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I misteri di Black Port - Fabrizio Fortino

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Può un uomo di cui nessuno ricorda il nome cambiare le sorti dell’Europa del XIX secolo? Eppure per un bizzarro scherzo del destino, o semplicemente per puro caso, un anonimo soldato francese, al comando del generale Bonaparte, fa una scoperta che sconvolgerà il normale corso della storia. Black Port, metà del XIX secolo. Qualcosa di oscuro si muove nel sottosuolo della città. Qualcosa di misterioso partorito dall’empio intestino sotterraneo. Jack Reynold, maggiore del 17° reggimento di linea dell’Esercito Reale Inglese, verrà messo a dura prova nel risolvere l’enigma che circonda alcune inspiegabili sparizioni. È solo l’inizio di un’avventura che lo porterà a scoprire le sue origini, avvolte nel mistero, e a fare i conti con forze ben più grandi di lui in un’Europa sull’orlo della guerra.

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Fabrizio Fortino

i misteri di black port

Casini Editore

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© 2011 Valter Casini Edizioniwww.casinieditore.com

ISBN: 978-88-7905-185-9

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A Gaia e Assunta, per avermi mostrato la magia.A Giorgio e Richard, per le lunghe passeggiate

tra i vicoli di Black Port.

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Prologo

Tirò le redini. Il suo destriero scartò di lato sbuffando, poi scosse risoluto la testa e moderò il passo in un trotto controllato. Il cavaliere percepì i muscoli dell’animale rilassarsi. Il sollievo per entrambi fu immediato. Da troppi giorni ormai cavalcavano a un ritmo estenuante, schiavi di un’urgenza che non ammette-va indugi. Le narici del cavallo emisero fiato caldo che imme-diatamente, a contatto con la fredda aria del bosco, si condensò in volute bianche. Il silenzio era rotto solo dal respiro ansante della bestia e dal ritmico scalpiccio degli zoccoli sul terreno ghiacciato.

L’uomo si alzò sulle staffe e volse lo sguardo alla pianura sottostante, proprio oltre il limitare degli alberi.

— A quanto pare siamo arrivati — disse accarezzando il collo della sua cavalcatura. — Solo un ultimo sforzo e potremo riposare.

Il viaggio era stato lungo e logorante. Aveva proceduto a tap-pe forzate con poche soste, lunghe appena il tempo necessario per far riposare le membra. A dorso di molti destrieri, avvicen-datisi durante il viaggio, aveva attraversato intere nazioni lungo millecinquecento miglia, tagliando l’Europa dalla Francia alla Russia.

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Con le mani cercò il muso dell’animale e bisbigliò parole d’incoraggiamento, incitandolo a proseguire. Dette di speroni e il cavallo reagì al comando scendendo per il pendio.

L’accampamento dell’esercito francese era situato a poca distanza dalla città di Krasnoe. Interminabili file di bivacchi si stendevano a perdita d’occhio; falò improvvisati permettevano agli stanchi soldati di riscaldarsi durante la notte. La vista della piana al tramonto inondata da tutte quelle luci avrebbe potuto sembrare affascinante e romantica, ma celava qualcosa di oscu-ro, qualcosa che si poteva leggere sui volti degli uomini seduti davanti ai fuochi: un dramma da poco consumato. In quella pia-na di morte, i soldati dell’Imperatore Bonaparte erano andati per combattere.

Intorno a lui, solo macerie. Giacche blu giacevano a terra, strappate, bruciate, derise da

una guerra che indossava abiti di morte per un gusto perverso di controllo totale, di dominio sul mondo.

Condusse il suo cavallo attraverso i carri e i traini delle batte-rie di cannoni, passando accanto a colonne di uomini in marcia e ai ricoveri improvvisati in cui si cercava di curare i feriti o, nei casi più disperati, ci si scordava di loro. L’odore lo colpì: il puz-zo della polvere da sparo non riesce mai a coprire quello della morte. Man mano che si addentrava nell’accampamento, senti-va su di sé un’oppressione sempre più travolgente. La creatura dell’Imperatore, il suo glorioso esercito, era stata gravemente ferita, e ora aveva paura.

Cercò di concentrarsi solo sulla sua missione. Si impose di non badare all’interminabile sfilata di uomini e mezzi intorno a lui. Eppure non poteva fare a meno di guardare, di sentire. Alla fine scelse di imprimersi bene in testa quelle immagini, quella sofferenza, quell’odore. Furono gli sguardi degli uomini a tur-barlo più di tutto. Uomini induriti da molte battaglie, abituati a muoversi nei meandri della paura e della disperazione, abituati a

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Prologo

convivere con l’ancestrale terrore della morte, ora si muoveva-no smarriti, formando una marea incessante di corpi ciondolanti e logori. Traditi nelle aspettative, sembravano persi, ciascuno chiuso nel suo dramma personale: fantasmi.

I muscoli del cavallo erano tesi fino allo spasmo. Si contra-evano e allungavano in continuazione al ritmo di signora morte per ingannarsi, forse, con la convinzione che correre li avrebbe portati lontani da quell’inferno. Invece vi stavano entrando, pun-tando dritti al suo cuore nero.

Spronò la bestia a correre più veloce. Non poteva tardare ancora.

Conosceva bene il suo compito. Fallire avrebbe segnato la storia.

Nevicava da ore: il bianco manto che ricopriva il terreno era chiazzato dal rosso del sangue.

Dovette lasciare il cavallo assicurandolo all’asse di un carro semidistrutto e continuare a piedi; la neve e il fango non per-mettevano all’animale di proseguire in quella terra di Russia già calpestata da centinaia di uomini ormai morti. Si trascinò fatico-samente fino alle retrovie, fino a una tenda grigia come il cielo sopra di lui.

Fu intercettato da un gruppo di sentinelle, le baionette brilla-vano alla tenue luce dei fuochi. Volti austeri e stoici, tipici dei granatieri della vecchia guardia. Nessuno poteva avvicinarsi alla tenda dell’Imperatore senza il consenso delle sue fiere guardie del corpo. Non quella sera, comunque.

— Sono il tenente Emmanuel Closher — si presentò, sforzan-dosi di assumere un tono autoritario. — Sua Maestà mi attende.

Le guardie non risposero e continuarono a fissare immobili quella figura avvolta in un pesante cappotto blu scuro, lacero e incrostato di fango ghiacciato.

— Cos’è, siete sordi? Non avete sentito? Ho un dispaccio da consegnare personalmente nelle mani dell’Imperatore — urlò

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Closher. La sua pazienza non aveva bisogno di essere messa ul-teriormente alla prova, non dopo ciò che aveva passato.

Le guardie parlottarono tra loro per alcuni brevi istanti, poi lentamente una di esse indietreggiò per dirigersi verso un suo superiore. Scambiò alcune parole con il graduato, mantenendo fisso lo sguardo sul nuovo venuto. Poco dopo fece cenno al compagno che lo teneva sotto tiro di scortarlo fino a loro.

Pochi passi.I due ufficiali si guardarono dritti negli occhi senza proferi-

re parola. Sguardi glaciali, silenziosi, perscrutanti.— Sono il tenente Emmanuel Closher, devo…— So bene chi siete, signore. Vi aspettavamo da tempo.— Bene, allora conducetemi senza indugio da Sua Maestà,

ho un dispaccio da recapitargli.— Non così in fretta — replicò l’ufficiale d’ordinanza.Fece un cenno ai due uomini che subito si affrettarono a

perquisire il tenente. — Mi perdonerete questa scortesia, ma dobbiamo tutelare

l’incolumità dell’Imperatore.Emmanuel Closher lasciò che gli togliessero dal cinturone

la pistola e la sciabola da cavalleria leggera.L’ufficiale d’ordinanza sembrò soddisfatto. — Ora, se vole-

te seguirmi. — Girò i tacchi e si diresse verso la grande tenda.A causa della scarsa illuminazione, lo spartano ambiente

aveva un’aura tetra e spettrale. Probabilmente quella sera più di altre rispecchiava lo stato d’animo del suo occupante, pensò tra sé il tenente.

L’Imperatore era lì, chino sul suo scrittoio da campo, intento a leggere l’ennesimo rapporto, l’ennesima conta delle perdite.

Una tristezza profonda velava il suo sguardo granitico o for-se si trattava di semplice stanchezza dovuta alle troppe notti insonni. Non si accorse neanche dell’uomo fermo davanti a lui.

Continuò semplicemente a leggere.

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Prologo

Intorno a lui, goffi aiutanti di campo erano intenti a ripiega-re mappe e incartamenti, ma sembrava che nulla potesse disto-glierlo da quell’elenco di morte.

— Maestà… — disse piano, quasi con dolcezza, il tenente Closher.

Napoleone fu riportato alla realtà da quella voce familia-re, una voce che aveva tutto il calore della speranza. Volse lo sguardo, incrociò per un istante gli occhi dell’uomo davanti a lui e tutto cambiò. In un momento fu in piedi, aggirando lo scrittoio e ponendosi di fronte a Closher.

— Maestà, arrivo ora da Parigi — esordì lui mostrando un sorriso stanco.

— Sì sì… attendete un istante — rispose Napoleone pog-giandogli una mano sulla spalla. — Fuori tutti… subito! — Il suo tono non ammetteva repliche, e in pochi attimi la tenda si svuotò degli aiutanti.

Napoleone tornò a guardare gli occhi di Closher sperando di leggervi qualche anticipazione. Il tenente non attese oltre, aprì il cappotto e prese da una tasca della giubba una lettera.

— Finalmente! — esclamò Napoleone. — Che nuove mi portate, Closher? Su, ditemi, raccontatemi, non tenetemi troppo sulle spine… — I suoi occhi riacquistarono vivacità, il suo volto colore, d’un tratto la stanchezza fu dimenticata, così come l’angoscia. Sul suo volto apparve un sorriso che a Closher ricordò quello di un bambino in attesa di scartare un regalo.

— Leggete da voi, Maestà, aprite la lettera. — Anche Clo-sher sentì il corpo rilassarsi, una strana sensazione di benessere lo invase.

— Sì, certo! La lettera. — Continuò ancora per qualche se-condo a rigirarsi quel prezioso messaggio tra le dita senza mai smettere di fissarlo, quasi volesse rendere quel momento anco-ra più solenne. Poi aprì il foglio di carta rompendo il sigillo di

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ceralacca con impressa un’aquila imperiale che sormontava un dieci in numeri romani.

I suoi occhi saettarono freneticamente da sinistra a destra, infine si fissarono in quelli di Closher.

— Allora Maestà? Buone noti… Napoleone non gli diede il tempo di finire la frase, lasciò

cadere la lettera, lo prese per un braccio e lo portò fuori urlan-do ordini.

— La mia carrozza, qui e subito. — Si voltò verso l’ingres-so della tenda dove Closher si era fermato in silenziosa attesa. — Torniamo a Parigi… stanotte!

Nella penombra della tenda ormai vuota rimase Rustam, oscura sentinella dell’Imperatore, implacabile e silenzioso come solo un mamelucco sapeva essere. Con lentezza si chinò, raccolse il pezzo di carta e lo lesse. Il suo sguardo tornò verso l’apertura della tenda, poi lentamente si avvicinò a una delle candele accese sullo scrittoio e lasciò che il fuoco cancellasse ogni traccia del messaggio.

Solo poche parole: «Ce l’ho fatta!».

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Capitolo I

La pioggia non dava tregua. Ormai erano giorni che cadeva incessante sulla città portuale, ripulendola dalla lordura che la ricopriva. Nessuno se ne lamentò, nessuno vi fece caso. Sarebbe comunque arrivato il tempo in cui le strade di Black Port sareb-bero state ricoperte di nuovo dalla sporcizia. Era questa la sua caratteristica. Nonostante l’impegno per cercare di mantenere un certo ordine, si finiva sempre con il dover ricominciare tutto da capo. Neanche la natura riusciva nell’intento, per quanto in quei giorni ci provasse.

Le vie erano vuote o quasi, poca gente si avventurava in giro dopo il tramonto, figurarsi con un tempo come quello. Eppure i vicoli sciamavano di vita. Tra le ombre si percepivano movimenti lievi, forse topi, forse il vento o forse qualcosa di molto peggio.

Del resto questa era Black Port. Ogni angolo, ogni vicolo rap-presentava una scommessa con il destino. A volte si era fortunati e se ne usciva illesi, ma in altri casi l’appuntamento con la morte non tardava.

Orde di assassini, tagliagole, ladri o di qualsiasi altra feccia che la schiuma della terra riuscisse a partorire avevano stabilito la propria residenza nei lugubri vicoli che come un dedalo infi-nito si diramavano dal porto.

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Eppure quella notte, come molte altre notti prima di quella, un uomo si aggirava per le vie poco illuminate, incurante del pericolo. La pioggia non lo infastidiva, non era certo di un po’ d’acqua che doveva preoccuparsi.

Passò alcuni vicoli indenne, sicuro come solo chi è abituato a percorrerli regolarmente può essere, finché non si ritrovò in una larga piazza. Rallentò l’andatura e si diresse verso una luce fioca emanata da una lampada all’altro capo. Sopra la lampada un’insegna: «Il Vecchio Marinaio».

Spinse la porta di legno marcio e subito un misto di odori lo travolse. Proveniva dalle cucine della taverna, dal grande ca-mino della sala ma soprattutto dalla calca di corpi sudati che si formava tutte le sere per spendere le poche sterline guadagnate faticosamente di giorno.

Una figura imponente gli si fece subito incontro.— Come butta, Sam? — chiese l’uomo zuppo di pioggia

mentre si beava dell’odore d’arrosto proveniente dallo spiedo.— Al solito — rispose l’omone rubizzo asciugandosi le mani

in un lercio panno infilato nei calzoni. — Cantano, bevono, qualche volta si azzuffano.

L’uomo sorrise e fece per uscire dal locale. — Un bicchierino, Jack? — chiese l’oste.— Grazie Sam, non bevo quando sono in servizio. — Ci pen-

sò su solo un attimo. — Magari passo a fine turno.— Al solito, Jack.— Al solito, Sam.

Per tutto il tragitto fino al porto ebbe la sensazione di essere osservato; succedeva spesso tra i vicoli. Si veniva valutati con-tinuamente, finché non si veniva scelti come preda da qualcuno.

Ma lui non aveva di questi problemi. La carica che ricopriva lo teneva in qualche modo al sicuro da una buona percentuale di tagliagole che erano all’opera quella notte; tuttavia un po’ di

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caPItolo I

precauzione e di buon senso l’avevano convinto a portarsi dietro la sua spada e la pistola d’ordinanza.

Erano ormai le undici quando decise di rientrare in caserma.Varcò il grande cancello che delimitava la zona militare

del porto. Baluardo, la chiamavano: nei tempi passati era stata un’imponente fortezza navale. Tonnellate di dura roccia a pic-co sulle acque la rendevano inespugnabile. Cannoni da dodici libbre si affacciavano da ogni apertura verso il mare aperto, in attesa di intonare il loro canto di morte. Un canto che non sareb-be mai giunto. La pace regnava in tutta l’Europa del XIX secolo dopo la sconfitta di Napoleone, ma il Baluardo rimaneva lì, an-tico gigante di pietra ormai declassato ad alloggio per militari.

Passò davanti alla garitta della sentinella, una casupola di le-gno marcio per la salsedine. Buttò un’occhiata distratta al suo interno e continuò la salita verso il corpo di guardia.

Dal suo interno proveniva un vociare debole ma concitato. Aprì la porta e si sentì subito a casa. La considerava casa sua da molto tempo, da quando il Reale Esercito Inglese aveva deciso di inviare il 17° reggimento di linea nella città di Black Port. Si era subito trovato a proprio agio: in fondo, quel colosso di roccia, tetro, silenzioso e abbandonato rispecchiava molto il suo carattere.

— ’Sera, maggiore — disse un sergente grassoccio alzandosi pigramente dalla sedia e mettendosi sull’attenti, imitato da altri tre soldati.

— Comodi, comodi. — Li fermò con un cenno della mano. — Bob, evita di fare tutto questo movimento o rischierai di di-magrire, un giorno o l’altro — disse sorridendo il maggiore Jack Reynold.

— Impossibile, Jack. Se mai accadesse voglio che uno di voi figli di puttana mi passi alla baionetta — disse il sergente pun-tando il tozzo indice verso gli altri tre uomini e ricadendo pesan-temente sulla sedia.

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Jack si sfilò il cappotto lasciando a terra un cerchio d’acqua, poi batté forte i piedi sul pavimento di pietra e si tolse il copri-capo gettandolo su una sedia libera, in un angolo. Il pesante cap-pello militare del 17° reggimento riportava alla memoria le stufe in voga durante il secolo precedente, con quel dritto cilindro di tela nera che si alzava per diciassette pollici sopra la linea degli occhi: questo era valso agli uomini del reggimento il nomignolo di Old Stove, “vecchia stufa”, appunto.

Jack si avvicinò al tavolo dove i quattro avevano ripreso la loro partita a carte.

— Novità, Bob?— Se per novità intendi che questi tre figli di cane mi han-

no tolto la paga di un mese in meno di un’ora… allora sì… ci sono novità, Jack! — ringhiò il sergente buttando giù l’ennesi-mo bicchiere di whiskey e asciugandosi la bocca sulla manica della divisa rossa come le sue gote, a dispetto dell’ilarità dei suoi compagni.

— Bene, allora salgo nel mio alloggio. Sarò lì se hai bisogno di me.

— Bene un corno — disse tra sé il sergente rigirandosi tra le grasse mani le cinque carte. — Certo, Jack, vai a riposare, qui ci penso io.

Il tenente Reynold fece per andare, poi si voltò pensieroso. — Ah, Bob, fai un salto alla garitta quando sei comodo e sve-

glia il piantone, credo si sia addormentato di nuovo.— Stupido figlio di… sì, certo, vado subito. Appena ho finito

con questi tre — disse nervosamente.— Ah, Bob…— Che c’è! — esclamò il sergente che nella concitazione ri-

schiò di far cadere l’ennesimo bicchiere appena riempito.— Tieni il jack e scarta le altre… fidati.Un sorriso apparve sul volto del sergente: il black jack era la

carta preferita di entrambi.

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Il fuoco nel piccolo camino si era ridotto a un mucchio di braci incandescenti. L’ambiente però aveva mantenuto un’acco-gliente temperatura che invitava i sensi a rilassarsi in un torpore prossimo alla sonnolenza.

— Basta così! — disse il sergente Robert Smith. — Credo di avervi sovvenzionato abbastanza, per stanotte. — Si alzò e aggiunse qualche pezzo di legna alla brace. Il fuoco riprese im-mediatamente vitalità.

— Su, Smithey, vi rifarete domani — disse uno dei giovani soldati dando di gomito a quello accanto a lui e ammiccando verso gli altri.

— Sì Smithey, domani potremmo giocare a carte scoperte — gracchiò un altro.

Bob si girò con lentezza studiata verso i tre, che ridevano sguaiatamente.

— Questo sarebbe il modo di trattare un vostro superiore? È questo che vi hanno insegnato? Bene. — Si avvicinò all’appen-diabiti e prese due cappotti. — In piedi femminuccia maleduca-ta, si esce — disse gettando un cappotto sul tavolo.

— Ma Smithey, sono di riposo fino alle quattro — piagnucolò Norton, un ragazzo di appena diciotto anni.

— E allora? Quale parte del «si esce» non ti è chiara? — Si infilò il cappotto e l’immancabile cappello e si diresse verso la porta sorridendo malignamente.

Tra sbuffi e lamentele il soldato si alzò e a malincuore indos-sò il pesante equipaggiamento. Gli altri due si guardarono bene dal prenderlo in giro.

Il tempo si era mantenuto costante per giorni, non c’era mo-tivo per cui sarebbe dovuto cambiare quella notte. Infatti, non smentì le aspettative. Appena fuori, una fredda pioggerellina li investì.

Il sergente si strinse ancora di più nel suo cappotto imper-meabile.

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— Maledetta pioggia, ti arriva fin dentro le ossa. — Detto questo proruppe in un fragoroso rutto. — Oddio quanto amo l’Inghilterra.

Norton non trattenne un risolino a denti stretti.Si incamminarono lentamente, avanzando alla tenue luce del-

la lanterna per il breve tragitto in discesa fino all’ingresso della caserma. Le nubi impedivano alla pallida luce della luna di fil-trare, rendendo ancora più tetra una nottata già opprimente.

A poche iarde dalla garitta di guardia il sergente fece segno a Norton di attendere. Si avvicinò furtivo all’apertura del gab-biotto con l’intento, stavolta, di far prendere un bello spavento al soldato Harvey, fin troppo avvezzo al sonno durante i turni di guardia.

Appena davanti l’uscio, estrasse la pistola e colpì con il cal-cio dell’arma il vecchio legno della struttura, che produsse un suono sordo, facendo saltare decine di schegge di vernice.

— Allora? Si batte la fiacca, soldato Jeremy Harvey? Vuoi svegliarti o devo venire a prendere a calci quel tuo lurido culo da stupido scozzese?

In risposta ebbe solo il sibilo del vento che si insinuava nelle fessure del legno.

— Dannato figlio… — Infilò la lanterna nell’oscurità della garitta. Ma con sorpresa la trovò vuota. Tutto sembrava in or-dine, il moschetto ancora poggiato in un angolo, una lampada a olio spenta su una piccola mensola. Il sergente si voltò verso Norton che alzò semplicemente le spalle, senza dire nulla. Ri-fletté sull’assurdità della cosa. Non si lasciava una postazione di guardia incustodita, per nessun motivo al mondo. Magari si son-necchiava, questo sì, ma non la si poteva abbandonare. Qualcosa attirò la sua attenzione. Sulle assi di legno del pavimento, tra il fango e la sporcizia, c’era un oggetto. Lo raccolse.

— Non è la pipa di Harvey, questa? — chiese protendendo l’oggetto dietro di sé senza togliere lo sguardo dall’interno.

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— Sì, Smithey, è proprio la sua, o almeno mi sembra quella — rispose Norton infreddolito. Era stufo di quel fuori programma e non vedeva l’ora di tornare al corpo di guardia per un goccetto e per continuare la partita con i compagni. In fondo, quelle erano le sue ore di riposo e la fortuna stava dalla sua parte, quella sera.

— Vai alle latrine, vedi se lo trovi lì, io faccio un giro qua intorno — ordinò secco il sergente Smith.

— Starà sicuramente pisciando, Smithey, appena torna lo si-stemiamo per…

— Ho detto vai. — Stavolta il tono non ammetteva repliche e il ragazzo si catapultò verso le latrine.

Rimasto solo, Robert prese a gironzolare intorno alla garit-ta, calpestando l’erba fradicia dell’aiuola e impantanandosi nel fango. “Cosa ce ne facciamo di un’aiuola se non ci sono fiori?”, si chiese. Ma in fondo era meglio così: erano soldati, non dame-rini. Sul terreno lì intorno non riuscì a trovare nessuna traccia o impronta, a parte le sue, e pensò che non sarebbe stato sempli-ce trovarne, con tutta quell’acqua che continuava a cadere dal cielo.

Il soldato Carl Norton fece di corsa le duecento iarde che lo separavano dalla zona adibita a latrina. Si fermò solo quando arrivò sotto il portico, si diede una sgrullata per togliersi l’acqua di dosso e imprecò. Stavolta Jeremy l’aveva fatta grossa: addor-mentarsi era un conto, ma abbandonare la postazione era cosa ancor più grave e persino lui sapeva che non andava neanche pensata.

— Jeremy, fottuto scozzese, ci sei cascato? O stai pisciando talmente tanto che il cesso ha sputato le tue urine in cielo facen-do diluviare? — Questo era il linguaggio che lo faceva sentire un vero uomo. Aveva avuto un buon maestro, il sergente non lesinava certo rimproveri coloriti quando lo si faceva arrabbiare, e lui aveva imparato presto a usarli a sua volta.

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Non ebbe risposta. Allora cominciò ad aprire una a una tutte le porte che suddividevano la latrina in piccole cellette. Ogni volta che una porta veniva aperta, un tanfo acre gli investiva i polmoni; l’acqua doveva aver intasato gli scoli, riportando a galla le feci acide.

— Questa te la faccio pagare, Jeremy, giuro che te la faccio pagare cara — urlò.

Aprì l’ultima porta quasi con noncuranza, rassegnato a non trovare nulla, ma qualcosa si mosse nell’ombra. Un odore fetido annebbiò i suoi sensi stordendolo per un attimo.

— Eccoti maledetto, ti sei bevuto il cervello? O forse te lo sei cagato, visto il tanfo che emani? — Fece per tirare il compagno fuori dalla celletta, quando si sentì afferrare per il polso. Una stretta dura, ferrea, lo spinse dentro e poi fu solo buio.

Robert Smith, Smithey come lo chiamavano tutti, era pensie-roso. Si poggiò alla parete della garitta, al riparo dall’incessante acquazzone che non dava tregua, stanco nel fisico e nello spirito.

La vita sedentaria da caserma che conduceva ormai da troppi anni lo aveva portato pian piano a infiacchirsi. Era stato prestan-te, un tempo; un tempo ormai passato, un tempo legato alla guer-ra. Ricordarlo ora non aveva senso, lasciava ad altri le sciocche vanterie da soldati, lui si limitava a svolgere le solite mansioni, la solita routine, giorno dopo giorno. Eppure qualcosa in lui si stava risvegliando, qualcosa che solo chi ha avuto a che fare troppo spesso con la morte può capire, una paura ancestrale, compagna di ogni soldato. È proprio quella che, come gli aveva-no insegnato da giovane, tiene vivi su un campo di battaglia, e così era stato. Robert si era sempre affidato a quella sensazione quando si trovava nei guai, la chiamava il suo “prurito al naso”, e ora proprio quel prurito lo stava avvertendo di qualcosa.

I minuti passarono senza che il soldato Norton tornasse a fare rapporto. Bob si accigliò.

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Qualcosa non stava andando per il verso giusto, c’era qualco-sa che non lo convinceva affatto in quella situazione. Ma cosa?

I damerini del primo battaglione era un po’ che non si face-vano vedere da quelle parti, se ne stavano rintanati da qualche giorno ormai nei loro lussuosi alloggi. Ultimamente non c’erano state scaramucce tra i due battaglioni che potessero giustificare una sortita, nella loro caserma per giunta.

Quando il 17° reggimento era stato inviato a Black Port sot-to il comando del colonnello Cardigan, ai due battaglioni era stata assegnata una diversa sistemazione. Il primo battaglione era stanziato sulla collina che delimitava la Cittadella, la zona benestante della città, al di là del fiume. Il secondo, il loro, era stato alloggiato presso il Baluardo. Questo la diceva lunga sui due battaglioni e sui rispettivi comandanti. Al comando del pri-mo battaglione c’era il maggiore Terence Lloyd Bingham: un uomo che, grazie al suo alto lignaggio e ai soldi del padre, si era costruito una carriera militare impeccabile. La sua disciplina ferrea, ottenuta a suon di frustate, era spesso invidiata da molti colonnelli del Reale Esercito Inglese. La sua controparte invece, il maggiore Jack Reynold, non era interessato alla vita di corte. Una volta era stato l’esempio del soldato per eccellenza: abile con qualsiasi arma, coraggioso e audace, fino al giorno in cui non aveva perso la sua reputazione nell’alcool.

Bob si riprese dai suoi pensieri, accantonò le ipotesi di com-plotto che la sua mente stanca e affannata stava partorendo e si disse che era giunto il momento di andare a controllare cosa stava combinando Norton alle latrine.

Ormai la pioggerellina aveva lasciato il posto a un vero e pro-prio temporale.

I fulmini illuminarono per un istante il cielo, poi giunse il tuono, simile al rombo dei cannoni.

Attraversando il piazzale, si chiese se non fosse più saggio tornare al corpo di guardia e chiedere l’aiuto degli altri due uo-

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mini. Poi di nuovo un fulmine. Scorse qualcosa in quel breve lasso di tempo in cui la luce inondò lo spiazzo e gli edifici di pietra. Dimenticò l’idea di tornare indietro e si diresse a grandi passi verso le latrine.

— Norton, sei tu? — chiese al buio, ma il tuono coprì la sua voce. — Possibile che ci si debba mettere anche il cielo adesso? Come se non bastasse l’idiozia dei miei uomini.

Ancora il lampo e ancora quella sensazione. Stavolta più de-filata, appena sotto la soglia della coscienza. Estrasse la pistola. ”La precauzione non è mai troppa” si disse.

Arrivò alle latrine trovandole tutte spalancate, segno inequi-vocabile che Norton era passato di lì. Percorrendo il corridoio si rese conto che la porta dell’ultima celletta era ancora chiusa. La raggiunse e vi si piantò a gambe aperte davanti, una mano sulla maniglia, l’altra sulla pistola.

— Vi avverto, se scopro che avete architettato tutto per pren-dervi gioco di me, stavolta non la passate liscia. Promesso.

Ancora un lampo. Bob attese il tuono. Quando arrivò non lo colse impreparato: aprì la porta con uno schianto.

La celletta era vuota. La puzza lo aggredì, gli riportò alla mente odori passati, na-

scosti nei meandri della sua memoria, odori a cui un tempo era abituato: l’odore del sangue e della morte.

La lanterna illuminò con la sua luce tenue l’interno della cel-letta. Sembrava vuota, a parte una specie di liquame che fuo-riusciva dallo scarico. I suoi stivali vi erano immersi ed erano ormai completamente lordati da quel viscido liquido rosso.

— Oh merda! — esclamò ritirandosi.

Il ceppo di legna secca nel camino ormai si era ridotto a una brace rossa e scoppiettante. Nessuno si preoccupò di riattizzare il fuoco, così si spense lentamente, lasciando la stanza in una penombra appena rischiarata da un tenue bagliore rosso.

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I due uomini seduti sonnecchiavano, cullati da quel tepore rassicurante. Sul tavolo giacevano ancora sparpagliate le carte da gioco e una bottiglia di whiskey ormai svuotata da un pezzo. Da fuori giungeva l’eco ovattata del temporale. Né i lampi né i tuoni turbarono il loro riposo finché non vennero riportati alla realtà da un frastuono che li fece svegliare di soprassalto: mancò poco che cadessero dalla sedia per lo spavento.

— Ma che diavolo… — disse uno dei due. Le parole gli morirono in gola quando vide sulla porta spalancata il sergente Smith, zuppo dalla testa ai piedi e con il respiro pesante. Lo sguardo che aveva lo mise subito in allarme.

In un attimo fu in piedi e andò incontro al suo superiore che, con una mano poggiata sul ginocchio destro e l’altra sul battente della porta, ansimava rumorosamente.

— Va’ subito a chiamare il maggiore — disse Bob col fiato corto per la lunga corsa fino al corpo di guardia. — Subito!

Il soldato non se lo fece ripetere due volte, voltò le spalle e sparì in una stanza adiacente. L’altro aiutò il sergente a sedersi e gli tolse il cappotto.

— Che succede, Smithey? Sembra che abbiate visto un fanta-sma — disse il giovane.

Bob si limitò a girare il capo verso di lui fissandolo per al-cuni istanti. Il giovane sostenne lo sguardo e brividi di freddo gli percorsero la spina dorsale. Una tacita intesa tra i due non ammetteva ulteriori domande sull’argomento. Per il momento.

— Dai l’allarme, suona immediatamente l’adunata, poi prendi due uomini e corri al cancello. Nessuno deve uscire dal Baluardo. — Bob lo trattenne stringendogli il polso. — Nessuno, ho detto!

— Corro! — Il ragazzo si diresse verso la porta, dimentican-dosi nell’urgenza di prendere il cappotto.

— Niente e nessuno deve uscire! — gli urlò dietro Bob.Alcuni istanti dopo, il ritmo frenetico di una campana suonò

l’adunata in piena notte.

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La notizia che all’interno del Baluardo era successo qualcosa si sparse in fretta, così come quella che il sergente Smith aveva attraversato di corsa tutto il piazzale. Un tale slancio atletico da parte sua richiedeva sicuramente un’urgenza da non sottovalutare.

Nella stanza del corpo di guardia si raccolse una piccola folla di soldati, ancora mezzo addormentati eppure incuriositi. C’era anche chi, pur di scendere a vedere cosa fosse successo, non si era preso la briga di indossare l’uniforme, e così in quello spazio angusto si accalcava un drappello variopinto e male in arnese.

Il sergente venne tempestato di domande ma non rispose, ignorò persino le battute ironiche sulla sua partecipazione a chissà quale gara sportiva. Attese in silenzio.

Poi finalmente il maggiore si presentò facendo capolino da dietro la porta con gli occhi semichiusi e una coperta sulle spalle.

— Compagnia! At–tenti! — Gli uomini si concessero in quell’occasione un saluto militare poco convinto, e qualcuno nelle retrovie lo evitò del tutto.

— Comodi ragazzi — disse il maggiore Reynold barcollando tra due ali di soldati.

— Deve aver bevuto anche stasera — si sentì bisbigliare.Il maggiore non vi badò, forse non se ne accorse neanche. Si

portò al centro della sala davanti al sergente, che nel frattempo si era alzato in piedi. Jack gli poggiò le mani sulle spalle e lo costrinse con delicatezza a sedersi di nuovo.

— Allora, Bob, si può sapere che cos’è tutto questo baccano a quest’ora della notte? — chiese Jack ciondolando leggermente. Il suo alito puzzava di whiskey come tutte le notti; erano rare le occasioni in cui lo si trovasse sobrio dopo il tramonto. Era il suo sonnifero, diceva lui, lo aiutava a scacciare i fantasmi dalla testa.

— Si tratta di Norton e Harvey. — Vagò con lo sguardo tra i volti dei suoi uomini. — Sono scomparsi.

— Beh, cercateli — disse Jack con l’aria di non capire la situazione. — Vuoi dirmi che tutta questa bolgia è per due uo-

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mini che magari sono semplicemente andati a pisciare, Bob? — Socchiuse leggermente le palpebre con fare indagatore, come se volesse scrutare dentro l’amico.

— No, Jack, lo sai, non avrei allarmato nessuno per una scioc-chezza del genere. È solo che… — A quel punto i suoi occhi si abbassarono verso gli stivali.

Fu in quel momento che Jack, seguendo lo sguardo dell’a-mico, si accorse del sangue rappreso che gli colorava la pelle degli stivali e gli punteggiava, in una miriade di schizzi tondi, i pantaloni bianchi.

I loro volti si alzarono simultaneamente, i loro occhi si incon-trarono.

— La latrina ne è piena, Jack — biascicò Bob.L’istinto del combattente, sopito dall’alcool, si risvegliò in un

istante. I suoi occhi riacquistarono lucidità come la sua mente, la sua voce impastata riprese il tono del comando.

— Vi voglio tutti fuori di qui, pronti ed equipaggiati in due minuti. Sergente, li divida in gruppi di tre: perlustrazione a tap-peto di tutto il Baluardo.

— Ho già provveduto a inviare tre uomini di rinforzo al can-cello — disse Bob nervosamente.

— Ottimo — rispose Jack pensieroso. Il suo sguardo divenne granitico mentre si dirigeva a grandi falcate verso gli alloggi. — Niente deve uscire. Se è ancora in questa fortezza.

Gli uomini erano incolonnati davanti al corpo di guardia. Una pioggia battente li martellava incessantemente. Tutti si chiesero perché il cielo dovesse sempre essere così impietoso con i mi-litari. Non c’era battaglia o situazione d’emergenza, a memoria d’uomo, dove il cinico clima non l’avesse fatta da padrone.

In alcuni casi era venuto loro in aiuto, questo era vero, come a Waterloo, dove il Duca si era salvato dal pesante bombarda-mento delle batterie francesi proprio grazie a quella pioggia che non aveva dato tregua per tutta la notte precedente alla battaglia,

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rendendo fangoso il terreno e impedendo il rimbalzo delle palle di cannone. Però ora, incolonnati all’aperto, sotto il giogo della pioggia e del vento, gli animi dei giovani soldati erano demora-lizzati. Due loro compagni erano scomparsi: il sangue di uno dei due, forse di entrambi, era l’unica traccia che avevano. Fu come sempre la voce del sergente a spronarli.

— Curtis, Morrison e Pilfold, al cancello d’entrata. Niente entra, niente esce. Fate fuoco al secondo «chi va là» — ordinò il sergente urlando nel vento.

I tre corsero verso l’entrata del Baluardo coi moschetti cari-chi ma a canne incappucciate per impedire all’acqua di bagnare le munizioni rendendole inutilizzabili. A ogni passo alzavano grandi spruzzi d’acqua: il selciato che copriva il terreno era in-vaso da una cascata che scendeva fino al cancello. Sembrava che il cielo non si stancasse mai di vomitare pioggia su Black Port.

— Anche gli altri, divisi per tre — ripeté camminando avanti e indietro lungo la fila degli uomini rimasti con lui. — Non sap-piamo ancora cosa sia accaduto veramente. Due uomini sono scomparsi e siamo qui per trovarli. Non lasciate che le vostre menti partoriscano fantasmi che non esistono: perlustrate la zona a voi assegnata e fate rapporto se notate qualcosa di strano. Se qualche figlio di cagna ha deciso di entrare in casa nostra senza invito, voglio che lo troviate!

“Uomo o fantasma che sia”, aggiunse tra sé.Un coro di assenso si alzò dalla truppa. Poi i gruppi si sparpa-

gliarono per la fortezza. A ciascuna pattuglia fu dunque affidata una zona di compe-

tenza, in modo da coprire l’intera area del Baluardo. Vennero in-viati uomini nelle cucine, nei magazzini, nei dormitori e in ogni luogo in cui un eventuale intruso potesse nascondersi. Nulla fu lasciato al caso, la fortezza venne battuta palmo a palmo. Ma l’esito non fu quello sperato.

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Il maggiore Jack Reynold, accompagnato dal sergente Robert Smith e da due soldati, si recò alle latrine. Voleva vedere con i propri occhi il luogo in cui era stato perpetrato il presunto delit-to. Perché, a sentire Bob, di delitto si trattava.

— Un uomo non può perdere tutto quel sangue e rimanere in vita, credimi, Jack, io lo so — disse amaramente Bob. — Merda, non pensavo neanche che ci potesse essere tutto quel sangue in un solo uomo, la celletta ne è piena… — continuò imprecando.

— Ti credo Bob, ma spero veramente che ti stia sbagliando — lo rassicurò con voce sommessa.

— Anche io lo vorrei… — Preferì non continuare la frase. La speranza che tutto fosse uno scherzo della sua mente si affievo-liva man mano che si avvicinavano alle latrine e la chiazza scura di sangue prendeva di nuovo forma in tutto il suo orrore.

— Ecco, è qui, venite a vedere. — Si precipitò verso l’ulti-ma porta. La trovò esattamente come l’aveva lasciata. La metà inferiore delle pareti interne era ancora ricoperta da schizzi scar-latti che, gocciolando in lunghe righe, confluivano in una pozza di melma rossastra. Il sergente rimase immobile con lo sguardo fisso sulla scena, quasi a voler dimostrare a se stesso e ai suoi compagni che non si era sbagliato. Senza ombra di dubbio quel-lo era sangue, sangue umano.

Uno dei soldati della scorta si voltò verso il piazzale e dopo aver mosso pochi passi fuori dalla tettoia vomitò sotto la pioggia battente. L’odore era nauseabondo quanto la scena.

Jack vi badò appena, si voltò solo un attimo verso il soldato alle sue spalle, poi si diresse verso la celletta. Bob gli si parò di fronte, il braccio sinistro teso a impedirgli il passaggio.

— Risparmiati di entrare, Jack, è disgustoso — disse Bob coprendosi il naso con la manica.

— Se c’è anche solo una possibilità che quello non sia sangue umano, è mio compito appurarlo.

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Erano questi i momenti in cui il vecchio compagno d’armi che Bob aveva imparato a rispettare e ad ammirare riprende-va il controllo sul maggiore taciturno e scontroso, troppo spes-so schiavo dell’alcool. Questo era l’uomo che Bob conosceva, l’uomo di cui si fidava ciecamente, l’uomo che gli aveva salvato la pelle in più di un frangente sul campo di battaglia.

Avanzò fino alla porta. Il liquido melmoso gli circondò le suole degli stivali.

Soffocò un conato di vomito quando quell’odore rivoltante gli colpì le narici costringendolo a tapparsele con le dita. Si ob-bligò a entrare. Quel che vide lo fece rabbrividire, non tanto per la crudezza, quanto per la sensazione di non essere al sicuro ne-anche in casa propria. Il Baluardo, la loro casa, era stato violato e due uomini che erano sotto la sua responsabilità erano stati molto probabilmente assassinati in modo barbaro.

Con la punta dello stivale smosse la poltiglia sanguinolenta che copriva il pavimento. Colpì qualcosa di consistente che si mosse appena, accompagnato da un rumore rivoltante.

Jack estrasse la spada dal fodero assicurato alla cintura e con la punta d’acciaio tentò di agganciare l’oggetto. La lama penetrò con facilità nella molle consistenza di quello che, a prima vista, sembrava un lungo straccio grigioverde. Lo issò con lentezza, avvicinandolo a sé per vedere meglio.

— Bob, fai luce — disse allontanando il volto dall’oggetto infilzato dalla sua spada. L’odore pungente era intollerabile.

Il sergente avvicinò la lanterna alla lama. Sull’acciaio appar-vero riflessi di luce gialla.

— Oh, merda! Il sergente si ritrasse istintivamente, scivolando sul terreno

viscoso, salvandosi da una rovinosa caduta solo grazie al soldato che era rimasto dietro di lui.

Jack torse il polso d’istinto, lasciando cadere nella pozza il fagotto insanguinato. Il suono che produsse li fece rabbrividire.

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— Non ci credo… non è possibile, sembra un fottuto intesti-no — continuò il sergente allontanandosi di alcuni passi.

Il maggiore Reynold dovette prendere di nuovo la situazione in pugno per evitare che le emozioni avessero il sopravvento sui già provati uomini del 17°. Questo facevano gli ufficiali: incul-cavano una disciplina ferrea nei loro uomini, in modo che non vacillassero in situazioni di pericolo o di allarme. Questo era il loro ruolo sul campo di battaglia. Solo che lì non si trovavano sul campo di battaglia. Erano al sicuro nella loro caserma, o al-meno lo erano stati fino a poco tempo prima.

— Pitt, trovami dei rinforzi — ordinò Jack a uno dei soldati. Poi ci pensò un attimo e aggiunse: —E chiamami un medico, il tenente Mead, possibilmente.

L’agitazione cominciava ad avere la meglio su di lui, anneb-biando la sua capacità di analisi. “Pensa, Jack” si disse più volte, “cosa avresti fatto solo qualche anno fa? Cosa avrebbe fatto il maggiore Jack Reynold prima che i fantasmi si prendessero la sua anima tramutandolo in un lugubre guscio senza vita?”.

Correvano numerose leggende tra i suoi uomini sul vero mo-tivo per cui avesse subito quel repentino cambiamento. C’era chi parlava di un amore non corrisposto, chi di una soluzione rapida per dimenticare gli orrori della guerra. Lui non aveva mai fatto nulla per scoraggiare la fantasia di chi inventava queste storie: la verità era che ormai neanche lui ricordava più il vero motivo per cui da un giorno all’altro l’eroico maggiore Reynold si era trasformato nell’introverso Black Jack.

La voce del soldato lo scosse dai suoi pensieri.— Maggiore, qui, guardate qui. — Il soldato se ne stava

accovacciato non lontano dal punto in cui poco prima aveva vomitato la cena. — C’è ancora sangue, e prosegue in quella direzione — aggiunse indicando una lunga scia rossastra che prima era passata inosservata a causa del buio. Il sangue era appena visibile nel fango del piazzale, ma rimaneva una leg-

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gera pista schiumosa che si allungava verso il muro di pietra a picco sulla scogliera.

Persero quasi subito la traccia rossa sotto il nubifragio, ma poche iarde più avanti la ritrovarono. Una scia di sangue pro-cedeva in verticale sulla pietra del muro. Chiunque fosse stato, aveva scelto quella via di fuga sapendo che il muro interno da quella parte era basso e più facilmente valicabile. Non era una falla nella sicurezza del Baluardo, tutt’altro. Chi aveva costruito la fortezza contava sul fatto che da quel lato gli attacchi sarebbe-ro stati scongiurati da ben cento piedi di scogliera.

— Io non ci capisco più niente, mi sembra tutto così assurdo. — Fu Bob a rompere il silenzio interpretando il pensiero di tut-ti. — Come diavolo pensava di scappare, quel figlio di cagna… volando?

Si guardarono perplessi.

— Maggiore, posso parlarvi in privato? — Il tono del tenente Mead era gentile, ma Jack vi percepì una nota di inquietudine.

Si avvicinò al primo ufficiale medico del battaglione. — È quello che credo sia, dottore?

— Non posso negarlo: quelli trovati dentro la latrina sono resti di interiora umane. Precisamente intestini e parti…

Jack reagì con disgusto. — Non posso dire con precisione a quale dei due poveri sven-

turati appartenessero — continuò il medico, — ma quel che è certo è che fanno… facevano parte di uno dei due.

Da una sacca di tela estrasse un pezzo di stoffa rossa, logora e strappata. Da un lembo penzolava un bottone dorato con im-presso un numero.

Il diciassette.

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Finito di stampare nel mese di aprile 2011Stampato per Casini Editoredalla Arti Grafiche La Moderna — Roma

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