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Il buio oltre lo specchio

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Maria Lidia Petrulli, Fantascienza

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Maria Lidia Petrulli

IL BUIO OLTRE LO SPECCHIO

Storie di una realtà possibile

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IL BUIO OLTRE LO SPECCHIO Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2010 Maria Lidia Petrulli ISBN: 978-88-6307-318-8

In copertina: immagine fornita dall’Autore

Finito di stampare nel mese di Ottobre 2010 da Digital Print

Segrate – Milano

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A Fabio, i cui occhi guardano

oltre lo specchio.

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«E’ il mio tributo al Minotauro.» Si toccò una tempia. «Tutti ne abbiamo uno al

centro del labirinto… Lo crea la nostra ragione, e lui impone il proprio orrore.»

Il Club Dumas. A. Pérez-Reverte

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L’ULTIMO GIORNO Una luce sorgeva da dietro le montagne, l’uomo si volse nella sua direzione, sorpreso, estatico. « Roland! Roland! » La voce gli giunse da lontano e lui la scacciò volgendo ancor più il viso verso la luce accecante, il suo calore lo inebriava: “Il sole!” pensò, “Nuovamente il sole… Dopo tanto tempo!” « Roland! Svegliati, sta accadendo qualcosa, svegliati! Roland! » L‘urgenza e la paura di quella voce lo costrinsero a stornare l’attenzione dalla benefica fonte di luce e l’uomo cercò di riemergere; affannando si costrinse a volgere il proprio interesse a chi lo stava scuotendo, col modo di fare angosciato di chi che non ha più tempo. Lottò contro il desiderio di piangere e urlare che lui avrebbe dato ogni cosa per andare incontro alla luce, incontro a quel sole poi, finalmente, sbarrò gli occhi. Attraverso un inconsueto chiarore, vide lo sguardo di Annie velato di pianto. « Ti sei svegliato, finalmente, sta accadendo qualcosa di terribile. » La voce della donna era rotta da singhiozzi che non riusciva a frenare, il suo volto esprimeva disperazione. Roland si sollevò di scatto a sedere, completamente sveglio: il sole del suo sogno era svanito, ma dalla finestra priva di vetri proveniva una luce sempre più intensa, una luce accecante e malsana che saliva da dietro i monti, pronta a incombere e precipitare sui pochi rimasti; una luce rosso sangue che faceva tremare la terra mano a mano che guadagnava lo spazio, e che esplodeva in lapilli che sfrecciavano nel cielo plumbeo, per poi ricadere su tutto ciò che era inerme. L’uomo abbracciò Annie; le lacrime solcavano le guance scavate della donna e lui la strinse forte a sé: « Cosa sta succedendo? » Annie, il volto affondato nel suo petto, scosse la testa: non lo sapeva, non riusciva a capire, solo i lontani boati erano segno di qualcosa che stava accadendo; qualcosa di terribile, entrambi ne erano certi.

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Roland era completamente sveglio; quelle luci, quelle scie luminose nel cielo e quegli schianti, gli ricordavano tremendamente qualcosa avvenuta trent’anni prima; solo trenta, possibile che stesse succedendo di nuovo? E con quali risorse? Chi era quel pazzo che pensava ancora a distruggere? Non c’era più nulla da distruggere, era già andato tutto distrutto. Si alzò, sempre tenendo Annie stretta al suo petto; voleva uscire e vedere, fuori dalla porta si sentivano urla e rumore di gente che corre: stava accadendo davvero qualcosa. I loro corpi allacciati si avvicinarono alla finestra, la notte non era più notte, invasa da un malsano livore; un raggio di luce fece una carambola in cielo per poi scendere dritto nella loro direzione: non fecero in tempo a spostarsi o fuggire, la luce li trapassò ancora stretti nel loro abbraccio. « Il cielo, guarda, è azzurro! » Roland scrutava sopra e intorno a sé quell’esplosione di colori che non ricordava da più di trent’anni; trent’anni di grigiore, di morte, di pena. La guerra sembrava non essere mai passata da lì. « Sono morto, siamo morti, stiamo sognando di essere ancora vivi. Non voglio svegliarmi. Questo è il paradiso. » « No, non è il paradiso, queste sono le nostre campagne e quelli sono i monti Uisce, coi crinali frastagliati come il dorso di un drago. Li riconoscerei tra mille. » Lo sguardo trasognato di Annie seguiva la traiettoria del proprio dito indice puntato verso il vicino orizzonte, sulla catena montuosa che faceva da sfondo al paesaggio. « Non può essere, è il paradiso a somiglianza del nostro mondo così come l’abbiamo conosciuto, come avremmo voluto che fosse. Siamo morti. » « Buongiorno. Emh… Scusate, non era mia intenzione spaventarvi. » Trasalirono entrambi nell’udire la voce e il tossicchiare imbarazzato; si voltarono a guardare con tanto d’occhi il nuovo venuto, uscito forse dalle pagine di un libro dimenticato o di un mondo mai esistito. Un uomo di mezza età, l’espressione sorridente e curiosa, il viso corrotto solamente dal tempo che passa, non dalla paura; nei suoi occhi vivaci, l’espressione di una grande pena. « Da dove venite? Cosa vi è accaduto? » domandò e si avvicinò loro senza paura né diffidenza, e non portava armi, le braccia protese in segno di solidarietà e amicizia.

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Annie e Roland si specchiarono in quegli occhi non più giovani in cui l’umanità era rimasta intatta, e confrontarono i propri volti emaciati, le membra scheletriche e quel che restava degli abiti stracciati, col quieto decadere del corpo dell’uomo all’ombra dei suoi anni: un uomo che non aveva conosciuto la guerra, l’annullamento, la desertificazione; ma com’era possibile? Intanto l’uomo rovistava nella sporta che aveva con sé, ne tirò fuori due forme di pane e gliele porse: « Avete fame .» Non era una domanda, bensì un’affermazione. Le presero, erano titubanti, non vedevano del pane da trent’anni, ma avevano fame e, anche se era un sogno, quel sogno era capace di nutrirli. L’uomo annuì col capo, soddisfatto, nel vedere la foga con cui addentavano il pane bianco: « Venite con me, cercheremo di aiutarvi; voi non siete di questo mondo, naufraghi del tempo e dello spazio. » Non capirono. Ma lo seguirono docilmente come bambini, affamati di pane, di luce e di calore umano. Le strade si districavano in un dedalo di viuzze all’interno di una cittadina, calpestate da gente di tutte le età, colori e fattezze, un piccolo universo cosmopolita che respirava all’unisono, e ognuno li osservava senza invidia o rancore, senza che nessuno desiderasse ucciderli per quelle due forme di pane che stavano ancora mangiando. Entrarono in una casa più grande delle altre, semplice, bianca, essenziale. « Tommy, ne sono arrivati altri due. » Con un cenno della mano li salutò e scomparve dalla stessa porta da cui erano entrati. Seduto dietro una scrivania c’era un ometto curvo, con una folta barba: « Benvenuti. Sedetevi, avete l’aria stanca. Nessuno qui vi farà del male. » Si sedettero, avevano ancora un pezzo di pane in mano e qualche briciola agli angoli della bocca; si pulirono col dorso della mano, non volevano offendere quel luogo incontaminato col siero infetto delle loro ferite. Un cestino colmo di palline colorate dalle fragranze varie e appetitose era poggiato sul piano della scrivania, gli occhi di Annie si accesero e la bocca si piegò all’insù in un sorriso, le sue dita corsero istintivamente verso quelle piccole delizie, e si fermarono a mezz’aria.

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« Caramelle! Ero ancora bambina l’ultima volta che ne mangiai una, ma è stato tanto tempo fa, prima della guerra, sono trascorsi ormai tanti anni, e adesso sono così vecchia. » Annie tacque, i grandi occhi sporgevano dalle orbite scavate: « Come mai qui la guerra non c’è stata? Come avete fatto a salvare tutto quanto? Il cielo non è più stato azzurro dalla terza guerra mondiale, tutto è stato intossicato e distrutto; la terra non ha più dato frutti, la gente e gli animali muoiono, sono morti, continuano a morire. » Annie balbettava, la mano sospesa sul cestino pieno di caramelle colorate: forse Roland aveva ragione, erano morti ed erano andati in paradiso, e in paradiso lei stava sognando le caramelle della sua infanzia, prima della guerra che aveva distrutto il pianeta Terra. L’ometto prese due caramelle e gliele poggiò sul palmo della mano: « Avete bisogno di mangiare, vi rimetterete in forze, prima di ripartire. » Non li guardava in viso, lo sguardo chino sui colori di quelle palline che parevano magiche: « La parola guerra non esiste nel nostro vocabolario, però ci hanno spiegato cos’è. Mi dispiace. » Roland e Annie non capivano ma si rifiutarono di fare domande; era così bello quel sogno e non volevano che finisse, più a lungo avessero sognato, più a lungo sarebbero rimasti lontani dalla solitudine e dal deserto in cui vivevano da trent’anni. « Posso sapere i vostri nomi? » L’uomo e la donna lo guardarono stupefatti, da quanto tempo qualcuno non si interessava a loro? « Roland e Annie. » rispose l’uomo. « Nient’altro? Un cognome di famiglia, magari. » chiese ancora Tommy. I due fecero all’unisono cenno di no col capo: certamente l’avevano avuto, ma non lo ricordavano. L’uomo dalla folta barba sorrise: « Non ha importanza, i nomi non sono che un insieme di lettere, il mio è Tommy Coral, ma tutti mi chiamano Il Vecchio Tommy perché sono il più anziano di questo villaggio; ma adesso seguitemi, vi assegneremo una casetta tutta vostra per il periodo in cui starete qui, ne abbiamo costruito di apposite proprio in un campo alla periferia della cittadina, abbiamo scoperto che avete una predilezione per i luoghi aperti dove si possa avere un buon panorama e un orto da coltivare. » L’uomo sembrava sapere su di loro molto più di quanto essi stessi non avessero appreso in oltre quarant’anni di vita. Quaranta, ma se si

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confrontavano con Tommy che diceva di essere vecchio, loro parevano molto più vecchi di lui. « E’ come se ci steste aspettando, nessuno è sorpreso dalla nostra presenza! » si lasciò sfuggire Annie. Il Vecchio Tommy si girò a guardarli, un’espressione indecifrabile sopra la barba che gli dava l’aria di un uomo saggio, ma non disse nulla; invece Roland le diede una gomitata per farla tacere, lui non voleva per nessun motivo che quel sogno finisse, perciò non desiderava spiegazioni. La casa era piccola ma Roland e Annie ci stavano bene; avevano anche una mucca e ortaggi nel giardino, qualche albero da frutto e a loro sembrava davvero di stare in paradiso. Non avevano neanche bisogno di denaro: quando andavano al mercato per comprare del latte, il pane oppure formaggio, nessuno chiedeva loro niente; incartavano quanto loro avevano richiesto, ci aggiungevano magari qualcosa, scuotevano il capo e li congedano con un sorriso, un buona fortuna e un “riempitevi le pance finché potete”. Annie mise su qualche chilo e chiacchierava volentieri con le vicine di casa, era una donna curiosa e non si stancava di porre domande; Roland invece voleva inserirsi a tutti i costi nella vita del villaggio come fosse effettivamente uno di loro, e si dava da fare in tutte le maniere: non gli spiacevano neppure i lavori più umili, lui voleva meritare l’ospitalità che gli era stata offerta, non gli passava neanche per la testa di vivere a scrocco; e ovunque andasse gli facevano fare qualcosa, che si trattasse di aggiustare un tetto o riverniciare uno steccato: dopo anni d’inerzia, le sue mani cominciarono ad allenarsi di nuovo, non erano più soltanto due appendici rattrappite. « E’ come se ci conosceste. » disse un giorno Annie a una vicina. L’altra sollevò su di lei lo sguardo, quindi tornò a impastare la torta che stava preparando: era da tanto che Annie non vedeva più come si faceva una torta, e la vicina si era mostrata contenta di coinvolgerla in quella piccola attività. « In effetti, - rispose, - vi conosciamo. » Annie rimase inebetita, il limone in una mano e la grattugia nell’altra, la fissava perplessa, insicura di aver capito bene o meno, però non osò formulare nessun’altra domanda; forse la sua curiosità la stava spingendo troppo oltre, là dove non sarebbe dovuta andare. « Ogni tanto capita che qualcuno proveniente da un altro mondo, intendo non dallo spazio, non un extraterrestre ma una persona come me e te che venga da un’altra dimensione, arrivi fra noi. »

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« Io, io non ti capisco. » balbettò Annie. « Come potresti? - rispose l’altra con una scrollata di spalle, - è una cosa del tutto casuale, imprevedibile; un giorno compare una luce molto forte che attraversa velocissima il cielo, come una meteora o una cometa, e poco dopo uno di voi si trova qui. » « Perché? E da dove vengono? » insistette Annie che adesso voleva capire a tutti i costi. La vicina scosse il capo come a scacciare un insetto fastidioso: « Non lo so, neppure loro lo sanno; ma tutti riconoscono nel nostro un paesaggio familiare e tutti dicono di aver vissuto una guerra e che si trovavano fra la vita e la morte, poi viene la luce, li cattura e li porta qui. Voi lo chiamate Pianeta Terra, ma penso che non sia altro che una delle tante dimensioni in cui questo mondo si trova contemporaneamente. » « Un mondo che si ripete all’infinito, sempre uguale ma dove la storia scorre in modo diverso? » domandò sorpresa Annie che non aveva mai sentito parlare di un’eventualità del genere. « E’ una vecchia teoria, vecchia perché è stata scoperta tanto tempo fa; la realtà si ripete nell’universo in dimensioni diverse, ciascuna delle quali contiene una piccola variante. » « Quindi potrebbero essercene delle altre, oltre questa e il mio mondo… » considerò Annie. « Probabile. » rispose la vicina; e intanto versava l’impasto nella teglia. « Secondo te, perché la luce ci porta proprio qui, in questa dimensione? » insistette Annie ormai dimentica della torta che lievitava nel forno. L’altra non rispose subito: « Non saprei; forse perché questa dimensione è opposta a quella da dove venite, dove c’è stata la distruzione che noi non conosciamo; in poche parole, gli opposti che si attraggono, ne avrai sentito parlare. » Annie annuì: « Sì, quand’ero piccola e andavo ancora a scuola, molto prima che scoppiasse la terza guerra mondiale. » La vicina le scoccò un’occhiata piena di compassione: « Noi conosciamo la guerra dai vostri racconti; sono tutti uguali, tutti terribili e per noi incredibili. » Annie chinò la testa, gli occhi lucidi: « Se mi fermo a ricordare il passato, quando ancora c’erano prati e boschi e la gente non aveva paura e non ti accoltellava per un tozzo di pane, pare incredibile anche a me. - la donna stette un poco in silenzio e andò a guardare la torta lievitata da dietro il vetro del forno, - Ci sono altri come noi, al villaggio? »

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Dalla vicina non venne nessuna risposta, stava scegliendo il piatto di portata per la torta e Annie ripeté la domanda. « Al momento, no. » Era stata una risposta un po’ secca, ma forse la vicina stava pensando a come decorare la sua torta. « Dove sono? Intendo dove sono andati quelli che sono arrivati qui prima di noi? Perché non sono rimasti qui? » Di nuovo la vicina non rispose, infilò invece un guanto di cotone spesso, aprì lo sportello del forno ed estrasse la sua torta fumante. « Non lo so, prima o poi se ne vanno tutti. » « Non gli piace vivere al villaggio? » « Forse no, forse si annoiano e partono. » « Nessuno è mai tornato? » La torta era stata depositata al centro di un piatto decorato con papaveri rossi: « No, non è mai tornato nessuno. » « A me piace stare qui, io e Roland non ce ne andremo mai. » Il Vecchio Tommy andava a trovarli quasi tutti giorni e non mancava mai di raccomandare loro di uscire portandosi dietro una sporta con la spesa, pane formaggio e persino dolciumi da ficcare in tasca, in qualunque vestito e in qualunque momento: « Vi aiuterà a superare la paura di restare senza cibo. » sosteneva, ma a Roland e ad Annie lui sembrava un poco matto. « Vecchio Tommy, - gli domandò Roland, - quando dista la città più vicina? » Ad Annie si rizzarono i capelli in testa: « Cosa te ne importa? - lo aggredì, - Stiamo bene qui, abbiamo tutto quello che ci serve, casa cibo e amici, io da qui non mi muovo! » Roland la fissò esterrefatto: « Era così per dire, - cercò di rassicurarla, - nemmeno io ho nessuna intenzione di andare via da questo posto. Il mondo può essere come vuole, a me basta conoscere questo dove mi trovo adesso, per cui non farti venire paturnie senza senso. » Il Vecchio Tommy, che aveva assistito a quel piccolo scontro a fuoco, non riuscì a trattenere la commozione e una lacrima gli scivolò lungo la guancia. Roland si preoccupò subito di non aver offeso l’uomo con quella stupida scenata: « Scusaci, Vecchio Tommy, ma sai, Annie, il nostro passato, abbiamo ancora tanta paura… » L’uomo più anziano gli rivolse un sorriso mesto e gli fece cenno di tacere: « Non preoccupatevi, alla mia età ci si commuove facilmente

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davanti a due persone che si vogliono bene. Prendete, vi ho portato questi, sono abiti caldi, invernali, la brutta stagione è ormai alle porte; non dimenticate mai di indossarne quanti più potete, qui si può passare dal fresco al gelo e alla neve nel giro di pochi istanti, è sempre meglio essere prudenti e non beccarsi brutti malanni. » Il Vecchio Tommy era veramente saggio e previdente perché, dal giorno successivo, il tempo peggiorò bruscamente e il cielo si riempì di nuvole, mentre la tramontana spazzava campi, case e boschi. La notte ululava infiltrandosi in ogni fessura o pertugio che fosse. Vennero anche i temporali, e la notte si accendeva di fulmini che saettavano nel cielo come fruste e che spesso sbocciavano ed esplodevano come fuochi d’artificio. Per quanto lo spettacolo la spaventasse, Annie se ne stava a guardarlo da dietro i vetri della finestra, mentre la pioggia cadeva a rovesci allagando ogni cosa; aveva un pezzo di pane e formaggio in mano, in attesa che la minestra fosse pronta. Roland se ne stava seduto vicino al caminetto, a fissare le fiamme che parevano improvvisare un’allegra danza: semi sdraiato sulla poltrona, le gambe allungate verso il calore del fuoco, l’uomo poteva lasciarsi andare ai sogni e ai ricordi più piacevoli della sua vita, anche se tanto lontani. « Sembra che in cielo sia esplosa una guerra fra saette, i fulmini giocano a chi è più veloce e i tuoni a chi fa il botto più sonoro. » « Perché non te ne stai seduta qui invece di restare dietro quella finestra? Quante volte ti ho detto che non voglio sentir parlare di guerra! Qui nessuno ne parla e io non voglio parlarne, l’abbiamo vissuta e ci è bastato, adesso stiamo in pace! » « Te la prendi tanto perché hai ancora paura, Roland; è così confortante poter vedere la natura sconvolta da dentro le mura di una casa sicura! Sono strani i temporali, qui, i fulmini sono così vicini, ed esplodono anche, attraversano il cielo e sibilano come se cercassero qualcosa, come se non fossero casuali e avessero una meta. » « Perché non la pianti e vieni a sederti? Non hai ancora fame? » « No, questa notte lo spettacolo è davvero stupendo, non ho mai visto niente di simile e non ho nessuna intenzione di perdermelo. » « Cocciuta come un mulo! Io ho fame e mangio, la minestra si raffredda. » « Fa come ti pare, non sai quel che ti perdi, io me la riscalderò più tardi. » Roland sbuffò stizzito mentre si sedeva a tavola e spezzettava il pane dentro il piatto con la minestra ancora bollente.

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« Oh! Guarda! Che bellezza, sembrano tante comete che attraversano il firmamento. » Annie aveva emesso un gridolino deliziato. « Una pioggia di fulmini che cade da tutte le parti, si avvicinano e si allontanano, sembrano venire verso di noi. » « Hai sempre avuto un’immaginazione molto fervida. » « Roland! » L’urlo della donna risultò stridulo, agghiacciante perché colmo di terrore; l’uomo sollevò lo sguardo verso di lei e rimase paralizzato, non un grido, neanche un muscolo si sforzò di reagire. Un fulmine era esploso proprio sopra la loro casa e razzi luminosi si proiettavano da tutte le parti come lunghi spaventosi tentacoli in cerca di una preda: si protesero verso la loro casa e ne trapassarono le mura invadendo l’ambiente con la loro luce accecante. Era notte. Ma non una notte serena e neppure pioveva e il cielo era attraversato da sibili e boati, scie luminose che esplodevano, ora più lontane, ora più vicine. Dall’alto cadevano le bombe come palle colorate che distruggevano quel che incontravano nel loro impatto. Distruggevano il deserto e qualche sparuta macchia d’alberi rimasta ancora in piedi, cadevano aprendo profonde ferite nella terra, facendo esplodere le poche baracche in fragile equilibrio. « Cos’è successo? Dov’è il nostro paradiso? Non vedo più le case e i giardini, se la guerra è scoppiata anche qui, forse è colpa nostra? » Annie non riusciva a capacitarsi. Un istante prima si trovava nel suo paradiso ed ora si vedeva improvvisamente catapultata alla realtà precedente, quella che aveva vissuto per trent’anni, quella che aveva imparato a conoscere sin troppo bene. « No, non è colpa nostra e non siamo più in paradiso, in compenso, questo è l’inferno. » La voce di Roland non risuonò neppure angosciata, la rassegnazione era la corda vibrante di tutto il suo spirito. « Sei ben coperta? » le domandò con fare amorevole mentre passava in rassegna i vari maglioni che Annie aveva preso l’abitudine d’indossare a strati e le calze e le scarpe pesanti. « Sì. » rispose lei, ma non capiva, o forse si rifiutava di capire. « Guarda cos’hai nelle tasche, c’è qualcosa da mangiare? » La donna obbedì e frugò dappertutto, estraendone pezzi di pane, formaggio, frutta secca e biscotti, e sacchetti di caramelle colorate; Roland fece un rapido inventario di quel che lui aveva e, insieme,

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quelle cose avrebbero permesso loro di sopravvivere ancora per qualche tempo, sempre che non fossero saltati in aria prima a causa di qualche bomba. L’uomo le mise un braccio intorno alle spalle e cominciarono ad andare. « Perché? » domandò lei caparbia. « In fondo l’abbiamo sempre saputo, nessuno ci ha mai detto che saremmo rimasti lì per sempre. » Roland appariva rassegnato, ma l’uomo che aveva riparato tetti e verniciato steccati era ancora lì, e trasudava fiducia e voglia di vivere: avrebbe trovato una soluzione o la morte, non era poi tanto terribile dopo quel che avevano vissuto. Aveva un coltello al suo fianco e la mano ne strinse l’impugnatura: avrebbe difeso se stesso e Annie a ogni costo, le sue mani non erano più le inutili appendici di un corpo logorato. Intorno a loro la gente correva, fuggiva là dove ancora il cielo avvelenato non era attraversato da razzi e da bombe, cercando un qualsiasi rifugio; nessuno badava a loro due e la gente gridava e si chiamava, per non perdersi, per restare uniti anche nel disastro, perché la solitudine sarebbe stata peggio della morte. « Cosa succede? » urlò Roland a un uomo affannato che correva trascinandosi dietro una sacca pesante, probabilmente le poche cose raccolte in trent’anni di disperazione. « La quarta guerra mondiale! E’ esplosa la quarta guerra mondiale! » « C’era da immaginarselo. - disse sottovoce Annie, - In questa dimensione ogni scusa è buona per distruggere quel poco che non è ancora andato distrutto. » « Non ci vogliono, Annie, vogliono restare da soli, non avere più bocche da sfamare; e quando nessuno sarà sopravvissuto, ricostruiranno le case, le serre, e coltiveranno pomodori e patate, ma vogliono essere soli, noi siamo soltanto zavorra. » « Ma rimarranno avvelenati, questo mondo non li risparmierà. » « Lo so, questa sarà la battuta finale, la rivincita della storia e della natura, per questo dobbiamo continuare a vivere. » Quindi guardò verso il cielo coperto di nubi e sorrise, puntò un dito verso l’alto: « Abbiamo degli amici, lassù, e fra noi ce ne sono degli altri che sanno della loro esistenza; dobbiamo trovarli, adesso che anche noi sappiamo. » « Ma come faremo? »

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Roland sorrise: « Continueremo a camminare, anche se distrutto, il Pianeta Terra è grande. »

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SELVAGGIA E FIORI DI LAVANDA Da allora non ho mai smesso di tenere, su un angolo della mia enorme scrivania col piano in cristallo, un vaso pieno di quei fiori violetti; non sono particolarmente né belli né profumati, ma tengono vivo dentro di me il ricordo di colei cui devo la mia nuova vita e il mio nuovo essere me stesso. Si tratta di lavanda, lavanda selvatica, che io chiamo semplicemente “SELVATICA“, in memoria degli straordinari momenti trascorsi in quel lontano autunno, quando pensavo ancora di essere un segugio dal fiuto sottile per i buoni affari. Guardo dalla finestra il cielo eternamente velato di Milano e cerco una nuvola la cui forma mi ricordi una fisionomia amica. Sbuffai stizzito mentre l’interfono trillava in modo fastidioso e la voce di Sara, la mia segretaria, mi domandava se poteva portarmi alcuni documenti da firmare urgentemente. Non avevo nessuna voglia di vedere lei e i suoi maledettissimi documenti che mi distraevano dall’analisi minuziosa dei miei ultimi investimenti, così imprecai, ma sottovoce, perché non è conveniente mandare al diavolo i dipendenti, si ha purtroppo sempre bisogno di loro e occorre che siano fidati e fedeli, e che non battano in ritirata al momento meno opportuno; loro sanno come fartela pagare: emicranie, stress ed altre balle di questo tipo che, straordinariamente, scompaiono con un aumento di stipendio e qualche premio di produzione, così fui costretto a darle il permesso di entrare. Sara fece il suo ingresso con un sorriso che le tirava la faccia da un orecchio all’altro, sfoderando i denti candidi da non fumatrice e un’aria trionfante con cui mi porse un foglio che riconobbi subito come lo stampato di un fax. Le dissi di poggiarlo sulla scrivania e che gli avrei dato un’occhiata più tardi, ma lei restò in piedi davanti a me, la mano tesa e quel sorriso snervante stampato sul volto, così fui costretto a sollevare lo sguardo che cadde direttamente sul foglio: restai talmente sorpreso che balzai in

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piedi e quasi rovesciai la poltrona di pelle marrone firmata “AOC” che avevo ordinato direttamente da New York. Non riuscii a trattenermi: « E’ fatta! – esclamai – Quei pirla della Regione Sardegna l’hanno finalmente capito che quel pezzo di terra non varrà mai un cazzo se non ci si mette sopra un’idea geniale, e quell’idea l’ho avuta io! Altro che polmone verde e tutte le altre stronzate ecologiche, loro avranno la gloria di una struttura unica nel suo genere e io un bel po’ di quattrini sul conto! » Rovistai fra gli innumerevoli incartamenti posti in bell’ordine sulla scrivania. Lo trovai. Un raccoglitore blu con una targhetta bianca su cui era scritto “GESTURI”. Lo aprii e lasciai scorrere lo sguardo sul progetto del villaggio turistico che avevo intenzione di farvi costruire: case in pietra, bacini per l’allevamento di pesci e piante acquatiche, stalle per cavalli attrezzate con gli strumenti più all’avanguardia. Ogni cosa all’insegna del New Age più In e sofisticato, un’oasi di mondo pastorale immersa nel lusso che solo i vip eternamente a caccia di emozioni nuove avrebbero avuto la possibilità economica di assaporare. D’altra parte anche gli isolani avrebbero avuto la loro parte di guadagno, non si sarebbero più lagnati a causa delle poche possibilità di lavoro e avrebbero finalmente portato il turismo nelle zone interne della regione: così come i loro assessori, e gli altri quattro politici da strapazzo, andavano augurandosi da chissà quanti anni senza mai approdare a nulla. “Ristretta mentalità del sud; se non ci fossimo noi del nord a dare qualche idea anche a loro e a tirare la carretta dell’economia! Il fascino del primitivo, cosa diavolo pensano di poter avere di più?” Ridacchiai soddisfatto e richiusi il fascicolo. « Prenota il primo volo diretto a Cagliari per domani, Sara, prima classe se c’è o comunque voglio un trattamento speciale per una persona speciale… e una macchina sportiva, veloce e comoda, dotata di telefono, bar e ogni altro comfort ti venga in mente. E che la trovi al mio arrivo in aeroporto, non ho intenzione di sprecare il mio tempo in quella regione incolta, farò un sopralluogo veloce e domani sera stessa sarò di ritorno a Milano. » « Le cerco un autista, Dott. Baraldi? Sarebbe prudente, se ne sentono tante laggiù, sequestri, riscatti, quella gente è strana, sono “banditi” e, per giunta, arretrati! »

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Sara era certamente animata da buone intenzioni ma mi stava tediando, quindi la zittii con un cenno della mano. « Fa come ti dico, - ribattei, nuovamente impaziente di togliermela dai piedi, - niente autista e una buona macchina, semmai procurami una cartina stradale ben dettagliata. E ora sbrigati, ho un mucchio di cose da fare e poco tempo! » L’indomani abbandonai le nebbie di Milano per immergermi nel cielo sempre più azzurro mano a mano che ci si avvicinava all’isola, fatta eccezione per qualche nube che andava a perdersi verso le montagne. Andò tutto come previsto: arrivo a Cagliari alle otto in punto, visita all’Ufficio della Regione alle ore nove per le ultime questioni burocratiche, tra l’altro da me particolarmente accelerate perché non avevo nessuna voglia di intrattenermi con “quelli”, e partenza alle undici per il mio nuovo investimento, la Piana di Gesturi. Effettivamente quei burocrati della Regione non si aspettavano che rifiutassi l’invito di restare a pranzo, malloreddus, porceddu e tutte quelle altre cose che a loro piacciono tanto, purtroppo questa gente del terzo mondo non riesce proprio a capire che il tempo è denaro e che, di conseguenza, non va sprecato; ricordo che pensai che poteva essere questo uno dei motivi per cui rimanevano emarginati dal grande mondo del business, e io non potevo di certo abbassarmi al loro livello! Il viaggio fu molto più complicato del previsto. Nel corso delle due ore e mezza che impiegai per raggiungere la meta, già un notevole ritardo sulla mia tabella di marcia, imprecai almeno un migliaio di volte nel rendermi conto che quegli zulù non sapevano cosa fossero le indicazioni stradali, facendomi sbagliare strada un sacco di volte, per poi essere costretto a tornare indietro. Finalmente arrivai in un paese grigio e silenzioso che portava lo stesso nome del mio futuro “hermitage”, Gesturi. Erano passate le due, c’era poca gente in giro e neanche un negozio aperto, anzi, forse non c’era neppure un negozio in quel posto, quindi mi affrettai a raggiungere la mia nuova proprietà pensando che a quella scempiaggine avrei posto rimedio a suo tempo: la zona necessitava di un centro commerciale d’alto livello. La strada non era che un volgare sterrato di campagna pieno di fossi e ammassi di pietre, adatto più a un fuoristrada che a una macchina coma la mia, così fui costretto ad abbandonarla e ad affrontare “a piedi” quel terribile percorso “campestre”. « Qui ci farò una bella strada asfaltata, – cominciai a parlare fra me e me ad alta voce – farò sparire sterpaglie e arbusti e creerò una vera

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selva di rosai e altri rampicanti che segneranno l’accesso al villaggio più esclusivo che mente umana abbia saputo ideare, e questa sarà soltanto opera mia e mi frutterà un sacco di soldi. » Mentre, entusiasta e con in mano il mio progetto perfettamente disegnato con colori diversi per ciascuna delle strutture che sarebbero state costruite, mi facevo strada in quel groviglio di natura incolta, inciampai in una radice che, se fossi stato superstizioso, avrei detto fosse spuntata lì apposta in quel momento per farmi un dispetto. Caddi rovinosamente scorticandomi le mani e provocando un lungo strappo al candido progetto su cui avevo lavorato per mesi in prima persona. Mi risollevai scuotendomi di dosso quella polvere schifosa e cercando di rimediare al danno sul foglio del progetto, quindi imprecai quando vidi le mie belle scarpe di vitello nero, firmate Gucci, imbrattate di polvere e orribilmente graffiate, e imprecai ancora più forte quando mi accorsi dello strappo al pantalone in corrispondenza del ginocchio, sul jeans Versace che avevo indossato per l’occasione. Con dita contratte per la rabbia, mi chinai a controllare lo strappo, provocando involontariamente la caduta dell’iPhone che tenevo nel taschino e che, finendo su un pietrone, andò in pezzi tagliando via ogni mio possibile contatto col mondo “civile”. « Maledizione! » Diedi un calcio a quei pezzi di metallo, plastica e circuiti ormai inservibili, tanto più che anche per le scarpe non c’era più nulla da fare, mi consolava soltanto l’idea di avere un altro cellulare in macchina. « Linee telefoniche ovunque, farò un contratto miliardario con la Telecom, Wind, Vodafone e qualsiasi altro accidenti di compagnia telefonica esistente sulla faccia della Terra! » esclamai perché era l’unica cosa cui potessi pensare in quel momento. Naturalmente non mi diedi per vinto e proseguii fra la sterpaglia sino a raggiungere il pianoro su cui sarebbe sorto il mio villaggio; qui fui rapito dall’emozione per il perfetto abbinamento fra quei luoghi e le mie costruzioni a pianta circolare, in apparenza delle vere case rurali, ma dotate di ogni comfort, dall’idromassaggio a uno stuolo di cameriere e camerieri, giardinieri e quant’altro, tutti pronti a intervenire per accontentare le esigenze dei proprietari più eccentrici. Non avevo neanche bisogno di guardare il progetto tanto ogni cosa era ben delineata nella memoria. Immaginai la piscina a forma di doppio cuore, le aiuole con le piante grasse, le alte palme e la sala per i party, le stalle dove avrei fatto

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rinchiudere e addestrare quei maledetti cavallini della Giara e le mie ospiti con le loro sahariane, i loro costumi succinti, i loro gridolini di soddisfazione davanti a quel che stavo loro offrendo, e uno stuolo di giovani donne fra le quali avrei potuto trovare compagnia a piacimento: ogni notte, una figa diversa. Ancora immerso nei miei sogni a occhi aperti, sentii un dolore lancinante alla mano sinistra: la vidi diventare sempre più rossa e gonfiarsi in modo spaventoso, quindi il gonfiore risalì andando a interessare anche l’avambraccio sino al gomito. Ero terrorizzato. Sicuramente mi aveva punto qualche insetto pericolosissimo e correvo il rischio di uno shock anafilattico… e non avevo più il telefonino. « Farò fare la disinfestazione di tutta l’area! » urlai, e intanto tenevo il braccio sollevato e cercavo di muovere le dita grosse come salsicce. In cuor mio, cominciavo a odiare quel posto e a rimpiangere il pranzo offerto dalla Regione, oltre al fatto di non aver preso con me un autista; soltanto dei pastori ignoranti potevano vivere in un luogo come quello. Purtroppo non ebbi il tempo di continuare le mie argute osservazioni. Il cielo si era coperto di nubi pesanti d’acqua e, nel giro di pochi minuti, cominciò a piovere, una pioggerellina sottile che si trasformò quasi subito in un acquazzone che mi inzuppò da capo a piedi. Mi misi a correre verso la macchina, ma incespicai e caddi. Ancora disteso sulla terra che si trasformava in fango, vidi con rammarico il disegno del mio villaggio sciogliersi sotto la pioggia torrenziale, e io cercai di consolarmi pensando che Sara ne aveva fatto certamente chissà quante altre copie: peccato che non ricordassi di averle mai fatto vedere quel mio lavoro. La sfiga che aveva accompagnato sin dall’inizio il mio sopralluogo stava per sopraffarmi, io ce la misi tutta per rialzarmi ma, quando finalmente ci riuscii, mi ritrovai immerso in un acquitrino fangoso, il mio Rolex era scomparso, probabilmente in frantumi da qualche parte, e non avevo modo di sapere che ora fosse. Nel frattempo, una foschia fitta come la peggiore nebbia di Milano si era sollevata nascondendo il paesaggio. Fui preso dal panico. Ricordo che cominciai a correre alla cieca, senza avere la più pallida idea di dove mi stessi dirigendo, mentre il mio progetto miliardario giaceva in qualche acquitrino di quel posto infernale. A ripensarci oggi, ci posso anche ridere sopra: il razionale uomo d’affari del nord che se la dà a gambe levate in un terreno impervio e

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sconosciuto; ma in quel momento non c’era proprio niente di cui ridere, ero solo e inerme in mezzo a una natura di cui non conoscevo assolutamente nulla. Correvo alla cieca, sperando di andare nella direzione giusta, anche se mi accorgevo d’essere sempre più aggrovigliato nell’intrico di rami e alberi, con un muro di pioggia e di foschia che mi impediva di vedere qualunque cosa sotto, sopra e intorno a me. Improvvisamente mi parve di sentire dei rumori, forse passi di qualcuno che si trovava nelle vicinanze; pensai che, non vedendomi tornare, fossero venuti a cercarmi, avessero visto la macchina e mi stessero chiamando, ma erano lontani e io non avevo fiato per segnalare dove fossi. Però nessuno, a parte Sara, era a conoscenza del fatto che mi sarei recato sin nella mia nuova proprietà, e lei non poteva immaginare niente di quel che mi stava accadendo, né se fossi o meno in ritardo. Corsi comunque in quella direzione, consapevole del fatto che il mio staff fosse certo che mi trovassi in compagnia di quelli della Regione e che questi, a loro volta, fossero certi che io avessi già raggiunto Milano. Per la prima volta in vita mia ero davvero solo e in balia di una situazione che non sapevo affrontare. Continuai a correre inseguendo i miei fantasmi; trassi un respiro di sollievo quando, d’un tratto, ebbi l’impressione di trovarmi in uno spazio aperto: ero finalmente uscito dal boschetto e le voci erano lì intorno, tranquille come se mi aspettassero. Mi tornò tutto il coraggio e l’arroganza che avevo perduto: « Ehi! Sono qui, ci avete messo un sacco di tempo a trovarmi, sarebbe questa la vostra tanto rinomata ospitalità? Potevo anche affogare in questa melma immonda e allora sì che ne avreste passati di guai! Vi avrei citato per danni, e che danni! » Nessuna risposta, il brusio continuava quieto. Ricominciai ad avere paura e tutta l’arroganza che avevo messo nelle mie ultime frasi mi morì in gola. Feci qualche passo verso quel qualcosa che percepivo come una presenza, brancolando nella pioggia torrenziale e nell’oscurità che calava impietosa. Poi, improvvisamente, tutto fu buio. Credo di aver perso i sensi per qualche istante, quando tornai in me, mi accorsi di essere caduto in una buca, con un dolore lancinante che, dalla caviglia, saliva su sino alla più esile fibra nervosa del mio cervello. Era una brutta caduta e sicuramente mi ero fratturato una caviglia.

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Non potevo caricare su una gamba, non potevo uscire dalla buca, né sperare in alcun soccorso poiché ormai era notte. Ripensai al mio progetto, al mio villaggio per soli vip; ogni cosa sembrava dissolversi, così come sotto l’acqua si era sicuramente dissolto il disegno che, per mesi, avevo custodito gelosamente in uno dei cassetti chiusi a chiave della mia scrivania. Forse era stata solo un’illusione, un parto della mia fantasia. Ormai era tutto perduto, non avrei visto l’alba del nuovo giorno. Infreddolito e affamato, cercai invano di tirarmi fuori dalla buca: quella sarebbe stata la mia tomba, ne ero certo. Mi rannicchiai alla meglio, cercando di proteggermi dall’umidità e dal freddo. La pioggia era cessata. Sistemai la gamba in modo che mi facesse il meno male possibile e mi strinsi nella giacca, mi ricordai anche degli analgesici che portavo sempre con me nella tasca interna e ne ingollai due. Quella notte fu un vero e proprio incubo: il vento che spazzava il pianoro, lo sbatter d’ali degli uccelli notturni, fruscii, grugniti, nitriti, tutto come in un film di Hitchok. Rimasi a fissare a occhi sbarrati il cielo che il vento sgomberava dalle nubi, liberando il chiarore delle stelle. Non ne avevo mai viste così tante e luminose, con le costellazioni nitide sullo sfondo blu, e ne rimasi meravigliato, per un momento dimentico del dolore alla caviglia e della situazione in cui mi trovavo. So che la cosa ha dell’incredibile e che penserete che sia pazzo, ma sentii che quel cielo e quelle stelle mi proteggevano e che, dopo essersi accanita contro di me per l’intera giornata, la natura adesso mi cullava fra le luci e le ombre del suo mistero. Mi assopii. Mi svegliai di soprassalto avvertendo qualcosa che respirava contro il mio collo con un fiato piacevolmente caldo: istintivamente urlai e spalancai gli occhi sul chiarore rosato dell’alba e le tenebre che indietreggiavano davanti all’imponenza del giorno imminente. Non avevo mai visto un’alba prima di allora. I grattacieli di Milano e il suo eterno smog non avrebbero mai permesso di godere di una simile visione; a Milano, la completa assenza di orizzonti fa pensare che l’intero universo sia racchiuso lì, fra le vetrate degli uffici e le guglie del suo mitico Duomo. Ora, la stella del mattino brillava nel blu che schiariva lentamente.

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Un’alitata calda e un colpetto sul collo mi riportarono al momento attuale. Il fiato mi si mozzò in gola. Eravamo lì, l’uno di fronte all’altra. Io con la mia maschera di fango, lei con quel suo muso umido da cui alitava un fiato caldo e rassicurante, gli occhi dolci allungati e dall’espressione triste. Ci fissammo a lungo, io e la cavalla, una femmina dal manto fulvo e la lunga criniera che le scivolava sul collo, il torace largo e le zampe robuste con cui avrebbe potuto facilmente sfondarmi il cranio. Adesso che finalmente la luce tornava, mi accorsi che la buca in cui ero caduto non era particolarmente profonda e che, se avessi avuto la gamba sana, sarebbe stato un gioco da ragazzi uscirne fuori, correre alla macchina e tornare alla rassicurante civiltà del mio mondo grigio, ma privo di sorprese. Invece dovevo restare lì, in balia dell’ambiente selvaggio che mi circondava. La cavalla avanzò verso di me e protese il collo, quasi volesse rendersi conto di quel che mi impediva di liberarmi da quell’impiccio, quindi sfregò nuovamente il muso sul mio collo alitando con forza sotto la giacca e la camicia, regalandomi un senso di calore che, per poco, non mi fece perdere i sensi per il piacere. Allungò nuovamente il collo robusto nella mia direzione finché non mi fu abbastanza vicino; non compresi subito quel che mi stava suggerendo, ma poi le allacciai le braccia intorno al collo e lei mi trascinò fuori dalla buca, verso la salvezza, mentre io serravo i denti per non urlare a causa del dolore alla caviglia fratturata. Provai una gran voglia di piangere e mi domandai dove fosse andato a finire l’uomo arrogante abituato ad avere ogni cosa ai propri ordini: forse si era dissolto con la pioggia del giorno precedente. A fatica e contorcendomi, riuscii a issarmi sulla sua groppa, quindi mi lasciai trasportare dove lei volesse, affidando la mia vita a quella nuova particolare amica. Mi tenevo ben aggrappato alla sua criniera e il movimento dei suoi fianchi aveva su di me un effetto ipnotico. Non mi posi neanche il problema di dove stessimo andando. Ogni tanto mi assopivo, poi mi risvegliavo bruscamente e quindi mi riassopivo di nuovo. Avevo la febbre e i primi brividi cominciavano a scuotermi, ma niente aveva più importanza.

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Lo spiazzo dove la mia amica mi condusse era attraversato da un rigagnolo dovuto alla pioggia del giorno prima, per il resto, gli alberi e gli arbusti portavano i segni di una siccità durata troppo a lungo. Nonostante fossi allo stremo delle forze, notai che c’erano molti altri cavallini intorno e che avevano un’aria malandata: brucavano gli arbusti sulla terra ridotta in fanghiglia. Battezzai col nome “Selvaggia” la mia cavalla; lei mi fece scivolare giù dalla groppa in un luogo sufficientemente asciutto a ridosso di una grotta e si allontanò. Ne approfittai per cercare una stecca che facesse al mio caso; avevo frequentato dei corsi di sopravvivenza perché in questo periodo sono di gran moda da noi, a Milano, ma non avrei mai pensato che un giorno mi sarebbero tornati utili; l’appoggiai alla gamba e annodai il tutto con un lembo strappato alla mia camicia Armani, quindi mi abbandonai sulla nuda roccia, al calore del sole che saliva sull’orizzonte. Chiusi gli occhi e mi sentii libero e in pace con me stesso, per la prima volta nel corso della mia intera vita. Forse i pensieri mi avevano trasportato altrove, oppure mi ero semplicemente addormentato, l’unica cosa di cui sono sicuro è che fui svegliato dai passi familiari di “Selvaggia”; la cavalla lasciò cadere al mio fianco una buona manciata di rami cui stavano attaccati dei frutti rossi che addentai immediatamente, indifferente al loro succo dolcissimo che mi colava dalle labbra lungo il mento e il collo sino a quel che restava di giacca e camicia. Imitando la mia amica “Selvaggia”, altri cavallini fecero cadere accanto a me alcuni ramoscelli pieni di quei frutti favolosi e io li mangiai tutti, senza pormi alcun problema, attaccato come mai alla vita e con un senso di benessere che, nonostante la gamba fratturata, continuava a pervadere il mio corpo; solo successivamente avrei scoperto che quei frutti si chiamavano corbezzoli. “Selvaggia” mi costrinse a masticare anche tutta una serie di foglie dal sapore disgustoso, cui cercai di sottrarmi mentre lei mi sorvegliava come una madre attenta e premurosa, dopodiché mi addormentai contro il calore del suo addome e del suo torace, assaporando il sonno più dolce che potevo ricordare da anni. Quando mi svegliai, il sole riscaldava il grande altipiano e la febbre era diminuita. FINE ANTEPRIMACONTINUA...