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1 SIMONE DE FRAJA IL BANDO DELLA FORCA RITUALI DI GIUSTIZIA IN AREZZO NEI SEC. XVII-XVIII Estratto dal Bollettino della Associazione Brigata Amici dei Monumenti 71- II Semestre 2000

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SIMONE DE FRAJA

IL BANDO DELLA FORCA

RITUALI DI GIUSTIZIA IN AREZZO NEI SEC. XVII-XVIII

Estratto dal Bollettino della Associazione Brigata Amici dei Monumenti

71- II Semestre 2000

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IL BANDO DELLA FORCA

RITUALI DI GIUSTIZIA IN AREZZO NEI SEC. XVII-XVIII

Estratto dal Bollettino della Associazione Brigata Amici dei Monumenti

71- II Semestre 2000

SIMONE DE FRAJA

Se dal momento comunale agli albori del Granducato di Toscana numerosi sono stati gli

sconvolgimenti politici e le innovazioni scientifiche e culturali, tenace è stata, sotto alcuni

punti di vista, anche una certa forma mentis di stampo medievale. Nel secolo XVI mura

ancora rinserrano la città di Arezzo; non sono più le estese mura tarlatesche ma è ancora

evidente la dicotomia tra l’aperto ed il chiuso, tra il vuoto ed il pieno, tra il dentro ed il fuori.

Sono dicotomie che trovano concretezza

nell’assetto urbanistico, che a sua volta è

specchio della dualità ben radicata nell’animo

e nella mente della cellula base della società:

l’uomo, l’homo civis. Si tratta infatti di un

“dentro” ordinato, specchio della civilitas,

contrapposto ad un “fuori”, espressione della

ferinitas, del caos, dell’inconnu. Tra le due

zone esiste un confine ben evidente marcato;

nella realtà urbana il limite coincide con la

cinta muraria e successivamente con il

confine del ducato o del regno. Binomio

strettamente legato ai precedenti è quello che

risulta connesso con ciò che è puro e ciò che non lo è, nodo portante del rapporto dell’uomo

con la morte, della dicotomia vita e morte. Nella Roma antica il vincitore che passava la porta

triumphalis doveva purificarsi per non contaminare i vivi, e la città, del sangue dei suoi vinti;

l’ingresso ai templi cristiani non era, e non lo è oggi, mai sfornito di un bacile d’acqua ove

potersi purificare lasciandosi alle spalle le “lordure” terrene indegne di accedere in un luogo

sacro. Così da sempre la giustizia, specie quella capitale, ebbe, in varie culture, procedure che

si muovevano in modo da accordarsi con le esigenze di punizione del crimine e nel contempo

di purificazione come per esorcizzare la macchia di un omicidio tuttavia imposto dalla legge e

quindi “necessario”. Il concetto ancor oggi fondamentale del nulla poena sine lege era

particolarmente vivo già negli ordinamenti di questo periodo e numerose sono le condanne

per i vari reati anche se non tutte trovavano concreta applicazione. Le modalità punitive erano

molteplici e più o meno dolorose, ma tendenzialmente vigeva il concetto che il reo dovesse

soffrire il meno possibile e questo dipendeva oltre che dal sistema di esecuzione, anche

dall’esecutore materiale, il boia; questi, paradossalmente, doveva essere un buon boia. Molti

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sono stati i casi di esecuzioni tragicamente mal riuscite in cui il reo moriva in atroci agonie o

dissanguamenti per imperizia del carnefice; in questi frangenti si aveva una rigida inversione

dei ruoli civili: il popolo da spettatore terrificato si trasformava in protagonista attivo,

giungendo sino a lapidare il boia inesperto, il quale, già vivendo al margine della socialità a

causa della sua professione, poteva essere civilmente (e talora anche realmente) morto,

estromesso cioè dalla comunità. Tutto ciò non tanto per un sentimento di compassione verso il

giustiziato, ma per quel senso di radicato dualismo tra puro ed impuro che era a fondamento

dell’ evento “esecuzione capitale”. Il momento della pena diviene dunque una sorta di

spettacolo, come un dramma teatrale in cui tutti i cittadini hanno un proprio preciso ruolo e

copione: il boia, il condannato, i Fratelli Confortatori, il popolo che osserva, grida, inveisce e

si sfoga lanciando sassi al condannato e talvolta al carnefice, la figura della morte legittima. Il

momento supremo è preceduto da numerosi atti che si ripetono ossessivamente ad ogni

esecuzione, divengono rito con funzione fortemente apotropaica; è un tentativo di rimozione

del mondo interno di ogni individuo tramite la rievocazione di azioni formali e stereotipate.

Solo così, attraverso la ritualità, si cerca di avere un controllo sul naturale mediante metodi e

tecniche superstiziose, mirate a far sì che l’impurità di cui si è macchiato il reo rimanga con

lui relegata per sempre. Fondamentale è il manoscritto aretino dell’” Istruzione segreta per

l’associazione dei Rei al Patibolo ” (1757)1 di cui sommariamente si occupò U.Viviani

tralasciando uno degli aspetti cruciali dell’esecuzione capitale per impiccagione di cui si dirà

tra breve.

Numerosi dunque erano i sistemi di uccisione “legalizzata”; larghissimo uso ebbe in

Toscana e ad Arezzo la morte per condanna al “bando della forca”, mentre meno frequenti

erano le condanne allo

squarto (aggiuntiva rispetto

alla forca) o al “bando della

testa” cioè la decapitazione.

Difficilmente la pena della

forca era comminata alle

donne: era destinata

soprattutto ai ladri, agli

omicidi e ai banditi.

Particolarmente rigida verso

questi ultimi era la legge del

31 ottobre 1637 che,

riassumendo le misure

punitive delle precedenti

normative, intraprendeva una

vera crociata contro coloro

1 Ms nr. 12 in BCA. Vd. U.Viviani, Curiosità storiche e letterarie Aretine nr 4, Arezzo 1921

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che “secondo l’uso del volgo son chiamati assassini per ruberie, o delitti con violenza”. Alla

pena ordinaria della forca, la legge, “stante l’atrocità e la frequenza di tali delitti”, voleva che

sia aggiungesse “anco lo squarto” (Cantini XVI). Lo squarto consisteva nel dividere in quarti

il corpo del condannato, generalmente dopo la sua morte avvenuta per impiccagione, ed

esporli ai “quattro canti” della città. Era una pena infamante specialmente per la famiglia del

reo sulla quale ricadeva la vergogna, oltrechè per la morte poco decorosa per impiccagione

come per i ladri e assassini, anche perché il corpo dilaniato subiva l’onta e gli scempi dei

probabili nemici alla cui libera disposizione era lasciato per giorni. La decapitazione

generalmente subiva applicazione in base al censo di appartenenza del condannato ed era un

trattamento riservato alla classe signorile che si svolgeva alla presenza di pochi astanti.

Gran parte delle condanne registrate negli “Specchietti dei condannati” di Arezzo riporta il

“bando della forca” che in percentuale minore veniva realmente applicato. Numerose sono

anche le condanne alla “galera” o “condanna al bagno”, generalmente comminate in presenza

di reati meno gravi o non particolarmente atroci, che

consistevano nell’inviare il reo al “bagno penale”,

condannandolo così alla reclusione ed ai lavori

forzati, come alla condizione di rematore nelle navi o

“galere” per il lasso di tempo corrispondente alla

durata della pena irrogata. Particolarmente

infamante, anche per la famiglia del reo, era la

condanna a sfilare al pubblico ludibrio con il

“breve”, cioè cartello o cartelli appesi al collo che, in

poche righe esponevano il reato commesso

(generalmente non grave2) o ironizzavano sulla sorte

del condannato. Spesso le sfilate dovevano essere

fatte cavalcando un asino con

mani e piedi legati, indossando

ridicoli copricapo che

contribuivano ad esaltare

l’infamia del reo. Di molte

condanne i compilatori degli

“Specchietti” hanno lasciato

traccia stilizzando

sapientemente gli elementi

essenziali che connotavano la

pena. Famoso, per la

decapitazione illustrata, è il

brogliaccio che mostra un corpo

2 Specchietti nr.10 carta 9: “condanna andare sul Asino con mitria e breve [..] per calunniatura e falsità di fede”.

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semi- inginocchiato, alle cui spalle fuma, quasi allegramente, il camino di una casa, mentre la

testa giace in un angolo; altrettanto noto, pubblicato dal Viviani3, è il brogliaccio che raffigura

il manigoldo o boia di Arezzo. Ugualmente espressivi e significativi sono gli schizzi a penna

che qui si riportano, tratti anch’essi dagli “Specchietti dei condannati”.

La condanna era dunque un evento che non poteva prescindere, una volta emessa, dalla vox

populi; il popolo, spettatore come in teatro, vedeva

rappresentata una tragedia cui poteva prendere larga

parte. Di valore monitorio ed educativo,

specialmente la condanna alla forca constava

previamente di un lungo preambolo, contraddistinto

da una altissima ritualità, prima di giungere al

momento supremo presso il patibolo. Come descritto

dal manoscritto dell’”Istruzione segreta” il reo,

prima di giungere al luogo del supplizio doveva

percorrere la cosiddetta “gita”; si trattava di un

itinerario attraverso la città esposto al pubblico

ludibrio, quasi come una sfilata allegorica in cui il

condannato talora poteva essere anche torturato o

mutilato. La gita richiamava da vicino la “via

dolorosa” ed infatti prevedeva tappe di fronte a

tabernacoli o chiese in cui il reo, fermandosi, veniva

sostenuto, confortato od esortato ed aiutato nella preghiera dai Fratelli dell’Associazione dei

Rei al Patibolo. L’”Istruzione segreta” prevede anche il sotegno del reo in preda alle più

terribili angosce, oppresso, deriso o incitato dalla folla astante, con “una boccia con moscado

e altri leggieri commestibili e ristorativi per

rifocillare il languido paziente quando lo voglia”. Il

corteo, dunque, sfilava nel cuore della città partendo

dal palazzo Pretorio, ove veniva rinchiuso il

condannato, e si snodava nella via di Vallelunga per

uscire infine dalla porta di S.Lorentino verso il luogo

del supplizio. Ecco che il luogo prescelto nei secoli

XVII e XVIII per l’esecuzione capitale, in armonia e

nel rispetto della dicotomia puro/impuro, era situato

fuori dalle mura urbane in modo tale da non

macchiare la città e i suoi abitanti del sangue

(impuro) del reo. Il luogo, ancora oggi denominato

Crocifisso delle forche, accoglieva i patiboli che

venivano edificati per l’occasione. La struttura della

3 U.Viviani, Arezzo e gli aretini, Arezzo 1922; Articolo di U.Pasqui “Il ritratto del boia di Arezzo del 1556”, p.171

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forca ricorda appunto quella del forcone per la paglia ed il

fieno, come fosse un pettine: due pilastri verticali sotengono

un terzo disposto ad architrave da cui si fa pendere il cappio

con il condannato. L’iconografia raccolta negli “Specchietti”

mostra i sostegni verticali costituiti da fusti di albero, talvolta

minuziosamente disegnati con i tronconi dei rami laterali

mozzati, talvolta con abbozzate le radici appena divelte.

Alcune piccole croci venivano infisse ai lati del tronco

orizzontale per custodire, confortare ed accompagnare

l’impiccato. Il legname così utilizzato diveniva parte

integrante, con l’appeso, di un tutto inpuro: il patibolo infatti

veniva innalzato con la partecipazione di molti uomini in

modo tale da potersi suddividere, e quindi attenuare, la

macchia che da tale nefanda costruzione automaticamente

derivava. Ugualmente, ad esecuzione avvenuta, il legname

difficilmente trovava un nuovo impiego né come materiale

da costruzione né come comburente. La corda o “canapo” da

un capo veniva fissata alla traversa e dall’altro veniva

approntato il capestro: un grande occhiello senza nodo

scorsoio. Generalmente il boia apponeva il “collare” al

condannato, poi lo trascinava per mezzo della scala sino

all’altezza dell’architrave e infine fissava la corda. Il

condannato veniva issato sulla scala con le mani legate e con la schiena rivolta verso i gradini;

davanti al volto, uno dei sei Fratelli dell’”Associazione rei al Patibolo”, teneva una tavoletta

raffigurante sacre immagini o supplizi di martiri. Talvolta il condannato poteva proferire

qualche parola prima che il boia, con una spinta, o con un colpo allo stomaco per toglierli il

respiro, lo lasciasse penzolare dalla corda; per molto tempo la medicina ha attribuito gli

spasmi del condannato agonizzante alle forze magligne che in lui avevano trovato rifugio.

Generalmente la sopravvivenza del condannato oscillava dagli otto ai dodici minuti ma senza

l’uso del nodo scorsoio l’agonia poteva essere anche più lunga; talvolta qualcuno riusciva a

sopravvivere guadagnandosi, non sempre, la grazia. Dal momento che il nodo non si stringeva

attorno alla gola, il boia doveva procedere ad appesantire il corpo dell’impiccato

applicandogli pesi alle caviglie e, molto spesso, procedere anche ad una sorta di corpo a

corpo: dalla scala ancora posta a fianco del giustiziato, come mostra l’iconografia degli

“Specchietti”, il manigoldo si posizionava sulle spalle del morente, per appesantirlo, e

scendeva lungo il corpo pendente, fino a giungere a terra. L’uso della forca per le donne era

considerato molto più infamante che per i condannati maschi anche in ragione di questo

estremo contatto fisico e qualora una donna fosse stata condannata all’impiccagione era

necessario legarle la sottana alle caviglie. Appena spirato il condannato, se il reo non fosse

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stato condannato anche allo squarto o all’esposizione del corpo sulla forca, l’”Associazione

rei al Patibolo” si attivava per far discendere il corpo dalla forca: […] e subito il Fratello a ciò

destinato salirà sul Patibolo con la sud[detta] carrucola […] in mano e l'attaccherà alla

trave, e con la fune che penderà dalla detta carrucola cingendo sotto le braccia il cadavere

taglireà col coltello, che avrà a lato, il canapo a cui il Reo è appeso mentre intanto gli altri

due destinati Fratelli terranno un capo di detta fune dalla carrucola, e caleranno a poco a

poco il cadavere sostenuto da altri due fratelli destinati a riceverlo nelle braccia, e porlo

nella bara, che a tale effetto

dovrà già essere stata portata

sotto il corpo pendente del Reo.

I Fratelli procedevano alla

delicata cura del cadavere:

questa era una fase

particolarmente delicata ed

estremamente ritualizzata,

contrassegnata cioè da azioni

formali e stereotipate tramite le

quali, e solo così, era possibile

evitare per tutta la comunità la

contaminazione, l’infamia, la

macchia. Interessante a questo

punto è la parte tralasciata dal

Viviani4, del manoscritto dell’

”Istruzione segreta per

l’associazione dei Rei al

Patibolo”: […] il detto fratello

salito nel Patibolo dovrà doppo

tagliato il detto canapo,

tagliare altresì tutte le funi e

cordicelle che sono nella trave

e riporle in un canestro che

avrà appresso di se

spazzolando per ultimo diligentemente con la spazzola tutta la forca medesima in modo che

nulla affatto vi rimanga delle dette funi state istrumento della morte del Reo. Posto nella bara

con detto canestro e funi (avvertendo che nulla resti dei vestimenti di esso, ma tutto si

raccolto e messo nella bara medesima) cuoprirassi il tutto diligentemente col solito panno

nero e processionalmente col detto canto Miserere verrassi per la Porta di S.Lorentino al

Santuario Vecchio per la Via Sacra al Canto dello Spedale di S.Antonio e direttamente alla

chiesa Nostra portandosi la bara da sei fratelli già previamente destinati dal Sig. Priore.

La “gita” con le tappe secondo “L’istruzione segreta dell’Associazione dei Rei al

Patibolo”.

1. “Giunto a S. Francesco, il paziente genufletterà nella strada dirimpetto alla porta di

quella Chiesa ed adorerà con gli altri il SS. Sacramento esposto a tal fine in un altare portabile

4 U.Viviani, Curiosità storiche…: “Le ultime ore dei delinquenti aretini condannati alla forca”, p. 142

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dentro la porta suddetta trattenendosi fino a che sia data la Benedizione. Proseguirassi tosto la

processione ripigliando ìl canto delle Litanie”.

2. “In Vallelunga il reo genufletterà nella strada dirimpetto alla porta della SS. Nunziata e

farà una preghiera alla S. Vergine, Avvocata dei Peccatori”.

3. “Di là passando davanti alla Chiesa di San Lorentino ed al Canto alla Croce, perverrà il

paziente allo spedale di S. Lorentino, e qui, genuflesso avanti la porta di detto spedale,

adorerà il SS. Sacramento nella elevazione della messa che ivi si celebrerà all’ altare dello

spedale stesso, trattenendosi fino a che dal celebrante sia terminata la Messa”.

Note bibliografiche:

P.Odifreddi, Il Vangelo secondo la scienza, Torino. V ed. 1999

L.Cantini, Legislazione toscana raccolta ed illustrata, Firenze 1807

U.Viviani, Curiosità storiche e letterarie Aretine- nr. 4, Arezzo 1921

U.Viviani, Arezzo e gli aretini- nr.2, Arezzo 1922

F.Fineschi, Cristo e Giuda, Bruschi- Firenze 1995

L. Berti, La normativa sui panni funebri della Fraternita di Arezzo – in Annali Aretini vol.

III, Fraternita dei Laici, 1995.

Le immagini che accompagnano il testo ad eccezione del tracciato della “gita” sono state

tratte dagli “Specchietti dei Condannati” redatti dal 1556 al 1640 di cui si riporta la specifica

segnatura: Specchietto nr.4 c.111v; Specchietto nr.5 c. 103v; Specchietto nr.9 c.32r e c.46v;

Specchietto nr.10 c.12v, c.65r, c.9r. La raccolta di Specchietti si trova presso l’Archivio di

Stato di Arezzo e le fotoriproduzioni pubblicate in questo saggio sono su concessione del

Ministero per i Beni e le Attività Culturali ed è vietata inoltre la utleriore riproduzione o

duplicazione con qualsiasi mezzo.