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MARIANO FRESTA IL CHIARO DI MONTEPULCIANO 1. – Paesaggio e ambiente Il lago di Montepulciano, nei progetti degli ingegneri che attuarono la bonifica della Val di Chiana, doveva avere solo una vita breve, il tempo necessario perché quel grande pantano si asciugasse attraverso l'opera lunga e continua delle colmate. Troppo grande, però, era il territorio occupato dalle acque, così grande che negli anni '50 del secolo scorso il lago (o il “chiaro”, come lo chiamano le genti chianine), nonostante i grandi lavori di bonifica, si presentava ancora abbastanza compatto e tenacemente resistente alla volontà degli uomini che lo volevano estinguere. Non solo: nel corso degli ultimi due secoli esso si era trasformato in un ambiente unico e prezioso perché aveva dato luogo ad un habitat in cui la biodiversità vegetale ed animale era un valore da conservare piuttosto che da eliminare. Così, tra le incomprensioni e le proteste di chi aveva usufruito e consumato liberamente per decenni quell’ambiente, si fece strada l’idea che forse sarebbe stato meglio, anziché farlo morire, tenerlo in vita e custodirlo e tutelarlo per conservare alle generazioni future la testimonianza di una natura che si modifica senza il contributo, spesso controproducente, dell’uomo, o quanto meno con una partecipazione minima dell’attività umana. E così è nata «l’Oasi del lago di Montepulciano» o, meglio, la “Riserva naturale della provincia di Siena”. Il Lago visto dalla sponda umbra. Nemmeno oggi, tuttavia, riteniamo di essere sicuri che il lago possa vivere senza essere contaminato da qualcosa: l’equilibrio che sembra essersi creato tra natura e opera dell’uomo è piuttosto fragile (e forse è solo apparente), sia perché il chiaro è attorniato da campi coltivati in cui si fa uso di concimi chimici, di diserbanti e di pesticidi, sia perché soggetto alla siccità, quella naturale delle lunghe estati chianine, prive di pioggia, e quella dovuta agli eccessivi prelievi di 1

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MARIANO FRESTA

IL CHIARO DI MONTEPULCIANO

1. – Paesaggio e ambiente

Il lago di Montepulciano, nei progetti degli ingegneri che attuarono la bonifica della Val di Chiana, doveva avere solo una vita breve, il tempo necessario perché quel grande pantano si asciugasse attraverso l'opera lunga e continua delle colmate. Troppo grande, però, era il territorio occupato dalle acque, così grande che negli anni '50 del secolo scorso il lago (o il “chiaro”, come lo chiamano le genti chianine), nonostante i grandi lavori di bonifica, si presentava ancora abbastanza compatto e tenacemente resistente alla volontà degli uomini che lo volevano estinguere. Non solo: nel corso degli ultimi due secoli esso si era trasformato in un ambiente unico e prezioso perché aveva dato luogo ad un habitat in cui la biodiversità vegetale ed animale era un valore da conservare piuttosto che da eliminare. Così, tra le incomprensioni e le proteste di chi aveva usufruito e consumato liberamente per decenni quell’ambiente, si fece strada l’idea che forse sarebbe stato meglio, anziché farlo morire, tenerlo in vita e custodirlo e tutelarlo per conservare alle generazioni future la testimonianza di una natura che si modifica senza il contributo, spesso controproducente, dell’uomo, o quanto meno con una partecipazione minima dell’attività umana. E così è nata «l’Oasi del lago di Montepulciano» o, meglio, la “Riserva naturale della provincia di Siena”.

Il Lago visto dalla sponda umbra.

Nemmeno oggi, tuttavia, riteniamo di essere sicuri che il lago possa vivere senza essere contaminato da qualcosa: l’equilibrio che sembra essersi creato tra natura e opera dell’uomo è piuttosto fragile (e forse è solo apparente), sia perché il chiaro è attorniato da campi coltivati in cui si fa uso di concimi chimici, di diserbanti e di pesticidi, sia perché soggetto alla siccità, quella naturale delle lunghe estati chianine, prive di pioggia, e quella dovuta agli eccessivi prelievi di

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acqua per le irrigazioni dei campi. D’estate, infatti, chi percorre, a piedi o in bicicletta, il “sentiero della bonifica” è accompagnato dal sordo tonfare dei motori delle pompe che succhiano, per le colture assetate del granturco, del girasole e del tabacco, quel poco di acqua rimasta. Tutto ciò rende delicata la situazione del lago e facile ad essere compromessa.

Rispetto a sessanta anni fa, lo stesso paesaggio che circonda il lago si è trasformato, fino a diventare irriconoscibile agli occhi dei più anziani. Il lago è, infatti, circondato da colture estensive: ettari ed ettari di grano, di girasoli, di tabacco, di mais e, recentemente, anche di pomodori; da quando non funziona lo zuccherificio di Castiglion Fiorentino non c’è più la coltivazione della barbabietola da zucchero che negli anni ’60 e ’70 occupava centinaia di ettari di terreno. Grandi distese circondano il lago, ora verdi per le piante di tabacco e di granturco, ora punteggiati dai fiori gialli del girasole; il paesaggio è dunque cambiato radicalmente. Se invece guardiamo le foto aeree scattate dall’Istituto Geografico Militare negli anni Cinquanta del secolo scorso1, il territorio ci appare come un enorme gioco geometrico, fatto di rettangoli, triangoli, quadrati, trapezi, ecc. ecc., così suddiviso secondo le necessità colturali e secondo i bisogni dell’organizzazione delle fattorie e dei poderi. Era questo il risultato dell’appoderamento avviato nella seconda metà del 1700 e proseguito man mano che la bonifica procedeva; un appoderamento che si applicava non più, come nell’Ottocento, su territori altocollinari, ma su un fondovalle totalmente pianeggiante in cui era possibile spostare fossi e torrenti per dar luogo alle colmate, in cui si poteva tracciare un fitto reticolo di strade bianche senza curve e senza pendenze rilevanti, in cui, infine, era possibile, nell’organizzazione dei campi, disegnare tutte le figure geometriche.

Insomma, le indicazioni e i suggerimenti che sin dai primi anni del secolo XIX avevano dato i marchesi Gino Capponi e Cosimo Ridolfi, e poi l’Accademia dei Georgofili, per quanto riguarda la strutturazione dei campi e il sistema di conduzione agraria (in questo caso la mezzadria)2, e quelli dell’ingegnere Ferdinando Morozzi per la costruzione delle fattorie e delle case coloniche3 («La buona casa fa buono il contadino», avrebbe scritto qualche anno dopo il proposto Ignazio Malenotti), adesso venivano realizzati in quella pianura fertile che era stata la mefitica e malarica palude del Chiane.

Vecchio podere, lungo le rive del Canale.

1 Le foto ricordate si trovano nel bellissimo volume curato da Di Pietro, Atlante della Valdichiana: cronologia della bonifica, Livorno 20052 Per tali questioni si rimanda a Pazzagli C., L’agricoltura toscana nella prima metà dell’Ottocento, Olscki, Firenze 1973.3 Morozzi F., Delle case dei contadini, 1770.

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Ora, dunque, le cose sono diverse, perché si è passati da una coltura intensiva ad una estensiva, sono spariti gli appoderamenti, molte case coloniche sono in rovina. Inoltre, nei pressi dei centri abitati di quella parte della Val di Chiana vicina al lago, si è formato un paesaggio nuovo, che mette insieme gli antichi casolari poderali rimasti, le piccole fabbriche, le casette, le antiche ville signorili e altre ville di recente costruzione4. La zona del lago rimane, però, un po’ isolata rispetto a questo nuovo assetto territoriale e paesaggistico. Dal lato umbro, addirittura, si trovano difficoltà a raggiungere le sue rive: per esempio, a Binami e a Mugnanesi si arriva per una discesa piuttosto ripida, dopo aver potuto osservare le sue acque dall’alto dei poggi percorsi dalla rotabile che da Pozzuolo porta a Gioiella.

Il Chiaro d’inverno, visto da Binami.

Come si sa, la situazione odierna del lago, diventato “Riserva naturale”, data in gestione alla Lega per la Protezione degli uccelli, è quella di un’istituzione dedita alla salvaguardia dell’habitat, alla protezione dei pochi uccelli migratori che vi fanno tappa e di quelli che vi sono diventati stanziali, nonché di tutti gli aspetti idrogeologici. Ma la protezione totale significa anche assenza di molte delle attività che vi si svolgevano, tra cui lo sfruttamento dei terreni, liberatesi nei mesi asciutti delle acque, per la coltivazione del grano, per la mietitura del fieno spontaneo; e poi la raccolta delle canne, della pagliola, dello scérpolo¸ del candelone, della sperella; della legna da ardere (oggi, gli alberi che invecchiano e cadono per le radici marcite, perché sommerse dalle acque in sovrabbondanza, rimangono lì senza che nessuno li porti via).

Il lago ha riacquistato così un po’ della sua selvatichezza e soffermarsi sulle sue sponde diventa piacevole perché anche noi, osservandolo, ci sentiamo partecipi della natura; ammiriamo con commozione non solo il volo maestoso degli aironi ma anche il nuoto tranquillo delle anatre e la fuga precipitosa delle gallinelle d’acqua spaventate.

A sentire le testimonianze di chi molti anni fa vi lavorava come pescatore o come tagliatore di canna e di scérpolo, o a vedere le foto antiche, alcune delle quali stampate su questo libro, al lago manca qualcosa: non solo i pescatori che ne sfruttavano la ricchezza ittica, per mezzo delle “arelle”, ma anche i capanni dei cacciatori e soprattutto i numerosi uccelli di passo che oggi sono ridotti a pochi esemplari. Certamente la caccia piuttosto spietata (non solo per diporto, ma anche per fame, al tempo della mezzadria) ha le sue responsabilità nella sparizione

4 Desplanques H., I paesaggi collinari tosco-umbrio-marchigiani, in I paesaggi umani, Capire l’Italia, Touring Club Italiano, Milano 1977, pp.98-117.

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dei volatili lacustri, ma non possiamo addebitare ai cacciatori di una volta la scomparsa di germani, di folaghe, di marzaiole, di fischioni, di alzavole. La colpa maggiore di questa assenza è dovuta alla moderna rivoluzione agraria che si è diffusa non solo in Italia, ma in tutta l’Europa e che, negli ultimi cinque decenni, ha radicalmente trasformato e a volte anche stravolto la coltivazione dei campi, con le colture intensive, l’uso dei concimi chimici, dei diserbanti, dei pesticidi. Dove passano le ruspe per appianare, dove sono le macchine a lavorare la terra e a raccogliere i frutti dei campi, là c’è poco spazio per gli animali di terra e di aria.

Purtroppo anche le acque del lago adesso hanno nuovi abitanti che ne hanno turbato l’equilibrio biologico e stanno modificando il tipo di fauna ittica: al luccio, alla carpa, alla tinca si sono aggiunti il boccalone, il carassio e il pesce gatto: quest’ultimo, insieme con il cosiddetto gambero “killer”, è stato ed è molto dannoso per gli altri pesci.

Ciò nonostante, tuttavia, il lago, visto da un’altura, ci sembra bello come una cartolina; ma non è stato sempre così, esso si è trasformato per eventi naturali, ma soprattutto per opera dell’uomo nel corso dei decenni; e si trasformerà ancora: per questo dobbiamo attrezzarci a conoscerlo meglio, perché qualsiasi intervento deve essere consapevole e diretto a ciò che vogliamo che il lago diventi nei prossimi anni. Non possiamo guardare al lago con un atteggiamento romantico o, peggio, estetico, non possiamo nemmeno trasformarlo in museo e mummificarlo; esso è stato un organismo vivo e come tale va rispettato. E’ giusto conservare gli elementi storici della sua vicenda, perché si tratta di storia fatta dagli uomini, come ci dimostrano i vecchi casolari abbandonati che ospitavano le numerose famiglie mezzadrili, la rete di fossi e fossetti che regolavano il flusso delle acque, gli antichi filari di gelsi le cui foglie servivano per l’allevamento dei bachi da seta, i filari dei testucchi (“aceri campestri”) cui si appoggiavano le viti e che fornivano il legno per la fabbricazione degli zoccoli. Ma è anche doveroso aiutarlo ancora a vivere, curandolo e tutelandolo, perché è una delle poche testimonianze che ci restano di una secolare storia idrogeologica e naturalistica; e se è necessario apportare delle modifiche, delle trasformazioni, dobbiamo avere l’intelligenza e la sensibilità di intervenire senza fare violenza alla natura.

La Chiana tra il Salcheto e il Canale

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2. – Il lago e le attività umane

In mezzo alle pianure della Val di Chiana, il chiaro di Montepulciano è veramente un’oasi che è riuscita a trovare un rapporto di coesistenza con le attività agricole circostanti. Mentre, infatti, in altre zone lacustri della Toscana5 nei secoli passati c’è stato quasi un conflitto tra agricoltori e pescatori, qui invece è stata trovata un’equilibrata convivenza, tanto che il lago piuttosto che uno spazio marginale è stato sempre sentito come un elemento del tutto integrato al territorio. Pescatori ed agricoltori sono vissuti quasi in simbiosi, anzi spesso e volentieri, visti i bassi profitti che si ricavavano dalle acque, i pescatori sono stati anche coltivatori, come dimostra il fatto che l’attività della pesca era ed è stata svolta, quasi per tutto il Novecento, da una cooperativa i cui soci esercitavano tutti e due i mestieri. D’altra parte, tra i mezzadri che abitavano accanto al Canale Maestro o lungo i fossi che attraversavano i poderi, certamente non sono mai mancati coloro che cercavano di ricavare dalle acque qualcosa che potesse arricchire e variare la loro dieta quotidiana. Per questa reciproca integrazione tra contadini e gente del lago, si può dire che fenomeni di “selvatichezza” rappresentati dalla “gente di padule”, come quelli raccontati da Renato Fucini alla fine dell’Ottocento6, sono stati del tutto assenti sulle rive del lago di Montepulciano. Nel periodo precedente la bonifica, la presenza umana nel territorio circostante il lago dovette essere minima, sia per l’impossibilità di coltivare i terreni soggetti agli allagamenti, sia per la presenza delle acque stagnanti che non solo erano causa di malattie, come la malaria, ma emanavano pure un fetore avvertibile fin sulle colline circostanti in cui i pochi abitanti si erano rifugiati. Le uniche attività possibili erano quella della pesca e quella di un piccolo commercio mercantile effettuato con dei natanti che, presumibilmente, avevano una struttura più da “zattere” che da barche. In assenza di strade percorribili dai carri, era naturale che si sfruttassero le acque per trasportare le merci tra le rive toscane e quelle umbre e tra i paesi della stessa parte toscana là dove c’era la possibilità di approdo. Come ci insegna ancora la toponomastica, i punti di attracco erano numerosi e quindi la rete di navigazione abbastanza fitta; ed infatti, oltre Porto, villaggio ubicato sulle rive umbre del lago, abbiamo sulla parte toscana i toponimi, tra quelli più noti, “via del porticciolo primo” e “via del porticciolo secondo” nella zona di Sciarti, nel comune di Montepulciano, la “via del Porto”, che va, grosso modo, da Torrita Scalo al Capannone, la località “la Ripa” alla Pieve di Sinalunga.

Dopo vari tentativi, finalmente alla metà del XVIII secolo, parte la bonifica. Man mano che le colmate prosciugano la palude, le terre vengono appoderate, date a coltivare col sistema mezzadrile, sorgono le fattorie, i casolari, le stalle, i fienili: le campagne si popolano. E’ un lavoro immane, perché il prosciugamento delle acque avviene attraverso la deviazione dei torrenti, la costruzione di dighe e di canali appositi; ed inoltre occorre progettare e costruire ponti, tracciare le strade per mettere in collegamento i vari poderi tra loro e questi con i paesi intorno. L’opera di bonifica rallenta e infine si arresta là dove le acque sono ancora sovrane, cioè presso il chiaro di Montepulciano e quello, molto più esteso e profondo, di Chiusi. Ma attorno a questi due laghi l’attività umana non si ferma: continua quella della pesca e ne inizia una nuova grazie alla vegetazione tipica delle zone lacustri: il taglio e la raccolta delle canne e dei giunchi spontanei; c’è, infine, la caccia che forse è stata molto marginale quando c’erano gli acquitrini, e che adesso si può svolgere con tecniche più moderne e con attrezzi più adeguati, pur rimanendo in uso quelli tradizionali. Sul lago, tra l’altro, si vedono le colonie degli uccelli migratori che tanto attirano i cacciatori.

5 Si veda a proposito A. Zagli, Le attività di pesca nel padule di Fucecchio in età moderna, in «Farestoria», VIII, n. 12, 1989, pp. 13-21.6 Fucini R., Le veglie di Neri, Rizzoli, Milano 1976.

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Il Canale Maestro d'inverno

Ma attorno a questi due laghi l’attività umana non si ferma: continua quella della pesca e ne inizia una nuova grazie alla vegetazione tipica delle zone lacustri: il taglio e la raccolta delle canne e dei giunchi spontanei; c’è, infine, la caccia che forse è stata molto marginale quando c’erano gli acquitrini, e che adesso si può svolgere con tecniche più moderne e con attrezzi più adeguati, pur rimanendo in uso quelli tradizionali. Sul lago, tra l’altro, si vedono le colonie degli uccelli migratori che tanto attirano i cacciatori.

2.1 - La canna, lo scerpolo e la pagliola

Chi, anche per una volta, ha frequentato le rive del lago ha notato la fitta vegetazione che le ricopre e che dà rifugio ad uccelli e animali vari. Oggi queste erbe si limitano a far parte del paesaggio, dando all’ambiente un aspetto selvaggio, ma negli anni passati, prima della crisi e prima che il lago diventasse un’oasi protetta, alcune di esse costituivano una parte non secondaria dell’attività economica del lago.

Dagli anni venti del Novecento fino alla fine della seconda guerra mondiale, il Demanio aveva dato in gestione il lago e i terreni circostanti all’Associazione dei Combattenti, la quale dava in concessione sia dei tratti di lago per la pesca, sia i terreni lasciati in secca dal ritiro provvisorio delle acque per raccogliere il fieno e per seminarvi il grano. Dopo la guerra, fu una Cooperativa di pescatori e agricoltori a prendere in concessione il lago. La cooperativa aveva sede ad Acquaviva, ma la maggior parte dei soci proveniva da Porto, da Binami e Mugnanesi, perché l’attività principale era quella della pesca. Compito della cooperativa era anche quello di concedere il permesso di costruire nel lago capanni per la pesca e per la caccia.

I terreni adiacenti al lago consentivano la coltivazione di qualche ortaggio (patate, per esempio, barbabietola) e soprattutto c’erano ben cinquanta ettari che si potevano coltivare a grano. Gli altri terreni, dai cinquanta ai cento ettari, che non permettevano una coltivazione specialistica, erano fonte di altri guadagni, perché producevano spontaneamente del fieno, più grossolano rispetto a quello dei campi normali, che era mietuto nei mesi primaverili.; e poi la canna, la saggina, la pagliola, lo scérpolo, il candelone.

La canna, o meglio la “cannuccia” era forse la pianta palustre più importante economicamente; essa si raccoglieva in dicembre, veniva tagliata in modo uniforme, dopo averla

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separata secondo il calibro (la circonferenza del fusto), e quindi affastellata. Il suo uso era molteplice, perché si andava dalla costruzione dei graticci su cui far appassire, per esempio, l’uva destinata alla produzione del vinsanto, oppure altri frutti, alla costruzione di cannicci vari, usati sia nel lago per fare le “arelle”, sia per coprire i tetti delle capanne.

Della saggina era utilizzata l’infiorescenza a pannocchia per farci le scope.Il taglio e la raccolta della pagliola era un lavoro affidato alle donne e che veniva svolto dai

primi di luglio fino al l5 agosto circa. Accanto ai terreni di raccolta erano state costruite delle capanne che servivano alle “pagliolaie”, le operaie che raccoglievano la pagliola7, come riparo quando pioveva e come luogo in cui tenere i panni di ricambio e le borse con il pranzo a sacco.

I fasci di “pagliola”, insieme con quelli dello “scérpolo” e della canna, caricati su carri, barrocci e carrettoni, erano trasportati alla stazione ferroviaria di Montallese, che allora si chiamava Selcini, e lì immagazzinati. Da lì, partivano per varie destinazioni (Certaldo, Piegaro, oltre Napoli), dove le vetrerie se ne servivano per rivestire fiaschi e damigiane o dove c’erano fabbriche di sedie impagliate.

L’altra erba palustre che poteva essere lavorata era lo “scérpolo” così chiamato dal latino scirpus che significa “giunco”. Rispetto alle altre erbe, questo era più robusto e veniva utilizzato sia per il rivestimento di grosse damigiane sia per riempire il piano delle sedie.

C’era un’altra erba che cresceva nel Canale Maestro, ma essa si presentava come un inconveniente che andava eliminato. Si trattava del “veglio”, un’erba infestante che ostacolava il libero flusso dell’acqua. Per liberare il canale, era necessario tra aprile e maggio eseguire la svegliatura, ovvero il taglio di quest’erba per mezzo di un segone a tre o quattro lame lisce, tirato per mezzo di una fune da otto uomini; un caposquadra dava il ritmo, la cadenza giusta per svolgere il taglio in modo coordinato. Una volta tagliato, il veglio era trasportato dalla corrente fino alle Fornacelle o al Callone, dove alcuni operai lo tiravano fuori con un forcone con i rebbi piegati a novanta gradi (lo scarcatoio, in genere usato per scaricare il letame vaccino dai carrettoni).

Gli operai che eseguivano questa pulizia del Canale erano chiamati “svegliatori” e spesso, durante il loro faticoso lavoro, erano infastiditi dalle sanguisughe che si attaccavano alla loro pelle per succhiare il sangue.

2.2 - La pesca

Negli Statuti e negli ordinamenti della città di Perugia riguardanti la rivendita del pesce, si legge: «Che nessuno si azzardi o presuma di vendere né di far vendere nelle pescherie i pesci catturati in Chiane dal 1° di maggio al 1° di novembre, eccetto le anguille vive e il pesce salato…»8. Questo regolamento risale al 1296 e fu ribadito nello Statuto del 1376.

Da esso si deducono almeno tre cose: primo, che, visto che all’epoca non c’erano i frigoriferi e nemmeno i veicoli che trasportassero in pochi minuti il pesce dalle rive del lago a Perugia, era necessario regolamentare la vendita del pesce e di vietarla nei mesi più caldi dell’anno, per evitare rischi di epidemie di salmonellosi e di colera, malattie per le quali si moriva allora molto facilmente. Eccezione a questo divieto era costituito dalle anguille che rimangono vive per più giorni, specie se si ha l’accortezza di tenerle in contenitori, come i barili, con un po’ d’acqua. In secondo luogo si evince che l’attività di pesca era praticata in quel tempo su scala abbastanza grande, se è vero che la città di Perugia si approvvigionava a Porto e, presumibilmente, a Binami e Mugnanesi, tutti e tre villaggi appartenenti all’amministrazione politica perugina. In terzo luogo, infine, la citazione del pesce salato ci testimonia che i pescatori di quelle zone avevano ritrovato il modo per conservare il pesce per lungo tempo. Forse

7 Secondo diverse testimonianze, quasi tutti i lavori lacustri, compresa la zappettatura delle bietole, erano eseguiti da donne.8 Si veda Betti L.- Rossi A., Porto, Un amore una storia, S. Maria degli Angeli, 1990, p. 45.

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l’esperienza della conservazione delle carni di maiale per mezzo del sale aveva suggerito loro di trattare i pesci allo stesso modo.

Non erano comunque i soli abitanti della città di Perugia a ritenere il pesce come un elemento importante dell’alimentazione, perché anche i paesi rivieraschi e quelli distanti non molti chilometri dal Chiaro consumavano i pesci della palude: ne sono testimonianza gli Statuti di Montepulciano del 1337 che impongono la gabella sia per il pesce fresco che per quello “secco”9.

Il consumo del pesce era, dunque, dovuto alla necessità di assumere proteine nobili in un regime alimentare piuttosto povero, ma c’erano anche usi alimentari dettati da regole religiose. La Chiesa, infatti, obbligava, pena sanzioni, che almeno due volte a settimana, il mercoledì e il venerdì, non si consumasse carne e che per tutti i giorni della Quaresima si mangiasse di magro. Per ottemperare a queste disposizioni, i monaci del convento di Abbadia San Salvatore, non avevano trovato di meglio che acquistare, per uso proprio, nel Lago Trasimeno, ben due “porti”, cioè due piccoli bacini, per l’approvvigionamento del pesce.

Il pesce, dunque, era un alimento necessario per la sopravvivenza in tempi di non grande ricchezza alimentare e un cibo prescritto per determinati giorni della settimana e periodi dell’anno. E così è stato per lunghi secoli, fino, per rimanere in Toscana e nell’Umbria, al 1950 circa, quando entra in crisi il sistema mezzadrile, avviene il fenomeno della grande fuga dalle campagne, con relativo spopolamento, e quando si cominciano a delineare la stagione del boom economico e l’inizio della società industriale. La profonda crisi dell’agricoltura determina un periodo di difficoltà anche per le attività produttive del lago, tanto che si arriva allo scioglimento della cooperativa che ne aveva la gestione ed infine si decide di fare del lago e del territorio intorno un’oasi ambientale, visto che nel corso dei secoli esso era diventato una tappa per gli uccelli migratori e vi si era creato un habitat particolare. Si arriva quindi a porre fine alle colmate e si studiano tutti i modi e i mezzi perché il lago non si estingua.

L’attività di pesca era praticata esclusivamente da pescatori abitanti sulla riva umbra del lago: Porto, Binami e Mugnanesi erano i villaggi in cui essi risiedevano; mentre sul lato senese del Chiaro, invece, l’attività principale era di tipo agricolo, quella che abbiamo descritto nel paragrafo precedente.

Nel 1959 si costituisce la Cooperativa pescatori-agricoltori del lago di Montepulciano, con sede in Acquaviva, che ottiene dal demanio la concessione di sfruttamento del lago. Vi aderiscono venti pescatori, cui la Cooperativa dà in affitto degli appezzamenti nel lago, chiamate “macchie”. Questi appezzamenti erano di varia estensione, i più grandi erano quelli degli assegnatari più antichi le cui famiglie ne erano già in possesso da tempo. La stessa cosa era avvenuta sul lago Trasimeno, dove gli appezzamenti, però, erano chiamati “porti”10. Ogni pescatore aveva diritto a pescare nella propria “macchia”.

Il pescato annuale per ogni assegnatario si aggirava intorno ai 160 quintali; e siccome i pescatori erano venti, la quantità totale annua toccava i 3200 quintali. Ciò significa che il Chiaro di Montepulciano forniva una quantità notevole di pesce che doveva essere smaltito nei paesi circostanti il lago. In buona parte il pesce era venduto dagli stessi pescatori nei paesi vicini e soprattutto in quelli toscani. Il resto del pescato era comprato da pescivendoli ambulanti che lo andavano a vendere nei paesi della Toscana e dell’Umbria Dopo gli anni ’60 del Novecento la rivendita del pesce fu agevolata dall’uso di motofurgoni, automobili e camioncini che permisero ai pescatori e ai pescivendoli di raggiungere facilmente paesi e città nel raggio di una trentina di chilometri. La vendita del pesce fresco, tuttavia, riguardava prevalentemente i centri urbani, perché difficilmente arrivava nelle case coloniche, piuttosto isolate e difficili da raggiungere e dove, a cominciare dalla metà dell’Ottocento era subentrata la consuetudine di consumare il

9 Si veda il Settimo Statuto della Gabella, LXXXV, in Gli Statuti di Montepulciano 1337, a cura di Giulio Caporali, Banca di Credito Cooperativo, Montepulciano, 1996, edizione fuori commercio, p. 146 e p. 152.10 Nel Museo della Pesca di San Feliciano, sul Trasimeno, ci sono pannelli che spiegano esaurientemente cosa erano e come funzionavano i “porti”.

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pesce secco, come lo stoccafisso, e quello salato, come il baccalà, le aringhe e le salacche, arrivati dall’Europa del Nord. Il pesce così trattato aveva, tra l’altro, la virtù di poter essere conservato a lungo.

Rispetto ad oggi, c’era una varietà di pesci diversa: regine, carpe, lucci, tinche persico reale e anguille costituivano le specie più pregiate e quelle ovviamente più richieste dai consumatori. Si pescavano anche il persico sole, le scardole e le lasche che avevano un mercato diverso, più povero, in quanto erano acquistate solo dal mondo contadino.

Quando la pesca era stata tanto abbondante da non poter essere smaltita subito, il pesce in sovrappiù si metteva nel baccaio, un contenitore di scèrpolo, che s’immergeva nel lago tra i cannicci, ben nascosto onde evitare un eventuale furto. Quando la pesca era andata al di sotto del normale o quando sul mercato c’era una richiesta maggiore, si ricorreva al pesce messo da parte nel baccaio.

La pesca poteva essere effettuata in qualsiasi periodo dell’anno; solo a giugno essa era proibita per le carpe e le regine, perché era il tempo della loro riproduzione.

Un particolare tipo di pesca era il “filaccione”; lo praticavano i pescatori professionisti, dotati di licenza e riguardava le anguille. Era come il “palamite” che si usa per la pesca in mare: ad una corda sorretta da galleggianti veniva attaccato un gran numero di ami innescati; il filaccione era calato in acqua la sera e tirato su la mattina.

Capanno di pescatore

Un altro modo per pescare era quello con canna e mulinello; questo tipo di pesca si praticava da settembre a dicembre per pescare i lucci. Per le scardole e le lasche, invece, si usava il sistema delle fascine, che sul Trasimeno prende il nome di “tuoro” e che era applicato durante i periodi invernali11. Si tratta di calare in acqua delle fascine di ramaglie, sotto i quali, a branchi, si rifugiano i pesci. Per le lasche e le scardole bastava calare dei cesti di vimini per tirarne su a chili; per i pesci più grossi e per le anguille, sul Trasimeno, si usavano mezzi e reti molto più complessi.

Ma non si può andare a pescare senza barche. Quelle del Chiaro spesso erano costruite dagli stessi pescatori, ma c’era anche qualche falegname che si era specializzato nella loro costruzione. Il legno con cui erano fatte era di quercia e veniva stagionato per parecchio tempo immerso nel fango del lago. Da quando la pesca professionistica è andata in crisi, è raro vedere barche di legno; in genere gli amanti della pesca sportiva usano quelle costruite recentemente in 11 Anche per questo sistema si rimanda ai pannelli e alle ricostruzioni del Museo di san Feliciano.

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lamiera.Esistono molti attrezzi per la pesca, soprattutto vari tipi di rete. Ci sono attrezzi però che i

professionisti usano rare volte, in genere si tratta di attrezzi per una pesca di diporto. Tra questi ci sono il bilancino, la fiocina e la guada, che spesso erano usate dai contadini per un po’ di pesca di frodo, per rimediare il pranzo almeno una o due volte a settimana; ovviamente si parla di mezzadri abitanti nei pressi del lago o dei fossi, perché gli altri, secondo il contratto colonico non potevano allontanarsi dal podere senza un permesso del fattore o del padrone, cosa difficile da ottenere. La guada (si veda la foto e la sua descrizione nell’apposti box) era usata anche dai professionisti, ma questi avevano altri attrezzi meno faticosi per catturare il pesce.

Tra le reti c’era il tramaglio, lungo venti metri e più, ma lo strumento di cattura più efficace era la nassa e soprattutto i suoi derivati che, pur prendendo diversi nomi, hanno la stessa struttura e la stessa modalità di cattura, differiscono soltanto nella lunghezza. Mentre la nassa, che si usa anche in mare per i pesci piccoli e per i polpi, è costruita con vimini, quella usata presso il Chiaro di Montepulciano e in quello di Chiusi e nel Trasimeno è costituita da vari cerchi concentrici di varia misura, rivestiti da una rete, in modo da prendere la forma di un cono. Anzi, la veduta d’insieme dell’attrezzo ci mostra più coni, uno dentro l’altro. In Italiano il suo nome è “bertuello”, ma presso le rive del Chiaro si chiama martavello, ed anche tofo, tofello, tofone, secondo la grandezza.

Mentre la nassa ha un’apertura che permette ai pesci di entrare ed una ritrosa che impedisce loro di tornare indietro ed uscire, il martavello è molto più lungo e dentro ha più ritrose (i vari coni di cui sopra), in modo da poter catturare più pesci.

I martavelli, tuttavia, senza l’aiuto di un altro marchingegno non sarebbero stati capaci di catturare tutti quei quintali di pesci che costituivano il prodotto ittico annuale. Questo secondo ordigno è l’arella. Si tratta di un diminutivo che deriva dal latino hara, nome con cui gli antichi Romani chiamavano un recinto per gli animali. E in effetti, nel lago i pescatori costruivano dei recinti enormi; si trattava di corridoi, lunghi fino a trecento metri e più, formati da due pareti di cannicci infissi nel fondale del lago, in mezzo ai quali c’era lo spazio per far passare una barca. Da una parte l’arella era aperta, dall’altra era chiusa da un enorme martavello, dove andavano a finire i pesci, che non potevano liberarsi dal trabocchetto in cui erano caduti.

Due Martavelli stesi ad asciugare

Un solo, seppure enorme, martavello però non bastava. Lungo le pareti di canna, all’incirca ogni dieci metri c’era un’apertura, a cui era applicato un altro martavello. Insomma,

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sia che andassero sempre diritti, sia che prendessero una qualsiasi apertura laterale, molti pesci erano destinati ad essere intrappolati.

Ai pescatori era sufficiente passare con la barca in mezzo al corridoio, slegare i martavelli, svuotarli dei pesci catturati, rimettere le reti al loro posto e tornare a riva, pronti per vendere il pescato.

Un’arella funzionava fino a quando la canna non marciva, cioè per circa due anni.Oggi il lago, per varie vicende, non offre più la ricchezza ittica di una volta e non

potrebbe dare da vivere a venti famiglie di pescatori come qualche decennio fa. Il pesce scarseggia, decimato da pesci gatto, gamberi killer, pesticidi, siccità, ecc., ma anche da una paratia molto alta che, oltre ad impedire alle acque del lago di fluire, per la pendenza creata dalle colmate, verso l’Arno (provocando un malaugurato prosciugamento del lago), non permette ai pesci, quando tornano dal Canale, di immettersi di nuovo nel Chiaro: perché troppo alta è la paratia e i pesci non hanno le ali.

2.3 - La caccia

2.3.1 - La caccia nelle società agricole e pastorali

L'uomo deve la sua sopravvivenza alla capacità di adeguarsi all'ambiente in cui vive. Divenne, pertanto, importante per lui saper distinguere le erbe e i frutti buoni da quelli cattivi, dovette imparare a conoscere le abitudini degli animali per poterli cacciare; dovette saper costruire delle armi più precise di un semplice sasso per poter abbattere le prede che gli avrebbero fornito le proteine necessarie. La caccia, quindi, fin dai tempi preistorici, è stata, in Europa e in Italia, per decine di migliaia di anni uno dei mezzi di sostentamento, fino a quando non sopravvennero l’agricoltura e l’allevamento del bestiame. Quando cambiarono le condizioni di vita, la caccia restò comunque sempre un’attività diffusa, anche se esercitata soprattutto dalle classi aristocratiche e da quelle ricche (le uniche che avevano il privilegio e i mezzi per farlo), fino a quando, in tempi recenti essa si è trasformata in gioco, perché non più necessaria alla sopravvivenza.

Ci sono stati, però, dei periodi in cui la caccia è tornata ad essere una necessità, se si voleva sopravvivere, come negli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale, tanto che qualcuno praticava, per maggiore profitto, l’uccellagione con stampi (richiami artificiali, raffiguranti storni e pavoncelle) e reti perfino di venti metri. Poi, a poco a poco, l’attività venatoria è tornata ad essere uno sport, non più solo delle classi abbienti, ma anche delle classi popolari, come dimostra la presenza e la vitalità, per molti anni dell’Associazione Arci-Caccia (nata negli anni ’70 del Novecento), contrapposta, per filosofia e per la provenienza sociale dei suoi iscritti, alla Federcaccia (l’Associazione più antica, nata nei primi anni del Novecento).

2.3.2 – La caccia in terraferma

Anche nei cacciatori più appassionati e irriducibili emerge la coscienza che ormai, anche per loro, la caccia è solo un gioco e come tale è del tutto inutile sia dal punto di vista economico sia da quello alimentare. E’ rimasto solo il gusto ancestrale di andare a caccia, seguire le orme dell’animale, dimostrare a se stessi di essere capaci di capire i comportamenti del fagiano o della lepre, di verificare la propria prontezza dei riflessi, la precisione della mira e la velocità con cui premere il grilletto.

Questa passione e la volontà di viverla fino in fondo stavano alla base delle molte fatiche di qualche decennio fa: fatiche fisiche, come quelle di affrontare percorsi accidentati, campi

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Stormo di cormorani

fangosi, il clima gelido di certe giornate invernali e l’afa di quelle settembrine; e fatiche mentali per studiare i modi e i mezzi idonei a catturare gli animali e quelle per prepararsi gli strumenti adatti in periodi in cui la scarsezza pecuniaria impediva di acquistare cartucce, polvere da sparo e piombo.

La coscienza ambientalista degli ultimi trent’anni ha influenzato la formazione del calendario venatorio, prevedendo divieti, pause per i tempi della cova, protezione di certe specie, accorciamento del calendario venatorio e tante altre regole che sono state accettate senza molte recriminazioni dalla maggior parte dei cacciatori, che si sono convinti che la caccia è ormai un gioco e non una necessità e che ogni gioco ha le sue regole. Così, mentre molti anni fa la caccia si apriva il 15 di agosto e si chiudeva il Lunedì di Pasqua successivo, attualmente si va dal 1° di settembre a gennaio, entro il quale periodo ogni singola specie può essere cacciata in determinate settimane. Nel calendario antico era previsto che con il terreno coperto di neve non poteva essere permessa nessuna caccia; e se invece il terreno era ghiacciato era consentita la caccia agli acquatici.

Così fino agli anni ’70, nei terreni intorno al lago, si cacciavano lepri, fagiani e starne. La caccia alla lepre, forse, era la più difficile e il “lepraiolo”, l’esperto di questo tipo di caccia, si permetteva di uscire senza cane, perché non ne aveva bisogno. Individuava con perizia la direzione dei venti e quindi riusciva a capire dove la lepre, non sopportando il vento, si fosse acquattata per ripararsi.

L’altro sistema di caccia era quello col capanno, mediante il richiamo vivo. Spesso si usavano le pavoncelle (le “miole) e gli storni come richiami.

Un altro modo di cacciare da fermi si faceva al “roccolo”, un gruppetto di alberi piantati appositamente a modo di boschetto, dove si sistemavano anche i “pagnuzzi”, bastoncini impaniati cui gli uccelletti restavano attaccati. In questo caso non si andava tanto per il sottile, la caccia era aperta a tutte le specie di uccelli, tranne il pettirosso .

Solo alla volpe non si dava la caccia, ora c’è qualcuno che tira anche ad essa, forse in

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mancanza di altro. Una volta si preferiva catturare viva la volpe, per portarla in giro e farsi dare delle uova dalle massaie: «Abbiamo catturato la volpe, adesso le vostre galline sono al sicuro… dateci quindi una ricompensa…». Era un modo come un altro per approntare una buona frittata da mangiare insieme con gli amici.

2.3.3 – La caccia in palude.La presenza del lago ha fatto sì che i cacciatori non esercitassero la loro attività solo sulla

terraferma. Gli uccelli di passo erano una tentazione cui non si sapeva e poteva resistere. Tanti anni fa, moltissimi erano gli uccelli migratori che si fermavano sulle paludi della Val di Chiana meridionale: folaghe, anatre, marzaiole, alzavole, germani, fischioni, codoli ed anche qualche cicogna e qualche oca erano soliti, durante i loro lunghi voli da Nord a Sud e viceversa, fare tappa in questi specchi d’acqua in cui era possibile riposarsi ed alimentarsi. Il calendario venatorio per questi acquatici ero lo stesso di quello per la caccia a terra, ma diversi, a parte la doppietta, erano gli strumenti usati per abbattere questi uccelli. Intanto erano necessarie le barche per poter girare la palude, o il padule, come si legge in una segnalazione stradale sotto Valiano (“Via dietro il padule”); se non si aveva la barca occorrevano stivaloni fino all’inguine per aggirarsi fra gli acquitrini. Il cane era quasi indispensabile.Chi poteva, affittava una barca: i pescatori professionisti erano sempre pronti, dietro compenso, a mettere a disposizione la propria barca. Erano soprattutto i cittadini ad affittare la barca. Venivano con calzoni alla zuava, stivali, giubbotti sportivi, e qualcuno anche in giacca e cravatta e col cappello, come si può vedere da alcune fotografie storiche, scattate negli anni ’30. Erano quelli che si allontanavano, almeno per un giorno, dalla città per un tuffo nel mondo primitivo della palude, cercando di vivere, o illudendosi di vivere, a contatto con la natura, quasi come selvaggi che per sopravvivere hanno bisogno di cacciare e catturare gli animali. Poi, magari, molti di quegli animali finivano imbalsamati per ornare qualche salotto borghese. Nelle foto, accanto a loro ci sono i “barcantini”, cioè i proprietari e conducenti delle barche, e ci sono anche quelli del luogo che

Un raro airone rosso

facevano da guide ai signori che venivano dalla città. La differenza del vestiario segna

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vistosamente la diversità tra chi va a pescare e a cacciare solo per sport, o addirittura per snobismo, e chi invece con quelle attività campava se stesso e la famiglia.

Qualcuno di questi signori, ma anche alcuni del luogo, prendevano in affitto dei capanni costruiti sull’acqua; i capanni erano mascherati con canne e fronde e apparivano come isolotti erbosi. Le testimonianze dicono che c’era almeno una ventina di capanni sul lago. Quando era giornata di caccia, accanto ai capanni venivano disseminati gli stampi che servivano da richiamo, ovverosia uccelli finti che la sapienza e la pazienza dei cacciatori avevano ricavato dallo scérpolo ben intrecciato e successivamente verniciato con gli stessi colori della livrea degli uccelli. C’era, naturalmente, anche qualche richiamo vivo, ben assicurato con una cordicella perché non scappasse.

I cacciatori che non possedevano un capanno si dovevano accontentare dei “grottoni” di riparo, specie di trincee sulle rive del lago.

Per i cacciatori locali, quando la situazione economica delle famiglie non era molto agiata, tutti gli animali cacciati si trasformavano in cibo. Soprattutto le folaghe che hanno una qualche rassomiglianza con le galline. Gli uccelli acquatici, però, hanno la caratteristica di cibarsi di pesci e questo comporta che le loro carni spesso siano maleodoranti; così piuttosto che le folaghe grasse, o “buzzone”, come venivano chiamate, che erano diventate stanziali e mangiavano i prodotti della palude, si preferivano quelle “bianche”, che erano di passo e non “puzzavano”.

Tra tutti gli uccelli acquatici, le folaghe erano le più numerose, così che il loro valore di mercato era piuttosto basso e si potevano comprare a poco prezzo. Non solo: la loro moltitudine era così grande che qualche cacciatore, oltre alla licenza per la doppietta normale, aveva anche quella di poter usare la “spingarda”, un grosso fucile a canna lunga e di grande calibro che serviva per i tiri a distanza: con quest’arma si facevano grandi vuoti tra gli stormi delle folaghe.

2.3.4 -La caccia di frodo.

I cacciatori di frodo non sono mai mancati, sia per necessità alimentari, sia per il gusto primitivo di inseguire un animale ed ammazzarlo, sia per emulazione di coloro che, avendo i mezzi finanziari per acquisire i diritti di caccia (licenze, riserva, ecc.), potevano esercitare il loro passatempo alla luce del sole: i “bracconieri”, agivano nottetempo ma poi la voce delle loro pro-dezze si diffondeva velocemente nei bar e nel paese; e questo per loro era motivo di orgoglio, perché si dimostravano più bravi di quegli altri, diventavano quasi degli eroi nei confronti della comunità12.

Nel mondo mezzadrile, tuttavia, era difficile, se non impossibile, poter acquistare un fu-cile, sia perché non c’erano i soldi necessari, sia perché il contratto colonico proibiva il possesso di un fucile, sia perché l’esercizio della caccia era una prerogativa dei soli proprietari dei poderi. Oltre al fucile, però, c’erano altri strumenti venatori, dai più semplici, come la “schiaccia”, ai più ingegnosi come il “diluvio. Se per i proprietari e i signori che venivano a cacciare sul lago la caccia era solo un passatempo, uno “sport”, per i mezzadri e per i braccianti se non era una ne-cessità, essa costituiva però uno dei mezzi per procacciarsi le proteine nobili offerte solo dalla carne. Altrimenti le uniche proteine erano quelle fornite dai legumi e soprattutto dai fagioli, oltre

12 Su questo aspetto si veda il capitolo Bracconieri alpini: Tricksters o eroi culturali?, in Dalla Bernardina Sergio, Il miraggio animale, per un’antropologia della caccia nella società contemporanea, Bulzoni, Roma 1990 (3° ed.), pp. 167-196.

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al pesce, specie quello salato come il baccalà e la “salacche” (agoni sotto sale). In sostanza niente carne, a parte un po’ di lesso rifatto, un po’ di carne di maiale conservata, qualche pollo (che, però, doveva accontentare fino a otto/dieci persone), qualche uovo (da dividere in due). Se, dun-que, si voleva un po’ di carne fresca si doveva ricorrere alla cacciagione, ma utilizzando stru-menti di caccia piuttosto primitivi e, nella stagione delle nidiate, andando a predare i nidi, come erano soliti fare i ragazzi che abitavano in campagna, per farci una frittata.

Qui di seguito, si riportano alcune di queste tecniche, che erano proibite dai codici civile e penale, ma che si rendevano necessarie per riempire lo stomaco e cercare di colmare le insuffi-cienze proteiche della dieta giornaliera.

- Il Bruzzello

A tarda sera, i predatori si avvicinavano ai pagliai e ai cespugli di rovi dove per la notte si erano posati gli uccelli, muniti di una lampada e di unauna pala di legno, come quelle da for-no. La lampada serviva ad individuare il luogo in cui erano andati a dormire gli uccelli. A colpi di pala si svegliavano gli uccelli e si facevano scappare; sorpresi dal rumore e dalla luce della lampada, molti uccelli venivano abbattuti a colpi di pala. In tempi più remoti la lampada non era che una lanterna con dentro un piccolo fornello dentro il quale bruciavano frasche e legnetti. Questa lanterna era chiamata “bruzzello” (da “bruciare”) e pare che da esso abbia preso nome il “Bruscello” lo spettacolo epico del mondo contadino, che all’origine era la rappresentazione far-sesca di alcuni personaggi che erano andati a caccia col “bruzzello”, appunto, e che tornavano senza aver riempito il carniere.

- La Schiaccia

Era una tecnica di caccia propria dei ragazzi; essa consisteva nell’attirare con un po’ di bec-chime gli uccelli; questi si avvicinavano per mangiare ma prima o poi urtavano un piccolo legno che sosteneva una pietra piatta (la “schiaccia”); questa cadendo li uccideva o li storpiava.

- Il Diluvio

Il “diluvio” era un attrezzo molto ingegnoso che aveva la forma dello scheletro di un ombrello rovesciato; le sue parti esterne erano ricoperti da fili di canapa impregnati di “pania”. Con questo attrezzo si andava a caccia degli uccelli che la sera erano andati a dormire dentro i pagliai. In genere si sceglieva un pagliaio da cui era stata asportata con un taglio netto una certa quantità di paglia. In due si avvicinavano al pagliaio, uno portava il diluvio, l’altro un lungo palo. Quest’ultimo, col bastone, batteva e scuoteva la parte alta del pagliaio. I passeri spaventati lasciavano il ricovero, ma, avendo sbattuto contro il diluvio, rimanevano attaccati ad esso perché impaniati, o cadevano a terra impossibilitati a volare.

5.- Prospettive di integrazione con il territorio

Nelle pagine precedenti abbiamo cercato di ricostruire sommariamente la vita che si svolgeva intorno alla palude e poi intorno al lago. Di tutte quelle attività rimane solo quella di un singolo pescatore professionista e quella, piuttosto marginale, dei pescatori amatoriali. Da qualche decennio, tutta la zona è stata dichiarata “Riserva naturale” dalla Provincia di Siena ed è stata affidata, fino al 2010, alla cura della LIPU. E’ stato questo un atto di coraggio e di lungimiranza: certo, se pensiamo che il governo degli Stati Uniti d’America ha istituito molti dei suoi parchi naturali alla fine dell’Ottocento (quello dello Yellowstone è addirittura del 1872),

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dobbiamo ammettere che da noi riserve e parchi naturalistici sono stati fatti con molto ritardo, appena un poco prima del loro degrado totale.

Aprire un parco o un museo è facilissimo: basta che un Ente pubblico faccia una delibera e stanzi una qualche somma per l’inaugurazione. Il difficile è, però, mantenere in vita i musei e i parchi, non tanto per le spese enormi di manutenzione e di personale addetto alla sorveglianza, quanto per impedire loro di avere una vita catatonica, cioè una vita finta, come quella delle persone in coma irreversibile, o addirittura una morte per asfissia. Perché un museo o un parco di qualsiasi genere, hanno un’effettiva vitalità solo se si integrano nel territorio, se intrecciano la loro vita con quella degli abitanti vicini e se interloquiscono, culturalmente, con quelli che abitano anche molto lontano.

L'argine del Canale diventato pista ciclabile

Non si tratta, ovviamente, di ricominciare a tagliare lo scérpolo e la pagliola, o di popolare il lago di barche cariche di cacciatori armati fino ai denti (cosa che, evidentemente, durerebbe pochissimo, vista la penuria di prede); però si potrebbe pensare ad uno sfruttamento maggiore della pesca, rivedendo le strutture che oggi, secondo il parere di esperti pescatori, impediscono ai pesci di tornare al lago dopo essere usciti quando le acque in sovrappiù vengono mandate verso l’Arno. Per dirla più semplicemente, occorre che la paratia vicino alla Casetta venga modificata per permettere alla fauna ittica di ripopolare il lago. In questo modo forse ci sarebbe la possibilità di un’attività di pesca professionistica con benefici per chi la fa e per chi consuma il pesce d’acqua dolce.

La Riserva oggi costituisce un ambiente particolare, in cui domina la diversità biologica, sia nel mondo vegetale che in quello animale, e per questo può diventare un esempio da seguire per chi si occupa di allevamento di animali e di agricoltura. Sino a qualche decennio fa esistevano tante varietà di mele, adesso è rimasta soltanto la mela col bollino; e così per il grano, così per i pomodori; e così per il pesce che quasi sempre si limita all’orata e alla spigola di allevamento. La Riserva è invece un laboratorio in cui si può imparare a conoscere in profondità

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la natura, si può imparare che la perfezione della natura è dovuta non alla selezione dei suoi esseri ma alla complessità e varietà e diversità degli individui che, ognuno svolgendo la sua parte, creano l’armonia del mondo.

Già la LIPU svolge compiti didattici con le scuole dell’obbligo; attualmente gli incontri con le scolaresche hanno come temi le caratteristiche idrogeologiche del lago, il mondo vegetale e animale dei luoghi umidi, l’ecologia. Si tratta di ampliare questi temi estendendoli al mondo umano: il lago, come abbiamo visto, è stato al centro di tante attività umane, alcune marginali come il taglio della canna e la caccia, una importante come la pesca. Sulle sue rive sono passate trecento anni di storia che sarà il caso di recuperare e tramandare alle generazioni future. Se alla Casetta, alla documentazione relativa alla storia naturale si aggiunge anche quella delle attività umane, con una mostra di oggetti, di documenti cartacei e visivi, con le testimonianza di chi quelle vicende ha vissuto, si potrà creare un centro di studi che potrà richiamare studenti universitari, ricercatori, studiosi di storia locale, e persone intellettualmente e culturalmente curiose; un centro di studi che sarà anche luogo di riflessione utile per i contemporanei e per le generazioni future.

Bibliografia

Berti Leo – Rossi Alvaro, Porto. Un amore una storia, Tipolitografia Porziuncola, Assisi 1990.

Centro di Ricerca Documentazione e Promozione del Padule di Fucecchio, Uomini del padule. Lavoro, vita, tradizioni nel Padule di Fucecchio dal Medioevo a oggi, a cura di Andrea Zagli, Ed. Polistampa, Firenze 2003.

Dalla Bernardina Sergio, Il miraggio animale, Bulzoni, Roma 1990.

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Desplanques Henri, I paesaggi collinari tosco-umbro-marchigiani, in I paesaggi umani, (Capire l’Italia), Touring Club Italiano, Milano 1977, pp. 98-117.

Nesi Annalisa, Il lessico della pesca nelle acque interne attraverso un campione di vocabolari italiani, in Atlante Linguistico Laghi Italiani, Tecniche di esecuzione e stato delle ricerche, Edizioni Scientifiche Italiane, 1990.

Pirovano Massimo, Pescatori di lago. Storia, lavoro, cultura sui laghi della Brianza e sul Lario, Cattaneo Editore, Oggiono 2002 (1° edizione 1996).

Zagli Andrea, Le attività di pesca nel padule di Fucecchio in età moderna, in «Farestoria», VIII, n. 12, 1989, pp. 13-21.

(Finito il 26 Febbraio 2010, in attesa di pubblicazione)

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