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Il cibo nell’arte, dal Medioevo all’Età Moderna Eleonora Maria Romano Pagina 1 di 9 Corso di formazione “L’alimentazione nel mondo antico” Museo Archeologico Regionale “Lilibeo” di Marsala Il cibo nell’arte, dal Medioevo all’Età Moderna Eleonora Maria Romano L’alimentazione nel Medioevo A partire dal Medioevo il cibo, raffigurato nelle opere d’arte, inizia ad assumere una vera e propria valenza simbolica, divenendo specchio fedele di una società in continua evoluzione, i cui mutamenti non possono prescindere, per una corretta interpretazione, dal binomio cibo-arte. Una delle raffigurazioni che rappresenta la società signorile medievale è il momento del banchetto (D1). Sulla tavola imbandita diverse qualità di carni arrostite stanno ad indicare il cibo preferito dal ceto nobiliare, dai potenti che giudicano una debolezza l’astensione volontaria che equivale all’obbligo di deporre le armi e quindi ad una totale perdita d’identità. Il mondo degli aristocratici è abituato a bere vino, ad accompagnare le carni bianche e rosse, la selvaggina e gli agnelli con pane di grano, uova e formaggi; le verdure, i legumi e la frutta hanno un ruolo marginale sulle tavole dei ricchi. Il miele è consumato in abbondanza; la modalità di cottura più diffusa è la bollitura, che utilizza molte spezie ed erbe aromatiche. È dopo il Mille che la ricerca del cibo diviene più difficile: l’aumento considerevole di popolazione, la diminuzione delle aree da mettere a coltura a favore delle riserve di pascolo, di caccia e di pesca, rende la vita dura ai contadini. La carne scarseggia, diviene sempre più sinonimo di abbondanza, i pochi animali domestici sono considerati bestie da fatica. Aumenta quindi il consumo di cereali, dalla segale al grano saraceno; il termine “companatico” si diffonde in questo periodo e sta ad indicare il condimento, ciò che accompagna il pasto basato ormai quasi esclusivamente sul pane di tutte le varietà e colori: d’orzo, di segale, di castagne, che indicano l’appartenenza ad una precisa fascia sociale o ad una area geografica. I Tacuina Sanitatis (D2) Le tradizioni gastronomiche italiane affondano le loro radici nei trattati di fine Trecento che riportano numerosi ricettari. Modelli di riferimento sono il Liber de coquina, il più antico libro di cucina composto a Napoli alla fine del Duecento, e i Theatra e i Tacuina, trattati derivati da antichi erbari. Sotto il nome di Tacuina sanitatis in medicina vengono classificati tutti quei manuali di scienza medica scritti e miniati soprattutto in Italia settentrionale (con qualche eccezione in Spagna e nell'area fiorentina) dalla seconda metà del XIV secolo al 1450 circa, che descrivevano, sotto forma di brevi precetti, le proprietà mediche di ortaggi, alberi da frutta, spezie e cibi, ma anche stagioni, eventi naturali, moti dell'animo. Queste opere basavano il loro contenuto principalmente su un testo originale del medico arabo Ibn Butlan (traslitterato come Ububchasym de Baldach) attivo a Baghdad intorno alla metà dell’ XI secolo e ivi morto nel 1063; il nome, Tacuina, deriverebbe dall'arabo Taqwin al-Sihha (Tavole della salute). La traduzione in lingua latina del trattato dovette avvenire probabilmente nel XIII secolo alla corte di re Manfredi di Sicilia, e da allora in poi i Tacuina sanitatis conobbero una rapida e vasta diffusione, che consentì anche al mondo europeo dell'epoca di conoscere le norme igieniche e dietetiche della medicina razionale araba. Esistono alcuni di questi codici miniati giunti fino a noi, tra cui tre sono considerati di maggior pregio: uno è conservato a Vienna (Biblioteca Nazionale), uno a Parigi (Bibliothèque Nationale de France) e un altro a Roma (Biblioteca Casanatense) il quale prende il nome, diversamente dagli altri due, di Theatrum sanitatis. In ogni Tacuinum il testo occupa solo alcune linee a piè di ogni foglio, il cui restante spazio è per intero destinato ad una miniatura che illustra la materia particolare alla quale il precetto si riferisce. Le miniature rappresentano piante, ortaggi, frutti assieme a donne e uomini che ne indicano i metodi di coltivazione, di raccolta o di preparazione (D3-11). Sono raffigurati, inoltre, interni di botteghe nelle quali si scorgono prodotti salutari e venditori che si accingono a venderli o a prepararli. In pratica, quella che vediamo sulle pagine del Tacuinum sanitatis è la chiara trasposizione di una serena realtà medievale illustrata con ricchezza di dettagli e suggestiva descrizione della realtà (D12-26).

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Corso di formazione “L’alimentazione nel mondo antico” Museo Archeologico Regionale “Lilibeo” di Marsala

Il cibo nell’arte, dal Medioevo all’Età Moderna

Eleonora Maria Romano

L’alimentazione nel Medioevo

A partire dal Medioevo il cibo, raffigurato nelle opere d’arte, inizia ad assumere una vera e propria valenza simbolica, divenendo specchio fedele di una società in continua evoluzione, i cui mutamenti non possono prescindere, per una corretta interpretazione, dal binomio cibo-arte. Una delle raffigurazioni che rappresenta la società signorile medievale è il momento del banchetto (D1). Sulla tavola imbandita diverse qualità di carni arrostite stanno ad indicare il cibo preferito dal ceto nobiliare, dai potenti che giudicano una debolezza l’astensione volontaria che equivale all’obbligo di deporre le armi e quindi ad una totale perdita d’identità. Il mondo degli aristocratici è abituato a bere vino, ad accompagnare le carni bianche e rosse, la selvaggina e gli agnelli con pane di grano, uova e formaggi; le verdure, i legumi e la frutta hanno un ruolo marginale sulle tavole dei ricchi. Il miele è consumato in abbondanza; la modalità di cottura più diffusa è la bollitura, che utilizza molte spezie ed erbe aromatiche. È dopo il Mille che la ricerca del cibo diviene più difficile: l’aumento considerevole di popolazione, la diminuzione delle aree da mettere a coltura a favore delle riserve di pascolo, di caccia e di pesca, rende la vita dura ai contadini. La carne scarseggia, diviene sempre più sinonimo di abbondanza, i pochi animali domestici sono considerati bestie da fatica. Aumenta quindi il consumo di cereali, dalla segale al grano saraceno; il termine “companatico” si diffonde in questo periodo e sta ad indicare il condimento, ciò che accompagna il pasto basato ormai quasi esclusivamente sul pane di tutte le varietà e colori: d’orzo, di segale, di castagne, che indicano l’appartenenza ad una precisa fascia sociale o ad una area geografica.

I Tacuina Sanitatis (D2)

Le tradizioni gastronomiche italiane affondano le loro radici nei trattati di fine Trecento che riportano numerosi ricettari. Modelli di riferimento sono il Liber de coquina, il più antico libro di cucina composto a Napoli alla fine del Duecento, e i Theatra e i Tacuina, trattati derivati da antichi erbari. Sotto il nome di Tacuina sanitatis in medicina vengono classificati tutti quei manuali di scienza medica scritti e miniati soprattutto in Italia settentrionale (con qualche eccezione in Spagna e nell'area fiorentina) dalla seconda metà del XIV secolo al 1450 circa, che descrivevano, sotto forma di brevi precetti, le proprietà mediche di ortaggi, alberi da frutta, spezie e cibi, ma anche stagioni, eventi naturali, moti dell'animo. Queste opere basavano il loro contenuto principalmente su un testo originale del medico arabo Ibn Butlan (traslitterato come Ububchasym de Baldach) attivo a Baghdad intorno alla metà dell’ XI secolo e ivi morto nel 1063; il nome, Tacuina, deriverebbe dall'arabo Taqwin al-Sihha (Tavole della salute). La traduzione in lingua latina del trattato dovette avvenire probabilmente nel XIII secolo alla corte di re Manfredi di Sicilia, e da allora in poi i Tacuina sanitatis conobbero una rapida e vasta diffusione, che consentì anche al mondo europeo dell'epoca di conoscere le norme igieniche e dietetiche della medicina razionale araba. Esistono alcuni di questi codici miniati giunti fino a noi, tra cui tre sono considerati di maggior pregio: uno è conservato a Vienna (Biblioteca Nazionale), uno a Parigi (Bibliothèque Nationale de France) e un altro a Roma (Biblioteca Casanatense) il quale prende il nome, diversamente dagli altri due, di Theatrum sanitatis. In ogni Tacuinum il testo occupa solo alcune linee a piè di ogni foglio, il cui restante spazio è per intero destinato ad una miniatura che illustra la materia particolare alla quale il precetto si riferisce. Le miniature rappresentano piante, ortaggi, frutti assieme a donne e uomini che ne indicano i metodi di coltivazione, di raccolta o di preparazione (D3-11). Sono raffigurati, inoltre, interni di botteghe nelle quali si scorgono prodotti salutari e venditori che si accingono a venderli o a prepararli. In pratica, quella che vediamo sulle pagine del Tacuinum sanitatis è la chiara trasposizione di una serena realtà medievale illustrata con ricchezza di dettagli e suggestiva descrizione della realtà (D12-26).

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Queste raffigurazioni sono uniche nel loro genere non solo per stile e composizione, ma anche, e soprattutto, per la grande freschezza narrativa tipica del gusto dello stile gotico-internazionale.

L’alimentazione nel Rinascimento (D27)

La cucina moderna affonda le sue radici nel Quattrocento e nel Cinquecento per le novità che arrivano dal Nuovo Mondo e che cambiano e arricchiscono le tradizioni popolari. Nasce in questo periodo il gusto per la presentazione dei piatti: sulle tavole delle famiglie più ricche compaiono le minestre preparate con brodo o latte, riso e cereali, mentre le carni più pregiate sono selvaggina e pollame. In una società in cui le differenze sociali si evidenziavano in tutti i modi possibili, il cibo era il principale elemento di distinzione tra le classi superiori, che si nutrivano d’alimenti raffinati, e quelle inferiori che mangiavano prodotti più grossolani. Nel Rinascimento queste differenze erano anche fondate sulla teoria della “grande catena dell’essere” o “scala naturae” dove ogni animale o vegetale veniva considerato più nobile di quello posto sotto di lui, e meno nobile di quello superiore a lui. Per esempio, le piante meno nobili erano i bulbi sotterranei (cipolla, aglio e scalogno), di seguito venivano le piante delle quali si mangiavano le radici (rape e carote). Il gradino successivo era occupato da quelle di cui si consumavano le foglie: spinaci e cavolo; in cima stava la frutta. Fra gli animali la carne più nobile era quella dei volatili, seguiva la carne di vitello, con la pecora che era collocata subito sotto, ed il maiale insediato nello scalino più basso. Il punto più alto dell’arte della tavola e della cucina elaborata è senz’altro stato raggiunto in epoca rinascimentale, quando l’Italia vanta i cuochi più abili, rinomati e creativi d’Europa, che portano l’alta cucina italiana al massimo grado di raffinatezza e prestigio.

Simbologia del cibo nella pittura religiosa

L'atto del mangiare ha sempre avuto una funzione simbolica. Tanto che al cibo è stata spesso data una forma specifica con un valore simbolico, come le uova, le colombe pasquali o le ostie sacre. L'uovo ad esempio è il simbolo universale del rinnovamento periodico della natura, del ciclo delle rinascite, e questo simbolismo è stato cristianizzato identificando l'uovo cosmico con Cristo che nasce, muore e risorge (D28). Nella Pala di Brera o Montefeltro di Piero della Francesca (1472), viene raffigurata la Madonna col Bambino al centro di una nicchia dalla cui semicupola pende un uovo di struzzo, complesso richiamo al dogma della verginità di Maria, che doveva essere noto agli umanisti del XV secolo. In numerose chiese dell'Oriente cristiano-ortodosso viene spesso appeso nel catino absidale un uovo proprio come segno di vita, di nascita e rinascita. Proprio questa valenza rimanderebbe alla nascita del figlio del duca di Montefeltro, tanto più che lo struzzo era uno dei simboli della casata del committente. Inoltre l'uovo, illuminato da una luce uniforme, esprime l'idea di uno spazio centralizzato, armonico e geometricamente equilibrato: "centro e fulcro dell'Universo". Anche l'ostia rappresenta simbolicamente la "carne"di Cristo, unendo sia la forma circolare dell'uovo che la materia del pane, presente nel rituale dell' ultima cena. Lo stesso pane ha un valore simbolico che spicca in tutte le rappresentazioni dell'Ultima cena e nelle Cene in Emmaus: è il corpo di Cristo, è il cibo più raffigurato in tutti i pranzi sacri e nella maggior parte dei pranzi laici. Insieme al pane è il vino che costituisce la sostanza eucaristica, è il sangue del Cristo che è contenuto nelle brocche e nei bicchieri dell' ultima cena. Anche l'uva nell'arte sacra conserva lo stesso significato e rinvia al sangue di Cristo. Nell'arte profana invece il vino e la vite sono allegorie del dio Bacco, signore dell'ebbrezza e dell'eccesso. La mela era già un simbolo importante nella mitologia greca, era un attributo di Venere e delle tre grazie. Quando è in mano ad Adamo e Eva è il frutto proibito del paradiso e un simbolo della caduta dell'uomo; in mano a Gesù Bambino la mela diventa invece simbolo della sua missione di redenzione. Il pesce è un antico simbolo del battesimo; in seguito rappresentò anche Cristo, infatti le lettere della parola greca ICTUS venivano lette come iniziali delle parole greche corrispondenti "Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore". Anche l'acqua rimanda al significato rituale della fonte battesimale; in senso biblico indica Dio come sorgente di vita. Infine nel senso cristiano esso simbolizza lo Spirito Santo.

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L'ultima cena Uno dei temi più ricorrenti nell'arte d'ispirazione religiosa è quello del Cenacolo, l'Ultima cena consumata da Gesù con i suoi discepoli, al termine della quale Giuda tradì il Messia. Quasi tutti i pittori più celebri hanno affrontato questo soggetto che unisce l'alimentazione ai concetti del tradimento, della morte e della fede nella resurrezione. Il più noto è certamente l’affresco di Leonardo dell’Ultima Cena (D29) a cui l’autore lavorò per due anni e nove mesi (1494) con centinaia di schizzi preparatori, dedicati non ai commensali, ma alle vivande che dovevano comparire sulla lunga tavola. Ogni giorno Leonardo si faceva preparare dai monaci di Santa Maria delle Grazie diverse pietanze, e si faceva mescere altrettanti vini, che poi disegnava, e che al termine ordinava ai suoi aiutanti e allievi di consumare. Alla fine, dopo innumerevoli prove, ma soprattutto dopo vari reclami del priore, Leonardo, messo alle strette, si risolse a dipingere unicamente pagnotte, purè di rape (le patate non erano ancora diffuse in Italia) e anguilla a fettine (D30): e fu proprio la semplicità e la frugalità di queste vivande uno dei segreti della bellezza e della grandiosità dell’Ultima Cena. L'episodio dell'Ultima Cena conobbe una notevole fortuna a Firenze, poiché il tema si presentava estremamente congeniale ai refettori dei numerosi complessi conventuali presenti in città, offrendo ai monaci ed alle monache riuniti intorno alla tavola per i collettivi pasti giornalieri l'occasione per meditare su uno degli episodi più importanti della vita di Cristo, associando il nutrimento del corpo a quello dell'anima. Nel refettorio che una volta faceva parte del complesso conventuale d'Ognissanti (D31), Domenico Ghirlandaio affrescò, nel 1480, una grande Ultima Cena, coniugando al sereno e pacato impianto prospettico rinascimentale il gusto per il dettaglio tipico del suo stile. Sopra la tavola, apparecchiata con una splendida tovaglia "alla perugina" in lino bianco, fanno bella mostra di sé bicchieri e bottiglie in finissimo vetro trasparente, lunghi coltelli con lame affilate e manici di legno, piatti con resti di cibo: straordinari brani di natura morta attraverso la cui simbologia vengono annunciate la Morte e la Resurrezione del Messia (D32). Oltre al pane e al vino, corpo e sangue di Cristo, troviamo le albicocche, simbolo del peccato, la lattuga, simbolo di penitenze, le ciliegie, il cui colore rosso evoca la Passione e le arance, allusive al Paradiso. Nell’area che si estende fra le Alpi e la pianura del Piave, è possibile disegnare un interessante percorso in cui è presente il medesimo soggetto iconografico dell’Ultima Cena con gamberi, soggetto raro e circoscritto a quella regione, realizzato ad affresco tra il XIV e XVI secolo (D33). L’astacus fluvialis, il gambero di fiume, era considerato un cibo umile adatto a sfamare le povere genti e fu assunto quale vittorioso emblema del sacrificio, della passione e della resurrezione di Cristo a causa della struttura cruciforme delle chele, del colore e del suo mutamento primaverile attraverso cui il suo piccolo essere si rigenera: per queste sue caratteristiche la sua immagine è entrata a pieno titolo nel repertorio dei simboli utilizzati nell’iconografia cristiana. Negli affreschi del 1446 della Chiesa di San Polo di Piave (D34) raffiguranti scene della storia di San Giorgio e in quelli della Chiesa dedicata ai santi Vittore e Corona a Feltre, nelle Ultime Cene con gamberi, accanto ai gamberi rossi e ai tranci di pesce, compaiono: i fichi, in quanto fiore-frutto dell’albero della conoscenza e simbolo del sapere religioso, prefigurazione simbolica del tradimento di Giuda; le castagne, simbolo di previdenza in quanto servono da nutrimento per tutto l’inverno e rafforzano il concetto di fondo dell’Ultima Cena che doveva essere un messaggio di condivisione della povertà.

La raffigurazione del cibo nell’arte dalla fine del Cinquecento alla prima metà del Seicento

Sul finire del Cinquecento, tramite la rappresentazione del cibo nei quadri viene fornita una visione sociologica del periodo: si dà importanza al cibo dei poveri o alla contrapposizione del cibo consumato da poveri e ricchi. Ad esempio, in due incisioni su rame perfettamente inverse e corrispondenti di Pieter Bruegel il Vecchio, pittore olandese del XVI secolo, Cucina grassa e Cucina magra (1563) l’alimento diventa metafora sociale e cucinare significa sottomettere la natura per ridurla in cultura, intesa come il piatto finito (D35-36); il linguaggio pittorico di Bruegel è carico di valenze retoriche radicate in un sapere contadino aggrappato alle miserie della quotidianità, che trova nella ritualità del consumo del cibo un luogo di riferimento, un modello di comportamento, un codice del pensiero, una sigla sociale. È ciò che accade nel Banchetto nuziale (1568), in cui tramite il modello alimentare, le modalità della festa e del consumo dei cibi e la loro stessa qualità, sono individuabili, come attraverso una lente di ingrandimento, altri modelli di natura sociologica, economica, estetica e religiosa (D37). Il motivo del Banchetto nuziale è organizzato spazialmente in modo da incentrare l’attenzione dell’osservatore sull’abbondanza del vino di mele a sinistra

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e delle tarte che, appena cucinate e portate al tavolo nuziale, già vengono voracemente consumate; questi due elementi in primo piano e le modalità cerimoniali del loro utilizzo, inducono a credere che l’abbondanza del cibo sia di buon auspicio alla felicità coniugale. Bruegel si è espresso in termini critici nei confronti di un’umanità superficiale, meschina e piccola di spirito, ingorda e piena di difetti, che sceglie di gratificarsi soprattutto col godimento materiale e col cibo. Nel Paese della Cuccagna (1567) Bruegel insiste sull’aspetto insidioso dell’abbondanza, disseminando qua e là uomini ebbri e con la pancia piena ma vuoti di sentimento, per ricordare che l’abbondanza “ottunde la mente e sfibra il cuore, se addirittura un prete frastornato dal troppo cibo ha perduto il breviario e forse anche la fede” (D38). Alla fine del ‘500 nel Mangiatore di fagioli (1583-84) Annibale Carracci si ispira alle tematiche fiamminghe di “natura morta con figure”, filtrate nella cultura figurativa manierista, che porta a utilizzare la figura umana come cosa tra le cose, con lucido e analitico realismo (D39). L’abbondante ciotola di fagioli, il piatto con diverse fette di schiacciata di legumi, i cipollotti e il pane costituiscono le ordinarie pietanze del pasto contadino e sono per questo un importante documento sociale alle soglie del genere di natura morta con trasformazione in soggetto di verismo popolare. Lo confermano certe opere della fine del ‘500 del cremonese Vincenzo Campi, come la Fruttivendola, la Pescivendola, la Pollivendola (D40-42) ispirate al gusto fiammingo coevo, traboccanti esposizioni di vivande di ogni genere in cui i soggetti umani sono pretesti per esibire l’incredibile opulenza di frutti, pesci, cacciagione. Nei Mangiatori di ricotta Vincenzo Campi (D43) esprime tutta la naturalità istintiva di tre paesani rozzi, fannulloni e una popolana, generosa di forme, metafora dell’incontrollabile bramosia dei sensi e oggetto stesso della tentazione erotica commista a quella di gola. Il dipinto non fa che confermare che nell’erotismo sessualità e alimentazione sono inscindibili: essi costituiscono la spinta irrinunciabile per la sopravvivenza attraverso il godimento e nutrimento. L’immagine dell’individuo che mangia o sta preparando il cibo, raggiunge con Diego Velàzquez valenze fortemente narrative in particolare con la scena della Vecchia cuciniera (D44). L’anziana popolana sta cuocendo le uova nel tegame di terracotta: il suo è un gesto abituale e insieme rituale, che si compie nella trasformazione di valore di un cibo semplice e povero in cibo prezioso, caricandosi di connotazioni sociali e di intensità religiosa. Solo in questi anni gli alimenti raffigurati non saranno concepiti come “comparse” ma diventeranno protagonisti dell’arte, “vere e proprie nature morte con esseri viventi” come nel celebre quadro di Jan Vermeer La lattaia del 1658 (D45) in cui una domestica sta versando del latte da una brocca ad una ciotola di terracotta, che, insieme al pane collocato sul tavolo, simboleggiano indubbiamente il valore sacro del lavoro in riferimento ai valori puri e genuini degli alimenti primari.

Giuseppe Arcimboldo Uno dei pittori cinquecenteschi più noti e particolari della storia dell’arte è certamente il milanese Giuseppe Arcimboldo, meglio noto come l'Arcimboldi. Esponente del Manierismo, si dedicò con bizzaria e creatività all’elaborazione di ritratti e busti – le cosiddette Teste composte - realizzati combinando tra loro vegetali e animali, elementi che riteneva di volta in volta metaforicamente collegati al soggetto rappresentato (D46- 49). Nei noti ritratti allegorici-celebrativi degli imperatori asburgici sotto le sembianze di Elementi o Stagioni (1569), o nello scherzo reversibile dell’Ortolano, ma soprattutto nel capolavoro raffigurante Rodolfo II nelle vesti del dio Vertumno (D50) – dio della vegetazione e dei cambiamenti - essere commisto tra l’umano e il vegetale, Arcimboldo assume la primizia di natura quale protagonista di quella contaminazione che, attraverso la magnificenza e la perfetta armonia del mondo vegetale, rende percepibile attraverso i cinque sensi l’essere umano prescelto, il dio in cui immedesimarsi, l’imperatore da assaporare esteticamente come un dio.

Naturalia Nel XVI secolo si assiste ad un rinnovato interesse per le rappresentazioni delle cose, probabilmente sotto la spinta di un nuovo approccio empirico allo studio della natura, che i naturalisti Aldovrandi e Gessner alimentarono con una produzione di tavole scientifiche. Un ruolo importante nella diffusione dei naturalia in tutta Europa lo avrà Giovanni da Udine, attivo nella bottega di Raffaello, e specializzato nella pittura di

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grottesche e festoni vegetali, come quelli della Loggia della Psiche di Villa Chigi alla Lungara, oggi sede dell’Accademia dei Lincei, a Roma con fiori e frutti sicuramente studiati dal vero (D51-54). A questo genere sembrano riferirsi i festoni vegetali che decorano gli affreschi della volta di una delle sale del Museo d’Arte Sacra di Salemi, ex Collegio dei gesuiti, in cui sono raffigurati al centro Gesù e Maria in trionfo tra Santi (fondatori degli ordini monastici) con decorazioni sulle architetture di contorno a grottesche e festoni vegetali, in cui figurano quelle che potevano essere le specie vegetali usate nella cucina di quel tempo: zucche, zucchine, melenzane, pomodori, aglio, e vari frutti tra cui melagrane e pere (D55-63). L’autore viene ricordato come un certo Pier Francesco Ferrasiti, nome riportato dagli storici locali ma probabilmente non correttamente, in quanto tra i pittori del XVII secolo non è citato alcun Ferrasiti, bensì probabilmente Pier Francesco Ferranti, che nacque a Bologna nel 1613, ed operò fino al 1653 in Emilia Romagna, data in cui cessano i cenni biografici sulla sua vita. Ma una notizia riportata dal Susinno nelle “Vite dei pittori messinesi [1724]” ricorda l’attività di un Pier Francesco Ferranti, bolognese, allievo del Reni, autore di opere non rintracciate a Palermo e Messina (e, alla luce di quanto sopra affermato, anche a Salemi) prima della sua morte che avvenne a Messina nel 1676.

L’alimentazione nel Seicento

Il Seicento fu un secolo di crisi per la gastronomia italiana e risultò un secolo di passaggio dal dominio della cucina rinascimentale italiana alla grande cucina francese. Il Medioevo ricco di selvaggina e spezie è ormai lontano, ora si privilegiano il maiale e il manzo, assieme alle erbe aromatiche , alle salse leggere, alle insalate e ai legumi. Nel Nord Europa si usa il grasso di maiale, nei paesi mediterranei l’olio di oliva, i nobili preferiscono il burro. Ma soprattutto si diffondono i prodotti giunti dal nuovo mondo come il cacao e il caffè da un lato e il mais dall’altro mentre tardano ancora ad entrare nell’uso comune il pomodoro e la patata. Il Seicento è anche il secolo del barocco, il trionfo della forma, il culto delle “buone maniere”. Da un lato c’è la società aristocratica laddove si afferma che si deve mangiare secondo “la qualità della persona” per cui al nobile si addicono cibi elaborati e raffinati, mentre dall’altro stanno “i villani” al cui stomaco rustico può andare bene cibo comune e rozzo. Infatti la dieta del contadino era costituita da zuppa, farinate e polenta, con un forte consumo di bevande alcoliche. Nel Seicento si diffonde nel Nord Europa lo Stilleven (olandese) Still-Leben (tedesco) o Still-Life che significa letteralmente “vita ferma” o natura immobile, silenziosa, che in Italia prenderà il nome di natura morta dal francese nature morte intorno alla metà del XVIII secolo. Principali fautori sono i pittori fiamminghi olandesi e in Italia il celebre Caravaggio con la sua altrettanto nota opera Canestra di frutta (1596), in cui frutta e verdura vengono rappresentati nei loro minimi particolari, nella loro naturalezza, nella loro imperfezione, stando ad indicare la bellezza corrosa dal tempo, la precarietà della vita terrena e il ciclo della natura (D64). Nella Cena in Emmaus, invece, l’oggetto diviene il mezzo di definizione dello spazio: è il ruolo del cesto di frutta che doveva fare percepire la distanza tra l’osservatore e il tavolo in cui siede Cristo (D65). Pieter Aertsen (1552) raffigura la stessa scena sacra in piccolo in alto a destra sullo sfondo, mentre in primo piano emergono generi alimentari, protagonisti della scena: il tema religioso, soggetto dell’opera a cui è dedicato esclusivamente il secondo piano, si dispone a diventare pretesto all’immensa esposizione di viveri generosamente descritti in primo piano che prorompono verso l’osservatore (D66). Gli antecedenti del genere figurativo di natura morta risalgono ai particolari d’arredo degli interni raffigurati in pittura, agli allestimenti delle sacre mense medioevali, ai soggetti dipinti con acuta ricerca del realismo nei particolari nel Quattrocento fiammingo con la generazione dei Van Eyck, Van der Weyden, Hans Memling; ma ancora prima, si ritrovano le origini del tema negli inganni ottici adottati dagli artisti romani. È noto come l’arte antica abbia conosciuto un genere pittorico assimilabile alla natura morta moderna, tramandatoci dalle pitture parietali di Pompei e dell’area vesuviana: raffigurazioni chiamate xenia (stesso termine che indicava i “doni ospitali” che gli ospiti trovavano nelle loro stanze come dono da parte del padrone di casa) che nascono in epoca ellenistica, quando l’interesse si sposta dall’uomo ideale all’uomo immerso nella realtà, i cui centri di diffusione sembrano essere stati Pergamo e Alessandria d’Egitto; da qui provengono circa 300 copie da originali di pittura su tavola (che compaiono nelle pitture

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parietali del cosiddetto II stile pompeiano, I secolo a.C.) concepite come veri e propri quadri appesi tra le architetture in prospettiva tipiche di questo stile (Villa di Poppea, Torre Annunziata - Domus di Giulia Felice, Pompei) (D67-70). Il Seicento è il secolo d’oro della natura morta a causa della forte richiesta di questo genere di quadri, favorita da particolari fattori socio-culturali che ampliando il pubblico di potenziali fruitori e acquirenti, comporta un processo di specializzazione, con l’individuazione di “sottogeneri” legati al contenuto predominante dei quadri e con denominazioni specifiche. Gli artisti si specializzano nella realizzazione di nature morte che hanno per tema il cibo (angolo di cucina, colazione, tavola imbandita) fiori, strumenti musicali. In base alla quantità e alla disposizione del cibo si fa distinzione tra: - angolo di cucina: indica l’accumulo di cibi e utensili sopra e sotto tavoli e mense esempio di abbondanza

ma anche di transitorietà (Jacopo Chimenti detto l’Empoli - Juan Sanchez Cotàn) (D71, 72) - colazione (Ontbijtjes): su una porzione di tavolo sono collocati, con una disposizione apparentemente

casuale e in quantità limitata, cibi e suppellettili; prevale un punto di vista ravvicinato, che accompagna una descrizione analitica, con effetti di vero trompe-l’oeil ( Georg Flegel, Pieter Claesz) (D73)

- tavola imbandita (Banketjes): ha caratteri di esuberanza e sfarzo, e si propone come una vera e propria ‘messa in scena’ di oggetti tra i più svariati, esaltati da un attento studio della luce (Jan Davidszoon de Heem, Willelm Claeszoon Heda) (D74)

Tra varie tipologie di natura morta, le tavole imbandite con sucreries rivestono un ruolo particolarmente significativo per l’importanza espressiva, culturale, simbolica ed estetica che esse contengono. Considerato come una prestigiosa conclusione dei pranzi aristocratici, il cibo zuccherino fa la sua apparizione nelle nature morte verso il 1600, quando lo zucchero assume, con l’importazione di canne da zucchero provenienti dalle Canarie e dal Brasile, un valore più prezioso del miele nella preparazione dei dolci. Georg Flegel (1566-1638) nella Natura morta con pane e sucreries (D75), fu il primo pittore tedesco a dedicarsi al genere della natura morta. Egli elabora, con un linguaggio di grande fantasia descrittiva e finezza cromatica, una composizione di dolci minuziosamente dipinti nel loro involucro candito zuccherino; tra gli altri canditi si riconosce una O intera e una A spezzata i cui frammenti sono accostati a una forma compatta di pane (Alpha e Omega, in quanto prima e ultima delle lettere dell’alfabeto greco, rinviano a Cristo in quanto inizio e fine). Il rapporto con Dio è ancora sottolineato dalla croce formata dalla barra glassata e dal pane che, assieme al vino nel calice, evocano l’Eucarestia; ancora, il cuore a destra, forse un pane di pasta d’ostia, è un allegoria del cuore di Cristo che nella versione di un dolce delicato ne richiama le beatitudini rassicuranti. Altri frutti canditi sono disposti nella coppa di porcellana , su cui si è posata una farfalla che, da sempre ritenuta il simbolo dello spirito o della resurrezione sviluppandosi essa da un bozzolo apparentemente senza vita, in questo contesto rappresenta l’opera di salvezza di Cristo. Inoltre, la presenza simbolica dell’ape smisuratamente grande, posata sul pane in primo piano, allude alla dolcezza del miele, emblema del nutrimento spirituale, della cultura religiosa e della conoscenza mistica. La natura morta di Flegel deve essere compresa nell’ottica della positiva considerazione che il nuovo bene di lusso, lo zucchero, godeva in quel tempo, all’alba del grande secolo d’Oro. Le sucreries e gli oggetti preziosi che ornano in questo periodo le nature morte, sono l’espressione di un atteggiamento di sublimazione estetica, in parte anche influenzata dall’ascetismo del mondo protestante. Segue questa impronta stilistica la Natura morta di Clara Peeters (1597) di cultura pittorica olandese, in cui nulla è lasciato al caso e il cibo e gli oggetti preziosi esposti con un ordine severo appartengono a una ritualità attraverso cui si trasformano in nutrimento per gli occhi e per la mente (D76). Nelle opere di Osias Beert (1580-1624) capofila dei maestri di natura morta olandese, compaiono i dolci accanto ai cibi salati: ne è esempio la Natura morta con ostriche e pasticceria (D77) , in cui sono raffigurate le prelibatezze di un sobrio, raffinatissimo pasto: un piatto di ostriche e un altro con fichi, un’elegante alzata d’argento cesellata con sucreries, una conchetta di olive e un coccio di castagne, in primo piano alcuni limoni e qualche pezzetto sbriciolato di dolcetti. Se nel panorama della pittura fiamminga del ‘600 le ostriche rivestivano un ruolo simbolico afrodisiaco, in questa natura morta si può ritenere che il pittore si sia ispirato sia alla tradizione classica, in cui erano allusione di sessualità femminile e di vita, sia a quella cristiana, in cui sono simbolo dell’umiltà vera, fonte di ogni perfezione spirituale, di santità e saggezza e di ricchezza interiore.

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Il cibo nell’arte, dal Medioevo all’Età Moderna Eleonora Maria Romano

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Nella Natura morta con frutti di terra e frutti di mare (D78) del 1659 Corneliis de Heem dipinge tutta la composizione negli accostamenti cromatici delle gamme del rosso e del giallo, che evocano i sapori agro-dolci. Così due aragoste rosso vivo di sapore dolciastro, sono accostate alle pesche di colore giallo e di sapore dolce, quindi un grappolo d’uva rossastro dolce-acidulo e, opposto all’astice, il limone di un bel giallo vivo (acido), in un equilibrio cromatico estremamente calibrato. Sul piano simbolico, l’astice richiama alla passione e alla sofferenza del corpo e dell’anima, le pesche alla sfera del mondo femminile, gamberetti e ostriche, quali risonanze dei primi due elementi, testimoniano lo spirito e la sessualità, i grappoli d’uva sono un rinforzo alla vocazione cristiana, mentre il limone con la scorza srotolata riconduce al tempo che lentamente porta verso la fine ed è foriero di salvezza (il limone era ritenuto un frutto del Paradiso perduto).

L’alimentazione nel Settecento

Alla fine del Seicento la scuola gastronomica della nobiltà italiana perde il suo ruolo di supremazia: i cuochi francesi da questo momento in poi dettano le regole della nuova moda. Inizia il “secolo dei lumi” e la ragione detta la nuova “scienza del mangiar bene”: non c’è più spazio per la selvaggina e la cacciagione , si preferiscono tartufi e ostriche, si abbandonano per sempre le spezie dai sapori forti e pungenti per gustare salse delicate. Nel secolo precedente esistevano due cucine, una riservata alla classe aristocratica, l’altra ai contadini: ora emerge una terza cucina, quella della borghesia emergente. I vascelli spagnoli, inglesi e francesi portano in Europa il cacao, il caffè, il the, trionfa il cioccolato, assieme allo zucchero di canna, che arriva dall’America. La parte settentrionale del vecchio continente inizia in questo secolo a manifestare delle abitudini alimentari diverse, dettate sia da ragioni climatiche che da un incremento demografico più contenuto. Il consumo di cereali è più limitato tra le popolazioni del Nord, a favore di un maggior consumo di carne. L’Europa meridionale predilige i grassi vegetali, al Nord si usano grassi animali, strutto e burro. Nord e Sud sono accomunati dalla passione per le bevande alcoliche: vino, birra e sidro. Nel XVIII secolo si registra il risultato di una crescita di ricercatezza dei codici aristocratici relativi allo stile alimentare e al godimento gustativo. Il pasto a base di ostriche condite al pepe insieme a coppe di champagne, assume qualità simboliche afrodisiache riconosciute al mollusco e rinforzate dall’ebbrezza del vino. Ne è testimonianza il celebre Déjeuner d’huitres, di Jean-Francois De Troy del 1735, in cui un elegante banchetto di soli uomini celebra l’avido consumo dell’erotizzante vivanda, disperdendone ovunque a terra i gusci (D79). Un’attenzione particolare va rivolta alle opere sul tema del “cibo disposto” realizzate, già in pieno ‘700, da Giacomo Ceruti, conosciuto come il Pitocchetto (1698-1777) per aver dipinto il mondo degli umili, degli straccioni e della povera gente, cioè dei pitocchi. La sua Natura morta con pane, salame e noci testimonia la vanità del piacere e la ricerca dell’essenza come filosofia dello spirito, in un contesto intellettuale che nella seconda metà del ‘700 avrebbe poi fatto maturare la punta avanzata dell’Illuminismo italiano (D80). Ceruti, nella sua ricerca pittorica, conquista la realtà mediante la sua attenta rappresentazione, quasi che conoscere e perlustrare il vero dipendessero dal dipingerlo. Il dipinto mostra gli alimenti di un pasto frugale, con noci accostate a pane e salame e una brocca di vino rosso. Se il cibo è parsimonioso, l’impressione di una “nobile semplicità” è conferita dal lucente piatto in peltro, dal bicchiere, dal coltello in ferro e osso, dalla brocchetta in ceramica rustica e soprattutto dal piacere percettivo che risiede nella celebrazione dei cibi modesti.. Come in generale la frutta secca, le noci si qualificano come cibo austero e discreto insieme ai fichi e alle castagne, che la tradizione povera annovera tra i frutti della Provvidenza poiché assicurano il nutrimento per tutto l’inverno.

L’alimentazione nell’Ottocento

Gli alimenti del nuovo mondo furono, il principale fattore della rivoluzione alimentare che ebbe origine nel Seicento, decollò nel Settecento ed esplose nell’Ottocento. Il miglioramento delle colture agricole che si sviluppò in questo periodo creò una maggiore disponibilità di prodotti grazie anche all’ampliarsi dei mercati e dei trasporti. Siamo nell’ epoca coloniale, la quale portò all’introduzione e al consumo di nuovi alimenti come il mango, la soia, l’ananas, le arachidi. Mentre per

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cacao, caffè e the, conosciuti durante il Settecento, ci fu un vero boom di consumi tanto che nacquero numerosi esercizi specializzati nella vendita e nella distribuzione di questi prodotti. Due piante rivestirono una notevole importanza alimentare: la patata e la barbabietola da zucchero. Pierre Auguste Renoir nel 1880 dipinge Le déjeuner des canotiers, un supremo inno alla sensualità del colore in cui, prima di tutto, colpisce l’intimità rubata dal pittore ai protagonisti che, per la loro superba naturalezza, non sembrano quasi accorgersi della sua presenza (D81). In questi anni la Monarchia è scomparsa in molti stati d’Europa che hanno trovato inoltre la loro unità geografica ed il popolo è sempre più libero e, relativamente, benestante dal punto di vista alimentare. Cibi che fino ad ora avevano graziato solo i palati dei nobili ora imbandiscono anche le tavole di intellettuali, poeti, artisti, musicisti. Stupisce la licenza poetica di Renoir di accostare ad una scena estiva colta en plein air cibi tipicamente autunnali come l’uva; non stupisce tuttavia l’opulenza della natura morta e dei protagonisti che Renoir rappresenta in questo grande quadro, dove l’estrema naturalezza è dovuta anche ai volti del gruppo: amici, la futura moglie, il finanziatore del gruppo ed i proprietari del locale, La Fournaise a Chatou, un delizioso ristorante in un villaggio della Senna rotta allora di impressionisti e, naturalmente, di canottieri. Vincent Van Gogh si propone, al contrario, di rappresentare gli umili della società. L’artista con la sua arte vuole ridare dignità a tutti gli esseri viventi indipendentemente dalla loro classe sociale. Nel celebre quadro I Mangiatori di patate (D82) la patata, ortaggio alquanto comune e base dell’alimentazione contadina, rappresenta la ricompensa per il duro lavoro svolto. Si tratta del dipinto più importante del periodo olandese di Van Gogh, realizzato nel 1885, prima del suo trasferimento a Parigi. Questo dipinto mostra, all'interno di una povera stanza, alcuni contadini che consumano il pasto serale servendosi da un unico piatto di patate, mentre una di loro sta versando il caffé. Van Gogh è molto legato a questo soggetto in quanto si sente come "uno di loro", anche i contadini come lui soffrono ed egli trova ingiusto il fatto che nonostante tutti i loro sforzi ed i loro sacrifici debbano vivere in modo così misero; viene sottolineata la continua fatica fisica di chi ha consumato, giorno dopo giorno, la propria vita nel lavoro dei campi: per questo motivo l'artista è come se volesse esaltare il cibo dei poveri.

Il cibo nelle espressioni artistiche del XX secolo

A partire dal XX secolo, il cibo diviene simbolo edonistico e trova nel terreno fertile del Surrealismo la sua massima espressione artistica con Salvador Dalì, nella cui opera il piacere della pittura coincide spesso con la soddisfazione gustativa: il cibo, nella vita e nell’arte di Dalì, è suggestione di forma e di colore, e viene rappresentato secondo una formula visiva in cui non è solo alimento ma soprattutto colore e profumo, sapore e forma, seduzione. Nel Pranzo di Gala, litografia del 1971 (Les Diners de Gala, libro di cucina surrealista scritto dall’artista con 136 ricette dell’amata moglie Gala), tutto ciò è rappresentato con piatti bene allineati a forma di elefante, colmi di cibi variopinti, l’arte diventa veicolo di apprendimento per farci apprezzare il cibo prima con gli occhi e poi con il palato (D83). Nella seconda metà del XX secolo, dopo un periodo di guerre e tensioni politico-sociali, in cui sembrava non ci fosse spazio da dedicare all’arte, riappare il cibo come forma d’espressione artistica negli anni ’60. É il periodo della Pop Art con la sua icona Andy Warhol (D84). La pop art si pone come obiettivo l’elogio della banalità che può avere il cibo. In questo periodo esso diventa simbolo del consumismo, rappresentato in veste industriale e non naturalistica. Le immagini dei prodotti di consumo non sono simbolo di niente e raffigurano solo oggetti che esprimono se stessi. Non contengono un messaggio nascosto, ma servono solo ad informarci su ciò che è la realtà odierna, nella quale il cibo è semplicemente un bene di consumo. Nuova ed originale è stata l’idea di un simpatico fotografo inglese contemporaneo, Carl Warner creatore di Foodscapes (Paesaggi gastronomici) che utilizza una serie di alimenti manipolati naturalmente, presi a crudo e abbinati secondo un adeguato livello gustativo (D85, 86). Tramite la sua espressione artistica Warner si propone non solo di rivoluzionare il “modo di fare arte”, ma anche l’obiettivo di promuovere una dieta più sana ed equilibrata. Montagne, foreste, cascate e paesaggi marini vengono rappresentati nei sui lavori con pane, frutta, verdura, formaggi, salumi affettati e tante altre prelibatezze che diventano l’elemento centrale dell’opera a differenza che in passato.

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Il cibo nell’arte, dal Medioevo all’Età Moderna Eleonora Maria Romano

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Bibliografia essenziale

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- Bortolotti L., La natura morta. Storia, artisti, opere, Firenze 2003.

- De Caro S., La natura morta nella pittura e nei mosaici delle città vesuviane, Milano 2003.

- Gregori M. (a cura di), La natura morta italiana, da Caravaggio al Settecento, catalogo della mostra, Firenze Palazzo Strozzi giugno-ottobre 2003.

- Grimm C., Natura morta. I maestri olandesi, fiamminghi e tedeschi, Ist. Geogr. De Agostini 1992.

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Il cibo nell’arte

dal medioevo all’età moderna

Eleonora Romano

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La mensa medievale

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D 2

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Raccolta delle melagrane

D 3

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Storia delle carote

D 4

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Raccolta dell’aglio

D 5

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Il porro

D 6

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Raccolta della salvia

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Raccolta del basilico

D 8

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Raccolta delle angurie

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Raccolta delle zucche

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Il miele

D 11

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Carni ovine, Tacuina Sanitatis in medicina, XIV-XVI sec.

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Carni bovine

D 13

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Carni suine

D 14

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Arrosto

D 15

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Uova

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Pasta

D 17

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Pane

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La ricotta

D 19

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Storia del formaggio

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Vendita del formaggio

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La caccia

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Caccia alle tortore

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La pesca

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Mercato del pesce

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Astacus fluvialis, gambero di fiume

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Banchetto rinascimentale

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Pala di Brera, Piero della Francesca, 1472

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Leonardo, Cenacolo, Santa Maria delle Grazie, Milano, 1494

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particolare

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Ultima Cena, Domenico Ghirlandaio, Convento d’Ognissanti, Firenze, 1480

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particolare

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Ultima Cena, Chiesa di San Polo di Piave, 1446

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particolare

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La cucina magra, Pieter Bruegel il Vecchio, 1563

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La cucina grassa, Pieter Bruegel il Vecchio, 1563

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Banchetto nuziale, Bruegel, 1568

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Il Paese della Cuccagna, Bruegel, 1567

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Annibale Carracci, il Mangiatore di fagioli,1583-84

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Vincenzo Campi, La venditrice di frutta, 1590

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La pollivendola

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La pescivendola

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I Mangiatori di ricotta

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Diego Velàzquez, Vecchia Cuciniera, 1618

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Jan Vermeer, La lattaia, 1658

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Giuseppe Arcimboldo, Primavera, 1569 D 46

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Estate

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Autunno

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Inverno D 49

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Vertumno, 1590

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Raffaello, Loggia di Psiche, Villa Chigi alla Lungara , Roma, 1517-18

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Amore sulla chimera, loggia di Psiche, Villa Loggia di particolare dei festoni vegetali, Villa Chigi Giovanni da Udine, bottega di Raffaello, 1517-18

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Volta affrescata, 1667, Pier Francesco Ferrasiti? (Ferranti, bolognese) Museo Arte Sacra, Salemi

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Particolare della volta

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Caravaggio, Canestra di frutta, 1596

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Caravaggio, Cena in Emmaus, 1601

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Cena in Emmaus, Pieter Aertsen, 1553-55

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Canestra di fichi, Villa di Poppea, Torre Annunziata

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Natura morta, Domus di Giulia Felice, Pompei

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Pesche, Domus dei Cervi, Ercolano

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Fruttiera, Villa di Fannio Synistor, Boscoreale

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Dispensa, Jacopo Chimenti detto l’Empoli, (1630 c.a.)

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Verza e melone, Juan Sanchez Cotàn, 1602

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Natura morta con calice, Pieter Claesz, 1661

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Natura morta con torta di lamponi, Willelm Claesz-Heda 1645

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Natura morta con pane e sucreries, Georg Flegel (1566-1638)

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Natura morta, Clara Peeters, 1597

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Natura morta con ostriche e pasticceria, Osias Beert , 1610

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Natura morta con frutti di terra e frutti di mare, Corneliis de Heem, 1659

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Déjeuner d’huitres, Jean-Francois De Troy, 1735

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Natura morta con pane, salame e noci, Giacomo Ceruti (detto il Pitocchetto, 1698-1777)

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Le déjeuner des canotiers, Pierre August Renoir, 1881

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I mangiatori di patate, Vincent Van Gogh, 1885

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Les Diners de Gala, Salvador Dalì, 1971

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Andy Warhol, Campels- Soup, anni ‘60

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Carl Warner, foodscapes, paesaggi gastronomici

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Carl Warner, foodscapes, paesaggi gastronomici

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