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Presentazione. Il breve saggio dal titolo Il capitalismo spiegato ai ragazzi non vuole essere una spiegazione del modo di funzionamento dell'economia capitalistica, e neppure una sintesi delle molteplici teorie economiche. Esso non vuole neppure essere un saggio di critica del capitalismo, nel senso della denuncia delle ingiustizie sociali, dello sfruttamento dell'uomo e della natura che caratte- rizza questo modo di produzione. Esso intende invece fornire una sintetica prova del significato che può assumere una riflessione che volesse cogliere l'essenza del capitalismo. L'essenza del capitalismo non va certo intesa in senso esoterico o spirituale, ma così: essenza del capitalismo è che esso riguarda come ognuno di noi vive. Ma non come ognuno di noi vive, solo nel senso del lavoro che svolge o del reddito di cui può disporre, ma anche in quest'altro senso: come ognuno di noi vive insieme agli altri, cioè anche nel senso della qualità dei rapporti umani in cui trascorre l'esistenza di ognuno, l'unica esistenza di ognuno. A tal fine si è cercato di porre in evidenza, in primo luogo, che il modo di produzione capitali- stico si caratterizza per il suo essere un processo di produzione di ricchezza astratta, di valore. Esso infatti sorge storicamente dal mercantilismo, cioè dalla produzione destinata allo scambio mercantile e non al consumo immediato. In estrema sintesi si è descritta la teoria del valore- lavoro. La sua importanza è stata individuata non nella capacità di spiegazione dei fenomeni economici, ma nel suo significato di sussunzione del lavoro nei rapporti di produzione capitalisti- ci. La teoria della rendita relativa di Ricardo, il suo essere alla base della teoria economica mar- ginalista – ancora oggi la dottrina dominante – e la critica a cui la sottopone Marx sono la strada seguita per evidenziare che l'economia capitalistica non può essere considerata alla maniera di un fenomeno naturale, ma è l'esito di rapporti sociali e del corrispondente modo di dar valore all'attività umana. 1

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Presentazione.

Il breve saggio dal titolo Il capitalismo spiegato ai ragazzi non vuole essere una spiegazione

del modo di funzionamento dell'economia capitalistica, e neppure una sintesi delle molteplici

teorie economiche. Esso non vuole neppure essere un saggio di critica del capitalismo, nel senso

della denuncia delle ingiustizie sociali, dello sfruttamento dell'uomo e della natura che caratte-

rizza questo modo di produzione. Esso intende invece fornire una sintetica prova del significato

che può assumere una riflessione che volesse cogliere l'essenza del capitalismo.

L'essenza del capitalismo non va certo intesa in senso esoterico o spirituale, ma così: essenza

del capitalismo è che esso riguarda come ognuno di noi vive. Ma non come ognuno di noi vive,

solo nel senso del lavoro che svolge o del reddito di cui può disporre, ma anche in quest'altro

senso: come ognuno di noi vive insieme agli altri, cioè anche nel senso della qualità dei rapporti

umani in cui trascorre l'esistenza di ognuno, l'unica esistenza di ognuno.

A tal fine si è cercato di porre in evidenza, in primo luogo, che il modo di produzione capitali -

stico si caratterizza per il suo essere un processo di produzione di ricchezza astratta, di valore.

Esso infatti sorge storicamente dal mercantilismo, cioè dalla produzione destinata allo scambio

mercantile e non al consumo immediato. In estrema sintesi si è descritta la teoria del valore-

lavoro. La sua importanza è stata individuata non nella capacità di spiegazione dei fenomeni

economici, ma nel suo significato di sussunzione del lavoro nei rapporti di produzione capitalisti-

ci.

La teoria della rendita relativa di Ricardo, il suo essere alla base della teoria economica mar-

ginalista – ancora oggi la dottrina dominante – e la critica a cui la sottopone Marx sono la strada

seguita per evidenziare che l'economia capitalistica non può essere considerata alla maniera di

un fenomeno naturale, ma è l'esito di rapporti sociali e del corrispondente modo di dar valore

all'attività umana.

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L'emancipazione umana e la forma di vita diventano così la vera posta in palio nella critica al

capitalismo. Per poter cogliere appieno il senso di questa critica, e in che modo essa riguarda

ogni singola esistenza, si è richiamata tanto la critica all'economia politica di Marx, quanto la cri -

tica alla modernità di Benjamin. Ne risulta che i rapporti capitalistici sono definibili come rappor-

ti di potere, che hanno l'uso della violenza come loro intrinseca caratteristica, e che il modo di

produzione capitalistico è un limite alla produzione di ricchezza – se solo si sa intendere la ric -

chezza non come valore, denaro, ma come qualità delle relazioni e della forma di vita in cui si

conduce l'esistenza.

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IL CAPITALISMO SPIEGATO AI RAGAZZI.

1.Premessa

La principale preoccupazione e lo scopo che giustifica il tentativo qui perseguito è la consta-

tazione della mancanza di parole e di discorsi che rendano familiari eventi che pure sono decisi-

vi nella vita quotidiana, ma le cui ragioni appaiono irraggiungibili. Trovare la ragione di questi

eventi, cioè renderli comprensibili, è il primo necessario passo per poter incidere su di essi, anzi-

ché subirli. Svolgere questo esercizio della ragione equivale a sviluppare l'intelligenza e il lin-

guaggio del nostro mondo.

Nel percorso argomentativo si è evitato di seguire, per quanto possibile, le tracce della storia

economica o delle teorie economiche. . La ragione di questa scelta consiste nel voler evitare

l'apparenza di avere a che fare con problemi “oggettivi”. Nella distinzione, tutta moderna, tra

soggetto e oggetto la realtà sembra poter essere la descrizione da parte di un soggetto, che si

pone fuori dalla realtà descritta, di uno stato di fatto oggettivo. Anche senza approfondire le

contraddizioni che così si generano, è intuitivo che tale apparenza deve svanire se si considera

che l'oggetto ha qui la consistenza del soggetto,

nel senso che è dotato di potere, e il soggetto,

in quanto svuotato di ogni realtà, letteralmente

fuori dalla realtà, assume la figura non della

pura potenza (come alcuni hanno frainteso) ma

della nuda vita, della impotenza di una vita in-

scritta nel destino (è infatti come destino che il

decorso storico dell'esistenza si presenta alla forma di vita moderna).

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Nella sua analisi delle virtù del pensiero umano, di-stinte in sensazione, intelligenza, scienza, saggezza e sapienza, Aristotele omette una specifica descri-zione della virtù dell'intelligenza. Essa infatti non at-tiene ad un modo del conoscere ma a quello della sua espressione, e perciò è coestensiva a tutte le virtù: comune a sensazione, scienza, saggezza e sa-pienza è la loro comunicabilità, il loro pervenire alla lingua. Questo è ciò che si chiama intelligenza. La cultura individualista, ancora oggi dominante, fa in-vece dell'intelligenza una caratteristica innata, cioè imperscrutabile, dell'individuo.

Questo svelamento dell'apparenza è presente anche nell'opera di Marx, in particolare nella

descrizione del rapporto tra capitale, in quanto consistenza oggettiva delle condizioni della pro-

duzione e della ricchezza sociale in generale, e il lavoro, che assume la consistenza di una sog-

gettività priva di ogni oggettività, spogliata di ogni proprietà.

Come sosteneva Walter Benjamin, perché emerga la contraddizione contenuta tra i poli con-

trapposti della dialettica, non si deve procedere lungo le linee di quella dialettica, alla ricerca di

una sintesi, piuttosto la dialettica va interrotta. Se si vuole far emerge la contraddizione che la

dialettica soggetto/oggetto nasconde o

dissimula occorre porla in “stato di arre-

sto” e cominciare a pensare che la realtà

non si lascia comprendere da quella di-

stinzione, che l'oggettività perda il suo

potere sui soggetti e la soggettività per-

da la pretesa di governare il mondo

come un che di oggettivo.

Il capitalismo è un rapporto di produ-

zione, una relazione tra esseri umani che

corrisponde a un certo grado di emanci-

pazione dei rapporti umani e al corri-

spondente modo di vivere. Questo è

quanto si cercherà di argomentare.

2. La teoria del valore-lavoro.

Fino a non molti anni fa si faceva largo uso di un linguaggio che oggi deve apparire banale, se

non del tutto sbagliato, come la distinzione tra proletariato e borghesia, ma che trasmetteva, sia

pure in modo semplicistico, alcune conoscenza essenziali, ad esempio la differenza tra valore

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Das Kapital è senz'altro l'opera più nota di Karl Marx, che ne pubblicò solo il primo volume mentre i due seguenti fu-rono pubblicati postumi dal suo amico Friedrich Engels. Il sodalizio tra i due nacque nel periodo attorno al 1848, quando in tutta Europa si viveva la lotta rivoluzionaria con cui la borghesia conquistava il potere politico istituendo gli Stati Nazionali a scapito delle partizioni politiche fondate sul potere aristocratico residuo dell'Ancien Régime di origi-ne feudale. Ma mentre in tutta Europa la lotta era tra ari-stocrazia e borghesia per la conquista del potere, emerge-vano già, specialmente in Francia, dove la rivoluzione era un processo molto avanzato, un'altra lotta, la lotta di classe tra proletariato e borghesia. Marx ed Engels furono coloro che diedero espressione a questa nascente lotta, stilando il Manifesto del Partito Comunista. Alla base di questa lotta essi non posero la conquista del potere ma l'abolizione del-lo sfruttamento e l'emancipazione umana. “La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressori e op-pressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno so-stenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte pa-lese: un lotta che finì sempre o con una trasformazione ri-voluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta.”(K. Marx F. Engels Il Manifesto del Partito Co-munista. Pag.55.)

del lavoro e plusvalore e la correlata idea dello sfruttamento del lavoro.

Uno dei modi con cui Marx cerca di semplificare la natura di furto del capitale è il processo di

formazione del capitale eccedente. Si consideri il caso in cui un imprenditore avvii un processo

di produzione investendo un capitale, che indichiamo con C1, di cui non conosciamo l'origine, e

assuma un certo numero di lavoratori, che retribuisce con un salario che indichiamo con V1. Alla

fine del processo di produzione vi sarà un insieme di merci che avrà un valore pari all'ammonta-

re del capitale investito C1 più il valore dei salari V1 più un certo profitto p1. Se il profitto viene in-

vestito nel processo di produzione successivo, avremo allora un capitale C2 , pari alla somma di

C1 + p1,, che produrrà un profitto p2.

Si capisce quindi che, nel corso dei vari processi di produzione, si formano dei nuovi capitali ,

e che essi sono tutti originati, come profitto, all'interno dello stesso processo di produzione, e

poiché l'unica fonte di valore, l'unico fattore che nel processo di produzione crea nuovo valore, è

il lavoro, ecco dimostrato che il capitale non è altro che furto di lavoro, sfruttamento.

L'idea che il lavoro sia l'unica fonte del valore non è di Marx ma di Adam Smith, riconosciuto

come il padre dell'economia politica classica. Adam Smith è noto per la metafora della mano in-

visibile con cui indica al modo di operare dell'economia di mercato. Tale metafora, e la sua com-

prensione del funzionamento del capitalismo, è l'esito della filosofia morale che egli insegnava

all'Università di Glasgow, e il cui nocciolo problematico consiste nel tentativo di dare valore mo-

rale positivo all'individualismo, contrapponendosi alla visione pessimistica che in quegli anni

aveva segnato il successo della Favola delle api di Mandeville. L'egoismo dell'individuo che si re-

laziona agli altri con il solo fine di soddisfare l'amor proprio, che in Mandeville è un vizio liberti-

no, in Adam Smith si trasforma in virtù puritana: la libertà individuale di perseguire i propri fini

egoistici è l'espressione di una società che attraverso la divisione del lavoro e il libero mercato

ha posto non la soddisfazione dei bisogni ma l'accrescimento della ricchezza come scopo della

produzione.

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Se si riesce a rispondere alla domanda: che cosa è il valore?, si è già spiegato il capitalismo.

La complessità della questione dipende dal fatto che nella sua articolazione si deve necessaria-

mente giungere alla “concezione dell'uomo” o alla “visione del mondo”, ovvero a fare i conti, sia

pure sommariamente, con l'intera epoca

moderna, e la consistenza sia storica che

esistenziale che ha assunto la forma di

vita dominante.

La teoria del valore-lavoro è la prima

legge dell'economia individuata da Adam

Smith, con cui si può spiegare il funziona-

mento del “mercato” e insieme l'aumen-

to della ricchezza. La novità del capitali-

smo, e della economia politica in quanto

scienza di questo specifico modo di pro-

duzione, consiste esattamente nel coniu-

gare gli scambi mercantili, in cui le merci

sono per definizione di uguale valore con

una produzione in cui si crea nuovo valo-

re.

Caratteristico dell'opera di Adam Smith Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle

Nazioni, è di rendere evidente la contraddizione proprio perché espone i due lati della teoria del

valore senza neppure provare a coniugarli. Poiché la sua spiegazione del funzionamento

dell'economia capitalistica resta contraddittoria, la teoria del valore-lavoro verrà presto abban-

donata, di fatto già da David Ricardo che per primo, cercando di risolvere le contraddizioni di

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Quella concezione degli affari pubblici che si può chiamare individualismo e laissez-fare trasse il proprio sostegno da molte diverse correnti di pensiero e fonti di sentimento.Alla fine del XVII secolo il diritto divino dei monarchi dava luogo alla libertà naturale e al Contratto, e al diritto della Chiesa subentrava il principio della tolleranza.Il Contratto presupponeva diritti nell'individuo: la nuova etica, in sostanza nulla di più di un calcolo scientifico delle conseguenze di un egoismo razionale, poneva al centro l'individuo.Lo scopo dell'elevamento dell'individuo era di destituire il Monarca e la Chiesa: l'effetto – grazie al nuovo significato etico attribuito al Contratto sociale – fu di rafforzare la proprietà e la prescrizione.L'inizio del XIX secolo compì l'unione miracolosa: armoniz-zò l'individualismo conservatore di Locke, Hume, Johnson e Burke col socialismo e la democrazia egualitaria di Rous-seau, Paley, Bentham e Godwin.Ciò non di meno, sarebbe stato arduo compito per quell'epoca raggiungere questa armonia di elementi oppo-sti, se non fosse stato per gli economisti, i quali entrarono in gioco al momento giusto.Si supponga che per leggi naturali gli individui che perse-guono il loro illimitato interesse in condizioni di libertà tendano sempre a promuovere nello stesso tempo l'inte-resse generale, le nostre difficoltà filosofiche sarebbero ri-solte. Il filosofo politico poteva ritirarsi a vantaggio dell'uomo d'affari, giacchè quest'ultimo poteva raggiunge-re il sommo bene del filosofo perseguendo semplicemente il proprio profitto privato.J:M: Keynes La fine del Laissez-faire, in Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta, varie pagi-ne.

Smith, introduce il principio dell'incremento marginale del valore che dal 1875 circa diventerà la

teoria del valore a tutt'oggi dominante.

Per farsi un'idea più precisa della con-

traddizione tra il valore nel processo dello

scambio e il valore nel processo di produ-

zione, occorre tener presente che il modo

di ragionare di questi autori è molto sem-

plice. Essi pensano al mercato come a un

luogo in cui si scambiano due distinte mer-

ci, e se due merci si possono scambiare è

perché hanno lo stesso valore. Ma cosa

vuol dire, in un contesto così semplice, in cui si scambiano merci diverse, avere lo “stesso” valo-

re? Per Adam Smith la risposta è immediata: esse contengono la stessa quantità di lavoro. Ad

esempio, se per produrre un chilo di grano impiego lo stesso tempo necessario a produrre un

etto di ferro, allora le diverse quantità delle due merci hanno lo “stesso” valore. Se adesso dal

mercato di scambio ci trasferiamo all'atelier di produzione di quelle merci ci troviamo di fronte a

un altro valore. Nella produzione abbiamo infatti l'intervento di diversi fattori produttivi: la Terra,

il Capitale e il Lavoro, e il valore consisterà nei redditi con cui essi vengono remunerati: rendita,

profitto e salario. Che i fattori della produzione siano tre non è ovviamente un caso ma il risulta-

to della constatazione delle diverse classi in cui si divide la società: i proprietari terrieri, ovvero

l'antica nobiltà; i possessori di capitale, cioè la nascente borghesia; e chi per vivere deve vende-

re la forza-lavoro, il proletariato. La constatazione di queste differenze diviene una scelta morale

e una decisione politica quando viene perpetuata e salvaguardata, e una concezione dell'uomo

e del mondo quando la si considera come naturale ed eterna.

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Ogni uomo è ricco o povero secondo il grado al quale può permettersi di godere delle cose necessarie, comode e di-lettevoli della vita umana. Ma una volta che la divisione del lavoro si sia ampiamente dispiegata, il proprio lavoro può procurare a un uomo una piccolissima parte soltanto di queste cose. La parte di gran lunga maggiore egli deve trarla dal lavoro di altre persone, e sarà ricco o povero se-condo la quantità di questo lavoro che può comandare, cioè di cui può disporre, o che può permettersi di acqui-stare. Il valore di una merce qualsiasi, dunque, per colui che la possiede, e che non intende usarla o consumarla da sé ma scambiarla con altre merci, è pari alla quantità di lavoro che essa lo mette in grado di acquistare o comanda-re. Il lavoro è quindi la misura reale del valore di scambio di tutte le merci.Adam Smith Indagine sulla natura e le cause della ricchez-za delle nazioni, pag 72.

3. La teoria della rendita relativa.

La distinzione, sorta nel corso degli eventi storici, di tre fattori produttivi (Terra, Capitale e La-

voro) e delle corrispondenti forme del reddito (Rendita, Profitto e Salario) introduce un ulteriore

aspetto con cui si presenta il problema del valore: la sua distribuzione.

Come detto, Smith non si pone l'obiettivo di risolvere in modo coerente i diversi lati del pro-

blema del valore, cioè lo scambio tra valori, la produzione di nuovo valore e infine la distribuzio-

ne del valore tra i fattori della produzione. La sua soluzione consiste in dichiarazioni disgiunte: le

merci si scambiano sulla base della quantità di lavoro occorso a produrle, nella produzione il va-

lore delle merci è pari alla somma del valore dei fattori produttivi (terra, capitale e lavoro), que-

sto nuovo valore si distribuisce tra rendita, profitto e salario. Ma Terra e Capitale non sono lavo-

ro, non ha perciò senso ritenere che il valore di una merce corrisponda alla quantità di lavoro in

essa contenuto, poiché contiene anche Terra e Capitale, cioè rendita e profitto.

Il tentativo di rendere coerente la teoria del valore-lavoro è affrontata da un altro autore: Da-

vid Ricardo. La sua soluzione è però molto curiosa, poiché introdurrà l'elemento che varrà a sep-

pellire del tutto, nel successivo sviluppo della teoria economica, la teoria del valore-lavoro. Ri -

cardo sostiene che è possibile considerare il capitale come valore che, invece di venir consuma-

to, si è accumulato e quindi può essere equiparato a lavoro passato. La sua misurabilità in termi-

ni di lavoro può presentare difficoltà, ma in linea di principio è del tutto pertinente.

Diversa è la questione della Terra, e per estensione di tutti i beni presenti in natura, che non

sono il prodotto di lavoro umano. Per poter calcolare il contributo della Terra come fattore pro-

duttivo e la relativa remunerazione nella forma della rendita, Ricardo ricorre al concetto mate-

matico di differenziale: la rendita è un differenziale legato alla produttività naturale della Terra.

La Terra che ha la produttività più bassa in assoluto non gode di alcuna rendita, nessuno sareb-

be disposto a pagarla per usarla; la Terra che presenta una maggiore produttività relativa otterrà

una rendita in funzione della maggiore produttività. La rendita non ha perciò una misura assolu-

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ta, ma solo relativa. Il lavoro, come unità di misura del valore, funziona anche in senso assoluto,

come quantità di tempo di lavoro. La Terra invece, nella teoria della rendita differenziale, ha solo

una misura relativa: è maggiore o minore se la Terra è più o meno produttiva; ma in senso asso-

luto, nella Terra in assoluto meno produttiva, non ha alcun valore, perché la Terra non è valore

ma un bene naturale che non si può né accrescere né accumulare.

Da questa teoria della rendita nascerà la teoria a

tutt'oggi dominante, la teoria marginalista, che così

estende l'idea di scarsità anche alle merci prodotte

dal lavoro umano.

4. La teoria marginalista.

Nella teoria marginalista o neoclassica non solo

la Terra ma tutti i fattori della produzione, e non

solo la produzione ma anche la distribuzione e non

solo la distribuzione ma anche il consumo, insom-

ma ogni aspetto dell'attività economica potrà esse-

re compreso applicando l'analisi matematica diffe-

renziale.

Nello scambio il valore di una merce si calcola

come differenziale rispetto a un'altra merce, cioè a

quanto in più o in meno un consumatore è disposto a pagare una merce relativamente ad altre

merci succedanee o alternative; nella distribuzione la retribuzione di un fattore si calcola come

differenziale rispetto ad un altro fattore, cioè quanto costa un fattore rispetto ad un altro che lo

potrebbe sostituire, e così via. Così il valore è solo relativo, non ha più alcuna consistenza asso-

luta, non è qualcosa ma solo una relazione tra cose. Ma se il valore – come cosa in sé – non esi-

ste, com'è possibile creare nuovo valore, aggiungere valore a valore? Eppure il capitalismo è

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Nella teoria economica il principio di scarsità gioca un ruolo molto importante: a esso si deve la confusione che permette di nascondere gli effetti della appropriazione privata. L'autore che sostenne con particolare insistenza il princi-pio di scarsità fu Malthus, che ebbe notevole in-fluenza su Ricardo e sulla formazione della teo-ria della rendita relativa. Il principio è il seguen-te: siccome la terra (e per estensione possiamo dire tutti i beni naturali) è un bene scarso, l'aumento della popolazione e dei consumi co-stringe a dover impiegare della terra sempre meno fertile, così aumentano i costi di produ-zione e quindi i prezzi dei prodotti agricoli. Se Ricardo accoglierà questo principio di scarsità nel formulare la sua teoria della rendita relati-va, la successiva teoria marginalista estenderà questo principio a tutta la produzione, ponendo una relazione diretta e univoca tra aumento della domanda e aumento dei prezzi dei beni.Sulla inconsistenza di questo principio, che uni-versalizza una considerazione che può valere al più nel brevissimo periodo, si possono chiamare in causa tutte le analisi sulle economie di scala e sulle innovazioni tecnologiche, ma la consta-tazione più diretta è quella con cui Marx critica la teoria della rendita relativa e riconosce il vero limite alla produzione, che non è un limite naturale ma sociale: l'appropriazione privata e l'accumulazione del capitale. Il rapporto tra pro-duzione capitalistica e natura non è tale per cui la natura è un limite, piuttosto che allo sfrutta-mento della natura non vi è limite.

proprio questo: creazione di nuovo valore, processo di accumulazione. La domanda iniziale: che

cos'è il valore? Non trova risposta

nella teoria economica.

La critica che Keynes porterà

alla teoria marginalista riguarda

esattamente questo punto: la ceci-

tà di fronte alla questione della pro-

duzione di nuovo valore. In estre-

ma sintesi: nella teoria marginali-

sta la preoccupazione principale è

dimostrare che il processo di pro-

duzione, distribuzione e scambio

dei beni prodotti perviene ad un

equilibrio in modo automatico ed

“invisibile”. Keynes dimostra che

questa teoria ragiona in modo tau-

tologico, poiché il sistema risulterà

sempre in equilibrio, anche nel

caso in cui vi sia un elevato tasso

di disoccupazione. Senza entrare

nei dettagli della critica keynesia-

na, se ne può cogliere con facilità il

senso: mancando di una unità di misura assoluta, ed utilizzandone una solo relativa, la teoria

marginalista non dispone dei criteri necessari a giudicare se l'equilibrio automatico del mercato

(che banalmente è sempre certo, poiché la quantità di merce offerta – cioè prodotta – è sempre

uguale alla quantità di merce domandata – cioè a quella acquistabile con il reddito generato da

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John Maynard Keynes introduce la differenza tra economia reale ed economia monetaria, l'analisi delle attività economiche non si può ridurre a determinare l'equilibrio che si ottiene nello scambio, e quindi ad intendere il prezzo come espressione monetaria di quell'equilibrio in cui domanda ed offerta sono equivalenti. La moneta non ha infatti solo la funzione di equivalente generale, cioè di funzionare da unità di misura ed espressione del prezzo di tutte le merci, e neppure solo la funzione di mezzo di circolazio-ne, cioè di strumento atto a favorire gli scambi fungendo da inter-mediario tra compere e vendite che accadono in tempi diversi. La moneta si accumula, è riserva di valore, titolo di proprietà sul mondo delle merci e come tale può essere detenuta. Ma per Key-nes la moneta detenuta, il risparmio non crea valore, al contrario ostacola gli investimenti e la piena occupazione perché tende ad elevare il tasso di interesse, rendendo più oneroso l'investimento industriale.. Per creare nuovo valore occorre che il valore accu-mulato venga investito, che la ricchezza monetaria si trasformi in ricchezza reale, in beni di investimento e in beni di consumo, per-ché si metta in moto un processo produttivo da cui scaturisca nuovo valore. Ciò significa che esiste un mercato monetario e fi-nanziario, dove si scambiano titoli di proprietà, e un mercato dei beni “reali” dove agisce il lavoro. Keynes ritiene possibile ed op-portuno governare le relazioni tra i due mercati, attenuando le pretese dei detentori di titoli di proprietà (riducendo la loro libertà di scambio, tenendo basso il tasso di interesse e addirittura an-nullando i titoli di proprietà dopo alcuni decenni, avendo già go-duto a sufficienza, con gli interessi già ottenuti, della ricchezza sociale). Cerchiamo di mettere in evidenza due distinti nodi problematici. Da un lato c'è la questione della teoria del valore e, con essa, del-la comprensione del capitalismo; dall'altro lato c'è la questione del governo dell'economia e di ciò che si chiamano politiche key-nesiane. Dal punto di vista della teoria del valore Keynes non in-troduce alcuna novità esplicita rispetto alla teoria neo-classica: il valore non è altro che il prezzo di equilibrio, quel punto attorno al quale il prezzo oscilla. Ciò significa che per Keynes esiste vera-mente un'economia reale distinta da un'economia monetaria, cioè un'attività economica che produce beni utili, il cui problema è tutt'al più legato alle tecniche di produzione più vantaggiose e alla facilità di commercio dei beni prodotti. Questo è quello che Keynes chiama “il problema economico”, che a suo avviso sarà ri-solto nel giro di pochi decenni, giusto il tempo di estendere il be-nessere a tutti, senza perciò dover mettere in discussione i rap-porti di produzione e la forma di vita della modernità.

quella produzione) sia sufficiente a garantire la piena occupazione (concetto propriamente key-

nesiano) ovvero un benessere (welfare, altro concetto keynesiano) diffuso.

Le soluzioni proposte da Keynes miravano ad avvantaggiare gli investimenti riducendo il po-

tere della finanza di attrarre il risparmio. Esse si basavano grosso modo sulla limitazione dei

movimenti dei capitali monetari regolando le attività bancarie e gli scambi borsistici all'interno

dei singoli stati nazionali, attribuendo il controllo della moneta alle banche centrali e subordinan-

do il commercio internazionale a una disciplina di cambi fissi, che aveva il dollaro come standard

internazionale.

Queste regole sono del tutto saltate, a partire della disciplina dei cambi fissi, che entrò in crisi

nell'agosto del 1971 con la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro, alle nuove legislazioni

sulle attività delle banche degli anni Ottanta e Novanta che hanno di fatto reso possibile l'annul-

lamento della distinzione tra risparmio e investimento, alla liberalizzazione dei mercati borsistici

e valutari sanciti dagli accordi del WTO degli ultimi decenni.

Gli economisti, di ispirazione keynesiana, che hanno dovuto prendere atto del definitivo ab-

bandono delle politiche attive keynesiane da parte dei governi nazionali, non sanno dare indica-

zioni teoriche sull'attuale funzionamento del modo di produzione capitalistico, e si limitano a

constatare che poche migliaia di persone decidono le sorti economiche dell'intero pianeta.

5. Valore e denaro.

La distinzione tra economia reale ed economia monetaria racchiude in qualche modo la storia

dell'evoluzione della scienza economica, che è proceduta molto più lentamente dell'evoluzione

economica. Ma poiché è la scienza economica a fornire le parole e il linguaggio con cui esprime-

re i rapporti economici (almeno in prima approssimazione), essa, pur con tutto il suo attardarsi,

non può essere sottovalutata.

Già Aristotele aveva elencato le funzioni della moneta. Essa è numerario, in quanto permet-

te di misurare in modo uniforme il valore di tutte le merci; è mezzo di circolazione, poiché con

essa il valore può muoversi nello spazio e nel tempo, permettendo che lo scambio delle merci

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proceda in tempi e luoghi diversi; è tesoro, cioè strumento di riserva di valore, che permette al

valore di esistere in modo autonomo rispetto al valore delle merci di cui è espressione.

Nella storia della scienza economica il ruolo riconosciuto alla moneta si è per lungo tempo li-

mitato alle prime due funzioni, nel senso che la moneta è stata presa in considerazione solo nel-

le sue funzioni di facilitazione degli scambi mercantili. Sarà con Keynes che la terza funzione

della moneta entrerà a pieno titolo nella teoria economica, in quanto alla sua funzione di tesau-

rizzazione del valore verrà riconosciuto un peso determinante. Essendo la moneta soggetta alla

proprietà privata, e perciò un bene scarso, essa pretende per il suo impiego un prezzo – il saggio

d'interesse – e siccome a pagare questo prezzo è il capitalista – cioè il saggio d'interesse è paga-

to con parte del saggio di profitto – la tesaurizzazione, il risparmio, penalizza gli investimenti e la

produzione di beni “reali”. Per John Maynard Keynes il mercato dei titoli di proprietà, cioè i mer-

cati borsistici e finanziari, devono essere tenuti sotto controllo per evitare, o per ridurre il più

possibile, il loro effetto negativo sul mercato “reale” fatto di merci. Uno degli strumenti per otte-

nere questo risultato è aumentare l'offerta di moneta da parte delle autorità pubbliche (cioè

stampare nuova moneta o aumentare la spesa pubblica e quindi il debito pubblico) mantenendo

un tasso di inflazione positivo anche se moderato, cioè permettere un aumento dei prezzi conte-

nuto ma costante, in modo che la mo-

neta perda costantemente parte del

suo potere d'acquisto e perciò chi de-

tiene moneta venga penalizzato relati-

vamente a chi produce merci.

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… l'atto di risparmio implica un desiderio di “ricchezza” come tale... Ciascun atto di risparmio implica inevitabil-mente trasferimento “forzato” di ricchezza a favore di colui che risparmia... Questo trasferimenti di ricchezza non ri-chiedono la creazione di ricchezza nuova; anzi, come ab-biamo visto, possono ostacolarla attivamente. La creazione di ricchezza nuova dipende interamente dalla condizione che il rendimento prospettivo della ricchezza nuova rag-giunga il livello posto dal saggio corrente d'interesse … vi è sempre un'alternativa al possesso di capitali reali: il pos-sesso di moneta e credito; cosicché il rendimento prospet-tivo di cui i produttori di investimenti nuovi si devono con-tentare non può discendere al di sotto del livello posto dal saggio corrente di interesse.J.M. Keynes Teoria generale dell'occupazione, dell'interes-se e della moneta, pag. 374

La reazione antikeynesiana degli anni Ottanta del secolo scorso si incentrerà proprio su questi

due cardini delle politiche keynesiane:

obiettivo dei governi deve essere la ri-

duzione dell'inflazione e il rigido con-

trollo della quantità di moneta teso ad

impedire un suo aumento. Corollario

teorico, ma di fatto reale obiettivo per-

seguito dalle teorie monetariste e neo-

liberiste, è la liberalizzazione dei mer-

cati finanziari e la rinuncia di ogni con-

trollo, e tanto più di interventi regolati-

vi, da parte dei poteri pubblici. Gli eco-

nomisti keynesiani hanno per lo più

contestato le posizioni monetariste e

neoliberiste divenute dominanti appel-

landosi alla precedenza che deve avere

la crescita economica, l'aumento della

ricchezza nazionale misurata dal PIL e

la necessità, per ottenere questi risulta-

ti, che lo Stato intervenga con strumen-

ti di gestione della spesa pubblica, con

la redistribuzione dei redditi (agevolan-

do le fasce a basso reddito con una più alta propensione al consumo) e finanziando il deficit

pubblico emettendo nuova moneta. Così si è però sbagliato bersaglio, che non era e non è l'anti-

statalismo ideologico, cioè l'annichilimento dei poteri pubblici per consentire libertà di azione al

mercato, ma l'attivazione di politiche pubbliche che sostenessero i nuovi processi di accumula-

13

Gli accordi di Bretton Woods fanno parte di quella sorta di consegna della supremazia mondiale dagli Stati europei (e in particolare dall'Inghilterra) agli Stati Uniti d'America avve-nuta nel corso del secondo conflitto mondiale. In essi si sta-bilisce che il dollaro sarà l'unica moneta ad avere un cambio fisso con l'oro, mentre ogni altra valuta nazionale del siste-ma economico di libero mercato dovrà esprimere il suo valo-re in dollari. In pratica vuol dire che i flussi monetari interna-zionali, sia commerciali che finanziari, avvengono in dollari, e che gli Stati Uniti devono svolgere un ruolo di garanzia dell'ordine economico internazionale. La crisi degli anni 70 del secolo scorso e il completo cambiamento degli equilibri politici ed economici del Mondo, hanno ridotto se pur non annullato l'egemonia degli USA. Nell'agosto del 1971, il pre-sidente Nixon dichiara l'inconvertibilità del dollaro, cioè mi-nava l'idea fino allora indiscussa che gli Stati Uniti avevano il controllo dei mercati mondiali a garanzia del capitalismo internazionale. Giappone ed Europa devono creare aree di influenza in cui si fanno carico di nuove garanzie nei mercati valutari, con la propria moneta nazionale, come in Giappo-ne, o, come in Europa, inventando una nuova moneta conti-nentale. Ciò però avviene in un mercato mondiale dove in-tervengono molteplici soggetti, fra loro indipendenti: non solo nuove economie nazionali con vasti mercati interni e quindi con forti potenzialità, come la Cina, l'India, il Brasile, Il Sudafrica, ecc.; ma anche imprese multinazionali, holding, fondi comuni, agenzie di borsa e finanziarie capaci non solo di muovere masse enormi di capitali ma anche con una pro-pria autonoma capacità di creare moneta bancaria e attività finanziarie, in concorrenza con le valute nazionali.Nel sistema valutario, che potremmo definire antico, e di cui il sistema di Bretton Woods fu l'ultimo scarno residuo, vige-va l'idea che la moneta doveva mantenere un valore fisso (identificato con la parità con l'oro, cioè con un bene molto scarso, la cui nuova produzione era praticamente nulla e co-munque tenuta sotto stretto controllo) poiché le variazioni del valore della moneta avrebbero distorto i prezzi delle merci e quindi il giusto equilibrio del mercato. Attualmente la moneta funge direttamente da capitale fruttifero di inte-ressi, per cui anche le valute nazionali, l'antico potere di co-nio con cui i detentori del potere politico esercitano la loro sovranità, deve inchinarsi al più potente potere economico dei mercati finanziari.

zione finanziaria e la conseguente concentrazione di ricchezza.

Per il monetarismo e il neoliberismo la moneta non è più solo uno strumento per lo scambio

delle merci, e neppure solo una riserva di valore che si è reso indipendente dalle merci. Adesso

la moneta è riconosciuta nella sua funzione di capitale, di valore che si accumula. Che la moneta

sia denaro, valore che si autovalorizza, è già chiaro a Marx, che anzi ne fa la forma più pura di

capitale, quella in cui il ciclo della valorizzazione si presenta nella sua forma istantanea D-D' an-

ziché in quella mediata D-M-D', denaro che si trasforma in più denaro senza la metamorfosi delle

merci (senza dover assumere le molteplici sembianze di capitale fisso e capitale circolante, di

capitale costante e capitale variabile, e così via).

Ma dobbiamo di nuovo porre la stessa domanda: se il denaro è valore che si autovalorizza, al-

lora cos'è il valore?

Con la reazione monetarista e con lo strepitoso sviluppo del capitalismo finanziario sembra in

effetti che il valore possa accrescersi senza dover passare attraverso il mondo della produzione,

e senza doversi calare in mediazioni con i possessori di quella particolare merce che è la forza-

lavoro. La valorizzazione non emerge come plusvalore, sfruttamento del lavoro, ma da una ap-

parentemente innata facoltà del capitale di autovalorizzarsi.

6. La critica dell'economia politica.

Riprendiamo il ragionamento dall'analisi della rendita. Che vi sia solo rendita differenziale è

un'ipotesi restrittiva che permetterà a Marx di cogliere il limite dell'analisi di Ricardo.

La rendita è il pagamento per l'uso di un bene naturale preesistente al processo di creazione

del valore, ad esempio la Terra o un qualunque altro bene non prodotto dal lavoro. Con essa si

paga il proprietario di quel bene non in ragione del contributo che fornisce nel processo di crea-

zione di nuovo valore, ma in quanto proprietario – per quanto il proprietario possa pretendere

una remunerazione crescente in ragione del maggior valore ottenuto sul suo fondo. La teoria

della rendita relativa è errata non perché non vi sia anche un rapporto tra rendita e produttività

14

relativa, ma perché esclude la rendita assoluta, cioè la precondizione della proprietà privata del-

la Terra.

Così come la rendita assoluta è comprensibile solo se si tiene conto della proprietà privata

della Terra, anche il valore assoluto è comprensibile solo come conseguenza della appropriazio-

ne privata del lavoro.

La proprietà privata non è ovviamente una grandezza economica, ma un modo della relazio-

ne tra esseri umani. In particolare, l'appropriazione privata del lavoro, che è qualcosa di diverso

dalla appropriazione del prodotto del lavoro. Se la questione fosse relativa al prodotto del lavoro

essa si potrebbe risolvere con un qualche principio di giustizia distributiva. Ma qualunque princi-

pio della distribuzione, anche il più

estremo, quello che vuole dare al lavo-

ratore tutto il prodotto del suo lavoro,

non è neppure giunto a sfiorare la vera

questione della proprietà privata e del

valore.

L'appropriazione privata del lavoro

significa che il lavoro si trasforma in (si

esercita in quanto) attività che crea va-

lore, cioè ha senso (ma anche realtà)

solo entro rapporti tra individui privati.

Il concetto di lavoro va inteso nel

senso più ampio possibile. E' l'attività

con cui l'essere umano si appropria e

trasforma i beni materiali, ma anche l'attività con cui si appropria e trasforma la storia dell'intera

umanità, o le condizioni attuali della società umana, o anche le basi genetiche degli esseri vi-

venti.

15

Se cade il presupposto di Ricardo che il prezzo di costo sia uguale al valore, cade tutto il ragionamento. Viene a man-care l'interesse teorico che lo costringe a negare la rendita fondiaria assoluta. Se il valore della merce si distingue dal suo prezzo di costo, le merci si dividono necessariamente in tre categorie, una il cui prezzo di costo è uguale al suo valore, un'altra il cui valore è inferiore al suo prezzo di co-sto e una terza in cui il valore è superiore al suo prezzo di costo, allora la circostanza che il prezzo dei prodotti agri-coli frutta una rendita fondiaria proverebbe soltanto che il prodotto agricolo appartiene alla classe di merci il cui va-lore è superiore al loro prezzo di costo. L'unico problema che resterebbe ancora da risolvere, sarebbe: perché, a dif-ferenza delle altre merci, il cui prezzo è del pari superiore al loro prezzo di costo, il valore dei prodotti agricoli non viene abbassato dalla concorrenza dei capitali al loro prez-zo di costo? La risposta sta già nella domanda. Perché, se-condo il presupposto, ciò avviene solo in quanto la concor-renza dei capitali può causare questa perequazione, ma ciò a sua volta può avvenire solo in quanto tutte le condizioni di produzione o sono creazioni del capitale stesso o stanno uniformemente – elementarmente a sua disposizione. Que-sto non accade per la terra poiché esiste una proprietà fon-diaria e la produzione capitalistica inizia la usa carrière nel presupposto della proprietà fondiaria non da essa sca-turente, ma di una proprietà fondiaria che le preesiste. La semplice esistenza della proprietà fondiaria risponde quin-di alla domanda.K. Marx Teorie sul plusvalore vol.II, pag.256.

Nei rapporti di produzione dominanti ognuna di queste molteplici attività deve, più o meno

immediatamente, perché abbia senso economico e un valore riconosciuto, essere sussumibile

entro rapporti tra individui privati. Se si accetta di proceder lungo questo filo argomentativo si

entra in quella dimensione problematica che riguarda la forma di vita della modernità.

7. Sussunzione reale del lavoro nel capitale.

In un capitolo del I libro del Capitale, noto come VI capitolo inedito perché espunto dall'edizio-

ne a stampa, Marx svolge la distinzione tra sussunzione formale e sussunzione reale del lavoro

nel capitale. Questo passaggio teorico è rilevante perché indica l'impossibilità di distinguere tra

processo di produzione e rapporti di produzione.

La sussunzione reale subordina ogni processo produttivo alla creazione di plusvalore, così

come riduce il lavoro umano ad attività misurabile in termini di valore. Senza questa trasforma-

zione del lavoro in lavoro salariato non sarebbe possibile la subordinazione dei molteplici proces-

si produttivi al processo della valorizzazione capitalistica ed i ragionamenti sullo sviluppo della

valorizzazione economica, sulla ricchezza e sulla sua distribuzione sono destinati solo a scorgere

le conseguenze dei movimenti economici se non riconoscono che tutti i fenomeni economici

hanno corso e significato solo nella sussunzione agli attuali rapporti di produzione.

La libertà dalla schiavitù e dai rapporti di dipendenza personale sono il grande processo di

emancipazione compiuto nella modernità. Esso è avvenuto nella forma della libertà individuale

e, in primo luogo, della alienazione dell'attività e della estraneazione dei rapporti. Ogni singola

attività e ogni singolo prodotto dell'attività ha valore se scambiabili, se sono sussumibile entro

un valore universale. Il valore ha il carattere dell'astrattezza, in ragione di una universalità che

assorbe in sé ogni individualità negandola nella sua singolarità e riconoscendola solo in quanto

parte del tutto, particella di valore astratto.

Solo dopo aver colto nei rapporti di produzione capitalistici l'elemento che caratterizza la pro-

duzione capitalistica in quanto produzione di valore, è possibile comprendere le logiche di fun-

zionamento tanto della produzione che della distribuzione del valore.

16

Si possono riassumere due distinte ed essenziali logiche. La prima la si deve cogliere ritor-

nando alla differenza tra rendita e profitto. Con lo sviluppo del capitalismo finanziario si è tornati

a discutere del senso di questa differenza,

poiché il profitto del capitale finanziario

funziona come rendita e la differenza si

annulla.

E' però utile capire qual'è o qual'era la

differenza tra rendita e profitto , poiché

essa costituisce un elemento che caratte-

rizza in modo essenziale il funzionamento

del capitalismo, ed eventualmente la sua

fine.

Può apparire difficile cogliere la diffe-

renza tra rendita e profitto poiché entram-

bi non sono altro che la retribuzione alla

proprietà privata della terra e dei beni na-

turali per quanto riguarda la rendita, e del

capitale monetario o dei beni d'investi-

mento per quanto riguarda il profitto.

Se poi si vuole cogliere la differenza se-

guendo i ragionamenti della scienza eco-

nomica la cosa diventa impossibile. Poiché

essa ragiona sulle funzioni del capitalista, è facile distinguere tra il reddito del capitalista in

quanto imprenditore, una funzione imprenditoriale che oltretutto oggi è svolta per lo più da ma-

nager, dal profitto del capitale investito in quell'impresa.

Ma ciò che distingue il profitto dalla rendita non è né la natura dei beni su cui si esercita il di -

17

Nella tradizione del pensiero occidentale l'attività umana è distinta in opera, azione e contemplazione. L'uso, abba-stanza recente, del termine lavoro con una accezione così ampia da rendere priva di senso quella partizione dell'atti-vità umana ha determinato delle diffidenze e delle difficol-tà. Il lavoro si distingue dall'agire politico e dell'ozio del fi-losofo, in primo luogo perché indica un'attività eterodiret-ta. Sia in quanto è, ed è sempre stata, un'attività banausi-ca svolta da chi è privo di mezzi propri: schiavi servi e pro-letari che, per procurarsi i mezzi di sussistenza, devono cedere ad altri la loro attività lavorativa. Sia perché è un'attività che, a differenza dall'azione politica e dall'ozio teoretico che sono un fine in se stesse, ha un fine fuori di sé, nel suo prodotto. Tale partizione è messa in crisi dalla considerazione che il prodotto del lavoro salariato non è un valore d'uso, cioè un bene destinato alla soddisfazione di un bisogno specifico, ma la ricchezza astratta. Per quan-to, nel mondo borghese, la ricchezza astratta sia un fine essa stessa, per cui il lavoro è subordinato al processo del-la sua accumulazione, “...se la si spoglia della limitata for-ma borghese, che cos'è la ricchezza se non l'universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti, delle forze pro-duttive, ecc. degli individui, generata nello scambio uni-versale? Cos'è se non il pieno sviluppo del dominio dell'uomo sulle forze della natura, sia su quelle della co-siddetta natura, sia su quelle della sua propria natura? Cos'è se non l'estrinsecazione assoluta delle sue doti crea-tive, senza altro presupposto che il precedente sviluppo storico, che rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di tutte le forze umane come tali, non misurate su un metro già dato? Nella quale l'uomo non si riproduce in una dimensione determinata, ma produce la sua totalità? Dove non cerca di rimanere qualcosa di divenuto, ma è nel movimento assoluto del di-venire? Nell'economia politica borghese – e nell'epoca del-la produzione cui essa corrisponde – questa completa estrinsecazione dell'interiorità umana si presenta come un completo svuotamento, questa universale oggettivazione come estraneazione totale, e l'eliminazione di tutti gli sco-pi unilaterali determinati come sacrificio dello scopo auto-nomo a uno scopo del tutto esterno. ” (K. Marx Lineamenti fondamentali..., pag. 466.)

ritto di proprietà, né la funzione dei singoli proprietari, ma il suo legame con il capitale in quanto

valore che si accumula. Il profitto è la misura dell'accumulazione: esso deve di nuovo trasfor -

marsi in capitale per riprodurre il processo di valorizzazione in modo sempre più allargato. Marx

distingue tra reddito del capitalista imprenditore e profitto del capitale, poiché il primo, al pari

della rendita, esce dal processo di valorizzazione, mentre il secondo vi ritorna come nuovo capi-

tale. Il profitto è la valorizzazione del capitale e misura l'ampliamento estensivo ed intensivo del

processo di sussunzione del lavoro nel capitale, dell'attività umana nel ciclo della valorizzazione.

L'altra differenza è quella tra profitto e salario. Anche in questo caso occorre sfatare una que-

stione che la teoria economica ha reso irrisolvibile. Il profitto è la misura in cui è cresciuto il valo-

re del capitale: se all'inizio del processo produttivo è stato investito un valore pari a C, alla fine il

valore è pari a C+p, dove p è il profitto. Da dove nasce questo valore in più? E qui nasce la favo-

la: il lavoro è retribuito dal salario, quindi quello è il suo valore; il capitale è retribuito dal profit-

to, quindi il profitto è il valore del capitale. La favola ha vita facile se ci si scorda della premessa:

il lavoro non è valore, né tanto meno il salario può misurare il valore del lavoro. Il salario è la mi -

sura in cui l'attività lavorativa è stata ridotta ad attività di creazione di valore, sussunto entro i

rapporti capitalistici e quindi non tanto il prodotto ma il suo stesso svolgimento, la sua estrinse-

cazione, può essere misurata e valutata in termini di valore astratto. Tutto il resto: misurazione

del valore delle merci, trasformazione dei valori in prezzi, realizzazione dei valori nel mercato,

distribuzione del valore tra i redditi, tutto questo presuppone il funzionamento dei rapporti capi-

talistici e la sussunzione del lavoro in essi.

8. Dalla teoria del valore alla realtà dei prezzi.

Si può adesso affrontare un passaggio teorico essenziale poiché su di esso si fonda la mistifi -

cazione degli economisti. Chi ha chiaro questo passaggio non si lascia adescare facilmente.

Nell'interpretazione dominante, che è stata definita neo-ricardiana e che ha avuto nel saggio

di Piero Sraffa Produzione di merci a mezzo di merci la sua summa, la teoria economica classica,

quella che aveva posto il lavoro come fonte del processo di valorizzazione, deve cedere il passo

18

a una realtà che è più forte della teoria.

Secondo la teoria del valore-lavoro le merci si scambiano in funzione della quantità di lavoro

necessario alla loro produzione; ma nella realtà si verifica un altro fenomeno: i prezzi non hanno

alcuna relazione immediata con la quantità di lavoro occorso per la loro produzione ma misura-

no solo una relazione di scambio tra merci diverse, sono solo una misura relativa che dipende, in

ultima analisi, dai rapporti generali tra domanda ed offerta di tutte le merci, ed in definitiva

dall'equilibrio economico generale e dalla distribuzione dei redditi e dai pattern dei consumi.

Questa è la realtà.

Ma la descrizione della realtà non equivale alla sua comprensione, anzi laddove la realtà ap-

parente viene posta come uno stato di fatto ineluttabile piuttosto che come apparenza di una

realtà di cui venire a capo, ecco che si è prodotta una mistificazione e trasformata la scienza in

apologia.

Lo iato tra valore e prezzo, l'impossibilità di passare dalla teoria del valore-lavoro alla realtà

dei prezzi ha due cause essenziali. La prima consiste in un semplice difetto di logica. Quel pas-

saggio si può spiegare logicamente non in quanto identità ma appunto in quanto trasformazione

dei valori in prezzi. Per seguire con la logica questo processo di trasformazione sono necessari

concetti adeguati.

La seconda causa di errori consiste nel ritenere che la trasformazione dei valori in prezzi sia

un problema di relazioni tra cose e non di relazioni umane, così si pensa che le categorie ade-

guate siano dei numeri indicanti quantità di cose: offerta, domanda, equilibrio di mercato.

Lo iato tra valori e prezzi si spiega con il fatto che una merce in quanto prodotto del lavoro ha

un valore fondato sulla quantità di lavoro necessario alla sua produzione, mentre la merce in

quanto prodotto del capitale ha un prezzo fondato su quanto profitto esso deve realizzare. Se

quando si parla di valore-lavoro si pensa alla quantità “media” o “normale” di lavoro necessario

per produrre una merce, quando si parla di prezzo si deve pensare a una quantità “normale” di

profitto che quel prezzo deve realizzare. Nel prezzo ogni singola merce deve remunerare il capi-

19

tale, e lo deve fare rispettando il “normale” saggio di profitto, altrimenti quel prezzo è inadegua-

to e quella merce è inutile e il suo processo di produzione obsoleto o esuberante. Il potere che la

merce esercita con il suo prezzo corrisponde al potere che il capitale esercita sul lavoro. Nella

trasformazione del valore in prezzo quel potere mostra la sua doppia natura: che l'unità di misu-

ra, il metro con cui si misura il potere oggettivo è il capitale e non il lavoro, e che questa misura

è contrapposizione al lavoro necessario, riduzione del lavoro necessario a un minimo per accre-

scere il lavoro eccedente, il plus lavoro. Il capitalismo implica questo movimento contraddittorio

e i conflitti che ne sorgono, e ogni tentativo di risolve la faccenda con una qualche teoria

dell'equilibrio è solo una parvenza di soluzione, oppure sfacciata apologia.

A caratterizzare i moderni rapporti di produzione, basati sulla libertà individuale, non è dun-

que l'assenza di potere e la mancanza di uso della violenza, ma l'idea che violenza e potere pos-

sano essere usati legittimamente. L'idea di un potere legittimo è doppiamente ingannevole. In

primo luogo perché rinuncia a una critica della violenza e dei rapporti di potere in nome di un

loro uso limitato e legittimo; in secondo luogo depotenzia la possibilità di una critica del potere

con l'idea che, poiché se ne fa un uso

solo legittimo ed è perciò attributo non

personale ma di un “ufficio”, chiunque

può trovarsi nella condizione di fare uso

legittimo del potere e della violenza.

Questa falsa uguaglianza dissimula

quella vera, in cui non si esercita potere.

L'idea di una violenza legittima fa della

violenza un semplice atto ed occulta la

sua sostanza di qualificazione delle relazioni. Se vi è ricorso alla violenza, sia pur legittima e li -

mitata, è perché i rapporti sono intrinsecamente violenti, hanno la violenza come loro intrinseca

possibilità, anzi necessità. Tali sono i rapporti di produzione capitalistici.

20

La formazione del capitale fittizio la si chiama capitalizza-zione. Si capitalizza ogni reddito regolare e periodico, con-siderandolo in base al saggio medio dell'interesse come provento che verrebbe ricavato da un capitale dato in pre-stito a questo saggio d'interesse; se ad es. il reddito annuo corrisponde a 100 Lst. e il saggio d'interesse è del 5%, le 100 Lst. rappresenterebbero allora l'interesse annuo di 2.000 Lst. E queste 2.000 Lst. sono considerate come il va-lore capitale del titolo giuridico di proprietà sulle 100 Lst. annue. Per colui che acquista questo titolo di proprietà, le 100 Lst. di reddito annuo rappresentano effettivamente il pagamento d'interessi del suo capitale investito al 5%. Svanisce così anche l'ultima traccia di qualsiasi rapporto con l'effettivo processo di valorizzazione del capitale e si consolida l'idea che rappresenta il capitale come automa che si valorizza di per se stesso.K. Marx Il Capitale libro III, pag. 550.

9. L'ultima fase del capitalismo. Capitalismo finanziario e bio-capitalismo.

Una delle più ricorrenti definizioni utilizzate per esprimere l'attuale fase del capitalismo (es-

sendo l'altra, di cui si darà conto, bio-capitalismo) è capitalismo finanziario. Con questa defi-

nizione si sottolinea la rilevanza che si è attribuita negli ultimi decenni alla appropriazione priva-

ta della ricchezza monetaria e finanziaria e alla esorbitante prevalenza che essa ha assunto nei

processi di produzione e di distribuzione, tanto da poter descrivere gli ultimi decenni come un

susseguirsi di “bolle” e di “crack”.

Con lo sviluppo del capitalismo finanziario è divenuto evidente la mancanza di consistenza

teorica delle teorie monetariste e neoliberiste, e il loro carattere puramente ideologico. Non au-

mentare la quantità di moneta e liberalizzare i mercati creditizi e finanziari ha significato solo

trasferire il potere di controllo sui flussi della ricchezza monetaria dagli Stati nazionali alle multi-

nazionali e ai mercati finanziari. Come gli Stati nazionali hanno per decenni finanziato lo svilup-

po industriale creando debito pubblico, così le multinazionali della finanza globale hanno finan-

ziato negli ultimi decenni lo sviluppo del capitalismo globale con la creazione di titoli di proprietà

fittizi che equivalgono a un aumento del debito globale.

I titoli finanziari sono titoli di proprietà in grado di moltiplicarsi in quanto funzionano in modo

speculare al funzionamento della moneta. Una stessa quantità di moneta può consentire molte-

plici compravendite, passando di mano in mano. Questa facoltà della moneta si chiama velocità

di circolazione: tanto più essa è elevata tanto minore può essere la quantità di moneta circolan-

te. I titoli finanziari hanno una funzione similare: finanziano molteplici debiti; ma con una essen-

ziale differenza.

Mentre il rapporto tra quantità di moneta e la sua capacità di moltiplicare gli scambi è inver-

so, la relazione tra titoli finanziari e la loro capacità di moltiplicare i debiti è diretta: tanti più de-

biti tanti più crediti, tanti più titoli di proprietà. La situazione attuale è che il valore dei titoli di

proprietà, il valore di cui si vanta la proprietà, è decine di volte superiore al valore di tutto la pro-

duzione mondiale. Il risultato, teoricamente paradossale ma praticamente stringente, è che trat-

21

tandosi di capitale monetario i crediti fittizi che si sono accumulati pretendono comunque la loro

parte di profitto.

L'altra definizione con cui si descrive l'attuale fase del capitalismo è bio-capitalismo. Con essa

si vuole indicare alla trasformazione dei rapporti di produzione - di cui l'espansione della finanza

globale costituisce solo un aspetto. Il capitalismo finanziario agirebbe infatti come “proprietà as-

senteista”. In questo senso si dice che il profitto si trasforma in rendita: con esso si remunera la

proprietà anche se essa non esercita alcuna funzione diretta nei processi di produzione di nuovo

valore. Questa interpretazione non va intesa nel senso che il processo di valorizzazione e accu-

mulazione del capitale, cioè la creazione di nuovo valore, si interrompe. La caratteristica del di-

battito sul bio-capitalismo consiste nella ipotesi che a creare nuovo valore non sia solo il lavoro

inteso come attività produttiva di merci ma, insieme ad esso, anche tutte quelle attività – dalla

cultura al tempo libero, dalla cura del corpo all'assistenza agli invalidi – che non danno come ri -

sultato delle merci ma la stessa esistenza fisica e biologica, e il cui valore solo fittiziamente può

essere misurato in termini di ore di lavoro occorso alla produzione.

Sviluppando questa ipotesi si può dire che nel bio-capitalismo ad essere sottoposto a sfrutta-

mento, ad essere sussunto nel processo di valorizzazione, non è solo l'attività produttiva, che si

svolge per un numero di ore più o meno limitato, ma l'intera esistenza. Il che significa anche che

ad essere ridotta a merce non è solo la forza-lavoro ma la stessa vita e che il processo di accu-

mulazione del capitale non è legato allo sfruttamento diretto del tempo di lavoro, ma allo sfrut-

tamento indiretto sui tempi e sui modi della forma di vita sussunta nei processi della produzione

e della riproduzione dell'economia mercantile.

22

Ciò che va messo in evidenza, e che accomuna tanto l'analisi delle recenti forme di appro-

priazione condotta dagli studi sul capitalismo finanziario, quanto le ricerche sul bio-capitalismo e

l'evoluzione dei rapporti di produzione, è

l'impossibilità di comprendere le dinami-

che economiche come fenomeni deter-

minati da una qualche legge del valore. Il

valore sembra anzi una conseguenza dei

precari equilibri di mercato, piuttosto che

la loro causa. Tale conclusione, piuttosto

che confutare la teoria del valore ne con-

ferma la vera natura. Il valore, la misura-

bilità non solo dei prodotti del lavoro ma

della stessa forza-lavoro come particella

di valore astratto, non è l'evento che fun-

ge da causa di una catena più o meno

lunga di effetti, ma l'esito di un potere e

di una violenza il cui esercizio caratteriz-

za i rapporti di produzione capitalistici e

la forma di vita moderna.

10. Economia politica e forma di vita.

Nell'opera di Marx la forma di vita mo-

derna, che ha nel capitalismo la sua spe-

cifica organizzazione, trova espressione

in due contesti concettuali.

Il primo consiste nella critica all'indivi-

duo in quanto apparenza di unità e com-

23

Questa “estraneazione”, per usare un termine compren-sibile ai filosofi, naturalmente può essere superata sol-tanto sotto due condizioni pratiche. Affinché tutto diven-ti un potere “insostenibile”, cioè un potere contro il qua-le si agisce per via rivoluzionaria, occorre che essa abbia reso la massa dell'umanità affatto “priva di proprietà” e l'abbia posta altresì in contraddizione con un mondo esi-stente della ricchezza e della cultura, due condizioni che presuppongono un grande incremento della forze pro-duttiva, un alto grado del suo sviluppo; e d'altra parte questo sviluppo delle forze produttive (in cui è già impli-cita l'esistenza empirica degli uomini sul piano della storia universale, invece che sul piano locale) è un pre-supposto pratico assolutamente necessario anche per-ché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario e ritornerebbe per forza tutta la vec-chia merda, e poi perché solo con questo sviluppo uni-versale delle forze produttive possono aversi relazioni universali fra gli uomini, ciò che da una parte produce il fenomeno della massa “priva di proprietà” contempora-neamente in tutti i popoli (concorrenza generale), fa di-pendere ciascuno di essi dalle rivoluzioni degli altri, e in-fine sostituisce agli individui locali individui inseriti nella storia universale, individui empiricamente universali. Senza di che 1) il comunismo potrebbe esistere solo come fenomeno locale, 2) le stesse potenze dello scam-bio non si sarebbero potute sviluppare senza potenze universali, e quindi insostenibili e sarebbero rimaste “circostanze” relegate nella superstizione domestica, 3) ogni allargamento delle relazioni sopprimerebbe il co-munismo locale. Il comunismo è possibile empiricamente solo come azione dei popoli dominati tutti in “una volta” e simultaneamente, ciò che presuppone lo sviluppo uni-versale della forza produttiva e le relazioni mondiali che esso comunismo implica. Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comuni-smo il movimento reale che abolisce lo stato di cose pre-sente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente. D'altronde la massa di sem-plici operai – forza lavorativa privata in massa del capi-tale o di qualsiasi limitato soddisfacimento – e quindi anche la perdita non più temporanea di questo stesso la-voro come fonte di esistenza assicurata, presuppone, at-traverso la concorrenza, il mercato mondiale. Il proleta-riato può dunque esistere soltanto sul piano della storia universale, così come il comunismo, che è la sua azione, non può affatto esistere se non come esistenza “storica universale”. Esistenza storica universale degli individui, cioè esistenza degli individui che è legata direttamente alla storia universale.K. Marx, F. Engels La concezione materialistica della storia, pag. 76.

piutezza dell'esistenza. L'individuo è infatti solo una compiuta contraddizione, e la sua costruzio-

ne teorica l'esempio più evidente dell'ideologia borghese. La critica al concetto di individuo per-

mette perciò a Marx di evidenziare le contraddizioni dell'ideologia borghese, a partire dalla filo-

sofia hegeliana fino al socialismo utopistico. Con tale critica Marx riesce a chiarire che l'idea di

una vita compiuta in forma individuale, come una sorta di autopossesso e autoapprendimento

del singolo essere umano è un'idea priva di senso, la cui unica funzione è di natura ideologica

tesa a dissimulare il reale stato di cose, che egli individua nella natura storica dell'esistenza

umana.

Il secondo contesto concettuale è la distinzione soggetto\oggetto così come si manifesta nel

processo di produzione capitalistico. Qui l'oggetto ha la consistenza del prodotto del lavoro e del

mezzo di produzione che in quanto merce e in quanto capitale fisso si ergono di fronte al sogget-

to come potenze autonome e contrapposte. Di contro, il soggetto è il lavoro vivo completamente

privato di ogni consistenza oggettiva, puro dispendio di energia il cui contenuto gli proviene

dall'esterno come scopo della valorizzazione del capitale, e il cui esito gli si contrappone oggetti -

vamente in quanto proprietà del capitale.

Tanto l'idea di una vita a cui viene riconosciuta una consistenza solo individuale, quanto quel-

la di una soggettività svuotata da ogni oggettività, sono espressione della forma di vita moderna

e della figura che i rapporti di potere e l'esercizio della forza assumono in essa.

La critica al capitalismo e, insieme ad esso, alla forma di vita propria della modernità, è diret-

ta a mostrare il modo in cui, in rapporti tra individui apparentemente liberi e uguali, si esercita il

potere. Solo riconoscendo l'esercizio della forza, la violenza e il potere è possibile esercitare una

resistenza tesa a creare rapporti privi di potere, emancipati dall'uso della violenza. Se non è

emancipazione dalla violenza e dai rapporti di potere, l'emancipazione umana diventa un'idea di

progresso priva di contenuti o l'atto di fede di una religione laica.

Con umanità ci si riferisce tanto al genere umano, cioè a tutti gli esseri umani, che alla uma-

nità di ogni singolo essere umano. La coniugazione tra questi antitetici significati della parola

24

umanità è in ogni senso una contraddizione irrisolvibile, ed ogni tentativo di risolverla si traduce

in semplificazioni banalizzanti o peggio mortificanti.

Come definire l'essere umano? Cos'è l'uomo? Può apparire una questione accademica, e per

lo più è affrontata così. Ma è chiaro che in essa è in gioco non solo l'idea di umanità ma anche

l'immagine o il senso dell'identità personale. Nella modernità la contraddizione si è presentata

nella forma della estraniazione e ha sempre più assunto come propria espressione un conflitto

esistenziale interiore, dove la contrapposizione tra l'Io e gli Altri ha un significato psicologico.

L'eroe borghese si consuma nell'introspezione.

Il fascismo, e la filosofia che ne ha assunto la problematica come reale, ha inteso comporre la

contraddizione stabilendo gradi diversi di umanità, dove quella più pura sta conficcata in una

originaria profondità abissale, quella che si raggiunge solo se si è disposti a svuotare di senso

storico ogni esistenza per poterne attribuirgli uno qualunque, rendendo non solo possibile ma

anche attuale il male assoluto, quello che non avendo alcuna ragione si autogiustifica.

I recenti tentativi di pacificare la contraddizione ponendo uno con l'altro i due lati dell'antitesi,

l'Io con gli Altri, l'essere-con di ogni singola esistenza, per quanto benintenzionata, rischiano di

sfuggire al problema che dicono di affrontare. Ogni singola esistenza è un esito, un risultato di

uno stato di cose fatto da tanti altri; questa constatazione è così banale da non comunicare altro

che un'impotenza, una inettitudine, inutilmente condita da un vago amore per la vita. Ogni esi-

stenza è anche immagine dell'umanità, e se in passato vi sono state figure umane che hanno

segnato, con la loro esistenza, epoche intere, come l'eroe nell'Antichità o il santo nel Medioevo,

lo stesso vale per l'oggi. Ma la figura di uomo attuale non è né diretta all'umanità di un popolo

né all'umanità di una comunità religiosa, ma a un'umanità che dà forma alla sua vita. A questa

umanità dell'essere umano Marx si riferisce con l'espressione essere altrimenti.

11. “Compito storico” e “limite immanente” del capitalismo.

L'idea, o la concezione filosofica, che può indicare l'esigenza da cui procede la critica del ca-

pitalismo condotta da Marx, è che vi sia un processo di emancipazione delle relazioni umane e

25

delle forme di vita, e questo processo è l'esito dell'attività stessa degli esseri umani. Rendere

consapevole tale processo di emancipazione è allora il compito principale della critica dell'eco-

nomia politica.

Il capitalismo è infatti inteso da Marx come una tappa di questo processo. Il capitalismo può

essere inteso come emancipazione umana in due significati distinti anche se strettamente legati

fra loro. Nel primo significato il capitalismo è l'esito di un processo rivoluzionario che ha abolito i

rapporti feudali e la dipendenza personale ed introdotto nuove relazioni sociali fondate sulla li-

bertà individuale e sulla proprietà privata. Nel secondo e più proprio significato il capitalismo è

il superamento dei limiti alla produzione, poiché pone come fine della produzione non più dei va-

lori d'uso ma la accumulazione di valore, di ricchezza astratta. Se nei precedenti modi di produ-

zione la produzione avveniva sulla base di presupposti che si trattava solo di riprodurre, nel ca-

pitalismo unico presupposto della produzione è l'accumulazione di ulteriore valore. Evidente-

mente l'illimitatezza della produzione capitalistica non va intesa solo in senso quantitativo ma

anche qualitativo: ogni oggetto ma anche ogni abitudine o struttura sociale non è solo un pre-

supposto ma anche il prodotto dell'attività umana.

Gli esseri umani producono non solo degli oggetti utili ma anche le condizioni della loro esi-

stenza, e lo fanno in quanto esseri generici, membri del genere umano. L'idea di autoproduzione

dell'uomo è per lo più un'idea antireligiosa: essa nega l'idea di un dio creatore e del mondo

come creato.

La realtà che promana dalla religione è quella del sacro, cioè di un ordine delle cose la cui ra-

gione trascende l'umano e ne costituisce il limite all'azione. L'autoproduzione del genere umano

non ha limiti, se non quelli consapevolmente conseguiti – il che dovrebbe chiarire anche l'impe-

gno della filosofia che anziché dedicarsi a questa consapevolezza, a causa del suo recente con-

nubio con il fascismo e per il timore di una ricaduta, si limita alle piccole cose. Ma mentre nel sa-

cro la vita trascorre lungo un tempo lineare tra la creazione e la redenzione, come vita incompiu-

ta o al più, in quanto apparenza di vita compiuta, come vita sacrificata; nel profano la vita è con-

26

duzione dell'esistenza nella compiutezza storica dell'essere umano. A mancare il suo senso non

è la vita, ma la vita incompiuta.

Nel capitalismo la produzione illimitata si presenta in forma astratta, come produzione di va-

lore, che non ha limiti ma che diventa esso stesso un limite. Poiché lo scopo della produzione è il

plusvalore – un aumento del valore – la produzione stessa viene limitata laddove essa non pro-

duce plusvalore, ciò che Marx chiama li-

mite immanente alla produzione. Il plu-

svalore come limite alla produzione è la

causa diretta delle crisi capitalistiche e

della distruzione di valore e di capacità

produttiva che esse determinano come

necessità per la ripresa del processo di

accumulazione.

Il valore è il modo in cui si presenta la

ricchezza nel modo di produzione capita-

listico. In questione cioè non è il valore

assoluto di una cosa – che potrebbe con-

sistere solo in un valore morale o religio-

so. Non è neppure il valore relativo tra

cose, come è suggerito dal concetto di

scarsità per cui il valore di scambio mi-

sura la relazione tra il bisogno e la dispo-

nibilità degli oggetti atti alla sua soddi-

sfazione – tale concetto di scarsità è, nel

capitalismo, associato alla speculazione: poiché in un mondo in cui il fine della produzione non è

la soddisfazione di bisogni dati ma l'accumulazione di ricchezza astratta, quindi dove è l'offerta

27

Ormai è certamente facile dire all'individuo singolo quello che già disse Aristotele: tu sei generato da tuo padre e da tua madre, e quindi la congiunzione di due esseri umani, cioè un atto proprio della specie umana ha prodotto in te l'uomo. Tu vedi dunque che l'uomo è debitore della sua esistenza anche fisicamente all'uomo. Devi quindi tener presente non un unico lato soltanto, cioè il progresso all'infinito per cui vieni a chiedere chi ha generato mio padre, chi suo nonno e via di seguito. Tu devi anche porre attenzione al movimento circolare, che si può vedere sen-sibilmente in quel progresso, in base al quale l'uomo nella generazione riproduce se stesso, e l'uomo rimane quindi sempre soggetto. Però tu mi potrai rispondere: io ti con-cedo questo movimento circolare, ma tu devi concedermi a tua volta il progresso che mi spinge sempre più indietro sino a farmi domandare chi ha generato il primo uomo e in generale la natura. Posso limitarmi a controbattere: la tua domanda è essa stessa un prodotto dell'astrazione. Domandati come hai fatto ad arrivare a questa domanda; domandati se la tua domanda non proceda da un punto di vista, a cui non posso rispondere perché è assurdo. Do-mandati se quel progresso esista come tale per un pensie-ro razionale. Quando tu ti poni la domanda intorno alla creazione della natura e dell'uomo, fai astrazione dall'uomo e della natura. Tu li poni come non esistenti, eppure vuoi che te li provi come esistenti. Ed io ora ti dico: se rinunci alla tua astrazione, devi rinunciare pure alla tua domanda; se vuoi invece rimanere fedele alla tua astrazione, devi essere conseguente, e se pensi l'uomo e la natura come non esistenti, allora pensa come non esi-stente anche te stesso, perché tu stesso sei pure natura e uomo. Non pensare, non interrogarmi, perché non appena pensi e interroghi, la tua astrazione dall'essere della natu-ra e dell'uomo perde ogni senso. Oppure sei tu un tale egoista che ogni cosa poni nel nulla, ma ciò nonostante vuoi essere. K. Marx Manoscritti economici-filosofici del 1844, pag.124.

a creare la domanda, la scarsità può essere solo fittizia, e atta a mantenere il valore dei prodotti

surrettiziamente elevato. Il valore è la misura di una relazione tra l'attività umana e il suo pro-

dotto. Esso, e con esso il sistema della produzione, entra in crisi – cioè il processo si interrompe

– quando entra in crisi la relazione tra lavoro necessario e plus lavoro. Condizione per la ripresa

del processo di valorizzazione è che l'attività produttiva venga ricondotta alla misura di lavoro

necessario, poiché solo come attività di scarso valore può essere posta come base alla creazione

di valore eccedente, valore che non ha misura propria ma è misura della sua relazione in quanto

lavoro eccedente oggettivato in un valore con il lavoro necessario alla sua produzione.

Il limite immanente non è allora un limite che si raggiunge una volta per tutte, o raggiunto il

quale il capitalismo si autodissolve. Esso è piuttosto manifestazione del potere del capitale e

della sua specifica forma di esercizio. Di fronte ad esso si deve abbandonare ogni speranza, ogni

idea di un progresso automatico della storia.

12. Tempi moderni.

Si è cercato di mostrare che il valore non è una cosa, né una relazione tra cose, quanto piut-

tosto l'esito di un processo: del processo di valorizzazione del capitale. Al valore occorre guarda-

re non come a un processo lineare, come a una relazione causa-effetto, ma come un vortice: a

volerlo penetrare per coglierne il punto centrale si verrebbe trascinati nelle sue turbolenze.

Il valore non è infatti un problema da risolvere ma la soluzione offerta dalla borghesia

nell'epoca moderna, una soluzione limitata e un limite essa stessa. Se si vuole andare finalmen-

te al centro del vortice moderno occorre cogliere la questione prima della sua soluzione. Solo

così si comprenderà in che senso quella soluzione limitata è a sua volta un limite.

28

Il punto di rottura, la discontinuità epocale tra

Medioevo e Modernità si può identificare nel supe-

ramento della religione come suprema ragione

della vita umana. La rivoluzione scientifica, le sco-

perte geografiche, la costituzione degli Stati so-

vrani segnano gli eventi di rottura con la Chiesa,

con la comunità dei fedeli, strumento della salvez-

za in Cristo. Nella modernità il concetto di storia

perde il suo riferimento a un aldilà come fine da

conseguire in quanto regno della salvezza, e assu-

me le sembianze di un eterno presente su cui il

regno dei cieli incombe come una minaccia, un

catastrofico giorno del giudizio da scongiurare.

Su questa trasformazione del concetto di storia

- da quello religioso in cui il tempo ha una direzione che parte dalla creazione per giungere alla

redenzione, a quello prosaico in cui il tempo è un eterno presente che non conduce da nessuna

parte - si costituisce la forma di vita dell'individuo moderno.

L'eterno presente in cui vive l'individuo è in

debito verso il futuro poiché non si è veramente

emancipato dalle forze della religione, per quan-

to rifiuti di sottomettersi ad esse. La sua libertà

dalla religione resta una libertà solitaria che se

ha perso la speranza in una giustizia divina è

perché sa che nel giorno del giudizio verrà con-

dannato. La sua infatti è la libertà borghese che

si appaga del possesso delle piccole cose e rinuncia a ogni domanda che lo interroga sul senso

29

In un frammento giovanile, Walter Benjamin (ra-dicalizzando l'interpretazione di Max Weber che aveva associato lo spirito del capitalismo all'etica protestante) descrive il capitalismo come una nuova religione il cui elemento caratteristico è di assoggettare l'esistenza a una colpa da cui non è possibile redimersi, poiché colpevole non è un'azione ma la vita in quanto tale.Siccome il termine tedesco “Schuld” può essere tradotto sia con “colpa” che con “debito”, il sen-so della posizione di Benjamin sembra evidente e del tutto attuale. Ma è nel suo saggio sull'Età Ba-rocca che quell'idea trova la sua articolazione. Una caratteristica essenziale dell'Età Moderna è il suo abbandono della religiosità medioevale e dell'idea di una “fine dei tempi”. Alla concezione escatologica della storia, secondo cui la vita era un decorso verso la via della salvezza ultraterre-na, si sostituisce un'idea di storia che si risolve nelle azioni degli Stati e dei Capi di Stato. La vita veniva svuotata di ogni contenuto trascendente e ridotta a nuda vita creaturale, che come nella creazione è priva di storia. Vita storica e vita indi-viduale risultano così separate da una incomuni-cabilità e da una mancanza di senso: la storia di-venta un eterno presente da salvaguardare e il potere si legittima proprio nell'idea di continuità del potere costituito.

La funzione della violenza nella creazione giuridi-ca è infatti duplice in questo senso, che la crea-zione giuridica, mentre persegue, in quanto sco-po, qualcosa da instaurare come diritto, con la violenza come mezzo, nel momento di insediare lo scopo conseguito come diritto non abdica alla vio-lenza, piuttosto solo ora la rende in senso stretto e immediato creazione di diritto, qualcosa di non libero e indipendente dalla violenza, anzi necessa-riamente e profondamente collegato ad essa, in quanto diritto insediato nel nome del potere. Creazione di diritto è creazione di potere e perciò un atto di immediata manifestazione di violenza.W. Benjamin Per la critica della violenza, in Ange-lus Novus p. 24 (traduzione modificata)

della sua esistenza o sul valore dei suoi gesti. Il futuro agisce come destino a cui la vita indivi-

duale è soggetta.

La forma terrena del destino è il diritto. E' nel

diritto che la forma di vita dell'individuo trova il

suo senso. Esso è una reale emancipazione dal

potere dell'autorità spirituale della religione, ma il

suo prezzo è lo svuotamento del senso storico

dell'esistenza. Non solo il futuro si presenta come

l'esattore di una vita in debito in quanto dedita

all'accumulazione senza fine dei beni terreni e del

tutto disinteressata alla grazia, ma il passato svanisce nell'eterna ripetizione del presente. La

vita non è solo priva di grazia ma anche vuota di contenuto. La vita è così condotta come nel

giorno della creazione, in cui non vi è storia.

La negazione della consistenza storica dell'esistenza fa della vita una nuda vita, del tutto ri-

ducibile ai suoi elementi naturali e quindi intercambiabile: ogni esistenza è uguale a ogni altra

perché tutte sono vuote e tra loro indifferenti.

La vita dell'individuo moderno si è perciò emanci-

pata dal potere spirituale ma sottomettendosi ad un

potere temporale. Per cogliere appieno il funziona-

mento del potere terreno si può ricorrere al concetto

di stato d'eccezione, e del cambiamento di significa-

to che assume nell'età moderna rispetto all'epoca

precedente. Lo stato d'eccezione, nella concezione moderna, è una dichiarazione di limitazione

delle libertà costituzionali e di attribuzione di poteri eccezionali a colui che detiene il potere

esecutivo (sia esso principe, dittatore o presidente in una Repubblica democratica). Esso costi -

tuirebbe perciò una deroga all'esercizio legittimo del potere, poiché esercizio di un potere ecce-

30

Il destino appare quando si considera una vita come condannata, e in fondo tale che prima è stata condannata e solo in seguito è divenuta colpevole. Come Goethe riassume queste due fasi nelle parole: “Voi fate diventare il povero colpevole”. Il diritto non condanna al castigo, ma alla colpa. Il destino è il contesto colpevole di ciò che vive. Esso corrisponde alla costituzio-ne naturale del vivente... L'uomo non ne viene mai colpito, ma solo la nuda vita in lui, che par-tecipa della colpa naturale e della sventura in ragione dell'apparenza. (W. Benjamin Destino e carattere in Angelus Novus pag. 35)

Nucleo del pensiero del destino è piuttosto la convinzione che la colpa, che in questo contesto è sempre colpa creaturale – in ter-mini cristiani: il peccato originale – e non un'infrazione morale dell'agente, attraverso una sua manifestazione, per quanto magari fugace, scatena la causalità come strumento delle fatalità che inarrestabilmente si dipa-nano. Il destino è l'entelechia del divenire nel campo magnetico della colpa.W, Benjamin Il dramma barocco tedesco, pag. 127

zionale non previsto dalla legge. Ritenere che una situazione di fatto giustifica una tale deroga è

del tutto fuorviante: in questione non è l'attribuzione di poteri eccezionali nel caso di eventi

straordinari (calamità naturali, rivolte o guerre) ma ritenere che lo stato d'eccezione sia un attri-

buto del potere sovrano, un potere ulteriore oltre quello che già gli compete: il potere di dichia-

rare lo stato d'eccezione, poiché l'imbroglio è proprio che a dichiarare lo stato d'eccezione e ad

attribuire poteri straordinari al sovrano... è il sovrano.

Nel confronto con la concezione premoderna dello stato d'eccezione si chiarisce l'inganno. In

essa lo stato d'eccezione corrisponde alla sospensione del potere esecutivo e alla delegittima-

zione del sovrano. Stato d'eccezione è la dichiarazione di illegittimità di colui che esercita il po-

tere. Quando Walter Benjamin afferma che lo stato d'eccezione in cui viviamo è la regola, e indi-

ca come compito quello di creare il “vero stato di emergenza”, fa riferimento a questa concezio-

ne, cioè a uno stato di permanente e irrisolvibile illegittimità del potere. Ma il “vero stato

d'emergenza” è possibile solo entro rapporti che abbiano deposto il potere e abbandonato per

sempre l'idea di un potere legittimo.

Il potere non è attributo personale del sovrano, non è il legittimo esercizio di un ufficio pubbli -

co, né la delega proveniente da un dio o da un popolo. Potere è una qualificazione dei rapporti.

Tanto più i rapporti sono svuotati di ogni contenuto storico e ridotti a relazioni tra individui priva-

ti, tanto più il potere appare legittimo, poiché diventa l'unico modo per poter decidere, fonte e

detentore del decorso storico.

L'epoca moderna ha delegato al soggetto politico, un soggetto il cui compito è governare un

mondo vuoto e meramente oggettivo, il potere temporale che rende eterno il presente e nega

consistenza storica a un'esistenza ridotta a nuda vita individuale.

In questione non è la libertà individuale ma la qualità delle relazioni in cui si conduce l'esi-

stenza e che di ogni vita individuale costituiscono tanto la consistenza storica, il suo essere coa-

gulo dell'intera umanità, quanto la sua parte di grazia o di terrena felicità.

31

Glossario.

Marx si rende conto che per condurre la criti-

ca alle teorie economiche occorrono adegua-

ti concetti che egli deve elaborare per poter

specificare i fenomeni economici.

Capitale= è valore che si accumula, o che

si autovalorizza. Il suo significato non è per-

ciò univoco, esso ne assume tanti quanti

sono gli aspetti con cui si presenta il modo di

produzione capitalistico. La sua definizione

più comprensiva, che è anche la meno defi-

nita, è :”il capitale non è una cosa, bensì un

determinato rapporto di produzione sociale,

appartenente ad una determinata formazio-

ne storica della società”. (Il Capitali vol.III,

pag 927.)

Forza-lavoro= è il lavoro nel modo di pro-

duzione capitalistico, cioè il lavoro in quanto

merce. Essa ha un valore, il salario, con cui il

capitale la può acquistare. Ma il capitale è

un valore che si autovalorizza, ed esso ac-

quista forza-lavoro non per soddisfare biso-

gni ma per accumulare altro valore. Esso ac-

quista forza-lavoro perché la forza-lavoro in

atto, il lavoro, crea valore in quantità supe-

riori al suo costo.

Lavoro vivo= è il lavoro in quanto eserci-

zio, dispendio di energia, soggettività priva

di ogni oggettività.

Lavoro morto= è il lavoro accumulato, in-

corporato in merci e in capitale fisso, che si

contrappongono al lavoro vivo come un po-

tere oggettivo.

Capitale fisso = indica il valore dell'investi-

mento in beni strumentali – macchinari, fab-

bricati, ecc. - che cioè non ha una forma che

gli consente di circolare.

Capitale circolante= è quell'insieme di

valori investiti in forme che possono facil-

mente circolare, ovvero merci finite o mate-

rie prime e ovviamente denaro o titoli di cre-

dito di cui può disporre un'impresa.

Capitale costante= indica il valore

dell'investimento che nel processo produtti-

vo non cambia il suo valore ma lo rinnova, o

meglio: lo conferma, nel senso che alla fine

del processo produttivo vi sarà una quantità

di valore che sarà destinato a sostituire o

compensare la perdita di valore dei macchi-

nari e dei vari beni strumentali occorsi nel

processo produttivo. Il suo simbolo è C.

Capitale variabile= è quel valore

dell'investimento che nel corso del processo

32

La tradizione degli oppressi ci insegna che lo “stato di emergenza” in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di emergenza; e ciò migliorerà la nostra posizione nella lotta contro il fascismo. La sua fortuna consiste, non da ultimo, in ciò: che i suoi avversari lo combattono in nome del progresso come di una legge storica. Lo stupore perché le cose che viviamo sono “ancora” possibili nel ventesimo secolo è tutt'altro che filosofico. Non è all'inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l'idea di storia da cui proviene non sta più in piedi.W. Benjamin Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus, pag. 79.

di produzione si accresce, ovvero il costo

della forza-lavoro. Solo la forza-lavoro infatti

ha un valore, il salario, minore del valore che

produce. Il capitale variabile è anche la mi-

sura in valore del lavoro necessario. Il suo

simbolo è V.

Composizione organica del capitale= è

il rapporto che misura quanto del valore in-

vestito nell'impresa ha la forma di capitale

costante e quanto ha la forma di capitale va-

riabile. La sua funzione è: C/V.

Lavoro necessario = si definisce necessa-

rio la quantità di lavoro che occorre a retri-

buire la forza lavoro necessaria a produrre

una data merce. La forza lavoro ha un prez-

zo, il suo salario, e questo prezzo misura il

lavoro necessario. Il lavoro eseguito dalla

forza lavoro retribuita dal suo salario è mag-

giore del lavoro necessario per ripagare la

sua retribuzione.

Lavoro eccedente o pluslavoro = è la

quantità di lavoro che la forza-lavoro esegue

in eccedenza al lavoro necessario, alla quan-

tità di lavoro che corrisponde alla sua retri-

buzione. Il valore-lavoro, cioè il valore misu-

rato in termini di quantità di lavoro, di una

data merce è pari al lavoro necessario più il

lavoro eccedente o pluslavoro in essa conte-

nuto. Il rapporto tra plulavoro e lavoro ne-

cessario si chiama sfruttamento del lavoro.

Plusvalore= è la quantità di valore prodot-

ta dal lavoro che eccede il costo della forza-

lavoro. Esso corrisponde alla misura in valo-

re del pluslavoro o lavoro eccedente. Il suo

simbolo è Pv.

Saggio del plusvalore= è il rapporto tra

plusvalore e costo della forza-lavoro occorso

alla sua produzione, esso equivale al rappor-

to tra pluslavoro e lavoro necessario, cioè al

saggio di sfruttamento del lavoro. La sua

funzione è pv'=Pv/V.

Profitto= è la misura della valorizzazione

del capitale investito. In termini assoluti esso

equivale al plusvalore, ma siccome è consi-

derato in quanto eccedenza del valore

dell'intero capitale investito, e non solo del

valore della fora-lavoro, in termini relativi

esso è minore del plusvalore. La differenza

tra plusvalore e profitto è forse il maggior

contributo teorico dato da Marx alla teoria

economica, con cui sarà in grado di scioglie-

re le contraddizioni in cui incorrono i padri

dell'economia classica, Adam Smith e David

Ricardo.

Saggio di profitto= è la misura della valo-

rizzazione dell'intero capitale investito, cioè

il plusvalore rapportato all'intero capitale. La

sua formula è: Pv/C+V.

Saggio medio del profitto= è quello che

Marx definisce ironicamente il comunismo

dei capitalisti: la concorrenza capitalistica

non si preoccupa delle differenze tra le di-

verse forme del capitale, per i capitalisti ogni

capitale è pur sempre valore che si autovalo-

rizza, e ognuno di loro fa valere il proprio ca-

pitale come parte aliquota del capitale in ge-

nerale, pretendendo che ognuno partecipi

con pari diritto alla spartizione dell'ecceden-

za di valore generato nel modo di produzio-

ne che contribuiscono a conservare alimen-

tando, ognuno per suo conto, lo scambio con

la forza-lavoro. La libera concorrenza, che

nel mondo della produzione si esplica diri-

gendo gli investimenti dove più alto è il plu-

svalore estorto, nel mondo della finanza si

realizza con più facili spostamenti di titoli di

proprietà finanziaria.

Caduta tendenziale del saggio di pro -

33

fitto= è l'esplicazione che con un aumento

della composizione organica del capitale,

cioè un aumento della parte di investimento

destinata al capitale costante relativamente

a quella investita nell'acquisto di forza-lavo-

ro, il saggio di profitto diminuisce. Se si divi-

de numeratore e denominatore della formula

del saggio del profitto per il capitale variabile

V, si ottiene:

PvV

CV

+1il numeratore è il saggio di plusvalore,

il denominatore contiene la formula della

composizione organica del capitale, per cui:

il saggio di profitto è in relazione diretta al

saggio di plusvalore e in relazione inversa

con la composizione organica del capitale.

Valore di scambio= Se con esso, in coe-

renza con la teoria economica classica, si in-

tende il valore assoluto del prodotto dell'atti-

vità umana esso è pari alla quantità di lavoro

occorso alla sua produzione, quindi, al valore

del capitale costante, al lavoro retribuito,

ovvero al valore della forza-lavoro misurato

dal capitale variabile V, più il lavoro non re-

tribuito, pari al plusvalore Pv.

Prezzo di costo= Come già detto, il prezzo

ha un significato del tutto diverso dal valore.

Il valore è l'espressione del lavoro umano in

quanto produttivo di ricchezza astratta, sus-

sunto entro rapporti in cui l'accumulazione di

valore è il fine della produzione. Il prezzo è

invece un potere attribuito a ogni singola

merce; è una misura, per così dire, necessa-

ria: quel prezzo deve realizzarsi, e se non si

realizza la produzione di quella merce entra

in crisi, si interrompe. Il prezzo di costo è

quanto la merce costa in termini di capitale

più il saggio di plusvalore che si ottiene nel

suo ciclo di produzione. Pc= K+Pv (dove

K=C+V), che può essere scritta nella forma:

Pc= K (1+ p') (dove p'= Pv/K è il saggio di

profitto di quello specifico ciclo produttivo).

Prezzo di mercato= è il prezzo ottenuto

nel mercato di scambio e che può oscillare,

cioè assumere valori maggiori o minori, ri-

spetto al prezzo di equilibrio. Se per prezzo

di equilibrio di intende quel prezzo che oltre

a coprire i costi di produzione C+V realizza il

saggio medio del profitto allora se il prezzo

di mercato è maggiore del prezzo di equili-

brio quell'industria realizza un plus profitto e

perciò attrae nuovi investimenti; nel caso in

cui il prezzo di mercato è minore del prezzo

di equilibrio quel prodotto non realizza per

intero o per nulla il saggio medio del profitto

e quindi si assisterà ad un disinvestimento.

Le stesse oscillazioni si avranno se il prezzo

di mercato realizza il prezzo di costo, poiché

quest'ultimo può essere diverso dal prezzo

di equilibrio. Infatti il saggio di profitto otte-

nuto in quel particolare ciclo produttivo e

contenuto in quella particolare merce, può

essere maggiore o minore del saggio medio

del profitto.

Prezzo=il prezzo, senza ulteriori attributi, è

la normalità, l'agognato equilibrio in cui il

giusto è realizzato. Giusto, in questo conte-

sto, è che ogni capitale impegnato in una

qualunque attività, valga come valore astrat-

to e in quanto tale partecipi alla equa parti-

zione del sovrappiù di valore. Ogni ciclo pro-

duttivo, per particolari condizioni tecnologi-

che o sociali, può rendere più o meno ampia

la differenza tra lavoro necessario e plusla-

voro, e perciò produrre una merce in cui la

parte di plusvalore è più o meno elevata.

34

Ma, come si è già messo in evidenza, la dif-

ferenza del saggio di profitto tra diverse in-

dustrie alimenta la concorrenza, genera in-

vestimenti e disinvesti menti. L'equilibrio si

raggiunge quando tutti questi movimenti si

interrompono e regna la giusta distribuzione

del valore eccedente su tutto il capitale esi-

stente, offrendo equamente a ogni capitali-

sta il suo saggio medio di profitto, che remu-

nera il capitale non in ragione del pluslavoro

che è riuscito ad estorcere nel suo ramo

d'attività, ma trattandolo con uguaglianza, in

quanto parte aliquota del capitale universa-

le. Così il capitale si emancipa dalla sua esi-

stenza particolare, in quanto investito in uno

specifico processo di produzione, e conduce

la sua vita di puro valore autovalorizzantesi.

Trasformazione dei valore in prezzo. I

tentativi di dimostrare la trasformazione dei

valori delle merci secondo la quantità di la-

voro in esse contenuto ai loro prezzi in termi-

ni di costi di produzione (cioè somma di ca-

pitale costante e capitale variabile) si sono

sempre risolti con la costruzione di sistemi di

equazione, in cui ogni equazione rappresen-

ta le componenti di costo di una merce, o le

quantità di lavoro necessarie alla sua produ-

zione. Questo complicatissimo modo di ra-

gionare non può che fallire, e tanto più quan-

to più è accurato; poiché esso non può pren-

dere in considerazione quell'elemento del

tutto pragmatico e incalcolabile in anticipo in

cui consiste la perequazione del saggio di

profitto. Se si ragiona in termini di valore-

lavoro, si può calcolare il saggio di plusvalo-

re, se si prendono in considerazione i prezzi

di costo (ovvero la quantità di capitale speso

nel corso della produzione) si calcola il sag-

gio di profitto, potendo trasformare l'uno

nell'altro. Ma se si usa come variabile indi-

pendente il saggio medio di profitto si ottie-

ne solo un ragionamento circolare, in cui ciò

che si deve dimostrare (cioè che nel capitali-

smo il processo di produzione è un processo

di accumulazione di valore in cui ogni capita-

le vale come parte aliquota di valore astratto

che si autovalorizza in modo equo a ogni al-

tro capitale, per cui i prezzi devono realizza-

re il saggio di profitto medio) è assunto

come premessa (l'equilibrio economico capi-

talistico presuppone la perequazione del

saggio di profitto in saggio medio del profit-

to, per cui i prezzi si formano sulla base di

un saggio di profitto medio)

Riferimenti bibliografici delle citazioni.

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