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1 Il 68. Rivoluzione e/o libertà? LEONARDO ALLODI “Per fortuna non abbiamo vinto” Mauro Rostagno (Leader del ’68, assassinato il 26 sett. 1988 a Trapani) 1. Introduzione. 1968, cinquant’anni fa: a ridosso di un’ Italia attraversata da manifestazioni studentesche, cortei non del tutto pacifici, occupazioni di Università (la prima fu la Cattolica di Milano, poi la Facoltà di Architettura della Sapienza di Roma e quindi quella di Sociologia di Trento, dove l’occupazione si protrarrà per diversi mesi), uno dei più acuti intellettuali di allora, Augusto Del Noce, parlò di una rivoluzione studentescache gli appariva come il “frutto morale” dell’ultimo ventennio (1948-1968). Per tale ragione il 68 doveva considerarsi come “l’anno più ricco di filosofia implicita dal ’45 ad oggi” (Del Noce, 1970, 13). Il disagio e la ribellione generazionale che si esprimeva in forme “creative senza creatività” (Veneziani, 2007), apparivano dunque, già allora, qualcosa di complesso da afferrare nelle sue ragioni di fondo, non facilmente liquidabile come puro ribellismo, certo qualcosa che andava oltre la pura dimensione della politica. Qualcosa che si poteva realmente comprendere soltanto in una dinamica storica ampia, nella logica della long durèe di un mutamento socio-culturale i cui prodromi potevano essere colti già agli inizi dei Novecento, se non addirittura prima. Non a caso vi era chi, insieme a Del Noce, ad esempio Sergio Cotta, faceva risalire tutto a F. Nietzsche, il “maestro nascosto del nostro tempo”, il suo pensatore-chiave, colui che ha aveva portato alle estreme conseguenze la crisi del presente “rendendone chiari i termini essenziali”. (Cotta, 1978, 110). A testimonianza di questa natura filosofica, esistenziale e prepolitica del fenomeno della contestazione studentesca (ed operaia), per certi versi ancora indeterminata e quindi suscettibile sia di sviluppi positivi che negativi, può essere utile richiamare

Il 68. Rivoluzione e/o libertà?...Del Noce, ad esempio Sergio Cotta, faceva risalire tutto a F. Nietzsche, il “maestro nascosto del nostro tempo”, il suo pensatore-chiave, colui

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    Il ‘68. Rivoluzione e/o libertà?

    LEONARDO ALLODI

    “Per fortuna non abbiamo vinto”

    Mauro Rostagno

    (Leader del ’68, assassinato il 26 sett. 1988 a Trapani)

    1. Introduzione. 1968, cinquant’anni fa: a ridosso di un’Italia attraversata da

    manifestazioni studentesche, cortei non del tutto pacifici, occupazioni di Università

    (la prima fu la Cattolica di Milano, poi la Facoltà di Architettura della Sapienza di

    Roma e quindi quella di Sociologia di Trento, dove l’occupazione si protrarrà per

    diversi mesi), uno dei più acuti intellettuali di allora, Augusto Del Noce, parlò di una

    ‘rivoluzione studentesca’ che gli appariva come il “frutto morale” dell’ultimo

    ventennio (1948-1968). Per tale ragione il ‘68 doveva considerarsi come “l’anno più

    ricco di filosofia implicita dal ’45 ad oggi” (Del Noce, 1970, 13). Il disagio e la

    ribellione generazionale che si esprimeva in forme “creative senza creatività”

    (Veneziani, 2007), apparivano dunque, già allora, qualcosa di complesso da afferrare

    nelle sue ragioni di fondo, non facilmente liquidabile come puro ribellismo, certo

    qualcosa che andava oltre la pura dimensione della politica. Qualcosa che si poteva

    realmente comprendere soltanto in una dinamica storica ampia, nella logica della

    long durèe di un mutamento socio-culturale i cui prodromi potevano essere colti già

    agli inizi dei Novecento, se non addirittura prima. Non a caso vi era chi, insieme a

    Del Noce, ad esempio Sergio Cotta, faceva risalire tutto a F. Nietzsche, il “maestro

    nascosto del nostro tempo”, il suo pensatore-chiave, colui che ha aveva portato alle

    estreme conseguenze la crisi del presente “rendendone chiari i termini essenziali”.

    (Cotta, 1978, 110).

    A testimonianza di questa natura filosofica, esistenziale e prepolitica del fenomeno

    della contestazione studentesca (ed operaia), per certi versi ancora indeterminata e

    quindi suscettibile sia di sviluppi positivi che negativi, può essere utile richiamare

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    quel che accadeva nella Berkeley del Free Speech Movement (1964-1965), un

    movimento nato sulla scia di un discorso a favore della libertà di espressione degli

    studenti, destinato a divenir famoso, e improvvisato da un giovane sconosciuto

    studente, di origini italiane, Mario Savio. Ebbene, fra le opere cult che allora

    alimentavano le prime inquietudini di questa nuova generazione, vi fu The Quest for

    Community, un’opera sulla dialettica tra etica dell’ordine e della libertà uscita dalla

    penna di un ‘conservatore sociale’, Robert A. Nisbet. E già questo era piuttosto

    sorprendente. Pubblicata nel 1953, invocava un ritorno alla comunità concreta

    considerata come l’unico argine possibile al totalitarismo burocratico e anonimo,

    tanto della società opulenta e tecnocratica occidentale quanto di quella marxista,

    opera che verrà poi tradotta dalle Edizioni di Comunità di Adriano Olivetti (La

    Comunità e lo Stato. Studi sull’etica dell’ordine e della libertà, Ivrea/Roma 1957).

    Quello che qui affascinava e attirava gli studenti era la nuova riflessione sul senso

    della comunità, su quei legami sociali di tipo comunitario che un sistema sociale

    segnato dall’attivismo individualistico, dalla razionalità strumentale, dalla logica cioè

    di un mondo “di mezzi senza più fini”, sembrava aver rimosso definitivamente o

    comunque relegato all’ambito più privato. Per Nisbet nella società del boom

    economico e dell’opulenza si era consumata una perdita fondamentale e cioè “la

    perdita di quella base di esperienza umana concreta che si esprime nel piccolo gruppo

    spontaneo e consente all’individuo di non sentirsi solo e disarmato di fronte al potere

    centrale e remoto” (Nisbet, 1957, 285). Per questo Nisbet aveva istituito a Berkeley

    un campus a numero chiuso, il Riverside, amministrato secondo uno statuto

    comunitaristico. In questo senso, per Del Noce, la rivolta esprimeva in fondo

    un’indignazione morale che aveva qualcosa di naturale, e finanche comprensibile.

    Quel che si nascondeva in questo stato d’animo di un’intera generazione era una

    critica alla “filosofia implicita” della società del benessere e tecnocratica, una critica

    che in pochi anni, da Berkeley sarebbe passata a Parigi fino a Berlino, Milano e

    Roma.

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    Giunto a contatto con un contesto europeo molto più ideologizzato, questo “stato

    d’animo di una generazione” imboccherà la strada della più radicale politicizzazione,

    nella quale riemergerà la tragedia della “lunga guerra civile europea” (come la

    chiamerà E. Nolte), una non del tutto prevedibile metamorfosi e una radicale

    deformazione che dalla lotta per i diritti civili assumerà i toni e i modi della violenza

    rivoluzionaria. Una sostanziale virata verso l’estremismo (“il puro passivo idealmente

    prodotto dalla società del benessere”, dice Del Noce), il cui esito finale sarà la

    “radicalizzazione” dei mali della società che rifiutava, una sorta di “eterogenesi dei

    fini”: puro prodotto, diceva Del Noce perché “accettava supinamente allo stato di

    poltiglia frammentaria quei principi ideali che sono all’inizio del processo che ha

    portato al sistema attuale, quel sistema che vorrebbe contestare” (1970, 31). La

    “violenza” delle istituzioni totali della società che si voleva contestare si trasferì, con

    l’enfatizzazione estrema del mito della rivoluzione e dell’“uomo nuovo”, insieme a

    quello giovanilistico, nel movimento del ’68, allontanandolo definitivamente proprio

    da quelle fonti filosofiche che avrebbero potuto fornire alla ‘naturale’ ribellione e

    indignazione giovanile un quadro più positivo, il senso di una nuova misura, una

    forma più alta di convivenza sociale e civile. Ciò che si determinò fu anche un

    essenziale cambio di paradigma culturale, con il quale ancora oggi la storia

    occidentale sta cercando di fare i conti. Se non un tramonto certamente una

    prolungata eclissi dei valori della tradizione europea, e, come avrebbe osservato un

    protagonista di quegli anni, J. Ratzinger, “l’ultima cesura storica in seno

    all’Occidente…inizio o esplosione della sua grande crisi culturale”.

    A distanza di cinquant’anni da quegli eventi vi è oggi chi, non a caso, pone in

    relazione quella ‘ultima cesura storica’ dell’Occidente con una “prima generazione

    incredula” di giovani appiattiti in un nichilismo banale e pratico. Nel ’68 si condensa

    e precipita così una inquietudine, già ‘postmoderna’ nella sua portata, che percorre

    tutto il Novecento, e giustamente vi è chi ha parlato di un deja vu: il

    dannunzianesimo, la Carta del Carnaro e Fiume, un ‘nietzschianesimo’ che diventa il

    denominatore comune di molte generazioni, fino a quella del ’68. Da una parte la

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    rivendicazione di una “nuova soggettività”, come nuova fondamentale tappa verso la

    realizzazione di una “cultura dell’autenticità”, piena realizzazione del progetto

    ‘Moderno’, un libertarismo che genera i movimenti pacifisti, quelli ecologisti, di

    rivendicazione dei diritti civili, ma anche una antropologicamente distruttiva

    “rivoluzione sessuale”: una vera e propria rivoluzione dei costumi, destinata a

    rimanere e a produrre un enorme mutamento socio-culturale. Ha ragione un bravo

    giornalista come Toni Capuozzo quando dice che il ’68 è stato moltissime cose

    immateriali: “la musica, i poster, Bandiera gialla alla radio, la scoperta dei ‘giovani’ a

    livello planetario” ma anche di moltissime cose materiali: “l’eskimo e le Clarks, le

    minigonne, gli stivaletti, i mangiadischi, il ciclostile e il megafono”, e quindi

    “l’assemblearismo” ma anche il “nomadismo e il misticismo”. (Capuozzo 2018, 11).

    L’“emergere del nuovo valore fondamentale del se-stesso” (Cotta 1978, 127), esposto

    al rischio di perdere ogni cifra normativa dell’esistenza e il senso della non

    negoziabilità delle opzioni etiche più alte, in sé oggettive e vincolanti per tutti. Ma

    dall’altra l’esplosione di una violenza nichilistica le cui radici storiche affondano

    addirittura nell’Ottocento Cfr. Strada, 2018), un revival politico-romantico che si

    concluderà in un “violento illiberalismo intellettuale” (Lübbe 2007, 153). Uno

    “spirito rivoluzionario” nel quale, tuttavia, riemergeva anche qualcosa che è e rimane

    geneticamente inscritto nella cultura europea, l’idea biblica dell’”Esodo” (Cfr.

    Walzer, 1986). La traccia di quella “immanente dinamica universalistica” che si

    collega ad un tratto preciso della tradizionale autocoscienza europea: la convinzione

    dell’esistenza di un diritto naturale, secondo cui “ogni tradizione, allorché limiti la

    libertà dell’uomo, deve giustificarsi con una motivazione” (Spaemann 1987, 6).

    Qualcosa che in Occidente sembra destinato a riconsegnare ad ogni generazione uno

    specifico compito, ma anche qualcosa che richiede che ogni generazione si riappropri

    dell’ontologica libertà della natura umana. Un’antropologia capace di misurare

    condizioni umane e sociali del proprio tempo con un parametro e un criterio

    universali: l’idea per cui “ogni uomo è immagine di Dio—e ha diritto a una patria e

    alla libertà, e ogni popolo ha diritto all’autodeterminazione” (Spaemann 1987, 7).

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    Un’antropologia dalla quale il ’68 in un qualche modo sorse ma che, per

    paradosso, proprio il ’68 rifiuterà. Del Noce lo avrebbe chiamato “suicidio della

    rivoluzione”. Perché la ricerca di una società più umana e migliore, al servizio di una

    più consapevole autenticità personale e di una maggiore quota di libertà civile, si è

    alla fine pervertita in una “apparente tolleranza” e “in un totalitarismo reale”? In un

    antigiuridicismo che avrebbe negato ogni misura e forma alla vita sociale e alla

    relazione tra le persone? Perché la “ricerca della comunità” si è tradotta in una forma

    di radicale assenza di dialogicità, di rispetto, di misura? Perché, soprattutto nel nostro

    Paese, “il comune stato d’animo di una generazione” ha inaugurato “gli anni di

    piombo“ ma anche la stagione delle stragi impunite, “la notte più lunga della

    Repubblica (1968-1989)”? Perché siamo ancora immersi in un “immobilismo

    storiografico” e interpretativo, come lo chiama E. Galli della Loggia, che non

    consente alle differenti culture politiche di uscire dalla logica e dalla morsa della

    nostalgia/deprecazione, di elaborare una “memoria condivisa” e pacificatrice?

    Molti sono stati i modi di vivere il sessantotto. P.P. Pasolini, il “mancato poeta del

    ‘68” (famosa la sua poesia dopo gli scontri di Valle Giulia in cui prendeva le difese

    dei poliziotti - questi sì, figli di proletari -), ha parlato di una mutazione antropologica

    verso il soggettivismo. J. Habermas, il maggior esponente contemporaneo della

    Scuola di Francoforte (quella scuola che per alcuni aveva fornito la linfa teorica vitale

    al Sessantotto stesso), parlerà di Linksfaschismus (fascismo di sinistra). E vi fu anche

    chi (non furono pochi) che visse il Sessantotto nella prospettiva non di chi lo fece ma

    di chi lo subì, e che oggi lo ricorda come una “nube tossica mitizzata”, una

    “intolleranza permissiva” (Veneziani 2007, 9).

    Modernizzazione, antiautoritarismo, nuovi costumi sociali meno ipocriti ma anche

    una nuova ‘violenza sociale’: quale fu la vera e perdurante cifra del Sessantotto?

    Tutte queste dimensioni furono presenti, ma per quanto quella che nel decennio

    1968-1977, soprattutto nel nostro Paese, prevalse sia stata quella rivoluzionaria e

    violenta, quella che invece si doveva rivelare come la più duratura e vitale è stata la

    dimensione antropologica ed esistenziale, un processo di modernizzazione delle

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    coscienze dagli esiti molto problematici. La “società italiana è una società di soggetti

    solo dal ’68 in poi”, dice Galli Della Loggia, una “gigantesca tappa dello sviluppo

    dell’individualismo”: una “esplosione di soggettività nuova”. Una conquista di

    autonomia soggettiva e di libertà personale, ormai irreversibile ma anche

    antropologicamente indeterminata. Per Marco Boato (uno dei suoi leader) fu

    l’antiautoritarismo, il rifiuto dei “padri”, il denominatore comune di questo

    movimento. Un soggettivismo che poneva in discussione ogni istanza etica esterna

    all’individuo. L’obbedienza non era più una virtù (don Enzo Mazzi e la comunità di

    base dell’Isolotto: cfr. Capuozzo 2018, 83: ‘La tonaca non è più un’obbedienza’). Per

    Franco Piperno o Mario Tronti, il Sessantotto coincise con la coscienza che la classe

    operaia “era l’unica forza rivoluzionaria che controlla, minacciosa e terribile, l’ordine

    presente”. Parole oscure e ambigue che nascondevano la riproposizione di

    un’illusione antica: l’idea che per eliminare la violenza sia necessario ricorrere ad

    essa, e dunque l’idea di rivoluzione come “un inizio del tutto nuovo, senza

    precedenti, come dopo un terremoto che abbia fatto tabula rasa dei vecchi edifici”

    (Cotta, 1978, 24).

    In Italia il Sessantotto coincise dunque con una modernizzazione delle coscienze

    che “si abbigliò subito con le vesti di una politicità estrema e dirompente” (Galli

    Della Loggia, 2018, 226), la cui fragilità antropologica non avrebbe impedito né la

    degenerazione violenta, e nemmeno - nel giro davvero di pochi anni - un

    capovolgimento radicale nel rifiuto stesso della politica e in una nuova illusione

    generazionale non meno perdente: la cultura del disincanto e del riflusso.

    2. Prodromi e cronologia. Il ’68, soprattutto nel nostro paese, ha come premessa

    il boom economico e la grande trasformazione della società italiana che avviene negli

    anni sessanta: forte migrazione dal Sud al Nord, crescente disagio operaio nelle

    fabbriche che arriva ad esprimersi nella insofferenza e rottura con la sinistra

    tradizionale, la saldatura fra lotte operaie e lotte studentesche: un’anticipazione

    significativa si ebbe nel 1963 con la contestazione, del tutto imprevista, del segretario

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    del PCI Togliatti alla Normale di Pisa. Nel 1960 vi erano stati i fatti di Genova: la

    forte contestazione contro il governo Tambroni (poi costretto dimettersi) per aver

    consentito lo svolgimento del Congresso del Movimento Sociale Italiano in quella

    città, medaglia d’oro della Resistenza. In quelle giornate la violenza dei portuali

    “armati di ganci micidiali” fu la protagonista degli scontri.

    Nell’autunno del 1967 gli studenti occupano la Cattolica per protestare contro

    l’aumento delle tasse; il 1 marzo 1968 gli scontri di Valle Giulia fra gli studenti che

    avevano occupato la Facoltà di Architettura e la polizia, mentre continuava

    l’occupazione della Facoltà di Sociologia a Trento iniziata il 31 gennaio. Occorre

    ricordare anche il contesto internazionale: nel 1963 J.F. Kennedy viene assassinato;

    nel 1964-1965 all’Università di Berkeley nasce il Free Speech Movement.

    Successivamente gli assassinii di Martin Luther King e di Robert Kennedy. Circa

    dieci anni prima vi era stata l’invasione sovietica dell’Ungheria (1956), la famosa

    primavera di Praga (il prodromo di un ’68 dimenticato e rimosso a lungo, quello

    dell’Est); la rivoluzione culturale di Mao iniziata nel 1966. Un ruolo non meno

    rilevante lo ebbero le contestazioni per la guerra in Vietnam. Nel 1969, uno degli

    eventi più drammatici del nostro Paese, la strage di Piazza Fontana.

    3. La deriva terroristica. Secondo la ricostruzione di M. Brambilla (1993), anche

    se resta difficile se non impossibile datare l’inizio della violenza ‘politica’ in Italia,

    una data e un nome risultano sufficientemente significativi: “La data è il 19 novembre

    1969 e il nome è quello di Antonio Annarumma, ventiduenne agente di polizia che

    quel giorno cadde a Milano” (Brambilla 1993, 36). La città di Milano si era

    progressivamente trasformata in un quotidiano teatro di scontri fra opposte fazioni

    fino a divenire la “capitale italiana della violenza politica”. Sono anni in cui si

    contano molte vittime sia dell’estremismo di sinistra che di quello di destra. Gli

    assassini politici di Sergio Ramelli (19 anni) ‘sprangato’ da un collettivo studentesco

    di Medicina e di Alberto Brasili (19 anni), accoltellato da cinque estremisti di destra,

    si possono considerare come gli eventi-simbolo di quegli anni drammatici. Due

  • 8

    giovani di appena diciannove anni, vittime di una diffusa “vigliaccheria”: con la vita

    si pagava la fedeltà alle proprie idee (Ramelli), con la vita si pagava il fatto di

    transitare con un ‘eskimo’ addosso per un luogo proibito della città, controllato dalla

    fazione politica opposta. Il culmine dei cosiddetti “anni di piombo” sarà il rapimento

    e l’assassinio di Aldo Moro e dei 5 agenti della sua scorta (9 maggio 1978), ad opera

    della organizzazione terroristica delle Brigate Rosse (difficile contare esattamente il

    numero di rapimenti politici, gambizzazioni, assassini di cui questa formazione si è

    macchiata in pochi anni).

    Con l’omicidio di Aldo Moro, si registra non soltanto il culmine della violenza

    terroristica in Italia ma anche l’inizio del suo inesorabile declino, con una riscossa

    delle istituzioni del Paese, di una coscienza civile per troppo tempo rimasta silente e

    imbrigliata.

    4. La sottovalutazione della violenza e il ruolo dei media. Un ruolo cruciale di

    sottovalutazione spesso ideologica del fenomeno del terrorismo in quegli anni lo ebbe

    in generale la stampa italiana. Brambilla ha dedicato un libro significativo al

    “conformismo, i silenzi, l’autocensura” che distinsero gli organi di stampa di allora.

    Per molto tempo le “Brigate rosse” continuarono ad essere considerate “sedicenti”:

    come testimonia il famoso articolo di Giorgio Bocca su “La favola delle Brigate

    rosse”, secondo il quale i brigatisti erano soltanto “professionisti della provocazione”,

    un fenomeno costruito a tavolino dai servizi segreti: “Ci fu un periodo – dice

    Brambilla – in cui tutto quanto veniva da sinistra era benedetto, mentre il sistema era

    sempre e comunque un mostro con le fauci spalancate” (1993, 8). Il linciaggio

    mediatico del Commissario Calabresi e il suo successivo assassinio (17 maggio 1972)

    si inscrive in questo clima. La vicenda del “Rapporto Mazza” resta emblematica

    anche del ‘disarmo’ delle istituzioni in quel frangente storico: il Prefetto di Milano

    Mazza, l’autore di un puntuale “Rapporto” sulla violenza politica milanese, sarà fatto

    passare “per un ottuso conservatore, non credibile”. Inviato il 22 dicembre 1970 al

  • 9

    Ministero degli Interni, tale “Rapporto” rimarrà a lungo colpevolmente ignorato e

    segretato.

    5. Opposte interpretazioni. L’interpretazione complessiva del “lungo ’68”

    (iniziato prima e finito dopo, come dice Marco Boato), continua a dividere la

    storiografia di quegli anni e le diverse culture politiche che ancora oggi la

    alimentano. Per Marcello Veneziani, il Sessantotto “fu il virus di un’epoca riassunto

    nella superstizione di una cifra” (2007, 9), “l’apoteosi del parricidio gioioso, il

    progetto di liberarsi dal padre per andare incontro ai ‘domani che cantano’”. Con un

    esito ben preciso: “L’esito è stato che alla perdita del padre ha corrisposto la perdita

    dei figli; il rifiuto del passato ha prodotto il rifiuto del futuro e il dominio egocentrico

    del presente. Il parricidio si fece infanticidio, tra aborti, contraccettivi e denatalità.

    Chi elimina il padre elimina il figlio. I sessantottini vollero sentirsi figli del proprio

    tempo anziché dei propri padri. E al proprio tempo sacrificarono anche quello delle

    generazioni venture. Cominciò con l’avvento di una generazione, che diventò poi una

    degenerazione” (2007, 11-12). Per Veneziani, e per molti studiosi prima di lui (un

    manipolo di pochi intellettuali coraggiosi: Del Noce, Cotta, Matthieu, Morra e pochi

    altri), con il ‘68 si è determinato il passaggio “dal vecchio universo cristiano-

    famigliare e nazionale a una neoborghesia spregiudicata e sradicata, priva di valori e

    pudori, irridente alla morale”.

    Secondo altri (si veda il recente doppio fascicolo della rivista ‘Micromega” sul

    ’68) la violenza, l’estremismo, l’utopismo non sarebbero i veri topoi del Sessantotto.

    La violenza sociale di quegli anni fu solo e semplicemente ‘difensiva’’. Le istanze

    più autentiche e perduranti del Sessantotto andrebbero cioè identificate nelle lotte per

    i diritti civili, nella conquista dello Statuto dei lavoratori, nella ‘Legge Basaglia’,

    nella istituzione del Servizio sanitario nazionale; nelle “Radio libere” e nella

    trasformazione del sistema dell’informazione. Una tesi che tuttavia, anche un ex

    magistrato come Giancarlo Caselli, proprio dalle pagine di Micromega ha

  • 10

    fortementente ridimensionato parlando apertamente di una “cultura della violenza

    politica e di ambiguità del movimento del ‘68”.

    Per Franco Piperno (leader e fondatore, insieme a Toni Negri e Oreste Scalzone di

    “Potere operaio”), al contrario, il Sessantotto fu il “paradiso ormai caduto in terra”, il

    “volto liberatorio della violenza”, (a p. 46 del suo libro sul Sessantotto ricorre una

    frase che fa letteralmente tremare i polsi: occorreva “non lasciare il male al

    Diavolo”). Era l’idea rivoluzionaria, marxista e maoista, per cui la democrazia

    volesse dire, parafrasando Lenin, “il fucile sulla spalla dell’operaio e dello studente”.

    Per Marco Boato la degenerazione violenta fu, dal punto di vista del significato

    civile del ’68, marginale: il vero ’68 coincidendo con la nascita dei movimenti

    ecologisti, pacifisti, antinucleari, dei diritti civili. Boato ricorda, ad esempio, la

    nascita della Comunità di Sant’Egidio, i notevoli risultati della sua parallela azione

    diplomatica. Ma certo, il ’68 fu anche una rivoluzione “del desiderio”, la quale,

    scambiando il principio di piacere con quello di realtà, era destinata a produrre una

    emergenza educativa, demografica e antropologica che oggi è sotto gli occhi di tutti.

    Il rifiuto del padre e l’antiautoritarismo si tradussero in disgregazione della famiglia,

    della scuola, della parrocchia, la liberazione sessuale in uso commerciale e

    consumistico del sesso e della donna. Come qualcuno ha detto, “Prometeo è stato

    sconfitto da Orfeo e Narciso” (Morra, 2018) , una rivoluzione antropologica in cui

    Freud batte Marx e nella quale “Agostino tace, e parla Vasco Rossi”.

    6. Imprescindibilità del tema ‘antropologico’. Assai interessante, in tal senso,

    appare la riflessione che a distanza di molti anni è stata avanzata da Mario Tronti,

    uno degli ex-leaders del ’68 e uno dei padri del cosiddetto ‘operaismo italiano” (la

    classe operaia come unica forza sociale capace di trasformare i rapporti economici e

    politici). Per Tronti la crisi odierna non è soltanto economico-finanziaria, essa

    “investe i legami sociali divenendo così crisi di civiltà e costringendoci a fare i conti

    con i processi di civilizzazione del passato. Penso, in particolare, alle forme più

    spinte di secolarizzazione, che hanno abbandonato l’uomo a se stesso e prodotto il

  • 11

    deterioramento delle relazioni personali. Questa è l’emergenza ‘antropologica’ (Cfr.

    Avvenire, 31 ottobre, 2012, 33). La “cultura radicale” che si è imposta, e che secondo

    Tronti, costituisce la vera e fondamentale eredità del ’68, genera oggi un

    individualismo narcisistico, un “nar-cinismo” (C. Soler) “che rinchiude la persona

    nell’isolamento triste della propria libertà assoluta, slegata dalla verità del bene e da

    ogni relazione sociale” (Tronti, ivi). Anche per Marco Boato i rischi che la

    democrazia corre oggi sono connessi ad una vera e propria “emergenza

    antropologica” in atto.

    7. La crisi della politica non si risolve con le ragioni della politica. Il tema della

    “emergenza antropologica”, oggi pienamente riemerso nel dibattito sul ’68 restituisce

    vigore alla tesi di Del Noce circa la “necessità di una interpretazione filosofica della

    storia contemporanea”. Nel suo sforzo di affermarsi storicamente, dice C. Taylor, la

    cultura moderna sembra rivelare qualcosa di grande ma anche di vacuo e di

    pericoloso. Nella misura in cui la concezione della libertà si autocomprende come

    radicale auto-determinazione e autonomia, essa nega l’intrinseca dialogicità del Sé

    umano e la necessità che quell’“animale razionale dipendente” (MacIntyre), che resta

    l’essere umano, ha di condividere orizzonti morali comuni. L’autenticità e

    l’autonomia a cui l’uomo moderno aspira non può cioè “essere difesa in maniere che

    distruggono gli orizzonti morali; questo ideale dell’autenticità infatti ha bisogno di un

    orizzonte di questioni rilevanti; la necessità dunque che la libertà si misuri con

    orizzonti morali comuni e condivisi” (Taylor, 1994, 65 e sgg.). Se questo non

    avviene, la cultura dell’autenticità si banalizza e perverte in vuoto individualismo e

    narcisismo. La politica si sostituisce in tal modo alla religione e alla filosofia, la

    politicizzazione estrema (“tutto è politica”) conduce inevitabilmente al “suicidio della

    rivoluzione”. Senza l’appello a valori permanenti non può nemmeno essere salvato

    l’aspetto positivo della società tecnologica (Del Noce 1970, 17).

  • 12

    8. Perché la violenza? L’antigiuridicismo e la necessità di ritrovare il nesso

    libertà-rispetto L’antigiuridicismo, è il frutto malato (non inevitabile) dell’emergere

    “del nuovo valore fondamentale del sé-stesso”, una assolutizzazione del soggetto, sia

    individuale che collettivo, che non conclude in una maggiore libertà individuale “ma

    nella sovranità anonima del tutto al posto della responsabile libertà dell’individuo”

    (Cotta, 1978, 80). La protesta e la rivolta ricadono nella violenza quando si pensa di

    poter scindere il momento negativo della critica e della “distruzione” d quello

    positivo: quando questo accade, s’insinua inevitabilmente un senso apocalittico che

    conferisce novità alla violenza odierna: “La violenza è ora finalizzata a dischiudere

    un nuovo destino: non più una violenza subita, e quindi priva di senso, come nel

    passato, ma una violenza voluta consapevolmente” (Cotta 1978, 48).

    In Stato e rivoluzione Lenin non esita ad affermare che “i servi del capitalismo

    vanno distrutti fisicamente”. La contraddizione in cui cade questa posizione filosofica

    è sempre la stessa: per eliminare la violenza è necessario ricorrere ad essa. Con il

    Sessantotto, in questo senso, e in una sua componente decisiva, è stato superato il

    tradizionale giudizio negativo sulla violenza: “La violenza torna, come una marea, a

    invadere il terreno (ideale e pratico) dal quale si pensava fosse stata costretta a

    ritirarsi. E vi torna non già per una causa naturale, per una sorta di meccanica

    alternanza, ma perché chiamata volontariamente” (Cotta 1978, 48). Viene così meno

    la capacità di distinguere tra ‘violenza’ e ‘forza’. L’atto violento ha suoi caratteristici

    tratti: quello della immediatezza (non c’è mediazione né meditazione), della

    discontinuità (l’atto violento non si distende in una attività mediata, normale, è una

    esplosione, uno scoppio), della sproporzione allo scopo (l’atto violento, essendo

    immediato, si rapporta a uno scopo ma non in maniera calcolata), della non

    durevolezza (si esaurisce con rapidità, senza mai acquisire una durata consistente) e

    della imprevedibilità (nel nascere, nell’esaurirsi, nella direzione, nel risultato). Solo la

    ‘forza’ conserva misura e forma, proporzionalità e durevolezza. Ma chi s’impossessa

    dell’altro con la violenza “si autospossessa del proprio sé: cede all’animalità di cui

    parla Kierkegaard e decade dalla propria spiritualità, come dice Scheler” (Cotta 1978,

  • 13

    73). Ma nella ribellione al diritto (così diffusa proprio in un movimento come il ’68)

    si palesa anche una precisa posizione metafisica: la concezione dell’uomo come Dio

    (Cotta 1978, 110), dal momento che “la semplice presenza del diritto attesta ch’egli,

    l’uomo, non è Dio, non è né pura bontà né onnipotenza”.

    Quale lezione trarre dunque da questa complessa vicenda che chiamiamo

    “Sessantotto”, certamente molto più articolata di quanto possano suggerire queste

    riflessioni, un’epoca che ancor oggi ci unisce soltanto nel riconoscimento della sua

    crucialità, della sua l’assialità per i decenni successivi? Vorrei dire: la necessità di

    una nuova riflessione sulla “metafisica della soggettività”, sui suoi esiti distruttivi e

    sulle sue potenzialità ancora tutte da scoprire. Il grande tema del nostro tempo, quella

    riflessione su libertà e limite, su autonomia e norma, e su quella idea di forma che,

    come ben vide il più geniale dei sociologi del Novecento, Georg Simmel, non è

    sempre e soltanto ostacolo alla fioritura dell’uomo e della società, ma una sua

    premessa necessaria.

    9. Bibliografia minima

    R.A. Nisbet, La comunità e lo Stato, Edizioni di Comunità, (1953) tr.it. 1957

    A. Del Noce, L’epoca della contestazione, Giuffrè, 1970

    J. Danièlou, Contestazioni contestabili, Rusconi, 1970

    M. Horkheimer, Rivoluzione o libertà? Conversazione con Otmar Hersche,

    Rusconi, 1972

    A. Del Noce, Il suicidio della Rivoluzione, Rusconi, 1978

    S. Cotta, Perché la violenza? Una interpretazione filosofica, Japadre editore, 1978

    E. Samek Lodovici, “1968. I cattolici nella tempesta”, in: Dov’è finito il ’68?. Un

    bilancio per gli anni 80, Ares, 1978, ora ripreso in: Studi cattolici, Gennaio 2018, pp.

    8-13;

    G.F. Morra, La cultura cattolica e il nichilismo contemporaneo, Rusconi, 1979

    M. Walzer, Esodo e rivoluzione, (1985), tr.it. 1986, Feltrinelli

    E. Samek Lodovici, Metamorfosi della gnosi. Quadri della dissoluzione

    contemporanea, Edizioni Ares, 1991;

  • 14

    R. Spaemann, “L’educazione ovvero: principio di piacere e principio di realtà”, in:

    Concetti morali fondamentali, Piemme, 1993, pp. 33-44;

    M. Brambilla, L’Eskimo in redazione. Quando le Brigate rosse erano ‘sedicenti’,

    Bompiani, 1993

    C. Taylor, Il disagio della modernità, (1991) tr.it. 1994, Laterza

    R. Spaemann, “Universalismo o eurocentrismo?”, in: Il Nuovo Areopago, anno 6,

    numero 3, autunno 1987, pp. 5-13

    L. Marino, “Così uccidemmo il commissario Calabresi”, Ares, 1999

    A. Cavallina, La piccola tenda d’azzurro che i prigionieri chiamano cielo. Anni di

    piombo, carcere, ricerca d’identità, Ares, 2005

    M. Veneziani, Rovesciare il 68. Pensieri contromano su quarant’anni di

    conformismo di massa, 2007, Mondadori

    H. Lübbe, “Il 1968. Un revival politico-romantico nella storia tedesca”, in: La

    politica dopo l’Illuminismo. Saggi filosofici, (2001) tr.it. 2007, Rubbettino, pp. 153-

    178;

    M. Invernizzi, P. Martinucci (a cura di), Dal ‘centrismo’ al Sessantotto. La

    preparazione di u a rivoluzione nella cultura e nel costume, Ares, 2007

    F. Piperno, ’68. L’anno che ritorna. Intervista a cura di P. Casamassima, Rizzoli,

    2008

    M. Walzer, “La critica comunitarista del liberalismo”, in: Pensare politicamente.

    Saggi teorici, (2007) tr.it. 2009, Laterza, pp. 88-108;

    P. Barcellona, P. Sorbi, M. Tronti, G. Vacca, (a cura di), Emergenza antropologica.

    Per un a nuova alleanza tra credenti e non credenti, Guerini e Associati, 2012

    P. Barcellona, L’anima smarrita. La questione antropologica oggi, Rosemberg e

    Sellier, 2015

    M. Bocci, “Perché il sessantotto nacque proprio in Cattolica”, in: Vita e pensiero,

    5, ottobre 2017, pp. 5-10;

    Micromega, Sessantotto!, 1/2018, pp. 230 e 2/2018, pp. 207

    E. Galli Della Loggia, Speranze d’Italia. Illusioni e realtà nella storia dell’Italia

    unita, Il Mulino, 2018

    V. Strada, Il dovere di uccidere. Le radici storiche del terrorismo, Marsilio, 2018

    M. Boato, Il lungo ’68 in Italia e nel mondo. Cosa è stato, cosa resta, La Scuola,

    2018

  • 15

    T. Capuozzo, Andare per i luoghi del ’68, Il Mulino, 2018

    G.F. Morra, Baby gang, figli dei figli del ’68, in: Italia Oggi, febbraio, 2018