alle estremità.

Le sentine e le cloache hanno una parte importante nel

Medioevo, nel Basso Impero e nell'antico Oriente. Vi

nasceva la peste e vi morivano i despoti; le moltitudini

guardavano con un timore quasi religioso quei letti di

putrefazione, quelle mostruose culle della morte. La fossa

dei vermi di Benares non è meno mostruosa della fossa dei

leoni di Babilonia. Stando ai libri rabbinici, Teglatphalasar

giurava in nome della sentina di Ninive. Dalla fogna di

Munster, Giovanni di Leyda faceva spuntare la sua falsa

luna; dal pozzo nero di Kekhscheb, il menecmo orientale

Mokanna, il profeta velato del Khorassan, faceva spuntare

il suo falso sole.

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La storia degli uomini si riflette in quella delle cloache. Le

gemonie raccontano di Roma. La fogna di Parigi è stata

una cosa formidabile; è stata sepolcro e asilo; il delitto,

l'intelligenza, la protesta sociale, la libertà di coscienza, il

pensiero, il furto, tutto quello che le leggi umane

perseguitano e hanno perseguitato si è nascosto in quel

buco: i "maillotins" nel secolo decimoquarto, i "tirelaines"

nel decimoquinto, gli ugonotti nel decimosesto, gli

illuminati di Marin nel decimosettimo, i briganti nel

decimottavo. Cento anni or sono ne usciva una pugnalata

notturna, e vi scivolava dentro il ladro in pericolo. Il bosco

aveva la caverna, Parigi la fogna. La pezzenteria parigina

aveva la cloaca come una succursale della Corte dei

Miracoli, e venuta la sera, rientrava, astuta e feroce, nella

fogna Maubuée come in un'alcova.

Chi lavorava quotidianamente nell'angiporto Vide-Gousset

o in via Coupe-Gorge era naturale che avesse per domicilio

notturno la vicina cloaca. Quanti ricordi! Fantasmi d'ogni

specie affollano quei lunghi corridoi solitari; putridume e

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miasmi dappertutto; qua e là uno spiraglio da cui Villon di

dentro chiacchiera con Rabelais di fuori.

La fogna dell'antica Parigi è il ritrovo di tutti i rifiuti e di

tutti i tentativi; l'economia politica ci vede un detrito, la

filosofia sociale un residuo.

La cloaca è la coscienza della città. Tutto vi converge e

tutto vi si confronta. In quel livido luogo, ci sono le tenebre

ma non ci sono segreti. Ogni cosa ha la sua forma vera o

per lo meno la sua forma definitiva. Il mucchio di

immondizie ha questo di buono: che non è bugiardo. In

esso si è rifugiata l'ingenuità. Ci si trova la maschera di

Basilio, ma se ne vede il cartone e i lacci, il di dietro come

il di fuori, ed è macchiettata da un onesto fango. Le sta

accanto il finto naso di Scapino. Tutte le sudicerie della

civiltà, appena fuori servizio, cadono in quella fossa di

verità, a cui mette capo l'immensa decadenza sociale. Sono

inghiottite, ma messe in mostra. Quella mescolanza è una

confessione. Qui non ci sono false apparenze, non c'è

nessun intonaco; la sozzura si denuda, e la sua è una

denudazione assoluta, sbaraglio delle illusioni e dei

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miraggi, non è altro se non quello che è, con la sinistra

figura di quel che finisce. Realtà e sparizione. Là, un coccio

di bottiglia rivela l'ubriachezza, il manico d'un paniere

racconta la familiarità, il torso di mela che ebbe opinioni

letterarie ritorna torso di mela, l'effigie del soldo si macchia

francamente di verderame, lo sputo di Caifa incontra il

vomito di Falstaff, il luigi d'oro uscito dalla bisca si urta col

chiodo da cui pende la corda del suicida, un feto livido

rotola avviluppato in un indumento a pagliuzze d'oro che

ha ballato il martedì grasso all'Opera, un tocco che ha

giudicato gli uomini si avvoltola con un putridume che fu la

gonnella di Ghita; è più che fratellanza, familiarità. Tutto

ciò che prima si imbellettava, adesso si inzacchera.

L'ultimo velo è strappato. La cloaca è cinica. Dice tutto.

Ma, al tempo stesso, la cloaca ci dà un insegnamento.

L'abbiamo detto poco fa, la storia passa per la fogna. Le

"notti di san Bartolomeo" vi filtrano a goccia a goccia tra le

selci. I grandi assassini pubblici, le stragi politiche e

religiose attraversano quel sotterraneo della civiltà e vi

spingono i loro cadaveri.

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All'occhio del pensatore, tutti gli omicidi storici sono là

nella schifosa penombra, inginocchiati, con un lembo del

loro sudario per grembiale, che lavano lugubremente

l'opera loro. C'è Luigi Undicesimo con Tristano, Francesco

Primo con Duprat, Carlo Nono con la madre, Richelieu con

Luigi Tredicesimo, c'è Louvois, c'è Letellier, ci sono Hébert

e Maillard; grattano le pietre e cercano di far scomparire le

tracce dei loro misfatti. Sotto quelle volte si sente la scopa

di quegli spettri, vi si respira l'enorme fetore delle

catastrofi sociali, si scorgono negli angoli dei riflessi

rossastri e vi scorre un'acqua terribile in cui si sono lavate

delle mani insanguinate.

L'osservatore sociale deve penetrare tra quelle ombre che

fanno parte del suo laboratorio. La filosofia è il microscopio

del pensiero, ogni cosa tenta di sottrarvisi ma nessuna le

sfugge. E' inutile tergiversare. Quale parte di sé si mostra

tergiversando?

La vergognosa. La filosofia col suo sguardo probo persegue

il male e non gli permette di sfuggire nel nulla. Essa

riconosce chiunque nello sbiadire delle cose che

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svaniscono, nel rimpicciolirsi delle cose che spariscono.

Essa ricostruisce la porpora dai cenci e la donna dagli

stracci. Con la cloaca rifà la città, con la melma rifà i

costumi. Dal coccio rifà l'anfora oppure l'orcio; da

un'impronta d'unghia su una pergamena nota la differenza

che passa tra un ebreo della Judengasse e un ebreo del

Ghetto. Ritrova in quello che resta quello che è stato, il

bene, il male, il falso, il vero, la macchia di sangue della

reggia e lo sgorbio inchiostrato della caverna, la goccia di

sego del lupanare, le prove subite, le tentazioni accettate

con piacere, le orge vomitate, le pieghe che hanno fatto i

caratteri nell'abbassarsi, la traccia della prostituzione nelle

anime che ne erano capaci per la loro ignoranza, e sulla

veste dei facchini di Roma trova la traccia della gomitata di

Messalina.

3. BRUNESEAU

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La fogna di Parigi nel medioevo era leggendaria. Nel

cinquecento Enrico Secondo tentò un sondaggio che abortì.

Cento anni fa, la cloaca, come attesta Mercier, fu

abbandonata.

Tale era questa antica Parigi in preda alle discussioni, alle

indecisioni, al tentennamento. Per molto tempo fu piuttosto

stolta. Più tardi, l'89 mostrò come si sviluppa l'ingegno di

una città. Ma nel buon tempo antico la capitale aveva poco

cervello; non sapeva fare le cose sue né moralmente né

materialmente, non sapeva spazzare via le sue immondizie

come i suoi abusi. Tutto era di ostacolo, tutto sollevava

una discussione. La folla, per esempio, era ribelle a

qualsiasi itinerario.

Come nella città non si arrivava a intendersi, così nella

fogna non si arrivava a orientarsi. In alto l'inintelligibile, in

basso l'inestricabile; sotto la confusione delle lingue c'era

quella dei sotterranei; Dedalo foderava Babele.

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Talvolta, la fogna parigina era presa dal capriccio di

traboccare, come se quel Nilo sconosciuto fosse stato a un

tratto vinto dalla collera, e avvenivano allora delle

inondazioni di immondizie. In certi momenti quello stomaco

della città digeriva male, la cloaca rifluiva verso la gola, e

Parigi gustava nuovamente il sapore della melma. Queste

rassomiglianze della fogna col rimorso avevano del buono;

erano tanti avvertimenti, quantunque male accolti. La città

si indignava che il suo fango avesse tanta audacia; non

ammetteva che la lordura rigurgitasse. Bisognava

scacciarla meglio.

L'inondazione del 1807 è uno dei ricordi vivi dei parigini

ottantenni. Il fango si sparse a mo' di croce in piazza delle

Vittorie, dove è la statua di Luigi Quattordicesimo; entrò in

via Sant'Onorato dalle due bocche dei Campi Elisi, in via

San Fiorentino dalla fogna della stessa via, in via Pierre-à-

Poisson da via Sonnerie, in via Popincourt dalla fogna di via

Chemin-Vert, in via Roquette da quella di via Lappe; coprì

la cunetta dei Campi Elisi fino all'altezza di trentacinque

centimetri; e nella parte meridionale, dalla cloaca della

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Senna, che adempiva le sue funzioni in senso inverso,

penetrò nelle vie Mazarino, Echaudé e Marais, dove si

fermò dopo averne percorso centonove metri, a pochi passi

dalla casa già abitata da Racine, rispettando del secolo

decimosesto più il poeta che il re. Raggiunse la massima

densità in via San Pietro, dove arrivò a tre piedi al di sopra

del canaletto di scolo, e la massima estensione in via San

Sabino ove si distese per la lunghezza di duecentotrentotto

metri.

Al principio di questo secolo, la fogna di Parigi era ancora

un luogo misterioso. Il fango non può mai avere un buon

nome; ma qui la cattiva fama arrivò fino al terrore. Parigi

sapeva confusamente di avere sotto di sé un terribile

labirinto. Se ne parlava come di quella mostruosa

pozzanghera di Tebe, popolata da scolopendre lunghe

quindici piedi e che avrebbe potuto servire da bagno a

Behemot. I grossi stivali dei fognaioli non s'avventuravano

mai al di là di certi punti conosciuti. Non erano molto

lontani i tempi in cui le bigonce della nettezza urbana,

dall'alto delle quali Sainte-Foix fraternizzava col marchese

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Créqui, si scaricavano direttamente nella fogna. Quanto

alla pulitura delle fogne, questa funzione veniva rimessa

agli acquazzoni, i quali ingombravano più che spazzare.

Roma lasciava ancora qualche poesia alla sua cloaca

chiamandola Gemonie; Parigi insultava la propria cloaca

chiamandola Buco fetido. La scienza e la superstizione

erano d'accordo nell'averla in orrore. Il Buco fetido non

ripugnava meno all'igiene che alla leggenda. Il lupo

mannaro era nato sotto la fetida volta della fogna

Mouffetard; i cadaveri dei bambini mostruosi erano stati

gettati in quella della Barillerie; Fagon aveva attribuito la

terribile febbre maligna del 1685 alla botola aperta della

chiavica del Marais, che restò aperta fino al 1833 in via San

Luigi quasi dirimpetto all'insegna del Messaggero Galante.

La bocca di fogna in via Mortellerie era celebre per le

pestilenze che ne uscivano; col suo cancello di ferro a

punte, che pareva una fila di denti, sembrava, in quella via

fatale, come la gola di un drago che soffiasse l'inferno sugli

uomini. La fantasia popolare condiva la tetra sentina

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parigina di non so quale nauseante miscuglio d'infinito; la

cloaca era senza fondo, era il baratro.

Nemmeno alla polizia veniva voglia d'esplorare quelle

regioni lebbrose. Chi avrebbe osato avventurarsi in

quell'ignoto, scandagliare quell'ombra, andare alla scoperta

di quell'abisso?

Era una cosa spaventosa. Eppure qualcuno ci si accinse, e

la cloaca trovò il suo Cristoforo Colombo.

Un giorno, nel 1805, in una delle rare apparizioni che

faceva l'imperatore a Parigi, il ministro dell'interno andò ad

assistere alla levata del suo padrone. Si sentiva nel

Carousel lo strascichìo delle sciabole di tutti quei soldati

straordinari della grande repubblica e del grande impero;

alla porta di Napoleone c'era un ingombro di uomini:

uomini del Reno, dell'Escaut, dell'Adige e del Nilo;

compagni d'arme di Joubert, di Dasaix, di Marceau, di

Hoche, di Kléber; granatieri di Magonza, genieri di Genova,

ussari che erano stati visti dalle Piramidi, artiglieri

inzaccherati dalla palla di cannone di Junot, corazzieri che

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avevano preso d'assalto la flotta ancorata nel Zuyderzee;

alcuni avevano seguito Bonaparte sul ponte di Lodi, altri

erano stati compagni di Murat nella trincea di Mantova,

altri avevano preceduto Lannes nella strada incassata di

Montebello. Tutto l'esercito d'allora si trovava nel cortile

delle Tuileries rappresentato da una squadra o da un

plotone e montava la guardia al riposo di Napoleone. Era

quella l'epoca splendida in cui la Grande Armata aveva

dietro di sé Marengo e davanti Austerlitz.

- Sire, - disse il ministro dell'interno a Napoleone, - ieri ho

visto l'uomo più intrepido del vostro impero.

- Chi è costui? - chiese Napoleone. - Che cosa ha fatto?

- Vuol fare una cosa, sire.

- Quale?

- Visitare le fogne di Parigi.

Quest'uomo esisteva e si chiamava Bruneseau.

IV PARTICOLARI IGNORATI La visita ebbe luogo. Fu una

campagna terribile, una tenebrosa battaglia contro la peste

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e l'asfissia. Fu pure un viaggio di scoperte. Un operaio

intelligente e allora giovanissimo, che partecipò a quella

spedizione, alcuni anni fa narrava ancora dei particolari

curiosi, che Bruneseau credette opportuno omettere nel

suo rapporto al prefetto di polizia, come indegni dello stile

amministrativo. I processi di disinfezione erano molto

rudimentali a quell'epoca. Bruneseau aveva appena

oltrepassato le prime arterie della rete sotterranea, quando

otto operai su venti si rifiutarono di proseguire.

L'operazione era complicata, giacché all'ispezione si

accompagnava la pulitura; bisognava espurgare e insieme

misurare; notare le grate e le bocche, descrivere le

diramazioni, indicare le correnti nei punti di separazione,

riconoscere le rispettive circoscrizioni dei diversi bacini,

esaminare le piccole fogne innestate alla principale,

misurare l'altezza di ciascun condotto e la larghezza,

determinare infine le coordinate di ogni bocca d'entrata sia

dal suolo della cloaca che dal lastrico della via. Si avanzava

a fatica; spesso le scale affondavano in tre piedi di melma,

le lanterne agonizzavano nei miasmi, e di tanto in tanto

bisognava portar via un fognaiolo svenuto. In certi punti

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c'era il precipizio: il suolo era sfondato, il lastrico crollato e

la fogna si era mutata in un pozzo senza fondo. Non c'era

più piede; un uomo scomparve improvvisamente e si durò

fatica a tirarlo in salvo. Su consiglio di Fourcroy, si

accendevano a intervalli, nei luoghi sufficientemente

ripuliti, grandi gabbie piene di stoppa imbevuta di resina.

Qua e là le pareti erano coperte di funghi deformi che

parevano tanti tumori. Anche la pietra pareva malata in

quell'ambiente che toglieva il respiro.

Nella sua esplorazione, Bruneseau procedette da monte a

valle. Nel punto di biforcazione dei due condotti del Grand-

Hurleur, decifrò la data del 1550 su una pietra sporgente

che indicava il limite dove si era fermato Filiberto Delorme,

incaricato da Enrico Secondo di ispezionare la cloaca

parigina: era il marchio impresso alla fogna dal secolo

decimosesto. Bruneseau riconobbe la mano d'opera del

Seicento nel condotto Ponceau e in quello di via Vecchia del

Tempio, forniti di volta tra il 1600 e il 1650, e la mano

d'opera del Settecento nella sezione occidentale del canale

collettore, incassata e fornita di volta nel 1740. Quelle due

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volte, e soprattutto la meno antica, quella del 1740, erano

più lesionate e più decrepite della muratura della fogna di

cinta la quale risale al 1412: epoca in cui il ruscello d'acqua

sorgiva di Ménilmontant fu elevato alla dignità di grande

cloaca di Parigi, promozione analoga a quella di un

contadino che diventasse primo cameriere del re, qualche

cosa come Gros-Jean trasformato in Lebel.

Qua e là, e principalmente sotto il Palazzo di giustizia, si

credette di riconoscere delle antiche segrete praticate nella

fogna stessa; schifosi "in pace", in uno dei quali pendeva

dalla volta un anello di ferro. Furono fatte anche altre

scoperte strane, tra cui lo scheletro di un orangutango

scomparso nel 1800 dal Giardino zoologico: scomparsa

probabilmente connessa con la famosa e incontestabile

apparizione del diavolo in via dei Bernardini, nell'ultimo

anno del secolo decimottavo. Il povero diavolo aveva finito

con l'annegare nella fogna.

Sotto il lungo condotto a volta, che mette capo a l'Arche-

Marion, una gerla da cenciaiolo, perfettamente conservata,

formò l'ammirazione degli intenditori. Dappertutto la mota,

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che i fognaioli erano arrivati a maneggiare intrepidamente,

abbondava di oggetti preziosi, gioielli d'oro e d'argento,

pietre e monete. Se un gigante avesse potuto passare al

vaglio quella cloaca, avrebbe raccolto la ricchezza dei

secoli. Nel punto di separazione delle due fogne di via del

Tempio e via Saint-Avoye fu raccolta una strana medaglia

ugonotta di rame, che recava da una parte un porco con un

cappello cardinalizio e dall'altra un lupo con la tiara.

La scoperta più sorprendente avvenne all'imboccatura della

grande cloaca, che una volta era stata chiusa da un

cancello, di cui restavano soltanto i cardini. Da uno di

questi cardini pendeva una specie di cencio informe e

sudicio che ondeggiava nell'ombra e s'andava sfilacciando

definitivamente.

Bruneseau, avvicinata la lanterna, lo esaminò. Era di

finissima tela batista, e in uno degli angoli meno rosi si

distingueva una corona araldica ricamata al di sopra di

queste sette lettere:

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LAVBESP. La corona era marchesale e le sette lettere

significavano "Laubespine". Era quello un pezzo del

lenzuolo funebre di Marat.

In gioventù, quando faceva parte della casa del conte

d'Artois in qualità di medico delle scuderie, Marat aveva

avuto una relazione con una gran dama, di cui gli era

rimasto quel lenzuolo dimenticato o piuttosto lasciatogli

come ricordo. Poiché quello era l'unico lenzuolo fine

ritrovato nella sua casa al momento della sua morte, ce lo

avevano avvolto; furono alcune vecchie ad avvolgere in

quel lino che aveva conosciuto ore di piacere, il tragico

Amico del popolo.

Bruneseau passò oltre lasciando il cencio dove stava, senza

distruggerlo. Per disprezzo o per rispetto? Marat meritava

l'uno e l'altro. E poi, il destino vi era impresso abbastanza

chiaramente per esitare a toccarlo. Del resto, bisogna

sempre lasciare alle cose del sepolcro il posto che

scelgono. Tutto sommato, era una strana reliquia; una

marchesa vi aveva dormito su; Marat vi si era imputridito;

aveva attraversato il Pantheon per andare a finire tra i

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sorci della cloaca. Quel cencio, di cui un tempo Watteau

avrebbe disegnato allegramente tutte le pieghe, aveva

finito con l'essere degno dello sguardo fisso di Dante.

La visita completa della cloaca parigina durò sette anni, dal

1805 al 1817. Pur andando avanti, Bruneseau indicava,

dirigeva e portava a termine alcuni considerevoli lavori; nel

1808 abbassò lo scolo del Ponceau, creando nuove vie

dappertutto; nel 1809, spinse la fogna sotto la via San

Dionigi fino alla fontana degli Innocenti; nel 1810, la spinse

sotto la via Froidmanteau e la Salpêtrière, nel 1811 sotto la

via nuova dei Petits-Pères, sotto le vie Mail e Echarpe,

sotto la piazza reale, e nel 1812 sotto la via della Place e

sotto la Chaussée d'Antin. Nello stesso tempo faceva

disinfettare e risanare tutta la rete. Fin dal secondo anno,

Bruneseau aveva associato al lavoro il proprio genero

Nargaud.

Fu così che all'inizio di questo secolo la vecchia società

ripulì il suo sottosuolo. Ripulirono almeno questo. Volgendo

uno sguardo retrospettivo all'antica fogna parigina, si vede

che essa era tortuosa, disselciata, rotta da lesioni e

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crepacci, tagliata da scoscendimenti, frastagliata da gomiti

bizzarri, da salite e discese senza senso, puzzolente,

selvaggia, feroce, buia, spaventosa. Ramificazioni in ogni

senso, incroci di condutture, bracci secondari, zampe d'oca,

stelle come trincee, intestini ciechi. angiporti, volte

salnitrate, pozzi infetti, gocciolìo dall'alto delle pareti,

tenebre; nulla uguagliava in orrore quella vecchia cripta

puzzolente, apparato digerente di Babilonia, antro, fossa,

abisso attraversato da vie, titanica topaia in cui la mente

crede di veder vagare nell'ombra quell'immensa talpa cieca

che è il passato.

Questa, ripetiamo, era la cloaca d'un tempo.

5. PROGRESSO ATTUALE

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Oggi la cloaca è pulita, fredda, diritta, corretta. Realizza

quasi l'ideale di ciò che in Inghilterra si intende con la

parola "respectable". E' decente e grigiastra; è perfetta e

potrebbe quasi dirsi attillata; somiglia a un fornitore

divenuto consigliere di Stato. Vi si vede quasi chiaro, e la

melma vi si comporta decentemente. A prima vista si

prenderebbe volentieri per uno di quei corridoi sotterranei,

così comuni una volta e così utili alle fughe dei monarchi e

dei principi in quel buon tempo antico "quando il popolo

amava i suoi re".

La cloaca attuale è una bella cloaca. Vi regna lo stile puro;

il classico alessandrino rettilineo che, scacciato dalla

poesia, pare si sia rifugiato nell'architettura, sembra

mescolato a tutte le pietre di quella lunga volta tenebrosa

e biancastra. Ogni scaricatoio è un'arcata; la via Rivoli fa

scuola fin nella cloaca.

Del resto, se c'è un luogo in cui la linea geometrica possa

dirsi a posto, è senza dubbio la fossa stercoraria di una

grande città, dove tutto deve essere subordinato alla via

più corta. La cloaca ha preso oggi un certo aspetto

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ufficiale. Gli stessi rapporti di polizia, di cui qualche volta è

oggetto, non le mancano più di rispetto. Le parole che la

caratterizzano nella lingua amministrativa sono elevate e

dignitose. Quello che si chiamava budello si chiama

galleria, quello che si diceva buco, si dice occhio. Villon non

riconoscerebbe più la sua antica dimora di ripiego. Quella

rete di sotterranei ha pur sempre la sua immemorabile

popolazione di roditori, più pullulante che mai, e di tanto in

tanto qualche sorcio veterano si arrischia a mettere la testa

fuori della fogna ed esamina i parigini; ma anche quel

bestiame si addomestica, contento com'è del suo palazzo

sotterraneo.

La cloaca non ha più nulla della ferocia primitiva, e la

pioggia che una volta l'insudiciava, ora la lava. Però, non

fidatevene troppo. I miasmi l'abitano ancora. E' piuttosto

ipocrita che irreprensibile. La prefettura di polizia e la

commissione sanitaria hanno un bel da fare. Malgrado tutti

i sistemi di disinfezione, esala un certo odore sospetto,

come Tartufo dopo la confessione.

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Tuttavia, conveniamone, siccome lo spazzamento, tutto

sommato, è un omaggio che la fogna rende alla civiltà, e

siccome, sotto questo punto di vista, la coscienza di

Tartufo rappresenta un progresso sulle stalle di Augia, è

certo che la cloaca di Parigi è migliorata.

E' più che un progresso, una trasmutazione. Fra l'antica

cloaca e l'attuale c'è una rivoluzione. Chi ha fatto questa

rivoluzione?

L'uomo che tutti dimenticano e che noi abbiamo nominato,

Bruneseau.

6. PROGRESSO FUTURO

Scavare la cloaca di Parigi non è stata una cosa da niente.

Gli ultimi dieci secoli vi hanno lavorato senza poterla

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terminare, come non hanno potuto completare la città. La

cloaca, infatti, subisce tutti i contraccolpi

dell'accrescimento di Parigi. E' una specie di polpo

tenebroso dai mille tentacoli che cresce di sotto

simultaneamente alla città di sopra. Ogni volta che la città

apre una via, la cloaca allunga un braccio. L'antica

monarchia aveva costruito soltanto ventitremila e trecento

metri di fognatura; a questo punto era pervenuta Parigi il

primo gennaio 1806. Da quell'epoca, di cui riparleremo tra

breve, l'opera fu ripresa e continuata utilmente e

alacremente; Napoleone ne ha costruito - queste cifre sono

curiose - quattromilaottocento metri; Luigi Diciottesimo

cinquemilasettecentonove; Carlo Decimo

diecimilaottocentotrentasei; Luigi Filippo ottantanovemila e

venti; la Repubblica del 1848 ventitremilatrecentottantuno;

il regime attuale settantamilacinquecento; in tutto, a

quest'ora, duecentoventiseimilaseicentodieci metri, cioè

sessanta leghe di fogna; enorme intestino di Parigi, oscura

ramificazione sempre in crescenza, costruzione ignorata e

immensa.

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Come si vede, il dedalo sotterraneo di Parigi è oggi più che

il decuplo di quello che era al principio del secolo. E'

difficile immaginare quanta perseveranza e quanti sforzi ci

siano voluti per portare la cloaca al grado di perfezione

relativa in cui è attualmente. Era già molto che la vecchia

amministrazione monarchica e, nell'ultimo decennio del

Settecento, il municipio rivoluzionario fossero riusciti a

costruire le cinque leghe di fognatura esistenti prima del

1806. L'opera loro era intralciata da ostacoli di ogni

genere: gli uni inerenti alla natura del suolo, gli altri

derivanti dai pregiudizi stessi della popolazione lavoratrice

di Parigi. Parigi è costruita sopra un terreno

straordinariamente ribelle alla zappa, al piccone, allo

scandaglio, all'opera dell'uomo. Non c'è cosa più difficile

che forare e penetrare in quella formazione geologica sulla

quale si innalza la meravigliosa formazione storica che è

Parigi. Non appena il lavoro, sotto una forma qualsiasi,

penetra e si avventura in quello strato di alluvioni, le

resistenze sotterranee abbondano. Sono argille pastose,

sorgenti d'acqua, rocce dure, fanghiglie molli e profonde

che la scienza speciale chiama "mostarde". Il piccone

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avanza faticosamente tra sedimenti calcarei alternati da

sottili strati di argilla e da strati schistosi incrostati di gusci

d'ostriche contemporanei agli oceani preadamitici. Talora

un ruscello sfonda improvvisamente una volta in

costruzione e inonda gli operai; oppure un'ondata di marna

irrompe e si precipita con la furia di una cateratta

spezzando come vetro le più grosse travi di sostegno.

Anche di recente, alla Villette, quando si è dovuto far

passare la fogna collettrice sotto il canale San Martino

senza interromperne la navigazione e senza asciugarlo, si è

aperta una crepa nel letto del canale, e l'acqua ha invaso

d'un tratto il cantiere sotterraneo, nonostante l'impiego

delle pompe di prosciugamento: si è dovuto far cercare da

un palombaro la fessura nel fondo della gran vasca, e non

ci è voluto poco per chiuderla. Altrove, nelle vicinanze della

Senna, e anche in luoghi abbastanza lontani dal fiume,

come per esempio a Belleville, nella Grande Rue e al

passaggio Lunière, si trovano delle sabbie mobili, nelle

quali si affonda e dove un uomo può sparire

improvvisamente. Aggiungete le asfissie per i miasmi, il

seppellimento sotto le frane, gli scoscendimenti repentini;

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aggiungete il tifo che lentamente attacca gli operai. Ai

nostri giorni, dopo aver scavato la galleria di Clichy con

una spalletta laterale per ricevere un condotto tubolare

delle acque dell'Ourcq, lavoro eseguito con un taglio di

dieci metri di profondità; dopo aver coperto a volta la

Bièvre, dal boulevard dell'Ospedale fino alla Senna,

superando frane, aiutandosi con i puntelli orizzontali e con

gli scavi di materie spesso putride; dopo aver costruito la

fognatura dalla barriera Blanche alla strada d'Aubervilliers,

allo scopo di liberare Parigi dalle acque torrenziali di

Montmartre e aprire uno scolo alla padule fluviale di nove

ettari che imputridiva vicino alla barriera dei Martiri, e ciò

mediante un lavoro di quattro mesi, continuato giorno e

notte, a undici metri di profondità; dopo aver costruito

sotterraneamente e senza aprire fosse, cosa affatto nuova,

una fogna nella via Barre-du-Bec a sei metri di profondità

dal suolo, il direttore Monnot è morto. Dopo aver coperto di

volte tremila metri di fogne su tutti i punti della città, dalla

via Traversa Sant'Antonio a quella di Lourcine; dopo avere

col ramo dell'Arbalète liberato dalle inondazioni pluviali il

crocicchio Censier-Mouffetard; dopo aver costruito la fogna

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San Giorgio con sassi e bitume in mezzo alle sabbie mobili;

dopo aver diretto il pericoloso abbassamento del condotto

di Nostra Signora di Nazaret, l'ingegner Duleau è morto.

Non c'è bollettino per questi atti di valore, che pure sono

più utili delle carneficine bestiali dei campi di battaglia.

Le fogne di Parigi nel 1832 erano ben lontane dallo stato

attuale.

Bruneseau aveva dato la spinta, ma ci volle il colera per

determinare la vasta ricostruzione che si è avuta in

seguito. E' sorprendente dire, per esempio, che una parte

della cloaca di cinta, detta Canal Grande, come a Venezia,

nel 1821 imputridiva ancora a cielo aperto in via Gourdes.

Solo nel 1823 la città di Parigi ha trovato nel suo taschino i

duecentosessantaseimilaottanta franchi e sei centesimi

necessari per coprire quella turpitudine. I tre pozzi

assorbenti del Combat, della Cunette e di Saint-Mandé coi

loro scaricatoi, le loro macchine, gli smaltitoi e le

diramazioni di spurgo datano soltanto dal 1836. Il ventre di

Parigi è stato rinnovato e, come abbiamo già detto, più che

decuplicato da un quarto di secolo.

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Trent'anni or sono, all'epoca dell'insurrezione del 5 e 6

giugno, in molti luoghi c'era ancora quasi l'antica fogna.

Moltissime vie, oggi leggermente convesse, allora erano

concave; si vedevano spesso, nel punto in declivio, a cui

mettevano capo i versanti di una via o di un crocicchio,

larghe inferriate quadrate, a grosse sbarre, il cui ferro

luccicava, forbito com'era dal calpestìo della folla,

sdrucciolevoli e pericolose per le carrozze tanto che spesso

i cavalli vi cadevano. La lingua ufficiale del genio civile

chiamava quei punti e quelle grate col nome espressivo di

"cassis". Nel 1832 in molti luoghi, come in via della Stella,

di San Luigi, del Tempio, Vecchia del Tempio, Nostra

Signora di Nazaret, Folie-Méricourt, riva dei Fiori, via del

Piccolo Muschio, di Normandia, del Pont-aux-Biches, del

Marais, sobborgo San Martino, via Nostra Signora delle

Vittorie; sobborgo Montmartre, via Grange-Batelière,

Campi Elisi, via Jacob e via Tour, l'antica cloaca gotica

mostrava ancora cinicamente le sue fauci. Erano enormi

bocche di sasso, talvolta circondate da pilastrini, con una

sfrontatezza monumentale.

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Nel 1806, Parigi aveva ancora quasi la stessa lunghezza di

fogne constatata nel maggio 1663:

cinquemilatrecentoventotto tese. Dopo Bruneseau, il primo

gennaio 1832 ne esistevano quarantamilatrecento metri.

Dal 1806 al 1831 ne erano stati costruiti in media ogni

anno settecentocinquanta metri; poi hanno costruito ogni

anno otto o anche diecimila metri di galleria, con muratura

di piccoli materiali a calce idraulica e su fondo di bitume. A

duecento franchi al metro, le sessanta leghe dell'attuale

cloaca di Parigi rappresentano quarantotto milioni.

Oltre al progresso economico accennato in principio, gravi

problemi di igiene pubblica si connettono a questo

immenso problema: la fognatura di Parigi.

Parigi si trova fra due strati, uno d'acqua, l'altro d'aria.

Quello dell'acqua, giacente a una profondità sotterranea

abbastanza grande ma già raggiunto con due pozzi, è

formato da un sedimento di argilla verde situato tra la

creta e il calcare giurassico, e può essere rappresentato da

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un disco di venticinque leghe di raggio. Una quantità di

fiumi e di ruscelli ne trapelano:

in un bicchiere d'acqua del pozzo di Grenelle si bevono

insieme le acque della Senna, della Marna, dell'Yonne,

dell'Oise, del Cher, della Vienna e della Loira. Lo strato

d'acqua è salubre, poiché procede prima dal cielo, poi dalla

terra; lo strato d'aria è malsano perché viene dalla fogna.

Tutti i miasmi della cloaca si mescolano all'aria della città,

donde il suo odore cattivo. E' stato scientificamente

constatato che l'aria presa di sopra a un letamaio e più

pura di quella presa al di sopra di Parigi.

Nell'avvenire, con l'aiuto del progresso, col

perfezionamento delle macchine e col diffondersi della luce,

s'impiegherà lo strato d'acqua per purificare quello d'aria;

vale a dire per lavare la fogna. Ben inteso che per pulitura

della fogna noi intendiamo la restituzione del fango alla

terra, rinvio del letame al suolo e del concime ai campi. Per

questo semplice fatto ci sarà, per la comunità sociale,

diminuzione di miseria e accrescimento di salute.

Attualmente, le malattie parigine irradiano a cinquanta

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leghe di distanza dal Louvre, preso come mozzo di questa

ruota pestilenziale.

Si potrebbe dire che da dieci secoli la cloaca è la malattia

di Parigi, è il vizio che la città porta nel sangue. L'istinto

popolare non si è mai ingannato. Il mestiere di fognaiolo

era una volta quasi altrettanto pericoloso e quasi

altrettanto ripugnante quanto quello di scorticatore di

bestie, per tanto tempo connesso al carnefice. Ci voleva

un'alta paga per indurre un muratore a sparire in quella

fetida fossa; la scala dei nettapozzi esitava a discendervi;

si diceva proverbialmente: "chi scende nella fogna, entra

nella fossa"; e ogni sorta di orribili leggende, come

abbiamo detto, coprivano di spavento quel gigantesco

acquaio; formidabile sentina che conserva le tracce delle

rivoluzioni del globo come di quelle degli uomini, e dove si

trovano le vestigia di tutti i cataclismi, dalla conchiglia del

diluvio sino al lenzuolo di Marat.

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Libro 3

LA MELMA, MA L'ANIMA

1. LA CLOACA E LE SUE SORPRESE

Valjean si trovava nella fogna di Parigi.

Somiglianza di Parigi col mare: come nell'oceano, chi

s'immerge può sparire.

Il passaggio era inaudito. Nel bel centro della città, Valjean

era uscito dalla città; in un batter d'occhio, quanto basta

per aprire e chiudere una botola, era passato dalla viva

luce all'oscurità completa, dal mezzogiorno alla

mezzanotte, dal fracasso al silenzio, dal turbinìo dei rumori

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alla tranquillità della tomba e, per una peripezia ancor più

prodigiosa di quella di via Polonceau, dall'estremo pericolo

alla sicurezza più assoluta.

Repentina caduta in un sotterraneo; scomparsa nel

trabocchetto di Parigi; lasciare quella via nella quale

dappertutto era la morte, per quella specie di sepolcro in

cui c'era la vita: fu uno strano momento. Rimase alcuni

secondi come sbalordito, in ascolto, stupefatto. La botola

della salvezza gli si era aperta a un tratto sotto i piedi. La

bontà celeste l'aveva colto, per così dire, a tradimento.

Adorabili imboscate della Provvidenza!

Solo che il ferito non si muoveva per nulla, e Valjean

ignorava se portava in quella fossa un vivo o un morto. La

sua prima sensazione fu l'accecamento; di colpo, non vide

più nulla. Gli sembrò pure d'essere diventato

improvvisamente sordo: non udiva più niente. La frenetica

bufera della carneficina che si scatenava a pochi passi da

lui, ripetiamo, grazie allo spessore della terra che lo

separava, gli giungeva affievolita e indistinta come un

rumore in una profondità. Sentiva di posare i piedi sul

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solido; non altro; ma questo bastava. Stese un braccio, poi

l'altro, toccò il muro dai due lati e s'accorse che il corridoio

era stretto; sdrucciolò, e si avvide che la pietra era

bagnata. Mosse un piede con precauzione temendo un

buco, un pozzo, un qualche precipizio, e constatò che il

lastricato si prolungava. Un odore fetido lo avvertì del

luogo in cui si trovava.

Dopo alcuni minuti non era più cieco. Lo spiraglio

attraverso il quale era scivolato lasciava trapelare un po' di

luce, e il suo sguardo si era abituato a quella cantina.

Cominciò a distinguere qualcosa. Il corridoio in cui si era

sepolto - è la parola che meglio esprime la situazione - era

murato dietro di lui. Si trovava in una di quelle vie cieche

che il linguaggio tecnico chiama diramazioni. Aveva davanti

un'altra specie di muro, un muro di tenebre. La luce dello

spiraglio moriva dieci o dodici passi in là dal punto dove

egli stava, e copriva di una tinta biancastra pochi metri

appena delle umide pareti della fogna. Al di là c'era

un'opacità massiccia; introdurvisi pareva una cosa orribile,

entrarvi significava essere ingoiato. Tuttavia era possibile e

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necessario; bisognava anzi affrettarsi. Valjean pensò che

quella grata da lui scorta sotto le selci poteva essere vista

anche dai soldati, che tutto dipendeva da tale eventualità.

Anch'essi potevano calarsi in quel pozzo e frugarlo. Non

c'era un minuto da perdere. Riprese Mario, che aveva

posato al suolo, se lo caricò sulle spalle e si mise in

cammino, immergendosi risolutamente nell'oscurità.

In realtà essi erano meno salvi di quello che credesse

Valjean.

Pericoli d'un altro genere e non meno gravi forse li

aspettavano.

Dopo il turbine folgorante della battaglia, la caverna dei

miasmi e delle insidie; dopo il caos, la cloaca. Valjean era

caduto da un cerchio dell'inferno in un altro.

Fatti cinquanta passi, dovette fermarsi. Si presentò un

problema.

Il condotto terminava in un altro budello che incontrava

trasversalmente. Due vie si offrivano: a quale appigliarsi?

Doveva piegare a destra o a sinistra? Come orientarsi in

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quel nero labirinto? Abbiamo già fatto osservare che esso

ha un filo conduttore: il pendìo. Seguendolo, va verso il

fiume. Valjean lo capì subito.

Pensò che probabilmente si trovava nella fogna dei

Mercati; che se piegava a sinistra e seguiva il declivio, in

meno di un quarto d'ora giungeva a qualche sbocco sulla

Senna fra il Pont-au-Change e il Ponte Nuovo, cioè usciva

alla luce nel punto più popolato di Parigi. Fors'anche

andava a terminare in qualche chiavica di crocevia. In

questo caso, gran stupore dei viandanti nel vedere due

uomini insanguinati sbucare di sotterra, ai loro piedi;

accorrere di poliziotti; allarme del vicino corpo di guardia.

Sarebbero stati arrestati prima di venir fuori. Conveniva

meglio immergersi nel dedalo, affidarsi alle tenebre e,

quanto all'uscita, affidarsi alla Provvidenza. Risalì la china e

andò a destra.

Quand'ebbe svoltato l'angolo della galleria, il lontano

barlume dello spiraglio disparve; gli ricadde addosso la

tenda dell'oscurità e ridivenne cieco. Ma non desistette

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dall'avanzare quanto più rapidamente poté. Le braccia di

Mario gli passavano intorno al collo, e i piedi gli pendevano

dietro. Egli teneva le due braccia con una mano, mentre

con l'altra tastava il muro. La gota di Mario toccava la sua

e, insanguinata com'era, vi si attaccava: sentiva scorrere

su di lui e penetrare sotto le vesti un filo tiepido che

proveniva dal giovane; tuttavia un calore umido

all'orecchio che toccava la bocca del ferito indicava la

respirazione e per conseguenza la vita. Il corridoio nel

quale ora camminava era più largo del precedente, ma vi si

avanzava con difficoltà. Le piogge del giorno prima, non

ancora defluite interamente, formavano in mezzo al suolo

concavo un piccolo torrente, che lo poneva nella necessità

di rasentare il muro per non avere i piedi nell'acqua.

Procedeva così in mezzo alle tenebre, a somiglianza degli

esseri della notte che vanno a tentoni nell'invisibile, perduti

sotterraneamente nelle vene dell'ombra.

Tuttavia, o che qualche lontano spiraglio mandasse un po'

di luce fluttuante in quella bruma opaca, o che i suoi occhi

si abituassero all'oscurità, a poco a poco riacquistò una

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vista alquanto incerta, ricominciò confusamente a rendersi

conto, ora della parete che toccava, ora della volta sotto

cui passava. La pupilla nelle tenebre si dilata e finisce per

trovarvi una qualche luce, come l'anima si dilata nella

sventura e finisce per trovarvi Dio.

Dirigersi era difficile. Il tracciato delle fogne riproduce, per

così dire, il tracciato delle vie sovrapposte. Nella Parigi

d'allora c'erano duemiladuecento vie. Figuratevi là sotto

quella foresta di diramazioni tenebrose che si chiama la

cloaca. Le fognature esistenti a quell'epoca, messe di

seguito l'una all'altra, avrebbero formato una linea di undici

leghe. Più su abbiamo detto che grazie all'operosità

speciale degli ultimi trent'anni, la rete attuale ha una

lunghezza non minore di sessanta leghe. Valjean cominciò

con l'ingannarsi. Credette di trovarsi sotto la via San

Dionigi, ed era un peccato che non vi fosse davvero,

perché sotto la via San Dionigi c'è un antico condotto di

pietra che data da Luigi Tredicesimo e va diritto al

collettore detto Fogna Grande con un solo gomito, a

destra, all'altezza dell'antica Corte dei Miracoli, e con una

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sola intersezione, il condotto San Martino, i cui quattro

bracci si tagliano a croce. Ma il condotto della Petite-

Truanderie, la cui entrata era presso l'osteria di Corinto,

non ha mai comunicato col condotto della via San Dionigi;

mette capo alla fogna Montmartre, lungo la quale si era

avviato Valjean.

La fogna Montmartre era una delle più labirintiche della

vecchia rete. Fortunatamente, Valjean s'era lasciato dietro

il condotto dei Mercati, la cui pianta geometrica somiglia a

una moltitudine di alberi di trinchetto intrecciati; ma aveva

dinanzi più d'un incontro imbarazzante e più di un angolo

di via - poiché sono vere vie - che si presentava

nell'oscurità come un punto interrogativo:

prima, a sinistra, la vasta fogna Platrière, una specie di

rompicapo cinese, che spinge e sviluppa il suo caos di T e

di Z sotto il palazzo della Posta e sotto la rotonda del

Mercato dei Grani fino alla Senna, dove termina a Y;

secondo, a destra, il condotto curvo della via del quadrante

con i suoi tre denti, che sono altrettanti vicoli chiusi; terza,

a sinistra, la diramazione del Mail, complicata quasi

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all'ingresso da una specie di forca, e che con un seguito di

zig zag va a finire alla gran fogna del Louvre, spezzettata e

ramificata in tutti i sensi; finalmente, a destra, il condotto

cieco della via dei Digiunatori, senza calcolare qua e là le

piccole deviazioni prima di giungere alla cloaca perimetrale,

la sola che potesse guidarlo verso un'uscita abbastanza

lontana per essere sicura.

Se Valjean avesse avuto qualche nozione di quanto stiamo

dicendo, soltanto tastando la parete si sarebbe accorto di

non essere nella galleria sotterranea della via San Dionigi.

Invece della vecchia pietra da taglio, invece dell'antica

architettura altera e regale fin nelle fogne, col suolo e le

pareti di granito e cemento, che costava ottocento franchi

la tesa, avrebbe sentito sotto la mano la costruzione a

buon mercato di oggi, l'espediente economico, la selce con

letto di cemento idraulico sopra un fondamento di bitume,

che costa duecento franchi il metro: la muratura borghese

detta "a piccoli materiali". Ma egli non sapeva niente di

tutto questo.

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Andava con ansietà ma con calma, senza vedere né sapere

nulla, immerso nel caso, vale a dire inghiottito nella

Provvidenza.

E' anche vero che l'orrore a mano a mano lo vinceva, e

l'ombra da cui era circondato gli penetrava nell'anima.

Camminava in un enigma. Il corso della cloaca è

formidabile: s'intreccia in un modo vertiginoso, ed è una

cosa lugubre trovarsi in quella Parigi di tenebre. Valjean

era obbligato a trovare e quasi a inventare la strada, senza

vederla.

In quell'ignoto, ogni passo che arrischiava poteva essere

l'ultimo. Come uscirne? Troverebbe un'uscita, e in tempo?

Quella colossale spugna sotterranea dagli alveoli di pietra

si lascerebbe indovinare e attraversare? Oppure troverebbe

qualche inaspettato groviglio di tenebre, e arriverebbe

all'inestricabile e all'insormontabile? Sarebbero morti,

Mario di emorragia, e lui di fame? Finirebbero col perdersi

laggiù tutti e due e col formare due scheletri in un angolo

di quelle tenebre? Non sapeva. Si faceva tutte queste

domande e non poteva rispondere. ll budello di Parigi è un

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precipizio. Come il profeta, egli si trovava nel ventre del

mostro.

A un tratto ebbe una sorpresa. Quando meno se

l'aspettava e senza aver mai cessato di andare in linea

retta, si accorse che non saliva più e che l'acqua gli batteva

le calcagna invece di venirgli sulla punta dei piedi. La fogna

ora scendeva. Perché?

Stava dunque per giungere improvvisamente alla Senna?

Era un pericolo grave, ma quello di retrocedere era

maggiore. Continuò ad avanzare.

Ma non andava verso la Senna. La schiena d'asino, che fa il

suolo di Parigi sulla riva destra, vuota uno dei versanti

nella Senna e l'altro nella Fogna Grande, e la cresta della

schiena d'asino, che determina la divisione delle acque,

traccia una linea molto capricciosa. Il punto culminante,

dove ha luogo la separazione degli scoli, si trova nel

condotto di Saint-Avoye al di là della Via Michele Le

Compte, in quello del Louvre presso i boulevard e in quello

di Montmartre presso i Mercati. Valjean era pervenuto a

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quel punto culminante e si dirigeva verso la cloaca di cinta;

era sulla buona via ma non lo sapeva.

Ogni qual volta s'imbatteva in un crocicchio, ne tastava gli

spigoli, e se trovava l'apertura che gli si offriva meno larga

del condotto da lui seguito, non vi entrava e proseguiva la

sua strada, giudicando a ragione che qualunque passaggio

più stretto dovesse mettere capo a un condotto cieco e

quindi allontanarlo dalla meta, cioè dall'uscita. Così evitò la

quadruplice insidia tesagli nelle tenebre dai quattro dedali

che abbiamo enumerato. A un certo punto s'accorse

d'essere fuori dalla Parigi immobilizzata dalla sommossa,

dove le barricate avevano soppresso la circolazione, e di

essere penetrato sotto la Parigi vivente e normale. Sentì

subito sopra la testa un rumoreggiare di tuono, lontano ma

continuo: era il rotolìo delle vetture.

Camminava da circa mezz'ora, almeno dal calcolo che

faceva, e non aveva ancora pensato di riposarsi; aveva

soltanto cambiato la mano che sosteneva Mario. L'oscurità

era più profonda che mai, ma quella profondità lo

rassicurava.

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D'improvviso, si vide davanti la sua ombra, che appariva

sopra un debole riflesso rosso quasi indistinto che

imporporava vagamente il suolo e la volta, e che scivolava

a destra e a sinistra sulle viscide pareti del corridoio. Si

volse stupefatto.

Dietro di lui, nella parte del condotto che aveva allora

oltrepassato, a una distanza che gli parve immensa,

fiammeggiava, striando la densa tenebra, una specie

d'astro orribile, che pareva lo guardasse.

Era la fosca stella della polizia che spuntava nella fogna.

Dietro quella stella si agitavano confusamente otto o dieci

forme nere, ritte, indistinte, terribili.

2. SPIEGAZIONE

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Nella giornata del 6 giugno, era stata ordinata una battuta

nelle fogne. Si temeva che i vinti vi si fossero rifugiati, e il

prefetto di polizia, Gisquet, dovette frugare la Parigi occulta

mentre il generale Bugeaud perlustrava la Parigi pubblica:

duplice operazione connessa, che richiese una doppia

strategia della forza pubblica, rappresentata in alto

dall'esercito e in basso dalla polizia. Tre pattuglioni di

agenti e di fognaioli esplorarono l'immondezzaio

sotterraneo della città, il primo sulla riva destra, il secondo

sulla sinistra, e il terzo nel centro.

Gli agenti erano armati di carabine, di mazze, di spade e di

pugnali.

La lanterna diretta in quel momento su Valjean era quella

della ronda della riva destra.

La ronda aveva allora perlustrato la galleria curva e i tre

condotti ciechi che sono sotto la via del Quadrante. Mentre

essa puntava la sua lanterna sui tre condotti ciechi, Valjean

aveva incontrato sul suo cammino l'ingresso di quella

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galleria, l'aveva riconosciuta più stretta della principale ed

era passato oltre.

Uscendo dalla galleria di via del Quadrante era parso ai

poliziotti di udire un rumore di passi in direzione della

cloaca di cinta. Erano infatti i passi di Valjean. Il sergente,

che comandava la ronda, aveva alzato la lanterna, e la

squadra s'era messa a guardare nella nebbia dal lato

donde veniva il rumore.

Fu per Valjean un minuto inesprimibile.

Fortunatamente, se egli vedeva bene la lanterna, la

lanterna lo vedeva male; essa era la luce, egli l'ombra, ed

era molto lontano, e confuso all'oscurità del luogo. Si

strinse al muro e si fermò.

Del resto, non si rendeva conto di quello che succedeva

dietro di lui: l'insonnia, la mancanza di nutrimento e le

emozioni avevano fatto passare anche lui allo stato di

visionario. Vedeva un fiammeggiamento e intorno delle

larve. Cos'era? Non capiva.

Fermatosi Valjean, il rumore cessò.

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Gli uomini della ronda ascoltavano e non sentivano nulla,

guardavano e non vedevano nulla. Si consultarono.

C'era a quel tempo, in quel punto della fogna Montmartre,

una specie di crocicchio detto di servizio, più tardi

soppresso a causa del piccolo stagno interno che vi

formava, ingorgandosi durante i forti temporali, il torrente

dell'acqua piovana. Gli uomini della ronda potevano far

capannello in quel crocicchio.

Valjean vide quelle larve formare una specie di circolo.

Quelle teste di alani si avvicinarono susurrando.

Il risultato di quel consiglio, tenuto dai cani di guardia, fu

che s'erano ingannati, che non c'era stato rumore, che non

c'era nessuno di là, che era inutile entrare nella fogna di

cinta, che sarebbe stato tempo perso, che bisognava

invece affrettarsi ad andare verso Saint-Merry, che se c'era

qualche cosa da fare e qualche rivoltoso da snidare, era

proprio in quel quartiere.

Ogni tanto i partiti fanno risuonare le loro vecchie ingiurie.

Nel 1832, il vocabolo "bousingot" teneva l'interim fra quello

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di giacobino ormai sciupato, e quello di demagogo allora

pochissimo in uso e che poi ha prestato un così eccellente

servizio.

Il sergente ordinò di piegare a sinistra verso il versante

della Senna. Se avessero avuto l'idea di dividersi in due

squadre e di andare nei due sensi, Valjean sarebbe stato

preso. La cosa era appesa a un filo. E' probabile che le

istruzioni della polizia, prevedendo il caso di uno scontro

con numerosi insorti, vietassero alla pattuglia di

suddividersi. La ronda si rimise in cammino, lasciandosi

dietro Valjean, il quale di tutto quel movimento non scorse

niente,tranne la eclisse della lanterna che improvvisamente

si volse dal lato opposto.

Per sgravio di coscienza della polizia, il sergente, prima

d'allontanarsi, scaricò la sua carabina dal lato che

lasciavano, nella direzione di Valjean. La detonazione

rotolò d'eco in eco nella cripta, come borborigmo di quel

titanico intestino. Un pezzo di calcinaccio caduto nel

rigagnolo, che fece schioccare l'acqua a qualche passo da

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Valjean, lo avvertì che la palla aveva colpito la volta sopra

il suo capo.

I passi risuonarono per qualche tempo, misurati e lenti, sul

lastrico, sempre più attutiti con l'aumentare della

lontananza; il gruppo delle forme nere si disperse; un

barlume oscillò e ondeggiò, formando nella volta un arco

rossastro che s'indebolì e poi scomparve; il silenzio

ridivenne profondo, l'oscurità completa; la cecità e la

sordità ripresero possesso delle tenebre, e Valjean, non

osando ancora muoversi, rimase a lungo con le spalle al

muro, l'orecchio teso, la pupilla dilatata, contemplando lo

svanire di quella pattuglia di fantasmi.

3. L'UOMO PEDINATO

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Bisogna rendere onore alla polizia di quell'epoca; anche

nelle più gravi situazioni pubbliche, essa compiva

imperturbabilmente il suo dovere. Una sommossa non era

ai suoi occhi un pretesto per lasciare ai malfattori la briglia

sul collo, e trascurare la società, perché il governo era in

pericolo. Il servizio ordinario veniva adempiuto con

esattezza insieme con quello straordinario, e non ne era

turbato. Agli inizi di un incalcolabile fatto politico, sotto la

pressione di una rivoluzione possibile, un agente di polizia

si metteva a pedinare un ladro senza lasciarsi distrarre

dalla insurrezione e dalle barricate.

Nel pomeriggio del 6 giugno, accadeva appunto qualche

cosa di simile in riva alla Senna, sull'argine della sponda

destra, poco più in là del ponte degli Invalidi.

In quel punto non c'è più argine ora; l'aspetto dei luoghi è

mutato.

Due uomini, a qualche distanza l'uno dall'altro, pareva che

si osservassero e che uno evitasse l'altro. Quello che

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andava avanti cercava di allontanarsi, quello che gli teneva

dietro cercava di avvicinarsi.

Era come una partita a scacchi giocata da lontano e in

silenzio.

Né l'uno né l'altro mostrava di affrettarsi, anzi tutti e due

camminavano lentamente, come se ciascuno di essi

temesse, per la troppa fretta, di far raddoppiare il passo al

proprio avversario.

Uno di essi sembrava un cacciatore che segua una preda,

senza aver l'aria di farlo apposta; e la preda era astuta e

stava in guardia.

Correvano fra loro le proporzioni richieste tra la faina

inseguita e l'alano cacciatore. Quello che cercava di fuggire

era piccolo e d'aspetto meschino; quello che cercava di

afferrarlo, alto e robusto, era di aspetto rude e doveva

anche essere rude in uno scontro.

Il primo, sentendo di essere il più debole, evitava l'altro,

ma evitandolo diventava profondamente curioso. Chi

avesse potuto osservarlo, gli avrebbe letto negli occhi la

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cupa ostilità della fuga e tutta la minaccia che c'era nel suo

timore.

L'argine era deserto: non un passante; neppure un

battelliere o uno scaricatore nelle chiatte amarrate qua e

là.

Non si potevano scorgere agevolmente quei due uomini, se

non dalla riva opposta; e chi li avesse esaminati a quella

distanza, nell'uomo che camminava più innanzi avrebbe

ravvisato un individuo irsuto, cencioso e bieco, inquieto e

trepidante sotto un camiciotto a brandelli, e nell'altro un

tipo classico e ufficiale, rivestito dell'abito dell'autorità

abbottonato fin sotto il mento.

Vedendoli più da vicino, il lettore forse riconoscerebbe quei

due uomini.

Qual era lo scopo dell'ultimo?

Probabilmente quello di far indossare al primo degli abiti

più caldi.

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Quando un uomo vestito dallo Stato ne insegue un altro

cencioso, lo fa allo scopo di farne un uomo vestito dallo

Stato. La questione si riduce tutta al colore: essere vestito

di turchino è meritorio, di rosso è spiacevole.

Era probabilmente un dispiacere e una porpora di questa

specie che il primo desiderava schivare.

Se l'altro lo lasciava proseguire e non lo afferrava ancora,

secondo ogni apparenza lo faceva nella speranza di vederlo

andare a finire in qualche appuntamento significativo e in

qualche gruppo di facile sorpresa. Questa operazione

delicata costituisce ciò che si chiama "pedinamento".

Questa congettura è resa possibilissima dal fatto che

l'uomo abbottonato, scorgendo dall'argine una vettura che

passava vuota sulla riva, fece un cenno al cocchiere. Questi

capì e, riconoscendo evidentemente con chi aveva a che

fare, si mise a seguire i due uomini dall'alto della ripa. Di

ciò non s'accorse l'individuo losco e stracciato che andava

avanti.

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La vettura si muoveva lungo gli alberi dei Campi Elisi; si

vedeva passare al di sopra del parapetto il busto del

cocchiere con la frusta in mano.

Nelle istruzioni segrete della polizia ai suoi agenti c'è un

articolo che prescrive: "Aver sempre sottomano una

vettura cittadina per ogni evento".

Pur manovrando ciascuno dal canto suo con una strategia

irreprensibile, quei due uomini si avvicinarono a una rampa

che dalla riva scendeva all'argine, e che allora permetteva

ai vetturini che arrivavano da Passy di andare al fiume ad

abbeverare i cavalli. Più tardi quella rampa fu soppressa

per simmetria. I cavalli soffrono la sete, ma l'occhio è

contento.

E' probabile che l'uomo in camiciotto volesse salire la

rampa per tentare di sfuggire i Campi Elisi, luogo ricco

d'alberi ma anche molto vigilato dagli agenti di polizia, e

dove quindi l'altro avrebbe trovato facilmente dei rinforzi.

Quel punto della riva è molto vicino alla casa detta di

Francesco Primo, che il colonnello Brack nel 1824 fece

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trasportare da Moret a Parigi. Là vicino c'è un corpo di

guardia.

Con grande sorpresa del poliziotto, l'uomo braccato non

prese la rampa dell'abbeveratoio, ma continuò ad andare

avanti sull'argine lungo la riva.

La sua posizione diventava visibilmente rischiosa.

Che poteva fare, tranne che gettarsi nella Senna?

Ormai non rimaneva più nessun mezzo per risalire sulla

riva; né rampe né scale; e si era proprio vicino al punto

contrassegnato col gomito che fa la Senna verso il ponte di

Iena, dove l'argine, sempre più ristretto, finisce in una

striscia sottile che va a perdersi sotto l'acqua. Là si sarebbe

trovato inevitabilmente bloccato tra il muro a picco a

destra, il fiume a sinistra e davanti e l'autorità alle

calcagna.

E' vero che la fine dell'argine era nascosta allo sguardo da

un mucchio di sterro alto sei o sette piedi, derivante da

non so quale demolizione; ma poteva quell'individuo

sperare di nascondersi utilmente dietro quel cumulo di

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calcinacci che bastava aggirare? L'espediente sarebbe stato

puerile, e certamente quello non ci pensava; l'ingenuità dei

ladri non arriva fino a quel punto.

Il mucchio di sterro formava sull'argine dell'acqua una

specie di prominenza, che si prolungava a forma di

promontorio fino alla muraglia della riva.

L'uomo pedinato arrivò a quella collinetta, l'oltrepassò e

divenne così invisibile al poliziotto.

Costui, non vedendolo, non era neppure visto. Ne

approfittò per abbandonare ogni dissimulazione e per

camminare più lestamente, sicché in pochi momenti arrivò

al mucchio e lo sorpassò. Là si fermò stupefatto. L'uomo a

cui dava la caccia era scomparso.

Eclisse totale dell'individuo in camiciotto.

Al di là del cumulo, la proda non si protendeva più di una

trentina di passi, poi s'immergeva nell'acqua, che veniva a

battere contro il muro della ripa. Il fuggitivo non avrebbe

potuto gettarsi nella Senna, né scalare la ripa senza essere

scorto da chi l'inseguiva. Che n'era successo?

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L'uomo dall'abito abbottonato continuò ad avanzare sino al

limite dell'argine, dove restò un momento pensoso, con i

pugni frementi, indagando con l'occhio. A un tratto si batté

la fronte. S'era accorto che nel punto dove finiva la terra e

cominciava l'acqua, c'era un gran cancello largo, basso,

arcuato, munito d'una robusta toppa e sostenuto da tre

cardini massicci; era una specie di porta praticata in basso

alla ripa, che s'apriva tanto sul fiume che sull'argine. Un

rigagnolo nerastro passava là sotto e si versava nella

Senna.

Al di là delle sue grosse sbarre arrugginite si distingueva

una specie di galleria a volta, oscura.

Il poliziotto incrociò le braccia e guardò il cancello con aria

di rimprovero.

Poi, non bastando lo sguardo, tentò di spingerlo; lo scosse,

ma quello oppose una resistenza solida. Era probabile che

fosse stato aperto allora allora, benché non si fosse udito

nessun rumore - cosa strana trattandosi di un cancello così

arrugginito - ma certamente era stato richiuso; la qual

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cosa indicava che l'uomo dinanzi al quale quella porta

aveva girato, non era munito di un semplice grimaldello,

ma di una chiave.

Tale evidenza, affacciatasi d'improvviso alla mente

dell'uomo che tentava di scuotere il cancello, gli strappò

questo epifonema indignato:

- Questa è grossa! Una chiave dell'autorità!

Poi, calmatosi immediatamente, espresse tutto un mondo

d'idee interiori con questo sbuffo di monosillabi accentuati

quasi ironicamente:

- Toh! toh! toh! toh!

Ciò detto, sperando forse di veder uscire di nuovo

quell'uomo o almeno di vederne entrare altri, si pose in

agguato dietro il cumulo di macerie con la rabbia paziente

del cane da guardia.

Dal canto suo, il vetturino, che si regolava dai suoi

movimenti, si era soffermato al di sopra di lui vicino al

parapetto. Il vetturino, prevedendo una lunga fermata,

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fece passare il muso dei cavalli nel sacco d'avena umido in

basso, così noto ai parigini ai quali, sia detto tra parentesi,

lo applicano talvolta anche i governi. I rari passanti del

ponte di Iena, prima di allontanarsi, volgevano la testa per

guardare un attimo quei due particolari del paesaggio

immobile: l'uomo sull'argine e la vettura sulla riva.

4. ANCH'EGLI PORTA LA SUA CROCE

Valjean aveva ripreso il cammino e non si era più fermato.

Quel cammino diventava sempre più faticoso. Il livello di

quelle volte è vario; l'altezza media è di circa cinque piedi e

sei pollici, essendo calcolata per la statura di un uomo.

Valjean era costretto quindi a curvarsi per non far urtare

Mario contro la volta:

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bisognava ogni momento abbassarsi poi raddrizzarsi, e

tastar sempre il muro. L'umidità delle pietre e la viscosità

del suolo ne facevano pessimi punti di appoggio tanto per

la mano che per il piede, ed è per questo che lui barcollava

di continuo nella schifosa gora della città. I riflessi

intermittenti degli spiragli apparivano soltanto a lunghi

intervalli e così pallidi che il sole sembrava un chiaro di

luna; tutto il resto era nebbia, miasma, opacità, tenebra

fitta. Valjean aveva fame e sete; sete soprattutto; e quello,

come il mare, è un luogo pieno d'acqua che non si può

bere. La sua forza, che, come sappiamo, era straordinaria

e nient'affatto scemata dall'età, grazie alla sua vita casta e

sobria, cominciava tuttavia a cedere; era stanco, e con

l'indebolimento delle forze sentiva sempre più il peso del

fardello. Mario, forse morto, pesava come pesano i corpi

inerti.

Valjean lo sosteneva in modo che il petto fosse libero e la

respirazione potesse effettuarsi il meglio possibile. Sentiva

tra i piedi la rapida fuga dei sorci, uno dei quali fu tanto

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spaventato da morderlo. Ogni tanto, dai chiusini gli

arrivava un soffio d'aria fresca che lo rianimava.

Potevano essere circa le tre del pomeriggio quando giunse

alla cloaca di cinta. Dapprima si meravigliò di quel

subitaneo allargamento. Si trovò a un tratto in una galleria,

in cui le sue mani distese non giungevano a toccare le

pareti, sotto una volta che la testa non toccava. La Fogna

Grande infatti ha otto piedi di larghezza e sette d'altezza.

Nel punto dove il condotto Montmartre raggiunge la Fogna

Grande, altre due gallerie sotterranee, quella della via di

Provenza e quella dell'Abattoir, vanno a formare un

crocicchio. Un uomo meno sagace, fra quelle quattro vie,

sarebbe rimasto indeciso; Valjean prese la più larga, vale a

dire la fogna di cinta. Ma qui ritornava il problema:

scendere o salire? Pensò che la situazione era urgente e

che bisognava a ogni costo raggiungere la Senna: in altri

termini, scendere. Volse a sinistra.

E fu un ottimo consiglio. Infatti sarebbe un errore credere

che la fogna di cinta abbia due sbocchi, uno verso Bercy,

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l'altro verso Passy, e che sia davvero, come indica il suo

nome, la cintura sotterranea di Parigi della riva destra. La

Fogna Grande, la quale, come ci è noto, non è altro che

l'antico ruscello Ménilmontant, termina dopo un ampio giro

al suo punto di partenza.

Essa non ha comunicazione diretta col ramo che raccoglie

le acque di Parigi a cominciare dal rione Popincourt, e che

si getta nella Senna per mezzo del condotto Amelot al di

sopra dell'antica isola Louviers. Questo ramo, che completa

il condotto collettore, ne è separato, sotto la stessa via

Ménilmontant, da un terrapieno che segna il punto di

separazione delle acque a monte e a valle. Se Valjean

avesse risalito la galleria, dopo mille sforzi, oppresso dalla

stanchezza e senza fiato, sarebbe arrivato, nelle tenebre, a

un muro. In tal caso, sarebbe stato perduto.

A rigore, tornando un po' sui suoi passi, imboccando il

condotto delle Figlie del Calvario, a condizione di non

esitare nella zampa d'oca sotterranea del crocicchio

Boucherat, prendendo il corridoio San Luigi, poi, a sinistra,

il budello San Gilles, poi volgendo a destra ed evitando la

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galleria San Sebastiano, avrebbe potuto raggiungere la

fogna Arnelot; e di là, purché non si fosse smarrito nella

specie di F che sta sotto la Bastiglia, avrebbe potuto

raggiungere lo sbocco sulla Senna vicino all'Arsenale. Ma

per questo sarebbe stato necessario conoscere a fondo, in

tutte le ramificazioni e in tutti i suoi sbocchi, l'enorme

madrepora della cloaca. Ora, ripetiamo, Valjean non

sapeva proprio nulla di quel dedalo spaventoso in cui

camminava, e se gli avessero chiesto dove si trovava,

avrebbe risposto: nelle tenebre.

Il suo istinto lo aiutò. Nel discendere infatti era possibile la

salvezza.

Lasciò a destra i due condotti che si ramificano a forma di

zampa sotto le vie Laffette e San Giorgio, e il lungo

corridoio biforcato della Chaussée d'Antin Oltrepassato di

poco un affluente che era probabilmente il ramo della

Maddalena, si fermò. Era molto stanco. Uno spiraglio

abbastanza largo, forse quello della via d'Angiò, lasciava

penetrare una luce quasi chiara. Depose Mario sulla

panchetta della fogna con la dolcezza di modi che avrebbe

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avuto verso il fratello ferito. Il volto insanguinato del

giovane apparve alla luce bianca dello spiraglio come in

fondo a una tomba. Aveva gli occhi chiusi, i capelli aderenti

alle tempie come pennelli disseccati nel rosso, le mani

pendenti e inerti, le membra fredde e un filo di sangue

coagulato all'angolo delle labbra. Un grumo di sangue si

era formato nel nodo della cravatta; la camicia entrava

nelle piaghe, il bavero dell'abito sfregava le ferite sulla

carne viva. Valjean, scostando le vesti con la punta delle

dita, gli posò la mano sul petto: il cuore batteva ancora.

Lacerò la propria camicia, bendò le piaghe alla meglio e

arrestò la perdita di sangue; poi, chinandosi in quel

chiaroscuro su Mario, sempre svenuto e quasi senza

respiro, lo guardò con un odio inesprimibile.

Rimuovendo gli abiti del giovane, trovò nelle tasche due

cose: il pane dimenticato il giorno prima e il portafoglio.

Sulla prima pagina trovò le quattro righe che già sappiamo

scritte da Mario:

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"Mi chiamo Mario Pontmercy. Il mio cadavere va portato a

casa di mio nonno, signor Gillenormand, via delle Figlie del

Calvario 6, al Marais".

Valjean lesse alla luce dello spiraglio queste quattro righe,

e restò un momento assorto, ripetendo sotto voce: "Via

delle Figlie del Calvario, numero sei, signor Gillenormand";

quindi ripose il portafoglio nella tasca del ferito. Aveva

mangiato; gli erano tornate le forze. Si ricaricò Mario sulle

spalle, appoggiandone accuratamente la testa sulla propria

spalla destra, e si rimise a discendere la cloaca.

La Grande Fogna, che segue il pendìo della valle di

Ménilmontant, ha circa due leghe di lunghezza, ed è

lastricata per una buona parte del suo percorso.

Questa guida dei nomi delle vie parigine, con cui noi

illuminiamo per il lettore il cammino sotterraneo di Valjean,

Giovanni Valjean non l'aveva. Nulla gli indicava quale zona

della città attraversasse, né quale tragitto avesse fatto.

Solo il pallore crescente delle strisce di luce che ogni tanto

incontrava lo avvertiva che il sole si ritirava dal lastrico

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delle vie e che il giorno era vicino al tramonto; e dal

rumore delle vetture sopra il suo capo, che da continuo era

diventato intermittente e poi era quasi cessato del tutto,

concluse che non era più sotto la parte centrale di Parigi

ma si avvicinava a qualche regione solitaria presso i

boulevard esterni e le rive più lontane. Dove ci sono meno

case e meno vie la fogna ha meno spiragli. L'oscurità

diventava sempre più fitta, ma Valjean non desisteva

dall'avanzare a tentoni nell'ombra.

D'un tratto quell'ombra divenne terribile.

5. LA SABBIA COME LA DONNA. UNA FINEZZA CHE E'

PERFIDIA

Sentì che entrava nell'acqua, e non aveva più sotto ai piedi

il lastrico, ma la melma.

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Su certe coste della Bretagna e della Scozia avviene

talvolta che qualcuno, un viaggiatore o un pescatore,

camminando con la bassa marea sul lido a qualche

distanza dalla riva, si accorga a un tratto che da parecchi

minuti cammina con difficoltà. Sotto i suoi piedi la sabbia

diventa pece, la suola vi si attacca; non è più sabbia, ma

glutine. Il lido è perfettamente asciutto, ma ad ogni passo

l'orma lasciata dal piede sul terreno si riempie d'acqua.

L'occhio però non si è accorto di nessun cambiamento;

l'immensa spiaggia è piana e tranquilla; la sabbia ha

dappertutto il medesimo aspetto; nulla distingue il suolo

solido da quello che non lo è; e la piccola nuvola festosa

degli afidi marini continua a saltellare tumultuosamente sul

piede del passeggero. Egli prosegue la sua strada, va

innanzi, piega verso terra per ravvicinarsi alla costa. Non è

inquieto. Inquieto perché? Però prova una sensazione,

come se a ogni passo i suoi piedi diventassero più pesanti.

D'un tratto affonda; affonda di due o tre pollici.

Evidentemente non è sulla buona strada. Si ferma per

orientarsi. Non volendo, si guarda i piedi. Sono scomparsi,

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la sabbia li copre. Li ritira, vuol retrocedere, si volge

indietro; affonda ancor più: la sabbia gli giunge al malleolo.

Si strappa fuori e si getta a sinistra. La sabbia gli arriva a

mezza gamba; si getta a destra, gli arriva ai ginocchi.

Allora riconosce, con indicibile terrore, che s'è cacciato in

una sabbia mobile, che ha sotto di sé quello spaventoso

elemento dove né l'uomo può camminare né il pesce

nuotare. Butta via il carico se lo ha, si alleggerisce come

una nave in pericolo; ma non è più in tempo; la sabbia gli

oltrepassa i ginocchi.

Chiama, agita il cappello o il fazzoletto, ma la sabbia lo

inghiotte sempre più. Se il lido è deserto, se la terra è

troppo lontana, se il banco di sabbia è troppo malfamato,

se non c'è un eroe nei dintorni, è finito, è condannato alla

sepoltura. E' condannato a quell'orribile sepoltura, lunga,

infallibile, implacabile, che non è possibile ritardare né

affrettare, che dura per ore, che non termina mai, che lo

coglie in piedi e in piena salute, che lo tira per i piedi, che a

ogni sforzo che tenta, a ogni grido che manda lo trascina

un po' più giù, che sembra voglia punirlo della sua

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resistenza raddoppiando le strette, che fa immergere

l'uomo lentamente nella terra, lasciandogli tutto il tempo di

contemplare l'orizzonte, gli alberi, le campagne verdi, il

fumo dei villaggi nella pianura, le vele delle navi sul mare,

gli uccelli che volano e cantano, il sole, il cielo.

L'affondamento è il sepolcro che diventa marea, e sale dal

fondo della terra verso un vivente. Ogni minuto è uno

spietato becchino.

Lo sventurato tenta di sedersi, di sdraiarsi, di strisciare, ma

ogni movimento che fa, lo seppellisce; si rialza e affonda;

si sente ingoiare; urla, implora, grida alle nuvole, torce le

braccia, si dispera. Eccolo con la sabbia fino al ventre; poi

sino al petto; non è più che un busto. Alza le mani, manda

dei gemiti furiosi, si aggrappa al greto, vuol afferrarsi a

quella cenere, si puntella sui gomiti per strapparsi fuori da

quella molle guaina, piange freneticamente; e la sabbia

sale. La sabbia giunge alle spalle, giunge al collo; ora, la

faccia sola è visibile. La bocca grida, la sabbia la riempie:

silenzio. Gli occhi guardano ancora, la sabbia li chiude;

notte. Poi la fronte va scemando, pochi capelli ondeggiano

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ancora sull'arena, una mano esce, bucando la superficie del

greto, si muove, si agita e scompare. Orribile scomparsa di

un uomo.

Talvolta affonda il cavaliere col cavallo, talvolta il

carrettiere col carro; tutto sprofonda nel greto. E' il

naufragio che si compie fuori acqua, è la terra che annega

l'uomo. La terra, imbevuta d'acqua, diventa un'insidia; si

presenta come una pianura e s'apre come l'onda. L'abisso

ha di questi tradimenti.

Tale funebre avventura, sempre possibile su questa o

quella spiaggia di mare, trent'anni or sono era possibile

anche nella fogna di Parigi.

Prima degli importanti lavori del 1833, lo sterquilinio

sotterraneo di Parigi era soggetto a frane improvvise.

L'acqua s'infiltrava in certi terreni soggiacenti,

particolarmente friabili; e il suolo concavo, anche se

formato di pietre come nelle gallerie antiche, o di calce

idraulica sopra il bitume come nelle moderne, mancando il

punto d'appoggio, cedeva. In un impiantito di quel genere

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una piega è una crepa, e una crepa è lo scoscendimento. Il

suolo crollava per una certa lunghezza. Quel crepaccio,

bocca d'una voragine di fango, nella lingua speciale si

chiamava "fontis". Che cos'è un fontis? E' la sabbia mobile

delle rive del mare incontrata improvvisamente sotto terra;

è il greto del Monte San Michele in una fogna. Il terreno,

inzuppato, è come in fusione, e tutte le sue molecole

rimangono sospese in un elemento molle, che non è né

terra né acqua, fino a una profondità talora assai grande.

Nulla di più pericoloso di un simile incontro; se predomina

l'acqua, la morte è pronta, per annegamento; se

predomina la terra, la morte è lenta, per affondamento.

Vi figurate una morte simile? Se lo sprofondamento è

terribile sulla spiaggia del mare, che dev'essere in una

cloaca? Invece dell'aria aperta, della viva luce, del pieno

giorno, del chiaro orizzonte, di quei larghi rumori, di quelle

libere nubi da cui piove la vita, di quelle barche lontane, di

quella speranza sotto tutte le forme, dei passanti probabili,

del soccorso possibile fino all'ultimo minuto, invece di tutto

ciò la sordità, la cecità, una negra volta, un interno di

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tomba già pronto, la morte nella fanghiglia sotto un

coperchio! la soffocazione lenta in un lurido immondezzaio,

una cassa di pietra in cui l'asfissia apre l'artiglio nella

melma e ti afferra alla gola, il fetore mescolato al rantolo,

la melma invece della sabbia, l'idrogeno solforato invece

della tempesta, la lordura invece dell'oceano! e chiamare, e

digrignare i denti, e contorcersi, e dibattersi, e agonizzare,

con quella città enorme che non sa nulla e che pure si ha

sopra la testa!

Inesprimibile orrore di una morte simile! Talvolta la morte

riscatta la sua atrocità con una certa dignità terribile. Sul

rogo, in un naufragio, si può esser grandi; nella fiamma

come nella schiuma un atteggiamento superbo è possibile,

chi vi s'inabissa può trasfigurarsi. Qui no. La morte è

sudicia; è umiliante spirare; le estreme ondeggianti visioni

sono abiette.

Fango è sinonimo di vergogna. E' una fine meschina, laida,

infame.

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Morire in una botte di malvasia come Clarence, è

tollerabile; ma nella fossa dell'immondezzaio come

d'Escoubleau è orribile.

Dibattersi là dentro è schifoso; mentre si agonizza, si

guazza nel fango. Ci sono abbastanza tenebre perché

quello sia un inferno, c'è fango abbastanza perché sia solo

un pantano, e il moribondo non sa se sta diventando uno

spettro o un rospo.

Il sepolcro, tetro dovunque, qui diventa deforme.

I fontis variavano di profondità, di larghezza, di densità

secondo la qualità più o meno cattiva del sottosuolo.

Talvolta la loro altezza era di tre o quattro piedi, talvolta di

otto o dieci; qualche volta non se ne trovava il fondo. Qui

la melma era quasi solida, là quasi liquida. Nel fontis

Lunière un uomo ci avrebbe messo una giornata a sparire,

mentre sarebbe stato ingoiato in cinque minuti dal pantano

Phélippeaux. La mota sostiene più o meno secondo la

maggiore o minore densità; un fanciullo può salvarsi dove

si perde un uomo. La prima legge di salvezza è quella di

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sbarazzarsi d'ogni specie di carico. Quando un fognaiolo

sentiva il suolo cedere sotto di lui, cominciava col gettar

via la borsa degli utensili, o la gerla, o il martello che

portava.

I fontis derivavano da diverse cause; la friabilità del suolo;

qualche franamento a una profondità fuori della portata

dell'uomo; i violenti acquazzoni d'estate, i nembi incessanti

dell'inverno, le lunghe pioggerelle minute. Talvolta il peso

delle case circostanti, sopra un terreno marnoso o

sabbioso, comprimeva le volte delle gallerie e le faceva

piegare; oppure avveniva che sotto quella spinta

soverchiante si spezzasse e si fendesse il pavimento dei

condotti. Fu così che la massa del Panthéon rovinò, un

secolo fa, una parte dei sotterranei della montagna Santa

Genoveffa. Quando una fogna sprofondava sotto la

pressione delle case, il disordine, in alcune circostanze, si

manifestava in alto nella via con una specie di spaccatura

dentata fra le selci, che si prolungava con una linea

serpentina lungo tutta la volta spaccata, e allora, essendo

visibile il male, il rimedio poteva essere immediato. Invece

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spesso accadeva che il guasto interno non si palesasse con

nessuno sfregio di fuori; e in tal caso, guai ai fognaioli!

Entrando senza precauzione nel condotto sfondato,

potevano soccombere. Gli antichi registri fanno menzione

di parecchi uomini ingoiati in tal modo nei fontis, e

ricordano vari nomi, tra cui quello del fognaiolo che affondò

in un franamento sotto la bocca di via Carême-Prenant, un

certo Biagio Poutrain, fratello di Nicola Poutrain, che fu

l'ultimo affossatore del cimitero detto Carnaio degli

Innocenti nel 1785, epoca in cui quel cimitero venne

soppresso.

Ci fu anche il giovane e grazioso visconte d'Escoubleau,

che abbiamo già nominato, uno degli eroi dell'assedio di

Lerida, a cui si dette l'assalto con calze di seta e coi violini

in testa.

Sorpreso una notte in casa di sua cugina, la duchessa di

Sourdis, annegò in una fenditura della fogna Beautreilles,

nella quale s'era rifugiato per sfuggire al duca. Quando le

narrarono quella morte, la signora di Sourdis si fece dare la

sua boccetta e a forza di aspirare essenze odorose

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dimenticò di piangere. In simili casi non c'è amore che

tenga; la cloaca lo spegne. Ero ricusa di lavare il cadavere

di Leandro, Tisbe si tura il naso innanzi a Pirano

esclamando: - oibò!

6. IL fontIS

Valjean era incappato in un fontis.

Quella specie di franamento era allora frequente nel

sottosuolo dei Campi Elisi, difficilmente trattabile con i

lavori idraulici e refrattario a un trattamento in muratura a

causa della sua eccessiva fluidità. Questa fluidità è

maggiore dell'inconsistenza delle sabbie del quartiere San

Giorgio, che si è potuta domare solo per mezzo di una

sassaia sopraintrisa di bitume, e di quelle degli strati

argillosi pregni di gas del quartiere dei Martiri, talmente

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liquide, che il passaggio sotto la galleria poté effettuarsi

solo con un tubo di ghisa. Quando nel 1836, sotto il

quartiere Sant'Onorato venne demolito l'antico condotto di

pietra, nel quale in questo momento vediamo impegnato

Valjean, la sabbia mobile, che forma il sottosuolo dai

Campi Elisi fino alla Senna, oppose tanta resistenza, che il

lavoro di ricostruzione durò circa sei mesi, con grandi

proteste dei frontisti, soprattutto di quelli con palazzi e

carrozze. I lavori, non che difficili, riuscirono pericolosi; è

vero che ci furono quattro mesi e mezzo di pioggia e tre

piene della Senna.

Il fontis, in cui s'era imbattuto Valjean,derivava

dall'acquazzone del giorno prima. Un cedimento del suolo

mal sostenuto dalla sabbia sottostante, aveva prodotto un

ingorgo d'acqua piovana; era avvenuta l'infiltrazione e

quindi lo sprofondamento. Il suolo, smosso, era affondato

nella melma. Su quale estensione? Impossibile dirlo. Le

tenebre erano più fitte che in qualunque altro punto: era

un buco di fango in una caverna di tenebre.

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Valjean sentì che il lastrico gli sfuggiva sotto, ma entrò

risolutamente nel fango; era acqua alla superficie, limo nel

fondo. Bisognava passare a ogni costo; tornare indietro era

impossibile: Mario era sul punto di spirare, e lui estenuato;

e poi, dove andare? Avanzò. Ai primi passi la fenditura

parve poco profonda; ma quanto più si inoltrava, tanto più

i piedi s'immergevano. Ben presto, la mota gli giunse a

mezza gamba, l'acqua ai ginocchi. Camminava alzando

Mario quanto più poteva al di sopra dell'acqua. Ora la

melma gli arrivava ai ginocchi e l'acqua alla cintura. Non

poteva più rinculare, e affondava sempre più. Quella mota,

abbastanza densa per sostenere il peso d'un uomo,

evidentemente non poteva portarne due. Se fossero stati

separati, Mario e Valjean avrebbero avuto probabilità di

salvezza.

Tuttavia Valjean continuò ad avanzare, sostenendo quel

moribondo, che era forse un cadavere.

L'acqua gli arrivava alle ascelle; si sentiva sprofondare; a

mala pena poteva muoversi nel fango profondo in cui

stava. La densità gli era di sostegno, ma anche di ostacolo.

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Teneva sempre sollevato Mario, e con uno spreco di forze

inaudito avanzava, ma affondava; non aveva più che la

testa fuori dell'acqua, e con le braccia teneva alto il ferito.

Nelle antiche pitture del diluvio si vede una madre che

sorregge così suo figlio.

Affondò ancora e rovesciò il capo all'indietro per sfuggire

all'acqua e respirare; chi l'avesse visto in quell'oscurità

avrebbe creduto di vedere una maschera galleggiante

nell'ombra.

Scorgeva confusamente sopra di sé la testa penzolante e il

viso livido di Mario. Fece uno sforzo disperato e cacciò

innanzi il piede, che andò a urtare contro qualcosa di

solido: un punto d'appoggio. Finalmente.

Si raddrizzò, si contorse, si abbarbicò quasi con furia su

quel punto d'appoggio: gli fece l'effetto del primo gradino

d'una scala risalente verso la vita.

Quel punto d'appoggio incontrato nella melma nel

momento estremo, era l'inizio dell'altro versante del

lastricato, che aveva ceduto senza rompersi, e si era

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curvato sotto il peso dell'acqua come un'asse, tutto d'un

pezzo. I lastricati ben costruiti s'inarcano e hanno quella

specie di fermezza. Quel frammento del suolo, sommerso

in parte, ma solido, era una vera rampa, e una volta su

quella rampa, si era salvi. Valjean risalì quel piano inclinato

e si trovò dall'altro lato della fenditura.

Uscendo dall'acqua inciampò in un sasso e cadde in

ginocchio.

Pensò che era giusto, e vi rimase qualche tempo, con

l'anima inabissata in chi sa quali parole rivolte a Dio.

Si raddrizzò tremante, intirizzito, insudiciato, curvo sotto il

peso del moribondo che trasportava, tutto gocciolante di

melma, ma con l'anima piena d'una strana luce.

7. QUALCHE VOLTA SI NAUFRAGA DOVE SI CREDE DI

SBARCARE

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Si rimise di nuovo in cammino.

Del resto, se non aveva lasciato la vita nel fontis sembrava

ci avesse lasciato la forza. Quel supremo sforzo l'aveva

esaurito. La sua stanchezza era tale che, ogni tre o quattro

passi, era costretto a riprendere fiato e ad appoggiarsi al

muro. Una volta dovette sedersi sulla panchetta per

cambiare la posizione di Mario, e credette di doverci

restare per sempre.

Ma se il suo vigore era spento, non così la sua energia. Si

rialzò.

Camminò disperatamente, quasi in fretta; fece un centinaio

di passi senza alzar la testa e quasi senza respirare, e

improvvisamente urtò contro il muro. Era giunto a un

gomito della fogna, e arrivando alla svolta a capo chino,

aveva incontrato la parete. Levò gli occhi, e all'estremità

del sotterraneo, laggiù, davanti a lui, lontano, assai

lontano, vide una luce. Questa volta non era la luce

terribile, ma la luce buona e bianca, quella del giorno.

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Vedeva lo sbocco.

Un'anima dannata che, di mezzo alla fornace, scorgesse

improvvisamente l'uscita della geenna, proverebbe quello

che provò Valjean. Essa volerebbe disperatamente, coi

mozziconi delle ali bruciate, verso la porta radiosa. Valjean

non sentì più la stanchezza, non sentì più il peso di Mario,

ritrovò i suoi garretti d'acciaio e corse più che camminare.

A mano a mano che si avvicinava, l'uscita si delineava più

distintamente. Era un arco centinato, meno alto della volta

che si abbassava gradatamente, e meno largo della galleria

che andava restringendosi con l'abbassarsi della volta. Il

condotto finiva come l'interno di un imbuto; restringimento

vizioso, imitato dagli sportelli delle carceri, logico in una

prigione, illogico in una fogna, e che fu più tardi corretto.

Valjean giunse allo sbocco. E lì si fermò. Era proprio

l'uscita, ma non si poteva uscire.

L'arco era chiuso da un robusto cancello, che secondo ogni

apparenza girava di rado sui cardini arrugginiti, ed era

saldato allo stipite di pietra da una grossa serratura, tanto

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rossastra per la ruggine che sembrava un enorme mattone.

Si vedeva il buco della chiave e la robusta stanghetta

immersa profondamente nella bocchetta di ferro: la

serratura, evidentemente chiusa a doppio giro, era una di

quelle da bastia che l'antica Parigi prodigava volentieri.

Al di là del cancello l'aria libera, il fiume, la luce, l'argine

molto stretto ma sufficiente per camminare, le rive

deserte, Parigi, questa voragine in cui è così facile

nascondersi, il vasto orizzonte, la libertà. Si distingueva a

destra, a valle, il ponte di Iena, e alla sinistra, a monte,

quello degli Invalidi. Il luogo sarebbe stato propizio per

attendere la notte e poi fuggire. Era uno dei punti più

solitari di Parigi: la proda che sta di fronte al Gros-Caillou.

Le mosche entravano e uscivano attraverso le sbarre del

cancello.

Erano circa le otto e mezzo di sera: il giorno declinava.

Valjean depose Mario lungo il muro sulla parte asciutta del

suolo; poi si avvicinò al cancello e strinse i pugni sulle

sbarre: la scossa fu frenetica, ma l'effetto fu nullo; il

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cancello non si mosse. Afferrò le sbarre l'una dopo l'altra,

sperando di poter strappare la meno solida e farsene una

leva per sollevare il cancello o rompere la serratura; ma

nessuna sbarra cedette: i denti d'una tigre non stanno più

saldi nei loro alveoli. Senza leva, era inutile qualsiasi

sforzo: l'ostacolo era invincibile.

Nessun mezzo per aprire.

Doveva dunque finire là? Che fare? A che partito

appigliarsi?

Retrocedere, ricominciare lo spaventoso tragitto già

compiuto? non ne sentiva la forza. Del resto, come

attraversare di nuovo quella fenditura, dalla quale s'era

tratto fuori per miracolo? E al di là della fenditura non c'era

quella ronda di polizia, a cui non sfuggirebbe certamente la

seconda volta? E poi, dove andare? Che direzione

prendere? Seguire la china non significava raggiungere lo

scopo. Pur arrivando a un altro sbocco, lo troverebbe

chiuso da una lastra o da un cancello, poiché tutte le uscite

erano chiuse in quel modo. Il caso aveva aperto l'inferriata

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per la quale era entrato, però tutte le altre bocche della

fogna erano chiuse.

Aveva ottenuto soltanto di fuggire in una prigione. Era

finita.

Quanto aveva fatto sino allora diventava inutile. Dio non

voleva.

Erano incappati l'uno e l'altro nella cupa e immensa tela

della morte, e Valjean sentiva il ragno spaventoso correre

su quei fili neri che fremevano nelle tenebre.

Volse le spalle al cancello, si buttò sul lastrico, più atterrato

che seduto, accanto a Mario sempre immobile, e piegò la

testa sulle ginocchia. Nessuna uscita. Era l'ultima goccia

dell'angoscia.

A chi pensava, in quel profondo abbattimento? Non a se

stesso. Non a Mario. Pensava a Cosetta.

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8. LA FALDA DELL'ABITO LACERATA

Mentre stava così prostrato, una mano gli si posò sulla

spalla e una voce gli disse, parlando sommesso:

- Dividiamo.

Qualcuno in quell'ombra? Non c'è nulla che somigli al

sogno come la disperazione: Valjean credette di sognare.

Non aveva udito nessun passo. Era mai possibile? Alzò gli

occhi.

Un uomo gli stava dinanzi.

Era vestito d'un camiciotto, aveva i piedi nudi e portava

nella mano sinistra le scarpe, che evidentemente si era

tolte per giungere sino a Valjean senza far sentire i suoi

passi.

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Valjean non esitò un momento: per quanto fosse

imprevisto l'incontro, quell'individuo gli era noto. Era

Thénardier.

Benché risvegliato, per così dire, di soprassalto, uso

com'era agli allarmi e agguerrito ai colpi inattesi che

bisogna parar presto, Valjean riprese presto la sua

presenza di spirito. Del resto la situazione non poteva

peggiorare; un certo grado di angustia non è più

suscettibile d'aumento, e lo stesso Thénardier non poteva

aggiungere maggiori tenebre a quella notte. Ci fu una

battuta d'aspetto.

Alzando la mano destra all'altezza della fronte, Thénardier

se ne fece paralume, quindi aggrottò le sopracciglia

strizzando gli occhi, con una leggera contrazione delle

labbra, gesto che caratterizza la sagace attenzione di un

uomo che cerca di riconoscere un altro. Non ci riuscì.

Valjean, come abbiamo detto, volgeva le spalle alla luce, e

d'altronde era così sfigurato, infangato e insanguinato, che

in pieno giorno sarebbe stato irriconoscibile. Invece,

illuminato di fronte dalla luce del cancello, luce di cantina,

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livida ma precisa nella sua lividezza, Thénardier, come dice

l'energica metafora volgare, saltò subito agli occhi di

Valjean. Quella disparità di situazione bastava ad

assicurare a quest'ultimo qualche vantaggio nel misterioso

duello che stava per impegnarsi tra le due situazioni e i

due uomini.

Valjean si accorse subito che l'altro non lo riconosceva. Si

esaminarono un momento in quella penombra come se

volessero misurarsi. Thénardier fu il primo a rompere il

silenzio:

- Come farai per uscire?

Valjean non rispose.

L'altro continuò:

- E' impossibile scassinare la serratura; eppure è

necessario che tu te ne vada da qui.

- E' vero, - disse Valjean.

- Ebbene, dividiamo.

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- Che intendi dire?

- Tu hai ammazzato l'uomo, sta bene. Io ho la chiave.

E mostrava col dito Mario; quindi proseguì:

- Non ti conosco ma voglio aiutarti. Devi essere un amico.

Valjean cominciò a capire: Thénardier lo prendeva per un

assassino.

Costui riprese:

- Ascolta, amico: tu non hai ucciso quest'uomo senza

guardare in tasca; dammi la metà e io apro la porta.

E tirando una grossa chiave di sotto al camiciotto tutto

stracciato, soggiunse:

- Vuoi vedere come è fatta la chiave della libertà? Eccola.

Valjean "rimase stupito", la frase è del vecchio Corneille, al

punto di dubitare della realtà di quello che vedeva. Era la

Provvidenza che gli appariva con un orribile ceffo, il buon

angelo che sbucava dalla terra sotto le forme di

Thénardier.

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Costui, cacciatosi la mano in una larga tasca sotto il

camiciotto, ne tirò fuori una corda e la porse a Valjean.

- Prendi, - disse; - in aggiunta ti do anche la corda.

- Che devo farne della corda?

- Hai bisogno anche d'una pietra, ma la troverai fuori. C'è

un mucchio di rottami.

- Che devo farne della pietra?

- Imbecille, se vuoi gettare il cadavere nel fiume, hai

bisogno di una pietra e di una corda, se no galleggerà

sull'acqua.

Valjean prese la corda. Abbiamo tutti di queste accettazioni

macchinali.

Thénardier fece scricchiolare le dita come all'arrivo di

un'idea improvvisa.

- Appunto, amico, come hai fatto a tirarti fuori laggiù dalla

fenditura? Io non ho osato arrischiarmi. Oibò! che puzza!

E dopo una pausa, aggiunse:

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- Ti faccio delle domande, ma hai ragione di non

rispondermi. E' un tirocinio per il maledetto quarto d'ora

del giudice d'istruzione; e poi col non parlare affatto non

corri il rischio di parlare troppo forte. Ma è lo stesso; se

non vedo il tuo volto e non conosco il tuo nome, avresti

torto di credere che io non sappia chi sei e cosa vuoi. E'

cosa nota. Hai portato un pochino questo signore, e ora

vorresti ficcarlo in qualche luogo; ti occorre il fiume, il gran

nascondiglio delle castronerie. Io voglio cavarti d'impaccio.

Mi piace venire in aiuto a un buon ragazzo imbarazzato.

Benché approvasse il silenzio di Valjean, si vedeva

chiaramente che cercava di farlo parlare. Lo spinse per una

spalla tentando di esaminarlo di profilo, ed esclamò, senza

però mai alterare il suo tono di voce:

- A proposito della fenditura, sei una magnifica bestia:

perché non ci hai gettato l'individuo?

Valjean continuò a tacere.

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Thénardier tirò su sino al pomo d'Adamo il cencio che gli

faceva da cravatta, gesto che completa l'aria importante di

un uomo serio; quindi riprese:

- In effetti, hai forse agito saggiamente. Gli operai domani,

venendo a tappare il buco, avrebbero senza dubbio trovato

il cittadino dimenticato laggiù, e si sarebbe potuto, a poco

a poco, filo per filo, rinvenire la traccia, giungere fino a te.

Qualcuno è passato nella fogna. Chi? di dove è uscito? è

stato visto uscire? La polizia è molto ingegnosa, e la fogna

è traditrice e vi denuncia. Simile scoperta è una rarità, e

attira l'attenzione; poche persone si servono della fogna

per le loro faccende, mentre il fiume è di tutti. Il fiume è la

vera fossa. Dopo un mese ti ripescano l'uomo nelle reti di

Saint-Cloud; ebbene, che importa questo? è una carogna!

Chi ha ucciso quell'uomo? Parigi. E la giustizia non

investiga! Hai fatto bene.

Più Thénardier era loquace, più Valjean era muto,

Thénardier lo scosse di nuovo per la spalla:

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- Concludiamo dunque l'affare. Dividiamo. Hai visto la mia

chiave, mostrami il tuo denaro.

Thénardier era torvo, selvaggio, losco, un po' minaccioso e

tuttavia amichevole.

C'era questo di strano, che i suoi modi non erano naturali,

pareva non stare a suo agio, e benché non affettasse

nessun'aria misteriosa, parlava sottovoce; ogni tanto si

metteva il dito sulla bocca e mormorava: zitto! Era difficile

indovinare perché: non c'era nessuno, tranne che loro.

Valjean pensò che altri banditi erano forse nascosti in

qualche cantuccio, e che Thénardier non ci teneva a

dividere con loro.

Thénardier riprese:

- Finiamola. Quanto aveva il cadavere nelle sue tasche?

Valjean si frugò in tasca.

Ricorderemo che era sua abitudine portar sempre del

denaro addosso: l'oscura vita di espedienti a cui era

condannato gliene faceva una legge. Tuttavia questa volta

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veniva colto alla sprovvista. Indossando, la sera

precedente, la divisa di guardia nazionale, così

lugubremente assorto come era, aveva dimenticato di

prendere il portafoglio. Non aveva che poche monete nel

taschino del panciotto. Lo rovesciò, tutto inzuppato di

fango, e schierò sulla panchetta rasente al suolo un luigi

d'oro, due monete da cinque franchi e cinque o sei soldoni.

Thénardier sporse il labbro interiore e torse il collo in un

modo espressivo, dicendo:

- L'hai ammazzato a buon mercato.

E si mise a palpare, con perfetta familiarità, le tasche di

Mario e quelle di Valjean, il quale, soprattutto preoccupato

di volgere le spalle alla luce, lo lasciava fare. Mentre

maneggiava l'abito dei giovane, Thénardier, con una

destrezza da prestigiatore, trovò modo di strappare, senza

che Valjean se ne accorgesse, un lembo che nascose sotto

il camiciotto, pensando forse che quel pezzo di panno gli

poteva servire più tardi a riconoscere l'assassinato e

l'assassino. Del resto, non trovò altro che i trenta franchi.

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- E' vero, - diss'egli, - non possedete che questi.

E dimenticando la sua parola: "dividiamo", prese tutto.

Esitò un momento dinanzi ai soldoni; ma dopo aver

riflettuto li prese, borbottando:

- Non importa! Si ammazzano le persone a troppo buon

mercato.

Ciò fatto, tirò di nuovo la chiave di sotto al camiciotto.

- E ora, amico, te ne devi andare. Qui è come alla fiera, si

paga uscendo. Hai pagato, vattene.

E si mise a ridere.

Nel porgere il soccorso di quella chiave a quello

sconosciuto, e nel far passare da quella porta un altro in

vece sua, aveva l'intenzione pura e disinteressata di

salvare un assassino? Ci sia permesso dubitarne.

Thénardier aiutò Valjean a ricaricarsi Mario sulle spalle, poi,

sulla punta dei piedi nudi, andò al cancello, facendo segno

all'altro di seguirlo, guardò fuori ponendosi un dito sulla

bocca, e rimase qualche momento quasi in sospeso. Fatta

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l'ispezione, mise la chiave nella toppa; la stanghetta

scivolò e il cancello girò, senza che si udisse né stridere, né

scricchiolare. Tutto si svolse con calma. Evidentemente

quel cancello e i suoi cardini, unti con cura, si aprivano più

spesso che non si sarebbe creduto. Quella calma era

sinistra; vi si sentivano le andate e i ritorni furtivi di uomini

notturni, e i passi di lupo del delitto. La fogna era

evidentemente complice di qualche banda misteriosa: quel

cancello taciturno era un manutengolo.

Thénardier lo aprì tanto da dare appena il passo a Valjean,

lo richiuse, girando due volte la chiave nella toppa, e si

immerse nell'oscurità senza fare più rumore d'un soffio;

pareva che camminasse con le zampe vellutate della tigre.

Un momento dopo, quella schifosa provvidenza era

rientrata nell'invisibile. Valjean si trovò fuori.

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9. MARIO SEMBRA MORTO A QUALCUNO CHE SE NE

INTENDE

Lasciò scivolare Mario sull'argine. Erano all'aria aperta! I

miasmi, l'oscurità, l'orrore, erano dietro di lui. Si sentiva

inondato dall'aria salubre, pura, vivificante, gioconda,

liberamente respirabile. Dappertutto silenzio, ma il silenzio

piacevole del tramonto nel limpido azzurro. Era già il

crepuscolo, veniva la notte, la grande liberatrice, l'amica di

tutti quelli che abbisognano di un mantello d'ombra per

uscire da un'angoscia.

Da ogni parte il cielo si offriva come un'enorme calma. Il

fiume gli lambiva i piedi col rumore di un bacio. Si udivano

gli aerei colloqui dei nidi che si davano la buona sera negli

olmi dei Campi Elisi. Alcune stelle, che punteggiavano

leggermente il pallido azzurro, visibili solo agli occhi

meditabondi, accendevano nella immensità piccoli

impercettibili splendori. La sera spiegava sul capo di

Valjean tutte le dolcezze dell'infinito.

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Era l'ora indecisa e bella che non dice né sì, né no. Era già

buio abbastanza per perdersi di vista a qualche distanza, e

abbastanza giorno per poter essere riconosciuti da vicino.

Egli restò per qualche attimo irresistibilmente vinto da

quell'augusta e carezzevole serenità. Ci sono momenti di

oblìo nei quali la sofferenza rinuncia a far soffrire il

miserabile; ogni cosa si eclissa nella mente; la pace

avvolge il sognatore come una notte; e sotto i riverberi del

crepuscolo, ad imitazione del cielo che s'illumina, l'anima

pare una stella. Valjean non poté fare a meno di

contemplare quella vasta ombra chiara sopra di sé;

pensoso, prendeva nel maestoso silenzio del cielo eterno

un bagno d'estasi e di preghiera. Poi, premurosamente,

come se gli tornasse il senso del dovere, si chinò su Mario,

e attingendo un po' d'acqua nel cavo della mano, gli

spruzzò leggermente alcune gocce sul volto. Le palpebre

del giovane non si sollevarono; tuttavia la sua bocca

socchiusa respirava.

Valjean stava per immergere di nuovo la mano nel fiume,

quando provò a un tratto un certo imbarazzo, come

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quando si ha dietro qualcuno che non si vede. Abbiamo già

indicato altrove questa impressione, che tutti conoscono. Si

volse.

Come poco prima, qualcuno infatti era dietro di lui.

Un uomo d'alta statura, avvolto in un ampio soprabito, con

le braccia incrociate, con nella mano destra un randello di

cui si scorgeva il pomo di piombo, se ne stava in piedi a

qualche passo da Valjean chino su Mario.

Anche l'oscurità contribuiva a farlo sembrare

un'apparizione. Un sempliciotto ne avrebbe avuto paura a

causa del crepuscolo, un uomo riflessivo a causa del

randello.

Valjean riconobbe Javert.

Il lettore ha senza dubbio indovinato che il pedinatore di

Thénardier non era altri che Javert, il quale, dopo la sua

insperata uscita dalla barricata, era andato alla prefettura

di polizia, aveva fatto una relazione verbale al prefetto in

persona, in una breve udienza, e aveva preso

immediatamente il suo servizio, che abbracciava - come

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sappiamo dalla nota trovatagli addosso - un certa

sorveglianza sull'argine della riva destra ai Campi Elisi, il

quale da qualche tempo richiamava l'attenzione della

polizia. Veduto Thénardier, l'aveva seguito. Il resto ci è

noto.

Si comprende pure che quel cancello aperto con tanta

compiacenza a Valjean, era un'astuzia di Thénardier. Col

fiuto che non inganna mai l'uomo inseguito, Thénardier

sentiva che Javert era sempre là:

bisognava dunque gettare un osso a quel segugio. Un

assassino, che fortuna! Era la parte più prelibata, che non

bisogna mai rifiutare. Thénardier, mandando Valjean in sua

vece dava una preda alla polizia, l'allontanava dalla propria

traccia, si faceva dimenticare per un'avventura maggiore,

ricompensava Javert della sua attesa - cosa sempre

lusinghiera per una spia - guadagnava trenta franchi, e

contava di fuggire con l'aiuto di quel tranello.

Valjean era passato da uno scoglio all'altro.

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Quei due incontri successivi, quel cadere da Thénardier in

Javert, era un colpo rude.

Il poliziotto non riconobbe Valjean che, come abbiamo

detto, non assomigliava più a se stesso. Egli non disciolse

le braccia, ma assicurandosi il randello nel pugno con un

moto impercettibile, disse con voce breve e calma:

- Chi siete?

- Io.

- Voi, chi?

- Giovanni Valjean.

Javert si mise il randello tra i denti, piegò i garretti, inclinò

il busto, pose le sue mani potenti sulle spalle di Valjean che

si trovarono serrate come tra due morse, l'esaminò e lo

riconobbe. I loro volti quasi si toccavano; lo sguardo del

poliziotto era terribile.

Valjean rimase inerte sotto la stretta di Javert, come un

leone che consentisse all'artiglio di una lince.

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- Ispettore Javert, - diss'egli, - mi avete preso. Del resto,

da stamattina mi considero come vostro prigioniero; non vi

ho dato il mio indirizzo per tentare poi di sfuggirvi.

Prendetemi: però accordatemi una cosa.

Pareva che Javert non l'udisse. Teneva la pupilla fissa su

Valjean, e il suo mento corrugato spingeva le labbra verso

il naso, segno di una meditazione selvaggia. Finalmente lo

lasciò, si raddrizzò di colpo, riprese nel pugno il randello e

mormorò come in sogno, più che pronunciare, questa

domanda:

- Cosa fate qui? e chi è quest'uomo?

Continuava a non dargli più del tu.

Valjean rispose, e il tono della sua voce pareva che

svegliasse Javert.

- Appunto di lui volevo parlarvi. Disponete di me come vi

piace, ma aiutatemi prima a riportarlo a casa sua; non vi

chiedo altro.

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Il volto di Javert si contrasse, come gli avveniva ogni

qualvolta la gente mostrava di supporlo capace di una

concessione: pure, non disse di no.

Si curvò di nuovo, trasse di tasca un fazzoletto che

immerse nell'acqua, e lavò il volto insanguinato di Mario.

- Quest'uomo era nella barricata, - disse sotto voce e come

parlando a se stesso. - E' quello che chiamavano Mario.

Spione di qualità, aveva tutto osservato, tutto ascoltato,

inteso e raccolto, benché credesse di dover morire; aveva

spiato anche nell'agonia, aveva preso delle note affacciato

sul primo gradino della tomba.

Prese la mano di Mario, cercando il polso.

- E' un ferito, - disse Valjean.

- E' un morto, - disse Javert.

Valjean rispose:

- No, non ancora.

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- L'avete dunque portato dalla barricata fin qui? - chiese il

poliziotto.

La sua preoccupazione doveva essere profonda se non

insistette su quell'inquietante salvataggio attraverso la

cloaca, e non notò neppure il silenzio di Valjean dopo la

sua domanda.

Questi che, dal canto suo, sembrava avere un solo

pensiero, riprese:

- Abita al Marais, via Figlie del Calvario, presso suo

nonno...

Non ricordo più il nome.

E rovistando nell'abito del ferito, ne trasse fuori il

portafoglio, lo aprì alla pagina scritta da Mario e lo porse a

Javert.

C'era ancora nell'aria abbastanza luce per leggere, e inoltre

Javert aveva nell'occhio la fosforescenza felina degli uccelli

notturni. Decifrò le poche linee scritte da Mario e borbottò:

- Gillenormand, via delle Figlie del Calvario, numero sei.

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Quindi gridò: - Cocchiere!

Il lettore ricorderà che una vettura era sempre a

disposizione, per ogni eventualità.

Il poliziotto si tenne il portafoglio di Mario.

Un momento dopo, la vettura, scesa dalla rampa

dell'abbeveratoio, era sull'argine. Mario era collocato sul

sedile in fondo, e Javert sedeva vicino a Valjean su quello

opposto.

Chiusa la portiera, la vettura si allontanò rapidamente,

risalendo la riva in direzione della Bastiglia.

Lasciarono la Senna e penetrarono nelle vie. Il cocchiere,

sagoma oscura sulla sua cassetta, sferzava i magri ronzini.

Silenzio glaciale nella vettura. Mario, immobile, col dorso

appoggiato a un angolo del fondo, la testa cadente sul

petto, le braccia penzoloni, le gambe irrigidite, pareva non

attendere altro che una bara. Valjean sembrava fatto di

ombra, Javert di pietra; e dentro quella tenebrosa vettura,

il cui interno, ogni volta che passava presso un lampione

appariva lividamente illuminato come da un lampo

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intermittente, il caso riuniva e pareva confrontasse

lugubremente le tre immobilità tragiche, il cadavere, lo

spettro, e la statua.

10. RITORNO DEL FIGLIOL PRODIGO DALLA SUA

VITA.

A ogni trabalzo della vettura sul selciato, cadeva una

goccia di sangue dai capelli di Mario.

Era già notte buia quando la vettura giunse al numero sei

della via Figlie del Calvario.

Javert discese per primo, verificò con un'occhiata il numero

scritto sul portone e, sollevando il pesante martello di

ferro, istoriato, all'antica moda, d'un capro e d'un satiro

che si affrontavano, picchiò un colpo forte. Il battente fu

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socchiuso ed egli lo spinse. Il portinaio, semiaddormentato,

si mostrò a mezzo, sbadigliando, con una candela in mano.

Nella casa dormivano tutti. Al Marais si coricano per tempo,

soprattutto nei giorni di sommossa. Quel buon vecchio

quartiere, spaventato dalla rivoluzione, si rifugia nel sonno,

come fanno i fanciulli, che quando sentono avvicinarsi la

bufera, nascondono in fretta la testa sotto le coltri.

Frattanto Valjean e il cocchiere trassero fuori Mario dalla

vettura, Valjean sostenendolo per le ascelle e il cocchiere

per le gambe.

Pur reggendo Mario in quel modo, Valjean fece passare una

mano sotto gli abiti, che erano largamente stracciati, tastò

il petto e si assicurò che il cuore batteva ancora. Batteva

anzi un po' meno debolmente, come se il movimento della

carrozza avesse determinato una certa ripresa della vita.

Javert interrogò il portinaio col tono che si addice

all'autorità di fronte al portinaio d'un fazioso.

- C'è qui uno che si chiama Gillenormand?

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- Sì, signore. Che desiderate da lui?

- Gli si riporta suo figlio.

- Suo figlio? - disse il portinaio attonito.

- E' morto!

Valjean che, cencioso e sudicio, veniva dietro a Javert, e

che il portinaio guardava con un certo orrore, gli fece

cenno di no col capo.

- E' andato alla barricata, ed eccolo qua.

- Alla barricata! - esclamò il portinaio.

- S'è fatto ammazzare. Andate a svegliare il padre.

Il portinaio non si muoveva.

- Andate dunque! - riprese Javert.

E aggiunse:

- Domani qui avrete un funerale.

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Per Javert, gli incidenti abituali della pubblica strada erano

classificati categoricamente - il che costituisce già il

principio della previdenza e della vigilanza - e ogni

eventualità aveva il suo compartimento; i fatti possibili

erano in certo qual modo in tanti cassetti, donde uscivano,

secondo l'occasione, in quantità variabili. Nella via c'era il

tumulto, la sommossa, il carnevale, il funerale.

Il portinaio si contentò di svegliare Basco, che svegliò

Nicoletta, che svegliò la zia Gillenormand. Quanto al nonno

lo lasciarono dormire, pensando che avrebbe saputo la

cosa sempre troppo presto.

Trasportarono Mario al primo piano, senza che nessuno se

ne accorgesse nelle altre parti della casa, e lo deposero

sopra un vecchio canapé nell'anticamera del signor

Gillenormand; e mentre Basco andava a cercare un medico

e Nicoletta apriva gli armadi della biancheria, Valjean sentì

Javert toccargli la spalla. Capì e ridiscese, sentendo dietro

il passo di Javert che lo seguiva.

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Il portinaio li guardò partire come li aveva visti arrivare,

con una sonnolenza sbigottita.

Risalirono sulla vettura; anche il cocchiere risalì sul proprio

sedile.

- Ispettore Javert, - disse Valjean, - concedetemi un'altra

cosa.

- Quale? - chiese rudemente Javert.

- Lasciatemi ritornare a casa un momento. Dopo, farete di

me quello che vorrete.

Javert rimase qualche minuto in silenzio, col mento

rientrato nel bavero del soprabito, poi abbassò il vetro

davanti.

Cocchiere. - disse. - via Homme-Armé, numero sette.

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11. UNA SCOSSA NELL'ASSOLUTO

Non aprirono bocca per tutto il tragitto. Che voleva

Valjean?

Compiere quello che aveva cominciato: avvertire Cosetta,

dirle dov'era Mario, darle forse qualche altra indicazione

utile, lasciarle, se poteva, alcune supreme disposizioni.

Quanto a lui, quanto a quello che lo riguardava

personalmente, era finita; era arrestato da Javert e non

resisteva. Un altro, in quella situazione, avrebbe forse

pensato alla corda datagli da Thénardier e alle sbarre della

prima cella in cui sarebbe entrato; ma da quando aveva

conosciuto il Vescovo, ripetiamolo, c'era in Valjean di

fronte a qualsiasi attentato, anche contro se stesso, una

profonda esitazione religiosa.

Il suicidio, questa misteriosa via di fatto contro l'ignoto, la

quale può contenere in una certa misura la morte

dell'anima, gli riusciva impossibile.

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La vettura si fermò all'ingresso della via Homme-Armé,

troppo stretta per dare accesso alle carrozze, e Valjean e

Javert discesero.

Il cocchiere fece umilmente osservare al "signor ispettore"

che il velluto di Utrecht della sua vettura era tutto

insudiciato dal sangue dell'assassinato e dal fango

dell'assassino. Così egli aveva capito la cosa. Aggiunse che

gli era dovuta una indennità, e nello stesso tempo, traendo

di tasca il suo libretto, pregò il signor ispettore di avere la

bontà di scrivere sopra il suo libretto un attestato di reso

servizio.

Javert respinse il libretto presentatogli dal cocchiere e

disse:

- Quanto ti devo, comprese la tua attesa e la corsa?

- Sono sette ore e un quarto, - rispose l'altro, - e il velluto

era nuovo. Ottanta franchi, signor ispettore.

Il poliziotto cacciò di tasca quattro napoleoni e congedò la

vettura.

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Valjean ritenne che fosse intenzione di Javert condurlo a

piedi al posto dei Blancs-Manteaux o a quello degli Archivi,

situati lì vicino.

Entrarono nella via, che era, come al solito, deserta. Javert

seguiva Valjean. Arrivati al numero 7, questi bussò e la

porta si aprì.

- Sta bene, - disse Javert. - Salite.

E aggiunse con un'espressione strana e come se facesse

uno sforzo per parlare in quel modo:

- Vi aspetto qui.

Valjean lo guardò: quel modo di agire era poco conforme

alle abitudini del poliziotto. Tuttavia, deciso com'era a

lasciarsi arrestare e finirla, Valjean non poteva

meravigliarsi troppo che Javert gli accordasse ora una

specie di sdegnosa fiducia, la fiducia del gatto che concede

al sorcio una libertà lunga quanto la sua zampa. Spinse la

porta, entrò in casa, gridò: - Sono io - al portinaio, che

stava a letto e aveva tirato le tendine, e salì la scala.

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Giunto al primo piano, si fermò un momento. Tutte le vie

dolorose hanno le loro stazioni. La finestra del pianerottolo,

larga e bassa, era aperta. Come in molte case antiche, la

scala s'affacciava sulla via e riceveva di là, un po' di luce. Il

lampione di fuori collocato proprio di fronte, dava un po' di

luce agli scalini, il che costituiva una economia di

illuminazione.

Fosse per respirare, fosse macchinalmente, Valjean sporse

il capo dalla finestra, chinandosi a guardare nella via, che

era corta e quindi illuminata dal lampione da un estremo

all'altro. Valjean restò enormemente stupito: non c'era più

nessuno.

Javert se n'era andato.

12. IL NONNO

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Basco e il portinaio avevano trasportato nel salotto Mario,

disteso immobile sul canapé su cui era stato adagiato

all'arrivo.

Il medico mandato a chiamare era accorso, e la zia

Gillenormand s'era alzata.

Questa andava e veniva, spaventata, giungendo le mani, e

capace di dire soltanto: - Possibile, mio Dio! - E talvolta

aggiungeva:- Si macchierà tutto di sangue! - Passato il

primo orrore, una certa filosofia della situazione si fece

strada nella sua mente, e si tradusse in questa

esclamazione: - Doveva finire così! Non si spinse fino al

"l'avevo detto io!" che è d'uso in simili occasioni.

Per ordine del medico, una branda fu allestita vicino al

canapé.

Il medico esaminò Mario, e dopo aver constatato che il

polso persisteva, che il ferito non aveva al petto nessuna

piaga profonda, che il sangue agli angoli della bocca

proveniva dalle fosse nasali, lo fece mettere disteso sul

letto, senza guanciale, con la testa al livello del corpo, anzi

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un po' più bassa, il torso nudo per agevolare la

respirazione. La signorina Gillenormand, vedendo che

spogliavano Mario, si ritirò nella propria camera per

recitare il rosario.

Il torso non aveva nessuna lesione interna; una palla,

ammortita dal portafoglio, aveva deviato e girato

tutt'intorno alle costole con una lacerazione orribile, ma

non profonda, e quindi senza pericolo; la lunga marcia

sotterranea aveva finito di lussare la clavicola spezzata, e

in quel punto c'era qualche disordine serio; le braccia

erano tagliuzzate; nessuna ferita sfigurava il volto; ma la

testa era quasi coperta di tagli. Che ne sarebbe stato di

quelle ferite al capo? Si fermavano al cuoio capelluto, o

intaccavano il cranio? Non si poteva dirlo ancora. Era un

sintomo grave che avessero cagionato lo svenimento; e

non sempre da tali svenimenti si rinviene. Inoltre,

l'emorragia lo aveva sfinito.

Dalla cintola in giù, il corpo era stato coperto dalla

barricata.

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Basco e Nicoletta laceravano dei pannolini per formarne

bende.

Nicoletta le cuciva. Basco le arrotolava. In mancanza di

filacce, il medico aveva provvisoriamente arrestato il

sangue delle ferite con batuffoli d'ovatta. Tre candele

ardevano accanto al letto, su una tavola, dove era

schierata la batteria dei ferri chirurgici.

Il medico lavò il volto e i capelli di Mario con acqua fredda.

Un secchio pieno d'acqua in un momento divenne rosso. Il

portinaio, con la candela in mano, faceva lume.

Il medico pareva tristemente pensoso. Ogni tanto faceva

un cenno di testa negativo, come se rispondesse a qualche

quesito propostosi mentalmente. Sono un cattivo segno

per il malato questi misteriosi colloqui del medico con se

stesso.

Mentre asciugava il volto del ferito e toccava leggermente

col dito le palpebre sempre chiuse, una porta si aprì in

fondo alla sala e apparve una lunga figura pallida.

Era il nonno.

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Da due giorni, la sommossa aveva molto agitato, sdegnato

e preoccupato il signor Gillenormand. Non aveva potuto

dormire la notte precedente, e aveva avuto la febbre per

tutta la giornata.

La sera, si era coricato molto presto, raccomandando di

sprangare tutto nella casa, e per la stanchezza si era

assopito.

Ma i vecchi hanno il sonno fragile; la sua camera era

attigua alla sala, e malgrado tutte le precauzioni usate, il

rumore l'aveva svegliato. Sorpreso dalla fessura luminosa

che vedeva alla sua porta, era disceso dal letto ed era

venuto a tentoni.

Stava là sulla soglia, stupito, con una mano sulla maniglia

della porta socchiusa, con la testa un po' china innanzi e

oscillante, col corpo avvolto in una veste da camera bianca

diritta e senza pieghe come un sudario; pareva un

fantasma che guarda in una tomba.

Vide il letto, e sul materasso quel giovane sanguinante,

bianco d'un candore di cera, con gli occhi chiusi, la bocca

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aperta, le labbra livide, nudo sino alla cintura, coperto

dappertutto di piaghe vermiglie, immobile, chiaramente

illuminato.

Il nonno ebbe dalla testa ai piedi tutto il brivido che

possono provare le membra ossificate; i suoi occhi, con la

cornea ingiallita dalla tarda età, si velarono di una specie di

riflesso vitreo; tutta la faccia assunse in un momento tutte

le terree angolosità di un teschio; le braccia caddero

penzoloni come se si fosse spezzata una molla; lo stupore

si manifestò col disgiungersi delle dita delle sue vecchie

mani tutte tremanti, i ginocchi gli si piegarono innanzi,

lasciando vedere dall'apertura della veste da camera le

povere gambe nude irte di peli bianchi; mormorò:

- Mario!

- Signore, - disse Basco, - hanno portato poco fa il signore.

E' andato alla barricata e...

- E' morto! - esclamò il vecchio con voce terribile. - Ah,

brigante!

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Allora una specie di trasfigurazione sepolcrale raddrizzò

quel centenario, diritto come un giovanotto.

- Signore, - disse, - voi siete il medico. Cominciate col

dirmi una cosa. E' morto, non è vero?

Il medico, al colmo dell'ansietà, non rispose.

Il signor Gillenormand si torse le mani con uno scoppio di

risa spaventevole.

- E' morto! è morto! s'è fatto ammazzare sulla barricata!

per odio verso di me! Ah! bevitore di sangue! E in questo

modo ritorna!

Miseria della mia vita, è morto!

Andò a una finestra, la spalancò, quasi si sentisse

soffocare, e ritto di fronte all'oscurità, si mise a parlare con

le tenebre della via:

- Ferito, sciabolato, sgozzato, sterminato, tagliuzzato, fatto

a brani! Capite, il briccone! Lo sapeva bene che

l'aspettavo, che gli avevo fatto preparare la camera, che

avevo messo al capezzale del mio letto il suo ritratto di

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quand'era piccino! Lo sapeva bene che gli bastava

ritornare, che da anni lo invocavo, che me ne stavo la sera

in un angolo del focolare con le mani sulle ginocchia, senza

sapere che fare, e che mi ero rimbecillito!

Questo lo sapevi bene, che ti bastava tornare e dire: -

Sono io, - e che saresti stato il padrone della casa, e io

t'avrei obbedito; che avresti fatto quello che volevi del tuo

vecchio imbecille di nonno! Lo sapevi, e hai detto: - No, è

un legittimista, non andrò!

- E sei andato alla barricata e ti sei fatto uccidere per

cattiveria! per vendicarti di quello che ti avevo detto a

riguardo del signor duca di Berry! Ecco dov'è l'infamia!

Coricatevi dunque e dormite tranquillamente! E' morto!

Ecco il mio risveglio.

Il medico, che cominciava a essere inquieto, si staccò un

momento da Mario e accostatosi al signor Gillenormand lo

prese per il braccio. Il nonno si volse, lo guardò con occhi

che parevano ingranditi e sanguinosi, e gli disse con calma:

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- Signore, vi ringrazio. Sono tranquillo, sono un uomo, ho

visto la morte di Luigi Sedicesimo, so sopportare gli

avvenimenti.

Quello che è terribile, è pensare che sono i vostri giornali la

causa di tutto il male. Voi avrete gli scribacchini, i parolai,

gli avvocati, gli oratori, le tribune, le discussioni, il

progresso, i lumi, i diritti sull'uomo, la libertà di stampa, ed

ecco come vi riporteranno a casa i figlioli! Ah, Mario, è una

cosa abominevole! Ucciso! Morto prima di me! In una

barricata! Ah, bandito! Dottore, voi abitate nel quartiere,

credo. Oh! vi conosco bene, vedo dalla finestra passare il

vostro calessino. Vi dirò:

avreste torto di credere che io sia in collera; non si va in

collera contro un morto; sarebbe stupido. E' un ragazzo

che ho allevato; ero già vecchio, quand'egli era ancora

piccino così.

Giocava alle Tuileries con la sua piccola pala e la sua

seggiolina, e perché gli ispettori del giardino non lo

sgridassero, io chiudevo man mano col bastone i buchi che

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egli faceva in terra con la pala. Un giorno ha gridato: -

Abbasso Luigi Diciottesimo! - ed è andato via. Non è stata

colpa mia. Era tutto roseo e biondo. Sua madre è morta.

Avete notato che tutti i bambini sono biondi? Da che

deriva? E' figlio d'un brigante della Loira, ma i figli sono

innocenti dei delitti dei loro genitori. Me lo ricordo quando

era alto così; non riusciva a pronunciare la d.

Parlava in un modo così dolce e confuso che pareva un

uccello. Mi ricordo che una volta, davanti all'Ercole

Farnese, si formò un capannello per ammirare, tanto era

bello, il ragazzino! Aveva una testolina come se ne vedono

nelle pitture. Gli facevo la voce grossa, gli mettevo paura

col bastone, ma egli sapeva bene che lo facevo per ridere.

Quando alla mattina entrava nella mia camera, io

brontolavo, ma mi faceva l'effetto del sole. Non ci si può

difendere da questi mocciosi; vi pigliano, vi tengono, non vi

lasciano più. La verità è che era un amore di bambino

come non ce n'è più. E ora, cosa ne pensate dei vostri

Lafayette, dei vostri Beniamino Constant, dei vostri Tirecuir

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de Corcelles, che me lo ammazzano? La cosa non può finire

così.

Si accostò a Mario sempre livido e immobile, presso cui il

medico era tornato, e ricominciò a torcersi le braccia. Le

labbra bianche del vecchio si agitavano quasi

macchinalmente, e lasciavano passare, come soffi in un

rantolo, delle parole quasi indistinte che si udivano appena:

- Ah! senza cuore! Ah! clubista! Ah!

scellerato! Ah! settembrista! - Rimproveri a voce

sommessa di un agonizzante a un cadavere.

A poco a poco, siccome è pur sempre necessario che le

eruzioni interne si facciano strada, la concatenazione delle

parole tornò, ma il vecchio pareva che non avesse più la

forza di pronunciarle; la sua voce era così sorda e spenta

che sembrava venisse dal fondo di un abisso.

- Per me è lo stesso, sto per morire anch'io. E dire che non

c'è in tutta Parigi una briccona che non sarebbe stata

fortunata di formare la felicità di questo miserabile! Un

furfante che invece di divertirsi e di godersi la vita, è

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andato a battersi e a farsi mitragliare come un bruto! E per

chi poi? Per la repubblica!

Invece di andare a ballare alla Chaumière, com'è dovere

dei giovani. Vale proprio la pena di avere vent'anni. La

repubblica, bella balorda minchioneria! Povere madri,

mettete dunque al mondo dei bei giovanotti! Suvvia, è

morto; ci saranno due funerali nella casa. Dunque ti sei

fatto conciare in questo modo per i begli occhi del generale

Lamarque! Che ti aveva fatto di bello, quel generale

Lamarque? Uno sciabolatore! Un cialtrone! Farsi

ammazzare per un morto! Ma non è una cosa da diventar

pazzi? Capite! A vent'anni! E senza volgere la testa per

guardare se lasciava nulla dietro di sé! Ed ecco ora i poveri

vecchi condannati a morire soli. Crepa dunque nel tuo

cantuccio, gufo! Ebbene, tutto sommato, tanto meglio, è

quello che speravo, questo mi ucciderà senz'altro.

Sono troppo vecchio, ho cento anni, ho centomila anni, e

da molto tempo ho il diritto di essere morto. Con un colpo

simile, è fatta.

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E' dunque finita, che fortuna! Perché gli fate fiutare

l'ammoniaca e tutto quel mucchio di droghe? Voi ci

rimettete la fatica, imbecille di un medico! Andate là, è

morto, proprio morto. Io me ne intendo, io, che sono un

morto. Non ha fatto la cosa a metà.

Sì, quest'epoca è infame, infame, infame; ecco cosa penso

di voi, delle vostre idee, dei vostri sistemi, dei vostri

padroni, dei vostri oracoli, dei vostri dottori, dei vostri

cattivi arnesi di scrittori, dei vostri bricconi di filosofi e di

tutte le rivoluzioni che da sessant'anni in qua spaventano

gli stormi di corvi delle Tuileries! E giacché tu sei stato

senza pietà facendoti uccidere così, neppure io mi

affliggerò per la tua morte, capisci, assassino!

In quel momento Mario aprì lentamente le palpebre, e il

suo sguardo, ancora velato dallo stupore letargico, si fermò

sul signor Gillenormand.

- Mario! - gridò il vecchio. - Mario, mio piccolo Mario! Figlio

mio! figlio mio diletto! Tu apri gli occhi, mi guardi, sei vivo,

grazie!

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E cadde svenuto.

Libro 4

JAVERT SVIATO

Javert si era allontanato a passi lenti da via Homme-Armé.

Per la prima volta in vita sua, camminava a capo chino, e

anche per la prima volta teneva le mani dietro il dorso.

Dei due atteggiamenti di Napoleone, Javert fino a quel

giorno aveva adottato soltanto quello che esprime la

risolutezza, cioè le braccia conserte sul petto; ma quello

che esprime l'incertezza, cioè le mani dietro il dorso, gli era

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ignoto. Ora, un cambiamento era avvenuto; tutta la sua

persona, lenta e cupa, era piena di ansietà.

S'incamminò per le vie silenziose. Nondimeno seguiva una

direzione. Si avviò per la strada più breve verso la Senna,

raggiunse la riva degli Olmi, la percorse, oltrepassò la

Grève e si fermò all'angolo del ponte Notre-Dame, a

qualche distanza dal corpo di guardia della piazza Chatelet.

Tra il ponte Notre-Dame e il Pont-au-Change da una parte,

e tra la riva della Mégisserie e quella dei Fiori dall'altra, la

Senna forma una specie di lago quadrato attraversato da

una corrente.

Questo tratto di fiume è molto temuto dai barcaioli a causa

della corrente pericolosissima, in quell'epoca rinserrata e

irritata dalle palafitte del mulino del ponte, oggi demolito. I

due ponti, così vicino l'uno all'altro, aumentano il pericolo,

perché l'acqua si precipita sotto gli archi, vi forma dei

larghi e terribili gorghi, vi si accumula e accavalla, e il

flutto forza i pilastri, come se volesse strapparli con grosse

corde liquide. Gli uomini che cadono là dentro non

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ricompaiono più; i migliori nuotatori vi rimangono

annegati.

Javert appoggiò i gomiti al parapetto e il mento alle mani,

e stette a riflettere, mentre le dita s'increspavano

macchinalmente tra i suoi baffi ritti.

Era avvenuta nel fondo della sua anima una novità, una

rivoluzione, una catastrofe. Aveva materia per un esame di

coscienza.

Soffriva orribilmente. Da alcune ore aveva cessato di

essere semplice; era diventato torbido; il suo cervello, così

limpido nella sua cecità, aveva perduto la sua trasparenza,

il cristallo si era appannato. Sentiva nella coscienza un

dovere di sdoppiarsi, e non poteva nasconderlo a se

stesso. Quando aveva incontrato così inaspettatamente

Valjean sull'argine del fiume, c'era stato in lui qualcosa del

lupo che riafferra la preda e del cane che ritrova il padrone.

Vedeva davanti a sé due strade ugualmente diritte; ma ne

vedeva due, e questo lo atterriva perché in vita sua aveva

sempre conosciuto una sola linea retta. E quelle due vie,

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straziante angoscia, erano contrarie: una di quelle due

linee rette escludeva l'altra. Quale delle due era la vera?

La sua situazione era inesprimibile.

Essere debitore della vita a un malfattore, accettare un tal

debito e rimborsarlo; trovarsi, a proprio dispetto, sul piede

dell'uguaglianza con un criminale e pagargli un servigio con

un altro servigio; lasciarsi dire "vattene", e dirgli a sua

volta "sei libero"; sacrificare per motivi personali il dovere,

che è un obbligo generale, e sentire anche in quei motivi

personali qualche cosa di generale e forse di superiore;

tradire la società per restare fedele alla propria coscienza.

Era atterrito dal fatto che tutte queste assurdità si

realizzavano e andavano ad accumularsi sul suo capo.

Una cosa lo aveva stupito: Valjean gli aveva salvato la

vita; e una cosa lo aveva pietrificato: lui, Javert, aveva

salvato la vita a Valjean.

A che punto era? Si cercava, e non si ritrovava più.

Che fare adesso? Consegnare Valjean era un male,

lasciarlo libero era un male: nel primo caso, l'uomo

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dell'autorità cadeva più giù dell'uomo del penitenziario; nel

secondo caso, un galeotto montava più su della legge e vi

poneva sopra il piede; nei due casi, disonore per lui,

Javert. Qualunque partito a cui si appigliasse, conteneva

una caduta. Il destino ha certe estremità a picco

sull'impossibile, al di là delle quali la vita diventa un

precipizio. Javert si trovava a una di quelle estremità.

Una delle sue angosce era costituita dal fatto che era

costretto a pensare; c'era obbligato dalla violenza stessa di

tutte quelle emozioni contraddittorie. Pensare: cosa

inusitata per lui e stranamente dolorosa.

Nel pensiero c'è sempre una certa quantità di ribellione

interiore, che egli si irritava di constatare in sé.

Pensare su un qualunque argomento estraneo alla stretta

cerchia delle sue funzioni, sarebbe stato in ogni caso per

lui una cosa inutile e una fatica; ma pensare sulla giornata

trascorsa era una tortura.

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Nondimeno, dopo simili emozioni, era pur necessario

guardare nella propria coscienza e render conto di sé a se

stesso.

Quello che aveva fatto lo faceva rabbrividire. Aveva trovato

opportuno decidere la liberazione di un uomo, contro tutti i

regolamenti di polizia, contro tutta l'organizzazione sociale

e giudiziaria, contro l'intero codice; la cosa gli era

convenuta; aveva sostituito le sue parcelle agli affari

pubblici: non era una cosa inqualificabile? Ogni volta che si

metteva di fronte all'azione senza nome da lui commessa,

tremava da capo a piedi. E che doveva risolvere? Gli

rimaneva una sola risorsa: ritornare in fretta in via

Homme-Armé, e far tradurre in prigione Valjean. Era chiaro

che proprio questo bisognava fare. E non poteva.

Da questo lato, qualche cosa gli sbarrava la strada.

Qualche cosa. Quale? C'è forse al mondo qualche altra cosa

oltre i tribunali, le sentenze esecutive, la polizia e la

autorità? Javert era sconvolto.

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Un galeotto sacro! Un forzato su cui la giustizia non deve

mettere la mano! E questo a causa di Javert!

Non era orribile che Javert e Valjean, l'uomo fatto per

incrudelire e l'uomo fatto per subire, che questi due

uomini, i quali erano, l'uno e l'altro, cosa della legge,

fossero arrivati al punto da mettersi tutti e due al di sopra

della legge?

Come! Accadrebbero enormità simili e nessuno ne sarebbe

punito!

Valjean, più forte dell'intero ordine sociale, rimarrebbe

libero, ed egli, Javert, continuerebbe a mangiare il pane del

governo!

La sua meditazione a poco a poco diventava terribile.

Avrebbe potuto muoversi anche qualche rimprovero a

proposito dell'insorto riportato in via Figlie del Calvario; ma

non ci pensava; la colpa minore si smarriva in quella più

grande. Del resto quel giovane era evidentemente un uomo

morto, e, legalmente, la morte estingue il provvedimento

penale.

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Il peso che aveva sull'anima era Valjean.

Valjean lo sconcertava. Tutti gli assiomi che erano stati i

punti d'appoggio della sua vita intera crollavano dinanzi a

quell'uomo.

La generosità di Valjean verso di lui, Javert, lo opprimeva.

Altri infatti, che egli ricordava e che aveva una volta

considerati menzogne o pazzie, ora gli tornavano alla

memoria come realtà:

dietro Valjean riappariva il signor Madeleine; e le due

immagini si sovrapponevano in modo da formarne una

sola, che era venerabile. Sentiva che qualcosa di orribile gli

penetrava nell'anima: l'ammirazione per un forzato. E'

possibile mai il rispetto per un galeotto? Ne fremeva, ma

non poteva sottrarvisi.

Per quanto si dibattesse, era ridotto a confessare davanti

alla sua coscienza la sublimità di quel miserabile. E questo

era odioso.

Un malfattore benefico, un forzato compassionevole,

affabile, caritatevole, clemente, che ricambia il male col

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bene, l'odio col perdono, che preferisce la pietà alla

vendetta e perde se stesso anziché il nemico, che salva chi

l'ha rovinato, che sta inginocchiato sul culmine della virtù,

più vicino all'angelo che all'uomo: Javert era costretto a

confessare a se stesso che un tal mostro esisteva.

La cosa non poteva durare così.

Certo - e dobbiamo insistere su questo punto - egli non si

era arreso senza resistenza a quel mostro, a quell'angelo

infame, a quell'eroe schifoso, di cui era quasi altrettanto

indignato che stupefatto. Venti volte, mentre era da solo a

solo con Valjean in quella vettura, la tigre legale aveva

ruggito in lui; venti volte era stato tentato di scagliarsi su

Valjean, di afferrarlo, di divorarlo, vale a dire di arrestarlo.

Che c'era infatti di più naturale del gridare al primo corpo

di guardia dinanzi al quale si passava: - Ecco un galeotto in

rottura di bando! - del chiamare i gendarmi e dir loro: -

Quest'uomo è per voi! - e poi allontanarsi, lasciar là quel

dannato, ignorare il resto e non immischiarsi più di nulla?

Quell'individuo è per sempre prigioniero della legge che ne

farà quello che vorrà. Cosa c'era di più giusto? Javert

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aveva pensato a tutto questo; aveva voluto passar oltre,

agire, arrestare l'uomo, e allora, come ora, non aveva

potuto; e ogni qualvolta aveva alzato convulsamente la

mano verso il bavero di Valjean, gli era ricaduta come

sotto un peso enorme, e aveva udito in fondo alla

coscienza una voce, una voce strana che gli gridava:

- Sta bene: caccia in prigione il tuo salvatore, e poi fatti

portare la catinella di Ponzio Pilato e lavati le mani.

Poi la sua riflessione ricadeva su lui stesso, e accanto a

Valjean ingrandito vedeva se stesso degradato.

Un forzato era il suo benefattore!

Ma perché aveva permesso a quell'uomo di salvargli la

vita? In quella barricata aveva il diritto d'essere ucciso.

Avrebbe dovuto usare di quel diritto, chiamare gli insorti in

suo soccorso contro Valjean e farsi fucilare per forza;

sarebbe stato meglio.

La sua suprema angoscia era la scomparsa della certezza.

Si sentiva sradicato; il codice non era più che un

mozzicone; si trovava davanti a scrupoli di una specie

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ignota; avveniva in lui una rivelazione sentimentale del

tutto distinta dall'affermazione legale, sino allora sua unica

misura. Non gli bastava più rimanere nell'antica onestà; un

intero ordine di fatti inattesi sorgeva e lo soggiogava; tutto

un mondo nuovo appariva alla sua anima: il beneficio

accettato e restituito, l'abnegazione, la misericordia,

l'indulgenza, le violenze usate dalla pietà all'austerità, i

riguardi personali, non più condanne definitive, non più

dannazione, la possibilità di una lacrima nell'occhio della

legge, una certa giustizia secondo Dio che va in senso

inverso della giustizia secondo gli uomini. Scorgeva nelle

tenebre la terribile aurora di un sole morale ignoto, e ne

era atterrito e abbagliato.

Era un gufo costretto ad avere gli sguardi dell'aquila.

Pensava che era dunque vero, che c'erano delle eccezioni,

che l'autorità poteva essere sconcertata, che la regola

poteva non valere davanti a un fatto, che non tutto andava

inquadrato nel testo del codice, che l'imprevisto si faceva

obbedire, che la virtù di un galeotto poteva tendere

un'insidia a quella di un funzionario, che il mostruoso

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poteva essere divino, che il destino aveva di tali imboscate,

e pensava con disperazione che egli stesso non era rimasto

immune da una sorpresa.

Era costretto ad ammettere che la bontà esiste, che quel

galeotto era stato buono; che lui stesso, cosa incredibile, si

era mostrato buono. Dunque si depravava.

Si riconosceva vile, e faceva orrore a se stesso.

L'ideale, per Javert, non era di essere umano, grande,

sublime, ma di genere irreprensibile.

Ora egli aveva commesso una mancanza.

Come era arrivato a quel punto? Come era avvenuto? Non

avrebbe saputo dirlo a se stesso. Si pigliava la testa nelle

mani, e, checché facesse, non giungeva a spiegarselo.

Senza dubbio, aveva sempre avuto l'intenzione di rimettere

Valjean alla legge, della quale Valjean era il prigioniero, e

lui, Javert, lo schiavo. Mentre lo teneva, non aveva

neppure per un momento confessato a se stesso di avere

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l'idea di lasciarlo andare; a sua insaputa, la mano gli si era

aperta e lo aveva lasciato sfuggire.

Novità enigmatiche di ogni specie si aprivano davanti ai

suoi occhi. Si formulava delle domande e si dava delle

risposte; e queste risposte lo spaventavano. Chiedeva a se

stesso: - Quel galeotto, quel disperato, contro il quale ho

proceduto fino a perseguitarlo, e che mi ha tenuto sotto il

suo piede, e che poteva vendicarsi - e doveva farlo per il

suo rancore e per la sua sicurezza a un tempo -

salvandomi la vita che cosa ha fatto? Il suo dovere? No,

qualcosa di più. E io, facendogli grazia a mia volta, che ho

fatto? il mio dovere? No; qualcosa di più. C'è dunque

qualche cosa più del dovere? E qui egli sbigottiva. La sua

bilancia si spostava; uno dei piatti cadeva nell'abisso,

l'altro se ne andava nel cielo; ed egli si sentiva atterrito

non meno da quello balzato in alto che da quello disceso in

basso. Benché non fosse in nessun modo quello che si dice

un volterriano o un filosofo o un incredulo, e fosse anzi

istintivamente rispettoso verso la Chiesa, tuttavia la

considerava soltanto come una parte augusta dell'insieme

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sociale; l'ordine era il suo dogma e gli bastava. Da che era

diventato uomo e funzionario, riponeva quasi tutta la sua

religione nella polizia, giacché era, e adoperiamo qui le

parole senza la minima ironia e nel loro significato più

serio, era, l'abbiamo già detto, una spia come si può essere

prete. Egli aveva un superiore, Gisquet, e fino a quel

giorno non aveva mai pensato a quell'altro superiore, Dio.

Questo nuovo capo, Dio, egli lo sentiva inaspettatamente,

e ne era turbato.

Era disorientato da questa presenza inattesa. Non sapeva

che farne di quell'altro superiore, egli che non ignorava che

il dipendente è obbligato a piegarsi sempre, e non deve né

disobbedire né biasimare né discutere, e sapeva che, di

fronte a un superiore che lo stupisce troppo, l'inferiore non

ha altra risorsa che le dimissioni.

Ma come si fa a presentare le proprie dimissioni a Dio?

Comunque fosse, ritornava sempre allo stesso punto, al

fatto per lui dominante: aveva commesso una terribile

infrazione. Aveva chiuso gli occhi sopra un condannato

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recidivo in rottura di bando; aveva lasciato libero un

galeotto; aveva rubato alla legge un uomo che le

apparteneva. Aveva fatto questo, lui? Non capiva più se

stesso, non era più sicuro della propria identità. Gli

sfuggivano anche i motivi della sua azione, e gliene restava

soltanto l'angoscia. Fino a quel momento aveva vissuto di

quella fede cieca che genera la probità tenebrosa, ora

questa fede lo abbandonava, questa probità gli veniva a

mancare. Tutto quello a cui aveva creduto svaniva, e altre

verità che egli non voleva riconoscere l'ossessionavano. Da

quel momento bisognava essere un altro uomo.

Provava gli strani dolori di una coscienza a un tratto

operata di cataratta. Vedeva quello che gli ripugnava

vedere. Si sentiva svuotato, inutile, scardinato dalla vita

anteriore, destituito, disciolto. L'autorità in lui era morta;

ed egli non aveva più ragione d'esistere.

Sentirsi commosso: terribile situazione!

Essere di granito e dubitare! Essere la statua del castigo

fusa di un sol pezzo nello stampo della legge, e accorgersi

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all'improvviso di avere sotto la mammella di bronzo

qualche cosa di assurdo e di disobbediente che somiglia

quasi a un cuore! Arrivare al punto di rendere bene per

bene, dopo essersi ripetuto fino a quel giorno che quel

bene era il male! Essere il cane da guardia e lambire,

essere il ghiaccio e sciogliersi, essere la tenaglia e

diventare una mano! Sentire a un tratto di avere delle dita

che si aprono e, cosa spaventosa! rilasciare la preda!

L'uomo-proiettile che non sa più la strada, e indietreggia!

Essere obbligato a confessare che l'infallibile non è

infallibile, che ci può essere errore nella legge, che quando

il codice ha parlato non è detto tutto, che la società non è

perfetta, che l'autorità può vacillare,che è possibile una

crepa nell'immutabile, che i giudici sono uomini, che la

legge può ingannarsi e i tribunali possono sbagliare! vedere

una incrinatura nell'immenso cristallo azzurro del cielo!

Quello che accadeva in Javert era il Fampoux di una

coscienza rettilinea, la deviazione di un'anima, il crollo di

una probità lanciata irresistibilmente in linea retta e che va

a cozzare in Dio. Certo, era una cosa strana che il fuochista

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dell'ordine, il macchinista dell'autorità montato sul cieco

cavallo di ferro della via rigida potesse essere disarcionato

da una folgorazione! che tutto quello che è incommutabile,

preciso, geometrico, passivo, perfetto potesse cedere! che

ci fosse una strada di Damasco per la locomotiva.

Dio che grida nell'intimo dell'uomo e ne dilania la

coscienza; divieto alla scintilla di spegnersi; ordine al

raggio di ricordarsi del Sole; ingiunzione all'anima di

riconoscere il vero assoluto posto a confronto con l'assoluto

fittizio; l'umanità imperdibile; il cuore umano

inammissibile, il cuore, questo splendido fenomeno, il più

bello forse dei prodigi interiori, Javert lo capiva? lo

penetrava? se ne rendeva conto? Evidentemente no. Ma

sotto la pressione di quell'incomprensibile che non poteva

contestare, sentiva spaccarglisi il cranio.

Egli era più la vittima di quel prodigio che il beneficiario. Lo

subiva, esasperato, e in tutto questo non vedeva che

un'immensa difficoltà di vivere: gli sembrava che da quel

momento in poi la sua respirazione sarebbe stata

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imbarazzata per sempre. Avere sul capo l'ignoto: a questo

no, non era abituato.

Fino allora tutto quello che stava sopra di lui era al suo

sguardo una superficie netta, semplice, limpida; nulla di

ignoto in essa, nulla di oscuro; nulla che non fosse definito,

coordinato, concatenato, preciso, esatto, circoscritto,

limitato, chiuso; tutto era previsto; l'autorità era una cosa

piana; nessuno scoscendimento in essa, nessun capogiro

davanti a lei. Javert non aveva visto l'ignoto se non in

basso. L'irregolare, l'inaspettato, il disordinato aprirsi del

caos, la possibilità di sdrucciolare in un abisso, tutto questo

era proprio delle regioni inferiori, dei ribelli, dei malvagi,

dei miserabili. Ora si rovesciava tutto, ed era

repentinamente atterrito dalla incredibile apparizione di

una voragine in alto. Come! era smantellato da cima a

fondo! era sconcertato, assolutamente! Di che fidarsi?

Quello di cui era convinto, sprofondava!

Ecco! Un miserabile magnanimo poteva trovare il difetto

nella corazza della società! Un onesto servitore della legge

poteva di colpo vedersi preso tra due delitti, quello di

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lasciar sfuggire un uomo e quello d'arrestarlo! Non tutto

era certo nella consegna data dallo Stato al funzionario!

Potevano esserci dei vicoli ciechi nel dovere! E tutto questo

era una realtà! era vero che un vecchio galeotto, curvo

sotto la condanna, poteva raddrizzarsi e finire con l'aver

ragione? Era credibile? C'erano dunque dei casi in cui la

legge doveva ritirarsi dinanzi al delitto trasfigurato,

balbettando delle scuse!

Sì, era così! e Javert lo vedeva! e Javert lo toccava con

mano! e non solo non poteva negarlo, ma ne conveniva.

Erano realtà. Era un abominio che i fatti reali potessero

giungere a tanta deformità.

Se i fatti facessero il loro dovere, si limiterebbero a essere

testimonianze della legge: i fatti, è Dio che li manda.

L'anarchia dunque stava ora per scendere di lassù?

Dunque - e nell'angoscia crescente, nell'illusione ottica

della costernazione, quella che avrebbe potuto restringere

o correggere la sua impressione svaniva, e la società,

l'umanità, l'universo si riassumevano ormai agli occhi suoi

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in un profilo semplice e ributtante - dunque, la penalità, la

cosa giudicata, la forza dovuta alla legislazione, le sentenze

delle corti sovrane, la magistratura, il governo, la

prevenzione e la repressione, la saggezza ufficiale, la

infallibilità legale, il principio d'autorità, tutti i dogmi sui

quali è basata la sicurezza politica e civile, la sovranità, la

giustizia, la logica che emana dal codice, l'assoluto sociale,

la verità pubblica, tutto ciò diventava macerie, ammasso,

caos; lui stesso, Javert, la vedetta dell'ordine,

l'incorruttibilità al servizio della polizia, il mastino

provvidenziale della società, era vinto e abbattuto; e su

tutta questa rovina un uomo ritto col berretto verde sul

capo e l'aureola intorno alla fronte; ecco a quale

sconvolgimento era giunto, ecco la spaventosa visione che

aveva nell'anima.

Che fosse almeno sopportabile. No!

Stato violento quant'altro mai. Non c'erano che due modi di

uscirne: l'uno, di recarsi risolutamente da Valjean e

restituire alla cella l'uomo del penitenziario; l'altro...

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Javert lasciò il parapetto, a a testa alta e con passo fermo

si diresse verso il corpo di guardia indicato da una

lanterna, in un angolo della piazza Chatelet.

Arrivato là, vide attraverso i vetri una guardia di polizia ed

entrò. I poliziotti si riconoscono fra loro, già solo dal modo

con cui spingono l'uscio di un corpo di guardia. Javert disse

il suo nome all'agente, gli mostrò la sua tessera e sedette

davanti al tavolo su cui bruciava una candela. Sulla tavola

c'era una penna, un calamaio di piombo, della carta per gli

eventuali processi verbali e per le relazioni delle ronde

notturne.

Quel tavolo, sempre completato dalla sua sedia impagliata,

è un'istituzione; si trova in tutti i posti di polizia, ornato

invariabilmente d'un piattello di bosso pieno di segatura e

d'una scatoletta d'ostie; esso forma il piano inferiore dello

stile ufficiale. Di là comincia la letteratura dello Stato.

Javert prese la penna e un foglio e si mise a scrivere. Ecco

che cosa scrisse:

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"ALCUNE OSSERVAZIONI PER UN BUON SERVIZIO.

Primo: prego il signor prefetto di dare un'occhiata.

Secondo: i detenuti che tornano dall'interrogatorio si

tolgono le scarpe e rimangono a piedi nudi sul pavimento

mentre li frugano.

Parecchi, quando rientrano in prigione, tossiscono; questo

comporta delle spese d'infermeria.

Terzo: il pedinamento è buono, col cambio degli agenti di

tratto in tratto; ma nelle occasioni importanti è

conveniente che due agenti almeno non si perdano mai di

vista, perché se per una causa qualsiasi uno dei due viene

meno al suo servizio, l'altro lo sorveglia e lo supplisce.

Quarto: non si comprende perché il regolamento speciale

della prigione delle Madelonnettes proibisca al prigioniero

di avere una sedia, anche pagandola.

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Quinto: alle Madelonnettes ci sono due sole sbarre al

finestrino della cantina; questo permette alla vivandiera di

lasciarsi toccare la mano dai detenuti.

Sesto: i detenuti chiamati abbaiatori, perché chiamano gli

altri prigionieri al parlatorio, si fanno pagare due soldi dal

chiamato per pronunciarne chiaramente il nome. E' un

furto.

Settimo: nel laboratorio dei tessitori, si trattengono dieci

soldi al detenuto per ogni filo spezzato; è un abuso

dell'imprenditore perché la tela non è perciò meno buona.

Ottavo: è un inconveniente che chi va a visitare i

prigionieri alla Force, debba attraversare il cortile dei

ragazzi per recarsi al parlatorio di Santa Maria Egiziaca.

Nono: è indubitabile che tutti i giorni si sentono nel cortile

della prefettura dei gendarmi raccontare gli interrogatori

fatti dai magistrati agli indiziati. Un gendarme, che

dovrebbe essere una persona sacra, e che ripete quello che

ha sentito nel gabinetto del giudice istruttore, è un

disordine grave.

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Decimo: la signora Henry è una donna onesta e la sua

cantina è decentissima; ma sta male che una donna tenga

la chiave dello sportello della camera di deposito. Non è

cosa degna della "Conciergerie" d'una grande città".

Javert scrisse queste righe con la sua calligrafia più calma

e più corretta, senza omettere una virgola, e facendo

scricchiolare fortemente la penna sulla carta. Sotto l'ultima

riga firmò:

"Javert - Ispettore di prima classe".

"Dal posto in piazza Chatelet, 7 giugno 1832, l'una del

mattino circa".

Asciugò l'inchiostro fresco sulla carta, la piegò come una

lettera, la suggellò,scrisse di fuori: "Nota per

l'amministrazione", e lasciandola sul tavolo uscì dal corpo

di guardia. La porta a vetri e grata si chiuse dietro di lui.

Riattraversò diagonalmente la piazza Chatelet, raggiunse di

nuovo la riva e ritornò con una precisione meccanica allo

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stesso posto lasciato un quarto d'ora prima; appoggiò i

gomiti e riprese il medesimo atteggiamento, sulla stessa

pietra del parapetto: pareva che non si fosse mosso.

L'oscurità era completa. Era l'ora sepolcrale che segna la

mezzanotte. Uno strato di nubi celava le stelle. Il cielo era

un blocco nero e sinistro. Le case non avevano un solo

lume; nessuno passava; quanto si scorgeva delle vie e

delle rive era deserto; Notre-Dame e le torri del Palazzo di

Giustizia sembravano lineamenti della notte. Un lampione

gettava la sua luce rossastra sulla spalletta della riva, e le

sagome dei ponti si deformavano l'una dietro l'altra nella

bruma. La pioggia aveva ingrossato il fiume.

Si ricorderà che il luogo dov'era appoggiato Javert era

situato precisamente al di sopra della rapida della Senna, a

picco su quella terribile spirale di vortici che si annodano e

si snodano di continuo come una vite senza fine.

Egli chinò la testa e guardò. Tutto era nero; non si

distingueva nulla; si udiva un rumore di schiuma, ma non

si vedeva il fiume.

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Ogni tanto, in quella profondità vertiginosa, appariva e

serpeggiava confusamente un barlume, poiché l'acqua ha

la facoltà, nella notte più buia, di prendere la luce non si sa

da dove e di mutarla in serpente. Poi il barlume spariva e

tutto ritornava indistinto. Pareva che là si spalancasse

l'immensità, e che al di sotto ci fosse non l'acqua ma una

voragine. Il muro a picco della riva, confuso, avvolto nella

nebbia, sfuggente all'occhio, pareva uno scoscendimento

dell'infinito.

Non si vedeva nulla, ma si sentiva la freddezza ostile

dell'acqua e l'odore scipito delle pietre bagnate. Un soffio

selvaggio saliva da quell'abisso. La piena del fiume,

intravista più che vista, il tragico mormorìo delle onde, la

lugubre vastità degli archi del ponte, l'immagine di una

caduta in quel cupo vuoto, tutta quell'ombra era piena di

orrore.

Javert restò immobile alcuni minuti, guardando

quell'apertura di tenebre, considerando l'invisibile con una

fissità che somigliava all'attenzione. L'acqua rumoreggiava.

D'un tratto, si tolse di testa il cappello e lo posò sul

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parapetto della riva; e un momento dopo, una figura alta e

nera, che da lontano qualche passante in ritardo avrebbe

potuto prendere per un fantasma, apparve ritta sul

parapetto. Si curvò sulla Senna, poi si raddrizzò e cadde

diritta nelle tenebre.

Ci fu un tonfo sordo.

Soltanto la tenebra seppe il segreto delle convulsioni di

quella forma oscura scomparsa sotto l'acqua.

Libro 5

IL NIPOTE E IL NONNO

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1. SI RIVEDE L'ALBERO CON LA FASCIATURA DI

ZINCO

Qualche tempo dopo gli ultimi avvenimenti da noi

raccontati, il signor Boulatruelle provò una viva emozione.

Il signor Boulatruelle era quello stradino di Montfermeil già

intravisto nelle parti tenebrose di questo libro.

Il lettore forse ricorderà che costui si occupava di cose

torbide e svariate. Spaccava le pietre e alleggeriva qualche

viaggiatore sulla strada maestra. Terrazziere e ladro, aveva

un ideale:

credeva ai tesori nascosti nel bosco di Montfermeil.

Sperava di trovare un giorno o l'altro dei denari sepolti al

piede di qualche albero; nell'attesa, li cercava volentieri

nelle tasche dei viandanti.

Tuttavia, per il momento, era prudente. L'aveva scampata

bella.

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Sappiamo che era stato sorpreso nella stamberga

Jondrette con gli altri banditi; ma, utilità d'un vizio, la sua

qualità di ubriacone l'aveva salvato. Non s'era mai potuto

stabilire se si trovasse là come ladro o come derubato. E

un'ordinanza di non luogo a procedere, fondata sul suo

stato di ubriachezza, ben constatato la sera dell'agguato, lo

aveva messo in libertà. Aveva ripreso la via dei boschi. Era

ritornato alla sua strada da Gagny a Lagny a fare, sotto la

sorveglianza dell'amministrazione, delle ghiaiate per conto

dello Stato, con una cera umile, molto pensoso, meno

appassionato al furto che lo aveva quasi perduto, e rivolto

con maggior tenerezza al vino che lo aveva salvato.

Quanto alla viva emozione provata poco tempo dopo il suo

ritorno sotto l'erboso tetto della sua capanna di stradino,

eccola qui.

Una mattina Boulatruelle, recandosi come al solito al

lavoro, e fors'anche all'agguato, un po' prima dello spuntar

del giorno, scorse tra gli alberi un uomo di cui non vide

altro che il dorso, ma la cui corporatura, da quello che gli

parve a distanza e nel crepuscolo, non gli era del tutto

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sconosciuta. Sebbene ubriacone, Boulatruelle aveva una

memoria precisa e lucida: arma difensiva indispensabile a

chiunque sia un po' in lotta con l'ordine legale.

- Dove diavolo ho visto qualche cosa di simile a

quell'uomo? - chiese a se stesso.

Ma non poté rispondere altro, se non che colui

assomigliava a qualcuno di cui serbava confusamente la

traccia nella mente.

Del resto, indipendentemente dall'identità che non riusciva

ad afferrare, Boulatruelle fece dei riaccostamenti e dei

calcoli.

Quell'uomo non era del paese, vi arrivava allora, e

certamente a piedi, perché nessuna vettura pubblica

passava a quell'ora per Montfermeil. Aveva camminato

tutta la notte. Donde veniva? Non da lontano, poiché non

aveva né sacco né involto. Da Parigi certamente. E perché

si trovava nel bosco? Perché ci si trovava a quell'ora? Che

ci veniva a fare?

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Boulatruelle pensò al tesoro. A forza di scavare nella

memoria, si ricordò confusamente di aver provato,

parecchi anni prima, una preoccupazione simile, a

proposito di un uomo che gli faceva l'impressione di poter

essere quello stesso.

Così meditando, e sotto il peso della meditazione, aveva

chinato la testa, cosa naturale ma poco abile. Quando la

rialzò, non c'era più nulla: l'uomo era scomparso nella

foresta e nel crepuscolo.

- Corpo del demonio! - diss'egli. - Lo ritroverò. Scoprirò la

parrocchia di quel parrocchiano. Quel bighellone mattutino

ha uno scopo, e io lo saprò. Non ci devono essere segreti

nel mio bosco senza che c'entri anch'io.

Prese la zappa ben affilata, borbottando:

- Ecco di che frugare nella terra e in un uomo.

E rifacendo alla meglio l'itinerario che doveva aver seguito

quell'individuo, come s'attacca un filo a un altro filo, si

mise in cammino attraverso il bosco ceduo.

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Quand'ebbe percorso un centinaio di passi, il giorno, che

cominciava a spuntare, l'aiutò. Le orme impresse qua e là

sulla sabbia, le erbe calpestate, alcune eriche schiacciate,

dei giovani rami piegati nella sterpaglia, che si

raddrizzavano con graziosa lentezza come le braccia d'una

bella donna che si stirano svegliandosi, gli indicavano in

certo modo una traccia. Egli la seguì, poi la perdette. Il

tempo passava. Si addentrò di più nel bosco e giunse a una

specie di altura. Un cacciatore mattutino che passava

lontano fischiettando il motivo di Guillery, gli suggerì l'idea

d'arrampicarsi sopra un albero. Benché vecchio, era agile.

Lì accanto c'era un gran faggio degno di Titiro e di

Boulatruelle.

Ci salì su, più alto che poté.

L'idea era buona. Esplorando la solitudine dalla parte dove

il bosco è più intricato e selvaggio, scorse d'un tratto

l'uomo.

Ma l'aveva appena scorto che lo perse di vista.

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L'uomo entrò o piuttosto sgusciò in una radura abbastanza

lontana e mascherata da grandi alberi, ma che Boulatruelle

conosceva benissimo per avervi notato, presso un gran

mucchio di pietre molari, un castagno malato, medicato

con una fascia di zinco inchiodata sulla corteccia. Era la

radura che chiamavano una volta fondo Blaru. Il mucchio

di pietre, destinato a chi sa quale uso, che vi si vedeva or

sono trent'anni, certo c'è ancora. Non c'è niente che

uguagli la longevità d'un mucchio di sassi, tranne quella

d'una palizzata di tavole. Sono là provvisoriamente; ottima

ragione per durare!

Con la rapidità della gioia, Boulatruelle si lasciò cadere più

che non scendere dall'albero. Il covo era scoperto; si

trattava ora di cogliere la bestia. Il famoso tesoro sognato

probabilmente era là.

Non era una faccenda da poco arrivare a quella radura. Per

i sentieri battuti, che hanno mille zig-zag secanti, ci voleva

un buon quarto d'ora; in linea retta, attraverso la macchia,

che da quel lato era straordinariamente folta, molto

spinosa e aggressiva, occorreva più di mezz'ora. Ma questo

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Boulatruelle ebbe il torto di non capirlo. Egli prestò fede

alla linea retta, illusione ottica rispettabile, ma che rovina

molti uomini. La macchia, per quanto irta, gli parve la via

buona.

- Prendiamo la via Rivoli dei lupi - disse.

Boulatruelle, abituato ad andare di traverso, commise

l'errore di andare diritto.

Ebbe da fare con gli agrifogli, con le ortiche, coi

biancospini, con le rose selvatiche, coi cardi, con rovi molto

irascibili, e ne fu molto graffiato.

Nel fondo del burrone trovò dell'acqua che dovette

attraversare.

Finalmente, dopo quaranta minuti, arrivò alla radura Blaru

sudato, bagnato, ansante, scorticato e furioso.

Non ci trovò nessuno.

Corse al mucchio di pietre; era al suo posto, nessuno lo

aveva portato via.

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Quanto all'uomo, s'era dileguato nella foresta. Era fuggito.

Dove?

da che parte? in quale macchia? Impossibile indovinarlo.

E, cosa straziante, dietro al mucchio di sassi, davanti

all'albero dalla piastra di zinco, c'era della terra smossa di

fresco, una zappa abbandonata o dimenticata e un buco.

Quel buco era vuoto.

Ladro! - gridò Boulatruelle, mostrando i pugni all'orizzonte.

2. MARIO USCITO DALLA GUERRA CIVILE, SI

PREPARA ALLA GUERRA DOMESTICA

Mario rimase a lungo fra la morte e la vita. Per alcune

settimane ebbe la febbre accompagnata da delirio e da

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sintomi cerebrali abbastanza gravi, cagionati dalle

commozioni delle ferite alla testa piuttosto che dalle ferite

stesse.

Per notti intere ripeté il nome di Cosetta, con la lugubre

loquacità della febbre e la cupa ostinazione dell'agonia. La

larghezza di alcune lesioni fu un pericolo serio, poiché sotto

certe influenze atmosferiche la suppurazione delle piaghe

larghe può sempre essere riassorbita e uccidere di

conseguenza il malato; ad ogni variazione di tempo, al

minimo temporale, il medico diventava inquieto. - E

soprattutto che il ferito non provi nessuna emozione -

ripeteva. Le medicazioni erano complicate e difficili,

giacché non si era ancora scoperto il modo di fissare le

bende con lo sparadrappo. Nicoletta consumò in filacce un

lenzuolo "grande come un soffitto", diceva lei. Non senza

fatiche, le lozioni clorurate e il nitrato d'argento vinsero la

cancrena.

Finché ci fu pericolo, il signor Gillenormand disperato, al

capezzale del nipote, fu come Mario: né morto né vivo.

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Un signore coi capelli bianchi e molto ben vestito, tali

erano i connotati riferiti dal portinaio, andava ogni giorno e

talora due volte al giorno a chiedere notizie del ferito, e a

portare un grosso involto di filacce per le medicazioni.

Finalmente il 7 settembre, tre lunghi mesi di sofferenza,

dopo la dolorosa notte in cui Mario era stato portato

moribondo in casa del nonno, il medico lo dichiarò fuori

pericolo. Cominciò la convalescenza: tuttavia Mario dovette

restare ancora più di due mesi disteso sopra una poltrona a

sdraio, a causa della frattura della clavicola. C'è sempre in

simili casi un'ultima ferita che non vuol chiudersi e che

prolunga le medicazioni, con grande noia del malato.

Del resto, quella lunga malattia e quella lunga

convalescenza lo salvarono da un processo. In Francia non

c'è collera, nemmeno pubblica, che non si estingua in sei

mesi. Le sommosse, nello stato in cui si trova la società,

sono talmente colpa di tutti, che sono seguite da un

bisogno di chiudere gli occhi.

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Si aggiunga che l'inqualificabile ordinanza Gisquet, che

imponeva ai medici di denunciare i feriti, aveva indignato

l'opinione pubblica, e non questa soltanto, ma il re per

primo; e fu così che i feriti si trovarono coperti e protetti da

tale indignazione. Ad eccezione di quelli che erano caduti

prigionieri in flagrante combattimento, i Consigli di guerra

non osarono inquietare nessuno. Mario dunque fu lasciato

tranquillo.

Il signor Gillenormand provò dapprima tutte le angosce,

poi tutte le estasi. Si durò molta fatica a impedirgli di

passar le notti accanto al malato, accanto al letto del quale

fece portare la sua grande poltrona. Pretese che sua figlia

adoperasse la più bella biancheria della casa per farne

filacce e bende, ma la signorina Gillenormand, da persona

saggia e attempata, trovò modo di salvare la bella

biancheria, pur lasciando credere al padre di avergli

obbedito. Il vecchio non permise che gli spiegassero che

per far filacce la tela grossa è preferibile alla batista e la

tela usata alla nuova. Egli assisteva a tutte le fasciature,

dalle quali invece sua figlia si assentava pudicamente; e

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quando si tagliavano con le forbici le carni morte, egli

gridava ahi! ahi! Nulla di più commovente che vederlo

porgere al ferito una pozione col suo lieve tremito senile.

Assediava il medico di domande, e non s'accorgeva di

ripetere sempre le stesse.

Il giorno in cui il medico gli annunciò che Mario era fuori

pericolo, il vecchio provò un delirio. Dette tre luigi di

gratifica al portinaio. E la sera, entrato in camera ballò una

gavotta, facendo le castagnette col pollice e l'indice, e

cantò questa canzone:

"Gianna è nata a Fougère vero nido d'una pastora.

Io adoro la sua veste briccona.

Amore, tu vivi in lei; perché nella sua pupilla tu metti il tuo

turcasso, furbacchione!

Io la canto e l'amo, più della stessa Diana, Gianna e il suo

solido seno bretone".

Poi si mise in ginocchio sopra una sedia, e Basco che lo

osservava dalla porta socchiusa, credette che pregasse.

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Fino a quel giorno non aveva mai creduto in Dio.

A ogni nuova fase del miglioramento, che si andava

sempre più delineando, il nonno usciva fuori di sé; faceva

macchinalmente molti gesti di allegrezza, saliva e scendeva

le scale senza sapere il perché. Una vicina, graziosa del

resto, fu molto stupita una mattina di ricevere un gran

mazzo di fiori; era il signor Gillenormand che glielo

mandava. Il marito fece una scenata di gelosia. Il vecchio

tentava di prendersi Nicoletta sulle ginocchia, chiamava

Mario "signor barone" e gridava "Viva la repubblica".

Ogni momento chiedeva al medico: - E' vero che non c'è

più pericolo? - Guardava Mario con occhi amorosi, lo

covava mentre mangiava. Non si riconosceva più, non

contava più nulla, Mario era il padrone della casa; c'era

della abdicazione nella sua gioia; egli era il nipote di suo

nipote.

In quella sua allegrezza, era il più venerando dei fanciulli.

Per paura di stancare o d'importunare il convalescente, gli

si poneva di dietro per sorridergli. Era contento, gioioso,

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rapito, grazioso, ringiovanito; i suoi capelli aggiungevano

una dolce maestà alla gaia luce che gli risplendeva nel

volto. Quando la grazia s'associa alle rughe diventa

adorabile; c'è non so quale aurora in una vecchiezza

gioconda.

Mario dal canto suo, mentre si lasciava medicare e curare,

aveva un'idea fissa: Cosetta.

Da quando la febbre e il delirio l'avevano lasciato, egli non

pronunciava più quel nome, e si sarebbe potuto credere

che non ci pensasse più. Taceva, appunto perché la sua

anima era con lei.

Non sapeva che ne fosse stato di Cosetta: tutta la faccenda

di via Chanvrerie era come una nube nella sua memoria;

delle ombre quasi indistinte ondeggiavano nella sua mente,

Eponina, Gavroche, Mabeuf, i Thénardier, tutti i suoi amici

lugubremente frammisti al fumo della barricata; lo strano

passaggio del signor Fauchelevent in quella sanguinosa

avventura gli faceva l'impressione d'un enigma in una

tempesta; non comprendeva nemmeno in qual modo si

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trovasse in vita; non sapeva come e da chi fosse stato

salvato, e nessuno lo sapeva intorno a lui; né avevano

potuto dirgli altro, se non che una notte era stato portato

in una vettura in via Figlie del Calvario; passato, presente,

avvenire, era in lui tutta una nebbia d'una idea confusa,

ma in quella nebbia c'era un punto immobile, un profilo

netto e preciso, qualche cosa che era di granito, una

risoluzione, una volontà: ritrovare Cosetta. Aveva deciso

nel suo cuore di non accettare l'una senza l'altra, ed era

incrollabilmente deciso a esigere da chiunque volesse

costringerlo a vivere, da suo nonno, dal destino,

dall'inferno, la restituzione del suo Eden sparito.

Non si nascondeva gli ostacoli.

Notiamo qui una circostanza: egli non era lusingato né

molto commosso per tutte le premure e le tenerezze del

nonno. In primo luogo, non le conosceva tutte; e poi, nelle

sue fantasticherie di malato, ancora febbricitante forse,

diffidava di tutte quelle carezze come di cosa strana e

nuova, che avesse lo scopo di domarlo. Quindi, rimaneva

freddo; e il povero sorriso senile del nonno era speso

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inutilmente. Mario pensava che tutto sarebbe andato bene

fino a che avesse taciuto e lasciato fare; ma quando si

fosse trattato di Cosetta, avrebbe trovato un altro viso, e il

vero atteggiamento del vecchio si sarebbe smascherato.

Allora la faccenda sarebbe diventata aspra; recrudescenza

delle questioni di famiglia, confronti di posizione, tutti i

sarcasmi e tutte le obiezioni insieme, Fauchelevent,

Coupelevent, la ricchezza, la povertà, la miseria, la pietra

al collo, l'avvenire. Resistenza violenta; in conclusione, il

rifiuto. Mario si irrigidiva già in anticipo.

E poi, a mano a mano che ripigliava le forze, le antiche

accuse risorgevano, le vecchie ulcere della sua memoria si

riaprivano, ripensava al passato, vedeva il colonnello

Pontmercy interporsi ancora fra lui e il signor Gillenormand

e diceva tra sé che non poteva sperare nessuna sincera

bontà da chi era stato così ingiusto e duro con suo padre. E

con la salute, gli ritornava una certa asprezza contro suo

nonno. Il vecchio ne soffriva dolcemente.

Il signor Gillenormand, senza per altro manifestare mai

nulla, notava che Mario, da quando era stato riportato in

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casa e aveva ripreso i sensi, neppure una volta lo aveva

chiamato padre. Non gli diceva signore, è vero: ma trovava

modo di non dire né l'uno né l'altro, con una sua certa

maniera di girar le frasi.

Evidentemente, una crisi s'avvicinava.

Come avviene quasi sempre in simili casi, Mario, per

saggiare, tentò qualche scaramuccia prima della battaglia;

quel che si chiama tastare il terreno. Una mattina accadde,

a proposito d'un giornale cadutogli sotto mano, che il

signor Gillenormand parlasse con leggerezza della

Convenzione, e lanciasse un epifonema monarchico su

Danton, Saint-Just e Robespierre. - Gli uomini del '93

erano giganti - osservò Mario severamente. Il vecchio

tacque e non fiatò più per tutto il resto della giornata.

Mario, che aveva sempre presente nella memoria

l'inflessibile nonno dei suoi primi anni, vide in quel silenzio

una profonda concentrazione di collera, ne presagì una

lotta, e aumentò nelle ultime trincee della sua mente i

preparativi della battaglia.

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Decise che in caso di rifiuto si sarebbe strappato le

fasciature, spostato la clavicola, avrebbe messo al nudo e

al vivo quante piaghe gli rimanevano, e respinto ogni cibo.

Le ferite erano le sue munizioni. Ottenere Cosetta o

morire.

Aspettò il momento favorevole con la pazienza sorniona dei

malati.

E il momento venne.

3. MARIO ALL'ASSALTO

Un giorno, mentre sua figlia metteva in ordine le fiale e le

tazze sul marmo del cassettone, il signor Gillenormand era

chino su Mario e gli diceva col suo accento più tenero:

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- Vedi, mio piccolo Mario, se io fossi in te mangerei adesso

piuttosto carne che pesce; una sogliola fritta è ottima per

cominciare la convalescenza, ma per mettere in piedi un

malato ci vuole una buona costoletta.

Mario, a cui erano tornate quasi interamente le forze, le

raccolse, si rizzò a sedere, appoggiò i pugni contratti sul

lenzuolo, guardò in faccia il nonno, assunse un aspetto

terribile e disse:

- Questo mi induce a dirvi una una cosa.

- Quale?

- Che voglio ammogliarmi.

- Previsto! - rispose il nonno; e scoppiò a ridere.

- Come, previsto?

- Sì, previsto. L'avrai la tua piccina.

Mario, stupefatto e oppresso da quella sorpresa, fu preso

da un tremito in tutto il corpo.

Il signor Gillenormand continuò:

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- Sì, l'avrai la tua bella figlioletta graziosa. Essa viene ogni

giorno, sotto le sembianze d'un vecchio signore, a chiedere

tue notizie. Da quando sei stato ferito, passa il tempo a

piangere e a far filacce. Mi sono informato; abita in via

Homme-Armé, numero sette. Ah, ci siamo! La vuoi eh?

Ebbene, l'avrai. Eccoti preso al laccio. Tu avevi ordito il tuo

piccolo complotto, avevi pensato fra te: "Glielo voglio

intimare bruscamente a questo nonno, a questa mummia

della reggenza e del direttorio, a questo vecchio galante, a

questo Dorante diventato Geronte; le ha avute anche lui le

sue leggerezze e i suoi amoretti, le sue donnine e le sue

Cosette; anche lui ha strisciato attorno alle gonnelle, ha

avuto le ali, ha mangiato il pane della primavera, e

bisognerà pure che se ne ricordi. Staremo a vedere.

Battaglia". Ah! tu pigli il toro per le corna! Sta bene. Io ti

offro una costoletta, tu mi rispondi: "A proposito, voglio

ammogliarmi". Questa sì che è una transizione! Ah! tu

avevi calcolato di farmi brontolare! Tu non sapevi che sono

un vecchio debole. Che ne dici? Tutto questo ti fa

arrabbiare. Non ti aspettavi di trovare tuo nonno più gonzo

di te; ci rimetti il discorso che mi volevi fare, signor

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avvocato, e questo ti dà noia. Ebbene, tanto peggio,

arrovellati. Io faccio quello che vuoi e questo ti rompe le

gambe, imbecille! Ascolta. Ho assunto le mie informazioni;

sono sornione anch'io, sai! Lei è vezzosa, saggia; la storia

del lanciere non è vera; ha fatto un monte di filacce; è un

gioiello e ti adora... Se morivi, saremmo stati in tre; la sua

bara avrebbe accompagnato la mia. Mi era ben passato per

la testa, appena sei stato meglio, di schiaffartela qui al

capezzale, ma solo nei romanzi s'introducono così

senz'altro le ragazze vicino al letto dei leggiadri feriti che le

interessano; sono cose che non si fanno. Che avrebbe

detto tua zia? Tu eri nudo i tre quarti del tempo, ragazzo

mio. Domanda a Nicoletta, che non t'ha mai lasciato un

minuto, se era possibile che una donna ti restasse vicino. E

poi che avrebbe detto il medico? Una bella ragazza non

guarisce la febbre. Infine, sta bene, non parliamone più; è

detto, fatto, concluso. Prendila. E' questa la mia ferocia.

Capisci? ho visto che non mi volevi bene, e allora ho detto:

Che devo fare perché questo animale mi voglia bene? E

allora ho detto: - Toh! ho sottomano la mia piccola

Cosetta, ora gliela do, e bisognerà pure che mi ami un

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poco, o mi dica perché non vuole. Ah! tu credevi che il

vecchio dovesse tempestare, far la voce grossa, gridare di

no, e alzare il bastone contro tutta questa aurora. Niente

affatto.

Cosetta? sia; amore? sia; non domando di meglio. Signore,

abbiate la compiacenza di ammogliarvi. Sii felice, figlio mio

diletto!

Ciò detto, il vecchio scoppiò in singhiozzi.

E presa la testa di Mario, se la strinse fra le braccia, sul

vecchio petto, e piansero tutti e due. E' una delle forme

della felicità suprema.

- Padre mio! - esclamò Mario.

- Ah! dunque mi vuoi bene! - disse il vecchio.

Successe un momento ineffabile; si sentivano soffocare e

non potevano parlare.

Finalmente il nonno balbettò:

- Su via! eccolo sulla buona strada. Mi ha chiamato padre.

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Mario, liberata la testa dalle braccia del nonno, disse piano:

- Ma, padre mio, adesso che sto bene, mi pare che potrei

vederla.

- Previsto anche questo. La vedrai domani.

- Padre mio!

- Cos'è?

- E perché non oggi?

- Ebbene, oggi; vada per oggi. M'hai chiamato tre volte tuo

padre, una cosa vale l'altra. Vado a occuparmene. Te la

condurranno.

Previsto, ti dico. Fu già messo in versi. E' la conclusione

dell'elegia del "Giovane malato" di Andrea Chénier, di

Andrea Chénier che fu sgozzato dagli sceller... dai giganti

del '93.

Il signor Gillenormand credette di scorgere una leggera

ruga sulla fronte del giovane, il quale invece, a dire il vero,

non lo ascoltava, rapito com'era in estasi, e pensava molto

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più a Cosetta che al '93. Il vecchio, tremante d'aver

ricordato così inopportunamente Andrea Chénier, riprese

precipitosamente:

- Sgozzato non è la parola. Fatto sta che i grandi geni

rivoluzionari, i quali non erano cattivi, questo è

incontestabile, ed erano tanti eroi, altro che! trovarono che

Andrea Chénier li infastidiva un poco, e lo fecero ghigliott...

vale a dire che nell'interesse della salute pubblica quei

grandi uomini il sette termidoro pregarono Andrea Chénier

che si degnasse di andare...

Stretto alla gola dalla propria frase, il signor Gillenormand

non poté continuare, e non potendo né terminarla né

ritrattarla, mentre sua figlia rassettava il guanciale dietro

di Mario, il vecchio sconvolto da tante emozioni, si slanciò

fuori dalla stanza da letto con tutta la sveltezza concessagli

dall'età, respinse dietro di sé la porta, e rosso, soffocato,

schiumante di collera, con gli occhi fuori dalla testa, si

trovò a faccia a faccia con l'onesto Basco, che stava in

anticamera lucidando le scarpe.

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L'afferrò per il bavero e gli gridò in viso con furore:

- Per le centomila incudini del diavolo, quei briganti lo

hanno assassinato!

- Chi, signore?

- Andrea Chénier!

Sì, signore - rispose Basco spaventato.

4. LA SIGNORINA GILLENORMAND FINISCE COL

TROVARE NORMALE CHE IL SIGNOR FAUCHELEVENT

ENTRASSE CON QUALCHE COSA SOTTO IL BRACCIO

Cosetta e Mario si rividero. Rinunciamo a dire che cosa fu

quel colloquio. Ci sono cose che non si deve tentar di

descrivere; fra di esse c'è il Sole.

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Tutta la famiglia, compresi Basco e Nicoletta, era riunita

nella camera di Mario nel momento in cui entrò Cosetta.

Quando apparve sulla soglia, sembrava avvolta in un

nimbo.

Il nonno, che proprio in quel momento stava per soffiarsi il

naso, restò sospeso, col naso nel fazzoletto, e, guardando

la fanciulla, esclamò:

- Adorabile!

Poi si soffiò rumorosamente.

Cosetta era inebriata, rapita, spaventata, estasiata. Era

sgomenta quanto si può esserlo per troppa felicità.

Balbettava, tutta pallida, tutta rossa, voleva lanciarsi nelle

braccia di Mario, ma non osava, vergognosa d'amare

davanti a tante persone. Siamo senza pietà con gli amanti

infelici; restiamo là, proprio quando più vorrebbero essere

soli, quando non hanno assolutamente bisogno di nessuno.

Con Cosetta - e dietro di lei - era entrato un uomo coi

capelli bianchi, grave e pur sorridente, ma d'un sorriso

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incerto e straziante. Era "il signor Fauchelevent", era

Valjean.

Era molto ben vestito, come aveva detto il portinaio, tutto

di nero e a nuovo, e in cravatta bianca.

Il portinaio era lontano le mille miglia dal riconoscere in

quel borghese corretto, in quel probabile notaio, l'orribile

portatore di cadaveri, che lacero, inzaccherato, schifoso,

stravolto, con la faccia coperta di sangue e di fango, si era

presentato alla sua porta nella notte del 7 giugno,

sostenendo per le ascelle Mario svenuto. Tuttavia il suo

fiuto di portinaio era buono, e quando vide giungere il

signor Fauchelevent con Cosetta, non seppe astenersi dal

confidare a sua moglie questa idea:

- Non so perché, ma mi pare di avere già visto quel volto.

Fauchelevent, nella stanza di Mario, rimaneva quasi in

disparte, presso l'uscio. Aveva sotto braccio un involto

assai simile a un volume in ottavo, avvolto in un foglio di

carta verdastra che sembrava ammuffita.

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- Porta sempre dei libri sotto il braccio quel signore? -

chiese sottovoce a Nicoletta la signorina Gillenormand, a

cui non piacevano i libri.

- Ebbene - rispose con lo stesso tono il signor Gillenormand

che l'aveva udita - è un dotto. E perciò? E' colpa sua? Il

signor Boulard, che ho conosciuto, neppure lui andava in

giro senza un libro, e ne aveva sempre uno così stretto al

cuore.

- Signor Tranchelevent...

Papà Gillenormand non lo fece apposta, ma la

sbadataggine per i nomi propri era in lui una maniera

aristocratica.

- Signor Tranchelevent, ho l'onore di chiedervi per mio

nipote, il signor barone Mario Pontmercy, la mano della

signorina.

Il "Signor Tranchelevent" s'inchinò.

- E' fatto - disse il nonno.

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E volgendosi a Mario e Cosetta, con le braccia distese, e

benedicendoli, gridò:

- Vi permetto di adorarvi.

Non se lo fecero dire due volte. Tanto meglio! Cominciò il

cinguettio. Parlavano sommesso. Mario puntellato col

gomito sulla poltrona a sdraio, Cosetta in piedi vicino a lui.

- Ah mio Dio - mormorava Cosetta - vi rivedo! Sei tu! siete

voi!

Andare a battervi in quel modo! Ma perché? E' una cosa

orribile!

Per quattro mesi, sono stata come una morta. Che

cattiveria essere stato a quella battaglia! Vi perdono, ma

non lo farete più. Poco fa, quando sono venuti a dirci di

venire, ho creduto ancora di morire, ma per la gioia. Ero

così triste! Non mi sono neppure preoccupata di vestirmi:

devo essere brutta da far paura. Cosa diranno i vostri

parenti, vedendomi con una gorgiera tutta gualcita? Ma

parlate dunque! Mi lasciate discorrere da sola.

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Stiamo sempre in via Homme-Armé. Pare che la ferita alla

spalla fosse spaventosa; m'hanno detto che vi si poteva

cacciar dentro la mano. E poi, pare che vi abbiano tagliato

le carni con le forbici; è una cosa orribile! Ho pianto tanto

che non ho più occhi. E' strano che si possa soffrire così.

Vostro nonno ha l'aria molto buona. Non state così

scomodo, non vi appoggiate sul gomito; state attento, vi

farete male. Oh, come sono contenta! Sono dunque finite

le avventure! Sembro stordita; volevo dirvi tante cose, ma

non ricordo più nulla. Mi amate sempre? Abitiamo in via

Homme- Armé. Non c'è giardino. In tutto questo tempo ho

sempre fatto filacce; guardate, è colpa vostra, signorino,

ho un po' incallito le dita.

- Angelo! - diceva Mario.

Angelo è la sola parola che non si possa sciupare, nessun

altro vocabolo resisterebbe allo spietato abuso che ne

fanno gli innamorati.

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Poi, essendoci delle persone presenti, s'interruppero e non

aprirono più bocca, accontentandosi di toccarsi

leggermente la mano.

Il signor Gillenormand si volse a tutte le persone che erano

in quella stanza e gridò:

- Parlate dunque ad alta voce, voi altri, fate rumore, tra le

quinte. Su animo, un po' di strepito, che diavolo! perché

questi ragazzi possano chiacchierare a loro piacere.

E accostatosi a Mario e a Cosetta, aggiunse sottovoce:

- Datevi del tu, non abbiate soggezione.

La zia Gillenormand assisteva stupita a quella irruzione di

luce nella sua vecchia casa. Ma quello stupore non aveva

nulla di aggressivo: non era niente affatto l'occhiata

scandalizzata e invidiosa d'una civetta a una coppia di

colombi, ma lo sguardo inebetito d'una povera innocente di

cinquantasett'anni; era la vita mancata che guardava quel

trionfo, l'amore.

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- Signorina Gillenormand - le disse suo padre - te l'avevo

detto io che ti sarebbe accaduto così.

E dopo un momento di silenzio aggiunse:

- Guarda la felicità degli altri.

Quindi volgendosi a Cosetta:

- Com'è graziosa! com'è graziosa! E' un Greuze. L'avrai

dunque tutta per te solo, ragazzaccio! Ah, briccone, la

scampi bella con me! Sei fortunato: se avessi quindici anni

di meno, ce la disputeremmo in duello. Ecco che sono

innamorato di voi, signorina! E' naturale. E' il vostro diritto.

Ah, che belle, che allegre nozze che faremo! La nostra

parrocchia è San Dionigi del Santo Sacramento, ma otterrò

una dispensa perché vi sposiate a San Paolo. La chiesa è

più bella, più civettuola: fu edificata dai gesuiti dirimpetto

alla fontana del cardinale di Birague. Il capolavoro

architettonico dei gesuiti si trova a Namur; si chiama San

Lupo. Dovreste andare a vederlo quando sarete sposati:

val la pena d'un viaggio, signorina; io sono completamente

della vostra opinione, voglio che le fanciulle si maritino;

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sono fatte per questo. C'è una certa santa Caterina che

vorrei sempre vedere a capo scoperto. Rimanere nubili è

una cosa bella, ma fredda. La Bibbia dice: Moltiplicatevi.

Per salvare il popolo ci vuole Giovanna d'Arco, ma per fare

il popolo ci vuole mamma Gigogne.

Dunque sposatevi, ragazze. Io non capisco davvero a quale

scopo si debba restare zitelle. So benissimo che in chiesa

hanno una cappella separata, e che vanno a finire nella

confraternita della Vergine; ma, perbacco! un bel marito,

un bravo ragazzo, e dopo un anno un bel bamboccio

biondo che poppa gagliardamente, che ha delle buone

pieghe di ciccia sulle cosce e che vi annaspa sul seno con le

sue rosee manine ridendo come l'aurora; tutto questo vale

più che tenere un cero a vespro e cantare "Turris

Eburnea"!

Il nonno fece una piroetta sulle sue calcagna di novanta

anni, e riprese a parlare come se avesse ricaricato la molla.

- "Dunque, frenando il tuo vagar fantasioso, E' proprio

vero, Alcippo, tra poco sarai sposo".

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- A proposito.

- Che cosa, padre mio?

- Non avevi un amico intimo?

- Sì, Courfeyrac.

- Cosa ne è stato?

- E' morto.

- Così va bene.

Sedette vicino a essi, fece sedere Cosetta, e prese le loro

quattro mani nelle sue vecchie mani rugose:

- E' deliziosa, questa piccola. E' un capolavoro, questa

Cosetta!

E' una ragazzina ed è già una gran dama. Sarà soltanto

una baronessa; peccato, è nata marchesa! E che ciglia!

Figli miei, ficcatevi bene nella zucca che voi siete nel vero.

Amatevi, fino a diventarne stupidi. L'amore è la stoltezza

degli uomini e lo spirito di Dio. Adoratevi! Solo che -

soggiunse turbandosi d'un tratto - per disgrazia, ora che ci

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penso, più della metà di quanto possiedo è collocata a

vitalizio. Finché vivrò io, le cose cammineranno abbastanza

bene, ma dopo la mia morte, fra una ventina d'anni, miei

poveri figlioli, non avrete più un soldo. Le vostre belle mani

bianche, signora baronessa, faranno al diavolo l'onore di

tirarlo per la coda.

A questo punto si udì una voce grave e tranquilla che

diceva:

- La signorina Eufrasia Fauchelevent possiede seicentomila

franchi.

Era la voce di Valjean.

Non aveva ancora proferito una parola, e pareva che

nessuno sapesse che egli era là. Se ne stava in piedi e

immobile dietro a tutte quelle persone felici.

- Chi è questa signorina Eufrasia? - chiese il nonno

sorpreso.

- Sono io - rispose Cosetta.

- Seicentomila franchi! - riprese il signor Gillenormand.

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- Meno forse quattordici o quindicimila franchi - osservò

Valjean.

E posò sulla tavola l'involto che la zia Gillenormand aveva

preso per un libro.

Valjean aprì lui stesso l'involto; era un fascio di biglietti di

banca. Furono sfogliati e contati; c'erano cinquecento

biglietti da mille franchi e centosessantotto da cinquecento;

in totale cinquecentottantaquattromila franchi.

- Ecco un buon libro - disse il signor Gillenormand.

- Cinquecentottantaquattromila franchi - mormorò la zia.

- Questo accomoda molte cose, non è vero, signorina

Gillenormand maggiore - riprese il nonno. - Quel diavolo di

Mario è andato a snidare nell'albero dei sogni una ragazza

milionaria! Fidatevi ora degli amoretti dei giovanotti! Gli

studenti che trovano delle studentesse con seicentomila

franchi! Cherubino che lavora meglio di Rothschild.

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- Cinquecentottantaquattromila franchi - ripeteva sottovoce

la signorina Gillenormand. - Cinquecentottantaquattromila

franchi!

Tant'è dire seicentomila, diamine!

Mario e Cosetta frattanto si guardavano, e appena

s'accorsero di quell'incidente.

5. DEPOSITATE IL VOSTRO DENARO IN CERTE

FORESTE, PIUTTOSTO CHE PRESSO CERTI NOTAI

Il lettore ha certamente capito, senza bisogno di lunghe

spiegazioni, che dopo il processo Champmathieu e grazie

alla sua prima evasione di pochi giorni, Valjean aveva

potuto andare a Parigi e ritirare in tempo dalla banca

Laffitte la somma da lui guadagnata a Montreuil-sur-mer

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sotto il nome di Madeleine; e che, temendo d'essere

ripreso, come infatti avvenne poco tempo dopo, aveva

nascosto e sepolto quella somma nel bosco di Montfermeil,

nel luogo detto il fondo Blaru. La somma, che era di

seicentotrentamila franchi tutti in biglietti di banca, faceva

poco volume e stava in una scatola. Sennonché, per

preservare la scatola dall'umidità, l'aveva rinchiusa in un

cofanetto di quercia pieno di trucioli di castagno, nel quale

aveva messo pure l'altro suo tesoro, i candelieri del

vescovo, che, come sappiamo, aveva portato via

scappando da Montreuil-sur-mer. L'uomo, visto la prima

volta una sera da Boulatruelle, era Valjean. Più tardi, ogni

qual volta gli occorreva danaro, egli andava a prenderne

nella radura Blaru; donde le sue assenze già accennate. In

un nascondiglio tra le sterpaglie, noto a lui solo, teneva

una zappa. Vedendo Mario in convalescenza, sentendo

avvicinarsi il momento in cui quel denaro poteva essere

utile, era andato a prenderlo; ed era ancora lui che

Boulatruelle aveva visto nel bosco, questa volta però di

mattina e non di sera. Boulatruelle ereditò la zappa.

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La somma precisa era di cinquecentottantaquattromila

franchi.

Valjean prelevò per sé cinquecento franchi, pensando: - Più

tardi vedremo.

La differenza fra la somma attuale e i seicentotrentamila

franchi ritirati dalla banca Laffitte rappresentava la spesa di

dieci anni, dal 1823 al 1833. Pei cinque anni di soggiorno in

convento erano bastati solo cinquemila franchi.

Valjean mise i due candelieri d'argento sul caminetto, ove

brillarono con grande ammirazione della Toussaint.

D'altra parte Valjean sapeva d'essere stato liberato da

Javert, avendo udito narrare e poi letto nel Moniteur che

un ispettore di polizia Javert era stato rinvenuto annegato

sotto un battello da lavandaia tra il Pont-au-Change e il

Ponte Nuovo, e che uno scritto lasciato da quell'uomo,

irreprensibile del resto e molto stimato dai suoi superiori,

faceva credere a un accesso d'alienazione mentale e a un

suicidio.

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Infatti - pensò Valjean - per avermi lasciato libero quando

già mi teneva, doveva proprio essere pazzo.

6. I DUE VECCHI FANNO DI TUTTO PERCHE' COSETTA

SIA FELICE

Tutto fu disposto per il matrimonio. Il medico consultato

dichiarò che poteva celebrarsi in febbraio. Si era allora in

dicembre.

Trascorsero alcune incantevoli settimane di felicità

perfetta.

Il meno felice non era il nonno, il quale rimaneva dei quarti

d'ora a contemplarsi Cosetta.

- Oh che meravigliosa fanciulla! - esclamava. - E che

fisionomia dolce e buona! Non c'è da far paragoni, è la più

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graziosa figliola che abbia mai visto in vita mia. Più tardi

avrà delle virtù profumate di violetta. E' una vera grazia!

Non si può non vivere nobilmente con una creatura simile.

Mario, figlio mio, tu sei barone, sei ricco, non fare

l'avvocato, te ne supplico.

Cosetta e Mario erano passati repentinamente dal sepolcro

al paradiso; la transizione era avvenuta senza cautele, e ne

sarebbero rimasti storditi se non ne fossero già stati

abbagliati.

- Ci capisci qualcosa in tutto questo? - chiedeva Mario a

Cosetta.

- No - rispondeva Cosetta - ma mi sembra che il buon Dio

ci guardi.

Valjean fece tutto, appianò tutto, conciliò tutto, rese tutto

facile. Egli affrettava la felicità della fanciulla con

altrettanta premura e altrettanta gioia quanto Cosetta

stessa.

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Essendo stato sindaco, seppe risolvere un problema

delicato, di cui egli solo conosceva il segreto: lo stato civile

di Cosetta.

Confessarne apertamente l'origine, chi sa? poteva impedire

il matrimonio. Egli cavò la fanciulla da tutte le difficoltà. Le

diede una famiglia di persone morte, mezzo sicuro per

evitare i reclami. Cosetta la superstite di una famiglia

estinta. Non era figlia sua, ma d'un altro Fauchelevent. Due

fratelli di questo nome erano stati giardinieri nel convento

del Petit-Picpus. Si andò al convento, ove abbondarono le

migliori informazioni e le più rispettabili testimonianze. Le

buone religiose, poco adatte e poco inclini a investigare su

questioni di paternità, e non supponendo malizia, non

avevano mai saputo esattamente di quale dei due

Fauchelevent Cosetta fosse figlia. Dissero quel che si volle

da esse, e lo dissero con zelo. Fu steso un atto notarile e

Cosetta davanti alla legge divenne la signorina Eufrasia

Fauchelevent, dichiarata orfana di padre e di madre.

Valjean fece in modo da essere designato, sotto il nome di

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Fauchelevent, come tutore di Cosetta, col signor

Gillenormand come protutore.

Quanto ai cinquecentottantaquattromila franchi, dichiarò

che erano un legato fatto a Cosetta da persona che

desiderava restare sconosciuta. Il legato ammontava in

origine a cinquecentonovantaquattromila franchi, ma

diecimila erano stati spesi per l'educazione della signorina

Eufrasia, di cui cinquemila pagati allo stesso convento.

Quel legato, depositato in mano di terza persona, doveva

essere rimesso alla fanciulla quando fosse maggiorenne o

all'epoca del suo matrimonio. Tutto questo era molto

plausibile, come si vede, soprattutto con l'appoggio di più

d'un mezzo milione. C'erano, è vero, qua e là alcune cose

strane, ma non le videro, giacché uno degli interessati

aveva gli occhi bendati dall'amore, gli altri dai seicentomila

franchi.

Cosetta seppe così di non essere figlia del buon vecchio da

lei per tanto tempo chiamato padre. Egli era soltanto un

parente; il suo vero padre era un altro Fauchelevent. In

tutt'altro momento, questo fatto l'avrebbe rattristata; ma

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nel momento ineffabile in cui si trovava, fu appena una

nuvola, un'ombra; ed era tanta la sua gioia che la nube

durò poco. Essa aveva Mario. Il giovane arrivava e il

vecchio scompariva. La vita è fatta così.

Inoltre, da molti anni Cosetta era abituata a vedersi

intorno degli enigmi; chiunque abbia avuto un'infanzia

misteriosa è sempre disposto a certe rinunce.

Tuttavia continuò a chiamare Valjean "padre".

Cosetta era entusiasta di papà Gillenormand, il quale, a dir

vero, la colmava di madrigali e di doni. Mentre Valjean le

costruiva una posizione normale nella società e uno stato

civile ineccepibile, il signor Gillenormand attendeva al

regalo nuziale. Niente gli piaceva tanto quanto mostrarsi

magnifico. Le regalò una veste di merletti Binche che

aveva ereditato dalla sua nonna, dicendole:

- Queste mode rinascono; le anticaglie fanno furore; le

giovani della mia vecchiaia si vestono come le vecchie della

mia infanzia.

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Svaligiava i suoi rispettabili e panciuti canterani laccati, che

non erano stati aperti da anni. - Scrutiamo i segreti di

queste nobili dame; vediamo che cosa hanno nel pancione

- diceva. - E violava rumorosamente i cassetti zeppi degli

ornamenti di tutte le sue mogli, di tutte le sue amanti e di

tutte le sue antenate.

Stoffe di Pechino, damaschi, lampazzi, moerri dipinti, abiti

di gros marezzati di Tours, fazzoletti ricamati in oro

lavabile delle Indie, delfine senza rovescio ancora in pezza,

punti di Genova e d'Alençon, parures in oreficeria antica,

bomboniere di avorio ornate di microscopiche battaglie,

guarnizioni, nastri; tutto donava prodigalmente a Cosetta.

E Cosetta meravigliata, pazza d'amore per Mario e

riboccante di riconoscenza per il signor Gillenormand,

sognava una felicità senza fine vestita di raso e di velluto.

Il suo cesto con i doni nuziali le pareva sostenuto da

serafini, e l'anima s'involava nell'azzurro sulle ali dei

merletti di Malines.

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L'ebbrezza degli innamorati non era uguagliata, l'abbiamo

detto, se non dall'estasi del nonno. Nella via delle Figlie del

Calvario c'era una specie di fanfara.

Ogni mattina, nuova offerta di cose rare del nonno a

Cosetta, intorno alla quale si mettevano splendidamente in

mostra tutti i possibili falpalà.

Un giorno Mario, che volentieri intercalava i discorsi seri

con la sua felicità, disse a proposito di non so quale

incidente: Gli uomini della rivoluzione sono così grandi, che

hanno il prestigio dei secoli, come Catone e come Focione,

e ciascuno di loro sembra una memoria antica.

- Moerro antico! - esclamò il vecchio. - Grazie, Mario, era

appunto l'idea che cercavo.

E il giorno appresso una magnifica veste di moerro antico

color tè fu aggiunto al corredo di Cosetta.

Da tutti quegli ornamenti il vecchio deduceva delle

massime di saggezza.

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- L'amore va bene, ma ci vuole anche questo. La felicità è

soltanto il necessario; ci vuole anche l'inutile; bisogna

condirla enormemente di superfluo. Un palazzo e il suo

cuore; il suo cuore e il Louvre; il suo cuore e i gran giochi

d'acqua di Versailles.

Datemi la mia pastorella e fate che sia duchessa.

Conducetemi Fillide coronata di fiordalisi e aggiungetele

centomila franchi di rendita. Spalancatemi una scena

bucolica, a perdita di vista, sotto un colonnato di marmo e

io accetto la bucolica e anche la fantasmagoria di marmo e

oro. La felicità asciutta somiglia al pane asciutto; si

mangia, ma non si pranza. Io voglio il superfluo, l'inutile, lo

stravagante, l'eccessivo, quello che non serve a nulla. Mi

ricordo di aver visto nella cattedrale di Strasburgo un

orologio alto come una casa a tre piani, che indicava l'ora,

che aveva la compiacenza d'indicare l'ora, ma che non

pareva fatto per questo; dopo aver suonato mezzodì o

mezzanotte, mezzodì l'ora del sole, mezzanotte l'ora

dell'amore, o qualsiasi altra cosa che vi piaccia, vi dava la

luna e le stelle, la terra e il mare, gli uccelli e i pesci, Febo

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e Febea, e un mucchio di cose che uscivano dalla nicchia, e

i dodici apostoli, e l'imperatore Carlo Quinto, ed Eponina e

Sabino, e per soprammercato un mucchio di pupazzi dorati

che suonavano la tromba. Senza contare i deliziosi

scampanii che diffondeva nell'aria ogni tanto senza

ragione. Vale altrettanto un brutto quadrante nudo nudo

che indica soltanto le ore? Io sto per il grande orologio di

Strasburgo e lo preferisco al cuculo della Selva Nera.

Il signor Gillenormand divagava specialmente a proposito

delle nozze, e tutte le specchiere del settecento passavano

alla rinfusa nei suoi ditirambi.

- Voi altri ignorate l'arte delle feste - esclamava. - Oggi

non sapete organizzare un giorno di gioia. Il vostro secolo

diciannovesimo è fiacco; manca di eccessi; ignora il ricco, il

nobile. E' troppo terra-terra. ll vostro terzo Stato è

insipido, incolore, inodore e informe. Il sogno delle vostre

borghesi quando si accasano, come dicono, è un bel

salottino decorato di fresco, tutto in palissandro e calicò.

Largo, largo! il signor Pitocco sposa la signorina Lesina.

Sontuosità e splendore! Hanno attaccato un luigi d'oro a

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una torcia! Ecco l'epoca attuale. Domando di fuggirmene

tra i Sarmati. Ah! io predissi che tutto era perduto fino dal

1787, il giorno in cui vidi il duca di Rohan, principe di Léon,

duca di Chabot, duca di Mombazon, marchese di Soubise,

visconte di Thouars, pari di Francia, andare a Longchamps

in un calessino! La cosa ha dato i suoi frutti. In questo

secolo fanno gli affari, giocano alla Borsa, guadagnano

quattrini e sono spilorci. Curano e inverniciano la

superficie, sono attillati, lavati, insaponati, raschiati, rasati,

pettinati, lucidati, lisciati, strofinati, spazzolati, nettati al di

fuori, irreprensibili, levigati come ciottoli, discreti, assettati,

e nello stesso tempo - virtù della mia bella! - hanno in

fondo alla coscienza dei letamai e delle cloache da far

inorridire una vaccaia che si pulisca il naso con le dita! Io

affibbio a quest'epoca la seguente divisa: "decenza

sudicia". Mario, non andare in collera, permettimi di

parlare, vedi che non dico male del popolo; ma lascia che

mi sfoghi contro la borghesia. Sono borghese anch'io. Chi

ama molto castiga molto. E con ciò ti dico chiaro e tondo

che la gente si sposa, sì, ma non sanno sposarsi.

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E' vero, io rimpiango la gentilezza delle antiche usanze.

Rimpiango tutto; l'eleganza, i modi cavallereschi, le

maniere cortesi e graziose, il lusso rallegratore che ognuno

dimostrava, la musica che faceva parte delle nozze -

sinfonia per le alte classi, strepito di tamburi per le basse -

le danze, i visi giocondi a mensa, i madrigali lambiccati, le

canzoni, i fuochi d'artificio, le franche risate, il diavolo con

tutte le sue diavolerie, e grandi nodi di nastri. Rimpiango la

giarrettiera della sposa. Perché si fa la guerra di Troia?

Diamine! per la giarrettiera di Elena. Perché si battono?

perché il divino Diomede fracassa sul capo di Merione il

grand'elmo di bronzo dalle dieci punte? perché Achille ed

Ettore si picchiano a gran colpi di picca? No! Ma perché

Elena s'è lasciata prendere la giarrettiera da Paride. Con la

giarrettiera di Cosetta Omero comporrebbe l'Iliade;

introdurrebbe nel suo poema un vecchio ciarlone come me

e lo chiamerebbe Nestore. Amici miei, in altri tempi, in

quegli amabili altri tempi si sposavano sapientemente; si

faceva un buon contratto e poi una buona gozzoviglia;

appena uscito il notaio entrava il cuoco. Ma sicuro! perché

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lo stomaco è una bestia piacevole, che reclama quanto le è

dovuto, e vuole anch'essa le sue nozze. Si cenava bene, e

a tavola si aveva una bella vicina senza colletto, che

nascondeva il seno con moderazione. Oh, le belle bocche

ridenti! e come si stava allegri allora! la giovinezza era un

mazzo di fiori; ogni giovinotto si incoronava di un ramo di

lilla o una ciocca di rose; anche i guerrieri erano pastori, e

il capitano dei dragoni trovava modo di chiamarsi Floriano.

Ci tenevano a essere belli; si coprivano di ricami e di

porpora. Un borghese sembrava un fiore, il marchese una

gemma. Non si usavano le ghette, non si usavano gli

stivali. Erano azzimati, lustri, marezzati, biondeggianti,

agili, leggiadri, galanti, ciò che non impediva di portare la

spada al fianco. Il colibrì ha becco e unghie. Era l'epoca

delle "Indie galanti". Uno degli aspetti del secolo era la

delicatezza, l'altro la magnificenza, e, per la virtù d'un

cavolo! si divertivano. Oggi invece sono tutti seri. Il

borghese è avaro, la borghesia è schizzinosa. Il vostro è un

secolo sfortunato. Caccerebbe via le grazie perché troppo

scollacciate. Ahimé! nascondono la bellezza come una cosa

brutta.

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Dalla rivoluzione, tutti portano calzoni, anche le ballerine;

una saltimbanca deve essere grave; le vostre danze sono

dottrinarie.

Bisogna mostrarsi maestosi. Sarebbero irritatissimi se non

potessero nascondere il mento nella cravatta. L'ideale d'un

galoppino di vent'anni che prenda moglie è di somigliare a

Royer- Collard. E sapete cosa otterrete con codesta

maestà? Diventate piccini. Abbiate in mente che la gioia

non è soltanto gioconda, ma è grande. Amoreggiate

dunque allegramente, che diavolo! quando vi sposate;

sposatevi dunque con la febbre e lo stordimento, lo strepito

e il tramestio della felicità! Gravi in chiesa, sia pure; ma

appena finita la messa, perdinci! si dovrebbe circondare la

sposa d'un vortice fantastico. Uno sposalizio deve essere

regale e chimerico, deve far passeggiare la cerimonia dalla

cattedrale di Reims alla pagoda di Chanteloup. Io odio le

nozze miserabili. Per Bacco Bacchissimo! siate nell'olimpo,

almeno quel giorno: siate tanti dei. Potrebbero essere dei

silfi, delle divinità del gioco e del riso, degli argiraspidi, e

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invece sono tanti gaglioffi! Amici miei, ogni novello sposo

dev'essere un principe Aldobrandini.

Profittate di questo minuto unico nella vita per lanciarvi

nell'empireo coi cigni e con le aquile, salvo a ricadere

l'indomani nella borghesia dei ranocchi. Non economizzate

la gioia, non accorciate i suoi splendori, non lesinate il

giorno in cui dovete scintillare. Lo sposalizio non è il regime

domestico.

Oh! se facessi a mio capriccio, riuscirebbe una cosa

galante: si sentirebbero i violini tra gli alberi. Ecco il mio

programma:

azzurro e denaro. Introdurrei nella festa le divinità agresti,

convocherei le driadi e le nereidi. Le nozze d'Anfitrite, una

nube rosea, delle ninfe bene pettinate e nude, un

accademico che offre delle quartine alla Dea, un carro

trascinato da mostri marini.

"Tritone trottava davanti, e cavava dalla sua conchiglia dei

suoni così incantevoli che rapivano chiunque".

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Ecco un programma di festa, un programma veramente

magnifico, o che io non me ne intendo più, corpo d'un

cestino!

Mentre il nonno, in piena effusione lirica, ascoltava se

stesso, Cosetta e Mario s'inebriavano guardandosi

liberamente.

La zia Gillenormand considerava tutte queste cose con la

sua placidità imperturbabile. Negli ultimi cinque o sei mesi

essa aveva provato una certa quantità d'emozioni: il

ritorno di Mario, Mario riportato sanguinante, Mario

proveniente da una barricata, Mario morto, poi vivo, Mario

riconciliato, poi fidanzato, Mario che sposava una fanciulla

povera, poi sposava una milionaria. I seicentomila franchi

avevano costituito l'ultima sua sorpresa.

Dopo di che aveva ripreso la sua indifferenza di bambina di

prima comunione. Si recava regolarmente in chiesa,

sgranava il rosario, leggeva il suo eucologio, biascicava

delle Ave in un angolo della casa, mentre nell'altro si

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sussurravano degli "I love you", e vedeva Mario e Cosetta

come due ombre. L'ombra era lei.

C'è un certo stato d'ascetismo inerte in cui l'anima

neutralizzata dal torpore, estranea a quella che potrebbe

chiamarsi l'occupazione di vivere, non percepisce, tranne i

terremoti e le catastrofi, nessuna impressione umana, né

piacevole né disgustosa .

- La tua devozione - diceva il signor Gillenormand a sua

figlia,- corrisponde a un'infreddatura di cervello; tu non

senti nulla della vita, né i cattivi odori, né i buoni.

Del resto i seicentomila franchi avevano posto fine alle

titubanze della vecchia zitella. Suo padre aveva preso

l'abitudine di calcolarla così poco, che non l'aveva

nemmeno consultata sul consenso al matrimonio di Mario.

Aveva agito con la foga consueta, preoccupato, despota

divenuto schiavo, da una sola idea:

contentare il nipote. Quanto alla zia, egli non s'era neppure

sognato che esistesse e potesse avere un'opinione; ciò che,

per quanto pecora fosse, l'aveva urtata. Un po' urtata in

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fondo all'anima, ma esteriormente impassibile, aveva detto

fra sé: - Mio padre risolve la questione del matrimonio

senza di me; io risolverò quella dell'eredità senza di lui. -

Essa infatti era ricca e il padre no. S'era dunque riservata

di decidere da sola su questo. Ed è probabile che se il

matrimonio fosse stato povero, l'avrebbe lasciato tale. -

Tanto peggio per il mio signor nipote!

Sposa una pezzente, e resti un pezzente. - Ma il mezzo

milione di Cosetta le piacque, e mutò le disposizioni

dell'animo suo riguardo a quella coppia d'innamorati.

Seicentomila franchi meritano considerazione, ed era

evidente che lei non poteva fare altrimenti che lasciare la

sua ricchezza a quei due giovani, dal momento che non ne

avevano più bisogno.

Fu stabilito che gli sposi avrebbero abitato in casa del

nonno, il quale volle assolutamente cedere loro la propria

camera, la più bella della casa.

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- Questo mi farà ringiovanire - dichiarò. - E' un mio antico

progetto; ho sempre avuto l'intenzione di far le nozze nella

mia camera.

Quindi l'adornò d'una quantità di antichi ninnoli galanti,

fece rinnovare il soffitto e la fece tappezzare con una stoffa

straordinaria di Utrecht: fondo rasato a bottoni d'oro con

fiori di velluto.

- Le cortine del letto della duchessa d'Anville alla Roche-

Guyon- diceva egli - erano di questa stoffa. - E mise sul

caminetto una figurina di Sassonia che si copriva il ventre

nudo col manicotto.

La biblioteca del signor Gillenormand divenne lo studio

legale di Mario, poiché, come già sappiamo, il consiglio

dell'ordine degli avvocati prescriveva uno studio.

7. SOGNO E FELICITA'

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I due innamorati si vedevano ogni giorno. Cosetta veniva

col signor Fauchelevent. - Che mondo alla rovescia - diceva

la signorina Gillenormand - adesso le fidanzate vengono a

domicilio a farsi corteggiare. - Ma la convalescenza di Mario

aveva introdotto l'abitudine, e le poltrone della via Figlie

del Calvario, più comode per i colloqui intimi che non le

sedie impagliate della via Homme-Armé, l'avevano

radicata. Mario e Fauchelevent si vedevano ma non si

parlavano. Pareva che così si fosse convenuto. Una

signorina ha bisogno di un'accompagnatrice, e senza

Fauchelevent Cosetta non poteva venire. Per Mario dunque

Fauchelevent era la condizione "sine qua non" di Cosetta.

Mettendo sul tappeto, in modo generico e senza precisare,

le questioni politiche, dal punto di vista del miglioramento

generale, essi arrivavano a dirsi qualche cosa di più del sì e

no. Una volta anzi, a proposito dell'istruzione, che Mario

voleva gratuita e obbligatoria, moltiplicata sotto tutte le

forme, prodigata a tutti come l'aria e la luce, in una parola,

respirabile dal popolo intero, si trovarono all'unisono e

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quasi conversarono. In quell'occasione Mario notò che il

signor Fauchelevent parlava bene, e anche con una certa

elevatezza di linguaggio; però, gli mancava un non so che:

aveva qualcosa di meno di un uomo di mondo, e qualcosa

di più.

Nel suo interno, nel fondo del suo pensiero, Mario faceva

ogni sorta di mute domande a quel signore Fauchelevent,

che si mostrava con lui soltanto benevolo e freddo.

Provava talvolta dei dubbi sulle proprie rimembranze; c'era

nella sua memoria un vuoto, un punto nero, un abisso

scavato da quattro mesi d'agonia, nel quale molte cose

s'erano perdute. Arrivava al punto di chiedersi se avesse

realmente visto Fauchelevent, un uomo così serio e così

calmo, nella barricata.

Non era questo il solo stupore che le apparizioni e le

sparizioni del passato gli avessero lasciato nell'animo. Non

è da credere che egli fosse libero da tutte quelle ossessioni

della memoria che ci forzano,anche felici,anche soddisfatti,

a guardare melanconicamente indietro. La mente che non

si rivolge verso gli orizzonti svaniti non contiene né

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pensiero né amore. In certi momenti Mario, col viso nelle

mani, vedeva il passato tumultuoso e incerto attraversargli

il crepuscolo del cervello. Vedeva cadere Mabeuf, udiva

Gavroche cantare sotto la mitraglia, sentiva sotto le labbra

il freddo della fronte d'Eponina; Enjolras, Courfeyrac,

Prouvaire, Combeferre, Bossuet, Grantaire, tutti i suoi

amici gli si rizzavano dinanzi, poi svanivano. Tutti quegli

esseri cari, dolorosi, valenti, graziosi o tragici, erano

dunque sogni? o erano realmente esistiti? La sommossa gli

aveva tutto travolto. Le grandi febbri hanno grandi sogni.

Egli s'interrogava, si tastava, era preso dalla vertigine di

tutte quelle realtà svanite.

Dov'erano essi? era proprio vero che tutto fosse morto?

Una caduta nelle tenebre aveva ingoiato tutto, eccetto lui.

Gli sembrava che tutto fosse scomparso come dietro un

sipario di teatro. Ci sono infatti delle tende che calano così

nella vita. Dio passa all'atto seguente.

Ed egli pure, era veramente lo stesso uomo? Egli, il

povero, era ricco; egli, l'abbandonato, aveva una famiglia;

egli, il disperato, sposava Cosetta. Gli pareva d'aver

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attraversato una tomba nella quale era entrato nero e ne

era uscito bianco, mentre gli altri vi erano rimasti. In certi

momenti, tutte le persone del passato, ritornate e presenti,

formavano circolo intorno a lui e lo rendevano cupo. Allora

pensava a Cosetta e subito si rasserenava. Ma ci voleva

solo quella felicità per cancellare quella catastrofe.

Fauchelevent aveva preso posto fra questi esseri svaniti.

Mario esitava a credere che il Fauchelevent della barricata

fosse quello stesso in carne e ossa, così gravemente

seduto accanto alla fanciulla. Il primo era probabilmente

uno di quegli incubi recati e portati via dalle sue ore di

delirio. Del resto, la stessa diversità dei loro caratteri

rendeva impossibile qualunque interrogazione da parte di

Mario; non gliene sarebbe venuta neppure l'idea. E' una

circostanza caratteristica alla quale abbiamo già accennato.

E' meno raro che non si creda il caso di due uomini che

hanno un segreto comune, e che, per una specie di tacito

accordo, non si scambiano una parola su quell'argomento.

Una sola volta Mario tentò la prova. Fece entrare nella

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conversazione la via Chanvrerie, quindi, volgendosi a

Fauchelevent, gli disse:

- Conoscete quella via?

- Quale?

- La via Chanvrerie?

- Non ho nessuna idea del nome di quella via - rispose il

signor Fauchelevent col tono più naturale del mondo.

La risposta, che riguardava il nome della via anziché la via

stessa, parve a Mario più concludente di quanto non fosse

in realtà.

Certamente - pensò - ho sognato, ho avuto

un'allucinazione. Era qualcuno che gli somigliava, ma il

signor Fauchelevent non c'era.

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8. DUE UOMINI CHE NON SI POSSONO RITROVARE

Per quanto vivo, l'incantamento non cancellò dalla mente

di Mario altre preoccupazioni.

Mentre attendeva l'epoca fissata per le nozze, che si

andavano preparando, egli fece fare alcune scrupolose e

difficili indagini sul passato.

Aveva un debito di gratitudine da più parti; ne doveva per

suo padre e per sé. C'era Thénardier; c'era lo sconosciuto

che aveva portato lui, Mario, in casa di Gillenormand. Egli

ci teneva a ritrovare questi due uomini. Non intendeva

ammogliarsi, essere felice e dimenticarli, temendo che quei

debiti sacri, non soddisfatti, gettassero un'ombra sulla sua

esistenza, la quale ora gli si offriva così luminosa. Gli

pareva impossibile lasciarsi dietro tutto quel passato di

sofferenza, e, prima d'entrare allegramente nell'avvenire,

voleva aver saldato il conto col passato.

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Che Thénardier fosse uno scellerato, questo non

menomava in nulla il fatto di aver salvato la vita al

colonnello Pontmercy.

Thénardier era un bandito per tutti, meno per lui.

Ignorando la vera scena di battaglia a Waterloo, Mario

ignorava che suo padre si trovava di fronte a Thénardier

nella strana situazione di dovergli la vita, senza dovergli

alcuna riconoscenza.

Nessuno degli agenti impiegati da Mario giunse a scoprire

la traccia di Thénardier. Da quel lato la scomparsa

sembrava completa. La Thénardier era morta in prigione

durante l'istruttoria del processo; Thénardier e la figlia

Azelma, i due soli che restassero di quel deplorevole

gruppo, si erano immersi di nuovo nell'ombra. Il gorgo

dell'Ignoto sociale s'era richiuso silenziosamente su quegli

esseri, e non si vedeva neppure alla superficie quel

fremito, quel tremolio, quegli oscuri circoli concentrici i

quali annunciano che qualche cosa è caduta in quel punto e

che si può gettarvi lo scandaglio.

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Morta la Thénardier, Boulatruelle messo fuori causa,

Claquesous sparito, i principali accusati evasi di prigione, il

processo dell'agguato nella topaia Gorbeau era quasi

sfumato. La faccenda era rimasta abbastanza oscura. Il

banco degli accusati aveva dovuto contentarsi di due

subalterni, Panchaud detto Printanier, detto Bigrenaille, e

Demi-Liard soprannominato Deux Milliards, condannato a

dieci anni di galera. Contro i loro complici evasi e

contumaci era stata pronunciata la pena dei lavori forzati a

vita, e contro Thénardier, capo e organizzatore del delitto e

anche contumace, quella di morte. Tale condanna era la

sola cosa che rimanesse di quell'uomo, e gettava una luce

sinistra su quel nome sepolto, come una candela sopra un

feretro.

Del resto, sospingendo Thénardier nei più profondi

nascondigli per il timore di essere ripreso, quella condanna

accresceva le tenebre fitte che coprivano quell'uomo.

Quanto all'altro, all'uomo ignoto che aveva salvato Mario,

le ricerche dettero dapprima qualche frutto, poi si

fermarono a un tratto. Si riuscì a rintracciare la vettura che

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la sera del 6 giugno aveva trasportato Mario nella via Figlie

del Calvario. Il cocchiere dichiarò che quel giorno egli era

rimasto a disposizione d'un agente di polizia, dalle tre

pomeridiane fino a notte sulla riva dei Campi Elisi al di

sopra dello sbocco della Grande Fogna; che verso le nove

di sera, il cancello della fogna che dà sull'argine del fiume

si era aperto; ne era uscito un uomo portandone sulle

spalle un altro che sembrava morto; l'agente, rimasto in

osservazione su quel punto, aveva arrestato il vivo e

sequestrato il morto; per ordine dell'agente, il cocchiere,

aveva ricevuto "tutta quella gente" nella sua vettura; si

erano prima recati in via Figlie del Calvario, dove avevano

deposto il morto; quel morto era il signor Mario, e lui, il

cocchiere, lo riconosceva benissimo benché "questa volta"

fosse vivo, dopo erano risaliti nella sua vettura ed egli

aveva sferzato i cavalli; a qualche passo dalla porta degli

Archivi lo avevano fatto fermare, e là nella via l'avevano

pagato e lasciato; l'agente aveva condotto via l'altro uomo;

non sapeva nulla di più, inoltre la notte era molto buia.

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Mario, come abbiamo detto, non si ricordava di nulla,

ricordava soltanto di essere stato afferrato per di dietro

nella barricata da una mano robusta nel momento in cui

cadeva rovescio; poi tutto era svanito e non aveva ripreso i

sensi se non in casa di Gillenormand.

Si perdeva in congetture.

Non poteva dubitare della propria identità.

Eppure, come era avvenuto che, caduto in via Chanvrerie,

fosse stato raccolto da un agente di polizia, sull'argine della

Senna vicino al ponte degli Invalidi? qualcuno l'aveva

portato dal quartiere dei Mercati sino ai Campi Elisi. E

come? attraverso la cloaca. Abnegazione inaudita!

Qualcuno? Chi?

Era l'uomo che Mario cercava.

Di quest'uomo, che era il suo salvatore, nulla, nessuna

traccia, neppure il minimo indizio.

Quantunque obbligato a una grande riserva, Mario spinse

le sue ricerche fino alla prefettura di polizia; ma là le

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informazioni non approdarono a nulla. La polizia ne sapeva

meno del vetturino; non si sapeva di nessun arresto

operato il 6 giugno al cancello della Grande Fogna; non era

pervenuto nessun rapporto intorno a quel fatto, che dalla

prefettura era considerato come una favola.

Se ne attribuiva l'invenzione al cocchiere, giacché i

cocchieri per avere una mancia sono capaci di tutto, anche

di inventare.

Eppure il fatto era certo e Mario non ne poteva dubitare a

meno che non mettesse in dubbio, come abbiamo detto, la

propria identità.

Tutto era inesplicabile in quello strano enigma.

Che ne era successo di quell'uomo, dell'uomo misterioso

che il cocchiere aveva visto uscire dal cancello della Grande

Fogna portando sulle spalle Mario svenuto, e che l'agente

di polizia in agguato aveva arrestato in flagrante delitto di

salvataggio d'un insorto? e che ne era stato dell'agente

stesso? perché quell'agente aveva taciuto? l'uomo era forse

riuscito a fuggire?

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aveva corrotto l'agente? perché quell'uomo si era eclissato

agli occhi di Mario che gli doveva tutto? Il disinteresse non

era minore dell'abnegazione. Perché quell'uomo non

ricompariva? Forse egli era superiore a ogni ricompensa,

ma nessuno è superiore alla gratitudine. Era morto? e chi

era? che viso aveva? Nessuno sapeva dirglielo. Il cocchiere

rispondeva: "la notte era molto buia"; Basco e Nicoletta,

sbalorditi, avevano badato soltanto al loro giovane padrone

tutto sanguinante; il portinaio, la cui candela aveva

illuminato il tragico arrivo di Mario, era il solo che avesse

notato quell'uomo, ed ecco i connotati che ne dava:

"Quell'uomo era spaventevole".

Nella speranza di ricavarne qualcosa per le sue indagini,

Mario fece conservare i vestiti intrisi di sangue, che aveva

indosso quando l'avevano portato in casa del nonno.

Nell'esaminare il soprabito s'accorse che una delle falde era

lacerata in modo strano: ne mancava un pezzo.

Una sera Mario parlava, davanti a Cosetta e a Valjean, di

tutta quella strana avventura, delle innumerevoli

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informazioni assunte e dell'inutilità dei suoi sforzi. Il viso

freddo del "signor Fauchelevent" lo impazientiva: con una

vivacità che aveva quasi le vibrazioni della collera,

esclamò:

- Sì, quell'uomo, chiunque sia, fu sublime. Sapete cosa

fece, signore? Intervenne come l'arcangelo. Dovette

scagliarsi in mezzo alla battaglia, nascondermi, aprire la

fogna, trascinarmi in essa, e portarmi attraverso di essa!

Dovette percorrere più di una lega e mezzo tra orribili

gallerie sotterranee, curvato, piegato, nelle tenebre, nella

cloaca; più di una lega e mezzo, signore, con un cadavere

sulle spalle! E a che scopo? Con l'unico scopo di salvare

quel cadavere. E quel cadavere sono io. Egli pensò: qui c'è

forse ancora un barlume di vita, e io voglio arrischiare la

mia esistenza per questa miserabile scintilla. E la sua

esistenza l'ha arrischiata non una volta, ma venti. Ogni

passo era un pericolo; e lo prova il fatto che uscendo dalla

fogna fu arrestato. Sapete, signore, che quell'uomo ha

fatto tutto ciò? E non poteva sperare nessuna ricompensa.

Cos'ero io? un insorto. Cos'ero? un vinto. Oh!

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se i seicentomila franchi di Cosetta fossero miei...

- Sono vostri - interruppe Valjean.

- Ebbene - riprese Mario - io li darei per ritrovare

quell'uomo.

Valjean tacque.

Libro 6

NOTTE BIANCA

1. IL 16 FEBBRAIO 1833

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La notte dal 16 al 17 febbraio fu una notte benedetta; al di

là del suo velo d'ombra il cielo si aprì sopra di lei. Fu la

notte delle nozze di Mario e Cosetta.

La giornata era stata bellissima.

Non era stata la festa azzurra sognata dal nonno, una

fantasmagoria con una confusione di cherubini e di cupìdi

sopra la testa degli sposi, un matrimonio degno di figurare

nei disegni d'una tappezzeria; ma era riuscita commovente

e gioconda.

La moda delle nozze nel 1833 non era quella di oggi. Allora

la Francia non aveva ancora preso a prestito dall'Inghilterra

la delicatezza suprema di rapire la propria sposa, di fuggire

via uscendo dalla chiesa, di nascondere vergognosi la

propria felicità, e di amalgamare un contegno da

bancarottiere con le estasi del Cantico dei Cantici. Non si

era ancora compreso quanta castità, quanta squisitezza e

decenza c'era nel far trabalzare il proprio paradiso in una

carrozza postale, intercalare al proprio mistero le

schioccate di frusta, prendere per letto nuziale un letto

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d'albergo, e lasciarsi indietro, in un'alcova volgare a tanta

notte, il più sacro ricordo della vita, misto e confuso ai

convegni dei postiglioni con le fantesche d'albergo.

In questa seconda metà del secolo diciannovesimo in cui ci

troviamo, il sindaco e la sua sciarpa, il sacerdote e la sua

pianeta, la legge e Dio non bastano più; a completarli ci

vuole il postiglione di Longjumeau, l'abito turchino con

risvolti rossi e i bottoni a campanello, la piastra

sull'avambraccio, i calzoni di pelle verde, le bestemmie ai

cavalli normanni dalla coda annodata, i galloni finti, il

cappello incerato, i grossi capelli impolverati, l'enorme

frusta e i robusti stivali. La Francia non spinge ancora la

sua eleganza, come la nobiltà inglese, fino a far piovere

sulla carrozza postale degli sposi una grandine di pantofole

scalcagnate e di vecchie ciabatte, in memoria di Churchill,

chiamato più tardi Marlborough o Malbrouck, il quale il

giorno in cui sposò fu assalito dalla collera di una zia che

gli portò fortuna. Le ciabatte e le pantofole non sono

ancora comprese nelle nostre cerimonie nuziali; ma

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pazientate un poco, e col diffondersi del buon gusto ci si

arriverà.

Nel 1833, - sembra siano trascorsi da allora cento anni - ,

non si facevano le nozze a gran trotto.

In quell'epoca credevano tuttavia, cosa bizzarra, che lo

sposalizio fosse una festa intima e sociale, che un

banchetto patriarcale non guastasse una solennità

domestica, che la gioia, anche eccessiva purché onesta,

non facesse male alla felicità, e che infine fosse cosa

venerabile e buona che la fusione dei due destini da cui

deve scaturire una famiglia cominciasse nella casa, e che

l'accordo coniugale avesse a testimonio la camera nuziale.

E commettevano l'impudicizia di sposarsi in casa propria!

Le nozze si fecero dunque, seguendo quella moda ora

decaduta, in casa Gillenormand.

Per quanto naturale e ordinaria sia questa faccenda del

matrimonio, le pubblicazioni, gli atti contrattuali, il

municipio, la chiesa riservano sempre qualche

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complicazione; cosicché non si fu pronti prima del 16

febbraio.

Ora, notiamo questa circostanza per pura soddisfazione di

essere esatti, avvenne che il 16 febbraio fosse il martedì

grasso, donde esitazioni e scrupoli specialmente da parte

della zia Gillenormand.

- Martedì grasso! - esclamò il nonno. - Tanto meglio. C'è

un proverbio: "Le nozze di martedì grasso non avranno figli

ingrati".

Passiamo oltre! Vada per il 16! Vuoi forse ritardare tu,

Mario?

- No di certo! - rispose l'innamorato.

- Sposiamoci dunque! - concluse il vecchio.

Il matrimonio fu quindi celebrato il 16, malgrado la

pubblica festa. Pioveva quel giorno; ma c'è sempre in cielo,

a disposizione dell'allegria, un piccolo angolo azzurro, che

gli amanti sanno scorgere anche se il resto della creazione

sta sotto un ombrello.

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Il giorno prima, Valjean aveva consegnato a Mario, in

presenza del signor Gillenormand, i

cinquecentottantaquattromila franchi.

Poiché il matrimonio avveniva in base al regime della

comunione dei beni, il contratto era stato semplice.

La Toussaint, diventava ormai inutile a Valjean, fu presa da

Cosetta e promossa al grado di cameriera.

Quanto a Valjean, c'era in casa Gillenormand una bella

camera ammobiliata espressamente per lui, e Cosetta gli

disse in modo così irresistibile: "Papà, ve ne prego", che

finì col fargli quasi promettere di andarla a occupare.

Alcuni giorni prima di quello fissato per le nozze, era

accaduto un incidente a Valjean: s'era un po' schiacciato il

pollice della mano destra. Non era una cosa grave, ed egli

non aveva permesso ad alcuno di occuparsene, né di

medicargli la ferita né di vederla, neppure a Cosetta; fu

però costretto ad avvolgere la mano in un fazzoletto e a

portare il braccio al collo; e ciò gli impedì di firmare. Lo

supplì Gillenormand in qualità di protutore di Cosetta.

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Non condurremo il lettore né al municipio né alla chiesa.

Non si seguono gli innamorati fin là, e abbiamo l'abitudine

di volgere le spalle al dramma, appena lo sposo s'è messo

il mazzolino di fiori all'occhiello. Ci limiteremo a notare un

incidente, d'altronde inavvertito dal corteo, che capitò nel

tragitto dalla via Figlie del Calvario alla chiesa di San Paolo.

Stavano in quei giorni riattando il lastricato dell'estremità

nord di via San Luigi, la quale era sbarrata all'altezza della

via del Parco Reale; era quindi impossibile alle carrozze

dello sposalizio andare direttamente a San Paolo;

bisognava cambiare itinerario, e il più semplice era di

girare per il boulevard. Uno degli invitati fece osservare

che era martedì grasso e che ci sarebbe stato ingombro di

carrozze. - Perché? - domandò il signor Gillenormand.

- A causa delle maschere. - Magnifico! disse il nonno. -

Andiamo allora di là. Questi giovani si sposano, stanno per

entrare nella parte seria della vita; il vedere un po' di

mascherata li preparerà meglio.

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Presero per il boulevard. La prima berlina portava Cosetta,

la signorina Gillenormand e Valjean; Mario, ancora

separato dalla sposa, secondo l'uso, veniva nella seconda.

All'uscire dalla via Figlie del Calvario, il corteo nuziale

s'accodò alla lunga processione di vetture che formano una

eterna catena dalla Maddalena alla Bastiglia e dalla

Bastiglia alla Maddalena.

Sul boulevard c'era una folla di maschere; pioveva a

intervalli, ma Pagliaccio, Pantalone e Zanni erano ostinati.

Nel buonumore di quell'inverno del 1833, Parigi s'era

travestita da Venezia. Di quei martedì grassi oggi non se

ne vedono più. Tutto ciò che esiste attualmente è un

eterno carnevale, e perciò non c'è più carnevale.

I viali laterali rigurgitavano di passanti e le finestre erano

piene di curiosi. Le terrazze che coronano i peristili dei

teatri erano zeppe di spettatori. Oltre le maschere, essi

guardavano quella sfilata, caratteristica nel martedì grasso

come Longchamps, di veicoli d'ogni sorta, che procedevano

in ordine, l'uno dopo l'altro secondo i regolamenti di polizia

e come incassati nelle rotaie. Quanti si trovano in quei

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veicoli sono nello stesso tempo spettatori e spettacolo. Le

guardie di polizia contenevano sui lati del boulevard le due

interminabili file parallele e procedenti in senso contrario, e

sorvegliavano perché nulla intralciasse la duplice corrente

dei due ruscelli di vetture scorrenti l'uno a valle, l'altro a

monte, l'uno verso la Chaussée d'Antin, l'altro verso il

sobborgo Sant'Antonio. Le carrozze stemmate dei Pari di

Francia e degli ambasciatori tenevano il mezzo del corso

andando e venendo liberamente, e alcune mascherate

splendide e festose, in particolare quella del Bue Grasso,

godevano lo stesso privilegio. In quella gaiezza parigina,

l'Inghilterra faceva schioccare la sua frusta: la carrozza

postale di lord Seymour passava rumorosamente,

accompagnata da un nomignolo triviale.

Nella duplice fila, lungo la quale galoppavano le guardie

municipali simili a cani da pastore, parecchi cupé privati,

ingombri di prozie e di nonni, mettevano in mostra alle

portiere freschi gruppi di fanciulli mascherati, pierrot di

sette anni, pierrot di sei, vezzose creaturine che sentivano

di partecipare alla pubblica allegrezza, e, compenetrate

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dalla dignità del loro travestimento, avevano una gravità

da funzionari.

Ogni tanto sopravveniva un inciampo alla circolazione delle

carrozze e l'una e l'altra fila laterale s'arrestavano sino a

che non fosse sciolto l'ingorgo. La fermata di un solo

veicolo bastava a paralizzare tutta la catena. Poi si

rimettevano in cammino.

Le carrozze del corteo nuziale si trovavano nella fila che

procedeva verso la Bastiglia e costeggiavano il lato destro

del boulevard. All'altezza di via Pont-aux-Choux ci fu una

fermata, e quasi contemporaneamente si fermò pure l'altra

fila rivolta verso la Maddalena. In quel punto dell'altra fila

c'era una vettura di maschere.

Queste vetture, o per dir meglio queste carrettate di

maschere sono ben conosciute dai parigini, i quali se le

vedessero mancare a un martedì grasso o a una mezza

quaresima, si metterebbero in sospetto e direbbero: "C'è

sotto qualche cosa. Probabilmente si sta per cambiare il

Ministero". Un'accozzaglia di Cassandre, di Arlecchini e di

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Colombine trabalzava al di sopra dei passanti; tutti i

grotteschi possibili, dal trucco al selvaggio; degli ercoli che

sostenevano delle marchese; delle pescivendole che

farebbero turare le orecchie a Rabelais come le menadi

facevano abbassare gli occhi ad Aristofane; parrucche di

stoppa; maglie rosse; cappelli da bellimbusto; occhiali da

buffone; tricorni di Janot con una farfalla; grida lanciate ai

pedoni; pugni sulle anche; pose ardite; spalle nude; volti

mascherati; impudicizie sfrenate; un caos di sfrontatezze

guidato da un cocchiere coronato di fiori: ecco cos'era

quella festa.

La Grecia aveva bisogno del carro di Tespi, la Francia ha

bisogno della vettura di Vadé.

Tutto può essere parodiato, anche la parodia. ll saturnale,

questa caricatura della bellezza antica, va sempre più

crescendo, quando è il martedì grasso. E il baccanale, una

volta coronato di pampini, inondato di sole, che mostrava

dei seni di marmo in una seminudità divina, oggi,

rammollito sotto i cenci umidi del nord, finisce col

chiamarsi mascherata.

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La tradizione delle scarrozzate di maschere risale ai vecchi

tempi della monarchia. Nei conti di Luigi Undicesimo figura

la somma di "venti soldi tornesi", accordata al balivo del

palazzo "per tre carri di mascherate nei crocicchi". Ai tempi

nostri, questi mucchi di persone rumorose si fanno

trasportare da qualche vecchia carrozza di cui ingombrano

l'imperiale, oppure schiacciano col loro gruppo tumultuoso

qualche landò dell'amministrazione di cui rovesciano i

mantici. Salgono in venti in una vettura a sei posti, si

cacciano sulla cassetta del cocchiere, sugli sportelli, sul

mantice, sul timone; se ne vedono persino a cavalcione dei

fanali.

Sono in piedi, seduti, sdraiati, accovacciati, con le gambe

penzoloni; le donne stanno sulle ginocchia degli uomini; e

da lontano si vede la loro forsennata piramide sul

formicolio delle teste. Queste carrozze formano montagne

d'allegria in mezzo alla folla, e da esse derivano Collé,

Panard, Piron, ricchi di gergo.

Di là si sputa sul popolo il catechismo dei trivi. Quella

vettura, resa smisurata dal carico, ha un'aria di conquista;

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il frastuono la precede e la confusione la segue. Vociferano,

cantano, urlano, strepitano, si sbellicano dalle risa;

l'allegria rugge, il sarcasmo scintilla, la giovialità si dispiega

come una porpora; due rozze trascinano la farsa divenuta

apoteosi: è il carro trionfale del Riso.

Riso troppo cinico per essere sincero. E' infatti un riso

sospetto; ha una missione; è incaricato di dimostrare ai

parigini l'esistenza del carnevale.

Quelle mascherate triviali, in cui si avvertono non so quali

tenebre, rendono pensoso il filosofo. Là dentro c'è la mano

del governo; è evidente che c'è un'affinità misteriosa fra gli

uomini pubblici e le donne pubbliche.

Che le turpitudini sommate tra loro producano un totale

d'allegria; che sovrapponendo l'ignominia all'obbrobrio si

possa allettare il popolo; che lo spionaggio messo a

cariatide della prostituzione diverta la turba affrontandola;

che alla folla piaccia veder passare sulle quattro ruote

d'una vettura quel mostruoso mucchio vivente, quel

cencioso orpello, miscuglio di lordure e di luce, abbaiante e

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cantante; che si battano le mani a quella gloria composta

di tutte le vergogne; che non ci sia festa per la moltitudine

senza che la polizia conduca a spasso, in mezzo a essa,

quella specie di idre della gioia dalle venti teste,

certamente è una triste cosa. Ma che farci? Quelle

carrettate di fango adorne di nastri e di fiori sono insultate

e amnistiate dal riso pubblico. La risata di tutti è complice

della degradazione universale. Certe feste malsane

disgregano il popolo e lo trasformano in plebe; e alla plebe

come ai tiranni occorrono i buffoni. Il re ha Roquelaure, il

volgo ha Pagliaccio. Parigi è la grande città folle, quando

non è la grande città sublime. Il carnevale fa parte della

politica. Parigi, dobbiamo confessarlo, accetta volentieri il

comico anche dall'infanzia; e ai suoi padroni - quando ne

ha - chiede una cosa sola, che le venga imbellettato il

fango. Roma aveva gli stessi gusti, e amava Nerone perché

era un titanico istrione.

Come abbiamo detto, volle il caso che uno di quei deformi

grappoli di donne e di uomini mascherati, trascinato da un

ampio calesse, si fermasse sulla sinistra del boulevard,

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mentre il corteo nuziale si fermava sulla destra. Da un lato

all'altro del boulevard, le maschere della vettura scorsero

la carrozza della sposa.

- Toh! uno sposalizio, - disse una maschera.

- Uno sposalizio finto - riprese un'altra. - Il vero lo

facciamo noi.

Ma trovandosi troppo lontano per interpellare il corteo, e

temendo il richiamo delle guardie, le due maschere volsero

gli occhi altrove.

Un momento dopo tutta la carrozzata delle maschere ebbe

un gran da fare, perché la folla si mise a urlare, solita

carezza della folla alle maschere. I due che avevano

parlato dovettero unirsi ai compagni per far fronte a tutti, e

non furono soverchie le munizioni del repertorio dei Mercati

per rispondere alle enormi insolenze del popolo. Ne derivò

tra le maschere e la moltitudine uno spaventoso scambio di

metafore.

Frattanto altre due maschere della stessa vettura, uno

spagnolo dal naso smisurato con un'aria vecchiotta e due

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enormi baffi neri, e una pescivendola, magra,

giovanissima, con la mascherina, avevano notato anch'essi

il corteo nuziale, e mentre i compagni scambiavano insulti

con i passanti parlavano tra loro sottovoce.

Il loro dialogo a quattr'occhi era coperto dal tumulto, in cui

si perdeva. Gli spruzzi di pioggia avevano bagnato la

vettura tutta aperta; il vento di febbraio non è caldo, e

perciò la pescivendola scollacciata, pur rispondendo allo

spagnolo, tremava, rideva e tossiva.

Ecco il dialogo:

- Di' su, dunque.

- Cosa, babbino?

- Vedi quel vecchio?

- Quale?

- Là nella prima carrozza dello sposalizio, dalla parte

nostra.

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- Quello che porta il braccio appeso al collo con un

fazzoletto nero?

- Sì.

- Ebbene?

- Sono sicuro di conoscerlo. Mi dovrebbero tagliare la testa

se non conosco quel parigino!

- Oggi sì che Parigi è veramente Parigi!

- Puoi vedere la sposa chinandoti un poco?

- No.

- E lo sposo?

- Non c'è posto in questa carrozza.

- Eh via!

- A meno che non sia l'altro vecchio.

- Cerca, chinandoti bene, di vedere la sposa.

- Non posso.

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- A ogni modo, quel vecchio che ha qualcosa alla zampa

sono sicuro di conoscerlo.

- E cosa ti serve conoscerlo?

- Non si sa mai. Alle volte.

- Me ne infischio dei vecchi, io.

- Lo conosco.

- Conoscilo pure quanto ti piace.

- Come diavolo fa a trovarsi alle nozze?

- E noi, non ci siamo?

- Di dove viene, quel corteo?

- Che ne so io?

- Ascolta.

- Cosa c'è?

- Dovresti fare una cosa.

- Quale?

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- Scendere dalla nostra carrozza e pedinare quella

comitiva.

- Per fare che?

- Per sapere dove vanno e chi sono. Affrettati a scendere,

corri fatina mia, tu che sei giovane.

- Ma io non posso lasciare la vettura.

- Perché?

- Perché sono pagata per stare qui.

- Ah diavolo!

- Devo alla prefettura di polizia l'intera giornata di

pescivendola.

- E' vero.

- Se m'allontano dalla carrozza, il mio ispettore che mi

vede m'arresta; lo sai bene.

- Sì, lo so.

- Per oggi sono pagata dal governo.

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- Non importa, quel vecchio mi secca.

- I vecchi ti seccano; eppure non sei una ragazza, tu.

- Lui sta nella prima carrozza.

- Ebbene?

- In quella della sposa.

- E così?

- Dunque è il padre.

- Cosa me ne importa?

- Ti dico che è il padre.

- Non c'è quello solo, di padri.

- Ascolta.

- Cosa?

- Io non posso uscire che mascherato. Qui mi trovo

nascosto, non sanno chi sono. Ma domani non ci saranno

più maschere: è il mercoledì delle ceneri; rischio di essere

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preso. Bisogna che rientri nel mio buco. Tu invece sei

libera.

- Non troppo.

- Sempre più di me.

- Ebbene, e poi?

- Devi cercare di sapere dove va quel corteo nuziale.

- Dove va?

- Sì.

- Lo so.

- Dove va?

- Al Cadran-Bleu.

- Prima di tutto non è da quella parte.

- Ebbene! alla Rapée. O altrove. Un corteo nuziale è libero.

Le nozze sono libere.

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- Non si tratta di questo. Ti dico, è necessario che tu mi

faccia sapere cos'è quello sposalizio a cui prende parte quel

vecchio, e dove stanno di casa gli sposi.

- Stai fresco! Questa sì che è curiosa. Come se fosse una

cosa facile ritrovare, otto giorni dopo, uno sposalizio che è

passato per le vie di Parigi il martedì grasso. Una spilla in

un fienile!

Ma è possibile?

- Non importa, bisogna tentare. Capisci, Azelma?

Le due file ripresero, ai due lati del boulevard, il loro

cammino in senso inverso, e la vettura delle maschere

perse di vista la carrozza della sposa.

2. VALJEAN CONTINUA A PORTARE IL BRACCIO AL

COLLO

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Chi può realizzare il proprio sogno? Ci devono essere per

questo delle elezioni in cielo. Noi tutti, a nostra insaputa,

siamo candidati, e gli angeli votano. Cosetta e Mario sono

stati eletti.

Tanto in municipio quanto in chiesa, Cosetta fu splendida e

commovente. L'aveva abbigliata la Toussaint, con l'aiuto di

Nicoletta.

Portava, su una gonna di taffetà bianco, la sua veste di

merletto di Binche, un velo di pizzo inglese, una collana di

perle fine e una corona di fiori d'arancio; tutto era bianco,

e in mezzo a quel candore lei era radiosa. Era un candore

squisito che si diffondeva e si trasfigurava in luce; pareva

una vergine che si stesse mutando in dea.

I bei capelli di Mario erano lucidi e profumati; ma sotto le

folte ciocche s'intravedevano qua e là delle linee pallide,

che erano le cicatrici della barricata.

Il nonno, superbo, a testa alta, riunendo più che mai nella

sua toletta e nelle sue maniere tutte le eleganze dei tempi

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di Barras, conduceva la sposa, tenendo le veci di Valjean, il

quale, a causa del braccio al collo, non poteva darle una

mano.

Valjean, vestito di nero, seguiva sorridendo.

- Signor Fauchelevent - gli disse il nonno - ecco una bella

giornata. Io voto per la fine delle afflizioni e dei dispiaceri.

Bisogna che d'ora in poi non ci sia più tristezza, in nessun

luogo. Perbacco! io decreto la gioia. Il male non ha più

diritto di esistere. In verità, è vergognoso, per l'azzurro del

cielo, che ci siano degli uomini infelici. Il male però non

viene dall'uomo, che in fondo è buono; tutte le miserie

hanno per capoluogo e per governo centrale l'inferno,

altrimenti detto le Tuileries del diavolo. Bene, ecco che

adesso mi sfuggono delle frasi demagogiche. Dal canto mio

non ho più opinioni politiche; che tutti gli uomini siano

ricchi, ossia allegri, ecco di che mi contento.

Quando, compiute le cerimonie, pronunciati tutti i sì

possibili dinanzi al sindaco e dinanzi al prete, firmato il

registro del municipio e quello della sacrestia, scambiati gli

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anelli, dopo essere stati in ginocchio, l'uno accanto all'altra

sotto il velo nuziale di moerro bianco, in mezzo al fumo

dell'incenso, quando, tenendosi per mano, ammirati e

invidiati da tutti, Mario in nero e lei in bianco, preceduti

dallo svizzero con le spalline di colonnello che batteva

l'alabarda sul pavimento, fra due ali di curiosi meravigliati,

giunsero sotto la porta maggiore della chiesa aperta a due

battenti, e mentre era sul punto di risalire in carrozza e

tutto era finito, Cosetta non poteva crederci ancora.

Guardava Mario, la folla, il cielo, e pareva temesse di

svegliarsi. La sua aria stupita e inquieta le aggiungeva

qualche cosa di incantevole. Al ritorno, salirono insieme

nella prima carrozza, l'uno accanto all'altra, mentre

Gillenormand e Valjean sedettero dirimpetto. La zia,

indietreggiando di un posto, si trovava nella seconda.

- Figlioli miei - disse il nonno - eccovi diventati il signor

barone e la signora baronessa con trentamila franchi di

rendita.- E Cosetta chinandosi verso Mario, gli accarezzò

l'orecchio con questo angelico sussurro: - E' dunque vero;

io mi chiamo Mario, sono la signora Te.

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Queste due creature erano raggianti. Erano nel minuto

irrevocabile e irreperibile, nell'abbagliante punto di

intersezione di tutta la giovinezza e di tutta la gioia.

Realizzavano il verso di Giovanni Prouvaire: tra tutti e due

non formavano quarant'anni. Era il matrimonio sublimato;

quei due ragazzi erano due gigli. Non si guardavano, si

contemplavano; Cosetta scorgeva Mario in una gloria,

Mario scorgeva Cosetta sopra un altare. E su quell'altare e

in quella gloria, unendosi le due apoteosi, nel fondo, non si

sa come, dietro una nube per Cosetta, in un

fiammeggiamento per Mario, c'era la cosa reale e ideale, il

ritrovo del bacio e del sogno, il guanciale di nozze.

Tutti i tormenti patiti erano restituiti in ebbrezza; pareva

che i dolori, le insonnie, le lacrime, le angosce, gli

spaventi, le disperazioni, divenuti carezze e raggi,

rendessero ancora più incantevole l'ora incantevole che si

avvicinava; e che le tristezze fossero divenute tante ancelle

che attendessero alla toletta della gioia. Che ottima cosa

aver sofferto! La passata sventura formava un'aureola alla

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presente felicità; la lunga agonia del loro amore metteva

capo a un'ascensione.

C'era in quelle due anime il medesimo incanto, con una

sfumatura di voluttà in Mario, di pudore in Cosetta. Si

ripetevano sottovoce: "Andremo a rivedere il nostro

giardinetto di via Plumet"; le pieghe dell'abito della sposa

posavano sul giovane.

Una simile giornata è un'ineffabile miscela di sogno e di

certezza. Si possiede e si suppone: si ha ancora del tempo

davanti per indovinare. E' un'indicibile emozione, quel

giorno, essere a mezzogiorno e pensare a mezzanotte. Le

delizie di quei due cuori traboccavano sulla folla e

ispiravano l'allegrezza nei passanti.

La gente si fermava sulla via Sant'Antonio, dinanzi alla

chiesa di San Paolo, per vedere attraverso i vetri della

carrozza tremolare i fiori d'arancio sulla testa di Cosetta.

Poi tornarono in via Figlie del Calvario, a casa loro. Mario,

al fianco di Cosetta, salì, trionfante e radioso, quella scala

su cui l'avevano trasportato morente. I poveri, raggruppati

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davanti alla porta, dividendosi il contenuto delle loro borse,

li benedicevano.

Fiori da per tutto; la casa non era meno profumata della

chiesa; dopo l'incenso le rose. Sembrava loro d'udire delle

voci che cantassero sull'infinito; avevano Dio nel cuore; il

destino appariva loro come un cielo stellato e vedevano

sopra di sé una luce di sole nascente. A un tratto l'orologio

suonò. Mario guardò il bel braccio nudo di Cosetta e le

rosee bellezze che trasparivano vagamente attraverso i

pizzi del corpetto; e Cosetta, vedendo lo sguardo di Mario,

arrossì sino al bianco degli occhi.

Erano stati invitati molti vecchi amici della famiglia

Gillenormand, i quali circondavano premurosamente la

sposa, e facevano a gara nel chiamarla signora baronessa.

L'ufficiale Teodulo Gillenormand, ora capitano, era venuto

da Chartres, dove si trovava di guarnigione, per assistere

al matrimonio del cugino Pontmercy. Cosetta non lo

riconobbe.

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Egli dal canto suo, avvezzo com'era a piacere alle donne,

non si ricordò di Cosetta più che di qualsiasi altra.

- Come ebbi ragione di non prestar fede a quella storia del

lanciere! - disse tra sé il vecchio Gillenormand.

Cosetta non era mai stata più tenera con Valjean. Essa era

all'unisono col nonno; mentre questi esprimeva la sua gioia

in aforismi e sentenze, lei esalava l'amore e la bontà come

un profumo. La felicità vuole tutti felici.

Per parlare con Valjean, ritrovava le inflessioni di voce della

sua fanciullezza; lo carezzava col sorriso.

Nella sala da pranzo avevano preparato il banchetto.

Un'illuminazione a giorno è il condimento necessario di una

gran gioia. La nebbia e l'oscurità non sono accettate dalla

gente felice, la quale non acconsente a esser nera; la notte

sì, le tenebre no. Se non c'è il sole, è necessario crearne

uno.

La sala da pranzo era una fornace di cose giulive. Nel

centro, al di sopra della tavola bianca e splendida, un

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lampadario di Venezia a lamine piatte, con ogni sorta

d'uccelli d'ogni colore, bianchi, violacei, rossi, verdi,

appollaiati in mezzo alle candele; intorno al lampadario le

candele e lungo le pareti dei doppieri a sfera con tre o

cinque bracci; specchi, cristalli, vetri, vasi, porcellane,

maioliche, terraglie, ori, argenterie, ogni cosa brillava e si

rallegrava. Gli intervalli fra i candelabri erano riempiti da

mazzi di fiori; così che dove non c'era una luce c'era un

fiore.

In anticamera, tre violini e un flauto suonavano in sordina

dei quartetti di Haydn.

Valjean s'era seduto su una sedia nel salotto, accanto alla

porta, il cui battente si ripiegava su di lui in modo quasi da

nasconderlo. Pochi minuti prima di mettersi a tavola,

Cosetta andò, come per capriccio, a fargli una gran

riverenza spiegando a due mani la sua toletta di sposa, e

con uno sguardo affettuosamente malizioso gli chiese:

- Papà, siete contento?

- Sì, - disse Valjean - sono contento.

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- Ebbene, ridete allora.

E Valjean si mise a ridere.

Pochi minuti dopo, Basco annunciò che il pranzo era

servito. I convitati, preceduti da Gillenormand che dava il

braccio a Cosetta, entrarono nella sala da pranzo e si

sparsero intorno alla mensa nell'ordine stabilito.

Due seggioloni a braccioli, collocati a destra e a sinistra

della sposa, erano destinati, l'uno al signor Gillenormand e

l'altro a Valjean. Il primo fu occupato, l'altro rimase vuoto.

Cercarono con l'occhio il "signor Fauchelevent". Non c'era.

Il signor Gillenormand interpellò Basco:

- Sai dov'è andato il Fauchelevent?

- Signore - rispose il servo - appunto, il signor

Fauchelevent m'ha detto d'avvertire il signore che soffriva

un po' per la sua mano malata, e non avrebbe potuto

pranzare col signor barone e la signora baronessa. Egli

prega di volerlo scusare e dice che ritornerà domattina. E'

uscito un momento fa.

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Quella poltrona vuota raffreddò un momento la gioia del

pranzo nuziale. Ma se il signor Fauchelevent era assente, il

signor Gillenormand era presente e splendeva per due. Egli

affermò che il signor Fauchelevent faceva bene a coricarsi

per tempo, se soffriva, ma si trattava solo d'una "bua".

Quella dichiarazione bastò. D'altronde cos'era un punto

oscuro in quell'inondazione di gioia? Cosetta e Mario erano

in uno di quei momenti egoistici e benedetti, in cui non si

ha altra facoltà che quella di percepire la felicità. E poi, il

signor Gillenormand ebbe un'idea: - Perbacco! giacché

quella poltrona è vuota, occupala tu, Mario. Tua zia te lo

permetterà, benché abbia il diritto di tenerti vicino.

Quel posto è per te, è una cosa legale e gentile. Fortunato

vicino a Fortunata. - Applauso di tutta la tavola. Mario

prese accanto a Cosetta il posto di Valjean; e le cose così si

accomodarono in modo che Cosetta, dapprima triste per

l'assenza di Valjean, finì con l'esserne contenta. Dal

momento che era Mario il sostituto, Cosetta non avrebbe

rimpianto neppure Dio. Posò il suo piedino calzato di raso

bianco sul piede di Mario.

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Occupato il seggiolone, il signor Fauchelevent venne

dimenticato; non si avvertì più nessuna mancanza. Cinque

minuti dopo, tutta la tavola rideva da un capo all'altro con

la vivacità dell'oblio.

Al dessert, il signor Gillenormand in piedi, con un bicchiere

di sciampagna in mano, pieno solo a metà perché il

tremolio dei suoi novantadue anni non lo facesse

traboccare, brindò alla salute degli sposi.

- Non sfuggirete a due sermoni - disse. - Avete avuto

stamane quello del parroco, avrete stasera quello del

nonno. Ascoltatemi; vi darò un consiglio: adoratevi. Io non

faccio tante chiacchiere, vado dritto allo scopo: siate felici.

Non ci sono nella creazione altri savi che le tortorelle. I

filosofi dicono: moderate le vostre gioie; io dico: rallentate

le briglie alle vostre gioie; siate infiammati come tanti

diavoli, siate furibondi. I filosofi vaneggiano; vorrei far loro

rientrare la filosofia nel gozzo.

Forse che possono esserci troppi profumi, troppi boccioli di

rose appena schiusi, troppi usignoli che cantano, troppe

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foglie verdi, troppa aurora nella vita? è possibile amarsi

troppo? è possibile piacere troppo l'uno all'altro? Bada

Estella, sei troppo vezzosa.

Bada Nemorino, sei troppo bello! Oh che bella

scempiaggine! Forse non è lecito affascinarsi, vezzeggiarsi,

ammaliarsi troppo l'un l'altro? Forse che non si può essere

troppo vivente, troppo felice? Moderate le vostre gioie. Stai

fresco! Abbasso i filosofi.

La saggezza sta nell'allegria. Giubilate, giubiliamo. Siamo

felici perché siamo buoni, oppure siamo buoni perché

siamo felici? Il Sancy si chiama così perché appartenne ad

Harlay de Sancy, o perché pesa centosei carati? Io non lo

so; la vita abbonda di simili problemi; l'importante è di

avere il Sancy, e la felicità.

Siamo felici senza cavillare; obbediamo ciecamente al sole.

Cos'è il sole? E' l'amore; e chi dice amore, dice donna. Ah!

Ah! la donna, ecco una vera onnipotenza! Chiedetelo a

questo demagogo di Mario se non è schiavo di questa

piccola tiranna di Cosetta. E col suo libero consenso, il vile!

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La donna! Non c'è Robespierre che tenga, la donna regna.

Oramai non sono più realista se non di questa regalità.

Cos'è Adamo? E' il regno di Eva. Non c'è '89 per Eva. C'era

lo scettro reale sormontato da un giglio, c'era lo scettro

imperiale sormontato da un globo, quello di Carlomagno

che era di ferro, quello di Luigi il Grande che era d'oro; e la

rivoluzione li ha torti fra il pollice e l'indice, come festuche

di paglia da due centesimi; è finita, sono rotti, sono a

terra, non ci sono più scettri. Ma fatemi un po' una

rivoluzione contro quella piccola pezzuola ricamata,

profumata di patchouli! Vorrei vedervi all'opera; provatevi.

Perché è solida? perché è un cencio.

Ah, voi altri siete il secolo diciannovesimo? Ebbene, e

perciò?

Noi eravamo il decimottavo, noi! Ed eravamo gonzi al pari

di voi altri. Non immaginatevi d'aver mutato gran che

dell'universo solo perché la dissenteria ora la chiamate

"cholera-morbus", e perché la furlana la chiamate con un

nome straniero. In fondo, sarà pur necessario amare le

donne. Vi sfido a uscire di qui. Queste diavolesse sono i

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nostri angeli. Sì, l'amore, la donna, il bacio formano un

circolo, da cui vi sfido a uscire, e nel quale dal canto mio

vorrei poter rientrare. Chi di voi ha visto sorgere

nell'infinito, mentre tutto era calmo intorno a lei,

guardando i flutti come una donna, la stella di Venere, la

grande maliarda dell'abisso, la Celimene dell'oceano?

L'oceano, ecco un rude Alceste; eppure, ha un bel

brontolare. Venere appare ed egli deve pur sorridere; il

bruto si sottomette. E siamo tutti così.

Collera, procella, fulmini, schiuma fino al soffitto; ma se

entra in scena una donna, se spunta una stella, in

ginocchio! Sei mesi or sono, Mario si batteva, oggi si

sposa. Così va bene. Sì, Mario, sì, Cosetta, avete ragione;

vivete arditamente l'uno per l'altro, fatevi delle carezze,

fateci crepare di rabbia per non poter fare altrettanto,

idolatratevi. Raccogliete con i vostri due becchi tutte le

festuche di felicità sparse sulla terra, e formatevene un

nido per la vita. Perbacco! amare ed essere amato, che bel

miracolo quando si è giovani! Non state a credere di averlo

inventato voi. Io pure fantasticai, sognai, sospirai; io pure

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ebbi il chiaro di luna nell'anima. L'amore e una fanciulla

che conta seimila anni, e ha diritto a una lunga barba

bianca. Matusalemme è un monello di fronte a Cupido. Da

sessanta secoli l'uomo e la donna si tolgono d'impaccio solo

con l'amarsi. Il diavolo, che è astuto, si mise a odiare

l'uomo, e l'uomo che è ancor più astuto, si mise ad amare

la donna, e così ha fatto a se stesso più bene del male che

gli ha fatto il diavolo. Tale astuzia risale al paradiso

terrestre. Amici miei, l'invenzione è vecchia, ma è ancora

nuovissima. Profittatene. Siate Dafni e Cloe, aspettando

l'ora d'essere Filemone e Bauci. Quando vi trovate insieme,

fate in modo che non vi manchi nulla. Cosetta sia il sole di

Mario, Mario sia l'universo di Cosetta. Il sorriso di vostro

marito sia per voi, Cosetta, il bel tempo; e le lacrime di tua

moglie siano per te, Mario, la pioggia; e non piova mai

nella vostra famiglia.

Vi è toccato un buon numero alla lotteria, l'amore nel

sacramento; avete vinto il primo premio; custoditelo bene;

mettetelo sotto chiave, non lo sciupate, adoratevi, e

infischiatevi del resto.

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Credete a quanto vi dico; è tutto buon senso, e il buon

senso non può mentire. Siate l'uno per l'altro come una

religione. Ciascuno ha il suo modo d'adorare Iddio; ma

poffare! il migliore è quello d'amare la propria moglie. Io

t'amo! ecco il mio catechismo; tutti quelli che amano sono

ortodossi. La bestemmia d'Enrico Quarto mette la santità

tra la gozzoviglia e l'ubriachezza. La religione di questa

bestemmia non è la mia. S'è dimenticata la donna; e

questo mi sorprende da parte di Enrico Quarto. Amici, viva

la donna! Io sono vecchio, a quanto dicono, ma è strano

come mi senta di lena d'essere giovane. Vorrei andare ad

ascoltare le zampogne nei boschi. Lo spettacolo di questi

figlioli, che riescono a essere belli e contenti, m'inebria. Mi

sposerei senz'altro, se qualcuno mi volesse. E' impossibile

supporre che Dio ci abbia creati per altro che per questo:

idolatrare, tubare, azzimarsi, fare il colombo, fare il

galletto, sbaciucchiarsi l'innamorata dalla mattina alla sera,

specchiarsi nella propria sposina, essere fiero, essere

trionfante, pavoneggiarsi; ecco lo scopo della vita.

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Ecco, e non ve ne dispiaccia, ecco come pensavamo noi

altri quando eravamo giovani. Ah! per mille bombe! quante

belle donne c'erano allora, e leggiadre, sensibili! Anch'io

feci le mie conquiste!

Dunque amatevi. Se non dovessimo amarci, davvero non

comprenderei a cosa gioverebbe il possedere la primavera,

e dal canto mio pregherei il buon Dio di rinchiudere tutte le

belle cose che ci porge, di ritogliercele e di rimettere nella

sua scatola i fiori, gli uccelli e le belle fanciulle. Figli miei,

ricevete la benedizione di un vecchio galantuomo.

La serata trascorse animata, allegra, affettuosa. Il

buonumore predominante del nonno diede l'intonazione

alla festa, e tutti si regolarono su quella cordialità quasi

centenaria. Ballarono un poco, risero molto; fu insomma

un bello sposalizio alla buona, a cui avrebbero potuto

invitare quel buon nonno che è il Passato:

questi, del resto, era già presente nella persona di papà

Gillenormand.

Ci fu tumulto, poi silenzio.

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Gli sposi disparvero.

Poco dopo mezzanotte la casa Gillenormand divenne un

tempio.

Qui ci fermiamo. Sul limitare delle notti nuziali sta ritto un

angelo sorridente, col dito sulla bocca.

L'anima entra in contemplazione dinanzi a quel santuario in

cui si celebra l'amore.

Al di sopra di quelle case l'atmosfera dev'essere irradiata di

luce; la gioia in esse contenuta deve sfuggire in raggi

attraverso le pietre dei muri e rigare vagamente le

tenebre. E' impossibile che quella festa sacra e fatale non

irradi nell'infinito un celeste splendore. L'amore è il sublime

crogiolo in cui s'effettua la fusione dell'uomo con la donna,

e da cui esce l'essere uno, l'essere triplice, l'essere finale,

la trinità umana. Quella nascita di due anime in una

dev'essere un'emozione per l'ombra.

L'amante è un sacerdote; la vergine estasiata si sgomenta.

Qualche cosa di quella gioia sale a Dio. Là dove c'è vero

matrimonio, vale a dire dove c'è amore, entra l'ideale. Un

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letto nuziale traccia fra le tenebre un angolo d'aurora. Se

alla pupilla di carne fosse dato di scorgere le temute e

incantevoli visioni della vita superiore, probabilmente

vedremmo le parvenze della notte, gli ignoti aligeri, gli

azzurri passanti dell'invisibile, chinarsi, folla di visi oscuri,

intorno alla casa luminosa, soddisfatti, benedicenti,

additandosi gli uni agli altri la vergine sposa, dolcemente

sbigottiti, col riflesso della felicità umana sul loro volto

divino. Se in quell'ora suprema gli sposi, ebbri di gioia,

stessero a origliare, udrebbero nella loro camera un

confuso fruscio d'ali.

La felicità perfetta implica la solidarietà degli angeli. Quel

piccolo angolo buio ha per soffitto tutto il cielo. Quando

due bocche, consacrate dall'amore, si avvicinano, è

impossibile che al di sopra di quell'ineffabile bacio non

corra un brivido nell'immenso mistero delle stelle.

Tali felicità sono le vere; non c'è gioia al di fuori di esse.

L'amore, ecco l'unica estasi: tutto il resto piange.

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Amare o avere amato, questo basta. Dopo, non chiedete

più nulla; non c'è altra perla da trovare nelle pieghe

tenebrose della vita.

L'amore è un coronamento.

3. L'INSEPARABILE

Che ne era di Valjean?

Subito dopo aver riso per il gentile comando di Cosetta, e

mentre nessuno badava a lui, egli s'era alzato, non visto, e

aveva raggiunto l'anticamera. Era la stessa sala in cui, otto

mesi prima, era entrato sudicio di fango, di sangue e di

polvere, riportando il nipote all'avo. Il vecchio tavolato

lungo le pareti era inghirlandato di foglie e di fiori; i

musicanti erano seduti sul canapé dove avevano deposto

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Mario. Basco in abito nero, in calzoni al ginocchio, calze

bianche, guanti bianchi, disponeva delle corone di rose

intorno a ciascuno dei piatti destinati alla mensa. Valjean,

additandogli il braccio appeso al collo, l'aveva incaricato di

spiegare la sua assenza ed era uscito.

Le finestre della sala da pranzo davano sulla via. Valjean

stette alcuni minuti ritto, immobile nell'oscurità, sotto

quelle finestre risplendenti. Ascoltava. Il rumore del

banchetto giungeva fino a lui; udiva la parola alta e

magistrale del nonno; i violini, il tintinnio dei piatti e dei

bicchieri, gli scoppi di risa, e in mezzo a quel gaio rumore

distingueva la dolce voce gioconda di Cosetta.

Lasciò la via Figlie del Calvario e s'incamminò verso la via

Homme-Armé.

Per tornare a casa, andò per via San Luigi, via Culture-

Sainte- Catherine e Blancs-Manteaux. La strada era un po'

più lunga, ma era quella che da tre mesi, per evitare gli

ingombri e il fango della via Vecchia del Tempio, usava

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seguire ogni giorno con Cosetta, per andare dalla via

Homme-Armé a quella delle Figlie del Calvario.

Il cammino battuto da Cosetta escludeva per lui ogni altro

itinerario.

Entrò in casa, accese la candela, e salì le scale.

L'appartamento era vuoto, non essendovi più nemmeno la

Toussaint. Il suo passo faceva nelle stanze più rumore del

solito. Tutti gli armadi erano aperti. Entrò nella camera di

Cosetta; non c'erano più lenzuola al letto, e il guanciale

senza federe era posato sulle coltri piegate, a pie' dei

materassi con le fodere scoperte, sui quali non doveva più

coricarsi nessuno.

Tutti i piccoli oggetti femminili a cui Cosetta era affezionata

li avevano portati via: non rimanevano che i mobili grossi e

le quattro pareti. Anche il letto della Toussaint era

sguarnito; uno solo era rifatto e pareva attendesse

qualcuno: il suo.

Guardò le pareti, chiuse alcuni sportelli di armadi, e andò

avanti e indietro da una stanza all'altra.

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Poi si ritrovò nella sua camera, e posò la candela su una

tavola.

Aveva liberato il braccio dal fazzoletto, e si serviva della

mano destra come se non ne soffrisse.

S'accostò al letto, e i suoi occhi si fermarono, fu caso o

intenzione? sull'inseparabile di cui Cosetta era stata gelosa,

sulla piccola valigia che non lo abbandonava mai, e che, al

suo arrivo nella via Homme-Armé il 4 giugno, aveva

collocato sopra un tavolino accanto al capezzale. Mosse

verso il tavolino con una certa premura, si tolse di tasca

una chiave e aprì la valigia.

Ne trasse fuori lentamente delle vesti con le quali, dieci

anni prima, Cosetta aveva lasciato Montfermeil: la

vesticciola nera, poi il fazzoletto nero per il collo, poi le

robuste scarpe da ragazzo che Cosetta avrebbe quasi

potuto calzare ancora, tanto aveva il piede piccino; poi la

fascetta di fustagno assai spessa, poi la sottanella a

maglia, poi il grembialino con le saccocce, poi le calze di

lana, che conservavano tuttavia l'impronta dei graziosi

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contorni di due piccole gambe, e che non erano più lunghe

della mano di Valjean. Tutto in nero. Era stato lui che

aveva portato quei vestiti per Cosetta a Montfermeil. A

mano a mano che li toglieva dalla valigia, li poneva sul

letto. E pensava:

ricordava. Era d'inverno, un dicembre freddissimo; lei

tremava mezza nuda nei suoi stracci, coi poveri piedini

rossi negli zoccoli; ed egli le aveva fatto lasciare quegli

stracci per farle indossare quel vestito di lutto. La madre

doveva essere stata contenta nella sua tomba, vedendola

portare il suo lutto e soprattutto vedendo che era vestita e

stava calda. Pensava a quella foresta di Montfermeil che

avevano attraversato insieme, Cosetta e lui; pensava al

tempo che faceva, agli alberi senza foglie, al bosco senza

uccelli, al cielo senza sole; ma non importa, era un tempo

delizioso. Allineò sul letto le piccole spoglie, la pezzuola

accanto alla gonnella, le calze vicino alle scarpe, la fascetta

accanto alla veste, e guardò tutto l'insieme.

Lei era alta appena così, portava fra le braccia la sua

grande bambola, aveva il luigi d'oro nella taschina del

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grembiule, e rideva, e camminavano tutti e due tenendosi

per mano, ed essa aveva lui solo al mondo.

Allora la sua veneranda testa canuta cadde sul letto, il suo

vecchio cuore stoico si spezzò, il suo volto si sprofondò per

così dire fra le vesti di Cosetta, e se qualcuno fosse passato

per la scala, avrebbe udito dei singhiozzi spaventosi.

4. "IMMORTALE JECUR"

L'antica formidabile lotta, di cui abbiamo già visto

parecchie fasi, ricominciò.

Giacobbe lottò una notte con l'angelo. Ohimé! quante volte

invece abbiamo visto Valjean, lottare a corpo a corpo nelle

tenebre con la sua coscienza, lottare disperatamente!

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Lotta inaudita! In certi momenti, e il piede che scivola; in

certi altri, è il terreno che manca. Quante volte, quella

coscienza, forsennata per il bene, non lo aveva stretto e

abbattuto! Quante volte la verità, inesorabile, gli aveva

messo il ginocchio sul petto! Quante volte, atterrato dalla

luce, le aveva chiesto grazie! Quante volte quella luce

implacabile, accesa in lui e su lui dal Vescovo, lo aveva

abbagliato violentemente, mentre desiderava essere cieco!

Quante volte s'era rialzato nel combattimento, afferrandosi

alla roccia, abbassandosi al sofisma, trascinandosi nella

polvere, ora rovesciando sotto di sé la coscienza, ora

rovesciato da lei! Quante volte, dopo un equivoco, dopo

un'argomentazione ingannatrice e speciosa dell'egoismo,

aveva udito la coscienza sdegnata gridargli all'orecchio:

miserabile!

Quante volte il suo pensiero refrattario aveva rantolato

convulsamente sotto l'evidenza del dovere! Resistenza a

Dio.

Funebri sudori. Quante scorticature nella sua misera

esistenza!

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Quante volte s'era rialzato, sanguinante, ammaccato,

spezzato, illuminato, con la disperazione nel cuore e la

serenità nell'anima, vinto, ma sentendosi vincitore! E dopo

averlo slogato, attanagliato e rotto, la sua coscienza, ritta

sopra di lui, terribile, luminosa, tranquilla, gli diceva: - Ora,

va' in pace!

Ma, uscendo da una lotta così cupa, ohimé, che lugubre

pace!

Tuttavia, Valjean sentì che ingaggiava quella notte la sua

ultima battaglia. Gli si presentava un quesito straziante.

Le predestinazioni non sono tutte diritte, non si svolgono in

un viale rettilineo dinanzi al predestinato, ma hanno degli

angiporti, dei vicoli ciechi, delle svolte oscure, dei crocicchi

allarmanti che offrono parecchie strade. In quel momento

Valjean faceva sosta nel più pericoloso di quei crocicchi.

Era giunto al supremo incrocio del bene e del male. Questa

tenebrosa intersezione gli stava sotto gli occhi. Anche

questa volta, come gli era già accaduto in altre dolorose

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peripezie, gli si aprivano due vie: una attraente, l'altra

spaventosa. Quale scegliere?

Quella che lo atterriva gli era sconsigliata dal misterioso

dito indicatore che scorgiamo ogni qual volta fissiamo

nostri occhi nell'ombra.

Ancora una volta Valjean doveva scegliere fra il porto

tremendo e l'insidia sorridente.

Il quesito che gli si presentava era questo:

Come si sarebbe comportato in presenza della felicità di

Cosetta e di Mario? Quella felicità voluta da lui, era stata

formata da lui; se l'era immersa egli stesso nelle viscere, e

ormai nell'esaminarla poteva provare la soddisfazione di un

armaiolo che riconosca la sua marca di fabbrica su un

coltello, strappandoselo fumante dal petto.

Cosetta aveva Mario, Mario possedeva Cosetta; essi

avevano tutto, fin la ricchezza: ed era opera sua.

Ma ora che quella felicità esisteva, che era là, che cosa ne

avrebbe fatto lui, Valjean? Doveva imporsi a essa, trattarla

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come cosa di sua pertinenza? Senza dubbio, Cosetta

apparteneva a un altro; ma doveva egli riservarsi tutto

quello che poteva, rimanere quella specie di padre, veduto

appena ma rispettato, che era stato? Doveva introdursi

tranquillamente nella casa degli sposi, aggiungere, senza

fiatare, il suo passato a quell'avvenire? Doveva presentarsi

là come chi ne abbia diritto, e andarsi a sedere, velato, a

quel luminoso focolare? Doveva stringere, sorridendo, nelle

sue tragiche mani, quelle mani innocenti? Posare sui

pacifici alari del salotto Gillenormand i suoi piedi, che si

trascinavano dietro l'ombra infamante della legge? Far

partecipare ai suoi rischi Cosetta e Mario? Addensare

l'oscurità sulla propria fronte, e la nube sulle loro?

Associare la sua catastrofe alle loro due felicità? Continuare

a tacere? In una parola, doveva egli essere, accanto a

quelle due creature felici, il sinistro muto del destino?

Bisogna essere abituati alla fatalità e ai suoi scontri per

osare alzare gli occhi quando certe questioni ci appaiono

nella loro orribile nudità. Dietro a quel severo punto

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interrogativo c'è il bene o il male. Che fare? domanda la

sfinge.

Quell'abitudine alla lotta, Valjean la possedeva.

Egli guardò fisso la sfinge.

Esaminò sotto tutti gli aspetti lo spietato problema.

Cosetta, quell'incantevole esistenza, era la zattera di quel

naufragio. Che fare? aggrapparvisi o abbandonarla?

Se vi si attaccava, usciva dal disastro, risaliva verso il sole,

si lasciava sgocciolare l'acqua amara dagli abiti e dai

capelli, era salvo, viveva.

La lasciava andare?

Allora, l'abisso.

Così si consigliava dolorosamente col proprio pensiero; o,

per meglio dire, combatteva, e si precipitava furiosamente

entro di sé, ora contro la sua volontà, ora contro la sua

convinzione.

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Fu una fortuna per Valjean aver potuto piangere, cosa che

forse lo illuminò. Tuttavia il principio fu aspro: una

tempesta più violenta di quella che altra volta l'aveva

spinto verso Arras si scatenò in lui. Il passato tornava di

fronte al presente; ed egli paragonava, e singhiozzava.

Una volta aperta la cateratta delle lacrime, il disperato si

contorse.

Si sentiva fermato.

Ahimé! nel pugilato a oltranza fra l'egoismo e il dovere,

quando indietreggiamo passo passo davanti al nostro

immutabile ideale, sconvolti, irritati, esasperati di dover

cedere, disputando il terreno, sperando una possibile fuga,

cercando un'uscita, quale brusca e sinistra resistenza è il

muro che sta dietro di noi!

Sentire l'ombra sacra che fa ostacolo!

L'invisibile inesorabile, che ossessione!

Con la coscienza dunque non si finisce mai. Deciditi Bruto,

deciditi Catone; essa è senza fine, perché è Dio. Si getta in

quel pozzo il lavoro di tutta la vita, vi si getta la fortuna, la

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ricchezza, il successo conseguito, vi si getta la libertà e la

patria, vi si getta il benessere, il riposo, la gioia. Ancora!

ancora! ancora! Vuotate il vaso, rovesciate l'urna! Bisogna

finire col gettarvi il proprio cuore.

Fra le nebbie dei vecchi inferni c'è in qualche angolo un

pozzo fatto così.

Non siamo perdonabili se alla fine non ci prestiamo? Forse

che l'inesauribile può avere un diritto? Forse che le catene

senza fine non sono superiori alla forza umana? Chi

potrebbe biasimare Sisifo e Valjean se dicono: basta?

L'obbedienza della materia è limitata dall'attrito. Non ci

sarà un limite per la obbedienza dell'anima? Se è

impossibile il moto perpetuo, si può esigere la perpetua

abnegazione?

Il primo passo è nulla: difficile è l'ultimo. Cos'era il

processo Champmathieu in confronto del matrimonio di

Cosetta e delle sue conseguenze? Cos'era il ritorno nella

galera di fronte al ritorno nel nulla?

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O primo gradino della discesa, come sei scuro! O secondo

gradino, come sei nero! Come non torcere il viso questa

volta?

Il martirio è una sublimazione, ma una sublimazione

corrosiva; è una tortura che santifica. Si può consentirvi

alla prima ora; si va a sedersi sul trono di ferro rovente, si

posa sulla fronte la corona di ferro rovente, si accetta il

globo di ferro rovente, s'impugna lo scettro di ferro

rovente; ma rimane ancora da indossare il manto di

fiamme; e non c'è un minuto in cui la miserabile carne si

rivolta, in cui si rinuncia al supplizio?

Finalmente Valjean entrò nella calma della prostrazione.

Meditò, ponderò, esaminò le alternative della misteriosa

bilancia di luce e di ombra.

Imporre la sua galera a quei due splendidi ragazzi, o

inabissarsi da sé irrevocabilmente. Da una parte il sacrificio

di Cosetta, dall'altra il suo.

A quale soluzione si fermò? Quale determinazione prese?

Quale fu, nel suo interno, la sua risposta definitiva

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all'incorruttibile interrogatorio della fatalità? Quale porta

decise di aprire? Qual lato della sua esistenza stabilì di

chiudere e murare? Fra tutti gli insondabili dirupi che lo

circondavano, quale fu la sua scelta? Quale estremo

accettò? A quale di quei precipizi fece un cenno col capo?

La sua vertiginosa fantasticheria durò tutta la notte.

Rimase là fino a giorno, nella solitudine, piegato in due su

quel letto, abbattuto e forse, ahimé! schiacciato sotto

l'enormità del destino, coi pugni contratti, con le braccia

distese ad angolo retto, come un crocifisso schiodato e

buttato con la faccia contro la terra.

Restò così per dodici ore, le dodici ore d'una lunga notte

d'inverno, intirizzito, senza rialzare la testa e senza

pronunciare una parola. Era immobile come un cadavere,

mentre il suo pensiero si prostrava per terra o spiccava il

volo verso il cielo, ora simile all'idra, ora simile all'aquila. A

vederlo così, immobile, pareva morto; ma ad un tratto

trasaliva convulsamente, e la sua bocca, incollata alle vesti

di Cosetta, le baciava; allora si vedeva che era vivo.

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Si vedeva? Ma da chi, se Valjean era solo e non c'era là

nessuno?

Da Colui che è nelle tenebre.

Libro 7

L'ULTIMO SORSO DEL CALICE

1. IL SETTIMO CERCHIO E L'OTTAVO CIELO

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L'indomani del giorno delle nozze è solitario. Si rispetta il

raccoglimento dei felici. E anche un po' il loro sonno

attardato.

Il frastuono delle visite e delle felicitazioni comincia solo

più tardi. La mattina del 17 febbraio - un po' dopo

mezzogiorno - Basco, con lo strofinaccio e il piumino sotto

il braccio, occupato a "fare l'anticamera", udì bussare

leggermente alla porta. Non avevano suonato, era una

discrezione in un giorno simile. Basco aprì, e vedendo il

signor Fauchelevent, l'introdusse nel salotto ancora

ingombro e in disordine, che pareva il campo di battaglia

delle allegrie del giorno prima.

- Si capisce, signore - osservò Basco - ci siamo svegliati

tardi.

- Il vostro padrone è alzato? - disse Valjean.

- Come va il braccio del signore? - rispose il servo.

- Meglio. Il vostro padrone è alzato?

- Quale? il vecchio o il nuovo?

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- Il signor Pontmercy.

- Il signor barone? - fece Basco raddrizzandosi.

Si è barone soprattutto per i propri domestici. Ne riverbera

qualche cosa anche su loro; ricevono quello che un filosofo

potrebbe chiamare le zacchere del titolo, ed è cosa che li

lusinga. Mario, sia detto di volo, repubblicano militante, e

lo aveva dimostrato, adesso era barone suo malgrado. Era

avvenuta una piccola rivoluzione in famiglia intorno a quel

titolo; adesso era il signor Gillenormand che ci teneva e

Mario che ne era seccato.

Ma il colonnello Pontmercy aveva scritto: "Mio figlio porterà

il mio titolo", ed egli obbediva. E poi Cosetta, nella quale

incominciava a far capolino la donna, era contentissima di

chiamarsi baronessa.

- Il signor barone? - ripeté Basco. - Vado a vedere. Gli dirò

che il signor Fauchelevent è qui.

- No, non gli dite che sono io. Ditegli che c'è uno che

chiede di parlargli in particolare, ma non gli dite il nome.

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- Ah! - esclamò Basco.

- Voglio fargli una sorpresa.

- Ah! - replicò il servo, dando a se stesso questo secondo

ah!

come spiegazione del primo.

E uscì.

Valjean rimase solo.

Il salotto, come abbiamo detto, era tutto in disordine:

pareva che, tendendo l'orecchio, vi si potesse ancora udire

il confuso rumore della festa. Sul pavimento c'era ogni

sorta di fiori caduti dalle ghirlande e dalle acconciature

femminili. Le candele, consumate fino in fondo,

aggiungevano ai cristalli del lampadario stalattiti di cera.

Neppure un mobile a posto. Negli angoli, tre o quattro

poltrone, ravvicinate in circolo l'una all'altra, pareva

continuassero una conversazione. L'insieme era ridente:

c'è ancora una certa grazia in una festa finita. E' stata una

cosa felice. In quelle sedie in disordine, tra quei fiori che

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appassiscono, sotto quei lumi spenti si pensa alla gioia. Il

sole succeduto all'illuminazione penetrava allegramente nel

salotto.

Passarono alcuni minuti, durante i quali Valjean restò

immobile dove l'aveva lasciato Basco. Era molto pallido, gli

occhi erano incavati, e tanto affondati sotto le orbite dalla

insonnia, che quasi vi sparivano; il suo abito nero aveva le

pieghe calcate d'un vestito che ha passato la notte sulla

persona, i gomiti imbiancati dalla calugine che lascia sul

panno lo sfregamento della biancheria. Egli guardava ai

suoi piedi la finestra disegnata dal sole sul pavimento.

Udendo un rumore alla porta, alzò gli occhi.

Mario entrò, con la testa alta, la bocca ridente, un non so

che di luminoso nel volto, la fronte aperta e l'occhio

trionfante.

Nemmeno lui aveva dormito.

- Siete voi, papà! - esclamò vedendo Valjean. - E

quell'imbecille di Basco che aveva l'aria misteriosa! Ma voi

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venite troppo di buon'ora: non sono ancora le dodici e

mezzo; Cosetta dorme.

La parola "Papà", detta da Mario al signor Fauchelevent

significava "felicità suprema". Era sempre esistito fra loro

come ci è noto, un dirupo, una freddezza, un riserbo, un

ghiaccio insomma da rompere o da sciogliere, ma il

giovane sposo era a tal punto d'entusiasmo, che il dirupo si

abbassava, il ghiaccio si scioglieva, e il signor Fauchelevent

era per lui, come per Cosetta, un padre.

Continuò; e le parole traboccavano da lui, come sempre

avviene in quei divini parossismi della gioia:

- Come sono contento di vedervi! Se sapeste come

sentimmo la vostra mancanza, ieri! Buon giorno, papà.

Come va la vostra mano?

Meglio, vero?

E, soddisfatto della buona risposta che s'era dato da sé,

proseguì:

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- Abbiamo molto parlato di voi, tutti e due. Cosetta vi ama

tanto!

Non dimenticate che avete qui la vostra camera. Non

vogliamo più saperne di via Homme-Armé; per niente.

Come avete fatto a scegliere una via come quella,

ammalata, brontolona, brutta, con una sbarra all'estremità,

dove si sente freddo e non si può entrare? Verrete ad

alloggiare qui, e oggi stesso, altrimenti avrete da fare con

Cosetta, la quale intende menarci tutti per la punta del

naso, vi prevengo. La vostra camera l'avete già vista; è

proprio vicino alla nostra e dà sul giardino. Abbiamo fatto

accomodare la toppa, il letto è preparato, tutto è pronto,

non avete da far altro che venire. Cosetta vi ha fatto

collocare al letto una vecchia e grande poltrona di velluto di

Utrecht, alla quale ha detto: Stendigli le braccia! Nel folto

di acacie dirimpetto alla vostra finestra, viene tutte le

primavere un usignolo; lo udrete tra due mesi; avrete il

suo nido a sinistra e il nostro a destra; di notte udrete il

suo canto, di giorno il cinguettio di Cosetta. La vostra

camera è volta proprio a mezzodì.

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Cosetta porrà in ordine i vostri libri, il viaggio del capitano

Cook, quello di Vancouver, e tutte le cose vostre. C'è, mi

pare, una valigetta che vi sta molto a cuore; ebbene, le ho

preparato un cantuccio d'onore. Avete fatto la conquista di

mio nonno; gli andate a genio. Vivremo tutti insieme.

Conoscete il "whist"? Se lo sapeste giocare, colmereste mio

nonno di gioia. Accompagnerete voi Cosetta a passeggio

quando io dovrò recarmi al tribunale; le darete il braccio

come una volta, al Lussemburgo, vi ricordate?

Noi siamo assolutamente decisi di essere felicissimi, e voi,

papà, prenderete parte alla nostra felicità, capite? Appunto,

fate colazione con noi oggi, vero?

- Signore - rispose Valjean - debbo dirvi una cosa. Io sono

un ex- forzato.

Il limite dei suoni acuti percettibili può essere oltrepassato

tanto dalla mente quanto dall'orecchio. Le parole "sono un

ex- forzato", uscendo dalla bocca del signor Fauchelevent

ed entrando nell'orecchio di Mario, andavano al di là del

possibile. Il giovane non intese: gli parve che gli fosse

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stato detto qualche cosa, ma che cosa non seppe, e rimase

a bocca aperta.

Si accorse allora che l'uomo che gli parlava era

spaventevole.

Preso dal suo entusiasmo, fino a quel momento non aveva

notato quel pallore terribile.

Valjean snodò il fazzoletto nero che gli sosteneva il braccio

destro, svolse la benda avvolta intorno alla mano, mise a

nudo il pollice e lo mostrò a Mario:

- Non ho nulla alla mano - disse.

Il giovane guardò il dito.

- Non ho avuto mai nulla - riprese Valjean.

Non c'era infatti nessuna traccia di ferita.

Valjean proseguì:

- Conveniva che io fossi estraneo al vostro matrimonio e ne

sono rimasto estraneo più che ho potuto. Finsi questa

ferita per non commettere un falso, per non introdurre un

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vizio di nullità negli atti matrimoniali, per potermi

dispensare dalla firma.

Mario balbettò:

- Che vuol dire tutto questo?

- Questo vuol dire - rispose Valjean - che io fui in galera.

- Voi mi fate impazzire - esclamò Mario spaventato.

- Signor Pontmercy - disse Valjean - sono stato diciannove

anni in galera: per furto; poi mi hanno condannato a vita:

per furto; come recidivo. In questo momento, sono m

latitante.

Mario aveva un bel rinculare dinanzi alla realtà, ricusare il

fatto, resistere all'evidenza; bisognava arrendervisi.

Cominciò a comprendere, e come sempre avviene in simili

casi, esagerò. Ebbe il brivido di un terribile lampo interiore;

un'idea, che lo fece fremere, gli attraversò la mente;

intravide nell'avvenire, per se stesso, un destino

mostruoso.

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- Dite tutto! dite tutto! - gridò. - Voi siete il padre di

Cosetta!

E fece due passi indietro con un moto d'indicibile orrore.

Valjean rialzò la testa con tale maestoso atteggiamento,

che parve ingrandisse sino al soffitto.

- Signore, dovete credermi, e quantunque il giuramento

fatto da noi altri non sia accolto dai tribunali...

Tacque un momento, poi, con una specie di autorità

sovrana e sepolcrale, articolando lentamente e

accentuando le sillabe aggiunse:

- ... Voi mi crederete. Il padre di Cosetta, io! giuro dinanzi

a Dio, no. Signor barone di Pontmercy, io sono un

contadino di Faverolles, mi guadagnavo la vita potando gli

alberi. Non mi chiamo Fauchelevent, ma Giovanni Valjean.

Non ho nessuna parentela con Cosetta. Rassicuratevi.

Mario balbettò:

- Chi mi prova?...

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- Io, poiché lo dico.

Mario guardò quell'uomo. Era lugubre e tranquillo. Nessuna

menzogna poteva uscire da una tale calma. Chi è

ghiacciato è sincero, e in quella freddezza di tomba si

sentiva la verità.

- Vi credo - disse il giovane.

Valjean chinò la testa quasi per prenderne atto, poi

continuò:

- Che sono io per Cosetta? Un passante. Dieci anni or sono

ignoravo persino che esistesse. Le voglio bene, è vero. Ci si

affeziona a una fanciulla che si è conosciuta piccina,

quando si era già vecchio. I vecchi si sentono nonni per

tutti i bimbi. Mi sembra che possiate supporre in me

qualche cosa che somiglia a un cuore. Lei era orfana, senza

padre né madre, aveva bisogno di me, ed ecco perché mi

misi ad amarla. Sono così deboli i fanciulli, che il primo che

capita, anche un uomo come me, può essere il loro

protettore. Ecco il dovere che ho compiuto verso Cosetta.

Non credo che così poca cosa possa veramente chiamarsi

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una buona azione; ma se è tale, supponete che io l'abbia

compiuta e prendete nota di questa circostanza

attenuante. Oggi, Cosetta abbandona la mia esistenza; le

nostre due strade si separano, d'ora innanzi io non posso

più nulla per lei. Lei è la signora Pontmercy; la sua

provvidenza è mutata e Cosetta guadagna nel cambio.

Tutto per il meglio. Quanto ai seicentomila franchi, non me

ne parlate, ma io prevengo il vostro pensiero: essi

costituiscono un deposito. In che modo quel deposito era

nelle mie mani? Che importa? Lo restituisco e nessuno può

chiedermi nulla di più. Completo la restituzione col dirvi il

mio vero nome. Anche questo mi riguarda:

ci tengo, io, che sappiate chi sono.

E fissò Mario in volto.

Tutto quanto Mario provava era tormentoso e incoerente.

Certe ventate del destino producono nell'anima nostra

simili ondulazioni.

Tutti abbiamo provato quegli istanti di turbamento, nei

quali ogni cosa in noi si disperde; allora diciamo le prime

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parole venute, le quali non sempre sono precisamente

quelle che bisognerebbe dire.

Ci sono subitanee rivelazioni che non si possono sopportare

e ci ubriacano come un vino funesto. Dalla nuova

situazione, intravista, Mario era sbalordito al punto di

parlare a quell'uomo quasi come sdegnato di quella

confessione.

- Ma infine - esclamò - perché mi dite tutto questo? Chi vi

costringe? Potevate conservare il vostro segreto. Non siete

né denunciato né inseguito né ricercato. Ci dev'essere una

ragione per farmi così allegramente una simile rivelazione.

Finite dunque:

c'è dell'altro. A quale scopo mi fate questa confessione?

Per qual motivo?

- Per quale motivo? - rispose Valjean con voce così bassa e

sorda che pareva parlasse a se stesso più che a Mario. -

Per quale motivo, infatti, questo forzato viene a dirvi: Io

sono un forzato?

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Ebbene, sì, il motivo è strano! E' per onestà. La mia

disgrazia è un filo che ho qui nel cuore e che mi tiene

legato. E questi fili sono solidi soprattutto quando si è

vecchi: tutta la vita all'intorno si sfascia, ma essi resistono.

Se avessi potuto strapparmi questo filo, romperlo,

sciogliere il nodo o tagliarlo, e andarmene assai lontano, mi

sarei salvato. Bastava che partissi; nella via del Bouloy non

mancano le diligenze; voi siete felici e io me ne vado. Ho

tentato di romperlo questo filo, ho tirato con tutte le forze,

ma ha tenuto fermo, non s'è rotto; dovrei strapparmi

insieme il cuore. Allora ho detto: Non posso vivere altrove,

devo rimanere. Ebbene, sì, avete ragione, sono un

imbecille: perché non restare semplicemente? Voi mi offrite

una camera qui nella casa, la signora Pontmercy mi vuole

molto bene, e dice alla poltrona: stendigli le braccia; vostro

nonno è contentissimo di avermi con sé, gli vado a genio;

abiteremo tutti insieme; prenderemo i pasti in comune, io

darò il braccio a Cosetta... alla signora Pontmercy, scusate,

è l'abitudine...

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avremo un solo tetto, una sola mensa, un solo focolare, lo

stesso angolo da caminetto d'inverno, la stessa

passeggiata d'estate; ma questa è gioia, è felicità, è tutto.

Noi vivremo in famiglia. In famiglia!

A questa parola Valjean divenne torvo. Incrociò le braccia,

guardò il pavimento ai suoi piedi come se volesse scavarvi

un abisso, e d'un tratto la sua voce si fece sonora:

- Io, famiglia! no. Io non appartengo a nessuna famiglia,

né alla vostra né a quella di tutti gli uomini. Nelle case

dove si vive in dimestichezza io sono di troppo. Ci sono le

famiglie, ma non per me. Io sono lo sventurato, l'escluso.

Ebbi un padre e una madre?

quasi ne dubito. Il giorno in cui ho maritato quella fanciulla

tutto è finito: ho visto che era felice con l'uomo amato, che

c'era in questa casa un buon vecchio, un nido di due

angeli, tutte le gioie, tutto il bene, e ho detto a me stesso:

Non entrare, tu.

Potevo mentire, è vero, ingannarvi tutti, rimanere il signor

Fauchelevent. Finché è stato per lei, ho potuto mentire; ma

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ora, non devo. Bastava tacere, è vero, e tutto sarebbe

continuato. Voi mi chiedete che cosa mi costringa a

parlare? una cosa curiosa, la mia coscienza. Eppure, tacere

era assai facile: ho passato la notte a cercar di

persuaderne me stesso. Voi mi chiedete la mia

confessione, e quel che vi ho detto è tanto straordinario

che ne avete il diritto. Ebbene sì, ho consumato la notte a

dare a me stesso delle ragioni, e me ne sono date alcune

molto buone, ho fatto quanto ho potuto, siatene certo. Ma

ci sono due cose in cui non sono riuscito: né a spezzare il

filo che mi tiene attaccato, ribattuto e suggellato qui col

cuore né a far tacere qualcuno che mi parla

sommessamente quando sono solo. Ecco perché sono

venuto a confessarvi tutto stamane. Tutto, o quasi tutto. Ci

sono delle cose inutili a dirsi che riguardano me solo, e che

quindi tengo per me; l'essenziale lo sapete. Ho dunque

preso il mio mistero e ve l'ho portato; ho sventrato il mio

segreto sotto i vostri occhi.

Non era una risoluzione ovvia da prendere, e mi sono

dibattuto tutta la notte. Ah! credete forse che non abbia

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detto a me stesso che questo non era più il caso del

processo Champmathieu, che occultando il mio vero nome

non danneggiavo nessuno, che il nome di Fauchelevent mi

era stato dato dallo stesso Fauchelevent per riconoscenza

d'un servigio resogli, che potevo benissimo serbarlo, che

sarei stato felice nella camera da voi offertami, che non vi

avrei dato nessun fastidio, che me ne sarei stato nel mio

cantuccio, e che mentre voi avreste avuto Cosetta, io avrei

avuto l'idea di trovarmi nella stessa sua casa? Ciascuno

avrebbe goduto la sua proporzionata felicità. Continuando

a essere il signor Fauchelevent, tutto s'accomodava; tutto,

sì, fuorché l'anima mia.

Ci sarebbe stata la gioia sparsa su tutta la mia persona,

ma il fondo dell'anima mia sarebbe rimasto nero. Non

basta essere felici, occorre essere contenti. Dunque, sarei

rimasto il signor Fauchelevent, avrei nascosto il mio vero

volto; dunque, di fronte alla vostra espansione avrei avuto

un enigma, in mezzo alla vostra piena luce mi sarei avvolto

di tenebre; dunque, senza gridare "bada" con la massima

semplicità, mi sarei seduto alla vostra mensa col pensiero

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che se aveste saputo chi sono mi avreste scacciato, mi

sarei lasciato servire da domestici che, se avessero saputo,

avrebbero esclamato: Che orrore! Dunque, vi avrei toccato

col mio gomito che siete in diritto di respingere, avrei

truffato la vostra stretta di mano! Nella vostra casa

avrebbero diviso la riverenza tra i capelli bianchi venerabili

e i capelli bianchi infamati; e nelle vostre ore più intime,

quando tutti i cuori si sarebbero creduti aperti fino in

fondo, trovandoci tutt'e quattro insieme, vostro nonno voi

due e io, ci sarebbe stato fra noi un ignoto. Sarei stato

fianco a fianco con voi nella vostra esistenza, con la sola

preoccupazione di non spostare il coperchio del mio

terribile pozzo! Così io, un morto, mi sarei imposto a voi

che siete vivi. E lei, l'avrei condannata a essermi legata a

vita.

Voi, Cosetta e io, saremmo stati tre teste nel berretto

verde! Non vi sentite rabbrividire? Ora sono soltanto il più

oppresso degli uomini; allora sarei stato il più mostruoso. E

questo delitto, l'avrei commesso ogni giorno! E questa

menzogna, l'avrei ripetuta ogni giorno e questa maschera

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di tenebre l'avrei tenuta sul viso ogni giorno! E ogni giorno

vi avrei dato la vostra parte della mia infamia! Ogni giorno!

a voi, i miei cari, a voi i miei figli, a voi, i miei innocenti!

Tacere è nulla? Serbare il silenzio è una cosa semplice? No,

non è semplice. C'è un silenzio che mentisce. E la mia

menzogna, la mia frode, la mia indegnità, la mia viltà, il

mio tradimento, il mio delitto, io li avrei bevuti a goccia a

goccia, li avrei vomitati e poi ribevuti; avrei finito a

mezzanotte e ricominciato a mezzogiorno, e il mio

buongiorno avrebbe mentito, e il mio buonasera avrebbe

mentito, e ci avrei dormito sopra, e l'avrei mangiato col

pane, e avrei guardato in faccia Cosetta, e avrei risposto al

sorriso dell'angelo col sorriso del dannato, e sarei stato un

abominevole istrione! E perché? Per essere felice! Felice io!

Ho forse il diritto d'essere felice? Io sono fuori della vita,

signore.

Valjean si fermò. Mario ascoltava. Simili concatenamenti di

idee e di angosce non si possono interrompere. Valjean

abbassò di nuovo la voce, che non era più sorda, ma

sinistra.

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- Voi chiedete perché parlo? Io che non sono né denunciato

né inseguito né ricercato, dite voi. Sì! sono denunciato!

sono inseguito! sono ricercato! Da chi? Da me! sono io che

sbarro a me stesso il passaggio, e mi trascino, e mi

sospingo, e mi arresto, e mi condanno, e quand'uno è

afferrato da se stesso, è ben tenuto.

E afferrandosi l'abito col pugno e tirandolo verso Mario:

- Guardate questo pugno - proseguì. - Non vi pare che

sappia tenere questo bavero in modo da non lasciarselo

sfuggire? Ebbene, la coscienza è un altro pugno! E per

vivere felice, signore, bisogna non comprendere il dovere;

appena è compreso, diventa implacabile. Sembra che vi

punisca d'averlo capito; ma no, vi ricompensa invece,

perché vi mette in un inferno dove si sente d'avere accanto

Iddio. Appena ci siamo lacerate le viscere, ci sentiamo in

pace con noi stessi.

E con accento straziante aggiunse:

- Signor Pontmercy, è una cosa che non ha senso, eppure

io sono un uomo onesto. Ed è col degradarmi ai vostri

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occhi che mi elevo ai miei. Questo mi è già accaduto una

volta, ma era meno doloroso; non era nulla. Sì, un uomo

onesto. Non lo sarei, se per mia colpa aveste continuato a

stimarmi; ora che mi disprezzate, lo sono.

Pesa su di me questa fatalità: che non potendo mai avere

alcuna considerazione se non rubata, questa

considerazione m'opprime interiormente, e perché io possa

rispettare me stesso, è necessario che gli altri mi

disprezzino. Allora mi rialzo. Sono un galeotto che

obbedisce alla sua coscienza. So bene che non è una cosa

verosimile; ma che posso farci io? è così. Ho preso degli

impegni con me stesso e li mantengo. Avvengono certi

incontri che ci legano, dei casi fortuiti che ci trascinano ad

assumere dei doveri. Vedete, signor Pontmercy, mi sono

accadute certe cose nella vita!...

Fece una nuova pausa, quindi ingoiando con fatica la

saliva, come se le sue parole sapessero di amaro, riprese:

- Quando sopra di noi pesa un tale orrore, non abbiamo il

diritto di renderne partecipi gli altri a loro insaputa, non

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abbiamo il diritto di comunicar loro la nostra peste, di farli

sdrucciolare nel nostro precipizio senza che se ne

avvedano, di buttar su di loro la nostra casacca rossa, e

d'intralciare segretamente con la nostra miseria la felicità

altrui. Avvicinarsi ai sani e toccarli di nascosto con la

propria ulcera invisibile è una cosa orribile.

Fauchelevent ha un bel prestarmi il suo nome; io non ho il

diritto di servirmene. Egli ha potuto darmelo, ma io non ho

potuto prendermelo. Un nome è un io. Vedete, signore, ho

un po' pensato, un po' letto, benché sia un contadino, e mi

rendo conto delle cose. Vedete che mi spiego

convenientemente. Mi sono fatto un'educazione da me

stesso. Ebbene sì, sottrarre un nome e ripararvisi sotto è

una cosa disonesta. Si possono rubare le lettere

dell'alfabeto come una borsa o un orologio. Essere una

firma falsa in carne e ossa, una chiave falsa vivente,

entrare in casa di gente onesta scassinando la serratura,

non guardar mai più francamente ma sempre di sottecchi,

essere infame dentro di me no!

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no! no! no! E' meglio soffrire, sanguinare, piangere,

strapparsi la pelle dalle carni con le unghie, passare le notti

a torcersi tra le angosce, rodersi il ventre e il cuore. Ecco

perché vengo a raccontarvi tutto questo, allegramente,

come voi dite.

Respirò penosamente, quindi lanciò quest'ultima frase:

- Una volta, per vivere, rubai un pane; oggi, per vivere,

non voglio rubare un nome.

- Per vivere! - interruppe Mario. - Ma non avete bisogno di

questo nome per vivere!

- Oh! me ne intendo io! - rispose Valjean alzando e

abbassando lentamente la testa più volte di seguito.

Successe una pausa. Tacevano tutti e due, ciascuno

inabissato in un gorgo di pensieri. Mario si era seduto

vicino a una tavola e appoggiava l'angolo della bocca a un

dito piegato. Valjean passeggiava su e giù. Si fermò

davanti a uno specchio e rimase immobile; poi, come se

rispondesse a un ragionamento interiore, disse guardando

quello specchio nel quale non si mirava:

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- Adesso mi sento sollevato.

Tornò a camminare e andò all'altro capo del salotto. Nel

voltarsi s'accorse che Mario lo guardava camminare. Allora,

con un accento inesprimibile, gli disse:

- Trascino un po' la gamba. Ora capite perché. - Quindi finì

di volgersi verso Mario:

- Ed ora, signore, fate questa supposizione: Io non ho

detto nulla, sono rimasto il signor Fauchelevent, ho preso il

mio posto in casa vostra, faccio parte della famiglia,

occupo la mia stanza, vengo la mattina a far colazione in

pantofole, la sera andiamo tutt'e tre al teatro, io

accompagno la signora Pontmercy alle Tuileries e alla

piazza Reale, viviamo insieme, voi mi credete un vostro

eguale; ed ecco che un bel giorno mentre ci troviamo uniti

e discorriamo e ridiamo, udite d'un tratto una voce gridare

il nome di Giovanni Valjean, e vedete una mano terribile,

quella della polizia,balzare fuori dall'ombra estrapparmi

improvvisamente la maschera!

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Tacque di nuovo; Mario s'era alzato con un brivido. Valjean

riprese:

- Che ne dite?

Il silenzio di Mario era una risposta.

L'altro continuò:

- Vedete bene che ho avuto ragione a non tacere. Su via,

siate felice! siate al settimo cielo! siate l'angelo d'un

angelo! e siate nel sole! e contentatevi, e non vi

preoccupate di sapere che cosa faccia un povero dannato

per squarciarsi il petto e fare il proprio dovere. Avete

davanti a voi un miserabile.

Mario attraversò lentamente il salotto, e avvicinatosi a

Valjean gli tese la mano.

Ma dovette egli stesso andare a prendere quella mano che

non si presentava, e gli parve di stringere una mano di

marmo. Valjean lasciò fare.

- Mio nonno ha molti amici - disse Mario - e vi farà

ottenere la grazia.

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- E' inutile - rispose Valjean. - Mi credono morto e ciò

basta. I defunti non sono sottoposti a sorveglianza, si

suppone che imputridiscano tranquillamente. La morte è lo

stesso che la grazia.

E liberando la mano tenuta dal giovane, aggiunse con una

specie di dignità inesorabile:

- D'altronde, fare il mio dovere: ecco l'amico a cui ricorro;

e ho bisogno di una sola grazia, quella della mia coscienza.

In quel momento, all'altra estremità del salotto, la porta fu

socchiusa adagino e apparve la testa di Cosetta, coi capelli

in un incantevole disordine e le palpebre ancora gonfie di

sonno. Col movimento d'un uccello che spinge la testa fuori

dal nido, essa guardò prima suo marito, poi Valjean, e

gridò loro, ridendo, con un sorriso che parve sbocciar da

una rosa:

- Scommetto che parlate di politica. Che goffaggine! Invece

di tenermi compagnia!

Valjean trasalì.

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- Cosetta!... - balbettò Mario, e non disse altro.

Sembravano due colpevoli.

Cosetta, raggiante, continuava a volgere lo sguardo

dall'uno all'altro; e nei suoi occhi c'erano luci di paradiso.

- Vi colgo in delitto flagrante - disse. - Ho sentito

attraverso l'uscio il mio papà Fauchelevent che diceva: la

coscienza...

l'adempimento del dovere... E' politica, questa; e io non ne

voglio. Non si parla di politica subito, all'indomani delle

nozze; non è giusto.

- T'inganni, Cosetta - rispose Mario. - Parliamo d'affari,

parliamo del collocamento migliore per i tuoi seicentomila

franchi...

- Poco importa - interruppe la donna. - Vengo anch'io. Mi

volete?

E spingendo risolutamente la porta entrò nel salotto. Era

avvolta in un vasto accappatoio bianco a mille pieghe e a

grandi maniche, che partendo dal collo le ricadeva fino ai

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piedi. Nei cieli d'oro dei vecchi dipinti gotici si vedono simili

graziosi sacchi da porvi dentro un angelo.

Essa si mirò dalla testa ai piedi in un grande specchio, poi

esclamò con un'esplosione d'estasi ineffabile:

- C'era una volta un re e una regina. Oh come sono

contenta!

Ciò detto, fece la riverenza a Mario e a Valjean, e proseguì:

- Ecco, io mi metterò in una poltrona accanto a voi. Tra

mezz'ora si fa colazione: voi direte tutto quello che volete,

so bene che gli uomini devono parlare; me ne starò

tranquilla.

Mario le prese il braccio e le disse amorosamente:

- Stiamo parlando d'affari.

- A proposito - rispose Cosetta - aprendo la mia finestra ho

visto arrivare nel giardino una quantità di cinciallegre, che

paiono maschere. Oggi è il mercoledì delle ceneri, ma non

per gli uccelli.

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- Ti ripeto che parliamo d'affari; va', mia piccola Cosetta,

lasciaci soli un momento. Parliamo di cifre; t'annoieresti.

- Ti sei messo stamattina una deliziosa cravatta, Mario;

siete molto civettuolo, mio signore. No, non m'annoierò.

- T'assicuro che t'annoierai.

- No, perché siete voi; non capirò, ma starò ad ascoltarvi.

Quando si odono le voci amate non c'è bisogno di capire le

parole che dicono. Non desidero altro che stare con voi.

Rimango, via!

- Tu sei la mia adorata Cosetta! ma è impossibile.

- Impossibile!

- Sì.

- Va bene - riprese Cosetta. - Vi avrei dato delle notizie, vi

avrei detto che il nonno dorme ancora, che vostra zia è

andata a messa, che il camino della camera del mio papà

Fauchelevent fa fumo, che Nicoletta ha fatto chiamare uno

spazzacamino, che la Toussaint e Nicoletta hanno già

litigato, e che Nicoletta si burla della balbuzie della

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Toussaint. Ebbene, non saprete nulla. Ah! E' impossibile?

Anch'io a mia volta dirò è impossibile, vedrete, signore. E

allora chi sarà preso al laccio? Te ne prego, mio piccolo

Mario, lasciami stare qui con voi due.

- Ti giuro che è necessario che restiamo soli.

- Ebbene, sono forse qualcuno io?

Cosetta si volse verso Valjean che non diceva una parola:

- Prima di tutto, papà, voglio che veniate a darmi un bacio.

Che cosa fate lì silenzioso, invece di prendere le mie

difese? Chi mi ha dato un padre così? Non vedete che sono

infelicissima in famiglia? Mio marito mi batte. Animo

dunque, abbracciatemi subito.

Valjean s'avvicinò. Cosetta si volse verso Mario:

- A voi invece faccio le boccacce.

E porse la fronte a Valjean.

Questi le s'accostò d'un altro passo. Ma Cosetta rinculò.

- Siete pallido, papà. Forse che il braccio vi fa male?

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- E' guarito - rispose.

- Avete dormito male?

- No.

- Siete triste?

- No.

- Datemi un bacio. Se vi sentite bene, se avete ben

dormito, se siete contento, non vi sgriderò.

E gli porse nuovamente la fronte.

Valjean depose un bacio su quella fronte, su cui splendeva

un riflesso del cielo.

- Sorridete.

Egli obbedì: fu il sorriso d'uno spettro.

- Ora difendetemi da mio marito.

- Cosetta... - esclamò Mario.

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- Andate in collera! papà. Ditegli che è necessario che io

rimanga qui, che si può benissimo parlare davanti a me. Mi

credete dunque molto sciocca! Dunque è assai

stupefacente quello che dite! Gli affari, collocare dei denari

presso una banca, gran cosa! Gli uomini fanno i misteriosi

per un nulla. Voglio restare. Sono molto bella stamane;

guardami, Mario.

E con un adorabile moto delle spalle e non so qual broncio

squisito, essa guardò il marito. Fra quelle due creature

scoccò come un lampo. Poco importava che ci fosse

qualcuno presente.

- T'amo - disse Mario.

- T'adoro - rispose Cosetta.

E caddero irresistibilmente nelle braccia l'uno dell'altra.

- Ora - riprese Cosetta, rassettandosi una piega

dell'accappatoio con una smorfietta di trionfo - io rimango.

- Questo no - ripeté Mario in tono supplichevole. -

Dobbiamo terminare qualche cosa.

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- Ancora no?

Il giovane prese un tono severo:

- T'assicuro, Cosetta, che è impossibile.

- Ah! fate il vostro vocione d'uomo, signore. Va bene. Me

ne vado.

Voi, papà, non m'avete sostenuta. Signor marito, signor

padre, siete due tiranni, vado a dirlo al nonno. Se credete

che tornerò e che vi starò a pregare, v'ingannate. Sono

fiera. Adesso sarò io ad aspettarvi. Vedrete che vi

annoierete senza di me. Me ne vado, va benissimo.

E uscì.

Due secondi dopo l'uscio si riaprì, il suo fresco viso

vermiglio passò di nuovo tra i due battenti, ed essa gridò

loro:

- Sono molto in collera.

La porta si richiuse e si rifecero le tenebre.

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Fu come un raggio di sole fuorviato che, senza

immaginarselo, aveva attraversato d'improvviso la notte.

Mario s'assicurò che l'uscio fosse ben chiuso.

- Povera Cosetta! - mormorò. - Quando verrà a sapere...

A queste parole Valjean tremò in tutte le membra, e fissò

su Mario l'occhio smarrito.

- Cosetta! Ah! sì, è vero, voi le direte tutto; è giusto. E io

non ci avevo pensato! Abbiamo talvolta la forza di

sopportare una cosa e non un'altra. Signore, ve ne

scongiuro, ve ne supplico, datemi la vostra parola più sacra

che non glielo direte. Non basta forse che lo sappiate voi?

Ho potuto dirlo io stesso senza esserci costretto; l'avrei

detto a tutti, all'universo intero, non m'importava. Ma lei...,

lei non capisce queste cose, e ne sarebbe spaventata. Un

forzato, come! Sarebbe necessario spiegarglielo, dirle: E'

un uomo che è stato in galera. Un giorno, vide passare la

catena... Ah mio Dio!

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Si abbatté su una poltrona e si nascose il volto fra le mani.

Non si sentiva, ma dalle scosse delle spalle si vedeva che

piangeva.

Lacrime silenziose, lacrime terribili.

I singhiozzi soffocano. Preso da un impeto convulso,

dovette rovesciarsi indietro sulla spalliera come per

respirare, lasciando pendere le braccia e mostrando a

Mario la faccia inondata di lacrime; e Mario l'udì bisbigliare

con voce così sommessa che sembrava provenire da un

abisso senza fondo: - Oh! come vorrei morire!

- State tranquillo, - disse il giovane; - terrò il vostro

segreto per me solo.

E meno commosso di quanto forse avrebbe dovuto esserlo,

ma costretto da un'ora a familiarizzarsi con una spaventosa

sorpresa, vedendo a grado a grado sotto i suoi occhi un

galeotto sovrapporsi al signor Fauchelevent, vinto a poco a

poco da quella lugubre realtà e condotto dalla china

naturale della situazione a constatare l'intervallo che si era

formato tra quell'uomo e lui, aggiunse:

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- E' impossibile che non vi dica una parola intorno al

deposito che m'avete così fedelmente e così onestamente

rimesso. E' un atto di probità, ed è giusto che vi sia dovuta

una ricompensa. Fissate voi stesso la somma che vi sarà

sborsata; né dovete temere di fissarla troppo alta.

- Vi ringrazio, signore - rispose Valjean con dolcezza.

Rimase pensoso un momento, passando macchinalmente

l'estremità dell'indice sull'unghia del pollice, quindi riprese:

- Tutto è quasi finito. Mi resta un'ultima cosa.

- Quale?

Valjean ebbe come una suprema esitazione, poi senza

voce, quasi senza respiro, balbettò più che non dicesse:

- E ora che sapete, credete, signore, voi che siete il

padrone, che io non debba più vedere Cosetta?

- Credo che sarebbe meglio - rispose Mario con freddezza.

- Non la vedrò più - mormorò Valjean.

E si diresse verso la porta.

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Mise la mano sulla maniglia, che cedette subito, socchiuse

la porta, l'aprì abbastanza per passare, restò un secondo

immobile, poi la richiuse ancora e si volse verso Mario.

Non era più pallido, ma era livido; non aveva più lacrime

negli occhi, ma una specie di tragica fiamma; e la sua voce

aveva ripreso una strana calma.

- Ascoltatemi, signore, - disse - se lo permetterete, verrò a

vederla. Vi assicuro che lo desidero ardentemente. Se non

ci avessi tenuto a vedere Cosetta, non vi avrei fatto la

confessione che vi ho fatta, sarei partito; ma volendo

rimanere dov'è Cosetta e continuare a vederla, ho dovuto

dirvi tutto. Voi seguite il mio ragionamento, non è vero? è

una cosa facile a capirsi. Vedete, sono più di nove anni che

l'ho con me. Abbiamo abitato prima in quella topaia del

boulevard, poi nel convento, poi presso il Lussemburgo,

dove l'avete vista la prima volta. Vi ricordate il suo cappello

di felpa azzurro? Siamo stati poi nel quartiere degli

Invalidi, dove c'era un cancello e un giardino, in via

Plumet. Io abitavo dalla parte interna, da dove udivo il suo

pianoforte.

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Eccovi la mia vita. Non ci lasciavamo mai. La cosa è durata

nove anni e alcuni mesi; io ero come un padre per lei, e

essa la mia figliola. Non so se mi capite, signor Pontmercy;

ma andarmene ora, non vederla più, non parlarle più, non

avere più nulla, sarebbe difficile. Se non ci vedete niente di

male, verrò ogni tanto a trovare Cosetta. Non verrei

spesso, non resterei a lungo. Direte di ricevermi nel

salottino di giù. Entrerei volentieri per la porta di dietro,

destinata alla servitù, ma questo stupirebbe, forse; sarà

meglio, credo, entrare dalla porta di tutti. Davvero,

signore, vorrei vedere ancora un po' Cosetta: di rado,

quando vi aggrada. Mettetevi al mio posto: non ho più

nessuno al mondo. E poi, bisogna badare che se non

venissi più, la cosa farebbe una brutta impressione,

parrebbe molto strana. Quello che posso fare è di venire la

sera, quando comincia a farsi buio.

- Verrete tutte le sere - disse Mario - e Cosetta vi

aspetterà.

- Voi siete buono, signore - rispose Valjean.

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Mario salutò Valjean. La felicità accompagnò fino all'uscio

la disperazione, e quei due uomini si separarono.

2. LE OSCURITA' CHE PUO' CONTENERE UNA

RIVELAZIONE

Mario era sconvolto.

Ora inclinava in quella specie di antipatia che aveva

sempre provato per l'uomo accanto al quale vedeva

Cosetta. C'era in quell'individuo un non so che di

enigmatico di cui l'istinto l'avvertiva, e quell'enigma era la

più schifosa delle vergogne: la galera. Fauchelevent era il

forzato Valjean.

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Trovare a un tratto un simile segreto in mezzo alla sua

felicità somigliava a una scoperta d'uno scorpione in un

nido di tortore.

La felicità di Mario e Cosetta era dunque condannata a

quella vicinanza? Era un fatto compiuto? L'accettazione di

quell'uomo faceva parte del matrimonio? Non rimaneva più

nulla da fare? Aveva egli sposato anche il galeotto?

Si ha un bell'essere coronato di luce e di gioia, si ha un

bell'assaporare la grande ora purpurea della vita, l'amore

felice:

simili scosse costringerebbero a fremere anche l'arcangelo

nella sua estasi, anche il semidio nella sua gloria.

Come sempre avviene nei cambiamenti improvvisi, Mario si

chiedeva se non avesse qualche rimprovero da farsi.

Aveva mancato di giudizio? Aveva mancato di prudenza? Si

era volontariamente stordito? Un po', forse. S'era lanciato,

senza bastante precauzione, in quell'avventura d'amore

che era finita nel suo matrimonio con Cosetta? Constatava

- è così con una serie di successive constatazioni di noi

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stessi su noi stessi, la vita a poco a poco ci emenda -

constatava il lato chimerico e visionario del proprio

carattere, specie di nube interiore, caratteristica di molti

individui e che nei parossismi della passione e del dolore,

col mutar temperatura dell'anima, si dilata e invade

interamente l'uomo in modo da formarne una coscienza

inzuppata di nebbia. Più d'una volta abbiamo accennato a

questo elemento caratteristico della personalità di Mario. Si

ricordava che nell'ebbrezza del suo amore, in via Plumet,

durante quelle sei o sette settimane estatiche, non aveva

nemmeno parlato a Cosetta di quel dramma enigmatico

della topaia Gorbeau, dove la vittima aveva avuto un così

strano atteggiamento di silenzio durante la lotta, che poi

era fuggita. Com'era stato possibile che non ne avesse

parlato a Cosetta? Eppure si trattava di una cosa tanto

recente e spaventosa. Come mai non le aveva neppure

nominato i Thénardier, neanche il giorno in cui aveva

incontrato Eponina? Durava quasi fatica a spiegarsi il suo

silenzio d'allora. Però lo comprendeva; rammentava il suo

sbalordimento, l'ebbrezza che provava per Cosetta, l'amore

che assorbiva ogni cosa, quel sollevarsi l'un l'altro

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nell'ideale, e fors'anche, come la quantità impercettibile di

ragione mista a quello stato violento e incantevole

dell'anima, un vago e sordo istinto di nascondere e di

cancellare nella memoria quella terribile avventura di cui

temeva il contatto, nella quale non voleva recitare alcuna

parte, a cui si sottraeva, in cui non poteva essere narratore

o testimonio senza essere accusatore. D'altronde, quelle

poche settimane erano state un lampo: non avevano avuto

il tempo di far nulla, fuorché amarsi.

Infine, tutto calcolato, tutto rigirato, tutto esaminato,

quand'anche avesse narrato a Cosetta l'insidia Gorbeau,

quando le avesse nominato i Thénardier, quand'anche

avesse scoperto che Valjean era un galeotto, questo

avrebbe cambiato lui, Mario, e lei, Cosetta? Avrebbe egli

indietreggiato? L'avrebbe meno adorata?

Avrebbe fatto a meno di sposarla? No. Ci sarebbe stato

nulla di mutato in quanto si era fatto? No. Nulla dunque

aveva da rimpiangere, nulla da rimproverarsi. Tutto per il

meglio. C'è un Dio per quegli ubriaconi che si chiamano

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innamorati. Cieco, Mario aveva battuto la via che avrebbe

scelto se ci avesse visto chiaro.

L'amore gli aveva bendato gli occhi, per condurlo dove? Al

paradiso.

Ma a quel paradiso veniva ora ad aggiungersi un confine

infernale.

L'antica antipatia di Mario per quell'uomo, per quel

Fauchelevent divenuto ormai Valjean, era mista d'orrore.

Tuttavia in quell'orrore, diciamolo, c'era una qualche pietà

e anche un po' di sorpresa.

Quel ladro, un ladro recidivo, aveva restituito un deposito.

E quale? Seicentomila franchi! Ed era solo a conoscerne il

segreto!

Poteva tenere tutto e aveva tutto restituito.

Inoltre aveva rivelato da sé la propria situazione. Nulla lo

costringeva. Se si sapeva chi era, si sapeva per mezzo suo.

C'era in quella confessione più che l'accettazione

dell'umiliazione, l'accettazione del pericolo. Per un

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condannato, una maschera non è una maschera, è un

rifugio; ed egli aveva rinunciato a quel rifugio; un falso

nome è la sicurezza, ed egli aveva rigettato quel falso

nome. Poteva, lui, galeotto, nascondersi per sempre in una

famiglia onorata, e aveva resistito a quella tentazione. E

per qual motivo? per scrupolo di coscienza; l'aveva

spiegato egli stesso con l'irresistibile accento della verità.

Chiunque fosse insomma quel Valjean, era

incontestabilmente una coscienza che si ridestava; c'era in

lui non so quale misteriosa riabilitazione già cominciata; e,

secondo ogni apparenza, già da molto tempo lo scrupolo

era padrone di quell'uomo. Simili scrupoli per la giustizia e

per il bene non sono propri delle nature volgari. Un

ridestarsi di coscienza è grandezza d'animo.

Valjean era sincero. Tale sincerità, visibile, palpabile,

irrefragabile, resa evidente dallo stesso dolore che gli

cagionava, rendeva inutile le indagini e dava autorità a

tutto quanto diceva quell'uomo. Qui, per Mario, una strana

inversione delle situazioni. Che cosa ispirava il signor

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Fauchelevent? la diffidenza. Che cosa emanava Giovanni

Valjean? la fiducia.

Nel misterioso bilancio di quel Valjean, fatto da Mario

cogitabondo, egli constatava l'attivo, constatava il passivo,

e cercava di giungere a un risultato: ma era come in una

bufera.

Sforzandosi di formarsi un concetto chiaro di quell'uomo, e

inseguendo, per così dire, Valjean in fondo alla sua mente,

lo perdeva di vista, e lo ritrovava circondato da una nebbia

fatale.

L'onesta restituzione del deposito, la probità della

confessione, sta bene; era come uno squarcio nella nube;

poi la nube ridiventava nera.

Per quanto fossero confusi i ricordi di Mario, pure gliene

ritornava qualche traccia.

Cos'era in definitiva l'avventura del tugurio Jondrette?

Perché, all'arrivo della polizia, invece di querelarsi,

quell'uomo era fuggito? Qui trovava la risposta; perché era

un galeotto latitante.

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Altro quesito: Perché quell'uomo era venuto nella

barricata?

Adesso, Mario rivedeva distintamente quel ricordo,

riapparso in quella sua emozione, come l'inchiostro

simpatico al fuoco.

Quell'uomo era nella barricata, ma senza combattere. Che

era venuto a fare? Di fronte a questa domanda, uno

spettro si rizzava e rispondeva, Javert. Mario ricordava

perfettamente in quel momento la funebre visione di

Valjean che trascinava fuori della barricata Javert legato, e

sentiva ancora venire di dietro l'angolo del vicolo

Mondétour l'orribile colpo di pistola.

Verosimilmente c'era odio tra quella spia e quel galeotto;

l'uno impacciava l'altro; e Valjean era andato alla barricata

per vendicarsi. Vi era giunto tardi, quando già sapeva

probabilmente che Javert vi era trattenuto prigioniero. La

vendetta còrsa è penetrata in certi bassifondi e vi fa legge;

essa è tanto semplice che non stupisce neppure le anime

già mezzo rivolte verso il bene; e quei cuori sono così fatti

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che un colpevole avviato al pentimento può benissimo per

scrupolo trattenersi dal furto e non dalla vendetta. Valjean

aveva ucciso Javert; almeno, la cosa pareva evidente.

Ultimo quesito infine, a cui però non trovava risposta, e

che lo teneva afferrato come una morsa. Come mai

l'esistenza di Valjean era stata così a lungo vicino a quella

di Cosetta? Cos'era quel cupo gioco della Provvidenza che

aveva messo quella fanciulla a contatto con quell'uomo? Ci

sono dunque delle catene a due forgiate lassù, e Dio si

diletta ad accoppiare l'angelo col démone? Il delitto e

l'innocenza possono dunque essere compagni di camerata

nella misteriosa galera delle miserie? In quella sfilata di

condannati che si chiama il destino umano, possono

passare l'una vicino all'altra due fronti: l'una ingenua,

l'altra terribile, l'una bagnata dai sublimi candori dell'alba,

l'altra per sempre rabbrividente al bagliore d'un eterno

lampo? Chi aveva potuto determinare quell'inesplicabile

unione? In che maniera, in seguito a quale prodigio era

stata possibile una comunanza di vita tra quella celeste

piccina e quel vecchio dannato? Chi aveva potuto legare

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l'agnello al lupo, e, cosa più incomprensibile, il lupo

all'agnello?

Infatti il lupo amava l'agnello, la creatura selvaggia

adorava la creatura debole, e per nove anni l'angelo aveva

trovato il suo punto d'appoggio nel mostro. L'infanzia e

l'adolescenza di Cosetta, il suo sviluppo, il suo virgineo

progresso verso la luce e la vita erano stati protetti da

quell'affetto deforme.

E qui, i quesiti si sfogliavano, per così dire, in una serie

innumerevole di enigmi, gli abissi si spalancavano in fondo

agli abissi, e Mario non poteva più chinarsi verso Valjean

senza vertigine Cos'era dunque quell'uomo-precipizio?

Gli antichi simboli genesiaci sono eterni. Nella società

umana così com'è, fino al giorno in cui una maggior luce la

muterà, ci sono sempre due uomini, l'uno superiore, l'altro

sotterraneo; quello conforme al bene è Abele, quello

conforme al male è Caino.

Cos'era quel Caino affettuoso? Cos'era quel bandito

religiosamente assorto nell'adorazione d'una vergine, che

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aveva vegliato su lei, l'aveva allevata, custodita, resa

pregevole, circondandola, egli impuro, di purezza? Cos'era

quella cloaca che aveva venerato quell'innocenza al punto

da non comunicarle alcuna macchia?

Cos'era quel Valjean che forniva l'educazione a Cosetta?

Cos'era quella figura tenebrosa che aveva l'unica cura di

preservare da ogni ombra e da ogni nube il sorgere d'un

astro? Era quello il segreto di Valjean; ed era pure il

segreto di Dio.

Di fronte a questo duplice segreto, Mario indietreggiava.

L'uno in certo qual modo lo rassicurava dell'altro. In

quell'avventura, Dio era visibile quanto Valjean. Dio ha i

suoi strumenti, fa uso degli utensili che vuole, e non è

responsabile dinanzi all'uomo.

Sappiamo noi quale sia il suo metodo? Era incontestabile

che Valjean aveva lavorato attorno a Cosetta, aveva

cooperato a formare quell'anima. Ebbene, è così? L'artefice

era orribile, ma il lavoro mirabile. Dio, che produce i suoi

miracoli come gli piace, aveva costruito quella incantevole

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Cosetta usando di Valjean: gli era piaciuto scegliersi quello

strano collaboratore.

Che conto possiamo domandargli? E' forse la prima volta

che il letame aiuta la primavera a produrre la rosa?

Mario si dava tali risposte, dichiarando tra sé che erano

buone.

Su nessuno dei punti da noi ora indicati aveva osato

insistere con Valjean, senza per altro confessare a se

medesimo di non osare.

Adorava Cosetta, la possedeva e la trovava

splendidamente pura; ciò gli bastava. Di quali schiarimenti

aveva bisogno? Cosetta era una luce, e la luce ha forse

bisogno di essere illuminata? Egli aveva già tutto; che

poteva desiderare? Il tutto forse non basta?

Gli affari personali di Valjean non lo riguardavano.

Chinandosi sull'ombra fatale di quell'uomo, egli si

aggrappava alla solenne dichiarazione del miserabile: Io

non sono nulla per Cosetta. Dieci anni fa non sapevo che

lei esistesse.

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Valjean era un passante. Lo aveva detto lui stesso.

Ebbene, egli passava. Chiunque fosse, la sua parte era

terminata. Ad adempiere le funzioni di Provvidenza vicino a

Cosetta c'era lui ora, Mario.

Essa era venuta a rintracciare nell'azzurro il suo simile,

l'amante, lo sposo, il maschio celeste; involandosi, alata e

trasfigurata, essa si lasciava dietro sulla terra la sua vuota

e orribile crisalide, Valjean.

In qualunque ordine d'idee si aggirasse, Mario tornava

sempre a un certo orrore per Valjean. Orrore sacro, poiché,

come abbiamo accennato, egli sentiva in quell'uomo un

"quid divinum". Ma checché facesse e qualunque

attenuante cercasse, doveva sempre ricadere su questo

punto, che era un galeotto, vale a dire un essere che non

trova posto nemmeno nella scala sociale, essendo più giù

dell'ultimo gradino. Dopo l'ultimo degli uomini viene il

forzato, il quale, per così esprimerci, non è più per i vivi

nemmeno il prossimo. La società l'ha privato di tutta la

parte d'umanità che si può togliere a un uomo.

Quantunque democratico, nelle questioni penali Mario

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credeva ancora al sistema inesorabile, e aveva tutte le idee

della legge su coloro che la legge colpisce. Egli non aveva,

diciamolo pure, raggiunto tutti i progressi; non era ancora

pervenuto a distinguere tra quanto è scritto dall'uomo e

quanto è scritto da Dio, tra la legge e il diritto; non aveva

esaminato e pesato la facoltà che l'uomo si arroga di

disporre dell'irrevocabile e dell'irreparabile; la parola

"vendetta" non lo rivoltava. Gli sembrava naturale che

certe violazioni della legge scritta fossero seguite da pene

eterne, e accettava, come un portato della civiltà, la

dannazione sociale. Era ancora a quel punto, salvo ad

andare infallibilmente avanti più tardi, poiché il suo

carattere era buono e in fondo tutto fatto di progresso

latente.

In mezzo a tale ordine d'idee, Valjean gli appariva deforme

e ripugnante. Era il reprobo, il forzato: questa parola era

per lui come la tromba del giudizio; e dopo aver

considerato a lungo Valjean, il suo ultimo gesto era quello

di volgere altrove il capo. "Vade retro".

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Bisogna riconoscere che Mario - pur interrogando Valjean

al punto che questi gli aveva detto: "voi volete la mia

confessione" - non gli aveva mosso due o tre domande

decisive; e questo non già perché non gli si fossero

affacciate alla mente, ma perché ne aveva avuto paura. La

stamberga Jondrette? La barricata? Javert?

Chi sa fin dove sarebbero giunte le rivelazioni?

Valjean non sembrava un uomo da indietreggiare.

Chi sa se, dopo averlo spinto, Mario non avrebbe

desiderato trattenerlo?

Non è accaduto a tutti, in certe circostanze supreme, dopo

aver fatto una domanda, di turarci le orecchie per non

udire la risposta? Soprattutto quando si ama, accade di

commettere simili viltà. Non è prudente interrogare a

oltranza nelle situazioni sinistre, soprattutto quando il lato

indissolubile della nostra esistenza vi è fatalmente

implicato. Dalle spiegazioni disperate di Valjean poteva

balzar fuori qualche luce spaventosa, e chi sa se questa

non sarebbe rimbalzata anche su Cosetta? Chi sa se non

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sarebbe rimasta una specie d'infernale bagliore sulla fronte

di quell'angelo?

La zacchera di un fulmine è pur sempre fulmine. La fatalità

ha di queste solidarietà, nelle quali la stessa innocenza

s'infosca di delitto per la legge dei riflessi coloranti. I visi

più puri possono serbare pur sempre il riflesso d'una

orribile vicinanza. A torto o a ragione, Mario aveva avuto

paura. Ne sapeva già troppo.

Cercava di stordirsi anziché rischiararsi, e tutto smarrito,

portava via con sé Cosetta fra le braccia chiudendo gli

occhi su Valjean.

Quell'uomo era tenebra, tenebra vivente e terribile. Come

osare indagarne il fondo? Interrogare l'ombra è una cosa

spaventosa. Chi sa quale sarà la risposta? L'alba potrebbe

rimanerne oscurata per sempre.

In tale stato d'animo, il pensiero che colui da quel

momento avrebbe avuto un rapporto qualsiasi con Cosetta,

era per Mario una straziante perplessità. Ora si

rimproverava quasi di non aver mosso quelle domande

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formidabili, innanzi alle quali aveva indietreggiato, e da cui

sarebbe potuta scaturire una decisione implacabile e

definitiva. Gli sembrava d'essere stato troppo buono,

troppo dolce, diciamo la parola, troppo debole, e che quella

debolezza l'avesse trascinato a una concessione

imprudente.

S'era lasciato commuovere. Aveva avuto torto. Avrebbe

dovuto puramente e semplicemente respingere Valjean.

Costui rappresentava la parte del fuoco: egli avrebbe

dovuto farlo e sbarazzare di quell'uomo la sua casa. Era

irritato con se stesso e con la rapidità di quel vortice

d'emozioni che l'aveva assordato, accecato e trascinato.

Era insomma scontento di sé.

E ora come fare? Le visite di Valjean gli ripugnavano

profondamente. Perché quell'uomo in casa sua? Che ci

veniva a fare? E qui si stordiva, non voleva indagare, non

voleva approfondire, non voleva scrutare in se stesso.

Aveva promesso, s'era lasciato indurre a promettere.

Valjean aveva la sua promessa. Ebbene, anche con un

forzato, soprattutto con un forzato, si deve mantenere la

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parola. Tuttavia il suo primo dovere riguardava Cosetta.

Infine una ripugnanza, che dominava tutto, lo sconvolgeva.

Mario agitava nella mente tutte queste idee alla rinfusa,

passando dall'una all'altra, sconvolto da tutte. Di qui un

profondo turbamento, che non gli riuscì facile nascondere a

Cosetta. Ma l'amore è un talento, e Mario ci riuscì.

Del resto, senza scopo apparente, fece delle domande a

Cosetta, che era candida come la colomba e non

sospettava di nulla; le parlò dell'infanzia e della giovinezza

di lei, e si convinse sempre più che quel galeotto era stato

per Cosetta tutto quanto un uomo può essere di buono, di

paterno e di rispettabile. Quello che Mario aveva intravisto

e supposto era reale: quella sinistra ortica aveva amato e

protetto quel giglio.

Libro 8

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DECRESCENZA CREPUSCOLARE

1. LA STANZA A PIANTERRENO

L'indomani, sull'imbrunire, Valjean bussò alla porta di casa

Gillenormand. Lo accolse Basco, che si trovò nel cortile al

momento opportuno, come se avesse ricevuto qualche

ordine in proposito. Avviene talvolta di dire a un servo: -

State attento che verrà il signor tale.

Senza aspettare che Valjean gli si avvicinasse, Basco gli

rivolse la parola:

- Il signor barone m'ha incaricato di domandare al signore

se desidera andare di sopra o restare a basso.

- Resto a basso - rispose Valjean.

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Il servo, del resto perfettamente rispettoso, aprì l'uscio

della sala al pianterreno, dicendo: - Vado ad avvertire la

signora.

La stanza in cui entrò Valjean era un pianterreno a volta e

umido, che all'occorrenza serviva di cantina; dava sulla via,

aveva il pavimento di mattoni rossi, ed era male illuminato

da una finestra con le sbarre di ferro.

Non era una stanza di quelle troppo molestate dalla scopa:

la polvere vi si ammucchiava tranquillamente; la

persecuzione dei ragni non vi era organizzata e una bella

ragnatela, largamente distesa, nerissima e ornata di

mosche morte, disegnava una ruota sopra un vetro della

finestra. Piccola e bassa di soffitto, era occupata da un

mucchio di bottiglie vuote buttate in un angolo; le pareti

erano rivestite di un intonaco d'ocra gialla scrostato in

molti punti; nel fondo, c'era un caminetto di legno dipinto

in nero, con la mensola stretta, nel quale ardeva il fuoco;

ciò che indicava come si fosse fatto assegnamento sulla

risposta di Valjean: "Resto a basso".

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Due poltrone erano collocate ai due angoli del caminetto, e

tra esse era steso, come tappeto, un vecchio scendiletto

che mostrava più corda che lana.

La stanza era illuminata dal fuoco del caminetto e dalla

luce del crepuscolo che filtrava attraverso la finestra.

Valjean era stanco; da parecchi giorni non mangiava né

dormiva. Si lasciò cadere su una poltrona.

Basco ritornò, pose sul camino una candela accesa e si

ritirò, senza che Valjean, con la testa china e il mento sul

petto, si accorgesse né di lui né del lume.

A un tratto si rizzò come di soprassalto. Cosetta gli era

dietro.

Non l'aveva vista, ma l'aveva sentita entrare Si volse, la

guardò. Era adorabilmente bella: però, ciò che egli

guardava, con quello sguardo profondo, non era la

bellezza, ma l'anima.

- Benissimo! bella idea! - esclamò Cosetta. - Sapevo che

eravate strano, papà, ma questa non me la sarei aspettata

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mai più. Mario m'ha detto che siete voi a volere che io vi

riceva qui.

- Sì, sono io.

- Prevedevo la risposta. Preparatevi ora: vi prevengo che

sto per farvi una scena. Cominciamo dal principio; papà,

baciatemi.

E gli porse la guancia.

Valjean rimase immobile.

- Vedo che non vi muovete: contegno da colpevole. Ma non

importa, vi perdono. Gesù Cristo ha detto: "Porgete l'altra

guancia".

Eccola.

E gli presentò l'altra guancia.

Valjean non si mosse; pareva che i suoi piedi fossero

inchiodati al suolo.

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- La faccenda si fa seria - disse Cosetta. - Che vi ho fatto?

Mi dichiaro imbronciata. Ora dovete meritarvi la

riconciliazione.

Pranzerete con noi.

- Ho già pranzato.

- Non è vero. Vi farò sgridare dal nonno; i nonni sono fatti

apposta per correggere i genitori. Su via, salite con me nel

salotto. Subito.

- Impossibile.

Qui Cosetta perse terreno: smise di comandare e passò

alle domande.

Ma perché? E scegliete per vedermi la più brutta stanza

della casa! E' orribile qui.

- Tu sai... - Valjean si corresse:

- Voi sapete, signora, che ho le mie idee, le mie ubbie.

Cosetta batté le piccole mani l'una contro l'altra.

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- Signora!... voi sapete!... ecco altre novità! Che vuol dire?

Valjean le rivolse quel sorriso straziante al quale ricorreva

talvolta.

- Avete voluto essere signora, e lo siete.

- Ma non per voi, papà.

- Non chiamatemi più papà.

- Come?

- Chiamatemi signor Giovanni o, se volete, Giovanni.

- Non siete più il mio papà? Non sono più Cosetta? signor

Giovanni? Cosa vuol dire tutto ciò? Ma sono rivoluzioni,

queste!

che è successo dunque? guardatemi un momento in faccia.

E non volete abitare con noi! E non ne volete sapere della

mia camera!

Che vi ho fatto? C'è dunque qualche cosa?

- Nulla.

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- Ma, e allora?

- Tutto va come al solito.

- Perché cambiate nome?

- L'avete ben cambiato, voi!

Sorrise di nuovo e aggiunse con lo stesso sorriso:

- Poiché voi vi chiamate signora Pontmercy, io posso ben

chiamarmi signor Giovanni.

- Non ci capisco niente. Tutto è idiota. Domanderò a mio

marito il permesso che diventiate il signor Giovanni, e

spero che non consentirà. Voi mi affliggete molto. Potete

avere delle ubbie, ma non dovete per questo affliggere la

vostra piccola Cosetta. Non va bene. Non avete il diritto

d'essere cattivo, voi che siete buono.

Egli non rispose.

Lei gli afferrò con impeto le mani, e alzandole con un moto

irresistibile fino al proprio volto, se le strinse, gesto di

profonda tenerezza, sul collo e sul mento.

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- Oh! - disse, - siate buono!

E proseguì:

- Ecco ciò che io chiamo essere buono: mostrarsi

compiacente, venire ad abitare qui dove ci sono degli

uccelli come in via Plumet, vivere con noi, lasciare quel

buco di via Homme-Armé; riprendere le nostre belle

passeggiatine, non darci delle sciarade da indovinare,

essere come tutti, pranzare con noi, far colazione con noi,

essere mio padre.

E gli lasciò libere le mani.

- Ora non avete più bisogno di padre, avete un marito.

Cosetta andò in collera:

- Non ho più bisogno di padre! A sentir queste cose che

non hanno senso, davvero non si sa che rispondere!

- Se fosse qui la Toussaint - riprese Valjean come uno che

è ridotto a invocare l'autorità altrui e si attacca a tutte le

ramaglie - sarebbe la prima a convenire che ho sempre

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avuto le mie abitudini particolari. Non c'è niente di nuovo.

Ho sempre amato il mio cantuccio oscuro.

- Ma qui fa freddo e non ci si vede chiaro. E' una cosa

abominevole il volersi far chiamare signor Giovanni. Non

voglio che mi diate del voi.

- Poc'anzi venendo qui - riprese Valjean - ho visto nella

bottega d'un ebanista, in via San Luigi, un mobile che, se

fossi una bella donna, vorrei avere per me. E' una bella

toletta di forma moderna, di quello che chiamate, credo,

legno rosa, tutta intarsiata, con uno specchio abbastanza

grande. Ha pure i cassetti. E' graziosa.

- Uh! brutto orso! - rispose Cosetta.

E con una gentilezza squisita, stringendo i denti e

staccando le labbra, soffiò contro Valjean: era una grazia

che imitava una gatta.

- Sono furiosa - riprese. - Da ieri mi fate tutti arrabbiare, e

io mi arrovello. Non capisco: voi non mi difendete contro

Mario, Mario non mi sostiene contro di voi; sono sola.

Preparo una bella camera; se avessi potuto metterci il

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buon Dio, ce lo avrei messo; ed ecco che mi lasciano la

camera vuota: il mio inquilino fa bancarotta. Ordino a

Nicoletta un buon pranzetto: - Signora, non vogliono il

vostro pranzo. - E il mio papà Fauchelevent pretende che

io lo chiami Giovanni, e che lo riceva in una vecchia e

brutta cantina ammuffita dove le pareti hanno la barba, e

per cristalli ci sono le bottiglie vuote e per tendine le

ragnatele! Voi siete strano ne convengo, è la vostra

specialità, ma si deve concedere un po' di tregua agli sposi

novelli. Non avreste dovuto ricominciare così presto a

essere strano. Ve ne andate a vivere tutto contento nella

vostra orribile via Homme-Armé. Io invece ci sono stata

tanto disperata! Che avete contro di me? Mi fate molta

pena. Vergogna!

E diventando d'un tratto seria, guardò fisso Valjean e

aggiunse:

- Vi dispiace dunque che io sia felice?

Talvolta l'ingenuità, a sua insaputa, colpisce molto

addentro.

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Questa domanda, semplice per Cosetta, era profonda per

Valjean.

Essa aveva voluto soltanto graffiare e invece lacerava.

Valjean impallidì, rimase un istante senza rispondere; poi,

con un tono inesprimibile e parlando a se stesso, mormorò:

- La tua felicità era lo scopo della mia vita. Ora Dio può

firmarmi il biglietto d'uscita. Tu sei felice, Cosetta; il mio

compito è finito.

- Ah! m'avete detto tu! - esclamò Cosetta.

E gli saltò al collo.

Valjean, fuori di sé, se la strinse al petto tutto smarrito. Gli

parve quasi di riprendersela.

- Grazie, papà! - gli disse Cosetta.

Il trasporto minacciava di diventare straziante per Valjean,

il quale staccatosi dolcemente dalle braccia di Cosetta,

prese il cappello.

- Ebbene? - chiese lei.

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Egli rispose:

- Vi lascio, signora, siete attesa E dal limitare della stanza

aggiunse:

- Vi ho dato del tu. Dite a vostro marito che questo non mi

accadrà più. Perdonatemi.

E uscì, lasciando Cosetta attonita per quell'enigmatico

addio.

2. ALTRI PASSI INDIETRO

Il giorno seguente, Valjean tornò alla stessa ora.

Cosetta non gli fece domande, non si stupì più, non

protestò di sentir freddo, non parlò più del salotto; evitò

tanto di dire papà quanto signor Giovanni, si lasciò dare del

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voi, si lasciò chiamare signora. Sennonché c'era in lei una

certa diminuzione di gioia; e sarebbe stata triste, se la

tristezza le fosse stata possibile.

E' probabile che avesse avuto con Mario uno di quei

colloqui, in cui l'uomo amato dice quello che vuole, non

spiega nulla e accontenta la donna amata. La curiosità

degli innamorati non si spinge mai molto lontano dal loro

amore.

La stanza al pianterreno aveva fatto un po' di toletta!

Basco aveva portato via le bottiglie e Nicoletta le ragnatele.

Tutti i giorni che seguirono Valjean ritornò alla stessa ora.

Tornò ogni giorno, non avendo la forza di prendere le

parole di Mario se non alla lettera. Dal canto suo, Mario si

regolò in modo da essere sempre assente nelle ore in cui

veniva Valjean. La casa si abituò al nuovo contegno di

Fauchelevent, e la Toussaint vi contribuì ripetendo: - ll

signore è sempre stato così. - Il nonno diede questa

sentenza: - E' un originale, - e se ne accontentò.

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D'altronde a novant'anni non ci sono più nuovi legami

possibili; tutto è sovrapposizione, e un nuovo venuto è un

fastidio. Non c'è più posto: le abitudini sono ormai

radicate; e papà Gillenormand non chiese nulla di meglio

che essere dispensato da quel signor Fauchelevent o

Tranchelevent, aggiungendo: - Non c'è cosa più comune di

siffatti originali, che commettono ogni sorta di bizzarrie.

Quanto ai motivi, zero. Il marchese di Canaples faceva di

peggio; comprò un palazzo per abitarne il solaio. Sono

fantasie.

Nessuno sospettò il tragico che c'era sotto. Chi, del resto

avrebbe potuto sospettare una cosa simile? Ci sono dei

curiosi pantani nell'India: l'acqua sembra straordinaria,

inesplicabile, fremente mentre non c'è vento, agitata

mentre dovrebbe essere calma: si vedono alla superficie

quei subbollimenti senza causa, ma non l'idra che striscia

sul fondo.

Molti uomini hanno un mostro segreto, un male che

nutrono, un drago che li rode, una disperazione che abita

la loro notte. Un uomo siffatto rassomiglia agli altri, si

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muove come gli altri; e nessuno sa che c'è in lui un

tremendo dolore parassita dai mille denti, che vive in quel

miserabile e lo uccide; nessuno sa che quell'uomo è una

voragine, stagnante, ma profonda. Ogni tanto si nota alla

sua superficie un turbamento del quale non si capisce

niente. Una ruga misteriosa si forma, poi svanisce, poi

ricompare; una bolla d'aria sale e scoppia. Poca cosa, ma

terribile: è la respirazione del mostro ignoto.

Certe abitudini strane, arrivare quando gli altri partono,

nascondersi quando gli altri si mettono in vista, conservare

in ogni occasione quello che potrebbe chiamarsi il mantello

color del muro, cercare il viale solitario, preferire la via

deserta, non prendere parte alla conversazione, evitare le

folle e le feste, sembrare agiato e vivere meschinamente,

avere, pur essendo ricco, la chiave di casa in tasca e la

candela del portinaio, entrare dalla porta di servizio, salire

per la scala segreta: tutte queste stranezze insignificanti,

rughe, bolle d'aria, striature momentanee alla superficie,

derivano spesso da un fondo terribile.

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Passarono così parecchie settimane. A poco a poco

un'esistenza nuova s'impadronì di Cosetta. Le relazioni

sorte dal matrimonio, le visite, le cure della casa e quegli

importanti affari che sono i piaceri. I suoi piaceri non erano

costosi: consistevano in uno solo: stare con Mario. Uscire

con lui, rimanere con lui, ecco la grande occupazione della

sua vita. Era per essi una gioia sempre nuova andar fuori a

braccetto, alla luce del sole, nella pubblica via, senza

celarsi, in presenza di tutti, loro due soli. Cosetta provò

una contrarietà: la Toussaint non poté andar d'accordo con

Nicoletta, essendo riuscito impossibile l'amalgama delle

due vecchie zitelle, e se ne andò. Il nonno stava bene;

Mario ogni tanto difendeva qualche causa, e la zia

Gillenormand conduceva pacificamente presso la nuova

coppia quell'esistenza laterale che le bastava.

Valjean veniva tutti i giorni.

Il tu sparito, il voi, il signora, il signor Giovanni lo

rendevano diverso per Cosetta; e la cura che egli metteva

a staccarla da sé otteneva effetto. Lei era sempre più gaia

e sempre meno affettuosa; eppure gli voleva sempre molto

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bene, ed egli se ne accorgeva. Un giorno gli disse a un

tratto: - Voi eravate mio padre e non siete più mio padre,

eravate mio zio e non siete più mio zio, eravate il signor

Fauchelevent e ora siete Giovanni. Chi siete dunque? Tutto

questo non mi va. Se non vi conoscessi così buono, avrei

paura di voi.

Egli continuò ad abitare in via Homme-Armé, giacché non

riusciva a decidersi ad allontanarsi dal quartiere in cui

dimorava Cosetta.

Nei primi tempi si tratteneva con lei soltanto alcuni minuti

e se ne andava.

Poi, a poco a poco, prese l'abitudine di far le visite meno

brevi.

Sembrava che approfittasse dell'autorizzazione delle

giornate che si allungavano; giungeva più presto e ripartiva

più tardi.

- Un giorno a Cosetta capitò di chiamarlo papà. Un lampo

di gioia rischiarò il volto cupo di Valjean, il quale tuttavia la

riprese:

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- Dite Giovanni.

- Ah! è vero, - essa rispose con uno scoppio di risa, -

signor Giovanni.

Così va bene - disse egli, e si voltò perché lei non lo

vedesse asciugarsi gli occhi.

3. SI RICORDANO DEL GIARDINO DI VIA PLUMET

Fu l'ultima volta. Dopo l'ultimo barlume, fu l'estinzione

completa. Non più familiarità, non più il buongiorno con un

bacio, non più quella parola così profondamente dolce:

papà! A sua richiesta e con la sua complicità, era

successivamente scacciato da tutte le sue felicità; e sentiva

quell'angoscia d'avere perduto Cosetta, prima, tutta intera,

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in un sol giorno, poi di riperderla lentamente, ma

inesorabilmente, di giorno in giorno.

L'occhio finisce con l'abituarsi alla luce dei sotterranei.

Tutto sommato, vedere ogni giorno Cosetta gli bastava. La

sua vita si concentrava esclusivamente in quell'ora; si

sedeva accanto a lei, la guardava in silenzio, oppure si

parlava dei tempi addietro, dell'infanzia, del convento,

delle sue piccole amiche d'allora.

Un pomeriggio - era una delle prime giornate d'aprile, già

calda e ancora fresca, il momento della gran gioia del sole,

i giardini dominati dalle finestre di Mario e Cosetta avevano

l'emozione del risveglio, i biancospini cominciavano a

spuntare, la gioielleria delle viole era in mostra sui vecchi

muri, le rosee corolle si schiudevano fra le commessure

delle pietre, nell'erba si vedeva un grazioso sbocciar di

margherite e di ranuncoli gialli, le farfalle bianche del

nuovo anno facevano la loro apparizione, e il vento, questo

menestrello delle nozze eterne, tentava fra gli alberi le

prime note di quella gran sinfonia aurorale, che gli antichi

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poeti chiamavano la stagione nuova - un pomeriggio Mario

disse a Cosetta:

- Abbiamo detto che saremmo andati a rivedere il nostro

giardino di via Plumet. Andiamoci. Non dobbiamo essere

ingrati. - E presero il volo come due rondini verso la

primavera. Quel giardino di via Plumet rappresentava per

essi quasi l'alba; s'erano già lasciato indietro nella vita

qualcosa che era come la primavera del loro amore. La

casa di via Plumet, data a pigione, apparteneva tutta a

Cosetta. Andarono in quel giardino e in quella casa e ci si

ritrovarono, ci si dimenticarono. Quando la sera, all'ora

solita, Valjean si presentò in via Figlie del Calvario, Basco

gli disse: - La signora è uscita col signore e non è ancora

tornata. - Egli sedette in silenzio e aspettò un'ora; ma

Cosetta non rientrò.

Allora egli chinò la testa e se ne andò.

Cosetta era tanto inebriata della sua passeggiata al "loro

giardino", così giuliva d'aver "vissuto un giorno intero del

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passato" che l'indomani non parlò d'altro, e non si accorse

neppure di non aver visto Valjean.

- In che modo vi siete recati laggiù? - le chiese.

- A piedi.

- E come siete tornati?

- Con una vettura pubblica.

Da qualche tempo, Valjean notava la vita ristretta che

conduceva la giovane coppia, e ne era preoccupato.

L'economia di Mario era severa, e tale espressione per

Valjean aveva il significato assoluto. Egli arrischiò una

domanda.

- Perché non tenete una carrozza vostra? Un grazioso cupé

non vi costerebbe che cinquecento franchi al mese, e voi

siete ricchi.

- Non so - rispose Cosetta.

- E così pure per la Toussaint - egli riprese. - Da quando

s'è licenziata, non l'avete ancora sostituita. Perché?

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- Nicoletta basta.

- Ma vi occorrerebbe una cameriera.

- Non ho Mario?

- Dovreste formare una casa vostra, con domestici vostri,

una carrozza, il palchetto a teatro. Non c'è niente di troppo

bello per voi. Perché non approfittate della vostra

ricchezza? Essa accrescerebbe la vostra felicità.

Cosetta non rispose.

Le visite di Valjean non s'accorciavano; anzi. Quando il

cuore scivola, non ci si ferma sul pendio.

Se Valjean voleva prolungare la visita e far dimenticare

l'ora, si metteva a tessere l'elogio di Mario: lo trovava

bello, nobile, coraggioso, spiritoso, eloquente, buono.

Cosetta rincarava la dose, egli tornava da capo, e non

finivano più. Mario era un tema inesauribile; interi volumi

si contenevano in quelle cinque lettere. Così gli riusciva di

restare a lungo. Era così dolce per lui vedere Cosetta e

dimenticare tutto, accanto a lei! Era la medicina della sua

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ferita. Accadde parecchie volte che Basco andò a dire a due

riprese: - Il signor Gillenormand mi manda a ricordare alla

signora baronessa che il pranzo è servito.

In quei giorni Valjean tornava a casa molto pensieroso.

C'era del vero dunque nella similitudine della crisalide che

s'era presentata alla mente di Mario? Era veramente

Valjean una crisalide che si ostinava ad andare a visitare la

sua farfalla?

Un giorno si trattenne ancor più del solito. L'indomani notò

che non c'era fuoco nel caminetto.

- Guarda, non c'è fuoco - pensò. E dette a se stesso questa

spiegazione: - E' naturale; siamo in aprile, e non fa più

freddo.

- Mio Dio, come fa freddo qui! - esclamò Cosetta entrando.

- Ma no - rispose Valjean.

- Siete stato voi che avete detto a Basco di non accendere?

- Sì. A momenti siamo in maggio.

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- Ma si accende fino a giugno. In questa cantina poi, ci

vuole tutto l'anno.

- Ho creduto che fosse inutile.

- Un'idea delle vostre! - essa riprese.

L'indomani il fuoco era acceso; ma le due poltrone erano

collocate all'altra estremità della stanza, presso la porta.

- Cosa significa questo? - pensò Valjean.

Prese le poltrone e le rimise al solito posto, accanto al

camino.

Tuttavia quel fuoco riacceso l'incoraggiò, e protrasse il

colloquio anche più del solito. Mentre si alzava per

andarsene, Cosetta gli disse:

- Mio marito mi ha detto una cosa curiosa ieri.

- Quale?

- Mi disse: - Cosetta, noi abbiamo trentamila franchi di

rendita; ventisette tuoi e tre che mi ha assegnato il nonno.

Io risposi: - Così sono trenta. - Egli riprese: - Avresti il

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coraggio di vivere coi soli tremila? - Io risposi: - Sì, anche

con nulla, purché sia con te. - E a mia volta gli chiesi:

Perché mi dici questo? - Così per sapere - mi rispose.

Valjean non trovò una parola da dire. Probabilmente

Cosetta si aspettava da lui qualche spiegazione; ma egli

l'ascoltò in un cupo silenzio. Ritornò in via Homme-Armé,

ma era così profondamente assorto, che sbagliò uscio e

invece di entrare in casa sua, entrò in quella vicina. Solo

dopo aver salito due piani si avvide dell'errore e ridiscese.

La sua mente era piena di congetture. Evidentemente

Mario aveva dei dubbi sull'origine dei seicentomila franchi,

temeva qualche sorgente impura, fors'anche, chi sa? aveva

scoperto che quel denaro proveniva da lui, ed esitava, e gli

ripugnava accettare come sua quella ricchezza sospetta,

preferendo rimanere povero con Cosetta, anziché essere

ricco d'una ricchezza equivoca.

Inoltre, Valjean cominciava a sentirsi messo alla porta.

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Il giorno seguente, entrando nella stanza al pianterreno

provò quasi una scossa; le poltrone erano scomparse e non

c'era neppure una sedia.

- Come! - esclamò Cosetta che sopraggiungeva, - le

poltrone? Dove sono le poltrone?

- Non ci sono più - rispose Valjean.

- Questa è grossa!

Egli balbettò:

- Sono stato io che ho detto a Basco di portarle via.

- E il motivo?

- Non mi trattengo che pochi minuti oggi.

- Restare per poco non è una ragione per stare in piedi.

- Credo che Basco avesse bisogno delle poltrone per il

salotto.

- Perché?

- Certo, stasera avrete gente.

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- Non abbiamo nessuno.

Valjean non seppe aggiungere altro. Cosetta alzò le spalle.

- Far togliere le poltrone! L'altro giorno faceste spegnere il

fuoco. Come siete bizzarro!

- Addio - mormorò Valjean.

Non disse: - Addio, Cosetta. - Ma non ebbe il coraggio di

dire: - Addio signora.

Uscì abbattuto.

Questa volta aveva compreso.

L'indomani non venne. Cosetta lo notò soltanto la sera.

- Guarda! - disse - il signor Giovanni non è venuto oggi.

Provò una profonda stretta al cuore; ma la sentì appena,

subito distratta da un bacio di Mario.

Il giorno dopo, non venne.

Cosetta non ci badò: passò la serata e dormì la notte come

al solito, e ci pensò solo svegliandosi. Era tanto felice!

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Mandò subito Nicoletta dal signor Giovanni per sapere se

era malato, e perché non era venuto la sera prima.

Nicoletta riferì la risposta del signor Giovanni: non era

malato, ma occupato; sarebbe venuto presto, più presto

che poteva; del resto, doveva fare un piccolo viaggio; la

signora doveva ricordarsi che egli aveva l'abitudine di fare

dei viaggi di quando in quando. Non doveva avere nessuna

inquietudine e non si doveva preoccupare per lui.

Nicoletta, entrando dal signor Giovanni, gli aveva ripetuto

le precise parole della sua padrona: la signora mandava a

chiedere "perché il signor Giovanni non era venuto il giorno

prima".

- Sono due giorni che non vengo, - egli notò con dolcezza.

Ma l'osservazione sfuggì a Nicoletta, che non la riferì a

Cosetta.

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4. ATTRAZIONE ED ESTINZIONE

Durante gli ultimi mesi della primavera e i primi dell'estate

del 1833 i rari passanti del Marais, i bottegai, gli oziosi che

erano sulla soglia notavano un vecchio, vestito

passabilmente di nero, che ogni giorno, verso la stessa ora,

sull'imbrunire, usciva dalla via Homme-Armé dal lato della

via Sainte-Croix-de-la-Bretonnerie, oltrepassava la via

Blancs-Manteaux, raggiungeva la via Culture- Sainte-

Catherine, arrivava a quella dell'Echarpe, voltava a sinistra

ed entrava nella via San Luigi.

Là, camminava a passi lenti, con la testa in avanti, senza

vedere nulla, senza sentire nulla, con lo sguardo

immutabilmente fisso su un punto sempre identico, che a

lui pareva stellato: l'angolo della via Figlie del Calvario.

Più s'avvicinava a quell'angolo di via, più il suo occhio si

rischiarava; una gioia simile a un'aurora interna gli

illuminava le pupille; il suo aspetto diventava affascinato e

commosso; le sue labbra avevano dei movimenti strani,

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quasi parlasse a qualcuno che non vedeva; sorrideva

vagamente e andava avanti più lentamente che poteva.

Sembrava che, pur desiderando d'arrivare, avesse paura

del momento in cui si sarebbe trovato là vicino. Quando

non rimaneva più che qualche casa fra lui e la via che

sembrava attirarlo, rallentava tanto il passo che in certi

momenti pareva non camminasse neppure. Il vacillare del

capo e la fissità dello sguardo facevano pensare all'ago che

cerca il polo. Ma per quanto si impegnasse a ritardare

l'arrivo, doveva pur arrivare; egli raggiungeva la via Figlie

del Calvario, e allora si fermava tremando, sporgeva la

testa con una certa cupa timidezza oltre la cantonata

dell'ultima casa, e guardava nella via; in quel suo tragico

sguardo c'era qualcosa che somigliava al barbaglio

dell'impossibile e al riverbero d'un paradiso chiuso. Poi una

lacrima formatasi a poco a poco nell'angolo delle palpebre,

divenuta abbastanza grossa per cadere, scivolava sulla

gota e qualche volta si fermava alla bocca, sicché il vecchio

ne sentiva l'amaro sapore. Rimaneva così alcuni minuti

come se fosse diventato una statua di pietra; poi se ne

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tornava per la stessa via, con lo stesso passo, e mentre si

allontanava, lo sguardo si spegneva.

A poco a poco, quel vecchio smise di spingersi fino

all'angolo della via Figlie del Calvario, fermandosi a metà

strada nella via San Luigi, ora un po' più innanzi, ora un

po' più indietro. Un giorno si fermò all'angolo della via

Culture-Sainte-Catherine e guardò da lontano quella delle

Figlie del Calvario; quindi, scuotendo silenziosamente il

capo da destra a sinistra, come se negasse a se stesso

qualcosa, tornò indietro.

Ben presto non raggiunse più nemmeno la via San Luigi:

arrivava fino alla via Pavée, dimenava la testa e se ne

tornava; poi non andò più in là della via dei Trois-Pavillons;

poi non oltrepassò più quella dei Blancs-Manteaux.

Sembrava il pendolo d'un orologio non ricaricato, che

accorcia man mano le sue oscillazioni in attesa di fermarsi.

Ogni giorno usciva di casa alla stessa ora e cominciava lo

stesso tragitto, ma non lo compiva più, e, forse senza

avvedersene, l'abbreviava sempre un poco. Il suo volto

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esprimeva questa unica idea: A che pro? La pupilla era

spenta; più nessun lampo; anche la lacrima era essiccata e

non si raccoglieva più nell'angolo delle palpebre; il suo

occhio pensoso era asciutto. La testa era sempre in avanti,

il mento talvolta s'agitava, le pieghe del suo magro collo

facevano pena. Qualche volta, quando il tempo era cattivo,

portava sotto il braccio un ombrello che non apriva. Le

donnette del quartiere dicevano: - E' uno scemo.

E i ragazzi lo seguivano ridendo.

Libro 9

OMBRA SUPREMA, SUPREMA AURORA

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1. PIETA' PER GLI INFELICI, MA INDULGENZA PER I

FELICI

E' una cosa terribile, essere felice! Come ci si accontenta!

Come ci pare che basti! E come in possesso del falso scopo

della vita che è la felicità, si dimentica il vero scopo che è il

dovere!

Tuttavia, avremmo torto ad accusare Mario.

Abbiamo già spiegato che Mario, prima del suo matrimonio,

non aveva rivolto domande al signor Fauchelevent e, dopo,

aveva temuto di rivolgerne a Valjean. Aveva rimpianto la

promessa sfuggitagli, e molte volte s'era ripetuto che

aveva avuto torto nel fare quella concessione alla

disperazione. S'era limitato ad allontanare Valjean a poco a

poco dalla sua casa e a cancellarlo il più possibile dalla

mente di Cosetta. Si era in certo modo frapposto sempre

tra Cosetta e Valjean, sicuro che così lei, non vedendolo,

non ci avrebbe pensato. Più che una cancellazione, era

un'eclisse.

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Mario agiva come riteneva necessario e giusto.

Per allontanare Valjean senza durezza ma senza debolezza,

credeva di avere dei motivi seri che abbiamo già visto e

altri che vedremo in seguito. Il caso gli aveva fatto

incontrare, in una causa da lui patrocinata, un antico

commesso della banca Laffitte, dal quale aveva

avuto,senza chiederle, alcune misteriose informazioni, che

in verità non aveva potuto approfondire, sia per rispetto a

quel segreto che aveva promesso di custodire, sia per

riguardo alla situazione pericolosa di Valjean. Credeva

allora di avere un grave dovere da compiere: restituire i

seicentomila franchi a qualcuno di cui andava in traccia con

quanto maggior riserbo poteva. Frattanto si asteneva dal

toccare quel denaro.

Quanto a Cosetta, non era a conoscenza di alcuno di quei

segreti.

Da Mario a lei veniva un magnetismo onnipotente, che le

faceva fare per istinto e quasi automaticamente tutto ciò

che egli desiderava. Essa sentiva, nei riguardi del "signor

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Giovanni", una volontà del marito, e vi si uniformava.

Senza che egli le dicesse nulla in proposito, subiva la

pressione vaga ma chiara delle tacite intenzioni di lui e

obbediva ciecamente. L'obbedienza in questo caso

consisteva solo nel non ricordarsi di quanto egli

dimenticava; né aveva bisogno di alcuno sforzo per questo.

Senza neppure sapere il perché, e non c'è motivo di

accusarla, la sua anima era tanto immedesimata con quella

del marito, che quanto si copriva d'ombra nella mente di

Mario, si oscurava nella sua.

Non andiamo però in fretta. Per quanto concerne Valjean,

quell'oblio e quella cancellazione erano soltanto

superficiali:

essa era più stordita che dimentica. In fondo, amava molto

l'uomo che per tanto tempo aveva chiamato suo padre, ma

amava ancor più suo marito. Questo aveva un po' falsato la

bilancia del suo cuore, pendente da un sol lato.

Qualche volta Cosetta parlava di Valjean e si stupiva. Allora

Mario la calmava: - E' assente, credo. Non disse che

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partiva per un viaggio? - E' vero - lei pensava; - aveva

l'abitudine di sparire così, ma non tanto a lungo. - Mandò

due o tre volte Nicoletta in via Homme-Armé a informarsi

se il signor Giovanni fosse tornato dal suo viaggio; ma

Valjean fece rispondere di no.

Cosetta non chiese di più. Una sola cosa al mondo le era

necessaria: Mario.

Diciamo pure che dal canto loro Mario e Cosetta erano stati

assenti: erano andati a Vernon, dove Mario aveva condotto

Cosetta alla tomba di suo padre.

A poco a poco, Mario aveva sottratto Cosetta a Valjean, e

lei aveva lasciato fare.

Del resto, quella che in certi casi con eccessiva durezza si

chiama l'ingratitudine dei figli, non è sempre una cosa

tanto riprovevole quanto si crede. E' l'ingratitudine della

natura, la quale, l'abbiamo detto altrove, "guarda davanti a

sé". La natura divide gli esseri viventi in quelli che arrivano

e quelli che partono, questi rivolti verso l'ombra, gli altri

verso la luce.

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Quindi un distacco, che dal lato dei vecchi è fatale, e da

quello dei giovani è involontario. Questo distacco,

dapprima insensibile, poi s'accresce lentamente, come ogni

separazione di rami, i quali senza staccarsi dal tronco se ne

allontanano. Non è colpa loro; la giovinezza va dov'è la

gioia, verso le feste, gli splendori, l'amore; la vecchiaia va

verso la fine; non si perdono di vista, ma non sono più

stretti insieme. I giovani sentono il raffreddamento della

vita, i vecchi quello della tomba. Non accusiamo quei

poveri figlioli.

2. ULTIME PALPITAZIONI DELLA LAMPADA SENZA

OLIO

Un giorno Valjean scese le scale, fece tre passi nella via,

sedette su un pilastrino, quello stesso su cui Gavroche lo

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aveva trovato pensieroso la notte dal 5 al 6 giugno; vi si

trattenne alcuni minuti, poi risalì. Fu l'ultima oscillazione

del pendolo.

L'indomani non uscì di casa; il terzo giorno non si alzò dal

letto.

La portinaia, che gli preparava il magro pasto, un po' di

cavoli o di patate con un po' di lardo, dopo aver guardato

nella scodella di cretaglia, esclamò:

- Ma voi non avete mangiato, poveretto!

- Ma sì - rispose Valjean.

- La scodella è ancora piena.

- Osservate la brocca dell'acqua; è vuota.

- Questo dimostra che avete bevuto, ma non che avete

mangiato.

- Ebbene, - replicò Valjean - se ho avuto fame soltanto di

acqua?

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- Questa si chiama sete e quando nello stesso tempo non si

mangia, si chiama febbre.

- -Mangerò domani.

- O il giorno della Trinità! E perché non oggi? Ma si può

dire:

mangerò domani? Lasciare lì il mio piatto senza toccarlo!

La mia zuppetta che era tanto buona!

Valjean prese la mano della vecchia, e le disse con la sua

voce affabile:

- Vi prometto di mangiarla.

- Non sono contenta di voi - rispose la portinaia.

Egli non vedeva nessuna creatura umana fuorché quella

donna. Ci sono a Parigi delle vie in cui nessuno passa e

delle case in cui nessuno entra; ed egli era appunto in una

di quelle vie e di quelle case.

Quando usciva ancora, aveva comprato da un calderaio,

per pochi soldi, un piccolo crocifisso di rame, che aveva

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appeso a un chiodo in faccia al letto. E' sempre bene avere

sott'occhio quel patibolo.

Passò una settimana senza che Valjean facesse un passo

nella stanza; era sempre coricato. La portinaia diceva a suo

marito:

Quel buon uomo di sopra non si alza più, non andrà molto

lontano.

Certo, ha dei dispiaceri. Nessuno mi toglie di testa che sua

figlia sia mal maritata.

Il portinaio rispose con l'accento della sovranità maritale:

- Se è ricco, chiami un medico. Se non è ricco, ne faccia a

meno.

Se non viene il medico, morirà.

- E se viene?

- Morirà - rispose il marito.

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La donna si mise a grattare con un vecchio coltello l'erba

che spuntava in quello che chiamava il suo selciato, e

mentre strappava l'erba borbottava:

- E' un peccato; un vecchio così pulito! E' bianco come un

pollo.

E vedendo un medico del rione che passava in fondo alla

via, lo pregò di andare di sopra.

- E' al secondo piano - gli disse. - Entrate senz'altro:

siccome il vecchio non si muove da letto, la chiave è

sempre nella toppa.

Il medico vide Valjean e gli parlò.

Quando ridiscese, la portinaia lo interrogò:

- Ebbene; signor dottore?

- Il vostro ammalato sta molto male.

- Cos'ha?

- Tutto e nulla. A quanto pare, quell'uomo ha perduto una

persona cara; e di questo, si muore.

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- Che vi ha detto?

- M'ha detto che sta bene.

- Ritornerete, signor dottore?

Sì - rispose il medico. - Ma sarebbe necessario che

ritornasse qualcun altro.

3. A CHI SOLLEVO' IL CARRO Dl FAUCHELEVENT PESA

UNA PENNA

Una sera Valjean durò fatica sollevarsi sul gomito; si prese

la mano e non trovò il polso; aveva il respiro corto e

intermittente; riconobbe di essere più debole che mai, e

allora, sotto la pressione di una preoccupazione suprema,

fece uno sforzo, si rizzò a sedere e si vestì, indossando i

suoi vecchi abiti da operaio. Da quando non usciva più, li

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aveva ripigliati e li preferiva. Dovette sostare parecchie

volte, vestendosi; per infilare le maniche della giacchetta, il

sudore gli scorreva dalla fronte.

Da quando era solo, aveva trasportato il letto

nell'anticamera, per occupare meno che poteva

quell'appartamento deserto.

Aprì la valigia e ne trasse fuori il corredo di Cosetta.

E lo spiegò sul letto.

I candelieri del vescovo erano al loro posto sul camino.

Tolse da un cassetto due candele di cera e le mise nei

candelieri; poi, benché fosse giorno d'estate, le accese. Si

vedono così talvolta dei ceri accesi in pieno giorno nelle

camere in cui c'è un morto.

Ogni passo che faceva per recarsi da un mobile all'altro lo

estenuava e lo costringeva a sedersi. Non era la consueta

stanchezza che consuma la forza per rinnovarla, ma

l'avanzo dei movimenti possibili, la vita esausta,

consumata a goccia a goccia in sforzi accascianti che non

saranno più rinnovati.

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Una delle sedie su cui si lasciò cadere era posta davanti

allo specchio, così fatale per lui e così provvidenziale per

Mario. Si vide nello specchio e non si riconobbe;

dimostrava ottant'anni.

Prima del matrimonio di Mario, gliene avrebbero dati

appena cinquanta. Quell'anno aveva contato per trenta.

Quella che aveva sulla fronte non era più la ruga dell'età,

ma il segno misterioso della morte; vi si sentiva il solco

dell'unghia spietata. Le guance erano cascanti, la pelle del

viso aveva quel colore che farebbe credere che ci sia già

della terra sopra; gli angoli della bocca s'abbassavano

come in quelle maschere che gli antichi scolpivano sulle

tombe; guardava il vuoto con aria di rimprovero; si

sarebbe detto uno di quei grandi esseri tragici che hanno

da lagnarsi di qualcuno.

Si trovava in quello stato che è l'ultima fase della

prostrazione, in cui il dolore non si sente più; è, per così

dire, coagulato; e sull'anima c'è quasi un grumo di

disperazione.

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Era sopraggiunta la notte. Egli trascinò faticosamente una

tavola e la vecchia poltrona presso il caminetto, e sulla

tavola pose una penna, un calamaio e della carta.

Ciò fatto, svenne: quando riprese i sensi ebbe sete, e non

potendo sollevare la brocca, la chinò verso le labbra e

bevve un sorso.

Poi si volse verso il letto e, sempre seduto, poiché non

poteva più stare in piedi, guardò la vesticciola nera e tutti

quei cari oggetti.

Tali contemplazioni durano ore che sembrano minuti. D'un

tratto fu colto da un brivido, sentì che il freddo veniva;

posò il gomito sulla tavola rischiarata dai candelieri del

vescovo e prese la penna.

Siccome la penna e l'inchiostro da molto tempo non erano

stati adoperati, la punta della penna era incurvata,

l'inchiostro disseccato: dovette alzarsi e mettere qualche

goccia d'acqua nel calamaio, ciò che non poté fare senza

fermarsi e sedersi due o tre volte. Fu obbligato a scrivere

col dorso della penna. Ogni tanto si asciugava la fronte.

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La sua mano tremava: scrisse lentamente queste poche

righe:

"Cosetta, ti benedico. Voglio spiegarti. Tuo marito ha avuto

ragione di farmi capire che dovevo allontanarmi; c'è

qualche errore, è vero, in quello che ha creduto, ma

insomma ha avuto ragione. Egli è un uomo eccellente.

Amalo sempre, molto, quando io sarò morto. Signor

Pontmercy, amate sempre la mia figliola adorata. Cosetta,

troverete questo foglio; ecco che ti voglio dire, vedrai le

cifre, se ho la forza di ricordarmele. Ascolta bene, quel

denaro è proprio tuo. Ecco tutto il fatto. Il jais bianco viene

dalla Norvegia, il jais nero dall'Inghilterra, le conterie nere

vengono dalla Germania. Il jais è più leggero, più prezioso,

più caro. Le imitazioni si possono fare in Francia come in

Germania; occorre una piccola incudine di due pollici

quadrati e una lampada a spirito per rammollire la pasta.

La pasta una volta si faceva con la resina e il nerofumo e

costava quattro franchi la libbra. Io pensai di farla con la

gommalacca e la trementina; così non costa più che un

franco e mezzo ed è molto migliore. I fermagli si fanno con

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un vetro violetto che s'incolla con quella pasta sopra una

piccola ossatura di ferro. Il vetro dev'essere violetto per i

gioielli di acciaio e nero per quelli d'oro. La Spagna ne

compra in grande quantità. E' il paese del jais..." Qui

s'interruppe, la penna gli cadde dalle dita, fu preso da uno

di quei singhiozzi disperati che erompevano ogni tanto

dalla profondità del suo essere. Il poveretto si prese la

testa fra le mani e pensò.

- Oh! - esclamò dentro di sé (grida lamentose udite solo da

Dio) tutto è finito. Non la vedrò più. E' stato un sorriso

passato sopra di me. Entrerò nella notte senza nemmeno

rivederla. Oh! un minuto, un istante, udire la sua voce,

toccare la sua veste, guardarla, lei, l'angelo! e poi morire!

Morire non è nulla; orribile morire senza vederla. Essa mi

sorriderebbe, mi direbbe una parola. Forse che questo

farebbe male a qualcuno? No, è finita, mai più. Eccomi

solo. Mio Dio! mio Dio! non la vedrò più!

In quel momento bussarono alla porta.

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4. BOTTIGLIA D'INCHIOSTRO CHE RIESCE SOLO A

IMBIANCARE

Quello stesso giorno, o per dir meglio quella sera stessa,

Mario s'era appena alzato da tavola e ritirato nel suo

studio, perché aveva un processo da studiare, quando

Basco gli rimise una lettera, dicendo:

- La persona che l'ha scritta aspetta in anticamera.

Cosetta aveva preso il braccio del nonno e faceva un giro

nel giardino.

Una lettera può, come un uomo, avere un cattivo aspetto;

carta grossa, mal piegata. Certe missive spiacciono al solo

vederle. La lettera portata da Basco era di quel genere.

Mario la prese. Puzzava di tabacco. Non c'è nulla che desti

un ricordo quanto un odore. Egli riconobbe quel tabacco.

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Guardò la soprascritta: "Al signor barone Pommerci. In suo

palazzo". Il tabacco riconosciuto gli fece riconoscere la

scrittura. Si potrebbe dire che lo stupore ha dei lampi,

Mario fu illuminato da uno di quei lampi.

Quel misterioso ausilio della memoria che è l'odorato fece

rivivere in lui un mondo intero. Era proprio la carta, il

modo di piegare, la tinta pallida dell'inchiostro, la nota

scrittura; era soprattutto lo stesso tabacco. Gli riappariva

la stamberga di Jondrette.

In tal guisa - strano capriccio del caso! - una delle due

tracce tanto ricercate, quella per cui recentemente aveva

ancora fatto tanti sforzi e che credeva per sempre

smarrita, veniva a offrirglisi da se stessa.

Aprì avidamente la lettera e lesse:

"Signor barone, Se l'Esser Supremo me n'avesse dato il

talento, avrei potuto essere il barone Thénard, membro

dell'istituto (accademia delle scienze), ma non lo sono. Io

porto soltanto lo stesso nome di lui, fortunato se tale

ricordo mi raccomanda alla eccellenza di vostra bontà. Il

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beneficio di cui m'onorerete sarà reciproco. Io sono in

possesso d'un segreto riguardante un individuo.

Quest'individuo vi riguarda. Io tengo il segreto a vostra

disposizione desiderando avere l'onore d'esservi utile. Vi

darò il mezzo semplice di scacciare dalla vostra onorevole

famiglia quest'individuo che non vi à diritto, la signora

baronessa essendo di nobile nascita. Il santuario della virtù

non potrebbe coabitare più lungamente col delitto senza

abdicare.

Aspetto nell'anticamera gli ordini del signor barone. Con

rispetto Thénard".

Firma non falsa, ma soltanto un po' abbreviata.

Del resto il frasario e l'ortografia completavano la

rivelazione; il certificato d'origine era completo, il dubbio

non era possibile.

L'emozione di Mario fu profonda. Dopo il moto di sorpresa,

ne ebbe uno di contentezza. Se ora gli riuscisse di trovare

l'altro uomo che cercava, quello a cui doveva la vita, non

gli rimarrebbe più nulla a desiderare.

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Aprì un cassetto della scrivania, ne trasse alcuni biglietti di

banca, se li mise in tasca, richiuse e suonò il campanello.

Basco socchiuse l'uscio.

- Fate entrare - disse Mario.

Il servo annunciò:

- Il signor Thénard.

Nuova sorpresa per Mario. Il vecchio che entrò gli era

perfettamente ignoto: aveva il naso grosso, il mento nella

cravatta, gli occhiali verdi e i capelli grigi lisciati e appiattiti

sulla fronte rasente le sopracciglia, come la parrucca dei

cocchieri inglesi dell'alta società: vestiva di nero da capo a

piedi, d'un nero molto ragnato ma pulito; un mazzo di

ciondoli, che usciva dal taschino del panciotto, faceva

supporre un orologio; teneva in mano un vecchio cappello;

camminava curvo, e la curvatura della schiena era

accresciuta dalla profondità del saluto.

Quello che a prima vista colpiva era l'abito di questo

personaggio: troppo ampio, benché abbottonato con cura,

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non pareva fatto sulla sua misura. E qui è necessaria una

breve digressione.

Viveva a quell'epoca a Parigi, in un buio bugigattolo di via

Beautreillis, vicino all'arsenale, un ebreo ingegnoso, che

esercitava la professione di trasformare un briccone in un

galantuomo. Non per troppo tempo però, poiché sarebbe

stato fastidioso per il briccone. Il cambiamento si operava

a vista, per un giorno o due, a trenta soldi al giorno, per

mezzo d'un vestiario il più possibile somigliante all'onestà

di tutti. Quel noleggiatore si chiamava "il Trasformatore"; i

borsaioli parigini gli avevano dato questo nome e non si

sapeva che ne avesse altri.

Disponeva d'un assortimento assai ricco. Gli stracci con cui

camuffava le persone erano press'a poco plausibili. Aveva

delle specialità e delle categorie, e da ogni chiodo del suo

magazzino pendeva, usata e logora, una condizione

sociale, qui l'abito del magistrato, là quello del parroco, più

in là quello del banchiere, in un angolo la divisa del militare

in congedo, altrove l'abito del letterato, altrove ancora

quello dell'uomo di Stato.

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Quell'individuo era il vestiarista dell'immenso dramma

rappresentato dalla ribalderia parigina. Il suo bugigattolo

era la quinta da cui usciva il furto e in cui rientrava lo

scrocco. Un ribaldo vi giungeva tutto cencioso, pagava i

suoi trenta soldi, sceglieva l'abito che gli conveniva

secondo la parte che voleva rappresentare quel giorno e

quando ridiscendeva le scale, il ribaldo era un personaggio.

L'indomani gli stracci erano fedelmente restituiti, e il

Trasformatore, che affidava ogni cosa ai ladri, non era mai

derubato. Quegli abiti però avevano un inconveniente:

"non andavano", non erano fatti per quelli che li portavano,

erano troppo stretti per l'uno, troppo larghi per l'altro, e

non stavano bene a nessuno. Tutti i malandrini che

sorpassavano la statura media, in più e in meno, non si

trovavano bene nei vestiti del Trasformatore. Non

bisognava essere né troppo magro né troppo grasso. Il

Trasformatore aveva previsto solo gli uomini ordinari, e

aveva scelto la misura tipica della persona del primo

gaglioffo venuto, il quale non è mai né grasso né magro,

né grande né piccolo. Perciò certi adattamenti a volte

difficili, nei quali quel praticone del Trasformatore se la

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cavava come meglio poteva. Tanto peggio per le eccezioni!

L'abito dell'uomo di Stato, per esempio, nero da capo a

piedi e quindi conveniente, sarebbe stato troppo ampio per

Pitt e troppo stretto per Castelcicala.

Copiamo dal catalogo del Trasformatore com'era indicato

l'abbigliamento dell'uomo di Stato: "Un abito di panno

nero, un paio di pantaloni di cuoio di lana nera, un

panciotto di seta, scarpe e biancheria". In margine c'era:

"Ex-ambasciatore", con una nota che pure trascriviamo:

"In una scatola separata, una parrucca ben pettinata, un

paio di occhiali verdi, dei ciondoli e due piccoli cannelli di

penna, lunghi un pollice, avvolti di cotone".

Tutto ciò spettava all'uomo di Stato ex-ambasciatore.

Questo vestiario era, per così dire, estenuato; le costure

cominciavano a sbiancare, in uno dei gomiti si schiudeva

una specie di occhiello; inoltre l'abito mancava di un

bottone, ma era un particolare senza importanza poiché la

mano dell'uomo di Stato, dovendo star sempre nell'abito e

sul cuore, aveva l'incarico di nascondere l'assenza del

bottone.

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Se Mario avesse avuto una certa familiarità con le

organizzazioni segrete di Parigi, avrebbe riconosciuto

subito, addosso al visitatore introdotto da Basco, l'abito

dell'uomo di Stato preso a prestito nel magazzino del

Trasformatore.

Il disappunto di Mario al veder entrare un uomo diverso da

quello che aspettava, si trasformò in malagrazia verso il

nuovo venuto.

Lo squadrò da capo a piedi, mentre il personaggio si

inchinava smisuratamente, e gli chiese seccamente:

- Cosa volete?

L'uomo rispose con un amabile ghigno, di cui il sorriso

carezzevole d'un coccodrillo ci darebbe una qualche idea:

- Mi sembra impossibile di non aver avuto l'onore di

conoscere il signor barone in società. Mi pare anzi di averlo

incontrato alcuni anni or sono, particolarmente in casa

della signora principessa Bagration, e nelle sale di Sua

Signoria il visconte Dambray, Pari di Francia.

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E' sempre una buona tattica di marioleria avere l'aria di

riconoscere una persona che non si è mai conosciuta.

Mario stava attento al discorso di quell'uomo e ne spiava

l'accento e il gesto; ma il suo disappunto crebbe udendo

una pronuncia nasale, del tutto diversa dal tono aspro e

secco di voce che si aspettava. Era completamente

sorpreso.

- Non conosco - diss'egli - né la signora Bagration né il

signor Dambray; in vita mia non ho mai posto piede in

casa dell'una né dell'altro.

La risposta era burbera, ma il personaggio, grazioso a ogni

costo, insistette:

- Allora sarà stato in casa di Chateaubriand che avrò visto

il signore! Conosco bene Chateaubriand, che è affabilissimo

e talvolta mi dice: - Thénard, amico mio... non berreste un

bicchiere con me?

La fronte di Mario diventava sempre più severa:

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- Non ho avuto mai l'onore d'esser ricevuto dal signor

Chateaubriand. Insomma, che cosa volete?

L'uomo, di fronte alla voce più dura, salutò più

profondamente.

- Signor barone, degnatevi di ascoltarmi. In America, in un

paese dalle parti di Panama, c'è un villaggio chiamato la

Joya. Questo villaggio è composto d'una sola casa, una

grande casa quadrata a tre piani, costruita in mattoni cotti

al sole; ogni lato del quadrato è lungo cinquecento piedi,

ogni piano è dodici piedi più indietro del piano inferiore in

modo da lasciare davanti un terrazzo che gira tutt'intorno

al caseggiato; nel centro un cortile interno in cui sono le

provviste e le munizioni; niente finestre, ma feritoie;

niente porte, ma delle scale a mano per salire dal suolo al

primo terrazzo e dal primo al secondo e dal secondo al

terzo, e scale a mano per calarsi nel cortile interno; niente

usci alle stanze, ma botole; nessuna scala di pietra, ma

tutte a mano; la sera si chiudono le botole, si ritirano le

scale e si puntano i tromboni e le carabine alle feritoie; non

c'è mezzo d'entrare; casa di giorno, cittadella di notte, e

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ottocento abitanti: ecco cos'è quel villaggio. E perché tante

precauzioni?

Perché è un paese pericoloso, pieno d'antropofagi. E allora

perché ci vanno? Perché è un paese meraviglioso; ci si

trova l'oro.

- Che cosa volete concludere? - interruppe Mario, che dal

disappunto passava all'impazienza.

- Questo, signor barone. Io sono un ex-diplomatico stanco

degli affari. La vecchia civiltà mi ha spaurito; ora voglio

provare coi selvaggi.

- E poi?

- Signor barone, l'egoismo è la legge del mondo. La

contadina proletaria che lavora alla giornata si volta

quando passa la diligenza, la contadina proprietaria che

lavora il suo campo non si volta mai. Il cane del povero

abbaia dietro il ricco, il cane del ricco dietro il povero.

Ciascuno per sé. L'interesse è lo scopo dell'uomo, l'oro è la

sua calamita.

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- E poi? concludete.

- Vorrei andare a stabilirmi a Joya. Siamo in tre, io, la mia

consorte e la mia signorina, una figliola molto bella. Il

viaggio è lungo e costoso, e ho bisogno di un po' di denaro.

- Ma questo a me che importa? - chiese Mario.

Lo sconosciuto allungò il collo fuori dalla cravatta,

movimento proprio dell'avvoltoio, e raddoppiando il sorriso

rispose:

- Il signor barone non ha letto la mia lettera?

La cosa era quasi vera. Mario non aveva badato al

contenuto della missiva; aveva guardato la scrittura più

che leggere la lettera, e se ne ricordava appena. Adesso la

sua attenzione era stata ridestata dall'espressione: "la mia

consorte e la signorina".

Teneva fisso sullo sconosciuto uno sguardo penetrante, che

un giudice inquirente avrebbe potuto invidiare; quasi lo

spiava. Si limitò a rispondere:

- Precisate.

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L'individuo infilò le mani nei taschini del panciotto, alzò la

testa senza raddrizzare la spina dorsale, e si pose a sua

volta a scrutare Mario attraverso le lenti verdi dei suoi

occhiali.

- Va bene, signor barone: preciso. Ho un segreto da

vendervi.

- Un segreto!

- Un segreto.

- Che mi riguarda?

- Un poco.

- Qual è questo segreto?

Mentre lo ascoltava, Mario esaminava sempre meglio

quell'uomo.

- Comincio gratis - disse lo sconosciuto. - Vedrete se riesco

interessante.

- Parlate.

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- Signor barone, voi avete in casa vostra un ladro

assassino.

Mario trasalì.

- In casa mia? No! - diss'egli.

Lo sconosciuto, imperturbabile, pulì il cappello col gomito e

proseguì:

- Assassino e ladro. Notate, signor barone, che io non parlo

di fatti antichi, arretrati, caduchi, che possano essere

cancellati dalla prescrizione in faccia alla legge e dal

pentimento dinanzi a Dio. Parlo di fatti recenti, attuali, di

fatti ancora ignoti alla giustizia. Continuo. Quest'uomo si è

insinuato nella vostra confidenza, e quasi nella vostra

famiglia, sotto un nome falso. Vi dirò il suo nome vero e ve

lo dirò per nulla.

- Ascolto.

- Si chiama Giovanni Valjean.

- Lo so.

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- Ora vi dirò, anche per niente, che cos'è quest'uomo.

- Dite.

- E' un ex-galeotto.

- Lo so.

- Lo sapete da che ho avuto l'onore di dirvelo.

- No, lo sapevo prima.

Il contegno freddo di Mario, la sua doppia risposta "lo s", il

suo laconismo refrattario al dialogo, provocarono una sorda

collera nello sconosciuto, che scoccò, di sfuggita, su Mario

uno sguardo furioso, subito spento. Ma per quanto rapido

fosse, quello sguardo era di quelli che visti una volta si

riconoscono, e non sfuggì a Mario. Certi fiammeggiamenti

non possono venire che da certe anime: la pupilla, spiraglio

del pensiero, se ne accende, e gli occhiali non nascondono

nulla: provatevi a mettere un vetro all'inferno!

Lo sconosciuto riprese, sorridendo:

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- Non mi permetto di smentire il signor barone. In ogni

caso, vedete che sono bene informato. Quello che ora mi

rimane da confidarvi è noto a me solo, e riguarda la

ricchezza della signora baronessa. E' un segreto

straordinario ed è da vendere. L'offro a voi per primo, a

buon mercato: ventimila franchi.

- Conosco questo segreto come conosco gli altri - rispose

Mario.

L'individuo sentì il bisogno di abbassare un po' il prezzo.

- Signor barone, datemi diecimila franchi e parlo.

- Vi ripeto che non avete nulla da dirmi. So già quanto

volete dirmi.

Ci fu nell'occhio dell'individuo un nuovo lampo; quindi

esclamò:

- Eppure devo mangiare anche oggi. E' un segreto

straordinario, vi ripeto. Signor barone, parlerò. Parlo;

datemi venti franchi.

Mario lo guardò fisso.

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- So già il vostro segreto straordinario, come sapevo il

nome di Giovanni Valjean, come so il vostro.

- Il mio nome?

- Sì.

- Non è una cosa difficile, signor barone. Ebbi l'onore di

scriverlo e di dirvelo: Thénard. - Dier.

- Eh?

- Thénardier.

- Chi?

Nel pericolo il porcospino s'arruffa, lo scarafaggio fa il

morto, la vecchia guardia si stringe in quadrato;

quell'uomo si mise a ridere.

Quindi con un buffetto si tolse via un granello di polvere

dalla manica dell'abito.

Mario proseguì:

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- Voi siete anche l'operaio Jondrette, il comico Fabantou, il

poeta Genflot, lo spagnolo don Alvarez e la donna Balizard.

- La donna cosa?

- E avete tenuto una bettola a Montfermeil.

- Una bettola! Mai.

- E io vi dico che siete Thénardier.

- Lo nego.

- E che siete un birbante. Prendete.

E Mario, tolto di tasca un biglietto di banca, glielo buttò in

faccia.

- Grazie! perdono! cinquecento franchi! signor barone!

E l'uomo, sconvolto, salutando e raccogliendo il biglietto, si

mise a esaminarlo.

- Cinquecento franchi! - riprese, sbalordito; e balbettò

sottovoce - Un bigliettone serio!

Poi esclamò bruscamente:

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- Ebbene, sia! Mettiamoci in libertà.

E con prestezza di una scimmia, buttando indietro i capelli,

strappandosi gli occhiali, ritirando dal naso e facendo

scomparire i due cannelli di penne di cui si è detto più su, e

che del resto si sono già visti in altra pagina di questo

libro, si tolse la maschera come un altro si toglierebbe il

cappello.

Il suo sguardo s'accese; la fronte ineguale, qua e là con

fossi e bernoccoli e orribilmente corrugata in alto, apparve

allo scoperto; il naso ridivenne acuto come un becco, e

ricomparve il profilo feroce e astuto dell'uomo di rapina.

- Il signor barone è infallibile - diss'egli con voce chiara e

niente affatto nasale. - Io sono Thénardier.

E raddrizzò il dorso incurvato. Thénardier, poiché

veramente era lui, provava una strana sorpresa e si

sarebbe turbato se gli fosse stato possibile. Era venuto per

stupire e se ne stupiva prima lui.

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Quella umiliazione gli veniva pagata cinquecento franchi e,

tutto considerato, l'accettava; ma non era per ciò meno

sbalordito.

Egli vedeva per la prima volta quel barone Pontmercy e,

malgrado il suo travestimento, quel barone Pontmercy lo

riconosceva e lo riconosceva a fondo; e non solo quel

barone conosceva Thénardier, ma sembrava che

conoscesse bene anche Valjean. Cos'era dunque quel

giovanotto quasi imberbe, così glaciale e così generoso,

che sapeva i nomi delle persone, tutti i loro nomi, apriva

loro la borsa, maltrattava i birbanti come un giudice, e li

pagava come chi si lascia abbindolare?

Il lettore ricorderà che Thénardier, benché fosse stato

vicino di Mario, non lo aveva mai visto, cosa frequente a

Parigi; aveva una volta udito le figlie parlare d'un

giovanotto molto povero, di nome Mario, che abitava nella

stessa casa, e gli aveva scritto senza conoscerlo la lettera

che sappiamo;ma nessun riavvicinamento era possibile

nella sua mente tra quel Mario e il signor barone

Pontmercy.

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Quanto al nome di Pontmercy, ricordiamo che sul campo di

battaglia di Waterloo egli ne aveva udito solo le due ultime

sillabe, per le quali aveva sempre nutrito il legittimo

sdegno che si deve a quello che è soltanto un

ringraziamento.

Del resto, per mezzo di sua figlia Azelma, da lui messa

sulle tracce degli sposi del 16 febbraio, e per mezzo delle

sue indagini personali, era arrivato a sapere molte cose, e

dal fondo delle sue tenebre era riuscito ad afferrare più

d'un filo misterioso. Egli aveva scoperto, a furia di ricerche,

o almeno indovinato per via d'induzione, chi era l'uomo da

lui incontrato un certo giorno nella Fogna Grande; e

dall'uomo aveva potuto facilmente risalire al nome. Sapeva

che la signora baronessa Pontmercy era Cosetta; ma da

questo lato si riprometteva d'esser discreto. Chi era

Cosetta?

Neppure lui lo sapeva precisamente. Certo, intravedeva

una nascita illegittima, e la storia di Fantina gli era

sembrata sempre un po' sospetta; ma a che serviva

parlare? A farsi pagare il silenzio?

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Egli teneva o credeva di tenere qualcosa di meglio da

vendere. E c'erano tutte le probabilità che l'andare a fare,

senza prove, questa rivelazione al barone Pontmercy: -

"Vostra moglie è una bastarda", - riuscisse solo ad attirare

lo stivale del marito verso la groppa del rivelatore.

Nel pensiero di Thénardier, il suo colloquio con Mario non

era ancora cominciato. Aveva dovuto indietreggiare,

modificare la sua strategia, abbandonare la sua posizione,

mutare fronte, ma non era compromesso ancora nulla

d'essenziale, e aveva cinquecento franchi in tasca. Inoltre,

aveva qualcosa di decisivo da dire, e si sentiva forte anche

contro quel barone Pontmercy così ben informato e così

ben armato. Per gli uomini della specie di Thénardier ogni

dialogo è un duello. E qual era la sua posizione in quello

che stava per impegnarsi? Non sapeva con chi parlava, non

sapeva di chi parlava. Fece rapidamente questa interna

rivista delle sue forze, e dopo aver detto: "Sono

Thénardier", - aspettò.

Mario era rimasto pensoso. Finalmente trovava Thénardier!

l'uomo che aveva tanto desiderato rintracciare era là:

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poteva dunque far onore alla raccomandazione del

colonnello Pontmercy. Era umiliato che quell'eroe dovesse

qualcosa a un simile bandito, e che la cambiale, tratta dal

fondo del sepolcro di suo padre, fosse rimasta fino a quel

giorno protestata. Gli pareva pure che, nella situazione

complessa in cui si trovava la sua mente di fronte a

Thénardier, fosse il caso di vendicare il colonnello dalla

sventura d'essere stato salvato da quel furfante.

Comunque fosse, egli era contento; poteva dunque

finalmente liberare dall'indegno creditore l'ombra del

colonnello, e gli sembrava d'essere sul punto di togliere la

memoria del padre dalla prigione per debiti.

Accanto a tale dovere, ce n'era un altro, quello cioè di far

luce, se possibile, sull'origine della ricchezza di Cosetta.

Pareva che gli si offrisse l'occasione; Thénardier sapeva

forse qualcosa; poteva quindi essere utile vedere il fondo di

quell'uomo. Cominciò da questo.

Thénardier aveva fatto sparire il "bigliettone serio" nel suo

taschino, e guardava Mario con una dolcezza quasi

affettuosa.

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Mario ruppe il silenzio.

- Thénardier, vi ho detto il vostro nome. Ora volete che vi

dica anche il vostro segreto, quello che venivate a

svelarmi? Ho pure le mie informazioni, io, e ora vedrete

che ne so più di voi.

Valjean, come avete detto, è un assassino e un ladro; un

ladro, perché ha rubato a un ricco industriale di cui ha

causato la rovina, il signor Madeleine; un assassino perché

ha assassinato l'agente di polizia Javert.

- Non capisco, signor barone - fece Thénardier.

- Ora vi farò capire. Ascoltate. Verso il 1822 c'era in un

circondario del Passo di Calais un uomo che aveva avuto

qualche contrasto con la giustizia, e che, sotto il nome di

Madeleine, s'era rialzato e riabilitato, e anzi era diventato

un giusto, in tutta la forza del termine. Con un'industria, la

fabbrica delle conterie nere, formò la fortuna d'una intera

città. Quanto alla sua fortuna personale, egli l'aveva creata

pure, ma in modo secondario e per così dire

accidentalmente. Era il padre e il sostegno dei poveri,

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fondava ospedali, apriva scuole, visitava i malati, dotava le

giovanette, sostentava le vedove, adottava gli orfani, era

quasi il tutore del paese. Aveva rifiutato le decorazioni e

l'avevano nominato sindaco. Un forzato liberato, che

sapeva il segreto d'una condanna subita in altro tempo da

quell'uomo, lo denunciò, lo fece arrestare, e profittò

dell'arresto per venire a Parigi e farsi rimettere dalla banca

Laffitte - ho saputo il fatto dal cassiere stesso - mediante

una firma falsa, una somma d'oltre mezzo milione

appartenente a Madeleine. Quel forzato che ha derubato

Madeleine è Valjean.

Quanto all'altro fatto, non avete nemmeno in questo caso

delle novità da comunicarmi. Valjean ha ucciso l'agente

Javert, l'ha ucciso con una pistolettata. Ero presente io

stesso che vi parlo.

Thénardier lanciò a Mario lo sguardo d'un uomo sconfitto

che torna ad afferrare la vittoria e riacquista in un minuto

tutto il terreno perduto. Ma ricomparve subito il sorriso;

l'inferiore di fronte al superiore deve avere il trionfo

carezzevole, e Thénardier si limitò a dire:

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- Signor barone, noi sbagliamo strada.

E sottolineò la frase facendo fare al suo mazzo di ciondoli

un mulinello espressivo.

- Come! - riprese Mario. - Mi contestate tutto questo? Ma

sono fatti.

- Sono chimere. La fiducia della quale il signor barone mi

onora mi fa un dovere di dirglielo. Innanzi tutto la verità e

la giustizia - non mi piace di veder accusare le persone

ingiustamente. Signor barone, Valjean non ha derubato

Madeleine e non ha ucciso Javert.

- Questa è grossa! E come mai?

- Per due motivi.

- Quali? Parlate.

- Eccovi il primo; non ha derubato Madeleine, per il fatto

che Valjean, proprio lui, era Madeleine.

- Che mi andate contando?

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- Ed ecco il secondo: egli non ha assassinato Javert,

giacché colui che ha ucciso Javert è stato Javert.

- Cosa intendete dire?

- Che quello di Javert è stato un suicidio.

- Le prove! le prove! - gridò Mario fuori di sé.

Thénardier riprese la frase come una volta si scandivano i

versi:

- L'a-gen-te di po-li-zia Ja-vert fu tro-va-to an-ne-ga-to

sotto un bat-tel-lo del Pont-au-Change.

- Ma le prove dunque!

Thénardier cavò dalla tasca laterale una larga busta di

carta grigia, che pareva contenesse dei fogli piegati di varie

dimensioni.

- Ho i miei documenti - diss'egli con calma.

E aggiunse:

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- Signor barone, nel vostro interesse ho voluto conoscere a

fondo il mio Valjean, e vi dico che Valjean e Madeleine

sono una sola persona, vi dico che Javert non ha avuto

altro assassino che Javert, e quando parlo vuol dire che ho

le prove. Non prove manoscritte, la scrittura è sospetta, la

scrittura è compiacente; ma prove stampate.

Mentre parlava, toglieva dalla busta due numeri di giornali

ingialliti, sciupati e ben saturi di tabacco, uno dei quali,

tutto gualcito nelle piegature, sembrava molto più vecchio

dell'altro.

- Due fatti, due prove - fece Thénardier; e porse a Mario i

due giornali aperti. Quei giornali, il lettore già li conosce.

Uno, il più antico, un numero del "Drapeau blanc" del 25

luglio 1823, stabiliva l'identità di Madeleine con Valjean.

L'altro, un "Moniteur" del 15 giugno 1832, constatava il

suicidio di Javert, e aggiungeva che, da un rapporto

verbale fatto dallo stesso Javert al prefetto, risultava che

egli, fatto prigioniero nella barricata della via Chanvrerie,

doveva la vita alla magnanimità di un insorto, il quale,

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tenendolo sotto la sua pistola, invece di bruciargli le

cervella, aveva tirato in aria.

Mario lesse. C'era evidenza, data sicura, prova

irrefragabile, poiché quei due giornali non erano stati

stampati apposta per appoggiare le asserzioni di

Thénardier; inoltre la nota inserita nel "Moniteur" era

comunicata ufficialmente dalla prefettura di polizia. Non

era possibile il dubbio. Le informazioni del commesso-

cassiere erano false, e lui pure si era ingannato.

Valjean, ingrandito a un tratto, balzava fuori dalla nebbia.

Mario non poté trattenere un grido di gioia:

- Ma allora quell'infelice era un uomo ammirabile! Tutto

quel denaro era veramente suo! egli è Madeleine, la

provvidenza d'un paese intero! è Valjean il salvatore di

Javert! e un eroe! è un santo!

- Non è un santo e non è un eroe - disse Thénardier. - E'

un assassino, un ladro.

E aggiunse col tono dell'uomo che comincia a sentirsi

qualche autorità: - Calmiamoci.

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Ladro, assassino: queste parole che Mario credeva

scomparse e che ritornavano, caddero su di lui come una

doccia ghiacciata.

- Ancora! - diss'egli.

- Sempre! - fece Thénardier. - Valjean non ha derubato

Madeleine, ma è un ladro; non ha ucciso Javert, ma è un

assassino.

- Volete forse parlare - riprese Mario - di quel miserevole

furto di quarant'anni fa, espiato, come risulta dai vostri

stessi giornali, con un'intera vita di pentimento,

d'abnegazione e di virtù?

- Dico assassinio e furto, signor barone, e ripeto che vi

parlo di fatti recenti. Ciò che debbo rivelarvi è

assolutamente ignoto, è roba inedita e forse vi troverete la

sorgente della ricchezza così abilmente offerta da Valjean

alla signora baronessa. Dico abilmente, perché introdursi

con tale donazione in una casa onorata, partecipare alle

sue agiatezze, e, con lo stesso colpo, nascondere il delitto,

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godere il furto, sotterrare il proprio nome e crearsi una

famiglia, tutto questo non manca certamente di accortezza.

- Potrei interrompervi a questo punto - osservò Mario. - Ma

proseguite.

- Signor barone, vi dirò tutto, lasciando la ricompensa alla

vostra generosità. Questo segreto vale un tesoro. Mi

direte:

Perché non ti sei rivolto allo stesso Valjean? - per un

motivo semplicissimo: so che egli s'è spogliato di tutto, e

spogliato in vostro favore, combinazione che io trovo

ingegnosa; non ha quindi più un soldo, mi mostrerebbe le

sue mani vuote; e siccome io ho bisogno di un po' di

denaro per il viaggio alla Joya, così preferisco voi, che

avete tutto, a lui che non ha nulla. Ma sono un po' stanco,

permettetemi di prendere una sedia.

Mario sedette e gli fece cenno di imitarlo.

Thénardier si accomodò su una sedia imbottita, riprese i

due giornali, li ripose nella busta, e battendo con l'unghia

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sul "Drapeau blanc", mormorò: "Questo m'è costato fatica

ad averlo".

Ciò fatto, incrociò le braccia e s'appoggiò col dorso,

atteggiamento proprio della persona sicura di quello che

dice; poi entrò in materia, gravemente e accentuando le

parole:

- Signor barone, circa un anno fa, il 6 giugno 1832, il

giorno della sommossa, un uomo si trovava nella Fogna

Grande di Parigi, dal lato dove la cloaca va a raggiungere la

Senna, tra il Ponte degli Invalidi e quello di Iena.

Mario avvicinò bruscamente la sua sedia a quella di

Thénardier, il quale, notato il movimento, proseguì con la

lentezza d'un oratore che domina l'interlocutore e che

sente palpitare l'avversario sotto le sue parole.

- Quell'uomo costretto a nascondersi, per motivi, del resto,

estranei alla politica, aveva scelto per domicilio la fogna, di

cui possedeva una chiave. Era, lo ripeto, il 6 giugno;

potevano essere le otto di sera, quando l'uomo udì un

rumore nella fogna.

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Assai sorpreso, si rannicchiò e stette a spiare. Era un

rumore di passi. Qualcuno nell'ombra camminava e veniva

dalla sua parte.

Cosa strana! C'era nella cloaca un altro uomo. ll cancello

d'uscita della fogna non era lontano, e quel po' di luce che

ne veniva permise di riconoscere il nuovo arrivato e di

vedere che quell'uomo portava qualcosa sulle spalle.

Camminava curvo, e l'uomo che camminava così era un

ex-galeotto, e quello che portava sul dorso un cadavere.

Flagrante delitto di assassinio, se mai ce ne fu uno. Quanto

al furto, va da sé: non si uccide un uomo per nulla. Quel

forzato andava a gettare il cadavere nel fiume. E' da notare

che, prima di arrivare al cancello di uscita, quel forzato,

che veniva da un punto lontano della cloaca, aveva

necessariamente incontrato un avvallamento spaventoso,

nel quale avrebbe potuto lasciare il cadavere; ma

l'indomani i fognaioli, lavorando dov'era l'avvallamento,

avrebbero ritrovato il corpo dell'assassinato; e questo non

conveniva all'assassino. Egli aveva preferito attraversare

l'avvallamento col suo carico, e deve aver fatto degli sforzi

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terribili; è impossibile arrischiare di più la vita; anzi non

capisco come abbia potuto uscirne vivo.

La sedia di Mario si avvicinò di nuovo, e Thénardier ne

profittò per respirare a lungo; quindi proseguì:

- Signor barone, una fogna non è il campo di Marte. Ci

manca tutto, anche lo spazio. Quando si trovano là dentro,

due uomini devono incontrarsi; ed è appunto quel che

accadde. L'inquilino e il passante furono costretti a darsi il

buongiorno, benché a malincuore. Il passante disse

all'inquilino: - Vedi bene che cosa ho sulle spalle, ho

bisogno d'uscire; tu hai la chiave, dammela. - Quel forzato

era un uomo d'una forza terribile: non c'era mezzo di

rifiutare. Tuttavia quello che aveva la chiave traccheggiò,

soltanto per guadagnar tempo; esaminò il morto, ma non

poté vedere nulla, tranne che era giovane, ben messo,

d'apparenza signorile e tutto sfigurato dal sangue. Mentre

discorreva, trovò modo di lacerare e di strappare, senza

che l'assassino se ne accorgesse, un pezzetto dalla falda

dell'abito dell'assassinato; corpo del reato; capirete; mezzo

per ritrovare la traccia e provare il delitto del delinquente.

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Egli dunque si mise in tasca il corpo di reato; dopo di che

aprì il cancello, fece uscire l'uomo col suo peso sul dorso,

richiuse subito e s'allontanò, poco curandosi di trovarsi

immischiato al seguito dell'avventura, e soprattutto non

volendo essere presente quando l'assassino avrebbe

gettato la vittima nel fiume. Ora comprendete tutto. Chi

portava il cadavere era Valjean, quello che teneva la chiave

vi parla in questo momento, e il brandello d'abito...

Thénardier compì la frase cavando di tasca e tenendo,

all'altezza degli occhi, tra i due pollici e i due indici un

pezzetto di panno nero strappato, tutto coperto di macchie

scure.

Mario s'era alzato, pallido, respirando appena, con l'occhio

fisso su quel frammento di stoffa, e, senza pronunciare una

parola, senza lasciare quel cencio con lo sguardo, rinculava

verso il muro, cercando con la mano destra dietro di sé, a

tastoni sulla parete, una chiave che era nella serratura d'un

armadio a muro presso il caminetto. Trovò la chiave, aprì

l'armadio, vi cacciò dentro il braccio senza che i suoi occhi

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smarriti si staccassero dallo straccetto che Thénardier

teneva spiegato.

Costui frattanto continuava:

- Signor barone, ho seri motivi di credere che il giovane

assassinato fosse un ricco straniero, che aveva addosso

una grossa somma, attirato da Valjean in qualche

tranello...

- Il giovane ero io, ed ecco l'abito! - gridò Mario, gettando

sul pavimento un vecchio abito nero tutto insanguinato.

Poi, strappando il pezzo di stoffa dalle mani di Thénardier,

si accosciò e avvicinò alla falda lacerata il pezzo strappato:

la laceratura si adattava perfettamente, e il cencio

completava l'abito.

Thénardier restò di sasso; pensò soltanto: - Sono finito.

Mario si rizzò fremente, disperato, raggiante.

Si frugò in tasca e mosse furiosamente contro Thénardier,

presentandogli e quasi appoggiandogli sul viso il pugno

pieno di biglietti di banca da cinquecento e da mille franchi.

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- Voi siete un infame! Siete un mentitore, un calunniatore,

uno scellerato! Siete venuto per accusare quell'uomo e

invece lo avete giustificato, avete tentato di perderlo e

siete riuscito soltanto a glorificarlo. Voi siete un ladro! voi

siete un assassino! Vi ho visto io, Thénardier Jondrette, in

quel covo del boulevard dell'Ospedale. Ne so sul conto

vostro quanto basta per mandarvi in galera e anche più

lontano, se volessi. Prendete, eccovi mille franchi,

sacripante che siete!

E gli gettò un biglietto di mille franchi.

- Ah! Jondrette Thénardier, vile ribaldo! Questo vi serva di

lezione, rigattiere di segreti, trafficante di misteri,

investigatore di tenebre; miserabile! Prendete questi

cinquecento franchi e uscite di qui! Waterloo vi protegge.

- Waterloo! - borbottò Thénardier intascando i cinquecento

franchi insieme con i mille.

- Sì, assassino! Voi avete laggiù salvato la vita a un

colonnello..

- A un generale - disse Thénardier rialzando la testa.

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- A un colonnello! - riprese Mario con impeto. - Non darei

un centesimo per un generale. E venivate qui a perpetrare

delle infamie! Vi dico che avete commesso tutti i delitti.

Partite!

sparite! Siate soltanto felice, è tutto quanto desidero. Ah

mostro! Eccovi altri tremila franchi, prendeteli. Voi

partirete per l'America domani stesso con vostra figlia,

poiché vostra moglie è morta, abominevole mentitore. Mi

occuperò della vostra partenza, ribaldo, e all'ultimo

momento vi darò ventimila franchi.

Andate a farvi impiccare altrove!

- Signor barone - rispose Thénardier, salutando fino a terra

- riconoscenza eterna.

E uscì senza comprendere nulla, stupefatto e rapito per

quel gradito schiacciamento sotto sacchi di scudi, per

quella folgore che scoppiava sul suo capo in biglietti di

banca.

Era fulminato, ma anche contento, e gli sarebbe assai

dispiaciuto di avere un parafulmine contro simili saette.

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Finiamola dunque con costui. Due giorni dopo gli

avvenimenti da noi narrati egli partiva, per interessamento

di Mario, sotto un falso nome, alla volta dell'America, con

la figlia Azelma, provvisto di un assegno di ventimila

franchi da incassare a New York. La miseria morale di

Thénardier, questo borghese mancato, era irrimediabile;

egli fu in America quello che era stato in Europa. Il

contatto di un uomo malvagio basta talvolta per far

imputridire una buona azione e per farne scaturire una

cosa cattiva. Col denaro di Mario, Thénardier si dedicò alla

tratta dei negri.

Non appena Thénardier fu uscito, Mario corse in giardino

dove Cosetta passeggiava ancora.

- Cosetta! Cosetta! - gridò. - Vieni, vieni subito. Andiamo!

Basco, una vettura! Cosetta, vieni. Ah mio Dio! E' stato lui

che mi ha salvato la vita. Non perdiamo un minuto! Metti lo

scialle.

Cosetta lo credette impazzito e ubbidì.

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Egli non poteva respirare, si metteva la mano sul cuore per

comprimerne i battiti; andava su e giù a lunghi passi,

abbracciava Cosetta dicendole - Ah Cosetta! io sono uno

sciagurato!

Era fuori di sé. Cominciava a intravedere in quel Valjean

non so quale alta e triste figura: gli appariva una virtù

inaudita, augusta e tenera, umile nella sua immensità; il

galeotto si trasfigurava in Cristo. Si sentiva abbagliato da

quel prodigio.

Non sapeva bene quello che vedeva; ma era qualche cosa

di grande.

Un momento dopo, la vettura era alla porta.

Mario vi fece salire Cosetta e vi saltò dentro dicendo:

- Cocchiere, via Homme-Armé, numero 7.

- Ah! che piacere! esclamò Cosetta. - Via Homme-Armé!

Non osavo più parlartene. Andiamo a trovare il signor

Giovanni.

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- Tuo padre, Cosetta! tuo padre più che mai! Ora indovino,

sai. Tu mi dicesti di non aver ricevuto la lettera che t'avevo

mandato per mezzo di Gavroche; dovette cadere nelle sue

mani, Cosetta, ed egli venne alla barricata per salvarmi. E

siccome essere un angelo è una necessità per lui, così

intanto ne salvò degli altri, salvò Javert. Mi trasse da quel

precipizio per darmi a te, mi portò sulle spalle in quella

orribile fogna. Ah! io sono un mostruoso ingrato. Dopo

essere stato la tua provvidenza, egli fu pure la mia.

Figurati che c'era un tremendo avvallamento da affogarvi

cento volte, affogare nel fango, Cosetta! ed egli me l'ha

fatto attraversare! Io ero svenuto, non vedevo niente, non

udivo niente, non potevo sapere nulla della mia stessa

avventura. Noi adesso andiamo a prenderlo, a condurlo con

noi, voglia o non voglia, e non ci lascerà mai più. Purché

sia in casa! Purché lo troviamo!

Passerò il resto della mia vita a venerarlo. Sì, deve essere

così, sai, Cosetta? A lui Gavroche avrà consegnato la mia

lettera. Tutto si spiega. Capisci?

Cosetta non capiva una parola.

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- Hai ragione - diss'ella.

Frattanto la vettura correva.

5. LA LUCE DIETRO LE TENEBRE

Udendo bussare all'uscio, Valjean si volse.

- Avanti - disse debolmente.

La porta si aprì. Cosetta e Mario apparvero.

Cosetta si precipitò nella stanza.

Mario restò sulla soglia, appoggiato allo stipite.

- Cosetta! - disse Valjean, e si raddrizzò sulla sedia con le

braccia aperte e tremanti, selvaggio, livido, sinistro e con

un'immensa gioia negli occhi.

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Cosetta, soffocata dall'emozione, si lasciò cadere sul petto

di Valjean.

- Papà! - disse.

Egli, sconvolto, balbettava:

- Cosetta! lei! voi, signora! sei tu! Ah mio Dio! - E stretto

tra le braccia di Cosetta, esclamò:

- Sei tu! tu qui! Dunque mi perdoni!

Mario, abbassando le palpebre per impedire alle lacrime di

scorrere, fece un passo e mormorò tra le labbra

convulsamente contratte per trattenere i singhiozzi:

- Padre mio!

- E voi, voi pure mi perdonate! - disse Valjean. Mario non

poté trovare una parola, e Valjean soggiunse: - Grazie.

Cosetta si strappò lo scialle e il cappello e si gettò sul letto,

dicendo:

- Mi danno fastidio.

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E sedutasi sulle ginocchia del vecchio, con un adorabile

gesto gli allontanò i capelli canuti e lo baciò in fronte.

Valjean, tutto smarrito, lasciava fare.

E Cosetta, che capiva appena qualche cosa in confuso,

raddoppiava le carezze, come se volesse pagare il debito di

Mario.

Valjean balbettava:

- Come si diventa sciocchi! Credevo di non vederla più.

Figuratevi signor Pontmercy, che quando siete entrati, io

dicevo tra me: - E' finita. Ecco la sua vesticciola; io sono

un povero miserabile uomo, non vedrò più Cosetta; dicevo

questo nel momento stesso che voi salivate le scale. Ero un

idiota, no? Ecco come si può essere idioti! Si fanno i conti

senza il buon Dio. E il buon Dio dice: - Tu credi che ti

abbandoneranno, scioccone! No, no, le cose non andranno

così. Su via, c'è là un povero vecchio che ha bisogno d'un

angelo. - E l'angelo viene, ed ecco che rivedo la mia

Cosetta, la mia piccola Cosetta! Ah! ero molto infelice!

Stette un po' senza poter parlare, quindi riprese:

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- Avevo veramente bisogno di vedere un pochino ogni

tanto Cosetta.

Qualunque cane vuole un osso da rosicchiare. Però sentivo

bene che ero di troppo. Cercavo di persuadermene: Essi

non hanno bisogno di te, resta dunque nel tuo cantuccio,

non si ha il diritto di essere eterni. Ah! Dio benedetto la

rivedo! Sai, Cosetta, che tuo marito è molto bello? Ah! hai

un bel colletto ricamato; così va bene; mi piace questo

disegno. Te l'ha scelto tuo marito, vero? E poi devi avere

degli scialli di cascemir. Signor Pontmercy, permettetemi di

darle del tu. Non sarà per molto tempo.

E Cosetta a sua volta:

- Che cattiveria, lasciarci in questo modo! Dove siete

andato?

Perché siete stato lontano così a lungo? Una volta i vostri

viaggi non duravano più di tre o quattro giorni. Ho

mandato Nicoletta, ma le rispondevano sempre: è assente.

Quando siete tornato? E perché non ce l'avete fatto

sapere? Sapete che siete molto cambiato? Oh!

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che brutto papà! è stato ammalato e noi non l'abbiamo

saputo!

Guarda, Mario, toccagli la mano: senti com'è fredda.

- Siete qui dunque! Signor Pontmercy, voi mi perdonate! -

ripeté Valjean.

A quella parola ripetuta da Valjean, tutto quello che

gonfiava il cuore di Mario trovò un'uscita. Egli disse con

impeto:

- Cosetta, capisci! Siamo a questo! mi chiede perdono. E

sai tu che cosa mi ha fatto? mi ha salvato la vita. Anzi ha

fatto più ancora; ti ha data a me. E dopo avermi salvato, e

dopo averti data a me, Cosetta, sai che ha fatto di se

stesso? Si è sacrificato.

Ecco l'uomo. E a me l'ingrato, a me il dimentico, a me lo

spietato, a me il colpevole, dice: Grazie! Cosetta, sarebbe

troppo poco passare tutta la vita ai piedi di quest'uomo!

Quella barricata, quella fogna, quella fornace, quella

cloaca, egli ha tutto attraversato per me, per te Cosetta;

egli mi ha portato attraverso tutte le morti, allontanandole

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da me e accettandole per se stesso. Egli ha tutti i coraggi,

tutte le virtù, tutti gli eroismi, tutte le santità. Cosetta,

quest'uomo è l'angelo!

- Zitto! zitto! - disse sotto voce Valjean. - Perché dire tutte

queste cose?

- Ma voi - esclamò Mario con una collera in cui c'era

venerazione - perché non m'avete detto? E' anche colpa

vostra. Salvate la vita alle persone e glielo nascondete! E

fate di più: col pretesto di smascherarvi, vi calunniate. E'

una cosa orribile!

- Ho detto la verità - rispose Valjean.

- No - riprese Mario - la verità è tutta la verità, e voi non

l'avete detta tutta. Voi eravate Madeleine; perché non

l'avete detto? Avete salvato Javert; perché non l'avete

detto? Io vi devo la vita; perché non l'avete detto?

- Perché pensavo come voi, perché trovavo che avevate

ragione, perché era necessario che io m'allontanassi. Se

aveste saputo la faccenda della fogna, mi avreste fatto

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restare con voi; dovevo dunque tacere. Se avessi parlato,

avrei imbarazzato ogni cosa.

- Imbarazzato che cosa? imbarazzato chi? - ribatté Mario. -

Ma credete forse di dover restare qui? Noi vi conduciamo

via. Ah, mio Dio! quando penso che tutto questo l'ho

saputo solo per caso! Vi portiamo via, voi fate parte di noi

stessi, siete suo padre e il mio. Non rimarrete un solo

giorno di più in questa orribile casa.

Non state a credere di trovarvi qui domani.

- Domani - rispose Valjean - non sarò più qui, ma non sarò

nemmeno con voi.

- Cosa volete dire? - riprese il giovane. - Ah! no, non

permettiamo più nessun viaggio. Non ci lascerete più. Ci

appartenete e non vi lasceremo più fuggire.

- Questa volta facciamo sul serio - aggiunse Cosetta. -

Abbiamo una vettura giù. Vi rapisco. Userò la forza se

occorre.

E ridendo fece il gesto di sollevare il vecchio fra le braccia.

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- C'è sempre la vostra camera in casa nostra - proseguì. Se

sapeste com'è bello, adesso, il giardino! Le azalee

fioriscono a meraviglia. I viali sono coperti con sabbia di

fiume, in cui ci sono delle piccole conchiglie violacee.

Mangerete le mie fragole, sono io che le innaffio. E non c'è

più né signora né signor Giovanni, siamo in repubblica e ci

diamo tutti del tu, vero, Mario? Il programma è mutato. Se

sapeste, papà, ho un dispiacere; c'era un pettirosso che

aveva fatto il suo nido in un buco del muro, e un brutto

gattaccio me l'ha mangiato. ll mio povero bel pettirosso

che metteva fuori la testolina dalla sua finestra e mi

guardava! Ne ho pianto. Avrei ammazzato il gatto! Ma ora

non piange più nessuno; ridiamo tutti, siamo tutti felici!

Verrete con noi. Come sarà contento il nonno! Avrete la

vostra aiuola in giardino e la coltiverete voi, e vedremo se

le vostre fragole saranno buone come le mie. E poi, io farò

tutto quello che vorrete, e poi, voi mi obbedirete

appuntino.

Valjean l'udiva senza intenderla; ascoltava la musica della

voce più che il senso delle parole, mentre nell'occhio gli si

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addensava una di quelle grosse lacrime che sono le fosche

perle dell'anima.

Mormorò:

- La prova che Dio è buono, eccola.

- Babbo mio! - disse Cosetta.

Valjean continuò.

- E' vero che sarebbe una delizia vivere insieme. Ci sono gli

alberi pieni di uccelli. Io passeggerei con Cosetta. Vivere

insieme, darsi il buongiorno, chiamarsi nel giardino, è una

dolce cosa. Ci si vede fin dal mattino. Coltiveremmo

ciascuno la nostra aiuola. Lei mi farebbe mangiare le sue

fragole, io le farei cogliere le mie rose. Sarebbe

incantevole. Solo che..

S'interruppe, poi disse dolcemente:

- Peccato!

La lacrima non cadde, rientrò, e Valjean vi sostituì un

sorriso.

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Cosetta prese le mani del vecchio fra le sue.

- Mio Dio! - disse. - Le vostre mani sono ancora più gelide.

Siete forse malato? Soffrite?

- Io no - rispose egli. - Sto benissimo. Solo che...

E s'interruppe.

- Solo che cosa?

- Sto per morire.

Cosetta e Mario rabbrividirono.

- Morire! - esclamò Mario.

- Sì, ma non è nulla - disse Valjean.

Sospirò, sorrise e riprese:

- Cosetta, tu mi parlavi, continua, parla ancora; il tuo

piccolo pettirosso è morto dunque, parla, che io oda la tua

voce!

Mario, pietrificato, guardava il vecchio.

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Cosetta mandò un grido straziante:

- Papà, papà mio! voi vivrete; dovete vivere. Voglio che

viviate, capite!

Valjean alzò la testa verso di lei con venerazione.

- Oh, sì, vietami di morire. Chi sa? obbedirò, forse. Quando

siete entrati stavo per morire. La vostra presenza mi ha

fermato, mi è parso di rinascere.

- Voi siete pieno di forza e di vita - esclamò Mario. -

Credete forse che si muore così? Avete avuto delle

afflizioni, ma non ne avrete più. Sono io che vi chiedo

perdono, e in ginocchio pure!

Voi vivrete con noi, vivrete a lungo. Siamo qui noi due, che

d'ora in poi avremo un pensiero unico: la vostra felicità!

- Lo vedete? - riprese Cosetta tutta in lacrime. - Mario vi

dice che non morirete.

Valjean continuava a sorridere.

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- Quand'anche mi ripigliaste, signor Pontmercy, questo

farebbe in modo che io non fossi quello che sono? No. Dio

ha pensato come voi e me, e non muta parere; è utile che

me ne vada. La morte è un buon accomodamento, Dio sa

meglio di noi quello che fa. Siate felici! il signor Pontmercy

possieda Cosetta! la gioventù sposi il mattino! i lillà e gli

usignoli vi circondino, figli miei, e la vostra vita sia una

bella aiuola battuta dal sole! tutti gli incanti del cielo vi

riempiano l'anima, e che io, oramai non più buono a nulla,

muoia; certamente tutto questo sta bene. Su via, siamo

ragionevoli; ora nulla è più possibile, sento proprio che è

finita! Un'ora fa ho avuto un deliquio; e poi, stanotte ho

bevuto tutta quella brocca d'acqua. Come è buono, tuo

marito, Cosetta!

stai meglio con lui che con me.

S'udì un rumore alla porta; entrava il medico.

- Buongiorno e addio, dottore - disse Valjean. - Ecco i miei

poveri figlioli.

Mario s'avvicinò al medico; gli rivolse questa sola parola:

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- Signore...? - ma nel modo di pronunciarla c'era una

domanda completa.

Il medico rispose alla domanda con un'occhiata espressiva.

- Se le cose dispiacciono - disse Valjean - non è un motivo

d'essere ingiusti verso Dio.

Ci fu un momento di silenzio. Tutti i petti erano oppressi.

Valjean si volse verso Cosetta, e si mise a contemplarla

come se volesse prenderne l'immagine per tutta l'eternità.

Nell'ombra profonda in cui era già disceso gli era tuttavia

possibile l'estasi guardando Cosetta. Il riflesso di quel dolce

viso illuminava la sua pallida faccia. Il sepolcro può avere i

suoi bagliori.

ll medico gli toccò il polso.

- Ah! di voi aveva bisogno! - mormorò, guardando Cosetta

e Mario.

E chinandosi all'orecchio di Mario, aggiunse con voce molto

sommessa: - Troppo tardi!

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Quasi senza cessare di guardar Cosetta, Valjean fissò

serenamente Mario e il medico, e dalla sua bocca si

sentirono uscire queste parole appena articolate:

- Morire è nulla; non vivere è orribile.

D'un tratto si alzò. Questi ritorni di forza talvolta sono un

segno dell'agonia. Egli andò con passo fermo verso la

parete, scostando Mario e il medico che volevano aiutarlo,

staccò il piccolo crocifisso di rame che vi era appeso, tornò

a sedersi con tutta la libertà dei movimenti dell'uomo sano,

e posando il crocifisso sulla tavola, disse con voce alta:

- Ecco il gran martire.

Poi il petto gli si accasciò, la testa gli vacillò come se fosse

presa dall'ebbrezza della tomba, e le mani posate sui

ginocchi, cominciarono a graffiare con le unghie la stoffa

dei pantaloni.

Cosetta gli sosteneva le spalle, e singhiozzava, e cercava di

parlargli, senza riuscirvi. Tra le parole, miste a quella

lugubre saliva che accompagna le lacrime, si distinguevano

delle frasi come questa:

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- Papà non ci abbandonate. Possibile che vi ritroviamo solo

per perdervi?

Si potrebbe dire che l'agonia serpeggia; va, viene, s'avanza

verso il sepolcro, retrocede verso la vita; morendo, si va

quasi a tentoni.

Dopo quella mezza sincope, Valjean si riprese, scosse la

fronte come per farne cadere le tenebre, e ritornò quasi

interamente lucido. Prese un lembo della manica di Cosetta

e la baciò.

- Rinviene, dottore, rinviene! - esclamò Mario.

- Voi siete buoni tutti e due - disse Valjean.

- Ora vi dirò che cosa mi ha fatto pena. Quello che mi ha

fatto pena, signor Pontmercy, è stato che non avete voluto

toccare il denaro. Esso appartiene proprio a vostra moglie.

Ora vi spiego, figli miei, e anche per questo sono contento

di vedervi. Il jais nero viene dall'Inghilterra, il jais bianco

viene dalla Norvegia.

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Tutto ciò è scritto su quel foglio lì, che leggerete. Per i

braccialetti inventai di sostituire ai cerchietti di latta saldati

i cerchietti di latta accostati; riescono più belli, migliori e

meno cari. Capirete quanto denaro si può guadagnare.

Dunque la ricchezza di Cosetta è proprio sua. Vi dò questi

particolari perché abbiate l'animo tranquillo.

La portinaia era salita e guardava dalla porta socchiusa. Il

medico la congedò, ma non poté impedire che quella donna

zelante, prima d'allontanarsi, gridasse al moribondo:

- Volete un prete?

- Ne ho già uno - rispose Valjean.

E parve accennasse col dito un punto al di sopra della sua

testa, dove si sarebbe detto che vedesse qualcuno.

E' probabile infatti che il Vescovo assistesse a quell'agonia.

Cosetta gli insinuò leggermente un guanciale dietro le reni.

Valjean riprese:

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- Signor Pontmercy, non abbiate nessun timore, ve ne

scongiuro. I seicentomila franchi sono di Cosetta. La mia

vita sarebbe stata inutile se voi non li godeste! Eravamo

riusciti a fabbricare molto bene quelle conterie, e potevamo

gareggiare con quelli che chiamano i gioielli di Berlino. Per

esempio, si può far concorrenza al vetro nero di Germania:

dodici dozzine, cioè milleduecento grani ben tagliati,

costano solo tre franchi.

Quando una persona cara sta per morire, noi la guardiamo

con uno sguardo che si aggrappa a lei e vorrebbe

trattenerla. Mario e Cosetta, tenendosi per mano, muti per

l'angoscia, disperati, tremanti, stavano in piedi davanti a

Valjean, non sapendo che cosa dire alla morte.

Di minuto in minuto, Valjean declinava, s'indeboliva,

s'avvicinava sempre più all'orizzonte oscuro. Il suo respiro

era divenuto intermittente, interrotto dal rantolo. Faceva

gran fatica a muovere l'avambraccio; i piedi avevano

perduto ogni movimento; e, mentre la debolezza delle

membra e l'accasciamento del corpo crescevano, tutta la

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maestà dell'anima saliva e si spiegava sulla sua fronte. Già

nella sua pupilla era visibile la luce del mondo ignoto.

Il suo volto impallidiva e nello stesso tempo sorrideva. Non

si vedeva più la vita: ma ben altro. Il respiro scemava, lo

sguardo s'ingrandiva. Era un cadavere al quale

cominciavano a spuntare le ali.

Fece segno a Cosetta, poi a Mario d'accostarsi: era

evidentemente l'ultimo minuto dell'ultima ora, ed egli si

mise a parlar loro con voce così fioca, che pareva venisse

di lontano; si sarebbe detto che ci fosse già una muraglia

tra essi e lui.

- Avvicinatevi, avvicinatevi tutti e due. Io vi amo molto.

Oh! è dolce morire così! Tu pure m'ami, Cosetta mia; io lo

sapevo che conservavi sempre l'affetto per il tuo vecchio

amico. Come sei stata gentile a mettermi questo guanciale

dietro le spalle! Mi piangerai un poco, vero? Ma non troppo.

Non voglio che tu abbia troppe afflizioni. E' necessario che

vi divertiate un poco, figlioli miei. Ho dimenticato di dirvi

che sui fermagli senza ardiglione guadagnavo anche più

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che su tutto il resto; dodici dozzine venivano a costare

dieci franchi e si vendevano a sessanta. Era davvero un

buon commercio. Non dovete dunque stupirvi dei

seicentomila franchi, signor Pontmercy. E' denaro onesto;

potete essere ricchi con tutta tranquillità. Dovrete avere

una carrozza, ogni tanto un palco a teatro, delle graziose

tolette da ballo per la mia Cosetta, e poi dare dei buoni

pranzi agli amici, essere molto felici.

Poco fa scrivevo a Cosetta; essa troverà la mia lettera. A

lei lascio i due candelieri che sono sul camino. Sono

d'argento; ma per me sono d'oro, sono di diamante;

mutano in ceri le candele che vi si pongono. Non so se

colui che me li ha dati sia contento di me lassù. Ho fatto

quanto ho potuto.

Figlioli miei, non dimenticate che io sono povero; mi farete

seppellire in un cantuccio qualunque sotto una pietra che

indichi il posto. E' questa la mia volontà. Nessun nome

sulla pietra. Se Cosetta vorrà venire qualche volta, mi farà

piacere, e voi pure signor Pontmercy.

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A voi devo confessare che non vi ho sempre amato, e ve

ne chiedo perdono; ora Cosetta e voi formate per me una

sola persona. Vi sono tanto riconoscente, perché so che

farete felice Cosetta. Se sapeste, signor Pontmercy, le sue

belle guance rosee formavano la mia gioia, e quando la

vedevo un po' pallida ero triste.

Nel cassettone c'è un biglietto di cinquecento franchi; non

l'ho toccato; è per i poveri.

Cosetta, vedi là sul letto la tua vesticciola? La riconosci?

Eppure sono trascorsi solo dieci anni! Come passa il tempo!

Siamo stati molto felici. Ora è finita. Figlioli miei, non

piangete, non vado lontano, e di là vi vedrò. Basterà che

guardiate lassù quando si fa notte e mi vedrete sorridere.

Cosetta, ti ricordi di Montfermeil? Eri sola nel bosco e avevi

molta paura. Ti ricordi quando presi il manico del secchio

d'acqua? Fu quella la prima volta che toccai la tua povera

manina.

Era tanto fredda! Ah! avevate le mani rosse allora,

signorina, e ora le avete così candide. E la grande

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bambola? ti ricordi? La chiamavi Caterina! Ti rammaricavi

di non averla portata in convento! Quante volte m'hai fatto

ridere, buon angelo mio! Dopo la pioggia, mettevi come

barche dei fuscelli di paglia nei rigagnoli e li guardavi

andare. Un giorno, ti diedi una racchetta di vimini e un

volante con piume gialle, azzurre e verdi. Tu l'hai

dimenticato, tu! Eri così birichina da piccola! Giocavi; ti

mettevi delle ciliegie alle orecchie. Sono cose del passato.

Le foreste attraversate con la mia bambina, gli alberi sotto

i quali passeggiammo insieme, i monasteri in cui ci

nascondemmo, i giochi, il bel riso della fanciullezza, sono

ombra. E io che credevo che tutto ciò mi appartenesse;

ecco la mia stoltezza. Quei Thénardier erano cattivi, ma

bisogna perdonarli. Cosetta, è venuto il momento di dirti il

nome di tua madre. Essa si chiamava Fantina. Ricorda

questo nome: Fantina. Mettiti in ginocchio ogni qual volta

lo pronuncerai. Ha patito molto; e ti ha molto amata. Essa

ha avuto in sventura tutto quanto tu hai di felicità. Sono

queste le parti che fa Dio. Egli è lassù, ci vede tutti, e sa

quello che fa in mezzo alle sue grandi stelle.

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Amatevi molto, sempre; non c'è altro al mondo: amarsi.

Penserete talvolta al povero vecchio che muore qui.

Cosetta mia, non è colpa mia, sai, se in tutto questo tempo

non ti ho vista; questo mi spezzava il cuore. Venivo fin

sull'angolo della tua via; dovevo fare un'impressione

curiosa alla gente che mi vedeva passare. Ero come pazzo;

una volta sono uscito senza cappello. Figlioli miei, comincio

a non vedere più chiaro; avevo ancora qualche cosa da

dire, ma non importa. Pensate un po' a me.

Voi siete creature benedette. Non so cos'abbia, vedo della

luce.

Avvicinatevi di più. Datemi le vostre care teste dilette; che

vi metta sopra le mani!

Cosetta e Mario caddero in ginocchio, smarriti, soffocati

dalle lacrime, ciascuno su una delle mani di Valjean. Quelle

mani auguste non si muovevano più.

Egli era rovesciato indietro, e il suo bianco volto, illuminato

dai candelieri, guardava il cielo; lasciava che Cosetta e

Mario coprissero di baci le sue mani: era morto.

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La notte era senza stelle e di un buio profondo. Certo,

nell'ombra, qualche angelo immenso stava ritto, con le ali

spiegate, ad attenderne l'anima.

6. L'ERBA NASCONDE E LA PIOGGIA CANCELLA

Nel cimitero di Père-Lachaise, vicino alla fossa comune,

lontano dal quartiere elegante di quella città dei sepolcri,

lontano da tutte quelle tombe dalle forme fantasiose che

ostentano al cospetto dell'eternità le orride mode della

morte, in un angolo deserto, rasente un vecchio muro,

sotto una grossa pietra alla quale si abbarbicano dei

vilucchi, tra la gramigna e il musco, c'è una tomba. Questa

tomba non è esente più delle altre dalle ingiurie del tempo,

dalla muffa, dal lichene e dagli escrementi di uccelli.

L'acqua la inverdisce, l'aria l'annerisce. Non è vicina a

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nessun sentiero, e i visitatori non amano spingersi da

quella parte perché l'erba è alta e bagna subito i piedi.

Quando splende un po' di sole, ci vanno le lucertole.

Tutt'intorno, c'è un fruscio di avena selvatica. A primavera

le capinere vanno a cantare sull'albero.

Quella tomba è nuda. Chi tagliò quella pietra si curò solo

del necessario e non si preoccupò d'altro che di fare quella

pietra abbastanza lunga e abbastanza larga per coprire un

uomo.

Non vi si legge alcun nome.

Solo, e sono già molti anni, una mano vi ha scritto a matita

questi versi resi a poco a poco illeggibili dalla pioggia e

dalla polvere, e probabilmente a quest'ora cancellati:

"Dorme. Benché fu ben strana la sorte egli viveva. E lo

toccò la morte quando l'angelo suo non ci fu più.

E una cosa assai naturale essa fu come la notte che

succede al giorno".

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