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IL BARLUME Anno 3 - Numero 9 - Settembre 2009

Il Barlume A03 N09

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Mensile di arte

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IL BARLUMEAnno 3 - Numero 9 - Settembre 2009

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EDITORIALE

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Ecco sì, siete tornati dalle vacanze? E il posto com'era? Eh, com'era? Bello, eh? E il cibo? Il cibo? Vi siete mangiati le sebadas, dopo la paella, mentre eravate lì a digerire il cous cous? E i canederli come erano? Buoni, sì?

E si vede, lasciatevelo dire! La flaccidità ha preso il posto del tono che avevate acquisito in tempo per la prova costume. I lardelli colano e - secondo me - state sudando. Ma noi vi vogliamo bene così, empi, in tutti i sensi.

Tanto bene vi vogliamo che vi abbiamo preparato un Barlume delightfull, secco asciutto, senza un filo di grasso. Come una bresaola DOP. Così vi potete rimettere in forma, in men che non si dica. Buon appetito.

DePiCo

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L'EQUINOZIO DELL'AMORE

Il Diavolo, artista di celie mortali, costruì un ponte, chiedendo per sé la prima creatura che lo avesse attraversato; San Cadoco riuscì ad ingannarlo, dandogli il gatto nero di una donna del paese anziché l'essere umano che il demonio avrebbe desiderato possedere. Il gatto smise da allora di amare la sua padrona, nonostante le seduzioni e le cure della donna. Questa divenne la maledizione dell’Angelo Caduto: i gatti non potranno amare nessun essere umano.

Marta fu sempre estremamente attenta a non lasciarsi sfuggire un solo gemito, fosse di protesta o di piacere, nei lunghi anni di matrimonio trascorsi con suo marito, rinomato cardiologo fiorentino, nonostante la vasta e profonda erudizione teorica ottenuta da una cugina modenese, dalla quale trascorse le lunghe estati dell’adolescenza. In cuor suo, senza mai ottenerne piena consapevolezza, il silenzio pagava la costante presenza del marito, solerte giudice della qualità delle pietanze, dell’adeguatezza degli indumenti mondani della moglie e attento scrutatore delle pagelle scolastiche dei figli. Soleva definirsi, non senza una compiaciuta dose di ironia, un gatto mancato. In tale silenziosa contemplazione Marta vide trascorrere gli anni giovani, intrisi di palliativi balsami casalinghi, mentre il marito raccoglieva consensi professionali che aprirono alla coppia il privilegio di partecipare alle routine mediolocate proprie di una certa fascia di reddito; non ci fu cena provinciale, banchetto inaugurale o incontro culturale che non li vide presenti. Ciò che all’esterno apparve al mondo come solido equinozio tra eclittica di donna e equatore d’uomo, dall’interno si poteva più correttamente definire come la demente intersezione del silenzio con la paura. La pigrizia del marito tra le lenzuola era comprensibile stanchezza lavorativa, l’indifferenza emotiva come inevitabile prezzo di una infanzia defenestrata, le costanti fughe da casa come necessità di aggiornamento professionale. Eppure ognuno sa che i gatti non potranno amare nessun essere umano.

Denni Romoli

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LA DEMOCRAZIA PREVENTIVA

Nel XIV secolo, in una piccola cittadina francese, molte persone furono colpite da una malattia del Sistema Nervoso oggi nota come Còrea di Sydenham o, popolarmente, come Ballo di San Vito. Le cause dell'epidemia furono attribuite ai gatti, che furono arsi vivi nella piazza principale. Da quell'episodio nacque la tradizione di ardere vivi i gatti, che durò fino alla seconda metà del XVIII secolo, la quale consisteva nel chiudere in gabbiette di ferro, annualmente, tredici gatti e bruciarli vivi, per tutelare la popolazione dalle malattie.

Alla notizia che il paese sarebbe stato invaso dalla popolazione degli Ula-Uba ogni cittadino si sentì in cuor suo atterrito per le temibili conseguenze che sarebbero potute sorgere. Gli Ula-Uba, così dicevano alcuni esperti di etnoantropologia della locale università celermente intervistati dai giornalisti più insigni, avevano l’immorale abitudine di ruttare durante la cena, indifferenti all’ospite di turno di qualsivoglia livello sociale. Lo facevano con così tanta disinvoltura e con tale frequenza, raccontò il professor De Carolis, che durante una delle sue ricerche poté, citiamo testualmente, “constatare personalmente quanto l’aria circostante la capitale degli Ula-Uba, la città di Ula-Ula, fosse intrisa di ammorbanti miasmi certamente responsabili della recente moria dei Piri-Piri Culbianco, del Mestolone e del Beccamoschino, uccelli oramai estinti presso gli Ula-Uba”. Tale tesi trovò la controparte etica nelle parole televisive proclamate dal Vicerè Alvinsi, che reiterò coram populo il suo “deciso no ad una invasione d’alito che possa inquinare e indebolire l’identità d’afflati che ci accomuna”. In aggiunta, il sacerdote del Mediterraneo minore, per opera del suo trombettiere, sostenne che “ciò che Dio ha diviso dovrà restare diviso”.

Ogni cittadino si sentì in cuor suo sollevato quando si venne a sapere che la città di Ula-Ula era stata cannoneggiata e rasa al suolo durante la notte. Non si sa se gli Ula-Uba volessero davvero migrare verso il nostro paese, ma questa è democrazia preventiva, cari lettori.

Denni Romoli

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IMPROMPTU PER PENNA E DAGHERROTIPI ARRIVATI VIA E-MAIL

Il cuore rimbalza ticchettante fino al polso; mi domando che ora sia: fuori, le giornate si fanno già più brevi e la sera annega sorniona dentro ai comignoli dei poderi (zitti e vuoti come i corridoi della facoltà di Lettere).

Tornerò a casa fra i lunghi silenzi d’autunno, tenendo stretto qualcosa nella mano.

Giulio Aldinucci

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LE MANI HANNO CAPITO

In grembo le guardo come oggetti avulsi da me,come non fossero il mio rifugio dei tempi bui.In ciascun tratto si trova la mia storia.Lì, quel segno, è il segno del fornello, resto di una cena.Quell'altro, quel taglio, è il tentativo di allungare la fortuna.Non decido con la testa, e nemmeno col cuore.Ho sempre pensato con le mani.

Emidio Picariello

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22 AGOSTO 1968, ORE 02,00

Appena sveglio, la puzza di petardo detonato mi striscia nel naso.Non fissarmi così immobile, non guardare dirimpetto come se non potessi smettere.Eravamo al confine del mondo, lui ed io, ma non potevamo saperlo.Il fosso è lurido e abitato da zanzare e grilli.

- Potresti cantarmi, per favore, una canzone? –

BERETTA CALIRBO 22, LONG RIFLE, MODELLO 73/74.

E molta, molta sporca neve, dove non ne cade mai.«E lontano, lontano nel mondo, una sera sarai con un altro…»

BOSSOLI WINCHESTER

«…e ad un tratto chissà come e perché…»

una “H”, IMPRESSA NEL FONDELLO

«…ti troverai a parlargli di me.»

Non torno al tuo sorriso finché resta affilato,e riprendo i miei giochi di tenero odio.Chiedere di più, quella notte, voleva dire altra sporca, sporca neve.Tanta da non vedere oltre.Finalmente, in fondo al buio, dopo troppo camminare, la luce di una finestra accesa.

Alessandro Pagni

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Che siano maestre le scimmie di Chandigar che piangono ad ogni tramonto la perdita del giorno.E noi paralizzati da ieri e devoti a un domani di merda.

Lise Ergica

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Credete davvero che mi taglierò quella dannata vena?

Quel serpente in rilievo, gonfio e violaceo, che pulsa sotto la mia pelle?

Credete che lascerò questa valle di lacrime con un gesto estremo, maledicendo qualche vostro dio o bestemmiando contro invisibili mostri fatti dall’uomo?

Non ho tante pretese in tasca, non desidero darvi qualcosa di cui parlare, perché possiate mettermi in fila sullo scaffale dei vostri ricordi da sfigati.

Non sono nessuno, eppure in questi pochi anni di vita ho capito che le persone fanno di tutto, di tutto, per riuscire a conferire a questa fase qualcosa di mitico. Come se dovessero dimostrare qualcosa, sperando di non aver sprecato quell’infinitesimale scureggia nell’universo che è la loro vita.

Ah, quanto vi piace credere che nessuno abbia percorso la vostra strada!

Che i gesti che fate, di rivolta o di resa, alla fine siano un esempio, qualcosa da prendere in considerazione o da segnare sul diario. Come se il vostro cuore fosse puro.

Credete davvero che la farò finita in un lampo accecante? In una pietosa rievocazione di uno schifoso mito post-grunge?

Vi voglio confidare un segreto.

La sera, prima di provare a dormire, quando il silenzio albeggia e i fantasmi non rompono ancora le scatole, in quei momenti di stasi, mentre leggo un libro o un buon fumetto, a volte mi viene da pensare.

Poso ciò che ho in mano e mi affaccio alla finestra. E mentre una brezza leggera carezza qualcuno dei molti peli sul mio corpo avverto un brivido. Qualcosa che mi suggerisce di aver capito un punto fondamentale dell’intero disegno, anche se non saprò mai metterlo in parole.

E in quell’attimo, nonostante la mia ipocrisia, l’incoerenza e i molti, molti difetti, mi sento migliore di voi.

Questo mi regala un altro giorno.

Fabio Ricci

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Le foto di questo numero sono state scattate da

Costanza Maremmi http://www.flickr.com/photos/costanzamaremmi

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Anno 3Numero 9Settembre 2009

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