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30 II. Il Regno e la passione dalla prospettiva di Gesù. In questa seconda parte del corso il nostro tentativo è di riflettere sul rapporto tra questa storia di Gesù, culminante nella croce, e la volontà di Dio, il progetto di Dio, il modo come Dio governa il mondo. Sono temi profondi e difficili di cui in questo corso vogliamo fare un primo assaggio. Il punto di partenza per una tale riflessione è la considerazione della storia di Gesù, e, particolarmente della sua morte. Ci interessa in primo luogo conoscere la storia di Gesù “dal di dentro”, sapere come lui pensava, cosa voleva fare perché accettò la sua morte 38 . Questo è il nostro punto di partenza e dedicheremo le prossime lezioni a esplorarlo. 1. Il punto di partenza: l’ottica di Gesù sul regno Tra storia e teologia C’è ancora una distinzione da fare. Il discorso sul senso della venuta di Gesù (della sua morte anche) può seguire due approcci differenti. In una conferenza che ha ispirato in parte queste idee 39 , il ponente diceva che, in un periodo della sua vita, egli aveva insegnato religione a gruppi di ragazzi di dodici o tredici anni. Un giorno egli aveva proposto al gruppo questa domanda: “secondo voi, perché è morto Gesù?”. Aveva ottenuto sostanzialmente due tipi di risposta. Una prima veniva a dire che Gesù era morto perché uomini cattivi lo avevano preso e ucciso (giudei, romani, ecc). Una seconda invece veniva a dire che Gesù era morto per salvarci dai nostri peccati. In sostanza egli aveva ottenuto due diverse risposte: la prima si riferiva alle cause storiche della morte di Gesù, la seconda, invece, alle cause teologiche della sua morte. Egli, poi, aveva dedicato tutta quelle lezione a vedere con i ragazzi come si potevano armonizzare quei due tipi di risposta. Infatti è importante capire, in primo luogo, che queste due tipi di risposta non possono essere disgiunte. Buona parte del lavoro in ambito esegetico negli ultimi 250 anni si è disinteressato della risposta teologica e a cercato di spiegare la morte di Gesù soltanto attendendo alle cause storiche: cosa ha fatto Gesù che non è piaciuto ai capi? Sono stati veramente i capi giudei o è stato il potere politico romano a condannare Gesù? e così via. Viceversa: buona parte della teologia si è per secoli dimenticata della risposta storica e si è soltanto occupata di illustrare (e talvolta solo di ripetere in modo cansino), le varie risposte teologiche (è morto per i nostri peccati, ha soddisfatto al Padre per noi, è stato schiacciato dalla collera divina, e così via). Come conseguenza la storia di Gesù, la concreta storia della croce, si è persa teologicamente parlando, si è dileguata eliminata dall’astrazione concettuale con cui si pretendeva di spiegare la sua morte. Ma in realtà, una storia che non arrivi a una spiegazione teologica non scoprirà nella croce di Gesù null’altro che una storia singolare, forse anche significativa, ma in ultimo termine una in più tra le tante narrazioni che contiene la memoria storica dell’umanità. Non potrà mai fondare una salvezza per l’umanità. E viceversa, un’interpretazione teologica che perda la storia e non si fondi su di essa, non sarà altro che un prodotto culturale, utile magari per illuminare la strada di una comunità per un periodo, ma 38 In alcune lingue come nell’inglese si distingue tra history e story. La prima è il racconto dei fatti del passato, la seconda è un racconto, una storia. Questa seconda parola story si può anche applicare alla prima history, come quando uno “si racconta”, racconta la propria storia. Si tratta allora di una history che diventa story perché è vissuta e incarnata da qualcuno, che comunica se stesso, la propria vita o la vita altrui, in modo personale. Noi nella parte precedente del corso abbiamo tracciato la history della passione. Adesso cerchiamo invece di raccontare la story propria di Gesù. 39 Si tratta delle Bible Lectures tenute alla Pepperdine University lo scorso anno (2016) da N. T. Wright.

II. Il Regno e la passione dalla prospettiva di Gesù.bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/dok377/Parte II.pdf · 2017. 5. 3. · 30 II. Il Regno e la passione dalla prospettiva di Gesù

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II. Il Regno e la passione dalla prospettiva di Gesù.

In questa seconda parte del corso il nostro tentativo è di riflettere sul rapporto tra questa storia di Gesù, culminante nella croce, e la volontà di Dio, il progetto di Dio, il modo come Dio governa il mondo. Sono temi profondi e difficili di cui in questo corso vogliamo fare un primo assaggio.

Il punto di partenza per una tale riflessione è la considerazione della storia di Gesù, e, particolarmente della sua morte. Ci interessa in primo luogo conoscere la storia di Gesù “dal di dentro”, sapere come lui pensava, cosa voleva fare perché accettò la sua morte38. Questo è il nostro punto di partenza e dedicheremo le prossime lezioni a esplorarlo.

1. Il punto di partenza: l’ottica di Gesù sul regno

Tra storia e teologia

C’è ancora una distinzione da fare. Il discorso sul senso della venuta di Gesù (della sua morte anche) può seguire due approcci differenti. In una conferenza che ha ispirato in parte queste idee39, il ponente diceva che, in un periodo della sua vita, egli aveva insegnato religione a gruppi di ragazzi di dodici o tredici anni. Un giorno egli aveva proposto al gruppo questa domanda: “secondo voi, perché è morto Gesù?”. Aveva ottenuto sostanzialmente due tipi di risposta. Una prima veniva a dire che Gesù era morto perché uomini cattivi lo avevano preso e ucciso (giudei, romani, ecc). Una seconda invece veniva a dire che Gesù era morto per salvarci dai nostri peccati. In sostanza egli aveva ottenuto due diverse risposte: la prima si riferiva alle cause storiche della morte di Gesù, la seconda, invece, alle cause teologiche della sua morte. Egli, poi, aveva dedicato tutta quelle lezione a vedere con i ragazzi come si potevano armonizzare quei due tipi di risposta.

Infatti è importante capire, in primo luogo, che queste due tipi di risposta non possono essere disgiunte. Buona parte del lavoro in ambito esegetico negli ultimi 250 anni si è disinteressato della risposta teologica e a cercato di spiegare la morte di Gesù soltanto attendendo alle cause storiche: cosa ha fatto Gesù che non è piaciuto ai capi? Sono stati veramente i capi giudei o è stato il potere politico romano a condannare Gesù? e così via. Viceversa: buona parte della teologia si è per secoli dimenticata della risposta storica e si è soltanto occupata di illustrare (e talvolta solo di ripetere in modo cansino), le varie risposte teologiche (è morto per i nostri peccati, ha soddisfatto al Padre per noi, è stato schiacciato dalla collera divina, e così via). Come conseguenza la storia di Gesù, la concreta storia della croce, si è persa teologicamente parlando, si è dileguata eliminata dall’astrazione concettuale con cui si pretendeva di spiegare la sua morte.

Ma in realtà, una storia che non arrivi a una spiegazione teologica non scoprirà nella croce di Gesù null’altro che una storia singolare, forse anche significativa, ma in ultimo termine una in più tra le tante narrazioni che contiene la memoria storica dell’umanità. Non potrà mai fondare una salvezza per l’umanità. E viceversa, un’interpretazione teologica che perda la storia e non si fondi su di essa, non sarà altro che un prodotto culturale, utile magari per illuminare la strada di una comunità per un periodo, ma

38 In alcune lingue come nell’inglese si distingue tra history e story. La prima è il racconto dei fatti del passato, la seconda

è un racconto, una storia. Questa seconda parola story si può anche applicare alla prima history, come quando uno “si racconta”,

racconta la propria storia. Si tratta allora di una history che diventa story perché è vissuta e incarnata da qualcuno, che comunica

se stesso, la propria vita o la vita altrui, in modo personale. Noi nella parte precedente del corso abbiamo tracciato la history

della passione. Adesso cerchiamo invece di raccontare la story propria di Gesù.

39 Si tratta delle Bible Lectures tenute alla Pepperdine University lo scorso anno (2016) da N. T. Wright.

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in fin dei conti destinata a condividere la sorte precaria della cultura stessa che la ha prodotto. Non arriverà a dare ragione del disegno di Dio, il quale è procede da una sapienza eterna.

Ciò che Dio ha voluto e ha fatto per l’umanità è fondato sulla storia stessa che egli ha condotto con gli uomini, la storia della salvezza raccontata nella sacra Scrittura e conservata nella memoria viva della Chiesa. Se vogliamo dare una risposta coerente alla domanda su perché Gesù è morto questa storia va interrogata per prima.

Gesù nel suo contesto

Per comprendere la morte di Gesù si deve prima porre l’interrogativo sulla sua missione. Perché la sua morte è il risultato di un giudizio negativo delle classi dominanti d’Israele sulla sua missione. Dunque è necessario chiedersi: cosa intendeva ottenere Gesù con la sua attività? Qual era il suo scopo? E perché egli sentiva la responsabilità di predicare l’arrivo della salvezza? Sono, certo, domande difficili che non potremmo risolvere con assoluta certezza, ma forse possiamo ottenere valide approssimazioni alla risposta.

Un modo di avvicinarci alle intenzioni di Cristo è considerare come le comprendevano i discepoli. Vediamo due episodi:

▪ Quando, dopo la risurrezione, Gesù sta per salire in cielo, i discepoli gli domandano:

“Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?” (At 1,6). Loro

pensano, com’era abituale per un giudeo dell’epoca, che la missione di Gesù consista in

primo luogo nel restaurare la sovranità d’Israele, o, più precisamente, la sovranità di Dio su

Israele e di Israele su tutte le nazioni. Gesù non nega che sia questa la sua intenzione, ma

risponde che non tocca a loro conoscere i tempi del piano del Padre.

▪ La stessa tematica è trattata nel discorso di Giacomo agli apostoli in occasione della

polemica sui gentili, nel così detto “concilio di Gerusalemme”. I gentili, pur non

appartenendo al popolo eletto, si battezzavano ed entravano nella Chiesa. Come poteva

essere? Questo modo di agire non infrangeva le promesse fatte da Dio a Israele? Non

implicava che Israele non era più il popolo di Dio, e che Dio aveva lasciato cadere le sue

promesse? A questi interrogativi Giacomo risponde spiegando che proprio questo era il

disegno di Dio, previsto dai profeti molti secoli prima. Egli cita il profeta Amos, il quale dà

un bel riassunto di ciò che Dio si era proposto di fare: “Dopo queste cose ritornerò e

riedificherò la tenda di Davide, che era caduta; ne riedificherò le rovine e la rialzerò, perché

cerchino il Signore anche gli altri uomini e tutte le genti sulle quali è stato invocato il mio

nome” (At 15,16). Secondo Giacomo, Gesù ha realizzato appunto questo: riedificare il

popolo d’Israele (“la tenda di Davide”) che era decaduto a causa delle sue trasgressioni e,

attraverso l’Israele rinnovato, ovvero gli apostoli e i discepoli, chiamare anche tutte le genti

alla sua grazia.

▪ Nel brano dei discepoli di Emmaus, loro si lamentano di quello che è accaduto a Gesù di

Nazaret, “che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo;

come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a

morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele;

con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute” (Lc 24,19-21).

Questi testi ci aiutano a comprendere come erano le aspettative dei discepoli, a cosa loro pensavano quando Gesù predicava che il “Regno di Dio è vicino” o che “il Regno di Dio è alla porta” (Lc 10,9.11). I discepoli non erano persone particolarmente istruite nella teologia, dunque condividevano le aspettative più o meno comuni del popolo, che per la verità, non erano neanche tanto definite, nel senso che i profeti avevano previsto un nuovo tempo, nell’epoca del Messia, ma non era del tutto chiaro cosa sarebbe

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successo in questo nuovo tempo. Ciò che era chiaro è che Israele sarebbe stato finalmente un vero popolo di Dio (e ciò significava, pace, libertà, docilità alla parola del Signore, benedizione, ecc.).

Cerchiamo di organizzare in modo più sistematico queste aspettative d’Israele, vedere, in particolare nel tempo di Gesù, cosa si pensava della situazione d’Israele e quale idea si aveva su come sarebbe stato il futuro.

Ciò che forma la convinzione fondamentale d’Israele40 è che il Dio d’Israele è il Dio creatore, il vero Dio, di fronte al quale i dei delle nazioni sono muti idoli. Questo Dio si è scelto per sé un piccolo popolo come è Israele, ha manifestato la sua predilezione per loro, e ha scelto Gerusalemme come sua dimora nel mondo, Sion, dove si trova il suo tempio. Si legge nel Salmo 96 (4-5.10):

Grande è il Signore e degno di ogni lode,

terribile sopra tutti gli dèi.

Tutti gli dèi dei popoli sono un nulla,

il Signore invece ha fatto i cieli (…)

Dite tra le genti: «Il Signore regna!»

Tutti devono sapere che il Dio d’Israele è il vero Dio in mezzo alle nazioni, che regna dal suo trono in Sion. È quindi un Dio che regna, perché tutto nella storia gli è sottomesso. Non sorge un impero senza che egli lo voglia, non cadde una foglia senza che egli lo conosca. Anche gli eventi drammatici, le sciagure e le sconfitte sono sotto il suo dominio, perché a nessuno accade nulla se lui non lo desidera. Certamente questa comprensione del mondo diventa problematica dinanzi alla presenza del male, di ciò che distrugge l’uomo e che dispiace a Dio stesso. Israele, comunque, cerca d’integrare anche questi aspetti nella sua comprensione del disegno di Dio. Dio non gradisce il male, ma sa come usarlo per portare avanti i suoi disegni; si serve del male come di uno strumento di punizione e di purificazione per Israele o per gli altri popoli, ma sempre in modo temporaneo, perché il male non ha l’ultima parola. Guerre, sconfitte, sciagure sono strumenti della sua giustizia, del suo disegno. Dio è fedele a se stesso e porta avanti il suo progetto: ha scelto Israele come suo popolo perché lo ama, e condurrà a buon fine la sua scelta, per quanto, lungo la storia, l’infedeltà e il peccato del popolo siano stati presenti. E non solo: poiché il Dio d’Israele è il Dio creatore, egli porterà salvezza anche alla creazione, alle nazioni, le quali però debbono riconoscere che il Dio d’Israele è l’unico vero Dio41.

Questo male presente sulla terra, comunque, non procede da Dio. La creazione è stata fatta buona, ma il male è stato introdotto dalle creature, dal serpente genesiaco e dal peccato di Adamo ed Eva, che si è poi protratto in una storia di peccato, tra gli uomini. Israele, come popolo dell’alleanza, doveva essere lo spazio dove Dio è Re, dove il male non ha ingresso, ma non lo è stato. Da questa infedeltà sono nate i vari malesseri che Israele ha dovuto affrontare come l’esilio babilonese, la dominazione romana, ecc. Di là consegue anche la necessità di una conversione del popolo per poter accogliere i tempi del Messia. Ciò che è chiaro per un palestinese del secolo I è che la situazione d’Israele non è quella che uno si aspetterebbe, non è propria di un popolo che è in alleanza con il Dio onnipotente. Non è quella giusta, ma la speranza dei giudei è che arriverà il momento in cui ci sarà quella situazione, vale a dire, in cui Dio ristorerà Israele nella sua vocazione di luce delle nazioni e di luogo della presenza del vero Dio. Ciò che si aspetta per il tempo del Messia è dunque la ricostituzione d’Israele, idealizzata nell’idea di un popolo sovrano e fedele alla Torah, un popolo in mezzo al quale abiti il suo Signore, con la gloria di Dio che torna

40 Mi ispiro soprattutto al cap 9 di N. T. Wright, The New Testament and the people of God, SPCK, London 1992, cap 9; B.

J. Pitre, The case for Jesus. The biblical and historical evidence for Christ, Image, New York 2016; R. Bauckham, Jesus. A Very Short

Introduction, New York : Oxford University Press, Oxford 2011.

41 Qui, bisogna riconoscere che la relazione tra Israele e le nazioni non sempre è di fratellanza. Per questo motivo spesso

si prospetta anche una punizione delle nazioni, come accade con l’Egitto negli eventi dell’esodo, specialmente in quanto che

essi sono avverse a Israele, opprimono il popolo eletto e si oppongono al culto che Israele dà al suo Dio.

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a manifestarsi nel Tempio, come era ai tempi di Mosè o in altri momenti. Un Israele, insomma, attraverso il quale tutti potessero riconoscere la gloria del vero Dio.

L’attuale oppressione di Israele, la impostura dei re, che non erano nemmeno della casa di Davide, le divisioni interne al popolo, il perdurare delle ingiustizie, la miseria materiale e morale di molti… tutto ciò era segno del fatto che il popolo non era stato ancora perdonato e totalmente riconciliato con Dio. Il Tempio era stato migliorato con l’apporto di Erode (il Grande), ma il luogo più interno, il Santo die Santi, era vuoto. Quel vuoto era segno di un’assenza, che lo sguardo proteso verso il futuro riempiva di speranza. Tutto ciò indicava il problema, ma non dava ancora idea di come esso sarebbe stato risolto. Alcuni in Israele (farisei, scribi) volevano risolverlo con un maggiore zelo per la Torah, altri (zeloti) per la strada più militare, altri (Qumram) ritirandosi della vita pubblica e attuando una comunità nuova, dedita alla preghiera e allo studio della Legge, ma sostanzialmente antiromana e rivoluzionaria. Specialmente i farisei consideravano la Torah come la vera sapienza di Dio, partecipazione dei doni di Dio. Attraverso la fede pratica della Torah essi ritenevano che potevano realizzare l’ideale d’Israele di essere come agenti del Dio creatore, di formare quel popolo che cammina con sincerità davanti a Dio e chiede fervorosamente l’arrivo dei giorni della restaurazione. Essi pensavano che, se Dio non aveva ancora compiuto una tale restaurazione, ciò fosse dovuto al fatto che egli non voleva dover punire i suoi figli e concedeva ancora a tutti un tempo per la penitenza.

È in questo contesto dove s’inquadra la missione del Battista. Egli esordisce proprio con l’idea che l’ira di Dio sta per arrivare, questa ira di Dio è il tempo della restaurazione, il quale è anche un tempo di giudizio, perché nessuno puoi immaginare di condividere con il Dio santo la città e la vita se non si è convertito o se vive in modo indegno. È anche questo l’orizzonte di pensiero presente in alcune degli insegnamenti di Gesù, quando egli considera la caduta della torre di Siloe, che uccise alcuni uomini, e afferma che essi non erano più peccatori degli altri, ma che quella sciagura era un segno della morte prodotta dai peccati, e perciò, Gesù può concludere che “se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo” (Lc 13,5).

Che voleva fare Gesù? Quale fu la sua missione?

Fin qui abbiamo cercato di delineare il contesto di pensiero tipico di un giudeo “zelante” della Palestina del secolo I. Egli viveva in un contesto religioso, dove i quattro grandi simboli della storia d’Israele (il Re, il Tempio, la Legge, l’attesa escatologica42), i simboli che avevano finito per dare l’identità al popolo, determinavano la mentalità e forgiavano gli ideali delle nuove generazioni. Certo non tutti avevano lo stesso grado d’impegno né le stesse possibilità di ragionarci sopra. Molti avevano poca cultura, o andavano avanti come si poteva, sbarcando il lunario giorno per giorno, ma ciononostante, i grandi ideali della nazione toccavano anche loro. E questa “fauna giudea”, composta da gente di ogni tipo, ma comunque giudei, vale a dire, gente orgogliosa del loro Dio, consapevole di essere un piccolo popolo, ma anche il primo della terra, questi erano le persone che Gesù incontrava spesso. Era l’ambiente nel quale egli stesso era stato cresciuto e al quale si rivolgeva43. Egli parlava a persone che erano state cresciute come galilei o come giudei e avevano una visione di Dio, del mondo e del senso della loro appartenenza a Israele modellata a partire da questi presupposti religiosi e culturali. Ed egli stesso era stato educato nella religione d’Israele ed era un buon conoscitore delle Scritture e della storia religiosa d’Israele. Pertanto è ugualmente naturale riferire le parole e gli atti di Cristo, la forma che prese la sua missione a partire da tali presupposti.

Come intese Gesù la sua missione? Un primo aspetto marcatamente presente nel vangelo è il fatto che egli l’intese come la missione, cioè quella definitiva per la storia d’Israele. Ciò implica anche una

42 Vedi Wright, Simply Christian, 82.

43 Cf. Mt 14,21: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele»

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comprensione di se stesso come colui che deve realizzare le promesse di Dio. Questo aspetto può essere illustrato a partire del titolo “Figlio dell’uomo” che Gesù usava per riferirsi a se stesso44. Concentrarsi su questo titolo è una buona scelta perché come è noto esso appare sempre e solo sulla bocca di Gesù (più di ottanta volte e in tutti i vangeli), per cui è chiaro che era un titolo che egli usava volentieri per accennare a se stesso. D’altra parte è chiaro che, sulle labbra di Gesù, l’espressione implica la figura del Figlio dell’uomo del libro di Daniele, Gesù infatti non usa il titolo senza l’articolo per indicare semplicemente uomo (come nei Salmi o in Ezechiele), ma con l’espressione “il Figlio dell’uomo” indica un personaggio preciso, quello di Daniele. Cosa afferma Daniele su questo personaggio: Nella visione delle quattro bestie (Dn 7, 2-7) si legge:

“Io, Daniele, guardavo nella mia visione notturna, ed ecco, i quattro venti del cielo si abbattevano

impetuosamente sul Mare Grande e quattro grandi bestie, differenti l’una dall’altra, salivano dal mare. La prima era

simile a un leone e aveva ali di aquila. Mentre io stavo guardando, le furono strappate le ali e fu sollevata da terra e fatta

stare su due piedi come un uomo e le fu dato un cuore d’uomo. Poi ecco una seconda bestia, simile a un orso, la quale

stava alzata da un lato e aveva tre costole in bocca, fra i denti, e le fu detto: «Su, divora molta carne». Dopo di questa,

mentre stavo guardando, eccone un’altra simile a un leopardo, la quale aveva quattro ali d’uccello sul dorso; quella

bestia aveva quattro teste e le fu dato il potere. Dopo di questa, stavo ancora guardando nelle visioni notturne, ed ecco

una quarta bestia, spaventosa, terribile, d’una forza straordinaria, con grandi denti di ferro; divorava, stritolava e il

rimanente se lo metteva sotto i piedi e lo calpestava: era diversa da tutte le altre bestie precedenti e aveva dieci corna.

Queste bestie rappresentano quattro imperi pagani e ogni impero è descritto dal suo re45. La successione degli imperi è: babilonese, medo-persa, greco e romano. Poi però arriva il momento del figlio dell’uomo il quale “viene con le nubi del cielo” e a lui è dato “potere, gloria e regno” in modo tale che “il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto” (Dn 7,14). Qui si tratta ovviamente del

Messia re che viene dopo quei regni pagani e che avrà un governo universale “tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano” (Dn 7,14)46.

Tutto porta a pensare che Gesù abbia riferito tutto ciò alla sua persona e alla sua missione. Egli considerava se stesso con la categoria del definitivo. Perciò annunciava il Regno come una realtà ormai

44 Prende le idee che seguono da B. J. Pitre, The case for Jesus. The Biblical and Historical Evidence for Christ, Image, New York

2016, cap VIII.

45 J. J. Collins, et al., Daniel. A Commentary on the Book of Daniel, Fortress Press, Philadelphia (PA) 1993, 312: “The beasts

are not simply collective symbols but can be also understood to represent the rulers.” Per esempio, la prima bestia perde la

ragione ma poi gli è dato un cuore di uomo, proprio come a Nabucodonosor di Babilonia, secondo quanto racconta Dn 4 (cf.

Dn 4,31).

46 Una immagine simile di Daniele è quella della statua: “Tu stavi osservando, o re, ed ecco una statua, una statua enorme,

di straordinario splendore, si ergeva davanti a te con terribile aspetto. Aveva la testa d’oro puro, il petto e le braccia d’argento, il ventre

e le cosce di bronzo, le gambe di ferro e i piedi in parte di ferro e in parte d’argilla. Mentre stavi guardando, una pietra si staccò dal monte,

ma senza intervento di mano d’uomo, e andò a battere contro i piedi della statua, che erano di ferro e d’argilla, e li frantumò.

Allora si frantumarono anche il ferro, l’argilla, il bronzo, l’argento e l’oro e divennero come la pula sulle aie d’estate; il vento

li portò via senza lasciare traccia, mentre la pietra, che aveva colpito la statua, divenne una grande montagna che riempì tutta

la terra” (Dn 2,31-35). Anche qui l’oro, l’argento, il bronzo, il ferro e il ferro mescolato all’argilla rappresentano i quattro

imperi. L’impero romano all’inizio è forte come il ferro ma poi diverrà più debole. Ma la piccola pietra che aveva colpito la

statua (Israele all’epoca del Messia: Gesù) divenne una grande montagna che riempì tutta la terra.

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presente e definitiva. Il regno è “alle porte” (cf. Mt 12,28), è “in mezzo a voi” (Lc 17,21). Attuava il Regno con le opere che realizzava (esorcismi, miracoli, guarigioni) e con le parabole che raccontava. Gesù pensa che il regno dei cieli arriva con le sue opere e con la sua persona. Egli porta con sé la pienezza dei tempi, il decisivo kairós. L’espressione “la venuta del Regno” (Mc 9,1; Mt 6,10), usata da Gesù, ne sottolinea la portata, la definitività (esso è il Regno), e, allo stesso tempo, evidenzia che esso è un dono di Dio e ha origine nell’iniziativa divina. Tuttavia questa iniziativa è propositiva, vale a dire, si rivolge all’uomo e lo incita ad aderire a ciò che Gesù propone. Si appella al cuore dell’uomo, e di conseguenza parte del messaggio consiste nello spronare l’uomo ad accogliere la parola e a perseverare in essa. Proprio perciò il regno rimane aperto al futuro, alla decisione umana che può essere traviata dall’azione di Satana, o dalle proprie concupiscenze47. La parabola del seminatore è forse paradigmatica del Regno come “proposta” divina.

Ma quale profilo dona Gesù a questo regno che egli porta? Qui è la originalità di Gesù, perché egli ridefinisce e ricontestualizza il tema dell’attesa d’Israele. In primo luogo, Gesù sottolinea la valenza religiosa e non-politica del regno, vale a dire, tutta la sua predicazione è centrata in Dio, in un Dio che è fondamentalmente Padre, e questo pensiero delinea anche la posizione dell’uomo, che è allora visto come creatura di Dio e, soprattutto, come figlio. Gesù pensa Israele certamente come il popolo di Dio, ma il cuore della sua concezione è che questo popolo è filiale, come egli stesso è il Figlio: è il popolo dei figli di Dio. La vita va pensata allora da questa prospettiva, e perciò Gesù dice quel che dice e insegna quel che insegna, perché vuole, in definitiva, mostrare come si vive da figli davanti a un Padre che è allo stesso tempo santo, amante e misericordioso, e che vuole che i figli siano tali.

Questa “prassi del Regno” proposta da Gesù può essere inquadrata a partire del “Padre nostro”. Questa preghiera dona alcune chiavi interpretative di come intende Gesù il regno dei cieli. La prima è il desiderio che il nome di Dio sia santificato e che, così come la sua volontà viene compiuta in cielo, allo stesso modo essa si realizzi sulla terra: una terra docile alle richieste di Dio! Ciò, tuttavia, non può essere frutto del mero sforzo umano, ma soltanto della grazia. Gesù, come si è detto, parla della “venuta del regno”: il regno viene da Dio, il quale dona all’uomo la grazia della fede e della conversione. Allo stesso modo, è Dio che dà il pane quotidiano, che rimette i debiti, che libera dalla tentazione e dal diavolo. Sono tutti aspetti di una stessa idea: la giustizia e la pace di Dio nel cuore dell’uomo e del popolo. Con ciò si chiarisce anche che Gesù non pensa al regno in chiave politica. Egli non era uno zelota. Agli occhi di Gesù, la venuta del regno rispondeva in primo luogo all’azione trascendente del Padre, non alla lotta politico-militare.

Ma allora: perché è necessario tutto ciò? Insomma, perché Israele non è docile alle richieste di Dio? Perché la terra non è un luogo di unione con il cielo, ma gli uomini sono spesso lontani da Dio? La risposta è chiara nel vangelo, c’è l’azione del Maligno, che viene spesso assecondata liberamente dall’uomo. Il tema della lotta contro il diavolo si affaccia nelle ultime richieste del Padre nostro, e mostra il pensiero di Gesù sul problema. Egli vede che il vero nemico non è Roma, e non sono neanche i “peccatori”, ma il vero nemico è Satana, il menzognero, colui che semina la zizzania nel campo di grano d’Israele, colui che cerca sistematicamente di distruggere le opere di Dio. E dalla parte di Satana sono tutti coloro che in modo consapevole o meno collaborano con lui per traviare il popolo. Dall’inizio della vita di Gesù si era scatenata l’azione del diavolo; il Tentatore, poi, gli si era anche presentato nel deserto, all’inizio della missione, avendo la pretesa di essere il principe di questo mondo, di avere in mano i regni e di dominarli. Gesù non aveva avuto nessun cedimento nelle tentazioni del deserto. Egli non solo guariva i malati, ma scacciava anche i demoni, e, inoltre, inviando i discepoli in missione, scardinava il potere del diavolo: Satana cadeva dal cielo come una folgore! (cf. Lc 17,18)48.

47 In questo senso sono frequenti sono le esortazioni più o meno esplicite ad essere vigili, ad essere pronti ad accogliere

il Regno, ecc. Cf. Lc 12,3540; Mt 25,1-13

48 “Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome». Egli disse loro: «Vedevo Satana cadere dal cielo come

una folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla

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Vediamo dunque che, Gesù si sentiva inviato dal Padre per fare d’Israele il vero popolo di Dio, e che ciò implicava, per forza, combattere la battaglia contro il nemico d’Israele e di Dio, contro le forze demoniache e umane che vi si opponevano al regno di Dio. Queste forze comprendevano non solo il diavolo49, ma –e questo Gesù lo seppe sempre più profondamente–, anche le strutture d’Israele, penetrate da Satana fino a poter fare di esse la sua casa, e il suo regno. Le istituzioni nazionali, specialmente il Tempio, e le aspirazioni nazionali, di indipendenza, di gloria, non erano senza peccato; non erano il frutto di un amore sincero verso Dio, ma nascevano spesso del desiderio vendetta o di gloria personale. “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri …”: ecco il pensiero di alcune tra le anime più zelanti della Legge. Le aspre polemiche di Gesù con i farisei e con gli scribi sono dovute al fatto che essi hanno smarrito il vero spirito della Legge, e le loro opere non corrispondono ai veri desideri di Dio. «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare (…) Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente…” (Mt 23,2-4)50.

In tutto ciò Gesù esprime la sua concezione del mondo e il senso della sua missione. È un mondo sotto il potere del diavolo e perciò da cambiare, da riportare al Padre. È per questo che il tema della conversione ha nel vangelo notevole importanza: è necessario per costruire il Regno. “«Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo»” (Mc 1,14), così andava predicando Gesù; “Guai a te, Corazìn! Guai a te, Betsàida!” (Mt 11,20), ammonisce Gesù quando osserva che le città non si convertono. Egli arriva fino alla minaccia: “se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo” (Lc 13,4). Dio non impone il suo regno a Israele e Satana se ne approfitta, e se ne è, per certi versi, impadronito. È vero che alla fine Dio giudicherà e che ognuno avrà ciò che si sia meritato, ma è arrivato il momento di cambiare, il Regno viene, anzi è già presente, dice Gesù, e perciò è il momento buono, il tempo della grazia e della misericordia. Questo però non rimaneva solo a livello di messaggio, ma si avverava in primo luogo in Gesù e nella comunità dei discepoli (Enacting the Kingdom).

In sostanza Gesù non solo predicava sul Regno, ma egli stesso attuava il Regno con le sue opere, con la creazione di una nuova comunità, e con la prassi di vita che proponeva ai discepoli.

Il “how to” della missione

Tutto questo, però, pone alcune domande: come intese Gesù portare avanti la sua missione? E come agire se il popolo rimaneva sordo alle sue richieste? Come sarebbe andata a finire? Approfondiremo questo di più nel seguito del nostro corso, adesso basta con qualche parola.

potrà danneggiarvi. Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi

sono scritti nei cieli”. (Lc 10,17-20). In questo testo lucano, Gesù parla del nemico e della sua potenza, che sta calando per

l’opera di Gesù.

49 E S. Giovanni può riassumere la missione di Gesù nella sua prima lettera così: “Gesù, il figlio di Dio, è venuto proprio

per distruggere le opere del diavolo” (1Gv 3,8). L’evangelista Marco conferma questo aspetto nel brano dell’indemoniato (poi

guarito) che alla vista di Gesù cominciò a gridare: “«Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei:

il santo di Dio!»” (Mc. 1,24).

50 In realtà la proposta di Gesù non era lontana da quella dei bravi farisei. Ciò che separava le due era, da una parte, che

Gesù non permetteva una discriminazione delle persone in puri e impuri, giusti e peccatori, ecc. Egli si rivolgeva a tutti, non

aveva di problemi nel fare i pasti o venire a contatto con la gente “sbagliata” (lebbrosi, pubblicani, prostitute, posseduti dal

diavolo), e ciò in una società dove i pranzi avevano gande importanza sociale (cf. R. Bauckham, Jesus. A Very Short Introduction,

New York : Oxford Univ Press, Oxford 2011, p. 44-49) .D’altra parte, Gesù relativizzava le prescrizioni legali e andava invece

alle disposizioni di fondo sulle tematiche più importanti della Torah, mentre tra i farisei spesso si tendeva a far consistere la

giustizie nelle pratiche formali, in modo che alla fine le pratiche dei precetti tendevano a diventare la misura della giustizia a

scapito dell’amore a Dio e al prossimo. Gesù era invece lontano dalle proposte rivoluzionarie e politiche.

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Quando Gesù sale risolutamente verso Gerusalemme, ignorando la paura dei discepoli, egli prevede già cosa gli accadrà51. Egli può esserne certo che non avrà successo in ciò che sta per fare. Conosce ormai troppo bene il cuore dell’uomo per comprendere che non gli daranno retta. Egli si accinge a entrare nella città santa come Messia, come Re che viene al suo popolo, come Signore che viene a dimorare di nuovo a Sion. Realizza così ciò che era stato profetato, che il Signore sarebbe tornato in Sion52. Gesù sa che là, in Gerusalemme, dovrà librare l’ultima battaglia contro il potere demoniaco che tiene incatenato, prigioniero, Israele. Ma egli è venuto per instaurare il Regno del Padre, per servire e se è necessario –ed egli ormai giudica che sarà necessario– dare anche la vita come riscatto del popolo (cf. Mc 10,45). Ed è così che succederà. Prima egli dona il suo corpo e instaura una alleanza nuova, il segno di ciò che sta per accadere, ma anche la sua spiegazione di quanto avverrà, poi attraversa la dura ora del Getsemani, in cui chiede al Padre se è ancora tempo, che essi si convertano, che tutto ciò che egli ha intravisto non sia necessario, poi però si consegna alla volontà del Padre, mentre arriva il traditore…

Del resto della storia già abbiamo parlato.

2. La convenienza della passione di Gesù in ambito storico.

Il cristianesimo primitivo vide subito che la morte di Gesù non era stata una sconfitta di Gesù, un errore di calcolo del Signore (che pensò erroneamente di potere convincere il popolo del fatto che egli fosse il Messia), né un incidente di percorso accaduto a un Gesù che non si aspettava assolutamente nulla del genere. Essi compressero che la morte di Gesù non si era realizzata senza un particolare beneplacito del Padre, il quale attraverso quella morte aveva realizzato il suo disegno. Furono in grado di capire ciò, sia perché Gesù si era egli stesso consegnato alla morte, potendo facilmente evitare il rischio che comportava la sua salita a Gerusalemme, sia perché la risurrezione e le conseguenti apparizioni del Risorto misero in chiaro quel aspetto. Essi dunque sapevano che proprio attraverso la morte, Gesù era entrato nella sua gloria e che così si erano inaugurati i tempi nuovi, caratterizzati tra l’altro dal dono dello Spirito santo. Che tutto ciò aveva inaugurato un tempo nuovo, definitivo, nella storia d’Israele e nella storia della salvezza, era qualcosa di certo per la prima comunità cristiana.

Ma, certamente, tutto ciò lasciava anche un largo spazio per la meditazione e per la considerazione teologica. Perché Dio aveva agito così? Perché aveva abbandonato il suo Figlio, il Messia promesso, in balia dei suoi nemici? Come poteva proprio un tale crimine aver portato con sé non la distruzione del giudizio bensì la grazia e la misericordia? Erano domande difficili, da meditare con attenzione. Ci fu comunque la certezza dell’azione di Dio e poiché Dio è Sapiente, la certezza della convenienza: attraverso tutto ciò Dio aveva realizzato il suo disegno. Poi, a poco a poco, si sviluppò la riflessione teologica che si esprimete nelle varie linee di pensiero elaborate dagli scritti neotestamentari, ed specialmente quelle che si trovano nella letteratura di Paolo e di Giovanni. Questi scritti illuminano il mistero da diverse angolature ma non offrono una risposta sistematica alla questione della convenienza. Lasciano così spazio alla meditazione teologica, la quale ha prodotto diverse risposte lungo i due millenni che ormai ci separano dal Gesù terreno53. Lo studio di tutto ciò può essere contraddistinto con il titolo: “convenienza della

51 “Mentre erano sulla strada per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano sgomenti; coloro

che lo seguivano erano impauriti” (Mc 10,32).

52 P. es. in Zac 8,2-3: “La parola del Signore degli eserciti fu rivolta in questi termini: «Così dice il Signore degli eserciti:

Sono molto geloso di Sion, un grande ardore m’infiamma per lei. Così dice il Signore: Tornerò a Sion e dimorerò a Gerusalemme.

Gerusalemme sarà chiamata “Città fedele” e il monte del Signore degli eserciti “Monte santo”».

53 La riflessione teologica ha svolto un processo di approfondimento naturale, nel corso del quale ha, per così dire,

“formalizzato”, certe risposte. Ciò, da una parte, è giusto perché bisogna dare ragione de la propria fede, ma comporta anche

dei rischi, tra cui il più grande è quello dell’astrazione, vale a dire, pensare che poiché si conoscono le risposte si può prescindere

del resto: da come si sono originate le questioni e da come e perché si sono formate le risposte. Ciò è problematico perché,

scisse dalle loro sorgenti, le risposte prendono una vita propria e non sono più in grado di comunicare la loro ragione di essere.

Hanno bisogno di un nuovo ancoramento alla sorgente, e ciò comporta inevitabilmente un nuovo rifacimento delle risposte

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passione di Gesù in ambito teologico”. Noi però adesso vorremmo continuare a seguire il flusso dell’evento originario, come abbiamo fin qui fatto. Perché la “convenienza teologica”, se non vuole creare mere astrazioni, deve nascere dal considerare come è stato l’evento originario, storico. Perciò ci occuperemo adesso della questione della convenienza della passione di Gesù dal punto di vista storico.

Gesù davanti alla sua passione

Facciamo in primo luogo qualche considerazione previa su cosa intendiamo per convenienza e come applicarla ai vangeli.

▪ Parliamo di convenienza di una realtà rispetto a una altra quando la prima giova alla seconda

in qualche modo. Nel nostro caso la “convenienza” di cui parliamo riguarda due aspetti:

l’evento storico (in questo corso consideriamo anzitutto l’evento della croce) e il disegno di Dio.

Si esprime una affinità: l’evento giova al disegno e s’integra bene in esso (fits into it), non lo

stravolge e non lo violenta, altrimenti non converrebbe ad esso. Si inserisce nella logica del

disegno, che è il disegno di Dio, quindi frutto della sua sapienza.

▪ Esistono però gradi o livelli diversi di comprensione della convenienza di un certo evento

nel disegno di Dio. Il grado ultimo e assoluto e proprio di Dio e, nel livello umano, dei santi

che contemplano il volto di Dio. Solo loro conoscono appieno il disegno. C’è anche una

comprensione dinamica di questa convenienza che è frutto della lunga riflessione che la Chiesa

porta avanti nel tempo. Tenuto presente tutto ciò, quando ci avviciniamo

metodologicamente ai vangeli e ci poniamo la questione di cosa gli evangelisti abbiano

voluto tramandare, non possiamo presupporre che per loro sia stato evidente ciò che a noi

può sembrare evidente (per esempio il fatto che “per sanctam crucem tuam redemisti mundum”).

Se vogliamo evitare anacronismi e capire come siano andate le cose è necessario addentrarci

nel modo di pensare e di guardare la realtà di coloro che furono partecipi nell’evento, e

cercare, per quanto possibile di inserirci nel senso che loro attribuirono agli avvenimenti.

Tornado al nostro argomento ci domandiamo in quale senso Gesù ha potuto considerare che la sua passione fosse qualcosa di conveniente. Questo, infatti, è il dato che tramandano i vangeli, vale a dire, che Gesù si è liberamente consegnato alla morte, perché ha compresso che tale fosse la volontà del Padre. E perché mai? Cosa ha condotto Gesù a fare una tale valutazione?

Non è una domanda alla quale si possa rispondere con sicurezza. Personalmente tendo a pensare che ciò che ha spinto Gesù a vedere la sua donazione come conveniente per la salvezza d’Israele e del mondo nasce dalla consapevolezza di essere lui l’inviato unico e definitivo del Padre per instaurare il regno promesso54. Come abbiamo già indicato, Gesù aveva coscienza di non essere uno in più nella serie dei profeti, ma di essere il Messia Figlio di Dio, il Figlio dell’uomo, con la missione divina unica e singolare di instaurare il regno. Gesù non sembra aver pensato che se egli non riusciva a instaurare il Regno di Dio in Israele, Dio avrebbe provveduto altrimenti o avrebbe trovato altre vie. Nella Palestina del secolo I la gente aveva l’idea che la venuta del Messia fosse legata alla restaurazione piena della sovranità d’Israele e alla presenza della gloria del Signore nel Tempio. Gesù condivideva questa idea e la rendeva concreta nel senso del

come tali.

54 Qui conviene evitare un cerchio chiuso: Gesù non è stato inviato dal Padre “per morire” ma per instaurare il Regno.

Abbiamo già visto cosa tale instaurazione veniva a significare per un comune giudeo (la restaurazione della piena sovranità

d’Israele) e cosa veniva a significare per Gesù (lo stesso, ma con senso religioso, come una conversione alla volontà paterna

di Dio). Il “morire” può essere una conseguenza di questa missione, ad un certo punto può anche diventare un “mezzo

necessario” per il compimento della missione, ma non è la missione in sé. Il “morire” di Gesù è sempre posizionato nella

contingenza di una storia aperta a diversi esiti, benché alla fine esso sia divenuto l’esito di fatto, quel che si è avverato. E il fatto

che quella morte sia stata accettata da Gesù non toglie all’evento contingenza alcuna.

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Padrenostro, cioè pensava a una trasformazione del popolo nel senso della docilità a Dio, il che comportava la sconfitta del diavolo e delle sue opere. Questa era la sua missione e perciò egli poteva identificare la docilità d’Israele a Dio con la piena sottomissione del popolo a sé stesso e alla sua dottrina. Se questo obiettivo fosse stato raggiunto, vale a dire, se i capi e il popolo si fossero convertiti alla parola di Gesù si sarebbe avverata direttamente tale restaurazione e la morte del Messia sarebbe stata innecessaria. Allora la causa storica della more di Gesù sarebbe venuta a mancare.

Romano Guardini ha difeso spesso questa posizione lungo i suoi scritti. Nel lavoro più stesso dedicato a Gesù, afferma:

“Quale ora è questa! Gesù sa che egli è il Messia, e porta la salvezza. Egli sa che in lui solo v’è la possibilità di

tutti gli adempimenti, non solo di quelli religiosi ma anche di quelli storici; che tutte le promesse del tempo passato si

possano realizzare per opera sua – ma il popolo si chiude. Egli non può forzare questa volontà, se il popolo non vuole,

poiché la decisione di fronte alla salvezza deve venire dalla libertà”55.

E in un’altra opera:

“Si [il popolo] hubiera recibido el mensaje, entonces habría ocurrido algo inefable, algo que nos hace presentir

la profecía de Isaías: el establecimiento del reino de Dios en gloria patente, la transformación de la existencia mediante

el Espíritu Santo, por parte de Cristo”56 (El Padrenuestro, 84).

In altre parole, ciò che doveva succedere, secondo Guardini non era la morte di Gesù ma l’arrivo del Regno. Gesù venne realmente dato da Dio come proposta da accogliere, non però una proposta in più di Dio al popolo, ma la proposta definitiva. C’è in Gesù che predica il regno come un ecco della speranza del Signore: “Avranno rispetto per il mio figlio” (Mt 21,37). E se fosse stato così, allora, la volontà di Dio si sarebbe realizzata sulla terra, prima su Israele e dopo sul mondo. In questo senso la missione di Gesù, la sua radicale predicazione, era “aperta”. Portava un Regno da accogliere. Non puntava direttamente sulla sua morte come mezzo di istaurazione del Regno, ma sul regno che avrebbe realizzato le promesse di Dio. Il desiderio di Cristo era quello di portare finalmente il regno di Dio, con tutte le sue conseguenze. Egli si sapeva inviato per questo.

Ma la reazione d’Israele alla sua predicazione e alla sua proposta non fu di docilità bensì d’incredulità. Nel suo insieme, il popolo non accolse la parola di Gesù con il cuore di un bambino, ma con il cuore duro di chi rifiuta la semplicità di ciò che Dio propone e si chiude nella propria visione della realtà. Perciò non riuscì a scoprire da quale parte stava la verità. Gli indici di questo sono numerosi:

▪ Giuda, l’apostolo traditore, mantenne la sua idea di regalità, e poi, quando vide che il

ministero di Gesù si avviava verso una conclusione disastrosa abbandonò la compagnia, e

cercò di ottenere in extremis qualcosa di utile.

▪ I farisei, la gente che si poteva considerare “i praticanti” dell’epoca, la gente più religiosa,

non riuscì a tollerare il fatto che Gesù non seguisse il loro modo di fare. Gesù, infatti, non

dava tanta importanza ai precetti “formali” della Legge, si permetteva di fare guarigioni in

sabato e, anzitutto, era assieme alla “gente sbagliata”. Ciò che successe nella casa di Simone

il fariseo è altamente significativo. E poi, come mai –poteva ragionare un fariseo– tutta

quella gente che a mala pena conosceva i precetti della Legge, dovevano scavalcare loro

nella scala del favore di Dio, precedere loro che vivevano scrupolosamente ogni precetto?

Che razza di giustizia era quella? Chi aveva più diritto davanti a Dio?57

55 R. Guardini, Il Signore. Riflessioni sulla persona e sulla vita di Gesù Cristo, Vita e pensiero; Morcelliana, Milano [Brescia]

2005, p. 438.

56 R. Guardini, La preghiera del Signore. Il Padre nostro, Morcelliana, Brescia 2009, p ?

57 Alcuni ritengono che la parabola del figlio prodigo si riferisse in particolare ai farisei (figlio maggiore) e ai pubblicani

e ceti simili (figlio piccolo).

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▪ Poi, i capi del Tempio. Loro erano le alte cariche della nazione, famiglie come abbiamo

visto ricche. Che doveva dire a loro un oscuro popolano della Galilea? Se non che,

purtroppo, c’era gente che lo seguiva e che credeva a ciò che egli diceva. E diceva cose

incresciose: parlava di una vigna sterile, che era da rimuovere perché non produceva frutto,

e del fatto che quelli che avevano la cura della vigna erano degli omicidi. Confondeva il

popolo con i suoi paragoni tra il sacerdote e il samaritano, criticava l’egoismo dei ricchi,

sovvertiva le classi sociali in senso ugualitario. E soprattutto, e più radicalmente, pretendeva

che tutti in Israele lo seguissero, e infatti molti lo ammiravano e gli andavano dietro. Era

un movimento pericoloso che andava fermato.

▪ Poi, i discepoli. Anche loro non terminavano di comprendere al loro Maestro. Come poteva

presentarsi in Gerusalemme? Non si rendeva conto dell’aria brutta che tirava? O forse egli

aveva veramente un asso sotto la manica ed era finalmente disposto a tirarlo fuori? I

discepoli avevano visto i miracoli di Gesù, la sua gloria, e forse per questo erano un po’ più

ciechi e meno preparati a ciò che stava per compiersi in Gerusalemme.

Pensare a tutto ciò è necessario per comprendere le decisioni che prese Gesù. Egli non aveva semplicemente una missione profetica. Non era uno in più della serie dei giusti e dei profeti inviati da Dio. Dopo secoli di preparazione d’Israele, egli era stato inviato per instaurare il Regno, per proporlo e mostrare ciò che esso comportava, per attuarlo egli stesso. Ma non poteva attuarlo in qualsiasi modo e per qualsiasi mezzo (con la violenza, con la costrizione), ma solo nel modo della proposta credibile, come aveva fatto Dio nella storia d’Israele, vale a dire, attraverso la forza della sua parola e dei segni, dei gesti d’amore e dei rimproveri, attraverso la testimonianza della sua vita vissuta radicalmente al cospetto del suo Dio Abbà. Dinanzi al rifiuto del popolo, cosa poteva fare Gesù? Interrompere la sua missione? Sarebbe come lasciarla incompiuta, ma a cosa era venuto allora? Era stato inviato per compiere le promesse, per instaurare il Regno ed era ciò che doveva fare. La sua missione andava spinta fino in fondo, compierla era ciò che il Padre voleva. Se non poteva compierla con la predicazione, comunque non si sarebbe ritirato, benché ciò comportassi mantenere la proposta per mezzo del dolore e del sacrificio.

Le fonti della decisione di Gesù di consegnarsi alla croce.

Certo, a Gesù non sfuggiva che, stante il rifiuto del popolo, la sua missione si orientava verso la sofferenza. Quando egli considerava la realtà e la storia d’Israele non gli sfuggiva il fatto che si era trattata, per lo più, di una storia di fallimenti. Di fallimenti d’Israele per vivere la sua vocazione di popolo eletto, scelto per la gloria di Dio e per la salvezza delle genti, e di “fallimenti” dei profeti e dei servi di Dio che avevano cercato di richiamare il popolo a una maggiore fiducia in Yhwh, sia pur in mezzo alle grande incertezze dei tempi. I profeti, da Elia a Giona, da Osea a Geremia avevano dovuto pagare un alto prezzo per la loro profezia. Far arrivare ammonimenti divini a persone e a società che non le desideravano era esporsi a rischi notevoli. E, in verità, i veri profeti appaiono spesso nella Scrittura come fuori tempo, scomodi e fastidiosi, a motivo della conversione che richiedono dal popolo. Gridano la difesa dei poveri, degli oppressi, delle vedove, degli orfani, lottano contro l’idolatria; e lo fanno in mezzo a una società dove i poveri sono calpestati e sfruttati, e dove gli idoli si moltiplicano. Perciò, come risposta alla loro denuncia, vanno incontro a persecuzioni, a lapidazioni, e non di rado sono messi in carcere e uccisi. E famoso il lamento di Geremia:

“Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto violenza e hai prevalso. Sono diventato

oggetto di derisione ogni giorno; ognuno si beffa di me. Quando parlo, devo gridare, devo urlare: «Violenza!

Oppressione!». Così la parola del Signore è diventata per me causa di vergogna e di scherno tutto il giorno. (…) Sentivo

la calunnia di molti: «Terrore all’intorno! Denunciatelo! Sì, lo denunceremo». Tutti i miei amici aspettavano la mia

caduta: «Forse si lascerà trarre in inganno, così noi prevarremo su di lui, ci prenderemo la nostra vendetta»” (Ger 20,7-

8.10).

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Egli è anche testimone della desolazione prodotta dal peccato:

“Se esco in aperta campagna, ecco le vittime della spada; se entro nella città, ecco chi muore di fame. Anche il

profeta e il sacerdote si aggirano per la regione senza comprendere». Hai forse rigettato completamente Giuda, oppure

ti sei disgustato di Sion? Perché ci hai colpiti, senza più rimedio per noi? Aspettavamo la pace, ma non c’è alcun bene,

il tempo della guarigione, ed ecco il terrore!” (Ger 14,18-19).

I profeti sono mediatori della parola di Dio e sono spesso il primo bersaglio del rifiuto opposto a Dio. Essi condividono il pathos di Dio per la salvezza del popolo, ma condividono anche la miseria del popolo e la loro sofferenza. Soffrono doppiamente, perché devono scomodare la gente e perché sono in mezzo al dramma di essi, perché sono colpiti dal popolo al quale ammoniscono e, inoltre, condividono con il popolo il destino sofferente predetto dagli ammonimenti.

Niente di questo sfuggiva a Gesù. Davanti a lui era chiaro il destino sofferente dei profeti, tanto più nel momento in cui era arrivata l’ora decisiva della storia d’Israele e del mondo. Era stato anche il destino del Battista, suo parente. Dio non lo aveva protetto, non lo aveva risparmiato né dal carcere, né dalla spada. Il Battista però era rimasto fedele alla sua missione. Adesso invece toccava a lui stesso, era la sua ora58.

Dove prende Gesù le certezze sul destino sofferente che lo attende? Ovviamente c’è in primo luogo la sua luce personale, e l’azione dello Spirito santo. Egli è l’Unto. È naturale che Gesù abbia ricevuto luci straordinarie su quanto stava per accadergli. Si può tuttavia pensare che, spesso, queste luci fossero legate alla realtà con la quale Gesù si confrontava, alle circostanze con cui egli era a contatto (di cui abbiamo appena parlato), e a tutto ciò che egli poteva conoscere su quanto era stato scritto nelle Scritture d’Israele. Alcuni filoni della Scrittura, particolarmente vivi tra i giudei del primo secolo, possono essere stati considerati da Gesù. Essi hanno relazione diretta o indiretta con la sofferenza del Messia.

– In primo luogo la speranza d’Israele nel tempo di Gesù prende, tra le classi più colte

d’Israele, una colorazione escatologica forte. Se si percorrono i testi dei profeti si vedono

apparire le idee di un nuovo Mosè, una nuova alleanza (p. es: Geremia), un nuovo Tempio

(si pensi al libro di Ezechiele) e una nuova terra59. Riguardo, per esempio, questo ultimo

aspetto Isaia afferma: “Ecco, infatti, io creo nuovi cieli e nuova terra; non si ricorderà più il

passato, non verrà più in mente, poiché si godrà e si gioirà sempre di quello che sto per

creare, poiché creo Gerusalemme per la gioia, e il suo popolo per il gaudio” (Is 65,17-18)60.

Esistono altri testi di questo tipo sia in Isaia, sia nella letteratura giudea del tempo61. Gesù,

poi, era abbastanza vicino a queste prospettive. Quando Giovanni Battista invia messaggeri

per chiedere a Gesù se egli è veramente il Messia, Gesù risponde con un testo d’Isaia:

“«Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi

camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è

annunciato il Vangelo” (Mt 11,4-5). Questo testo si ispira a Is 35,4-5: “Allora si apriranno gli

occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà

di gioia la lingua del muto”, testo che letto intero descrive i nuovi cieli e la nuova terra

propria dell’universo messianico. Tutto ciò da una chiave per dire che Gesù ha potuto

pensare che la sua missione comportava una ricreazione, un passaggio a un mondo

58 Questo è quanto Gesù viene a dire nella parabola dei vignaioli omicidi.

59 B. Pitre, Jesus and the Jewish Roots of the Eucharist. Unlocking the Secrets of the Last Supper, Doubleday, New York 2011, pp.

23-42.

60 Il testo continua: “Io esulterò di Gerusalemme, godrò del mio popolo. Non si udranno più in essa voci di pianto, grida

di angoscia. Non ci sarà più un bimbo che viva solo pochi giorni, né un vecchio che dei suoi giorni non giunga alla pienezza,

…” (Is 65,19-20).

61 Cf. B. Pitre, Jesus and the Jewish Roots, pp. 39-42.

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rinnovato, un nuovo esodo (come infatti accade con la sua morte e risurrezione)62.

– Ci sono anche gli spunti offerti dal libro di Daniele. Il libro, scritto dopo l’esilio babilonese,

parla spesso della restaurazione d’Israele.

Abbiamo già considerato il capitolo 7 del libro di Daniele: la serie di bestie, che

rappresentano gli imperi, e insieme la figura del Figlio dell’uomo in cui si compie finalmente

la promessa di Dio fatta a Davide re 63. Si è dunque nel momento definitivo, che non passerà

più. Gesù era ben consapevole che la visione riguardava i tempi del Messia, e perciò che

essa si riferiva al suo tempo, il momento di instaurare il regno sempiterno64: egli vi si riferiva

quando affermava che il tempo si era compiuto. Nel capitolo 9 di Daniele si legge:

“Settanta settimane sono fissate per il tuo popolo e per la tua santa città per mettere fine all’empietà,

mettere i sigilli ai peccati, espiare l’iniquità, stabilire una giustizia eterna, suggellare visione e profezia e

ungere il Santo dei Santi. Sappi e intendi bene: da quando uscì la parola sul ritorno e la ricostruzione di

Gerusalemme fino a un principe consacrato, vi saranno sette settimane. Durante sessantadue settimane

saranno restaurati, riedificati piazze e fossati, e ciò in tempi angosciosi. Dopo sessantadue settimane, un

consacrato sarà soppresso senza colpa in lui. Il popolo di un principe che verrà distruggerà la città e il

santuario; la sua fine sarà un’inondazione e guerra e desolazioni sono decretate fino all’ultimo. Egli stringerà

una solida alleanza con molti per una settimana e, nello spazio di metà settimana, farà cessare il sacrificio e

l’offerta; sull’ala del tempio porrà l’abominio devastante, finché un decreto di rovina non si riversi sul

devastatore” (Dn 9,24-27).

Il testo parla della sequenza: ricostruzione del Tempio, consacrato, un altro consacrato

ucciso, un popolo pagano distruggerà la città e il santuario, poi quel popolo sarà rovinato.

La tempistica degli anni si riallaccia bene con il secolo I, poiché Artajerjes permise di

ricostruire il santuario nel 457 BC65. Infatti, 70 settimane di anni punterebbero allora sul

secolo I. Indipendentemente dei numeri, chiaramente simbolici e non sovrapponibili alla

storia in tutti i dettagli, questo testo era da alcuni interpretato come un puntatore dei tempi

messianici. Così Giuseppe Flavio: “Daniele parlava con Dio, perché egli non solo indicava

ciò che sarebbe accaduto nei tempi futuri, come gli altri profeti, ma determinava anche quando

quello sarebbe accaduto”66. Ciò che a noi interessa è che si parlava di un consacrato che sarebbe

stato ucciso prima della venuta dei pagani e la distruzione del Tempio. Non c’è dubbio che

anche Gesù ha messo in relazione la sua morte con la distruzione del Tempio, distruzione

62 Questo è un tema di grande rilievo attualmente che non possiamo sviluppare in dettaglio. Notiamo però che Giovanni

paragona la pasqua di Gesù a un nuovo esodo, un “passare da questo mondo al Padre” (Gv 13,1). Ugualmente nella

Trasfigurazione si presentano “Mosè ed Elia, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a

Gerusalemme” (Lc 9,31).

63 Daniele stesso spiega la sua visione: “Io, Daniele, mi sentii agitato nell’animo, tanto le visioni della mia mente mi

avevano turbato; mi accostai a uno dei vicini e gli domandai il vero significato di tutte queste cose ed egli me ne diede questa

spiegazione: «Le quattro grandi bestie rappresentano quattro re, che sorgeranno dalla terra; ma i santi dell’Altissimo

riceveranno il regno e lo possederanno per sempre, in eterno»”. Dan 7,15-17.

64 Scribe Petra: “Should there be any doubt about the messianic identity of the “son of man” in Daniel, it’s critical to

note that this is exactly how he was identified by early Jewish interpreters, going all the way back to the first century AD. For

example, in the ancient writing known as 1 Enoch—a very popular book in first century Judaism—the “Son of Man” is

explicitly identified as “the Messiah” (1 Enoch 48:10; 52:4). Along similar lines, another first-century Jewish writing interprets

Daniel’s vision of “the figure of a man” flying with “the clouds of heaven” as a reference to the “Son” of God (see 4 Ezra

13:1-52). Finally, even the later rabbis identified the “son of man” in Daniel as the Messiah (see Babylonian Talmud, Sanhedrin

98a; Numbers Rabbah 13:14)”.

65 Il Tempio era stato distrutto, come sappiamo, nel 587 BC.

66 Antiquitates, 10,267-268.

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assieme a quella della città santa, motivata dal fatto che Gerusalemme non riuscì a

riconoscere il tempo della sua visitazione messianica.

– Un terzo filone preso dalla Scrittura sono le tematiche presenti specialmente nel

“deuteroisaia”, cioè in Is 40-55, ma sparse anche in altri luoghi sia del libro di Isaia che in

altri libri sacri67. Gesù usava spesso testi di Isaia nella sua predicazione e prendeva anche

testi di questa parte del libro 68 . Nei quindici capitoli che compongono il deuteroisaia

ricorrono diversi temi: la sovranità di Yhwh sulle nazioni, la sua superiorità sugli dèi dei

pagani, la sua fedeltà all’alleanza con Israele (nonostante l’infedeltà d’Israele), e, infine, la

“parola” che procede dalla sua bocca, e che, efficace quanto la parola creatrice dell’inizio

del mondo, annuncia la restaurazione d’Israele, il rinnovamento dell’alleanza e il

rifacimento del mondo69. È dunque, anche qui, un messaggio di grande rilievo, di portata

escatologica, ma anche di speranza, rivolto al popolo che, disperso o in esilio, dubita di

poter tornare un giorno ad essere un popolo70. Sono i tempi in cui Ciro, re di Persia sta per

sconfiggere Babilonia71. Ciò fa dire al profeta che l’esilio è superato, che arriva la pace, che

Israele sarà liberato e che i confini della terra vedranno la salvezza di Dio. E,

sorprendentemente, radicata e inserita in questo contesto speranzoso appare la figura

misteriosa del Servo di Yhwh, il quale, benché di primo acchito si possa pensare che si tratta

dello stesso Israele (Dio è il Re sovrano e Israele è il suo “servo”), in realtà presenta poi dei

tratti individuali che fanno pensare a una figura singola, un uomo attraverso il cui sacrificio,

si realizza la restaurazione del popolo. Israele stesso, infatti, contempla attonito il destino

del Servo, del quale afferma:

“Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza

si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti” (Is 53,5).

Queste parole, e altre simile dei canti del Servo, s’inseriscono in una tradizione di pensiero

secondo la quale le sofferenze dei servi di Dio hanno un valore di salvezza e sarebbero state

vindicate da Dio. I libri dei Maccabei, la Sapienza di Salomone, il libro di Daniele e i Salmi72

hanno un buon numero di luoghi dove la sofferenza dei servi di Dio giova al popolo in vari

modi. Da parte loro, i canti isaiani del Servo sottolineano il fatto che la sofferenza del Servo

è vicaria, serve per la guarigione degli altri, idee che comunque appaiono anche nella

letteratura martiriale, come p. es. in Maccabei. Tutto questo filone di pensiero era

probabilmente tra i più presenti nella mente di Gesù.

67 Cf. J. E. Goldingay and D. F. Payne, A critical and exegetical commentary on Isaiah 40-55, T&T Clark, London ; New York

2006, 48-57.

68 Sull’uso di Isaia da parte di Gesù cf. S. Moyise, Jesus and Isaiah, "Neotestamentica" 43,2 (2009), 249-270. Un esempio

tra i vari è Mt 11,4-6: a Giovanni Battista che vuole una conferma della missione di Gesù, Gesù risponde: “Andate e riferite a

Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i

morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!”. Qui Gesù cita

in pratica Is 35, 5-6, testo ripreso in modo somigliante da Is 61,1.

69 Sto parafrasando Wright, Simply Christian, p. 87.

70 Il cap 40 inizia infatti con le parole: «Consolate, consolate il mio popolo– dice il vostro Dio”.

71 Babilonia è una città dell’antica Mesopotamia. Era stata fondata all’inizio del secolo XIX aC, e divenne città sacra del

regno babilonese, ma i tempi di maggiore splendore arrivarono con Nabucodonosor II (604 a.C.-582 a.C.), il sovrano che

distrusse il tempio di Gerusalemme nel 587 a.C. e ne deportò la popolazione. La città venne distrutta da Ciro II di Persia nel

539 a.C. che la rinominò Etemenanki. Babilonia divenne dunque provincia Persiana fino al 331 a.C. quando venne annessa

all'impero di Alessandro Magno dopo la sconfitta di Dario.

72 2Mac 6,12-17; 4Mac 6,27-29; Sap 2,12-20; i tre giovani nel fuoco del libro di Daniele; i salmi sulla sofferenza del

giusto…

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Radice ultima della convenienza della passione in ambito storico

Se si considera tutto ciò, vale a dire, le sofferenze dei profeti e di Giovanni Battista in particolare, l’attesa di un rinnovamento, di un nuovo Tempio e una nuova alleanza, ma in collegamento a figure che parlano di sofferenza e distruzione: del Tempio, della città, la stessa sofferenza del consacrato in Daniele o del servo in Isaia, si comprende che Gesù potesse collegare la sua missione di stabilire il regno alla sofferenza. Poteva comprendere dove portasse tutto ciò, verso dove egli stesse camminando. Non si poteva ritirare perché era venuto per questo (era il senso della sua presenza nel mondo), non poteva rimanere a metà strada, ma doveva andare fino in fondo, benché allora avrebbe dovuto portare a termine il suo progetto di instaurazione del regno per mezzo della sua sofferenza73. Le circostanze lo spingevano verso quel punto, la Scrittura gli indicava quella strada. Ma anche la Scrittura gli diceva che Dio lo avrebbe vendicato e che egli (Gesù) avrebbe ricevuto la corona messianica di re eterno (come in Daniele).

Conviene notare il fatto che queste affermazioni della Scrittura non rispondono in primo luogo a una teoria soteriologica, cioè non elaborano una teoria sulla redenzione o sull’espiazione di peccati. La convenienza della passione di Gesù è, dalla prospettiva che stiamo qui svolgendo, radicata in tre aspetti:

– a) la fedeltà di Dio alle sue promesse d’instaurare il regno sempiterno;

– b) la consapevolezza di Gesù di essere stato inviato nel mondo per realizzare quelle

promesse;

– c) la necessità allora di un confronto completo e radicale con quanto ostacola o vuole

impedire la venuta di questo Regno, e in ultimo termine con il diavolo e il suo potere.

In altre parole: Gesù parte dalla consapevolezza di essere il rappresentante della fedeltà di Dio, di essere venuto nel mondo proprio per dare compimento alle promesse messianiche che attuano quella fedeltà divina, ma ciò che egli vede attorno a sé è opposizione, resistenza decisa, la convinzione da parte delle classi dirigenti d’Israele di eradicare la dottrina che egli va diffondendo. È questa percezione della realtà ciò che porta Gesù alla decisione di “attraversare il muro”, di andare avanti nonostante la morte, fino a dare una svolta definitiva alla storia d’Israele e del mondo.

Le dimensioni soteriologiche della croce nascono di qua. L’idea di una remissione dei peccati non è da teorizzare, ma è semplicemente frutto diretto della missione del Messia. Il signore del peccato è il diavolo e non si può instaurare il regno dei cieli se uno non “lega” il diavolo e cancella il peccato. Il regno dei cieli non può avere spazio nel mondo se non togliendolo al regno di Satana, perché entrambi i regni sono opposti e incompatibili74. Israele però ha peccato e, di conseguenza, ha subito l’esilio. Come abbiamo visto l’esilio per Gesù non è soprattutto un dato geografico, ma è l’esilio profondo dell’essere dominati da Satana. I veri profughi non solo sono lontani dalla terra, ma anche dall’alleanza. Il vero esilio non è in Babilonia, ma nel regno del diavolo. Perciò l’istaurazione del Regno è un riscatto e comprende centralmente la remissione dei peccati. Il Regno attecchisce come frutto di una conversione, del ricevere la parola di vita predicata da Gesù, e perciò Gesù percorre paesini e villaggi. Ma se Israele non si converte con la parola, se non si converte neanche con i segni che egli unisce alla parola, se addirittura si oppone con tenacia e decisione all’azione di Gesù: come si potrà istaurare il Regno? Andare fino in fondo significherà arrivare al conflitto estremo, alla sofferenza del Messia, il quale in questo modo percorre come Servo di Yhwh la strada che essi non vogliono percorrere, pone la vita al servizio della salvezza dei suoi fratelli75. Egli perciò dona la sua vita in riscatto per loro, e così facendo, inaugura il regno. Dà la vita

73 Cf. P. Coda, Dio tra gli uomini. Breve cristologia, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1991, pp. 116-121.

74 In Lc 11,21-22, Gesù parla della forza dei due regni opposti. “Quando un uomo forte, bene armato, fa la guardia al

suo palazzo, ciò che possiede è al sicuro. Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via le armi nelle quali confidava

e ne spartisce il bottino”.

75 In un detto che ha buone possibilità di conservare la forma originale: “il figlio dell’uomo non è venuto per essere

servito ma per servire e dare la sua vita in riscatto” (Mc 10,45). Qui la prospettiva dalla quale Israele considerava il figlio

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per instaurare il regno del Padre, vale a dire, per ottenere la remissione dei loro peccati e la possibilità per loro (per i peccatori, per coloro che non gli hanno creduto) di entrare nel regno.

Alcuni esponenti della Third Quest biblica sono andati più avanti nella direzione di queste idee, sottolineando che nella Palestina del secolo I c’è la convinzione che il Messia sarà un nuovo Mosè che compirà un nuovo esodo e donerà una nuova alleanza. Essi si fondano anzitutto su scritti che procedono del giudaismo del tempo o che comunque, pur essendo posteriori al I secolo, contengono usanze che risalgono al tempo di Gesù. Certamente non è difficile trovare tracce di questa concezione anche nei vangeli. Se Gesù avesse avuto una tale prospettiva avrebbe potuto considerare la sua Pasqua come un Nuovo Esodo Pasquale con ingresso nella vera terra promessa (il Regno, il trono del Padre). Ciò non possiamo saperlo con sicurezza, ma un dato significativo in favore di questo tipo d’impostazione è il fatto che esso aiuta a spiegare meglio la nascita dell’Eucaristia, la quale, costituisce un atto di Gesù abbastanza singolare, non tanto facile di riferire agli schemi del tempo. Invece, se si guardano le cose dal punto di vista di Gesù come nuovo (vero) Mosè che libera dal tirano (Satana) e dona la nuova (definitiva) alleanza nel suo sangue, e che dona anche la (vera) manna del suo corpo, per sostenersi nell’esodo, e la vera bevanda del suo sangue per dissetarsi, si può spiegare meglio l’esistenza dell’eucaristia, come corpo e sangue donati in nutrimento. Allora si potrebbe anche attribuire qui a Gesù una comprensione propriamente teologica ed elaborata della sua passione e morte. Comunque, non è facile stabilire con sicurezza che Gesù abbia avuto una comprensione così elaborata della Passione, benché l’insieme di questi elementi dona certamente un quadro utile per la comprensione dell’orizzonte religioso proprio dell’epoca.

Ad ogni modo, da quanto Gesù ha predicato sul Regno, appare chiaro che se c’è uno esilio è quello originato da Satana. E, dunque, che nella consegna di Gesù al suo destino sofferente è implicata una dimensione di espiazione dei peccati, perché se il Regno può essere instaurato è perché il potere di Satana è stato infranto e il peccato d’Israele, sul quale si può poggiare il potere di Satana, è stato espiato. Si è messa la parola fine sulla vera cattività alla quale soggiaceva Israele. La salita di Gesù a Gerusalemme, nonostante egli sappia ciò che lì lo attende, contiene tutte queste cose, ma la sua motivazione più di fondo è la stessa che ha determinato il suo ministero e la sua predicazione, cioè, l’instaurazione escatologica, definitiva del Regno dei cieli.

dell’uomo di Daniele è rovesciata: egli non è il re da tutti servito, ma è il servitore. Non è il primo, ma l’ultimo. Anzi, egli è

venuto per realizzare questo servizio. Tuttavia gli aspetti di sofferenza sono equilibrati anche con quelli di gloria che

seguiranno. Gesù è veramente “il figlio dell’uomo” di Daniele che riceve il regno la gloria e la potenza per sempre.

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La presentazione della convenienza della passione nei vangeli

È naturale che Gesù abbia aperto il suo cuore ai discepoli su ciò che gli sarebbe successo. I sinottici, e in modo diverso anche nel vangelo di Giovanni, pongono in bocca di Gesù tre predizioni della sua passione e morte. In Mc 8,31; 9,31 e10,33 Gesù afferma in presente che “il Figlio dell’uomo deve soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere” (Mc 8,31)76. Queste predizioni sono state spesso accolte con scetticismo da buon numero di esegeti, perché ritenute ‘aggiunte redazionali’ che non si possono, di fatto, far risalire a Gesù. Essi dubitano che Cristo abbia previsto la sua morte di croce, e attribuiscono agli apostoli le predizioni di Gesù sulla morte, presenti nei vangeli. Dicono che la comunità cristiana primitiva si sarebbe trovata nella necessità di dare una spiegazione della morte umiliante e violenta di Gesù per non pregiudicare la credibilità del suo annuncio. Per poter predicare che Gesù, un uomo crocifisso, era il Messia, la Chiesa doveva giustificare in qualche modo la sua morte di croce; gli apostoli avrebbero così cominciato ad affermare che essa apparteneva al disegno di Dio ed era stata preordinata da Dio stesso. Ciò spiegherebbe la presenza nei vangeli di queste predizioni, che, secondo questi studiosi, non sarebbero che vaticinia ex eventu, ossia ‘predizioni’ elaborate dalla comunità a posteriori, dopo che si era compiuto l’evento pasquale77.

Negli ultimi tempi però si sono viste queste predizioni in modo diverso, più ottimista. Ciò ha una sua logica: più si conosce il modo di pensare di Gesù e del suo tempo, più diventa credibile che Gesù si aspettassi di soffrire a mano di oppositori, e più diventa naturale che egli abbia messo su avviso i suoi discepoli, per arginare in loro il possibile scandalo. Questa logica è confermata dal vangelo, perché il materiale presente nei sinottici riguardante future sofferenze di Gesù è molto ampio. Diamone alcune espressioni:

▪ Mc 2,19-20: “Gesù disse loro: «Possono forse digiunare gli invitati a nozze, quando lo sposo è con loro?

Finché hanno lo sposo con loro, non possono digiunare. Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto:

allora, in quel giorno, digiuneranno”.

▪ Mc 8, 31: “E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto ed essere rifiutato dagli

anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere”. Simili sono Mc 9,31 e

Mc 10,32-34.

▪ Mc 9,11-12: “E lo interrogavano: «Perché gli scribi dicono che prima deve venire Elia?». Egli rispose loro: «Sì,

prima viene Elia e ristabilisce ogni cosa; ma, come sta scritto del Figlio dell’uomo? Che deve soffrire molto

ed essere disprezzato. Io però vi dico che Elia è già venuto e gli hanno fatto quello che hanno voluto, come

sta scritto di lui»”. Qui si parla anche della morte di Giovanni Battista.

▪ Mc 10,38: “Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere

battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?»”.

▪ Mc 10,45: “Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita

in riscatto per molti»”.

▪ Mc 12, 1-12 (qui 1-8): “Si mise a parlare loro con parabole: «Un uomo piantò una vigna, la circondò con una

siepe, scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano.

Al momento opportuno mandò un servo dai contadini a ritirare da loro la sua parte del raccolto della vigna.

Ma essi lo presero, lo bastonarono e lo mandarono via a mani vuote. Mandò loro di nuovo un altro servo:

anche quello lo picchiarono sulla testa e lo insultarono. Ne mandò un altro, e questo lo uccisero; poi molti

altri: alcuni li bastonarono, altri li uccisero. Ne aveva ancora uno, un figlio amato; lo inviò loro per ultimo,

76 Mt e Lc usano forme di futuro: “sta per essere consegnato”.

77 Secondo R. Bultmann “noi non possiamo sapere come Gesù ha inteso la sua fine, la sua morte [. . .]. Non possiamo

sapere se e come Gesù ha trovato in essa un senso” (cit. da H. Schürmann, Gesù di fronte alla propria morte. Riflessioni esegetiche e

prospettive, Morcelliana, Brescia 1983, p. 19).

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dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma quei contadini dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su,

uccidiamolo e l’eredità sarà nostra!”. Lo presero, lo uccisero e lo gettarono fuori della vigna”.

▪ Mc 13,10: “Ma voi badate a voi stessi! Vi consegneranno ai sinedri, sarete percossi nelle sinagoghe e

comparirete davanti a governatori e re per causa mia, per dare testimonianza a loro”.

▪ Mc 14, 1-9 (qui 1-8): “Mancavano due giorni alla Pasqua e agli Azzimi, e i capi dei sacerdoti e gli scribi

cercavano il modo di catturarlo con un inganno per farlo morire. Dicevano infatti: «Non durante la festa,

perché non vi sia una rivolta del popolo»”. Gesù si trovava a Betània, nella casa di Simone il lebbroso. Mentre

era a tavola, giunse una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo di puro nardo, di grande

valore. Ella ruppe il vaso di alabastro e versò il profumo sul suo capo. Ci furono alcuni, fra loro, che si

indignarono: «Perché questo spreco di profumo? Si poteva venderlo per più di trecento denari e darli ai

poveri!». Ed erano infuriati contro di lei. Allora Gesù disse: «Lasciatela stare; perché la infastidite? Ha

compiuto un’azione buona verso di me. I poveri infatti li avete sempre con voi e potete far loro del bene

quando volete, ma non sempre avete me. Ella ha fatto ciò che era in suo potere, ha unto in anticipo il mio corpo

per la sepoltura”.

▪ Mc 14,20-21: “Egli disse loro: «Uno dei Dodici, colui che mette con me la mano nel piatto. Il Figlio dell’uomo

se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo, dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per

quell’uomo se non fosse mai nato!»”

▪ Mc 14,22-25: “E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo:

«Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse

loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del

frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio»”.

▪ Mc 14, 41-42: “Basta! È venuta l’ora: ecco, il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori.

Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino”.

▪ Mt, 26,52-54: “Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, di spada moriranno.

O credi che io non possa pregare il Padre mio, che metterebbe subito a mia disposizione più di dodici legioni

di angeli? Ma allora come si compirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?”

▪ Mc 14,27-28: “Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi. Gesù disse loro: «Tutti rimarrete

scandalizzati, perché sta scritto: Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse”.

▪ Mc 14,36: “E diceva: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio

io, ma ciò che vuoi tu»”.

▪ Mc 14,49: “Ogni giorno ero in mezzo a voi nel tempio a insegnare, e non mi avete arrestato. Si compiano

dunque le Scritture!»”.

Scot McKnight ha riassunto questo materiale in una tabella78:

78 Cf. S. McKnight, Jesus and His Death: Historiography, the Historical Jesus, and Atonement Theory, Baylor University Press,

Waco (Texas) 2005, pp. 79-80. Vedi anche le tabelle offerte da McKnight per gli altri evangelisti e tradizioni.

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Alla vista di tutto questo materiale (di cui soltanto offriamo qui una parte), commenta S. H. Page:

“l’estensione dei detti che si riferiscono alla morte di Gesù, il carattere allusivo [e non solo esplicito come nelle

tre previsioni] la varietà di forme usate dimostrano con chiarezza che Gesù si aspettava una morte violenta”79.

È chiaro, dunque, che Gesù parlò della sua passione ai discepoli in termini di mostrare che ciò rientrava nella logica del progetto di Dio, in termini di “convenienza”. Parimenti è chiaro che Gesù non fece molte osservazioni sul perché o sul significato di una tale morte, ma dal contesto diveniva chiaro anche per i discepoli che essa era attuata all’interno della sua missione di Gesù, e non era, per il contrario, un ostacolo ad essa. La teologia paolina e quella giovannea contengono parecchie piste di riflessioni, però chiaramente rivelano uno stadio maturo di riflessione, elaborato diversi anni dopo gli eventi. Invece se ci limitiamo ai testi dei sinottici, e specialmente a quelli che danno più garanzie di aver conservato maggiore aderenza all’evento testimoniato, rimaniamo con pochi testi (benché importanti, come il senso di servizio, la costituzione dell’alleanza o la remissione dei peccati)80.

Riassumendo: ciò che attestano abbondantemente i vangeli e gli Atti degli apostoli è il fatto che l’evento della croce fu previsto (e fu inteso come rispondente alla logica divina) già da Gesù stesso. Se per i discepoli la croce fu uno scandalo inatteso, per Gesù non fu così. Egli scoprì in essa una certa convenienza. I sinottici hanno espresso questa convenienza servendosi di tre elementi: la idea teologica del “terzo giorno”, il linguaggio della “consegna” e il linguaggio della “divina necessità”.

▪ “Il terzo giorno”. Gesù non risuscitò dopo tre giorni, ma dopo giorno e mezzo, tuttavia i

vangeli parlano di “tre giorni” o del “terzo giorno” perché ciò rispondeva a un modo

popolare di vedere la morte. Vediamo alcuni testi:

– Mc 14,58: “«Lo abbiamo udito mentre diceva: “Io distruggerò questo tempio, fatto da mani d’uomo, e

in tre giorni ne costruirò un altro, non fatto da mani d’uomo”». Ovviamente qui si usa l’idea dei tre

giorni in senso metaforico. Ma si accenna alla passione e alla morte e all’idea che, dopo la morte, Gesù

diventerà il nuovo Tempio.

– Mt 12,39-40: “«Una generazione malvagia e adultera pretende un segno! Ma non le sarà dato alcun

segno, se non il segno di Giona il profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre

del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra”. Anche qui Gesù

allude al fatto che la sua morte aprirà un periodo breve dal quale, però, uscirà come Giona.

79 S. H. Page, The Authenticity of the Ransom Logion (Mk 10:45b), in R. T. France and D. Wenham (ed.), Studies of History and

Tradition in the Four Gospel, JSOT, Sheffield 1980, 137-161 cit da McKnight, Jesus and…, p. 81.

80 Tutto ciò è presente per esempio nel loghion del riscatto (Mc 10,45) e nei testi di istituzione dell’Eucaristia (Mc 14,22-

25), che risalgono chiaramente a Gesù mostrano il suo pensiero.

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– Lc 13,32-33. “In quel momento si avvicinarono alcuni farisei a dirgli: «Parti e vattene via di qui, perché

Erode ti vuole uccidere». Egli rispose loro: «Andate a dire a quella volpe: “Ecco, io scaccio demòni e

compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno la mia opera è compiuta. Però è necessario

che oggi, domani e il giorno seguente io prosegua nel cammino, perché non è possibile che un profeta

muoia fuori di Gerusalemme”. Qui Luca dice che Gesù continuerà il suo cammino oggi e per un tempo

ancora (“domani”), indipendentemente della minaccia di Erode, perché tale cammino è segnato della

volontà del Padre, il quale ha predisposto un punto finale per Gesù (“terzo giorno” oppure “giorno

seguente”.

L’idea del terzo giorno rappresenta in questi testi lo spazio, breve, prima dell’intervento

salvifico di Dio. Poco tempo ancora e avverrà la restaurazione, la salvezza. Forse l’origine

dell’idea del terzo giorno si trova nella prassi dei riti funebri. Come spiega A. Persili81:

▪ La consegna.

Mc 9,31: “Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato

nelle mani degli uomini e lo uccideranno”. Questo testo ha dei precedenti nel capitolo 7 del

libro di Daniele. Si parla della quarta bestia e della sua azione contro Dio e contro i santi, e

si afferma: “I santi gli saranno dati in mano per un tempo, tempi e metà di un tempo” (7,25).

S’intende dire che i santi saranno consegnati per breve tempo nelle mani della bestia. È

implicita l’idea che Dio permette che ciò accada, perché senza la permissione divina non

potrebbe darsi una tale nequizia. Ma Dio ha i suoi progetti nei quali rientra una tale

permissione. Qualcosa di simile accade nel libro di Giobbe, quando Dio permette a Satana

di andare a provare Giobbe:

81 A. Persili, Sulle tracce del Cristo risorto: con Pietro e Giovanni testimoni oculari, Edizioni C.P.R., 1998, p. 58.

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“Ora, un giorno, i figli di Dio andarono a presentarsi al Signore e anche Satana andò in mezzo a loro.

Il Signore chiese a Satana: «Da dove vieni?». Satana rispose al Signore: «Dalla terra, che ho percorso in

lungo e in largo». Il Signore disse a Satana: «Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è

come lui sulla terra: uomo integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male». Satana rispose al Signore:

«Forse che Giobbe teme Dio per nulla? Non sei forse tu che hai messo una siepe intorno a lui e alla

sua casa e a tutto quello che è suo? Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani e i suoi possedimenti si

espandono sulla terra. Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha, e vedrai come ti maledirà

apertamente!». Il Signore disse a Satana: «Ecco, quanto possiede è in tuo potere, ma non stendere la

mano su di lui». Satana si ritirò dalla presenza del Signore”. (Gb 1,6-12).

È possibile che la teologia della convenienza/necessità della sofferenza del Messia che Gesù

adoperava, si radichi in questa linea di pensiero (Dio che prova, nel senso che permette la

prova, che “consegna” in quanto dà via libera alle forze antidivine), e che poi finalmente

salva. Alcuni sostengono che quando Gesù parla della convenienza della sua passione e

morte, egli abbia presente più questa linea che non quella del servo di Yhwh. Certamente

non è un aspetto facile da stabilire. Certamente i vangeli usano alcuni testi evocativi del

servo di Yhwh, ma non sarebbe sorprendente che questi brani rispondano alla catechesi

elaborata nella prima comunità per appoggiare l’idea che il Messia doveva patire secondo la

Scrittura. Invece l’uso che fa direttamente Gesù di testi collegati con la figura del Servo è

abbastanza sobrio. Perché? Non è facile dare una risposta ben fondata.

▪ La divina necessità

L’evangelista Luca è colui che ha sviluppato di più il tema della divina necessità, soprattutto

nei testi dove si trova un passivo divino, indicato dalla parola greca dèi. P. es. in Lc 9,22;

22,37.

– In Mc 13,7 si dice: “E quando sentirete di guerre e di rumori di guerre, non allarmatevi; deve

avvenire (dèi) ma non è ancora la fine”. Questo deve avvenire indica una “divina necessità” e la

parola dèi costituisce un “passivo divino”.

– In Mt 26,52-54: “Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la

spada, di spada moriranno. O credi che io non possa pregare il Padre mio, che metterebbe

subito a mia disposizione più di dodici legioni di angeli? Ma allora come si compirebbero

le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?”

Si comunica l’idea che le cose non accadono per caso o per accidente, ma perché

prestabilite, perché sono state previste da Dio. Troviamo anche in questo caso precedenti

veterotestamentari nel libro di Daniele: “Daniele, davanti al re, rispose: «Il mistero di cui il

re chiede la spiegazione non può essere spiegato né da saggi né da indovini, né da maghi

né da astrologi; ma c’è un Dio nel cielo che svela i misteri ed egli ha fatto conoscere al re

Nabucodonosor quello che deve avvenire alla fine dei giorni” (Dan 2,27-28). Poi Daniele

spiega al re che ciò che il re ha sognato rappresenta il succedersi degli imperi, forti i primi,

poi però più deboli, finché arrivano i tempi dell’ultimo impero, che è quello dei santi degli

ultimi giorni: “Al tempo di questi re, il Dio del cielo farà sorgere un regno che non sarà mai

distrutto e non sarà trasmesso ad altro popolo: stritolerà e annienterà tutti gli altri regni,

mentre esso durerà per sempre” (Dan 2,45).

La storia qui appare in qualche modo come decretata da Dio eternamente e perciò come

qualcosa verso la quale si cammina in modo incontrovertibile.

Quali conclusioni possiamo trarre di tutto ciò? Penso che questi concetti, il terzo giorno, la consegna divina, la divina necessità indicano un orizzonte di pensiero che si può sintetizzare così: Dio

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conta nei suoi progetti di salvezza con la sofferenza dei santi. Egli nella sua incomprensibile sapienza sa il perché (tale è in fondo la lezione del libro di Giobbe), ma comunque il disegno di Dio in favore dei santi finisce sempre per trionfare.

In questo senso è probabile che Gesù abbia considerato il suo destino alla luce della sovranità di Dio sulla storia d’Israele e del mondo, che comprende il male e l’opposizione a Dio, la quale è tuttavia velleitaria, irrealistica nella sua pretesa di sconfiggere Dio. Certamente, allora, Gesù poteva pensare che anche l’istaurazione del Regno poteva cadere sotto questa legge. Quando poi egli considerava i testi biblici del giusto sofferente o del servo di Yhwh, quando pensava nella storia dei servi di Dio come Giovanni Battista, e nelle sue proprie circostanze (il conflitto con i farisei, l’opposizione delle classi dirigenti) poteva dedurre che era necessario istaurare il regno attraverso la sofferenza. E, di conseguenza, che era volontà del Padre che la sua missione regale fosse continuata fino in fondo, nonostante ciò comportassi la morte.

Necessità e libertà nella storia di Gesù e nella sua passione.

Tuttavia Gesù non ha inteso la sua croce come un destino ineluttabile, come un disegno divino impossibile da cambiare. Ha riferito a se stesso questi orizzonti, questi scenari biblici che parlano di sofferenza e ha compresso che, se ciò era il progetto del Padre, come sembrava, allora aderire ad esso era certamente molto gradito al Padre. La sua autoconsegna alla morte costituiva un atto di rinuncia di se stesso (sacrificio) per seguire il disegno del Padre non poteva che essere infinitamente apprezzato dal Padre.

Tuttavia, questa comprensione era situata all’interno di un contesto di fiducia nel Padre e quindi anche di libertà, vale a dire, nel contesto proprio della relazione personale, e nella situazione economica della storia della salvezza, tra il Padre e il Figlio. La croce era gradita al Padre ma non come una legge inflessibile e necessaria, era abbozzata nelle Scritture, ma in figura storica, vale a dire, aperta a più realizzazioni. La volontà del Padre è sempre trascendente, cela una dimensione di mistero e di novità. Per questi motivi pur prevedendo la sua passione e morte, Gesù non ha avuto una certezza totale (assoluta) su di essa fino all’arrivo della sua “ora”. Specialmente due testi della Scrittura mettono in luce quanto adesso affermato.

▪ Nella scena della preghiera di Gesù nell’Orto degli Ulivi, egli afferma: “Padre mio, se è

possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!” (Mt

26,39). In questa preghiera si vede il fatto che c’è, nella percezione di Gesù sul suo

immediato futuro, una convinzione sulla sofferenza che lo attende, egli vede arrivare il

supplizio davanti a sé, ma non come una necessità del tutto ineludibile, perché egli sa che

il Padre può ancora risparmiargli il calice, può condurre la storia in modo diverso, in modo

da non dover attraversare l’orrore della passione. Tuttavia egli desidera comunque fare

come il Padre vorrà.

Ciò è ben espresso da R. T. France nel suo commento: “Il problema non è se Gesù voglia

o non voglia accettare lo scopo del Padre, ma se quello scopo debba includere l’orribile

calice (…) della sofferenza vicaria, o se vi è un qualche altro modo di raggiungerlo. [Ne

consegue] quindi la rimarchevole mescolanza in questo versetto del fare una richiesta

esplicita e dell’accettare che la richiesta non sia esaudita –una mescolanza la quale dovrebbe

essere imitata in molto nostro pregare, consistente spesso in richieste perentorie–. Il solo

problema che importi è: quali sono i limiti della volontà di Dio. La preghiera di Gesù è una

esplorazione di questi limiti, ma non tenta mai di infrangerli per oltrepassarli”82.

Gesù esplora nella sua preghiera i limiti della volontà di Dio nel senso che Dio, essendo

Padre, è aperto anche alle richieste dei figli, le quali vengono integrate nel suo progetto.

82 R. T. France, Il Vangelo secondo Matteo. Introduzione e commentario, GBU, Chieti, Roma 2004, p. 531.

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Può questa supplica di Gesù, questa manifestazione del suo desiderio di evitare il calice,

essere integrata nella volontà del Padre e nel suo progetto? È una tale cosa possibile? Tale

è la questione che pone qui France, interpretando le parole di Gesù. Gesù, ad ogni modo,

non condiziona la sua disponibilità alla possibilità di integrare il suo desiderio di vita nel

progetto: è disposto al sacrificio completo se tale è la “preferenza” del Padre suo. Perciò,

continua il racconto dei vangeli: “Si allontanò una seconda volta e pregò dicendo: «Padre

mio, se questo calice non può passare via senza che io lo beva, si compia la tua volontà»”

(Mt 26,42). In questa nuova formulazione è ancora più fortemente evidenziato il desiderio

di Gesù di fare la volontà del Padre.

▪ Qualche versetto più avanti, nella scena del arresto di Gesù nell’Orto, alcuni dei discepoli

reagiscono con violenza. Uno impugna la spada e taglia l’orecchio di uno dei servi del

Sommo Sacerdote. Allora Gesù dice: “Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti quelli

che prendono la spada, di spada moriranno. O credi che io non possa pregare il Padre mio,

che metterebbe subito a mia disposizione più di dodici legioni di angeli? Ma allora come si

compirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?». (Mt 26,52-54).

Di nuovo France riassume bene quanto è implicato in questo testo: “Il discepolo che aveva

tentato la resistenza armata, aveva frainteso la situazione. Gesù non è una vittima indifesa,

bisognosa di qualsiasi aiuto umano disponibile. Egli è stato arrestato per sua scelta. Se

avesse voluto aiuto avrebbe potuto chiedere assai più che qualche spada. (…) La sua

riluttanza ad eludere i piani dei suoi nemici sia con l’evasione (…) sia tramite il suo potere

sovrannaturale, deriva dalla sua ripetutamente dichiarata convinzione che la sua missione

doveva essere quella di subire rifiuto e sofferenza (…). Dietro a quelle precedenti

predizioni, non era difficile discernere le scritture come fonte del convincimento di Gesù;

ora quella fonte è resa esplicita. E per Gesù non vi era altra scelta se non quella che “si

adempissero” le scritture. La questione era stata risolta nel Getsemani”83. In altre parole,

nella sua preghiera dell’Orto, Gesù era rimasto deciso a fare comunque la volontà del Padre.

Egli pur prevedendo la sofferenza aveva sondato nella sua preghiera la possibilità di una

soluzione diversa per la sua missione. Adesso vengono a prenderlo, e Gesù sa ormai che

una soluzione diversa non c’è, che è arrivata la sua ora di sofferenza. Ed è pienamente

disponibile ad essa.

Ad ogni modo questo testo mostra la percezione di Gesù di poter contare in ogni momento

su una speciale protezione del Padre. “Credi che io non possa pregare il Padre mio, che

metterebbe subito a mia disposizione più di dodici legioni di angeli?”, cioè, credi che io non

possa farmi proteggere della croce chiedendo l’aiuto del mio Padre? Gesù dà per scontato

che ciò sarebbe possibile: che egli potrebbe ricevere una quantità favolosa di angeli (circa

72.000 angeli), il che ovviamente avrebbe tolto ogni possibilità di vittoria ai nemici. Secondo

D. Hagner: “qui si vede come l’obbedienza di Gesù alla volontà del Padre non è questione

di costrizione ma dalla libera sottomissione a quella volontà. Anche in questo momento

tardivo tutto potrebbe essere abortito, ma allora le Scritture rimarrebbero incompiute. Nel

v. 45 c’è l’implicazione che se le Scritture rimanessero incompiute allora la stessa fedeltà di

Dio verrebbe messa in discussione”84.

La passione è permessa da Dio perché, in qualche modo, riguarda la fedeltà di Dio al suo popolo, l’istaurazione del Regno promesso. È arrivato il momento di instaurare tale Regno e compiere le scritture, per mostrare così che il Padre è il Dio fedele e salvatore. Gesù incorpora fino in fondo alla sua missione

83 R. T. France, Il Vangelo secondo Matteo. Introduzione e commentario, GBU, Chieti, Roma 2004, p. 536.

84 D. Hagner, Matthew 14-28, World Biblical Commentary 33B, Word Books, Dallas (TX) p. ? (397 in pdf version).

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questa fedeltà di Dio agli uomini, la testimonia fino alla fine. Come indica R. Fabris: “la vicenda di Gesù anche nel suo apice drammatico non soggiace al arbitrio delle forze storiche neppure a un determinismo superstorico. Dentro la conflittualità e le contradizioni della storia, Gesù vive la sua fedeltà al Padre attuando così il suo disegno che dà senso e valore salvifico all’intera trama degli eventi storici con i quali egli si è reso solidale”85.

La convenienza della passione: dall’ambito storico a quello teologico.

Il testo di R. Fabris che abbiamo appena citato indica che la croce di Gesù non è il risultato di un puro gioco di forze umane, di cause storiche (il tradimento di Giuda, il desiderio del Sommo sacerdote di disfarsi di Gesù, lo scetticismo di Pilato rispetto al bene o al male…) e neanche è il risultato di un “determinismo superstorico”, cioè, Gesù non è un mero strumento nelle mani del Padre senza una volontà propria, non è un “pupazzo” mosso dall’alto. Il fatto che Gesù esprima anche le sue preferenze, il fatto che la preghiera di Gesù possa aprire scenari diversi (con il permesso e l’approvazione dal Padre), indica che il disegno di Dio ha una certa apertura nei confronti della trama degli eventi storici decisi dai protagonisti umani di tali eventi. Riprendendo la espressione di R. T. France prima citata, se Gesù può esplorare nella sua preghiera i limiti della volontà paterna di Dio, significa che tale volontà non è determinata ad unum in modo assoluto, ma ha una apertura verso la storia, vale a dire, esiste nella storia un rango di possibilità che possono “entrare” nei limiti della volontà paterna di Dio.

Da questo punto de vista la passione e morte di Gesù può essere considerata come un caso (per certi versi paradigmatico) del rapporto tra la sovrana volontà di Dio e la libertà delle creature. Dio governa la storia, ma allo stesso tempo la storia dipende delle libere decisioni umane. Il che pone la domanda di come si compongano i due aspetti: quale grado di determinazione eserciti Dio sulla storia, cioè, quanto la storia dipenda dalla volontà divina e quanto invece dipenda dall’arbitrio umano. Chi è, in definitiva, il l’autore della storia?

Tradizionalmente gli orientamenti di risposta a questa questione sono stati due, e ciò sia in campo cattolico che nell’ambito della Riforma. Un primo orientamento ha sottolineato la sovranità di Dio sul mondo, il fatto che il suo progetto si realizza infallibilmente in ogni evento storico, che egli determina completamente ogni evento della storia, che poi le creature mettono in atto; l’altro orientamento, invece, ha insistito sul fatto che la storia è una realtà composta da quanto realizzano l’attore divino e gli attori umani, e ha sottolineato che Dio, in certo modo, limita il suo influsso sugli uomini allo scopo di permettere una vera libertà umana. Nell’ambito della riforma la tradizione calvinista ha seguito la prima linea. Specialmente Calvino e i suoi successori sottolinearono con forza la sovranità di Dio e (in particolare per quanto riguarda le dimensioni di salvezza) l’insignificanza degli attori umani. In tempi più recenti K. Barth ha rinnovato questa linea come mostra questo testo:

“Che Dio sia con noi (…) significa che la sua sovrana azione determina la nostra propria azione fino alle sue

profondità ultime, fino alle sue più dirette cause, e che quando noi operiamo dipendiamo sempre e a tutti gli effetti

della decisione divina. Che egli sia con noi vuol dire che egli regna su di noi, allo stesso modo che egli ci ha preceduti

predeterminando noi. (…) Ne risulta che dobbiamo comprendere l’azione di Dio e quella della creatura come una sola

e identica azione. (…) Dio è talmente presente all’azione della creatura –cioè la sua presenza è talmente sovrana– che

è la sua propria azione divina che diviene evento in questa stessa azione. Dio compie egli stesso ciò che fanno Mosè

oppure Davide. È lui che tuona da Sion quando il suo profeta parla…”86.

85 R. Fabris, Matteo, Borla, Roma 1982, p. 536.

86 Il testo continua: “… secondo la testimonianza dell’AT e del NT non esiste differenza tra la storia di salvezza e la

storia generale: è Dio che realizza ciò che fanno cieli e terra, il sole e la pioggia, il fulmine e il tuono. Non esiste, dunque, nella

provvidenza divina, in ciò che precede gli eventi creaturali, e dopo, in ciò che segue –più in là di essi-, una storia differente

condotta da Dio stesso e il cui senso rimarrebbe nascosto” K. Barth, Dogmatique III/3 § 49.2 (cit: de Durand. Èvangile et

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Uno dei problemi che ha la posizione di Barth (e, più in generale, questa linea calvinista) è che in quel modo non si può non attribuire anche il male (le cattive azioni umane) alla volontà divina87. Perciò l’ambito della riforma conosce un altro tipo di approccio al problema che è quello arminiano88. Gli arminiani sostengono che Dio limita se stesso in modo che egli non controlla ogni singolo evento. Certo, tutto quanto avviene è permesso da Dio, ma non tutto è voluto da Dio, in modo tale che le configurazioni della storia rispondono non solo a Dio ma anche agli attori umani. Dio, permettendo alcuni eventi della storia e volendo e ispirando altri, crea, per così dire, uno spazio per la libertà umana, nel senso che Egli non controlla né interna né esternamente le decisioni libere degli uomini89. Ciò però non significa che Dio non orienti a tutti con la sua grazia, ed specialmente ai giustificati, ma quella grazia può rimanere non-corrisposta, sicché l’uomo allora riesce a realizzare il contrario di quanto Dio desidera. Difficoltà di questa posizione è che non si vede come essa garantisca un buon fine della storia, o meglio, per garantire una tale fine essa deve fondarsi solo sulla prescienza divina, vale a dire sul fatto che Dio sa che tutto andrà bene e non su un governo di Dio diretto sulla storia, cioè sul fatto che è Dio a condurre la storia verso il suo fine. Ciò sembra limitare un po’ la sovranità di Dio.

Nella teologia cattolica ci furono anche queste divergenze, che si manifestarono nella celebre controversia De auxiliis. Ma prima di essa, S. Tommaso d’Aquino aveva messo alcuni fondamenti importanti per comprendere come provvidenza divina e libera storia umana siano in armonia. La posizione di S. Tommaso è, a mio parere, intermedia, tra quelle che secoli dopo, sosterranno sia il calvinismo che l’arminianismo. Te Velde la sintetizza così: “Dio nella sua provvidenza vuole che alcune cose accadano in modo necessario e altre in modo contingente, in modo tale che esistano nell’universo diversi gradi di perfezione. Perciò egli ha stabilito che alcune cose non possono mancare e altre invece siano frutto di cause contingenti e potenzialmente difettive. E quindi che il fatto che alcuni effetti possano darsi o meno sia dovuto al fatto che Dio vuole che essi siano causati da entità che operano in modo contingente”90.

In sostanza per S. Tommaso gli esseri creati sono considerati come “misurati” da Dio. L’atto di creazione è un atto mediante il quale Dio scandaglia le creature in totalità, le “misura” da cima in fondo. Come dice il Salmo: “Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando seggo e quando mi alzo. Penetri da lontano i miei pensieri, mi scruti quando cammino e quando riposo. Ti sono note tutte le mie vie; la mia parola non è ancora sulla lingua e tu, Signore, già la conosci tutta” (Sal 138, 1-4). Dio conosce intimamente ciò che ha creato, e sa ciò che la creatura realizzerà, e non solo né principalmente perché è sapientissimo, ma, più a fondo, perché, avendoli creati, ha di loro una conoscenza più intima di quella che loro hanno di loro stessi, e sa il perché profondo dei loro atti. È così che egli può ordinare ogni cosa per il bene dell’intero progetto.

In questo senso, la provvidenza divina contiene la storia in quanto le azioni umane libere che costituiscono la storia sono incluse nel progetto provvidente di Dio, e incluse proprio come frutto della

providence, 82) traduzione mia dal francese).

87 Barth però difende se stesso con l’idea che il male esiste perché Dio la ha voluto chiamare all'esistenza come ciò che

è non-voluto da Dio, come ciò che gli si oppone ed è perciò da rigettare. Ma rimane il fatto che il male sono gli atti della

“mano sinistra” di Dio. Vedi un bel testo di Barth sul tema in T. J. Gorringe, God's Theatre. A Theology of Providence, SCM Press,

London 1991, p. 44.

88 Giacomo Arminio fu un pastore e teologo protestante olandese del cinquecento.

89 Cf. R. E. Olson, Arminian Theology. Myths and Realities, IVP Academic, Downers Grove, Ill. 2006, pp. 38-39. L’autore

critica le posizioni calviniste e barthiane. “l’arminiani affermano che Dio governa la natura e la storia ma nega che Dio controlli

ogni evento. Negano che Dio “nasconda una faccia sorridente” dietro le orrori della storia. Il diavolo non è “il diavolo di Dio”

e neanche uno strumento della divina provvidenza per la propria glorificazione. La caduta [dei progenitori] non fu preordinata

da Dio con qualche nascosto proposito” (ibid, p. 38).

90 R. Te Velde, Thomas Aquinas on Providence, Contingency and the Usefulness of Prayer, in P. d'Heine and G. Van Riel (ed.),

Fate, Providence and Maral Responsability in Ancient, Medieval and Early Modem Thought, University Press, Leuven 2013, p. 545.

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libertà contingente dell’uomo. In questo, S. Tommaso se da una parte è vicino al arminianismo in quanto la libertà delle creature non viene toccata o alterata o sostituita da Dio, dall’altra parte è anche vicino al calvinismo, perché come loro, anche Tommaso può dire che tutto ciò che accade nella storia è voluto da Dio, e che non esiste nulla nel mondo che non risponda a quanto Dio ha decretato che avvenisse.

Vista dalla prospettiva delle creature, la storia umana, con la sua trama di decisioni e di conflitti, è frutto della nostra libertà. La bontà e la cattiveria delle azioni umane, il grano e la zizania, costituiscono la storia e le danno la sua forma. Dio vuole che sia così, che la storia sia frutto nostro91. Ma essa, più in profondità, è possibile perché Dio la ha creata, perché da Lui ha avuto un “sì” da Dio originario e eterno: Dio ha considerato che ne valeva la pena. Egli la conosce per intero nel presente unico che costituisce la sua eternità (la conosce perché Egli è la Causa prima della storia, cioè, chi la crea e la sostiene nell’essere), la conosce nella successione dei tempi, e perciò può guidarla e prevedere ciò che, per ogni momento della storia, è ancora nascosto nel futuro (è qui il fondamento della profezia e della capacità di Dio di promettere)92.

Dio governa la storia in molti modi, i quali, però, non tolgono all’uomo la sua capacità di agire su di essa e di modellarla. Forse si può riassumere dicendo che Dio governa la storia “creandola” e “intervenendo in essa”. Creandola, perché con la sua azione creatrice non solo stabilisce le leggi generali del mondo, ma anche il modo di essere di ogni creatura, le loro relazioni o non-relazioni, le circostanze della loro vita e l’ordine tra di esse e delle creature. Inoltre egli governa la storia “intervenendo” in essa con interventi diretti e rispettosi dell’ambito delle creature93: spesso servendosi dell’intervento delle creature, illumina le persone con sua grazia e con inspirazioni divine, infine egli stesso è protagonista della storia attraverso alcuni speciali azioni che realizza direttamente, tra cui la più importante è l’Incarnazione e la vita di Gesù (e l’invio dello Spirito). In questo modo quanto accade nella storia e sotto la guida perenne di Dio94, la quale garantisce all’uomo lo spazio della propria libertà affinché egli possa essere responsabile della sua vita, e lo orienta verso il fine ultimo dell’esistenza: la comunione con Dio.

91 Ciò rende possibile la posizione di alcuni, pochi veramente, che si ispirano al deismo (Dio crea il mondo ma poi si

disinteressa di esso, oppure lo lascia alle sue leggi). Queste correnti, frequenti nel razionalismo, continuano a sussistere oggi,

in autori come p. es. Maurice Wiles. Dietro queste posizioni come dietro quelle del open theism (vedi nota successiva) si trova

la difficoltà di rapportare Dio con le tragedie del mondo, problema principale della teodicea. Come può un Dio che è amore

permettere tante tragedie senza intervenire? Ecco, la domanda che porta questi autori a sostenere o la estraneità di Dio al

mondo o la sua incapacità per governarlo.

92 Su questi temi cf. M. Bordoni, Il tempo. Valore filosofico e mistero teologico, Libreria editrice della Pontificia università

lateranense, Roma 1965, ??. C’è attualmente nel mondo anglosassone americano una tendenza a dire che Dio non può

conoscere dettagliatamente né prevedere completamente il futuro. È il cosiddetto “teismo aperto” (open theism), che ha una

visione di Dio come essere esistente nella temporalità, che vive nel dialogo con ciò che ha creato, e perciò può anche cambiare

i suoi progetti. In realtà però la tradizione non ha mai inteso che un essere con queste condizionamenti sia veramente Dio,

l’Assoluto, l’essere necessario e sussistente per sé. In favore del fatto che Dio non possa prevedere le azioni libere degli uomini

cf. anche F. van Steenberghen, Ontología, Gredos, Madrid 1965, ??

93 Oggi va di moda scrivere che Dio non interviene nella storia né nelle leggi dell’universo. È divenuta un’affermazione

“politically correct” in teologia, fatta con la finalità di sottolineare la libertà dell’uomo e l’autonomia che Dio concede alla

creatura. Unico problema è che non è vera: lo si vede quando quelli stessi autori cercano di spiegare i “miracoli”, in modo tale

che alla fine questi vengono più o meno ridotti allo statuto di “fatti inspiegabili per lo stato attuale la conoscenza umana”. Cf.

C. Böttigheimer, Cómo actúa Dios en el mundo. Reflexiones en el marco de la tensa relación enter teología y ciencias de la naturaleza, Sígueme,

Salamanca 2016; R. Bernhardt, Does God act?: reflections on the doctrine of providence, in J. George et al. (eds.), Changing Times, Changing

Theologies: Re-Visioning God in the 21st Century, Bangalore 2008, ***; D. Edwards, How God acts: creation, redemption, and special divine

action, Fortress Press, Minneapolis [Minn.] 2010.

94 Da un punto di vista cristiano non si può ammettere l’esistenza di eventi che non abbiano una relazione di dipendenza

con Dio. Parte della letteratura su questo area tratta di come rapportare Dio con il “caso”. Ma “il caso” in senso assoluto non

esiste. Quando parliamo del “caso” intendiamo eventi che sono imprevedibili (p. es: se adesso esco alla strada e guardo chi è

dentro della prima macchina che vedo circolare per la strada, normalmente non sarò in grado di prevedere quale sarà; sarebbe

una pura fortuna se si trattasse di un vecchio amico al quale non vedo da vent’anni). Questi eventi però sono imprevedibili

per noi, perché non possiamo scorgere nessuna relazione di essi (p. es: tra la mia decisione di uscire alla strada per guardare

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La finalità dell’intervento di Dio nel mondo, della sua azione di governo, è la manifestazione e la partecipazione alle creature del suo amore. Ciò coincide con la finalità delle creature personali, chiamati alla comunione con Dio, comunione provvisoria nella storia ma definitiva nell’eschaton ultimo. Dunque attraverso la sua azione di governo Dio realizza proprio questo, egli comunica se stesso e guida tutti verso la felicità eterna.

Possiamo allora tornare alla passione e morte di Gesù. Dio ha permesso che la croce avvenisse sulla scena della storia, nello stesso modo che permette altri drammi e tragedie. Coloro che hanno ucciso Gesù hanno commesso un grande peccato, il maggiore in assoluto in attenzione alla sua gravità, perché hanno disprezzato il Figlio eterno di Dio venuto nella carne. Non c’è nell’operato di tutti coloro che hanno condannato Gesù nulla che sia gradito a Dio. Ma, nel suo progetto, Dio tiene conto delle decisioni umane, di queste cause seconde “contingenti”, che sono gli atti liberi degli uomini anche quando essi peccano. Egli tiene conto ugualmente della libertà di Cristo, il suo Figlio che è diventato uomo. Questo intreccio di umane volontà, di Gesù e dei suoi carnefici, è all’origine della possibilità della croce come evento storico. Esso rende possibile per Gesù il fatto di poter manifestare il suo amore al Padre e il suo amore per noi, e offre a Dio la possibilità di mostrare il suo amore misericordioso in un modo nuovo e imprevedibile. Ecco perché il Padre ha disposto l’esistenza nella storia del complesso di eventi che compongono la passione di Gesù, i quali sono voluti da Dio come frutto della libertà dei suoi protagonisti, di Gesù innanzitutto.

Nella passione del Figlio, il Padre manifesta e comunica al mondo l’amore misericordioso, estremo, della Trinità, affinché partecipando nell’amore della Croce gli uomini possano arrivare ad amare Dio. Dio ha così attuato le promesse divine e realizzato (in germe) la finalità della creazione. Qui però siamo già in un’altra sfera di riflessioni, più teologica, stiamo infatti già parlando della convenienza della passione in ambito teologico95.

una qualsiasi targa e la decisione del mio amico di fare un percorso che lo porta a passare da lì a quel precisa ora); essi non

sono però imprevedibili per Dio, perché Egli gli conosce nel presente del suo atto creatore. Lo stesso si può dire del lento

processo di formazione del cosmo, con tutte le sue indeterminazioni: non sono nascoste a Dio.

95 Per una esposizione fatta da un altro punto di vista ma con simili risultati, cf. A. Ducay, Riportare il mondo al Padre. Corso

di soteriologia cristiana, EDUSC, Roma 2016, pp. 154-158.