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IL CERVELLO AUMENTATO L’UOMO DIMINUITO Miguel Benasayag

Il cervello aumentato, l'uomo diminuito - shop.erickson.itshop.erickson.it/front4/Image/Products/LIBRO_978-88-590-0995-5_X... · I progressi delle neuroscienze contemporanee hanno

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€ 16,50

Da Platone in poi, la tradizione occidentale ha da sempre visto nel cervello la sede del pensiero, un organo con un ruolo del tutto peculiare nella comprensione dei fenomeni umani, che non poteva essere studiato né, tanto meno, modificato. I progressi delle neuroscienze contemporanee hanno introdotto una rottura storica epocale con questa tradizione: il fatto che oggi possiamo studiare il cervello e conoscerne il funzionamento mette in discussione le basi stesse di quello che culturalmente si considera il soggetto umano. Se l’amore, la libertà, la memoria sono effetti più o meno illusori di processi fisiologici cerebrali, è la stessa unità dell’uomo che sembra disperdersi, sparpagliarsi in un movimento centrifugo. Di più, l’ibridazione fra mente e computer, che già oggi è una realtà, assicura all’uomo nuovo, dal cervello aumentato, impianti e neuroprotesi con incredibili potenzialità: vedere al buio, udire a distanza, scaricare competenze, recuperare o modificare i ricordi perduti… tutto questo in un momento in cui le promesse storicistiche e teleologiche di un mondo venturo e perfetto sono venute meno una dopo l’altra.Lungi da qualunque posizione conservatrice o tecnofoba, Miguel Benasayag tenta di comprendere le ricadute antropologiche di questa rivoluzione, soprattutto nelle sue derive più riduzioniste, alla ricerca di un’alternativa umanistica alla colonizzazione tecnocratica della vita e della cultura.

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IL CERVELLOAUMENTATOL’UOMODIMINUITO

Miguel Benasayag, f ilosofo e psicoanalista di origine argentina che vive ed esercita la professione di psicoterapeuta a Parigi, partecipò attivamente alla guerrilla guevarista nel suo Paese dove restò in carcere per anni. È divenuto famosissimo, dapprima in Francia e anche in Italia, grazie al suo libro L’epoca delle passioni tristi. Per le Edizioni Erickson ha pubblicato, con Riccardo Mazzeo, C’è una vita prima della morte?

MiguelBenasayag

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Da Platone in poi, la tradizione occidentale ha da sempre visto nel cervello la sede del pensiero, un organo con un ruolo del tutto peculiare nella comprensione dei fenomeni umani, che non poteva essere studiato né, tanto meno, modificato. I progressi delle neuroscienze contemporanee hanno introdotto una rottura storica epocale con questa tradizione: il fatto che oggi possiamo studiare il cervello e conoscerne il funzionamento mette in discussione le basi stesse di quello che culturalmente si considera il soggetto umano. Se l’amore, la libertà, la memoria sono effetti più o meno illusori di processi fisiologici cerebrali, è la stessa unità dell’uomo che sembra disperdersi, sparpagliarsi in un movimento centrifugo. Di più, l’ibridazione fra mente e computer, che già oggi è una realtà, assicura all’uomo nuovo, dal cervello aumentato, impianti e neuroprotesi con incredibili potenzialità: vedere al buio, udire a distanza, scaricare competenze, recuperare o modificare i ricordi perduti… tutto questo in un momento in cui le promesse storicistiche e teleologiche di un mondo venturo e perfetto sono venute meno una dopo l’altra.Lungi da qualunque posizione conservatrice o tecnofoba, Miguel Benasayag tenta di comprendere le ricadute antropologiche di questa rivoluzione, soprattutto nelle sue derive più riduzioniste, alla ricerca di un’alternativa umanistica alla colonizzazione tecnocratica della vita e della cultura.

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IL CERVELLOAUMENTATOL’UOMODIMINUITO

Miguel Benasayag, f ilosofo e psicoanalista di origine argentina che vive ed esercita la professione di psicoterapeuta a Parigi, partecipò attivamente alla guerrilla guevarista nel suo Paese dove restò in carcere per anni. È divenuto famosissimo, dapprima in Francia e anche in Italia, grazie al suo libro L’epoca delle passioni tristi. Per le Edizioni Erickson ha pubblicato, con Riccardo Mazzeo, C’è una vita prima della morte?

MiguelBenasayag

Indice

Prefazione (Riccardo Mazzeo) 9

Introduzione 13

Capitolo primo 19Il cervello aumentato, un uomo alterato?

Capitolo secondo 45Quando il cervello costruisce un mondo

Capitolo terzo 53La temporalità del cervello: la macchina del tempo

Capitolo quarto 57La scultura del cervello

Capitolo quinto 67Il cervello sradicato

Capitolo sesto 75Informazione, comprensione e significato

Capitolo settimo 79La delega di funzioni nella coevoluzione

Capitolo ottavo 87Possibili e compossibili

Capitolo nono 97I tre modi di essere

Capitolo decimo 111Il cervello senza organi, gli organi senza cervello

Capitolo undicesimo 129Il cervello non pensa, pensa tutto il corpo

Capitolo dodicesimo 145La memoria e l’identità

Capitolo tredicesimo 153Morale e cervello

Capitolo quattordicesimo 169Il cervello modulare (sordi e competenze)

Capitolo quindicesimo 177Gli affetti e i moduli, il cervello degli affetti

A mo’ di inconclusione 189

Bibliografia 195

Introduzione

Il cervello umano è pensato — o forse dovremmo dire piuttosto «si pensa» — come il punto culminante dell’evoluzione delle specie. Questo, va da sé, da un punto di vista materialistico — o anche scientifico -, dato che da altri punti di vista il cervello è il nido, il ricettacolo dell’anima. È come se, in un mondo caratterizzato dall’amore per la novità (il nuovo è buono perché è nuovo), questa novità particolare non fosse «una novità in più», bensì quella che modifica l’insieme delle nostre conoscenze e credenze: siamo riusciti a conoscere i segreti del funzionamento del cervello.

Il cervello umano conosce, studia, si spiega delle cose e comprende, ma è arrivato il momento in cui il suo oggetto di studio è esso stesso.

Il fatto che il cervello conosca se stesso implica il venir meno di molte credenze e presupposti della cultura occidentale, senza dimenticare che queste potenti e recenti conoscenze sono accompagnate dalla possibilità — e dal desiderio — di modificare e aumentare il cervello nelle sue capacità, riducendo al contempo le sue debolezze e i suoi «difetti».

Siamo così entusiasti delle conoscenze oggi accessibili sulla chimica e sulla fisiologia del cervello che ci dimentichiamo, semplicemente, di ac-corgerci che in realtà la possibilità di conoscere il cervello ha un corollario fondamentale: una vera e propria rivoluzione antropologica nelle nostre culture.

In quest’opera cerco di mostrare, al lettore interessato ai cambiamenti radicali del nostro mondo in piena mutazione, non già l’una o l’altra delle

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conoscenze che le scansioni mediche e la biochimica cerebrale ci permettono oggi di vedere. Il mio intento è piuttosto quello di analizzare, nei termini di una contestualizzazione, ciò che tali conoscenze e possibilità di modificazione implicano come rottura storica fondamentale.

Una cosa è sapere quale neurone si attivi per pensare il numero 5 o come, grazie alle nuove neuroprotesi, sia possibile che i sordi sentano e i paralitici camminino; o anche come si speri in un futuro prossimo di mo-dificare il contenuto della memoria di un essere umano; o come il richiamo «chimico dell’amore» ci permetta di comprendere i meccanismi in gioco nel sentimento e nell’affetto degli umani. Ma è ben altra cosa comprendere che cosa avvenga nel mondo e nella cultura che possono manipolare e modificare questa dimensione dell’uomo.

Il cervello, come si dice nella tradizione occidentale, è il nido, il ricet-tacolo dello spirito ma, forse proprio per questo, come organo ha sempre occupato un posto particolare nella comprensione dei fenomeni umani. Detto altrimenti, a partire da Cartesio il cervello è ciò che si trova in questa interfaccia che articola il divino con la materia, lo spirito e il corpo. Non è dunque un dettaglio poter oggi studiare il cervello e modificarlo come se fosse un organo qualunque, sottostante alle stesse leggi come il resto del corpo.

La tradizione filosofica che fonda l’Occidente si basa, fin da Platone, sull’ipotesi secondo cui il corpo e gli organi, sottomessi alle leggi della natura e alle leggi della fisica, non rivelano la vera essenza dell’uomo. Per Platone l’uomo non è un insieme di organi. Vediamo come lo spiega in questo notissimo passaggio del Timeo: «Noi, dice Socrate, siamo una pianta del cielo e non della Terra. Dio, nel sollevare il nostro capo verso ciò che è per noi come la radice del nostro essere, verso il luogo dove è stato al principio generato, dirige così tutto il nostro corpo» (Platone, 1997). Per Platone il corpo è la parte mortale dell’essere, mentre lo spirito è quel che ci permette di accedere alla realtà vera, all’immortalità dell’anima.

Questa citazione evoca quel che fu, in diversi modi, il nucleo dell’Oc-cidente: il cervello, generatore di pensiero, affetti e tendenze, non poteva essere studiato né curato, e tanto meno modificato, come se obbedisse alle stesse leggi dell’insieme del corpo e alle leggi della fisica e della chimica. È questo il fondamento della nostra cultura, che risale ai greci classici e che sta subendo una trasformazione a causa della conoscenza del cervello e delle sue funzioni «nobili».

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Oggi, così, il cervello perde tale «nobiltà». Attraverso le tecnoscienze contemporanee, conoscere richiede che in una certa misura il sistema studiato venga scomposto e, come vedremo, questo riduzionismo fisicalista (natu-ralmente tutto deve essere compreso in linea con le leggi della fisica) ignora qualunque esistenza di un livello o di una dimensione di organizzazione che trascenda le parti elementari che costituiscono l’organo.

Tutti gli studi attuali sono governati da una tendenza bottom-up, cioè dal basso — le parti — verso l’alto — il tutto. Questo tutto non sarebbe altro che una somma delle parti secondo la tendenza oggi dominante nella ricerca.

Dunque, è ovvio che una tendenza olistica non sarebbe gradita per sviluppare la conoscenza dato che, se «tutto è nel tutto» e le parti non sono separabili a fini di studio, la conoscenza è impossibile. Si tratta, allora, di come sia possibile oggigiorno articolare la tendenza bottom-up con un la-voro a sua volta top-down, partendo dall’ipotesi che in biologia non c’è una dimensione privilegiata ma è necessario pensare in termini di un’integrazione organica complessa. È questa la modesta ambizione di quest’opera.

La biologia molecolare e quelle che vengono chiamate «neuroscienze» si presentano come se partissero da una posizione «quasi» senza ipotesi. Si tratterebbe di studiare empiricamente quel che esiste nel modo in cui esiste. Tuttavia, in realtà, se senza un minimo di riduzionismo qualunque studio è impossibile, tale riduzionismo dovrebbe essere un «momento del lavoro» per poi poter passare in seguito a un’integrazione organica complessa.

L’attuale tendenza dominante nella ricerca pretenderebbe, in tal modo, di operare senza modelli, senza «a priori», ma questa è appunto un’illusione, e si tratta di un’illusione pericolosa visto che è impossibile lavorare senza un’ipotesi di partenza, come ha scritto Merleau-Ponty (1972): «Nella ricerca, se non sappiamo che cosa stiamo cercando non possiamo trovarlo, ma anche se sappiamo troppo non possiamo trovarlo». È fra questi due poli che la ricerca deve essere effettuata; in realtà, i modelli che oggi pretenderebbero di essere neutri — poiché sono semplicemente quantitativi — eclissano o ignorano la sua ipotesi di base. Cercheremo di comprendere quale sia questo modello implicito che oggi guida la ricerca e l’azione.

La questione del cervello, vale a dire della recente conoscenza del funzionamento del sistema nervoso centrale (SNC), segna una svolta per l’umanità, come vedremo; questo «autoincontro» fra il soggetto e l’oggetto in esame, che si riconosce come «lo stesso», si spinge molto in là nel pro-

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gresso della conoscenza scientifica dell’umanità. Ma è indispensabile tenere presente che lo studio del cervello non è affatto indipendente dallo sviluppo delle tecnologie che stanno modificando il mondo stesso, vale a dire, la di-gitalizzazione del reale. La comparazione e l’interazione, senza dimenticare la già operante ibridazione del cervello con le macchine digitali, fa sì che chiunque desideri comprendere i progressi nello studio del cervello debba al tempo stesso comprendere l’articolazione che queste nuove vie pongono con il mondo della computazione.

Lo studio del cervello mette in discussione le basi medesime di quello che culturalmente si considera il soggetto umano. In effetti, se l’amore, la ricerca della libertà, le nostre tendenze e la mia memoria, ecc., sono effetti più o meno illusori di processi fisiologici cerebrali, è la stessa unità dell’es-sere umano, il suo «io» che sembra disperdersi, svisarsi in un movimento centrifugo.

Per molti ricercatori di neuroscienze, lo stesso sentimento di «essere io» è un’illusione creata dal cervello al servizio di determinati fini ma che non possiede una realtà in sé. I problemi che credevamo «psicologici» e soggettivi, ma anche quelli morali e sociali, devono essere compresi come imperfezioni, disordini di un organo, certo complesso, ma il cui funzionamento si basa su leggi «semplici» e fisiche, dicono i nostri colleghi.

Questa decostruzione, questa alterazione del soggetto nelle sue parti e funzioni cerebrali non avviene in un momento qualunque della storia della nostra piccola umanità: avviene nel momento in cui la fede nel futuro, le promesse storicistiche e teleologiche di un mondo venturo e perfetto sono venute meno una dopo l’altra. È in questo mondo del disincanto, dove la tecnologia occupa antropologicamente un posto che solo di rado ci fermia-mo a pensare.

Lungi da qualunque posizione di sfiducia e meno ancora tecnofoba, si tratta di comprendere come la tecnologia abbia occupato il posto lasciato vacante dalle utopie logorate fino all’esaurimento.

La nuova promessa già esiste, il mondo disincantato che si è delineato dopo la caduta dei muri e delle ideologie si è già ristrutturato attorno a nuove profezie e a nuovi orizzonti. Domani per certo, oggi chissà, l’uomo nuovo comincia già a respirare: è l’uomo dal cervello aumentato. Grazie all’ibrida-zione fra cervello e computer, gli impianti e le neuroprotesi ci presentano un mondo incredibile: vedere al buio, udire a distanza, scaricare competenze,

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recuperare i ricordi perduti, modificare tali ricordi, teledirigere macchine per il pensiero, ecc. L’elenco è molto lungo e comprende impianti cerebrali che, fra le altre «meraviglie», potrebbero — come afferma un gruppo di ricercatori francesi — curare i nostri stati depressivi e governare a piacimento la nostra coscienza e i nostri affetti con un dispositivo: un magnete che attraverso una stimolazione magnetica transcranica attiverebbe i neuroni della corteccia prefrontale. Altri impianti più sofisticati potranno, ci dicono, ben presto calibrare lo stato psicologico delle persone o ridurre il dolore.

L’ibridazione umano-biologia-artefatto è già oggi una realtà; si tratta, allora, di comprendere che in tale ibridazione esistono, contrariamente a quanto si crede, varie vie possibili e che, quantunque per adesso la tecnolo-gia abbia colonizzato la cultura e la vita, si può sviluppare una modalità di ibridazione che favorisca la colonizzazione della tecnologia da parte della vita e della cultura.

Infine, nella questione riguardante il cervello e il cervello aumentato, entrano in gioco altre questioni: la libertà, l’essenza di ciò che è umano, la vita stessa. Se ogni atto non è niente di più che la conseguenza di una catena sovradeterminata di processi fisiologici, non c’è posto per concepire l’atto di un essere umano come frutto della sua singolarità. Quel che è peggio, la stessa singolarità tende a sparire. Non si tratta di piangere su illusori mondi passati in cui l’essere umano era libero; al contrario, in questo lavoro si tratta di offrire un’umile partecipazione al pensiero, alla cassetta degli attrezzi — come la chiamava Michel Foucault (1969) — che ci permetta di individuare dove si sia posizionata la singolarità in un mondo e in un paesaggio che cambiano giorno dopo giorno.

L’alternativa sembra essere fra un mondo svisato in cui la vita e la cultura sarebbero segmenti della tecnologia e della macroeconomia, o la produzione di nuovi paesaggi da parte della vita e della cultura che includano e sviluppino una tecnologia addomesticata dalla e per la vita.

Capitolo primo

Il cervello aumentato, un uomo alterato?

La novità è, senza dubbio, il segno distintivo della nostra epoca. Ciò che è nuovo viene quasi immediatamente associato a ciò che è buono: novità tecniche e scientifiche, nuove conoscenze, nuovi possibili di ogni tipo, nuove pratiche sociali e individuali, ecc. Fra di esse emerge una novità che per certi aspetti è centrale rispetto alle altre: le nuove scienze e tecnologie del cervello.

Se fino a non molto tempo fa ogni conoscenza, ogni riflessione e pensiero sul mondo, sulla realtà e sulla vita provenivano dalla capacità dei cervelli umani di pensare e comprendere, ora il cervello ha preso se stesso come oggetto di studio. Studiandosi, il cervello è al tempo stesso soggetto e oggetto. Un bel giorno, come in un racconto per bambini, il cervello, a forza di cercare, curioso com’è, incontrò... un cervello.

Lo studio del cervello da parte di altri cervelli, allora, costituisce, come cercherò di dimostrare, un’alterazione del cervello medesimo, che in realtà si effettua in onore di un «cervello aumentato». Questa alterazione è segnata da due grandi spartiacque, che con le scienze e la tecnologia come protagoniste hanno prodotto immense modificazioni nelle nostre società e nelle nostre culture.

Il primo momento possiamo situarlo, in modo un po’ schematico e simbolico, quando un computer IBM vince un campionato di scacchi contro il grande Kasparov. Fino ad allora, le capacità delle macchine di «in-telligenza artificiale» erano riconosciute, utilizzate e diffuse, ma giocoforza

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si riconosceva che restava sempre, perlomeno implicitamente, la certezza o la speranza che l’intelligenza dell’essere umano fosse «un’altra cosa», un «qualcosa di più» — o un qualcosa di meno — che non avrebbe potuto essere fatto da una macchina. La macchina ci ha raggiunti e ci ha superati di volata. Questo è stato il primo colpo inferto al narcisismo umano: la nostra intelligenza genuflessa di fronte a un insieme di cavi e siliconi.

La seconda tappa è quella implicata nella modellizzazione dei processi e dei meccanismi affettivi che avvengono nel cervello umano. Avevamo detto e creduto che, sebbene da un punto di vista logico-formale una macchina potesse muovere i passi capaci di raggiungere e superare in intelligenza l’essere umano, restava però un luogo, una dimensione che ci era assolutamente propria e che permaneva inaccessibile alla macchina: gli affetti. C’era una certezza quasi monolitica, che non aveva bisogno di spiegazioni, rispetto al fatto che i sentimenti, gli affetti — amori e odi, desideri e nostalgie — non avessero niente a che fare, ma proprio niente, con le macchine, con gli «1 e 0», con i circuiti integrati. La sorpresa è stata grande. Come vedremo, le relazioni «affettive», erotiche o amichevoli con delle macchine hanno già smesso di sembrarci una chimera, un incubo o un sogno proprio di un futuro lontano. Questo affronto alla «dignità umana» e il duello che ne scaturisce sono alcuni dei corollari della comprensione dei funzionamenti del complesso cervello umano (complesso, sì, ma non inaccessibile o segreto).

Come non ricordare quelle che sono state definite le «tre ferite al narcisismo umano» nella storia dell’Occidente? La prima fu causata da Copernico e Galileo: la Terra non solo non si trovava al centro dell’univer-so, contemplata da Dio con amore paterno, ma era invece una semplice pietruzza in più, perduta nell’infinito dell’universo. La seconda fu causata indubbiamente da Darwin: noi umani, che occupavamo un luogo così speciale nella Creazione, abbiamo dovuto prendere atto che siamo i primi fratelli delle scimmie del giardino zoologico... La terza fu causata da Freud: noi uomini non siamo capaci di governare le nostre vite razionalmente, siamo marionette di pulsioni e desideri che ci manovrano; così, se anche riusciamo talvolta a ottenere quel che desideriamo, non possiamo però «desiderare quel che desideriamo» poiché questo viene da un «al di fuori».

L’alterazione del cervello umano è per certo una quarta ferita che, come le precedenti, sprigiona una potenza e una conoscenza immense e al tempo stesso ci fa sprofondare nella perplessità e ci disorienta. Quando si

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studiano il cosmo o i microbi, quando si tratta di trovare «invarianti» etici o logici nel divenire della storia, il soggetto di questo lavoro di riflessione e conoscenza resta, per così dire, fuori fuoco. Il cervello pensa, studia, riflette e gli oggetti di tale studio gli sono esteriori.

Oggi però il cervello, grazie ai progressi delle diverse tecnologie di «immagine cerebrale» e alla conoscenza della chimica del sistema nervoso centrale, può finalmente rivolgersi a se stesso come oggetto di studio. Non è affatto banale una cosa del genere. Ci troviamo di fronte all’immensità di immaginare la novità implicata in questo «soggetto di conoscenza» (il cer-vello) che, coadiuvato dalle nuove tecnologie, decide di dedicarsi allo studio di se stesso. Tale studio mostra la sovradeterminazione del funzionamento cerebrale, non solo nei meccanismi della percezione o del movimento, ma anche in ciò che costituisce le basi del pensiero e degli affetti. Ad uno ad uno gli emblemi che privilegiavano questo organo crollano di fronte alle conoscenze sempre nuove che si ottengono da esso.

Il cervello considera il suo nuovo oggetto di studio cercando di com-prendere quali siano i meccanismi che ordinano il funzionamento di tale oggetto. Il paradosso è che il soggetto ricercatore si accorge, attraverso l’og-getto esaminato, che esso non è niente di più che una macchina, sofisticata, certo, ma assolutamente assoggettata alle stesse determinazioni di qualunque altro artefatto dalla natura meccanica (Cartesio dixit). Tutto avviene come se la marionetta a un certo punto dicesse al burattinaio: «Sei una marionetta». O come nel racconto di Borges, dove l’uomo che sogna di star creando un uomo si scopre tanto irreale quanto la sua creazione.

Fino a poco tempo fa, le conoscenze del funzionamento cerebrale si fondavano sui lavori sviluppati, ad esempio, da Broca: ricerche basate so-prattutto su lesioni cerebrali o sullo studio dei cervelli di cadaveri. Più tardi fece la sua comparsa l’elettroencefalogramma. Ora però si può vedere dal vivo e in diretta quale neurone, quale rete neuronale, quale area cerebrale si attivi per ciascun compito specifico, con una precisione inimmaginabile fino a trent’anni fa.

Allo studio (reso possibile dalla tecnologia) del funzionamento cerebra-le, si aggiungono le nuove conoscenze della biochimica del sistema nervoso, che insegnano come le molecole intervengano nella regolazione fine di pensieri, sensazioni e affetti. Giunti a questo punto, la modellizzazione delle funzioni e dei meccanismi cerebrali ha permesso l’affiorare dell’ipotesi, oggi

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presa alquanto sul serio, secondo cui, se «tutto è informazione modellabile» e riproducibile, si potrebbe programmare una sorta di «cervello esterno al corpo». Con tale cervello aumentato i dati che si incorporano durante la vita di una persona permetterebbero che, in una specie di «trasferimento di funzioni», tale persona continuasse a pensare (a esistere?) dopo la sua morte. Vedremo più avanti l’incredibile potenza della produzione di una persona come un puro profilo, che consente apparentemente un sapere quasi senza limiti per gli umani.

D’altro canto, la comprensione di questi meccanismi rende possibile che artefatti sofisticati presumano di poter «leggere» il pensiero. Come non restare esterrefatti quando l’azienda giapponese Hitachi — già quindici anni fa — annunciava la creazione di una nuova interfaccia non invasiva (non veniva impiantata nel cervello) che permetteva a chi se ne muniva di «agire attraverso il pensiero» (questa era, per lo meno, la presentazione che ne aveva offerto l’azienda giapponese). In effetti, grazie a un commutatore di potenza (avanzamento-arresto), basandosi sulle tecnologie della «neuroimmagine» che usano una luce vicina infrarossa per tracciare la concentrazione di emo-globina nel cervello, il sistema «traduce» questi cambiamenti in segnali che si digitalizzano e attivano, ad esempio, un braccio robotico. Così, grazie a tale sistema, la persona produce nel suo cervello l’immagine di prendere un bicchiere che si trova davanti a lei e un braccio robot connesso al sensore di emoglobina prende il bicchiere e lo porta alle labbra della persona.

Come non provare sconcerto di fronte a tale divenire trasparente del cervello con le sue immense conseguenze culturali, storiche e sociali? Dal canto suo, la biochimica del cervello ci sorprende con i continui annunci dell’importanza fondamentale dei neurotrasmettitori, ad esempio, nella chimica dell’amore. Che cosa rimane dei milioni di poesie che cantano ed evocano questo sentimento, se la mancanza o l’eccesso di ossitocina appa-iono, in questo fisicalismo riduzionista trionfante, come la vera spiegazione di un sentimento tanto famoso?

Il cervello però non è e non sarà mai «un organo fra gli altri». Cer-cheremo di comprendere come gli studi sul cervello, scaturiti da lavori di intelligenza e vita artificiale, siano centrali in questa rivoluzione antropo-logica che le nostre società stanno inscenando. Chiunque tocchi il cervello tocca la pietra fondamentale dell’edificio della modernità, questa potrebbe essere l’ipotesi sintetica del nostro saggio.

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Ed è accaduto: si è toccato il cervello; pertanto, si è mossa la pietra fondamentale dell’edificio della modernità. In linea con l’analogia, si giun-ge alla domanda: che cosa accadrà a questo edificio? Ci cadrà addosso o si tratterà semplicemente di una rimodellazione?

Non tutte le civiltà hanno saputo o immaginato che il cervello fosse il centro del pensiero. Come molte altre cose negli andirivieni della storia, la localizzazione del cervello come centro del pensiero esisté in alcune civiltà e si perse nel tempo per riemergere in altre. Nella cultura e nella società che chiamiamo «moderne» — in cui Michel Foucault ravvisa «l’epoca dell’uomo» — il cervello fu identificato come il centro del fenomeno umano. Luogo dello spirito che, nell’interpretazione offerta dall’evoluzione delle specie, appare come il vertice di tale evoluzione.

È chiaro che, come abbiamo detto, nello studio del funzionamento cerebrale la sovversione non consiste solo nella conoscenza dei meccanismi del pensiero bensì — e soprattutto — nella possibilità di modellare e ripro-durre o modificare i meccanismi dei sentimenti umani fin qui considerati come assolutamente superiori: l’amore, la poesia, la libertà e i principi etici ed estetici, fra gli altri. La conoscenza del cervello da parte dei cervelli stessi non rappresenta soltanto un grande progresso nel sapere dell’umanità. Al contrario, come cercheremo di formulare e sviluppare in quest’opera, l’e-sibizione dei meccanismi cerebrali si pone al centro di quel che potremmo considerare come l’alterazione di tutta una cultura: delle credenze e dei principi che fondavano la nostra civiltà.

Detto altrimenti, le conoscenze del funzionamento del sistema ner-voso centrale e la possibilità di intervenire su di esse aprono una breccia importante nel paradigma antropologico dell’Occidente. Lo sviluppo tecnologico, in un momento dato della sua storia, senza alcuna inten-zionalità soggettiva, vale a dire senza che nessuno lo abbia desiderato né tanto meno determinato, sovverte la struttura della nostra società con una forza comparabile soltanto all’emergenza storica del Rinascimento, con le sue speranze e le sue paure. L’antropologo francese André Leroi-Gourhan, specialista di storia della tecnica, lungi da qualunque prurito tecnofobo scrive ne Il gesto e la parola (1976): «L’analisi delle tecniche mostra che nel tempo si comportano allo stesso modo delle specie viventi, godendo di una forza di evoluzione che sembra essere loro propria e che tende a farle sfuggire al dominio dell’uomo».

Capitolo quinto

Il cervello sradicato

Facciamo un piccolo esercizio di immaginazione: cosa vediamo? Un anziano, un bambino, o un ragazzo. Poco importa la differenza, troppo legata, forse, al mondo «non virtuale». Un comune denominatore forte li unifica, li confonde e cancella quasi ogni differenza: tutti loro si trovano nella posizione «normale» del mondo attuale, vale a dire che sono seduti di fronte a uno, due o tre schermi di macchine varie e diverse, però in fin dei conti macchine.

O guardiamo l’immagine di questa coppia, oggi tristemente banale: «uniti», seduti al tavolo di un bar, uniti ma separati, ciascuno col piccolo schermo del suo iPhone, che smettono di guardare quando si concentrano sullo schermo grande del bar.

Quando lavoravo — e lo feci per molti anni — in un servizio di psichiatria infantile e dell’età evolutiva nella città di Reims, durante una consulenza accadde qualcosa che mi segnò. Una madre venuta in visita con il suo figlioletto preadolescente mi disse che lui passava più o meno otto ore al giorno immerso nei suoi giochi elettronici e che nei fine settimana quelle ore potevano arrivare a sedici. La signora mi spiegava che diceva a suo figlio: «Questo non può essere; pensa che un giorno avrai una famiglia e dovrai imparare a guardare la televisione con tua moglie».

Da un punto di vista neurofisiologico, gli schermi possiedono una forza, una particolarità, di cui sono privi gli altri artefatti e gli altri stimoli che giungono agli altri sensi. Possiamo, ad esempio, accendere la musica

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in una stanza, che le darà una dimensione supplementare: sarà come se un profumo fluttuasse nell’aria; anche il profumo darà al luogo un’altra parti-colarità che si integrerà, più o meno, con l’insieme dell’ambiente.

Ma se si prende uno schermo, l’effetto imbuto, l’effetto di bucare quel che c’era, è immediato. Tutto il resto sparisce. Gli schermi non solo non aggregano le dimensioni, ma annientano tutte le dimensioni, creando questa forza irresistibile che ci affascina, ci pone in uno stato subipnotico, né grade-vole né sgradevole: assente. Gli schermi ci fanno assentare e ci allontanano, ma non dico questo con una valenza morale (non è che «non si debba»): gli schermi attivano centri cerebrali e inducono funzionamenti percettivi che polarizzano l’attenzione. Questa particolarità della polarizzazione è, come è noto, alla base di qualunque processo ipnotico o subipnotico.

Così, ad esempio, i ricercatori di neurofisiologia si resero conto che, quando si gioca al Super Mario Bros (un gioco elettronico abbastanza comune, uno dei primi), il cervello modifica la sua architettura: le zone prefrontali si ispessiscono. Allorché la notizia venne resa nota, i giocatori se ne rallegrarono, ma mancava loro la seconda parte della notizia: gli studi sullo sviluppo dell’intelligenza dimostrano, senza tema di smentita, che queste zone si affinano come segno di sviluppo dell’intelligenza (e non il contrario).

Ogni attività esercita un’influenza sulla riorganizzazione del cervello; non esistono attività neutre. La credenza secondo cui chi guarda i suoi molteplici schermi in permanenza non si modifichi è assolutamente falsa; quando ci grattiamo il naso il cervello reagisce nel senso della sua integra-zione permanente. Ma... non tutto è come grattarsi il naso.

La macchina colonizza il cervello. È facile rendersi conto, ad esempio, di come la nostra temporalità e le nostre esigenze si stiano trasformando a poco a poco in quelle di una macchina esigente: basta pensare al ner-vosismo che ci provoca un computer che non risponde rapidamente o al nostro desiderio — bisogno — che le diverse connessioni si attivino in un tempo che tende, idealmente, a zero. Da quando in qua abbiamo una simile fretta?

I videogiochi e la pratica permanente della telefonia mobile (che in realtà funziona più come un gioco che come soddisfacimento di una ne-cessità: non siamo tutti pompieri o medici di pronto soccorso), e in sintesi gli schermi in generale, sviluppano il sistema dell’attenzione esterna. Detto

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altrimenti: è il mondo che viene a cercarci molto più di quanto noi abbiamo bisogno di andare verso di esso.

Questa posizione di passività così forte sradica il cervello dai corpi, dato che tale ipertrofia del sistema di attenzione esterna va a detrimento del sistema di attenzione endogena.

Prendiamo l’esempio del telefono. Vediamo come la pratica sociale oggi così generalizzata e banalizzata del cellulare abbia finito per abolire le frontiere culturali e psichiche fra gli spazi pubblici e quelli privati. Il cellulare crea un «non luogo», un no man’s land che ci installa in un funzionamento deterritorializzato. Si tratta del fatto che a poco a poco i corpi funzionano in dispositivi non situati. Ad esempio, ricevere la notizia della morte di una persona cara in un luogo indistinto è un orrore visto che c’è bisogno di un luogo tangibile per esistere, pensare, sentire.

L’insieme di dispositivi cerebrali che sono coinvolti nel meccanismo di attenzione esterna obbedisce a una forma particolare: la distrazione. Quando si sente che un videogioco o una comunicazione (generalmente, compulsiva e inutile) richiedono la propria attenzione, si parla di un’attenzione che è simmetricamente contraria a quella di cui abbiamo bisogno, ad esempio, per gli studi o per qualunque altra forma di pensiero complesso. Questi meccanismi funzionano in base a una serie di loop rapidi, che a poco a poco disabilitano la possibilità di pratiche che richiedono un tipo diverso di tem-poralità e di attenzione. I circuiti della distrazione si articolano (troppo) bene con i circuiti dopaminici di ricompensa, creando in tal modo dipendenza (che non è esattamente lo stesso di addiction) e stati di mancanza chimica, come in qualunque altra forma di dipendenza molecolare.

Riuscire a concentrarsi finisce per risultare concentrarsi su stimoli «noiosi» o che, in ogni caso, non scatenano la cascata di neuromediatori dei circuiti della ricompensa e del piacere immediati.

La civiltà delle persone sedute davanti agli schermi si trova di fronte a un altro problema legato all’educazione dei bambini: i bambini non sanno più annoiarsi, non sopportano la frustrazione ingenerata dall’interruzione della cascata di stimoli nei loro giorni regolarmente strutturati da un diluvio di immagini. In momenti come questi i bambini si sentono come di fronte a un vuoto angoscioso, il che è un problema perché, in realtà, la noia è fon-damentale per lo sviluppo delle zone cerebrali associate all’immaginazione e alla creatività.

70 Il cervello aumentato, l’uomo diminuito

La domanda è allora: che cosa succede con i corpi? Prima abbiamo visto come i cervelli pensino e lavorino in permanente dipendenza dai loro corpi; inoltre, un corpo che si muova è indispensabile perché un cervello funzioni.

Come spiegano Francis Bailly e Giuseppe Longo (2006):

L’azione, il gesto, precedono qualunque comprensione, e ciò stesso è la condizione della possibilità di comprendere. È la stessa cosa che, prima degli studi sulla cognizione, ci insegnava la biologia, in particolare la biologia evolutiva, perché sembrerebbe che i neuroni, il sistema nervoso e le strutture cerebrali non possano differenziarsi e svilupparsi se non negli organismi che possiedono una vera autonomia motoria.

Immaginiamo un caso. Prendiamo due persone adulte. Una di esse ha deciso di trascorrere le sue vacanze in un Club Méditerranée a Tunisi. I Club Méditerranée funzionano in maniera tale che, indipendentemente da dove ci troviamo, è tutto uguale, benché vi sia sempre una sfumatura di «colore locale»: vale a dire che a Tunisi, in mezzo al campo cinto di filo spinato e guardie armate, i turisti potranno vedere delle palme e magari un cammello. Il nostro amico passa così un mese a Tunisi, ma di Tunisi vede l’aeroporto e il luogo sterilizzato del Club Med, non molto più di questo.

Nello stesso periodo, un altro amico, per ragioni legate al suo lavoro di giornalista, passa lo stesso mese a Parigi studiando Tunisi e lo fa serven-dosi unicamente di internet e delle informazioni che la rete gli mette a disposizione.

Fin qui due esperienze che, in linea di principio, potremmo pensare si riferiscano alla stessa cosa: Tunisi. Quali sono stati i risultati? Vediamo: alla fine di questo mese, passato in relazione a Tunisi in due modi molto diversi, la domanda che mi sono posto è: quale dei due avrà conosciuto meglio Tunisi?

Mi è bastato poco tempo per rendermi conto che il mio amico che era stato nel Club Méditerranée non aveva idea di che cosa accadesse nel Paese, nemmeno durante il suo mese di permanenza laggiù; per contro, l’altro mio amico, il giornalista, era una fonte inesauribile di conoscenza su Tunisi. Miracolo di internet: seduto alla sua scrivania, era stato a Tunisi più del turista?

Poco probabile. Il giornalista era molto ben informato su Tunisi, ma il turista si era trascinato nel corpo un’influenza strana, con un virus che

Il cervello sradicato 71

resisteva al calore; aveva riportato anche un’abbronzatura molto vistosa e una serie di segni corporei tipicamente tunisini. Il suo corpo ha «conosciu-to» Tunisi: i suoi organi, la sua pelle, i suoi polmoni, sono stati a Tunisi, molto al di là delle informazioni codificate, per certo miserrime, che la sua coscienza ha raccolto.

Il giornalista, al contrario, continuava ad avere il tipico colorito grigio dei parigini, senza influenza ma con i polmoni pieni di contaminazioni, e insisteva nel dire di sapere quel che accadeva a Tunisi. Ma a Tunisi, nella Tunisi reale che occupa un luogo nello spazio, accadono molte cose e a livelli differenti, alcune più o meno codificabili, altre meno intuitive e altre ancora che restano nell’interscambio sottile e profondo dei livelli percettivi corporei. Ciò che fra le altre cose variava fra l’uno e l’altro era il modo in cui avevano «raccolto i dati» per costruire i rispettivi modelli interiori di Tunisi.

Il giornalista aveva avuto accesso alle informazioni raccolte unicamente attraverso la codifica; vale a dire, attraverso il ritaglio del «continuo» ovvero la realtà di un Paese colta in linea con il funzionamento della macchina, la cattura dei dati «digitalizzabili». Il carattere di quel che è codificabile obbedisce a ciò che in epistemologia si chiama «arrotondamento digitale». Arrotondamento digitale significa che ogni punto che raccolgo, che misuro nel mondo reale per produrre il mio modello, viene misurato, computato come un punto. Ma (ed è qui che si pone il problema) qualunque misura è sempre misura di un intervallo, e una profondità non è riducibile a un punto.

Tutto avviene come se, nel cercare di copiare una forma qualunque, invece di tracciare delle linee ponessi una serie di punti in successione; il risultato sarà una forma di una realtà che non è così: nella realtà le forme obbediscono a linee, profondità continue. Sono io che ho reso «discreto», vale a dire ritagliato come punti, ciò che nella realtà esterna esiste come una continuità.

Non si tratta di un problema che potremmo descrivere come la necessità di affinare la cattura, di affinare la misura per raccogliere più dati (punti). Al contrario, la quantità di dati o punti modellati in questo caso non ha niente a che vedere con la questione strutturale, vale a dire che per quanti punti io possa raccogliere di un oggetto del mondo esterno per costruire il mio modello, resterò sempre in piena perdita di informazione dato che, indipendentemente dalla quantità di punti che avrò raccolto, ogni misura a sua volta si misura come punto di un intervallo.

Capitolo undicesimo

Il cervello non pensa, pensa tutto il corpo

Se desidero affrontare adesso il tema centrale dell’articolazione «pensie-ro-cervello», forse dovrei farlo proponendo al lettore un paio di ipotesi ben più radicali per poter poi sviluppare questo tema che oggigiorno è davvero fondamentale nelle nostre società e culture.

Queste ipotesi sono:1. Il cervello non pensa.2. Il corpo partecipa al pensiero come condizione indispensabile per i

processi di ragionamento.3. Esistono almeno due processi che possiamo identificare come modi di

pensiero o due tipi di produzione del pensiero: uno, logico-formale; l’altro, geometrico-topologico, corporeo.

4. Il pensiero logico-formale esiste come una combinazione mista che ha leggi proprie, capace di sviluppare quelle che possiamo riconoscere come «strategie proprie» che sono, come in tutti i misti, «strategie senza strateghi», vale a dire tendenze emergenti nel sistema che lo orientano senza che per questo vi sia bisogno di un «orientatore».

5. Gli umani interagiscono con il pensiero logico-formale sotto forma non solo della partecipazione ma anche della cattura, in una vera e propria catena di produzione.

6. Il cervello non pensa, ma non vi è pensiero senza cervello, e neppure senza corpo o senza situazioni concrete; questi presupposti sono di estre-

130 Il cervello aumentato, l’uomo diminuito

ma importanza tenendo presente l’attuale assimilazione fra pensiero e computo digitale.

Cominciamo con il precisare un punto rispetto alla identificazione che oggi sembra «evidente» fra le Macchine di Turing (MdT) e il processo di pro-duzione del pensiero umano. Le MdT producono un modo di ragionamento logico-formale a partire dalla trasformazione dei dati in informazione, con la perdita e la formattazione che abbiamo già affrontato (l’arrotondamento digitale). Si tratta, nel modo di produzione di ragionamento delle MdT, della modellizzazione che ha come obiettivo la ricostruzione dei fenomeni di una dimensione della realtà a partire dai concetti costitutivi propri del computer. Ovvero, non si tratta di inglobare o sintetizzare per astrazioni successive quel che esiste nella forma di una diversità empirica. Si tratta, nella digitalizzazione, della trasformazione di qualunque concetto in algoritmi di ricostruzione della diversità fenomenica a partire dai dati informatici. Detto altrimenti, si tratta di convertire la diversità empirica in una sintesi computazionale, ovvero in un modello applicabile alla realtà che soppianta tale realtà.

Fra organismo e pensiero esiste un conflitto permanente che non si risolve mai né da un lato né dall’altro, dato che è questa tensione ciò che costituisce la sua condizione di esistenza medesima.

Consideriamo quindi queste ipotesi. Se cominciamo dicendo che «il cervello non pensa», ci ritroviamo subito al cuore di una controversia storica molto importante. Gli idealisti di ogni tipo approveranno senza problemi poiché un’affermazione del genere parrebbe asserire che il cervello, fatto di materia, non pensa, poiché il pensiero dipende da meccanismi spirituali che non hanno niente a che vedere con la materialità del corpo. L’anima sta sopra la cosa...

Certo io non sarei d’accordo, poiché il pensiero logico-formale, in quan-to combinazione mista è, dalla posizione che sostengo, un modo di esistenza che dipende direttamente dalla vita dei corpi, dall’ecosistema e dal fatto che coloro che producono il pensiero — e al tempo stesso vi partecipano — sono organismi viventi autoregolati. Ovvero, anche se il cervello non «pensa», dato che quello che chiamiamo «pensiero» — logico-formale — dipende dal fatto che corpi e cervelli situati possano produrlo, ciò non implica in alcun caso che il pensiero possa esistere al di là degli umani che vi partecipano.

Il cervello non pensa, pensa tutto il corpo 131

La seconda ipotesi che formulavo è che i cervelli non producono il pensiero allo stesso modo in cui la vescicola biliare produce la bile: il pen-siero è un processo multiplo con un alto grado di autonomia che in nessun caso può essere prodotto da un cervello ma quel che avviene è che i cervelli articolati partecipano alla catena di montaggio da cui sorge il pensiero.

«I corpi pensano.» Questa affermazione va compresa in due sensi: da un lato, come ho già detto, i corpi pensano nella produzione di una vera e propria «intelligenza» delle loro vite, situazioni e traiettorie, che si realizzano in termini geometrici e che soltanto in un secondo momento — e solo per gli umani — si articolano per trasduzione con il pensiero logico-formale della combinazione mista: il linguaggio, le basi della logica e le aritmetiche potrebbero esserne un esempio.

Questo pensiero geometrico era quello che permetteva che i corpi agissero in situazione quando vedevamo l’esempio del martin pescatore che esegue calcoli sui riflessi dell’acqua per poter determinare l’angolo in cui deve tuffarsi per catturare la sua preda. Un altro esempio può essere quello del giocatore di ping-pong che esegue in modo non simbolico calcoli di geometria e di fisica. O quello del pilota del cacciabombardiere che deve poter rispondere alla macchina senza passare per le dimensioni logico-formali: se il pilota si mette a pensare a ciò che deve fare, l’aereo cade; egli deve realmente integrare il suo corpo al corpo dell’aereo e offrire risposte riflesse agli stimoli della macchina. Queste risposte si attivano attraverso atti riflessi quando i nuclei dei neuroni che si trovano ai lati della colonna vertebrale rispondono agli stimoli senza che questi passino per il cervello, come succede nell’atto riflesso di sollevare la gamba quando ci colpiscono il ginocchio. Tutti questi problemi e risoluzioni si effettuano attraverso calcoli geometrici che dipendono dalla muscolatura, dalla propriocezione, dalle proiezioni spaziali del cervello senza che si passi mai a una formalizzazione simbolica di esso.

È chiaro che se il pilota del caccia o il giocatore di ping-pong dovessero pensare in termini simbolici, a uno cadrebbe l’aereo (che, dopotutto, non sarebbe un dramma) e l’altro perderebbe la partita.

Il pensiero che chiamiamo «geometrico» o «topologico» è quel che la tradizione occidentale chiama «istinto», per negargli la sua categoria di pensiero e cercando così di identificare i processi corporei di memoria e pensiero con semplici meccanismi fisici predeterminati. Non scordiamo

132 Il cervello aumentato, l’uomo diminuito

che nel fondamento cartesiano dell’Occidente la natura deve essere vista come un meccanismo privo di finalità propria, comprendendo in essa la natura che Cartesio chiama «apparentemente animata» per negare finanche la minima autonomia all’animale e ai corpi.

In realtà, i processi di quel che chiamiamo «pensiero geometrico» corrispondono alle forme esistenti, tenendo conto che, seguendo la de-finizione dell’epistemologo francese Jean Petitot (1980), «la forma è il fenomeno dell’organizzazione della materia in generale». Ciò significa che qui prendiamo la realtà delle forme non come ciò che è esterno, in una re-lazione forme-contenuto, ma nel senso di ciò che si manifesta come forme in rapporto ad altre forme.

Se dicevo prima che gli idealisti di ogni tipo credono di essere d’ac-cordo con l’ipotesi secondo cui i cervelli non pensano, una volta chiarita la mia differenza radicale da qualunque idealismo è necessario vedere che cosa succede dal lato del materialismo semplicistico di tipo positivista dato che, se sto affermando che i cervelli partecipano alla produzione del pensiero, si potrebbe credere che io aderisca all’ipotesi positivista secondo cui il cervello sarebbe l’hardware su cui circola il pensiero che sarebbe il software. Sono lontano mille miglia da questa posizione. In realtà l’interfaccia fra umano e pensiero deve essere compresa come un’interfaccia di coevoluzione in cui i cervelli umani, partecipando al pensiero — o all’essere catturati al servizio del pensiero — si modificano in permanenza attraverso il riciclaggio e la plasticità. Il pensiero (logico-formale) scolpisce i cervelli e i corpi, così come gli ecosistemi e il mondo. Il carattere performativo del pensiero è fonda-mentale nello sviluppo e nella trasformazione del cervello umano. Ma tale coevoluzione e coformazione non implica che il cervello si trasformi in una «macchina per pensare».

In questo modo, a mano a mano che si sviluppano nuove capacità logico-formali, il cervello si modifica, come abbiamo già visto, e al tempo stesso questi processi altamente integrati modificano i corpi mentre i corpi modificano il pensiero.

Questa articolazione, questa interfaccia fra umani e pensiero (lingua), costituisce senz’ombra di dubbio il centro del fenomeno umano, che esiste a condizione di questa tensione permanente senza alcuna risoluzione possibile.

Come possiamo comprendere, così come succede con la tecnologia (un misto), la lingua, il pensiero formale producono «possibili» che non sono

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compossibili con gli organismi umani i quali, pertanto, partecipano alla sua produzione. Vale a dire, esattamente come avviene con la tecnologia, gli uomini producono tecnologie che partecipano alla produzione di possibili i quali, spesso, non sono compossibili per la vita di questi umani.

Con la lingua e il pensiero logico-formale accade, da moltissimo tempo, certamente lo stesso. Vale a dire che il pensiero produce senza sosta teorie e ipotesi che non sono compatibili, compossibili con la vita nel senso organico dei corpi concreti degli umani e del loro ambiente.

Forse, appunto, la relazione complicata e conflittuale della tecnologia con l’organico ci permetterà in questo momento storico delle nostre culture di comprendere tale relazione «umani-lingua» che nel passato, soprattutto in Occidente, è stata considerata troppo rapidamente come un’unità so-stanziale senza conflitti.

Quando dico che la lingua e le teorie venivano concepite, soprattutto in Occidente, come se non dovessero avere conflitti con il vivente, è chia-ro che la conflittualità, compresa l’opposizione, è stata ed è permanente (il corpo avrebbe dovuto essere vinto grazie alle mille e una teorie che gli umani producevano), ma si pensava che alla fine «la buona teoria» o credenza avrebbe potuto risolvere questo conflitto, sempre a favore della teoria e contro i corpi.

Indubbiamente è strano constatare che oggigiorno esiste una conver-genza di obiettivi fra l’evanescente idealismo e il più duro dei materialismi positivisti. Entrambi trovano un punto d’incontro nell’obiettivo comune di andare al di là dei corpi per liberare il loro spirito.

La tecnica articolata con le neuroscienze si propone oggi di emancipare finalmente il pensiero logico-formale, visto come una serie di algoritmi e informazione, dalla base materiale del cervello, per trasferire tale «nobile» funzione alle macchine che, secondo il suo punto di vista, non sbaglierebbero tanto quanto gli umani. Così la cartografia del cervello sembra permettere, innanzitutto, di comprendere le differenti funzioni che possiede, e poi di riprodurle in macchine digitali che, a parere degli esperti, si situano al di là delle illusioni che produce il cervello umano. Ad esempio, quella che ci fa credere che esistiamo come singolarità o soggetti visto che, per alcuni esperti, le macchine sono superiori visto che non cadono nell’illusione di «esistere» come unità, illusione di cui siamo vittime noi umani biologica-mente organizzati...

134 Il cervello aumentato, l’uomo diminuito

La relazione fra cervello — dovremmo dire «cervelli» — da un lato, e lingua e cultura dall’altro, è così, fortemente segnata da questa ricerca inces-sante e ripetuta di trascendenza, dall’immenso desiderio umano di riuscire ad arrivare a «qualcosa di definitivo», a questo atto irreversibile che ci liberi finalmente dalla nostra condizione di organismi per riuscire a funzionare e a esistere in accordo con quel che la lingua e le narrazioni della «salvezza» ci propongono. Non è strano, allora, che in questa convergenza di interessi e obiettivi fra idealismo e neuroscienze Michel Foucault abbia spiegato che nella nostra epoca abbiamo barattato la salvezza con la salute.

In questo modo, la preoccupazione pressoché permanente per la salute, per il controllo dei corpi, che caratterizza quello che il filosofo francese chia-mava «biopotere», riassume la forma della trascendenza: sottrarsi, smettere di essere mortali, smettere di essere limitati. Così, se in altre culture e in altre epoche la trascendenza dipendeva dall’obbedienza e dall’adempimento di valori morali o religiosi nel corso della vita per arrivare all’altra vita eterna (oppure, nelle escatologie marxiste, dall’essere parte di una storia con una redenzione alla fine, in cui nessuna perdita sarebbe stata definitiva: l’idea di una società della fine della storia, in cui tutto sarebbe stato perfetto e senza perdite), oggigiorno questo desiderio di trascendenza si desacralizza inte-ramente e, attraverso le promesse laiche della tecnologia, si aspira a organi rifatti dalla cellula madre, a cervelli aumentati dai computer.

In questo senso pensiamo a scritti come quelli del poeta Mallarmé, che aspira a scrivere «il libro totale», in cui tutto il suo essere potrebbe tramutarsi in un testo e, allora, essere la via della salvezza. L’odio dei corpi ha milioni di volti e di forme, tutti con il medesimo obiettivo: sfuggire alla nostra condizione di esseri viventi e, quindi, limitati.

Poco tempo fa, in Francia, in un’intervista venne chiesto a un filosofo di sinistra, Alain Badiou (2008), perché avesse sostenuto Stalin, Mao e infine Pol Pot, il tiranno cambogiano che fece ammazzare due milioni di suoi cittadini. Badiou assunse un’aria offesa e rispose che questi non erano argomenti razionali, che contare i morti non significava nulla, e per corrobo-rare la sua argomentazione citò l’Inquisizione. Voleva dire che, se è in gioco la liberazione del popolo, due milioni di persone assassinate non devono trovare posto nei calcoli. Il suo ragionamento era paragonabile a quello di Heidegger, che non ritenne mai necessario commentare il «dettaglio» della Seconda guerra mondiale. I sei milioni di ebrei massacrati.