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I principi del fundraising Valerio Melandri Le 10 regole fondamentali per innovare il nonprofit a partire dalle relazioni

i Principi Del Fundraising

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importanti indicazioni sulla raccolta fondi

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Page 1: i Principi Del Fundraising

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ISBN 978-88-95039-27-5

€ 9,50

I principi del fundraisingLe 10 regole fondamentali per innovare il nonprofit a partire dalle relazioni

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I principi del fundraising

Valerio Melandri

Valerio MelandriValerio Melandri è consulente, for-matore ed educatore sul fundrai-sing. Pioniere dell’inserimento della disciplina “fundraising” nelle uni-versità italiane, è docente di Principi e Tecniche di Fundraising e diretto-re del Master in Fundraising presso l’Università di Bologna. È fonda-tore e presidente di Philanthropy Centro Studi, nonchè ideatore del portale italiano www.fundraising.it e del primo blog sulla raccolta fondi (www.fundraisingblog.it). È il presi-dente del Festival del Fundraising (il più grande evento di fundraising italiano) e speaker affermato in ita-liano e in inglese. Svolge attività di consulenza e formazione in Italia e all’estero, con organizzazioni di ogni tipologia e dimensione. www.valeriomelandri.it

Con la situazione economica attuale e le difficoltà che il settore nonprofit attraversa, c’è bisogno di vedere una luce: il fundraising rappresenta la mano tesa a favore del nonpro-fit, il sostegno che tutti stiamo aspettando!Questa pubblicazione vuole presentare alcune delle idee chiave che permettono a quella mano tesa di divenire il soste-gno cercato e sperato. Ho chia-mato queste idee i principi del fundraising.

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Le 10 regole fondamentali per innovare il nonprofit a partire dalle relazioni

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I principi del fundraising

Valerio Melandri

Le 10 regole fondamentali per innovare il nonprofit a partire dalle relazioni

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Pubblicato da:Edizioni Philanthropypiazzale della vittoria 1547121 Forlì (FC)[email protected]/edizioni

Un progetto diPhilanthropy Centro Studiwww.philanthropy.it

© 2012 Edizioni PhilanthropyIISBN 9788895039275

Tutti i diritti sono riservati

Finito di stampare Gennaio 2013Grafica: matitegiovanotte.forlìStampa: Gegraf, Forlì

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INTRODUZIONE

IndiceP. 5

Il reciproco interesse

I mercati sono fatti di esseri umani, non di settori demografici

Da Push a Pull

Il Giusto per 6

La legge di Pareto e la piramide del fundraising

Dire sempre la verità

Rendere facile donare

Non cercare alibi

Testare, testare, testare

Ringraziare, ringraziare, ringraziare

P. 7

P. 23

P. 27

P. 31

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Introduzione

Con la situazione economica attuale e le difficoltà che il settore nonprofit attraversa, c’è bisogno di vedere una luce: il fundraising rappresenta la mano tesa a favore del nonpro-fit, il sostegno che tutti stiamo aspettando!

Questa pubblicazione vuole presentare alcune delle idee chiave che permettono a quella mano tesa di divenire il so-stegno cercato e sperato. Ho chiamato queste idee i principi del fundraising.

Valerio MelandriDirettore del Master in Fundraising - Università di [email protected]

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Il ritiro del mondo pubblico dal finanziamento del settore nonprofit, la tendenza a vincolare le donazioni a progetti sociali che offrano risultati certi e la competizione prodotta dall’aumento delle organizzazioni nonprofit, attive nel cam-po della ricerca di fondi, ha generato negli ultimi anni all’in-terno delle organizzazioni una serie di reazioni – dal panico a un più ragionevole approccio problem-solving – indicative della necessità di sostituire le obsolescenti modalità di rac-colta fondi con nuove e più adeguate metodologie.Uno dei principali compiti del fundraiser, in questo nuovo ambiente così turbolento, è di far conoscere ai diversi pub-blici l’organizzazione, i suoi obiettivi e i suoi risultati, allo scopo di generare “matrimoni di interesse” fra chi dona e chi riceve. La corsa a raccogliere nuovi fondi (molte volte anche per organizzazioni nonprofit non limpide) ha gene-rato confusione e risentimento da parte di chi si è sentito chiedere, con troppa insistenza, di sostenere le più svariate cause. Questi potenziali finanziatori sono avvicinati troppo spesso da organizzazioni del tipo “cercasi fondi disperata-mente”, che trasmettono un’immagine di ricerca della pro-tezione di se stesse, non dei programmi che esse hanno attivato.È tempo di ripensare il settore nonprofit, di infondere in esso innovazione e strategie d’investimento, che sviluppino relazioni di lunga durata con i volontari e i donatori. Queste relazioni devono essere basate su una comprensione reci-

1Il reciproco interesse

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proca fra organizzazioni e rispettivi donatori, allo scopo di ottenere un miglioramento della qualità della comunità di appartenenza.Occorre far nascere nuove relazioni basate su cooperazio-ne, rispetto e visione, fondate su quello che amiamo defini-re “matrimonio d’interesse”.Ma prima di proseguire, per non essere fraintesi, occorre soffermarsi sulla definizione del termine interesse, che de-riva dal verbo latino “interesse”, con il significato di “esse-re in mezzo”, “partecipare”. Ci viene in soccorso anche la definizione giuridica: per interesse s’intende, in sostanza, ogni desiderio dell’uomo, ogni rappresentazione di possi-bili conservazioni o modificazioni della propria situazione, ritenute positive.Seppure il termine proprio nella società moderna abbia as-sunto connotazione quasi esclusivamente negativa (chi fa il suo interesse è considerato non etico), se si osserva la realtà si capisce perché tante distorsioni nascano proprio dall’aver dimenticato la genesi della parola.

Fare il proprio interesse significa interagire con l’altro, utiliz-zandosi reciprocamente affinché ne derivino frutti; significa essere in rapporto con l’altro allo scopo di un reciproco be-neficio e vantaggio. Quando l’interesse è evidente e chiaro, il sodalizio è duraturo e fruttuoso; quando l’interesse non è percepibile, il legame con il donatore non ha lunga durata. Ecco, allora, il primo comandamento di un fundraiser: “saper generare matrimoni di interesse” fra chi riceve e chi dona. Nulla è più sbagliato del ritenere che un donatore possa agire secondo la logica del “niente per niente”. Prima o poi presenterà il conto, e se l’organizzazione non è pron-ta a presentare una risposta adeguata alle sue aspettative, perderà il donatore.Desidero insistere su questo punto, non per amore di ser-mone, ma proprio per la decisiva importanza che questo

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principio ha nella costruzione della relazione con il dona-tore. In un ben ragionato testo sul marketing delle associa-zioni, Jean Di Sciullo elenca una serie di possibili transazioni che l’associazione propone nei confronti dei suoi pubblici. Anche se a titolo puramente indicativo (potrebbero esse-re mille altri i motivi che spingono ad aderire o a donare a un’organizzazione nonprofit), è importante capire, per avere buoni frutti, quali siano gli interessi di chi entra in rapporto con l’organizzazione. Il punto è che c’è interesse e interesse. Ciascuno, secondo la propria grandezza d’animo, deciderà liberamente qual è l’interesse che vuole mettere in gioco; in ogni caso compito principale del fundraiser è di capire che cosa muove, attira, finalizza l’azione di colui che decide di entrare in rapporto con l’associazione ed offrirle il proprio aiuto.Tutto questo ha delle implicazioni anche nella modalità del rapporto con il donatore. Il modello presentato evidenzia le differenze che l’idea di contribuzione e donazione genera a fronte dell’idea del potere dell’investimento. Le organiz-zazioni che praticano i primi due comportamenti (contri-buzione e donazione) per descrivere il sostegno dato dal donatore all’organizzazione, lasciano intendere un tipo di relazione passiva. Solamente la parola investimento comu-nica il dinamismo attivo che l’organizzazione deve cercare nel rapporto con il donatore.

Le organizzazioni nonprofit che nel mondo sono stra-tegicamente innovatrici conoscono bene l’importan-za di superare l’approccio pietistico e abbracciare il fundraising come logico output di una naturale azio-ne umanitaria.

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Protezione magicaDesiderio di solidarietà

Desiderio di appartenenzaa una comunità

Desiderio di rendersi utileDesiderio di partecipazione

Desiderio di rendersi utile,di sollevare la propria coscienza,

di essere ricordato

Realizzazione della missioneche si è fissata l’associazione

Dono

Adesione

Lavoro gratuito

Lasciti

Sostegno

Gli scambi tra le organizzazioni nonprofit e il loro pubblico

Gli scambi tra le organizzazioni nonprofit e il loro pubblico

Richiesta di dono

Adesione

Volontariato

Lasciti testamentari

Progetto dell’associazione

Associazione

Figura 1.1

Associazione

Associazione

Associazione

Associazione

Donatore

Membro

Volontariato

Testatore

Pubblici coinvolti:- Donatori- Aderenti- Volontari

- Dipendenti- Altri

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Operazione di comunicazione interna ed esternaDesiderio di appartenenza alla comunità

Adempimento del compito di interessegenerale che le è stato affidato

Cure per malati, messa a disposizionedi attrezzature sportive...

Finanziamenti

Sovvenzioni

Pagamento diretto

Pagamento diretto

Mecenatismo

Prestazioni di servizio d’interesse generale

Associazione

Associazione

Associazione

segue figura 1.1

Fonte: Di Sciullo, Marketing et Communication des AssociationsJuris, Paris, 1988

Aziende

Poteri pubbliciIstituzioni

UtentiMalati

SportiviStudenti

ecc.

Casse di solidarietà nazionale:

Sicurezza socialeStato...

ImposteQuote

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La chiave per mettere in moto questa dinamica sta nel modo in cui queste organizzazioni vedono i loro potenziali donatori e la responsabilità che vivono nei loro confronti. La relazione con il donatore è basata su valori e caratterizzata da una continua comunicazione del tipo di “ritorno” dell’in-vestimento efficiente. La “gestione” del donatore è basata sull’implicito convincimento che i donatori siano realmente donatori-investitori, e che ci siano due risultati, ugualmente importanti, nel settore nonprofit:1. Il primo, che è di tutte le aziende, è il ritorno economico,

che riflette la gestione dei programmi, da una parte, e l’azione di fundraising, dall’altra.

2. Il secondo è il ritorno valoriale, risultato che comunica l’impatto dell’organizzazione nel risolvere problemi, for-nire servizi o migliorare la qualità della vita della comu-nità in cui opera.

Modello della relazione: da donatore a investitore

Figura 1.2

Fonte: nostra elaborazione da Sprinkel, Beyond Fundraising, WileyNew York, 1997, p. 29

Relazione conl’organizzazione

=PASSIVA

Relazione conl’organizzazione

=DINAMICA

DONAZIONE

INVESTIMENTO

CONTRIBUZIONE

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Comunicare entrambi i risultati al potenziale o attuale do-natore è uno dei modi migliori per eliminare l’attitudine pietistica. Il donatore è invitato a partecipare, non sempli-cemente a essere inserito in un database.Nel cercare di mantenere una relazione di donatore-inve-stitore, le organizzazioni sono chiamate all’impegno di co-municare regolarmente tutto quanto possa riguardare i due ritorni circa l’investimento effettuato: l’impatto che il dono ha avuto nella stabilità dell’organizzazione e i risultati che questa sta ottenendo sui bisogni per i quali è stato richie-sto un aiuto. Allo stesso tempo dovrà prendere un implicito impegno a scoprire sempre meglio i valori, gli interessi, i desideri e i bisogni dei suoi donatori-investitori.Alcune organizzazioni nonprofit sono riluttanti a muovere da un approccio passivo a una relazione dinamica e attiva con i loro donatori. Ritengono di sperperare tempo, soldi e risorse umane nel cercare di mantenere le relazioni con i donatori. Esse li percepiscono come il risultato del fundrai-sing non come la ragione e l’essenza del loro sviluppo. Esse potrebbero anche sentirsi più tranquille in una relazione passiva, perché credono (a torto) che è ciò che i donatori vogliono.

Alla ricerca dell’interesse del donatore

È importante spendere un po’ di tempo nella ricerca delle motivazioni che spingono o hanno spinto il donatore a elar-gire. Henry Rosso ne individua tre, che sintetizza nel model-lo L.A.I. - Linkage, Ability, Interest. Il primo e più forte fattore che induce a essere finanziato-re di una certa opera è la connessione emotiva con essa. Qual è la connessione emotiva con il progetto che il donatore intende finanziare? Un paziente grato può donare a un ospedale; una vedova potrebbe donare alla casa di cura dove è stato amorevolmente accudito il marito;

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un’associazione di amici della musica potrebbero ricevere in donazione perché i genitori sono stati contenti dell’edu-cazione musicale che i figli hanno ricevuto; un’università o una scuola privata potrebbe ricevere da chi, ormai afferma-to professionista, ricorda di aver ricevuto in quelle classi i primi insegnamenti. Queste azioni vanno coltivate e solle-citate: le emozioni inducono a donare, ma occorre creare pazientemente l’occasione, il filo conduttore, che conduca a ricordare e riconoscere l’utilità per sé.Una seconda grande motivazione che induce a donare è l’attenzione, anche solamente intellettuale, per una certa causa. Una persona può essere preoccupata per una certa causa, senza essere emotivamente coinvolta. Si può donare a un centro di recupero per tossicodipendenti senza esserlo mai stato. I valori da richiamare sono in questo caso eviden-temente più razionali, ma non per questo meno forti.Infine, il più ovvio, ma certamente il più debole denomina-tore quando si ricercano gli interessi che muovono un dona-tore a donare, è la sua ricchezza. Essere ricco di per sé non è un motivo sufficiente per donare. Occorre che qualcos’altro accenda la scintilla della donazione. Questa è un’indagine seria e difficile, ma che produce grandi risultati. L’importan-te è che l’organizzazione nonprofit trasferisca il focus della donazione dai bisogni dell’organizzazione ai bisogni delle persone che l’organizzazione serve.

Come sviluppare una relazione basata sull’investimento

La realizzazione di matrimoni d’interesse trasforma l’or-ganizzazione nonprofit da passiva e impaurita ad attiva e impavida ricercatrice di nuovi fondi. Questo mutamento ri-chiede almeno i seguenti nuovi atteggiamenti:• giusta fierezza per i risultati dell’organizzazione: comu-

nicare i risultati e, nello stesso tempo, informare i propri

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donatori-investitori circa le risorse che necessitano (sia umane sia finanziarie) per migliorare ulteriormente i pro-grammi e i servizi;

• coinvolgimento e comunicazione: i membri del consiglio di amministrazione, i volontari e il personale retribuito devono essere tenuti informati circa i risultati ottenuti e le nuove mete perseguite; essere invitati a partecipare agli eventi creati per festeggiare così come per risolvere i nuovi problemi;

• è il donatore-investitore, non l’organizzazione, il centro del mercato: il donatore e i bisogni della comunità, non l’organizzazione, sono l’orizzonte cui guardare. Il loro in-teresse, l’entusiasmo, l’attaccamento, l’impegno devono essere il focus nel determinare potenziali relazioni;

• assoluta certezza circa il valore dei servizi erogati: è so-prattutto questa la chiave per avere una buona riuscita, per rovesciare da passivo ad attivo il rapporto con il pro-prio donatore. Questa è la chiave dell’innovazione. “Ma-trimoni d’interesse”, con risultati consistenti nel lungo periodo, senza la convinzione di “fare bene”, sono con-cretamente impossibili da costruire.

Un’attività che non si può improvvisare

È segno di una distorsione il fatto che molti operatori del nonprofit riducano l’attività del fundraising ad una buona campagna stampa (promozione, avvisi tabellari e un po’ di advertising). Tutto ciò genera confusione rispetto ai ruoli dei consulenti all’interno dell’organizzazione: un’agenzia pubblicitaria non è un fundraiser. Essa è, semmai, uno dei fornitori del fundraiser, ma non può sostituirsi nella mag-gior parte dei casi, al ruolo strategico del fundraiser. C’è una diffusa improvvisazione nella pratica del fundraising che, se da una parte, è molto positiva (il fundraising si impara fa-cendolo!), dall’altra conduce a sprecare risorse utili. Non è

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la prima volta che sentiamo ripetere da un neofita la frase “Tutto sommato, fundraising vuole dire spedire lettere, fare un po’ di telefonate, organizzare qualche cena con il Rota-ry Club”. Al contrario la professione del fundraiser e, più in generale, di chi si occupa all’interno dell’organizzazione nonprofit di gestire il ciclo dei finanziamenti, è particolar-mente complessa.Molti ritengono di poter improvvisare il mestiere, quasi si trattasse di incollare francobolli. È bene che ci soffermia-mo un po’ a questo punto, al fine di comprendere meglio l’impostazione metodologica del lavoro del fundraiser. La faremo utilizzando il modello sotto riportato (che un no-stro studente definì “modello caramella”) che rappresenta le due linee che una persona può percorrere durante un’a-zione di fundraising: la linea del fundraising improvvisato e quella del fundraising strategico preparato. Supponiamo di dividere in tre parti il lavoro del fundraiser. Definiamo, per nostra comodità, un cosiddetto prima, in cui includiamo le fasi della progettazione, pianificazione, ricerca delle opportunità, analisi interna dell’organizzazione, svilup-po della buona causa, analisi del mercato, creazione di un network, di una rete di amici, ecc. Esiste, poi, un durante, nel quale includiamo tutta la fase di mera esecuzione ma-nuale del lavoro. C’è, infine, un dopo, in cui comprendiamo tutte le fasi di ricerca dei mercati, la vendita, ma anche tutte le operazioni relative all’assistenza, manutenzione, ringra-ziamento, risistemazione dei database, nonché la fornitura delle informazioni trasparenti a coloro che hanno donato.Nel grafico riportato tale separazione in tre parti é posizio-nata lungo la linea orizzontale delle ascisse. Nella linea verti-cale posizioneremo la variabile “valore”, in termini di “tem-po dato a ciascuna operazione”. La logica è la seguente: tanto più tempo dedico ad una delle tre fasi del mio lavoro (prima, durante e dopo), tanto più avrà valore il mio lavoro in quella determinata fase.

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Figura 1.3

Il lavoro del fundraiser

Linea delfundraiserpreparato

Linea delfundraiser

improvvisato

ProgettazionePianificazione

Analisi mercatoCreazione

buona causaCreazione network

Rete di amici....................

Ricerca mercatiVendita

AssistenzaManutenzioneRingraziamentoComunicazione

..........

..........

Attività manualeEsecuzionedel lavoro

DURANTE DOPOPRIMA0

25

50

75

100

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Se mettiamo a confronto il lavoro svolto da un fundraiser improvvisato con quello di un fundraiser preparato ci ren-diamo subito conto dell’enorme diversità fra l’uno e l’altro.Il lavoro del fundraiser improvvisato può essere paragonato a quello di un rispettabile contadino di circa 40 anni fa che svolgeva la maggior parte dei propri compiti manualmen-te. Sia per il contadino che per il fundraiser improvvisato la parte più importante, in termini di tempo e quindi di valore, é quella della esecuzione manuale del lavoro. Un po’ come l’integro contadino di una volta, che si alzava presto per andare nei campi e attraverso attività ripetitive (lo zappare la terra, il falciare il grano, ecc.) portava a termine il proces-so produttivo, anche il fundraiser improvvisato ritiene che alzandosi presto la mattina, spedendo il maggior numero di lettere, svolgendo il maggior numero di attività manuali, porterà denaro nelle casse dell’organizzazione. Il fundraiser improvvisato non dedica molto tempo alle scel-te strategiche. Come il contadino si preoccupa della rota-zione delle colture quel quanto che basta per non rovinare il suo campo e non impoverirlo, il fundraiser improvvisato non si preoccupa di rifinire il suo prodotto prima di immet-terlo sul mercato. Egli presume che i “pubblici“ siano tutti uguali, che non ci sia bisogno di grande segmentazione, né tanto meno di sperimentazione. Il contadino, di anno in anno, produce prima grano, poi erba medica, poi di nuovo grano; cioè il fundraiser improvvisa-to ripete stancamente il ciclo del fundraising, senza alcuna originalità d’innovazione. Per lui, come per il contadino, il valore del tempo impiegato per la strategia e per la pro-gettazione é vicino quasi a zero. Anche il tempo impiegato per ringraziare e per curare i rapporti con il donatore é assai poco. Al termine del ciclo produttivo, il contadino porterà il proprio raccolto a una serie di istituzioni pubbliche, che lo proteggono dai rischi di “invenduto” (le cooperative di vendita o altre istituzioni pubbliche), cosicché il processo di

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vendita si concluderà in una giornata. Dal canto suo, il fun-draiser improvvisato, non avendo ottenuto i risultati sperati, si limiterà a dichiarare che “quest’anno la campagna è an-data male, ma il prossimo anno sicuramente andrà meglio!”

Ben diversamente opera il fundraiser preparato. Egli ha compreso che oggi la tecnologia è un elemento che non si può sottovalutare. Egli ha letto alcune interessanti pubbli-cazioni e ha saputo, per esempio, che per costruire un’auto-mobile Toyota bastano solo 16 ore, con un impiego di spa-zio di circa mezzo metro quadrato. Eppure, ciascuna Toyota costa al consumatore finale circa 20.000,00 euro! Perché un prezzo così esagerato per così poco lavoro manuale (solo 16 ore)? Semplice – risponde il fundraiser preparato-, per-ché il valore dell’auto non é più dato dalla sua realizzazione manuale, che é ormai un fattore di poche ore, ma da tutte le fasi che precedono e seguono la sua produzione fisica. Qualunque impresa di servizi oggi spende centinaia di mi-lioni e parecchi mesi di lavoro per studiare i gusti del con-sumatore con accurate analisi di mercato, per progettare, pianificare e realizzare imponenti campagne pubblicitarie che si sforzino di comprendere “i bisogni che occorre sod-disfare”, prima di passare alla realizzazione di qualunque produzione. Utilizzate le poche ore di produzione manuale e fisica dell’oggetto o del servizio, altro tempo e denaro é speso per arrivare, nel modo più conveniente, al clien-te, attraverso un’imponente rete di distribuzione. E anche quando il prodotto é stato venduto, il processo del lavoro non é finito: l’assistenza, la manutenzione, la fidelizzazione del cliente, la formazione all’utilizzo hanno grande valore.La conseguenza di questo ragionamento é fin troppo ov-via. Il fundraiser preparato sa che il “mercato” delle do-nazioni (ebbene sì, ho usato il termine “mercato”!) è oggi altamente competitivo. Per distinguersi, per differenziarsi,

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per riuscire a ottenere l’attenzione del cliente-donatore (il bene più scarso oggi) occorre sapere utilizzare l’informati-ca e la tecnologia, il marketing, la pianificazione strategica, prima di iniziare qualunque azione di fundraising. Il fundrai-ser preparato ha compreso che la sua principale ricchezza sta nella sua capacità di generare rapporti. Egli, pur cono-scendo i dettagli tecnici delle raccolte postali, non utilizza i propri collaboratori come imbustatori (per quello ci sono le macchine che lo fanno meglio e più velocemente) ma come persone capaci di relazioni e di rapporti. Il fundraiser preparato ha compreso che ha molto meno valore semplicemente chi sa “fare” qualcosa, rispetto a chi sa “essere” qualcuno. Per lui, il saper fare qualcosa é condizione necessaria per entrare nel mercato, ma non é assolutamente sufficiente per rimanerci. Il fundraiser pre-parato sa che se vuole prosperare sul mercato di domani non può semplicemente essere in grado di realizzare senza errori una raccolta telefonica o postale ma, oltre a questo, deve saper individuare le tendenze economiche e sociali, saper prevedere i cambiamenti fiscali, saper gestire il rap-porto con il cliente, saper risolvere i problemi sulla base di obiettivi dati, saper consolidare la fidelizzazione dei propri donatori, saper posizionarsi sul mercato in modo adeguato alla buona causa che propone. Egli è colui che, nel grafico “caramella”, dedica la stragran-de maggioranza del suo tempo al prima e al dopo e solo una minima parte al durante cioè all’esecuzione manuale del lavoro.

È questa una naturale tendenza del mondo del lavoro oggi. Una ricerca ha stimato che solo il 6% dei dipendenti dell’ IBM (ma si tratta di un dato in continua fluttuazione) lavori in una fabbrica. Il restante 94% é impiegato in “altro”, cioè nei beni immateriali, nelle attività di servizi intellettuali quali engineering, contabilità, gestione del personale, logistica,

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design e finanza. Per di più oggi, perfino il 6% di chi lavora in fabbrica svolge principalmente mansioni di servizio. Le “mani” dell’industria ora impiegano molto del loro tempo in team multifunzionali che accelerano i processi, migliora-no la qualità o personalizzano i prodotti. In ogni caso, la loro strategia dovrebbe essere chiara, come lo é per l’altro 94%: applicare più intelligenza, applicare più immaginazio-ne. Perciò, sempre più intelligenza e sempre meno cose. “L’unica risorsa dell’industria é l’immaginazione umana” ha affermato Bill Gates.Ecco perché Newsweek afferma che qualunque professione verrà tanto più probabilmente coronata da successo, quan-to più il lavoratore sarà capace di offrire prestazioni di tipo intellettuale, scientifico, artistico, adatte ai bisogni sempre più mutevoli e personalizzati dei consumatori.

Mi sia permesso un esempio personale per concludere questo paragrafo. Durante il periodo di vita passato a New York, trascorrevo buona parte del tempo in metropolitana per andare e venire fra Brooklyn e Manhattan (almeno due ore al giorno). Come molti sapranno, nella metropolitana di New York può succedere di tutto, ma si può stare certi che, prima o poi, qualcuno entrerà nel vagone chiedendo la carità (una sorta di “azione di fundraising”). Dopo qualche mese, per non dover tutte le volte tirare fuori il portafoglio, e poter così rimanere immerso nelle mie letture, avevo in-ventato il trucco di fingermi sordo. Il postulante, vedendo di non essere compreso, si rivolgeva ad altre persone. Una sera, di fronte all’ennesima richiesta, utilizzai il solito truc-chetto della finta sordità ma il mendicante non si scoraggiò. Appena vide che facevo segno di non sentirci, iniziò a par-lare con il linguaggio dei sordomuti. Gesticolava con una velocità e una proprietà di mezzi incredibili. Mi sono quasi commosso per l’impegno e la dedizione, e così ho dovuto sganciargli il meritato dollaro.

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C’è molto da imparare da questo mendicante: per avere successo nel fundraising bisogna essere creativi, fantasiosi, inventivi e allo stesso tempo essere estremamente prepara-ti. Occorre avere empatia, cioè la capacità di cambiare regi-stro in pochi minuti per mettersi nelle scarpe del donatore ed essere pronti a parlare il suo “linguaggio”.

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“Le persone donano a persone… per aiutare per-sone” è probabilmente la frase più citata relativa al fun-draising. Il rendersi conto che chi dona è innanzitutto una persona prima ancora che un portafoglio è di fondamen-tale importanza, come vedremo, specialmente quando ci occuperemo dello sconvolgimento determinato dalla New Economy. Nella New Economy, sopravviveranno le aziende che avranno rispetto dei propri clienti come persone e non come consumatori. Il valore più importante, quindi, sta nel-la relazione di fiducia, nella trasparenza e nella lealtà con cui si saprà relazionare con le persone che appartengono al proprio mercato.È principio fondamentale del fundraising, accompagnare le persone al centro dell’agire di una organizzazione. Si ricordi sempre che si raccolgono risorse impiegando il tempo di persone, coinvolgendo persone, richiedendo risorse (beni materiali o finanziari) a persone per soddisfare i bisogni di persone, che l’organizzazione nonprofit ha deciso di servire.

“Le persone…”

La prima parte della frase “Le persone donano…” è un’an-notazione importante che fa ricordare che le istituzioni di per sé non donano. Sono gli esseri umani viventi che lavo-rano e operano all’interno delle istituzioni, che decidono di donare; non è l’istituzione che ha deciso di donare, dunque

2I mercati sono fatti di esseri umani, non di settori demografici

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sono le persone la cosa fondamentale da tenere presente nell’azione di fundraising. Non a caso é stato più volte detto che il fundraising è “l’arte della relazione”.Padre Ronald T. Marino, l’esperto direttore del Catholic Migration Office di Brooklyn, la più grande organizzazio-ne mondiale di assistenza agli immigrati, mi raccontò che quando riceve una donazione da una fondazione, oltre a ringraziare il presidente e/o i membri del consiglio di ammi-nistrazione, si ricorda sempre di ringraziare (con una telefo-nata o meglio ancora con due righe a mano) anche il per-sonale tecnico, dalla segretaria al direttore della fondazione donante. Egli rilevava sempre la sorpresa di queste persone, le quali, dopo essersi assicurate di far comprendere a Pa-dre Marino la loro assoluta estraneità nella decisione, erano molto contente di ricevere tale ringraziamento. La prossi-ma volta, mi raccontava il saggio prete italo-americano, saranno i primi alleati nel verificare che tutta la documen-tazione sia in ordine nel proporre la pratica al consiglio di amministrazione, nel suggerirci di proporla in un momento particolarmente favorevole, nel presentarla con un tono più entusiasta e qualche particolare in più.

“…donano a persone…”

La seconda parte della frase recita “Le persone donano a persone…”. Anche questo è molto ovvio, ma forse per que-sto assai spesso disatteso.Non si dona alla causa, o perché c’è un bilancio deficitario, anche se in moltissimi casi si vedono situazioni simili di rac-colta fondi con lo slogan: “Stiamo andando male, abbiamo dei buchi in bilancio, dateci dei soldi”.Non è un buon motivo! Si può immaginare di acquistare un titolo in borsa, o un fondo d’investimento in base alle performance negative che ha avuto negli anni passati?

2

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Si può immaginare che la prossima campagna pubblicita-ria della Fiat reciti uno slogan del tipo: “Abbiamo un forte deficit, comprate le nostre autovetture!”. Non si possono chiedere soldi perché si ha un passivo, ma perché si ha un buon prodotto, perché questo ha ottenuto dei buoni risul-tati, perché si sono compiute le promesse che erano state

Esempio

Il giornalino parrocchiale

Un simpatico parroco che sta cercando di ricostruire il tetto della

sua basilica, nel giornalino parrocchiale (un semplice foglio A4 su

carta verde, stampato con il ciclostile) colloca in basso a destra,

sulla terza pagina, una tabellina indicativa del gigantesco deficit

parrocchiale. Ma indica anche il trend delle donazioni: circa 100

euro a settimana contro una necessità di quasi 150 mila euro.

Non occorre essere esperti in teorie motivazionali per intuire che

la speranza di poter raccogliere offerte sulla base della mera pre-

sentazione di un deficit è molto bassa, soprattutto se a questo si

aggiungono la sfiducia e la demotivazione che si determinano fa-

cendo risaltare l’insuccesso con cui procede la raccolta (si noti che

a quel ritmo, per raccogliere la somma necessaria, occorrerebbero

circa 1.000 settimane - vale a dire 20 anni - un tempo superiore

alla speranza di vita della maggior parte dei potenziali donatori!).

OFFERTE PRO RESTAURO CHIESA DI S. RUFFILLO

Ultime offerte - 3 3 5 52 8 10 3 52

tot. 136

precedente debito della parrocchia euro 147.337,33

attuale debito globale della parrocchia euro 133.547,28

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annunciate. Si dona per la fiducia che si viene a creare fra le persone, fra chi chiede e chi risponde, per le relazioni che si sono create e per l’eventuale impatto che genererà la donazione.

“… per aiutare persone”

Infine, l’ultima parte della frase: “Le persone donano a persone… per aiutare persone”. Significa che, ancora una volta, questo sinergismo positivo non è generato dalle isti-tuzioni o dalle organizzazioni. Sono i bisogni delle persone a muovere altre persone a donare, non i bisogni delle isti-tuzioni. Non c’è fundraising di Stato! C’è la raccolta delle imposte e delle tasse, ma quella è coercitiva, una raccolta volontaria di tasse non potrebbe funzionare. Il focus del fundraising è perciò sostanzialmente la costru-zione di relazioni fra persone secondo un percorso logico molto semplice (anche se difficile da mettere in atto): co-struire una mission molto forte, decidere qual è il sinergi-smo positivo, cioè la buona causa, cominciare le relazioni con le persone, chiedere, ringraziare.Nella maggior parte dei casi, il motivo per cui non viene donato, è perché nessuno ha chiesto alla persona, o perché è stato chiesto in un modo non adeguato.

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Tutti noi abbiamo studiato un po’ di marketing e chi non lo ha fatto sicuramente ha cercato di rimediare, arrangiando-si in qualche modo. Non possedere nozioni di marketing, oggigiorno, è considerato quanto meno rischioso, se non addirittura disdicevole. Ma ancora più pericoloso è importa-re acriticamente i modelli del marketing strategico tradizio-nale all’azione di fundraising. L’equazione è semplice: “se la buona causa è il prodotto dell’organizzazione nonprofit, per avere successo occorre imparare a venderla, né più né meno di qualunque altro prodotto”. Il sillogismo è logico, ma sofista, perché non tiene conto della diversità del pro-dotto. La vendita di una “buona causa” ad un cliente-do-natore interessato è un’operazione assai delicata che non può essere fatta con le stesse metodologie che vengono utilizzate nel marketing tradizionale. Sebbene sia fondamentale vendere la propria buona cau-sa (chi pensa che una buona causa non vada venduta farà poca strada), non si possono utilizzare le tradizionali tecni-che di vendita adoperate dalla maggior parte delle impre-se profit: la vendita push, cioè la vendita di spinta. L’idea chiave che sta sotto la strategia push consiste nel cercare di vendere il proprio prodotto in forza dell’aggressività con cui viene comunicato ai potenziali consumatori. L’immagine che meglio descrive questo tipo di strategia di vendita è quella del venditore prevaricatore (e forse anche un po’ di-sonesto) che spinge il prodotto evidenziandone i punti forti

3Da Push a Pull

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e minimizzando i punti deboli, o delle campagne promozio-nali basate sul principio della ripetitività dove il prodotto da vendere viene comunicato e promosso insistentemente at-traverso i diversi canali possibili (televisione, radio, manife-sti, marketing diretto, ecc.). Il tentativo (peraltro sempre più fallimentare) è quello di persuadere il cliente all’acquisto in forza della pressione che l’azione promozionale ha. Questa tecnica ha funzionato molto bene sino ai nostri giorni, ora però l’individuo è talmente oppresso dalle varie “spinte” che riceve che nonostante la pressione si sia fatta sempre più forte, l’efficacia è sempre inferiore. In un’impresa profit questo è senz’altro un problema che deve essere affronta-to, ma in ogni caso, male che vada, si saranno sprecati soldi, nulla di più.Se tutto questo viene applicato nel mondo nonprofit oltre a perdere soldi, se non dovesse funzionare, ci potrebbe-ro essere perdite in immagine e in reputazione. Si provi a pensare se con la stessa insistenza di una qualunque marca di detersivi, venisse reclamizzata una “donazione in favore dell’Unicef”. Tutto questo, agli occhi dei potenziali donatori risulterebbe quantomeno strano. La riflessione di un con-sumatore potrebbe essere qualcosa tipo: “Se al posto di spendere tutti questi soldi in pubblicità, li utilizzassero per fare azioni caritatevoli, sarebbe molto meglio”, con un’evi-dente perdita di immagine e di reputazione. Ecco perché il marketing push nel mondo nonprofit è bandito.Cosa ben diversa è il marketing pull applicato nel nonprofit. Non è più il venditore parolaio (ma forse un po’ millanta-tore) il perno della vendita, ma è l’acquirente che convinto della bontà dell’oggetto “costruisce insieme” al produttore il bene da acquistare. Il cliente è contento e convinto. Non si sente spinto o forzato. Il cliente non dà solo denaro in cambio della prestazione, ma vive un’esperienza. In questo modo è fedele all’acquisto non perché è ossessionato, ma perché è lui stesso che l’ha comprato. Più il cliente lavora nel

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costruire il suo bene, più al termine sarà contento di averlo acquistato e quindi difendendo la sua scelta, diffonderà la notizia. È il caso questo del cosiddetto pro-sumer vale a dire il produttore insieme al consumatore. In pratica la lo-gica è quella di trasferire parte della produzione del bene o servizio direttamente nelle mani del consumatore affinché il bene sia maggiormente corrispondente ai bisogni del con-sumatore.Per il “lavoro” che il consumatore fa l’azienda riconosce un piccolo incentivo, nella forma dello sconto o della maggiore personalizzazione. L’azienda ottiene due risultati con una sola azione: trasferisce una parte dei suoi costi sul consuma-tore, dall’altra fidelizza il consumatore in modo più naturale.Agiscono così le banche che utilizzano i sistemi di home banking (trasferiscono sul consumatore quello che prima fa-ceva il cassiere allo sportello), i magazzini di mobili smontati (che in cambio di un piccolissimo sconto consegnano il mo-bile imballato ancora da montare e da portare a casa), le as-sicurazioni al telefono (che disintermediano gli assicuratori, facendo svolgere al cliente tutte le pratiche per il rimborso degli incidenti), gli stessi supermercati (che in cambio di uno sconto chiedono al cliente di andarsi a raccogliere la propria spesa con un carrello, eliminando la figura del banchista alimentare).Si comprende quindi come la grossa evoluzione nel mar-keting odierno si sia avuta grazie all’idea di far lavorare il cliente, di coinvolgerlo nella costruzione del prodotto, tra-smettendo in questo modo un valore aggiuntivo che va ol-tre il mero aspetto materiale dell’acquisto. Non c’è mondo più adatto di quello nonprofit per questo tipo di marketing pull. Se si attua una vendita di tipo ag-gressivo nel mondo nonprofit i risultati sono quasi sempre negativi. Se invece si coinvolge nell’azione dell’organizza-zione il donatore prima di aver richiesto la sua donazione i risultati sono completamente diversi. Le statistiche dimo-

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strano che i volontari (cioè coloro che scelgono liberamente di lavorare dentro l’organizzazione) sono nei 2/3 dei casi migliori donatori dei non volontari.Dallo spingere il prodotto, push, si passa quindi a farsi tirare da esso, il pull; questo principio da sempre utilizzato nelle organizzazioni nonprofit, oggi si osserva anche in molte im-prese profit. Ancora una volta il nonprofit fa scuola. Come si fa ad attuare una strategia pull? Ovviamente ogni realtà, compresa la metodologia (coinvolgere il cliente nella costruzione del bene) agirà secondo le sue esigenze, ma è possibile stilare alcune regole base, se non altro per offrire un abbrivo iniziale:a)tengo sempre informati i miei donatori. L’informazione è

potere solo se condivisa;b) personalizzo i donatori;c)ripeto, ripeto e ripeto il messaggio in ogni occasione. Ho

visto organizzazioni nonprofit che comunicavano il pro-prio messaggio anche nel momento in cui i volontari al-zavano la cornetta del telefono. Repetita juvant!

d) tutto è pilotato dal centro. Il donatore si lega alla mission dell’organizzazione nonprofit;

e) creo urgenze (la stessa logica delle offerte straordinarie e delle promozioni). Utilizzo il principio della scarsità;

f) facilito al massimo l’accesso all’organizzazione nonprofit (diversifico gli orari di apertura, attivo un Numero Verde, utilizzo buste di risposta pre-affrancate, ecc.);

g) uso moltissimo, moltissimo e moltissimo Internet e la po-sta elettronica.

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Un’altra delle frasi maggiormente citate è quella che per brevità ho definito: “Il principio del giusto per 6”. I contenu-ti della frase possono apparire banali e ovvi, ma ci servono per sottolineare l’attenta meditazione che occorre premet-tere ad un azione di fundraising. La frase recita: “Un’azione di fundraising di successo è quella condotta dalla persona Giusta che chiede al donatore Giusto, la Giusta cifra, per il Giusto progetto, nel momento Giusto, nel modo Giusto”.

“La persona giusta che chiede al donato-re giusto…”

Iniziamo con il chiederci: “Chi è il donatore giusto?”. Il pa-trimonio di un’organizzazione sono i suoi donatori. Ognu-no dovrà, nel tempo, costruirsene uno. Noi ci limitiamo a elencare le caratteristiche fondamentali di alcuni gruppi presenti in quasi tutte le organizzazioni nonprofit ed indica-re a quale titolo essi sono in rapporto con l’organizzazione nonprofit.

Chi dirige l’organizzazione. Uno dei più grossi errori nel fundraising se si è membri del consiglio di amministrazio-ne è di ritenere che la propria responsabilità nei confronti dell’organizzazione si esaurisca partecipando occasional-mente alle assemblee del consiglio; che “mission” e “vi-sion” siano sostanzialmente parole; che donare, chiedere, e

4Il Giusto per 6

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fare attenzione alla condizione finanziaria dell’organizzazio-ne nonprofit sia compito di qualcun altro (per poi vantare con amici e associati la propria appartenenza all’associazio-ne). Chi non ha dato di tasca sua, difficilmente può chiedere a un altro di contribuire: ecco perché bisogna valutare con attenzione le potenzialità di donazione di ciascun mem-bro dell’organo di governo e programmare attentamente un approccio diretto con ognuno. Dare per scontato che i membri del consiglio di amministrazione (o comunque quelli che dirigono) faranno una donazione e che quindi non sia necessario un domanda diretta a ciascuno è un tipi-co errore nel fundraising.

I volontari. Per i volontari, il fatto di donare denaro può essere inteso come una naturale estensione del loro im-pegno; ecco perché è sbagliato non chiedere a chi svolge volontariato all’interno dell’organizzazione. Molto spesso l’associazione appartiene ai volontari, esiste grazie al loro lavoro; essi sono quindi i soggetti più motivati a donare e a sostenere la causa nell’azione di fundraising. Anche se queste persone donano all’organizzazione nonprofit il loro tempo, ciò non giustifica il fatto che non venga chiesto loro del denaro. Proprio perché l’organizzazione continua ad esistere grazie al loro impegno, ogni volontario sarà ben lie-to di contribuire alla raccolta fondi, non solo con il proprio tempo, ma anche con l’apporto di denaro.

Personale retribuito. E perché no? Solitamente questa ca-tegoria di persone sono le meno motivate a donare ma non perché non siano interessate per nulla all’attività, ma per-ché talvolta l’organizzazione stessa li considera solo rispetto al loro ruolo di lavoratori senza considerare le motivazioni che hanno spinto loro ad accettare un lavoro nel nonprofit. In questo settore vi è infatti una sorta d’auto selezione del personale dovuto a motivazioni già presenti nell’individuo

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che desidera offrire il proprio lavoro a condizioni talvolta meno vantaggiose rispetto al reciproco impiego nel settore profit. Il personale che dona parte dei propri soldi è il mi-glior biglietto da visita per i successivi potenziali donatori; infatti nel momento in cui sono proprio i dipendenti che donano si percepisce dall’esterno che l’organizzazione è re-almente lanciata sul mercato e sostiene una causa merite-vole di particolare attenzione. Attenzione: non permettete che qualcuno non faccia la propria donazione accampan-do come giustificazione il fatto che si è sottopagati e che quindi già questo costituisce una donazione. Chi non ha dato di tasca sua difficilmente può chiedere a un altro di contribuire.

Attuali donatori. Solitamente quando sorge la necessità di reperire risorse tra i soci nasce sempre una contraddizio-ne: “non si può continuare a chiedere sempre alle stesse persone, perché poi altrimenti ci abbandonano”. Tra l’orga-nizzazione nonprofit e il donatore esiste già una relazione, punto di forza che non bisogna assolutamente tralasciare e quindi nel rinnovare una donazione si rinnova una relazio-ne. Peccato mortale è quindi non chiedere a chi ha già dato. È ovvio, che non è possibile insistere più di due o tre volte in un anno, tranne il caso di emergenze o scadenze, ma è sbagliato ritenere che il donatore non sia felice di donare.

Donatori persi. I donatori persi sono quelli che hanno abbandonato l’organizzazione o che non hanno fatto più donazioni da almeno quattordici-diciotto mesi. Se opportu-namente gestiti, questi soggetti nel 20% dei casi ritornano a donare. Come agire? Il primo passo è rifare la buona cau-sa insieme a loro, discutere e descrivere ciò che è successo nei mesi in cui hanno abbandonato l’associazione; ricordare e descrivere ciò che in passato è stato realizzato grazie alla loro donazione. Fondamentalmente si tratta di ridefinire

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con il donatore “perso” la buona causa cercando di motiva-re nuovamente il soggetto verso di essa.

Fornitori profit. Chiedere a chi fornisce i materiali e ai fornitori in generale è molto corretto considerando inoltre che essendo imprese profit necessitano della collaborazio-ne dell’organizzazione nonprofit per un ritorno in termini d’immagine, notorietà e valori.

Chi ha già donato a organizzazioni simili. È evidente che i soggetti generosi con organizzazioni simili sono quelli più facili da coinvolgere. Individuarli non è semplice, ma da-remmo delle indicazioni su come costruirsi delle tabelle di segmentazione e ricerca donatori.

Persone ricche con amici nell’organizzazione. Ecco un buon motivo per allargare il proprio consiglio di ammini-strazione.

Creare delle tabelle di segmentazione con l’aiuto dei volontari. Con l’aiuto dei volontari è possibile realizzare una tabella di segmentazione per tipo di relazione, inte-resse nei confronti dell’associazione, capacità di dono e vicinanza di relazione. Nel bel libro di Stanley Weinstein è riportata una tabella simile, che abbiamo utilizzato molto spesso in passato e che ci ha dato sempre ottimi risultati. A ogni dipendente o volontario che abbia segnalato la sua disponibilità a indicare nomi per costruire un indirizzario, viene distribuita questa tabella (fig.1.5), con allegati la sche-da che riporta i parametri per la sua compilazione (fig.1.6). Ciascun volontario, dopo aver indicato il proprio nome indi-cherà i nomi di potenziali donatori, di cui lui abbia notizia. In base ai dati raccolti si definirà un piano di azione, in cui saranno indicati i nominativi di alcuni potenziali donatori e le cifre da chiedere a ciascuno.

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Segmentazione dei donatori

Scheda per la raccolta di nominativi di potenziali donatori

Scheda per la raccolta di nominativi di potenziali donatori

Figura 1.5

Figura 1.6

Donatoripotenziali

Capacitàmax

di dono

Interesseper la nostraorganizza-

zione

La tuareazionecon lui/lei

Seidisponibilea visitarlo?

Mario Rossi

AndreaVerdi

Giorgio Bianchi

Nomiprecom-

pilati

..................

Capacità maxdi dono

Interesse per la nostraorganizzazione

La tua relazionecon lui/lei

1) 500 euro annui per tre anni2) 385 euro annui per tre anni3) 250 euro annui per tre anni4) 130 euro annui per tre anni5) 50 euro annui per tre anni

A) elevato interesseB) moderato interesse (forse ha partecipato a qualche iniziativa)C) basso interesse ma sa e condivide i finiD) non ci conosce ma ha interesse per cause similiE) non ha interesse per noi nè per i nostri fini

1) Migliore amico2) Lo conosco bene3) L’ho incontrato una/due volte4) Mai incontrato5) Relazione ostile

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Per ciascun potenziale donatore il volontario deve indicare parallelamente la cifra che egli ritiene il potenziale donato-re possa donare, il coinvolgimento con l’organizzazione e il livello di relazioni con il volontario. Quest’azione è molto efficiente al fine di definire un primo elenco di nominativi da cui attingere risorse, poiché conoscendone le caratteri-stiche si può maggiormente personalizzare l’azione di per-suasione nei confronti dell’individuo sulla buona causa in questione. Occorre però portare avanti con la massima at-tenzione una richiesta di questo genere, sia per ovvi motivi di privacy, sia perché se non avanzata con la dovuta grazia ed equilibrio è possibile che diventi un boomerang per l’im-magine dell’associazione.Qualunque sia il metodo che si segue per identificare il po-tenziale donatore occorre che qualcuno s’incarichi di chie-dere esplicitamente la donazione. “Chi è la persona giusta per richiedere la donazione al potenziale offerente?” Ov-viamente è meglio che sia qualcuno che ha in corso una re-lazione con il potenziale donatore. Se poi é anche persona influente è anche meglio, ma non predominante. Il fundrai-sing è l’arte della relazione, non della pressione psicologica nei confronti del donatore. Non è la prima donazione quella che farà ricca un’organizzazione nonprofit, ma la seconda, la terza, la quarta… e per ottenere quelle occorre instaurare relazioni, non intimidire. Per quanto riguarda le tabelle pre-sentate per decidere chi dei volontari deve andare a chie-dere s’incarichi quello che ha dichiarato la più alta cifra di donazione. Sarà più sicuro nel chiedere. Così come si scarti “il miglior amico”, si sentirà meno libero nel chiedere.

“…la giusta cifra…”.

Della giusta cifra bisognerebbe discuterne per un intero li-bro, perché è ovviamente la cosa più difficile da calcolare. L’errore più grande che si possa fare è quello di lasciare li-

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bero il donatore di offrire ciò che vuole con la frase, tante volte ripetuta “Ogni cosa che può dare va bene”. Occorre riflettere attentamente, anche con l’aiuto di colleghi dell’or-ganizzazione nonprofit, e al limite è preferibile sbagliare (meglio in eccesso che in difetto), ma è sempre meglio indi-care una cifra. In proposito è bene notare che:a) se si chiede troppo ci si può correggere, se si chiede poco

si è sciupata una possibilità;b) mentre si ritiene che all’interno di un range fra l’1,5% e il

3,5% del reddito sia ragionevole, è capitato più volte che un donatore realmente entusiasta del progetto arrivi a donare sino al 10% del proprio reddito;

c) studi sul tema hanno dimostrato che in molti casi, quan-do si è deciso di donare un certo ammontare si è psicolo-gicamente pronti a donare almeno 5 volte di più;

d) il più grosso errore è non chiedere.

“…per il giusto progetto…”

Il giusto progetto è quello con una connessione emotiva o razionale con il donatore. Fin troppo facile sarebbe se si potesse trovare sempre la connessione per coinvolgere il donatore nel giusto progetto. Se infatti esiste una qualche motivazione (sia essa razionale o emozionale) il progetto ha molte più probabilità di essere finanziato. Ma questo con-ferma la necessità di creare matrimoni d’interesse per avere un buon fundraising.

“…nel momento giusto…”

Dopo aver elencato quali individui possono rappresentare per l’organizzazione nonprofit i migliori potenziali donatori, passiamo ora ad indicare alcune tecniche che ogni organiz-zazione, dalla più grande alla più piccola può utilizzare per trovare “i momenti giusti” per chiedere:

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• Inviti a un tour guidato della sede; è importante mostrare come si lavora, come vengono impiegate le risorse e so-prattutto chi sono i soggetti che lavorano nell’organizza-zione. Le persone più indicate per fare da guida in queste visite sono sicuramente i volontari, chi meglio di loro può trasmettere la giusta credibilità ed il dovuto entusiasmo?

• Pranzi e cene informali; queste sono occasioni fondamen-tali per iniziare una relazione, per collezionare nuovi ami-ci, a cui trasmettere la propria compagnia. Quest’ultima parola deriva infatti, da “com-panis” che non significa altro che mangiare insieme. In Italia le colazioni e i pranzi informali sono molto graditi e difficilmente qualcuno ri-fiuta l’invito.

• Inviti a casa propria e/o altri contatti personalizzati; talvol-ta più che avere un bell’ufficio è meglio avere una bella casa, un ambiente famigliare ed accogliente dove l’invita-to si sente più a suo agio senza il timore di ricevere chissà quale richiesta o proposta.

• Invito al meeting annuale dell’organizzazione (cena di Na-tale, giornata di inizio anno sociale, ecc.). Se il potenziale donatore è invitato al meeting annuale dell’organizzazio-ne è bene che essa non sia noioso e svolto senza cura. Questa deve servire a raccontare i progressi effettuati e i progetti futuri, deve essere un’occasione per ringraziare ufficialmente i donatori e per incoraggiare tutti i membri dell’organizzazione.

“…e nel modo giusto.”

È importante saper chiedere nel modo giusto, ma ovvia-mente non c’è “il” modo, dipende dalle circostanze. Occor-re prepararsi con cura quando si va a chiedere donazioni, specialmente quando si va in coppia: i messaggi che devo-no arrivare al donatore devono essere coerenti e univoci. Non bisogna credere alla favola che i fondi possono essere

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raccolti senza un previo attento esame di tutti gli aspetti, ma con improvvisazione. Al termine dell’incontro, comun-que vada, non bisogna mai privare il potenziale donatore del privilegio di dire “no” alla richiesta di donazione, sem-mai suggerendo una via d’uscita. Niente è più dannoso del mettere qualcuno con le spalle al muro. Non lo rivedrete mai più. Ringraziare per iscritto è certamente un obbligo sia che abbia accettato, sia che abbia rifiutato, in ogni caso non oltre le 24/48 ore.

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Wilfredo Pareto, sociologo ed economista, nato a Parigi nel 1845, è forse l’autore più ricordato e citato dai fundraiser di tutto il mondo. Di esso si ricorda in particolare la sua acuta osservazione circa il fenomeno che interessa ogni gruppo di organismi in cui l’80% dell’attività viene prodotta dal 20% di essi. La verità di questa attenta considerazione si può verificare in molti aspetti della vita. Nella maggior parte dei fenomeni economici l’80% dei risultati viene dal 20% degli sforzi. In macroeconomia si sa che l’80% del prodotto nazionale lordo è realizzato dal 20% delle imprese e viceversa, così come il 20% dei prodotti realizzati da un’impresa genera normalmente l’80% dei profitti. Gli esperti di marketing usano lo stesso principio, sapendo che in generale otten-gono l’80% dei loro ordini dal 20% dei loro clienti e anche che il 20% degli agenti rappresentanti produce l’80% di tutte le vendite.Anche nel fundraising si conferma questa legge; spesso l’80% dei fondi raccolti viene dal 20% dei volontari. Ecco perché, una volta che il fundraiser ha compreso bene la leg-ge di Pareto per massimizzare gli utili derivanti dalle dona-zioni occorre dotarsi di sistemi informatici che permettano di individuare con sicurezza il 20% di donatori su cui con-centrare la propria maggiore attenzione per ottenere l’80% del reddito.Si guardi, curiosamente, la tabella riportata di seguito che

5 La legge di Pareto e la piramidedel fundraising

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rappresenta l’ammontare medio donato dagli italiani. Circa l’80% dei donatori si situa in un range fino a 100,00 euro di donazioni all’anno mentre solo il 20% (che presumibil-mente produce l’80% della raccolta) oltrepassa la cifra di 100,00 euro per raggiungere, nel 6% dei casi cifre superiori ai 250,00 euro.

Il passaggio centrale di una strategia è costruire l’azione di fundraising intorno a quelle aree di donatori che mas-simizzano il reddito nel medio e lungo periodo, cioè nei tre/cinque anni, il tempo migliore per ottenere dei buoni ritorni sull’investimento iniziale. Ovviamente, ogni area del fundraising che appare interessante nel breve periodo non deve essere trascurata, ma è logico che ad ogni gradino della piramide il numero dei donatori declina, e l’ammon-tare dei contributi aumenta fino a giungere, con parecchio lavoro e dopo parecchio tempo, ai livelli massimi dove la legge di Pareto 80/20 è finalmente raggiunta.

Ammontare donato dagli italiani in euro

% donazioni

39,538,316,35,9

Fino a 25da 25 a 100da 100 a 250oltre 250

Figura 1.7

Fonte: Istat, 2009

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I cinque livelli della piramide

La base della piramideLa base della piramide consiste nelle quote associative e nei primi sostenitori che hanno fatto la loro prima dona-zione o, per esempio, pagato il loro primo abbonamento al bollettino dell’associazione. In realtà non sono da consi-derarsi davvero sostenitori fintanto che non hanno fatto la seconda donazione o rinnovato l’abbonamento, o la quota associativa, in quanto il loro dono iniziale potrebbe essere semplicemente determinato da una “svista”, o da un capric-cio, o da un impulso emozionale provocato dal materiale dell’organizzazione nonprofit fatto particolarmente bene. Fortunatamente il trend delle donazioni di impulso è netta-mente in discesa, soprattutto per la mancanza di attenzio-

La piramide del fundraising

Figura 1.8

Ereditàe lasciti

Impegnodel donatore

Investimento

Crescitadel donatore

Contattocon il donatore

Grandi donazioni

Piccole donazionipianificate e/o impegno alla donazione mensile

Rinnovo e aumento donazione

Quota associativa, prima donazione, partecipazione eventi speciali

Tutti i pubbliciFREDDA PICCOLE DONAZIONI

AM

MO

NTA

RE DO

NATO

TIPO

DI R

ELA

ZIO

NE

CALDA GRANDI DONAZIONI

Coinvolgimento

Interesse

Informazione

Identificazione

Man mano che la relazione si scalda le donazioni diminuisconoma diventano più consistenti.

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ne che ormai il potenziale donatore mette nell’aprire una busta o nel guardare un manifesto per strada. La modalità di donazioni sta diventando sempre di più consapevole, e pur funzionando ancora le sette leggi della persuasione il donatore tende a fare scelte deliberate di donazione (cioè di investimento) e ad analizzare con maggiore cura se l’or-ganizzazione risponde alle sue aspettative.Nella maggior parte dei casi è questo il momento della verità. Se l’organizzazione è brava a saper cogliere l’“attenzione” che il donatore ha dimostrato di avere nei confronti della causa proposta, egli potrà salire velocemente i gradini della piramide. Ecco perché, come vedremo in seguito è impor-tante il ringraziamento veloce, consistente e sincero. Il secondo livello della piramideNel secondo livello della piramide ci sono i donatori che hanno risposto positivamente all’appello personale di rin-novare la donazione e/o la quota associativa. La richiesta si fa più consistente, ma soprattutto la domanda può essere molto personalizzata (se si utilizzano gli adeguati sistemi informatici si possono fare realmente miracoli nella perso-nalizzazione delle richieste). Non esiste un numero preciso di richieste che possono essere fatte durante un anno. Cer-tamente non si possono superare i dodici inviti, ma non si pensi che ci si debba trattenere più di tanto. Un donato-re cui è rivolta una richiesta personalizzata, e che inizia a pensare di fare la differenza con la sua donazione, non si aspetta di essere lasciato stare.

Il terzo livello della piramide Il terzo livello della piramide è quello popolato da coloro che, in un modo o in un altro, hanno deciso di rendere stabile il proprio contributo all’associazione. Non sono tan-te le organizzazioni, con cui abbia lavorato, che hanno già con successo implementato questo metodo, ma esso è cer-

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tamente un sistema ben efficiente e che in particolare in certi ambienti, caratterizzati da forte legami ideologici e/o religiosi viene percepito come una facilitazione, piuttosto che un obbligo. In particolare si fa riferimento al caso delle ONG che attuano il metodo delle adozioni a distanza (che peraltro assolve con efficacia anche al problema della sepa-razione dei due sistemi, così come affrontato nel capitolo precedente), a certe organizzazioni di partiti, o alcuni movi-menti della chiesa cattolica che perfezionano così il precet-to della donazione delle decime.Questo tipo di donazione è molto delicata. Essa trasmette l’idea di essere silenziosamente automatica, in realtà deve essere accudita e vigilata con attenzione, in quanto questa tipologia di donatore ricade nel concetto di attivista che ol-tre a ricevere il giusto ringraziamento per le risorse donate, desidera far parte delle decisioni dell’associazione.

Il quarto livello della piramideIl quarto livello della piramide è quello dei grandi donatori o di coloro, persone fisiche o giuridiche, che partecipano in modo considerevole alla vita dell’organizzazione nonpro-fit. Il migliore approccio con questa categoria di donato-ri è ovviamente sempre il faccia a faccia di qualcuno che faccia parte della stessa “classe” del donatore. In questo caso occorre studiare con molta attenzione le motivazioni del donatore. I fattori chiave che agiscono nella decisione di donare e come essi interagiscono con il fundraising sono riassunti nell’elenco seguente:

AltruismoAltruismo e umanitarismo sono due forze, ed il desiderio di migliorare l’umanità, in particolare nei confronti della generazione seguente, si scopre in molti donatori. La più diretta applicazione, di fronte a donatori di questo genere è di presentare con cura la buona causa dell’organizzazione.

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Appartenenza“Vivere è appartenere”, recitava uno slogan delle conte-stazioni universitarie. Le persone desiderano appartenere a gruppi o a cause che li riconoscono come importanti. Per questo motivo si può creare all’interno dell’organizzazione un club esclusivo di finanziatori di una determinata causa.

ApprezzamentoLa targhetta sulle panche di una chiesa che reca il nome di colui che l’ha donata è una delle più usate forme che la Chiesa Cattolica ha inventato per soddisfare il bisogno di essere apprezzato in pubblico che il donatore può avere. Ma se questo è il bisogno del donatore ci sono altri modi per corrisponderlo: pubblicazione in un albo d’onore, rin-graziamento personale del presidente dell’organizzazione durante un evento speciale fino ad arrivare alla intitolazione di un aula, una sala o un intero palazzo al donatore.

Benefici fiscaliNon è questa la sede per affrontare con dovizia di partico-lari i vantaggi di cui le persone giuridiche possono godere secondo la normativa delle O.N.L.U.S e degli enti non com-merciali. Ma in ogni caso questa è da ritenersi una motiva-zione accessoria e va capitalizzata insieme ad altre.

Collaborazione della comunitàSpesso i grandi donatori hanno lo scopo di coinvolgere l’in-tera comunità nella battaglia per la buona causa. Nel do-nare aiuto, richiedono collaborazione e allo stesso tempo un riconoscimento per la loro azione da parte di tutta la comunità di appartenenza.

CompetizioneLa forza della competizione è uno dei fattori più forti per continuare a contribuire. Specialmente in imprenditori di

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successo, occorre saper servirsi del “bisogno di vincere” che spesso li caratterizza.

Destinatario di una richiestaQualche tempo fa, ebbi l’occasione di visitare una mostra-vendita di arte moderna. Passeggiando da un espositore all’altro, di tanto in tanto mi fermavo ad ammirare alcuni quadri. In particolare mi colpì uno stupendo Treccani, una tela grande almeno 4 x 4. Vedendomi così interessato il commerciante mi chiese se non fossi interessato a conosce-re il prezzo. Più per sfizio che per reale intenzione di acqui-stare accennai ad un interesse e il commerciante dopo qual-che minuto di ricerca ci comunicò il prezzo: “750.000,00 euro”. Dopo una risata ovviamente mi allontanai, ma di quella scena ho sempre ricordato con piacere il fatto che il commerciante avesse potuto pensare che avevo quella disponibilità economica. Moltissimi donatori e/o organizza-zioni gradiscono il fatto di essere ricercati e ritenuti capaci e ricchi. Molte volte, se non donano è perché nessuno lo ha mai chiesto loro.

Donare è belloQuesta è forse la più forte delle motivazioni, spesso pro-fondamente radicata nel donatore. La coscienza di poter fare qualcosa di bello per gli altri, la consapevolezza non tanto di poter fare grandi cose, ma piccole cose in un modo grande. Persone di questo genere sono un patrimonio per l’organizzazione e vanno coltivate.

Dono preventivoLa domanda base che sta sotto questo tipo di motivazione è qualcosa del tipo: “Aiutaci a trovare la cura per il cancro oggi (così se prendi il cancro domani, saremo capaci di cu-rarti)”. Ovviamente questo tipo di messaggio deve essere reso in modo particolarmente delicato e appropriato.

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GratitudineLo studente che ha ricevuto una borsa di studio, un pazien-te che si è visto restituire la vita al termine di un’operazio-ne chirurgica particolarmente delicata, l’amante del teatro lirico che per un intera vita ha potuto ascoltare il bel canto, ecc, sono fattori grandemente motivanti per un donatore.

GruppoAncora una volta è il bisogno di appartenenza che decide per la donazione. In molte comuni applicazioni di fundrai-sing (ad esempio la lista di donatori per una certa causa) il donatore dapprima cerca se il suo nome è stato inserito, e poi va a cercare se in quella lista ci sono coloro che vorrebbe vedessero il suo nome all’interno della lista.

ImmortalitàIl desiderio d’immortalità, o perlomeno il desiderio di essere ricordato per sempre, può essere un forte desiderio a lascia-re anche grosse cifre all’organizzazione che ne fa richiesta.

Interesse specifico per la causaUno dei fattori principali è, come abbiamo visto, la con-nessione con la causa. Qui, più che in altre motivazioni, è fondamentale conoscere e investigare sugli interessi primari del donatore. È praticamente inutile chiedere un finanzia-mento di una borsa di studio universitaria a qualcuno che è seriamente interessato solo ai problemi sociali.

Lasciatemi in paceCi sono molti individui, inclusi molti estremamente ricchi, che desiderano essere lasciati in pace. Molte volte questo tipo di persone sono motivate a elargire un unico grande dono il cui effetto duraturo negli anni li preserva con una sorta d’immunità da continue e ossessive richieste.

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ParadisoNessuno si sorprenda del fatto che, nonostante la secolariz-zazione della società moderna, questa sia ancora una delle più forti motivazioni al dono da parte di chi è benestante. Il versetto evangelico: “è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli” è uno “slogan” talmente riuscito da far compiacere anche famosi copywriter. I beneficiari delle donazioni di persone che cercano di “guadagnarsi il paradiso” sono per la mag-gior parte istituzioni religiose.

Senso di colpaCi sono persone che pensano di dover ristabilire a proprio sfavore le sorti del destino perché ritengono di avere avuto tanto, ma di non aver restituito altrettanto. Sebbene le ap-plicazioni del fundraising in tutto questo siano limitate (non è affatto consigliabile insistere su questo tipo di sentimento che denota quasi sempre una nociva nevrosi), ci sono casi in cui con un adeguato coinvolgimento, e dunque collabo-rando al bene della persona, si possono ottenere grandi donazioni.

SimpateticoChi ha fatto l’autostop da giovane è più propenso a cari-care un autostoppista. La madre felice per il suo bambino sano, è propensa a donare per una richiesta di assistenza per i bambini obbligati sulla sedia a rotelle. La motivazione che deriva dall’essere simpatetico è di questo tipo: qualche esperienza che si è vissuta in passato che si vorrebbe rivive-re o che per fortuna non si è dovuta vivere.Un ultimo pensiero più generale. La maggior parte dei po-tenziali grandi donatori non offre per alcuni semplici motivi:a) non hanno tradizioni familiari di donazioni;b) si sono arricchiti da troppo poco tempo, e i loro interessi

preminenti sono ancora concentrati sul propri affari;

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c) hanno una paura ingiustificata della vecchiaia, della pen-sione, di malattie;

d) vogliono lasciare il più possibile ai loro figli e ai loro nipoti;e) non sono stati ancora identificati in quanto ricchi, o non

è stato chiesto loro nel modo più appropriato;f) la loro ricchezza è volutamente nascosta, sotto stimata e

sottovalutata.Per concludere, l’applicazione delle motivazioni del donato-re per trasportare sul quarto livello coloro che provengono dai livelli più bassi (e che ne hanno la potenzialità), richie-de una buona dose di buon senso e l’acquisizione di una buona comprensione dei veri interessi (ancora una volta il refrain del matrimonio di interesse), ambizioni e bisogni psi-cologici.

Il top della piramideInfine all’apice della piramide del fundraising sta il program-ma per le donazioni pianificate. Non c’è organizzazione nonprofit di successo che non abbia implementato nel cor-so degli anni un vero e proprio programma per le cosiddette donazioni pianificate, in pratica i lasciti testamentari. Jean Di Sciullo, che aveva da poco terminato il lancio della cam-pagna per lasciti testamentari dell’Università cattolica fran-cese, durante una delle sue lezioni alla facoltà di economia di Forlì affermò che la durata della vita media di coloro che avevano inserito nel proprio testamento una donazione in favore di un’organizzazione nonprofit aumentava (ahimè! per l’organizzazione) di oltre 11 anni. Non può essere que-sto un argomento su cui basarsi per chiedere un lascito da parte di un donatore, ma in questi casi un po’ di sana ironia e di umorismo può essere molto utile. In ogni caso quando si affrontano questi tipi di temi occorre un approccio molto largo in almeno due punti:a) ricordare al potenziale offerente (coloro che sono nel

quarto livello della piramide) che è possibile lasciare soldi

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o beni all’organizzazione nel proprio testamento e che nella maggior parte dei tali donazioni sono fiscalmente detraibili;

b) coloro che non fanno parte dell’organizzazione devono e possono essere raggiunti in varie maniere.

La piramide del fundraising è oggi uno strumento tradizio-nale (non c’è libro sul fundraising che non ne riporti una versione), che non può certamente sostituire la relazione che sta alla base di ogni buon fundraising. Quello che la piramide del fundraising contribuisce a fare può riassumersi così: ogni organizzazione che la implementi seriamente si trova un agile – e immediatamente comprensibile – stru-mento per massimizzare effettivamente il reddito dei soste-nitori nel corso degli anni. Tutto è relativo

“Le persone donano in relazione ai loro mezzi in relazione a quanto altri donano”. In questi anni abbiamo conosciuto persone per cui donare 5 euro era un grosso sacrificio finan-ziario e persone il cui stile e la cui qualità della vita non cam-biava neanche dopo una donazione di 2.500,00 euro. Molto illuminante, da questo punto di vista è il versetto di Luca:“Alzati gli occhi vide alcuni ricchi che gettavano le loro of-ferte nel tesoro. Vide anche una vedova povera che vi get-tava due spiccioli e disse: “In verità vi dico: questa vedova, povera, ha messo più di tutti. Tutti costoro, infatti, hanno deposto come offerte del loro superfluo, questa invece nel-la sua miseria ha dato tutto quanto aveva per vivere”.Molte persone non hanno ben compreso il punto fonda-mentale di questo passaggio. Essi si focalizzano solo sulla dimensione del dono (due soldi contro le abbondanti offer-te dei ricchi), mentre il punto decisivo da cogliere è la ca-pacità di contribuzione relativa. Ogni buon fundraiser non

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deve chiedere indifferentemente la stessa cifra. L’approccio alla vedova, che si toglie il pane di bocca per dare i due spic-cioli, e al ricco che dona il superfluo, deve essere differente perché se si chiede a tutti lo stesso, nello stesso modo, si fallisce e si lasciano sul campo risorse inutilizzate.Quando per ottenere 50.000,00 euro si progetta di chie-dere 100 donazioni da 500,00 euro o in alternativa 1000 donazioni da 50,00 euro si è quasi certi di fare flop. Ecco perché è difficile mettere in piedi una buona azione di fun-draising senza aver prima riflettuto su chi può dare e quan-to ciascuno può dare.

Tutto è relativo nel fundraising.

Le donazioni sono relative ai propri mezzi e alla propria ca-pacità di donare. Se si chiede a tutti lo stesso importo si finirà, quasi certamente, con l’ottenere un magro risulta-to, a causa del fatto che molte persone, per reali motivi di reddito, non possono donare la cifra richiesta, e altre cui è stato chiesto un ammontare troppo piccolo avrebbero potuto donare di più. Inoltre i donatori, specialmente se ci si rivolge a certi gruppo particolarmente selezionati, deci-dono di donare quanto gli altri hanno donato. Si pensi a una colletta per un regalo di nozze. Lo svolgersi dei fatti è normalmente il seguente. Un incaricato inizia a raccogliere i soldi dal gruppo di amici invitati e stabilisce lo standard di donazione facendo la prima donazione. A ogni nuova persona, la domanda che l’incaricato si sente rivolgere è: “Quanto hanno dato gli altri?” e se la risposta è una cifra esatta, nella maggior parte dei casi, quella è la cifra che ver-rà donata. In fondo la logica è molto semplice: “Se gli altri hanno dato 25,00 euro perché io dovrei dare 35,00 euro?”Qualche mese fa per dimostrare l’importanza della relati-vità in fatto di donazioni, abbiamo svolto un interessante esperimento durante la raccolta delle offerte (la cosiddetta

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questua) nelle chiese. È stato proposto al sacrestano inca-ricato della raccolta di porre prima dell’inizio della raccolta, ed in modo ben visibile, una decina di banconote di taglio medio (5,00 euro) all’interno del cestino delle offerte. Alla terza settimana l’ammontare medio donato durante le ce-lebrazioni si era alzato di quasi il 70%. Ecco perché un’azione di fundraising ha molte più possi-bilità di successo, se si imposta il piano di raccolta su base scalare, piuttosto che ipotizzare un piano finanziario piatto. Ciò significa che una buona proiezione finanziaria deve pre-vedere tipologie diverse di doni, a seconda delle persone. Un ipotetico piano finanziario per un’azione di fundraising è riportato nella tabella 1.9. È interessante fin da ora notare che secondo questa previsione il 10% dei donatori deve produrre il 60% dell’intero ammontare da raccogliere. Il successivo 20% dovrebbe produrre un altro 20% di dona-zioni e infine il rimanente 70% dei donatori produce il 20% che rimane per raggiungere l’obiettivo. Questa equazione è riassunta nella tabella 2.0. Tutto è relativo anche rispetto

Tabella dei doni da ricercare per una raccolta di 5.000,00 euro

Esempio di piano finanziarioTabella 1.9

Fonte: Rosso, Tempel, Melandri, Il libro del fundraising, Etas, Milano, 2004.

Importo della donazione

in euro

Numero dei doninecessari per raggiungere

l’importo preventivato

Potenzialidonatori

Totale cumulativo delle

donazioni ricevute in euro

500,00385,00250,00129,0050,0038,5025,0012,505,00

233488163232

8 (4:1)12 (4:1)12 (4:1)16 (4:1)24 (3:1)24 (3:1)48 (3:1)96 (3:1)96 (3:1)

1.000,002.195,002.970,003.485,003.900,004.200,004.620,005.035,005.200,00

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all’azione del consiglio di amministrazione. Nella raccolta fondi coloro che determinano il passo, che indicano qual è il tipo di raccolta da fare (dove raccogliere, quando rac-cogliere) sono quelli che la propongono e la dirigono. Più di una volta abbiamo abbandonato progetti i cui i consigli d’amministrazione progettavano la raccolta di 50.000,00 euro, ma nessuno dei presenti era disposto ad iniziare la raccolta. Se si vuole avere speranza di successo, questa si-tuazione non si deve verificare, poiché il passo è stabilito dal consiglio d’amministrazione. La nostra esperienza è che se i consiglieri ritengono la raccolta fondi propostagli di buon senso, è molto probabile che sia valida, ma se già i consi-gli d’amministrazione, non appoggiano e non sostengono il progetto di fundraising, è molto probabile che sia sba-gliato impostarla in quel modo. La difficoltà non sta quindi nel non sapere i possibili risultati, ma nel non voler vedere i problemi. Occorre essere sempre molto realisti. È inutile pensare di raccogliere centinaia di milioni per piccole cau-se in piccole aree geografiche di riferimento. Uno dei test per vedere se la campagna di raccolta fondi avrà successo o meno, è osservare se i consiglieri d’amministrazione la ritengono fattibile, cioè se ritengono e se sono pronti a rac-cogliere personalmente. Se non si vede fin da subito questa possibilità, è molto difficile che la campagna possa avere successo. Il consiglio d’amministrazione è l’immagine di un pubblico di riferimento: se il primo non approva difficilmen-te anche il secondo sosterrà la campagna di raccolta fondi.

Rapporto ammontare donato/numero di donatori

Tabella 2.0

10% donatori = 60% ammontare donato20% donatori = 20% ammontare donato70% donatori = 20% ammontare donato

100% 100%

Fonte: Rosso, Tempel, Melandri, Il libro del fundraising, Etas, Milano, 2004.

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Dire sempre la verità sembra un principio fin troppo scon-tato, ma è importante ribadirlo. Non bisogna farsi tentare dall’idea di ingigantire la buona causa per impressionare il donatore. Se l’organizzazione fa errori é bene non cercare di coprirli, ma utilizzarli come punti di forza. Vediamo ora due esempi, uno del mondo nonprofit, l’altro del mondo profit, in cui i comportamenti di fronte a un problema improvvisamente sorto sono diversi.Qualche anno fa fece scalpore il manifesto-promozione di un concerto un noto cantautore in favore di un noto Istituto di ricerca sul cancro. Il motivo dello scandalo fu che Lucio Dalla nella foto promozionale stava fumando una sigaretta. Senza bisogno di essere un esperto di etica, risultò imme-diata la stonatura che, rispetto alle finalità dell’Istituto, una pubblicità (seppure indiretta) del fumo poteva scatenare. Al centralino dell’Istituto arrivarono numerose telefonate di la-mentela da parte dei soci, dei volontari e dei consiglieri di amministrazione, poi la cosa, per fortuna, venne messa a tacere. Il manifesto, nonostante le nostre ricerche, è prati-camente scomparso.Altro esempio. Quando qualche anno fa venne lanciata pomposamente sul mercato, con centinaia di miliardi spesi in marketing, la nuova autovettura denominata Classe A, che introduceva per la prima volta nel settore delle auto-vetture da città la casa produttrice Mercedes, un simpatico giornalista facendo il cosiddetto “test dell’alce” (una serie

6Dire sempre la verità

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di curve improvvise a velocità abbastanza sostenuta) causò uno dei momenti più critici nella storia del lancio di un’auto-vettura nuova. Lo slogan di lancio della Classe A era: “è una Mercedes” dando per scontato il fatto che valeva la pena di fidarsi in fatto di sicurezza e garanzia. Qualche giorno dopo il famoso test dell’alce, tutto il mondo parlava quasi con irrisione della nuova Classe A e, più in generale, dell’affida-bilità della marca tedesca. Le ordinazioni dell’autovettura vennero bloccate, i modelli in circolazione vennero ritirati e la marca Mercedes si preparò all’offensiva, chiudendosi in due mesi di analisi e contro-analisi per superare il problema.Al termine dei due mesi Mercedes uscì con un rinnovato lancio pubblicitario che sottolineava in particolare proprio il punto debole dell’autovettura: la stabilità e il suo attacca-mento al terreno. Nella versione televisiva della campagna pubblicitaria un argano sollevava la Classe A dal terreno (per caricarla su una nave) e mentre la tirava su, l’asfalto della strada rimaneva attaccata alle gomme dell’autovettura con la voce fuori campo che annunciava: “Nessuna macchina è più attaccata di Classe A al terreno”. Le vendite ripartirono con maggior vigore e slancio e il problema stabilità venne trasformato in un’opportunità.C’è indubbiamente differenza fra i due atteggiamenti. Ed è la differenza che normalmente si riscontra fra il mondo profit (più aperto) e il mondo nonprofit, molto più chiuso e autoreferente. Qualunque problema (anche se a causar-lo è stato proprio l’organizzazione nonprofit) è una grande occasione per ottenere visibilità e dunque possibili nuovi contatti con potenziali nuovi donatori.

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Siamo sempre così indaffarati e sommersi dalle cose urgenti da fare che non abbiamo certo il tempo di sostenere una causa, se la nostra buona intenzione (che dura molte volte lo spazio di qualche minuto) diventa tecnicamente difficile da realizzare. A una conferenza cui eravamo entrambi re-latori, commentando la teoria del doppio sistema, Niccolò Contucci direttore di Telethon, affermò che “non solo c’è un doppio sistema nell’organizzazione nonprofit, ma c’è un doppio sistema anche nel fundraising. Se si spende tempo e denaro per lanciare una causa e poi non c’è un efficiente ed efficace sistema di raccolta che sia ridondante rispetto alle possibilità di donazioni, è persino controproducente spingere troppo l’acceleratore: se non si hanno le mani tese nell’attimo breve in cui il donatore decide di donare, sarà difficile averne un altro”.Una delle esperienze più evidenti rispetto a questo principio mi capitò qualche anno fa. Fu quando dopo aver deciso di sostenere una certa organizzazione nonprofit e appre-standomi a spedire l’offerta attraverso l’apposito coupon di risposta, mi accorsi che la busta era sottodimensionata rispetto al tagliando. Nel cercare le forbici, che ovviamente non saltarono fuori, rovistai in un cassetto, dove trovai un articolo di un giornale che stavo cercando da tempo. L’at-tenzione cadde su questo nuovo interesse e mi scordai la buona causa e l’organizzazione. Intendiamoci: non tutti i finali sono così sconsolanti, ma tut-

7Rendere facile donare

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to questo dovrebbe insegnare che se qualcuno, disposto a donare, deve cercarsi un francobollo per rispondere, scrive-re 3 volte il proprio nome e indirizzo nel bollettino posta-le, o peggio ancora, comprarsi una busta per rispondere è molto più facile che non risponda.Non sembra inutile ricordare quindi alcune semplici regole che facilitano la donazione:a) indicare sempre e con chiarezza le modalità per offrire

il proprio contributo. Più sono, meglio è, ma si consideri che le alternative a disposizione sono il conto corrente postale, la carta di credito, internet, il numero verde te-lefonico, il versamento in banca, l’invio di assegno non trasferibile, le postazioni fisse per la strada o nelle piazze (ovviamente solo in brevi periodi) e la consegna diretta-mente alla sede dell’associazione;

b) precompilare il bollettino postale o qualunque tagliando da restituire all’organizzazione, affinchè chi dona debba limitarsi a mettere un segno sul quadratino inerente la scelta dell’importo che si desidera donare;

c) nel caso si preveda una risposta per lettera, fornire il fran-cobollo o la busta pre-affrancata.

Inutile ricordare che per avere procedure semplici all’ester-no occorre mantenerle semplici e facili all’interno dell’orga-nizzazione. Chi sa, nell’organizzazione, quando la donazio-ne o la quota associativa è arrivata in banca? Chi spedisce la lettera di ringraziamento entro due giorni lavorativi? Chi analizza se il dono (quota sostenitori) merita anche una te-lefonata particolare? Quanto tempo ci vuole per contabiliz-zare ciascuna quota? Dopo queste semplici analisi, il fundraiser potrebbe deci-dere di ridefinire le procedure interne ad un solo scopo: le procedure semplici e organizzate fanno risparmiare tempo, e come diceva Zio Paperone: “Il tempo è denaro”.

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Negli scorsi anni ho avuto in classe durante seminari di ge-stione del conflitto un gruppo di docenti delle scuole medie superiori. Al termine dei due giorni di lavoro, il commen-to di alcuni di loro era invariabilmente lamentoso: “Vede-te, quello che ci avete insegnato è molto interessante, ma se voi conosceste i nostri Presidi, capireste, che tutto ciò è inapplicabile”. La settimana dopo, nello stesso setting era-no stati invitati i presidi a sottoporsi alle nostre torture sulla gestione del conflitto. Al termine delle due giornate di lavo-ro il commento era, mutatis mutandi, molto simile: “Tutto questo è molto bello, ma se voi vedeste i nostri Professori… capireste che è impossibile!”. Qual è la morale? L’erba del vicino è sempre più verde? Certamente, ma non solo.Si tratta, in verità, di un problema assai più profondo, che tocca quella sintomatica mancanza di realismo e di cono-scenza del mondo circostante che sta diventando sempre più la vera risorsa scarsa delle organizzazioni nonprofit. In una parola la si potrebbe definire alibi.A questo punto il parallelo è fin troppo scontato. Nel corso di questi anni ho avuto in classe le più svariate organizza-zioni nonprofit, dalle piccole associazioni di provincia con tre soci, sede in casa del fondatore, prive di un c/c auto-nomo, alle grandi organizzazioni con budget milionari. Ho incontrato organizzazioni attive nei più svariati campi dei bisogni umani (dalla cultura alla sanità, passando per l’i-struzione e la difesa dell’ambiente). Ma sorprendentemente

8Non cercare alibi

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il fil-rouge che le legava era che “loro erano diversi dalle altre organizzazioni, e che quindi queste tecniche non si potevano applicare”. Nessun alibi: nessuno ha mai promes-so l’eldorado insegnando alcune tecniche di fundraising, nessuno ha mai affermato che è facile raccogliere fondi, ma per chi si mette seriamente al lavoro il risultato è garantito. Funzionerà.

Non sempre essere piccoli è uno svantaggio…

Se ci si paragona ai colossi del nonprofit, molte piccole or-ganizzazioni nonprofit si spaventano e ritengono di avere poche possibilità di raccolta. Conosco centinaia di piccole organizzazioni nonprofit. Alcune di esse sono e saranno sempre piccole organizzazioni. Qualche altra in questi anni è cresciuta in modo notevole grazie ad una serie di carat-teristiche che ho qui provato a riassumere. Anche essere piccoli può non essere uno svantaggio a patto che si operi con certi criteri:Sapersi differenziare. Domanda numero uno per la piccola organizzazione nonprofit: come mi immagino il mio servizio alla persona anziana o ai bambini del quartiere perché si distingua nettamente dai concorrenti? Se non siete in grado di spiegare in poche parole per quale ragione “l’uomo della strada” dovrebbe considerarvi speciale, siete già nei guai ancora prima di partire.Avere un’anima. La piccola organizzazione nonprofit do-vrebbe far prorompere i clienti potenziali in esclamazioni del tipo “Fantastico”, “Eccezionale”: in altre parole, do-vrebbe essere memorabile. “Anima” dell’iniziativa potrebbe essere l’impegno ad avere qualcosa di veramente speciale, rispetto alle altre organizzazioni.Passione. La vita di un’organizzazione nonprofit talvolta è esaltante, ma quasi sempre sfibrante. Soltanto una sfrenata

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passione per quel che si fa può consentire di uscire inden-ne da giornate di 17 ore (giorno dopo giorno, mese dopo mese), segnate da tutti gli errori che costituiscono l’inevita-bile corredo di ogni organizzazione nonprofit ai suoi inizi.Dettagli. Al progetto generale è affidato il compito di distin-guervi dagli altri, ma soltanto una superba esecuzione farà di voi una grande organizzazione.Cultura. “Cultura aziendale” è un’espressione che parrebbe di pertinenza esclusiva di grandi imprese profit tipo Fiat o Mediaset. E invece no: la cultura è importante anche per la micro organizzazione nonprofit formata da 3 volontari ed una mezza segretaria part-time, perché sono lo spirito, l’energia, la professionalità di quest’ultima a dare quel tono particolare al servizio che viene offerto. Le organizzazioni nonprofit con 0.25 dipendenti possiedono tanta “cultura” e spirito in grado di distinguerle (nel bene e nel male) quan-to le loro sorelle maggiori.In conclusione: la maggior parte delle cose che fanno i “grandi” le potete fare anche voi. Occorre solo entusiasmo e coraggio.

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Finché non è stato testato non si sa! Si possono fare mil-le supposizioni: “è stato il colore della brochure…, è sta-to il tono della lettera…, è stato il tenore della telefonata, ecc…”, ma nessuno lo può affermare con certezza. Ecco perché la prima campagna di qualunque organizzazione o la nuova strategia, particolarmente se implica ulteriori inve-stimenti o l’introduzione di una nuova tecnica di fundraising dentro un’organizzazione, vanno accuratamente testate. In particolare, in presenza di consigli di amministrazione restii a comprendere il valore del fundraising come investimento (anche quando esso determini la parità fra costi e ricavi) e per rispondere allo scetticismo (tutto sommato ragionevole) di chi ritiene che certe tecniche in certi posti “non funziona-no”, occorre testare, testare, e ancora testare.Il test è un punto fondamentale della professione del fun-draiser. È molto facile testare in alcuni casi (come il mailing), e molto più difficile in altri casi (come l’advertising), ma il test è la quintessenza della professione del fundraiser. At-traverso un test è possibile verificare anche la differenza che, in termini di risposte positive, genera lo spostamen-to di una virgola, ma senza aver testato in modo validante (cioè ottenendo gli stessi risultati almeno due volte) ciascu-na delle tecniche utilizzate non si può affermare di aver una base stabile e solida di donatori. Un’improvvisa maggiore redemption (il rapporto fra l’universo dei contatti e le rispo-ste positive) potrebbe essere stata determinata solo da un

9 Testare, testare, testare

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colpo di fortuna o, per esempio, da un’ improvvisa ondata emozionale dovuta ad una particolare situazione critica de-terminatasi repentinamente.

9

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Occorre ringraziare sempre e velocemente, meglio se fra le 24 e le 48 ore dopo il ricevimento del dono. Ringraziare oltre ad essere buona educazione e dunque una cortesia indispensabile, è anche un segno di rispetto e riconosci-mento al donatore per la generosità dimostrata. Chi non dice grazie probabilmente non merita neanche un’ulteriore donazione. Un biglietto di ringraziamento ha un valore inestimabile. La gente non dimentica le gentilezze (sicuramente vi ricordate benissimo quel meccanico che vi salvò la vacanza o quella commessa che vi regala sempre un sorriso). La mia espe-rienza (e la letteratura psicologica) conferma in pieno la po-tenza di questo strumento. I rinforzi positivi sono efficaci e duraturi, ma la maggior parte della gente non ne dispensa (e non ne riceve) molti.Che dire di una telefonata di ringraziamento? Bene. Farla va sempre bene, ma prendere il telefono è tutto sommato una cosa da niente. Scrivere un biglietto, invece, dimostra un impegno superiore e per di più scripta manent. Scritto a macchina o a mano? A mano, senza alcun dubbio. Un paio di righe scribacchiate in modo quasi illeggibile valgono infinitamente di più di una bella pagina uscita dalla stam-pante laser. Contadino, senatore, piazzista, ingegnere, portinaio, am-ministratore delegato, il ragazzino che ha rotto il suo salva-danaio…, tutti amano veder riconosciuti in qualche modo

10 Ringraziare, ringraziare, ringraziare

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i propri sforzi, grandi o piccoli che siano. I fundraiser di successo lo sanno, e chiunque voglia riuscire dovrebbe fare così. Apprezzamento, applauso, approvazione, rispetto non ci lasciano mai indifferenti. Un premio, una menzione, una foto sul bollettino dell’associazione sono cose importanti e mai eccessive. Ciò nondimeno è vero anche che, “a forza di dare pacche sulle spalle si finisce per consumarle”; fuor di metafora: troppi riconoscimenti perdono di efficacia. È probabile che ci sia un fondo di verità. Un ringraziamento fasullo e insincero finisce per essere controproducente. Ma il rischio oggi è l’avarizia nel ringraziare, non certo la so-vrabbondanza. Una nota finale personale: anche se nella mia vita profes-sionale ho ricevuto ben più riconoscimenti di quanti ne ab-bia meritati, non me ne sono affatto stancato. Ogni volta rappresentano un nuovo, immenso piacere. Conservo ogni attestato, ogni messaggio o biglietto (alcuni persino incor-niciati), brevi o lunghi che siano, scritti a mano o a macchi-na; e anche quelli di posta elettronica: li salvo e li stampo.

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I principi del fundraising

Valerio Melandri

Valerio MelandriValerio Melandri è consulente, for-matore ed educatore sul fundrai-sing. Pioniere dell’inserimento della disciplina “fundraising” nelle uni-versità italiane, è docente di Principi e Tecniche di Fundraising e diretto-re del Master in Fundraising presso l’Università di Bologna. È fonda-tore e presidente di Philanthropy Centro Studi, nonchè ideatore del portale italiano www.fundraising.it e del primo blog sulla raccolta fondi (www.fundraisingblog.it). È il presi-dente del Festival del Fundraising (il più grande evento di fundraising italiano) e speaker affermato in ita-liano e in inglese. Svolge attività di consulenza e formazione in Italia e all’estero, con organizzazioni di ogni tipologia e dimensione. www.valeriomelandri.it

Con la situazione economica attuale e le difficoltà che il settore nonprofit attraversa, c’è bisogno di vedere una luce: il fundraising rappresenta la mano tesa a favore del nonpro-fit, il sostegno che tutti stiamo aspettando!Questa pubblicazione vuole presentare alcune delle idee chiave che permettono a quella mano tesa di divenire il soste-gno cercato e sperato. Ho chia-mato queste idee i principi del fundraising.

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Le 10 regole fondamentali per innovare il nonprofit a partire dalle relazioni