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Il Collirio #05

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Rivista Culturale Indipendente Febbraio 2015 - Inerzia

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“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”

In copertina: “Metamerda” di Simone Zuppiroli

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Editoriale

a riluttanza al cambiamento e l’istinto curioso rappresentano i due poli che cullano la nostra esistenza. La condizione attuale è ulteriormente specificata, visto che la naturale tensione dialettica tra i due concetti è esasperata dalla consapevolezza dell’irrazionalità che ci circonda. Bombardamento mediatico, Big Data, Social Network, farsi consapevolezza delle contraddittorietà non è poi così difficile. Il problema è semmai riuscire a elaborale, estrarre la sintesi, cercando di salvare un minimo di dignità, perché poi - è inutile negarlo - tutti ci sono dentro, e ognuno fa i conti solo con la propria coscienza. Dopo la noia e un po’ di nichilismo, c’è spazio per una girandola di divertissement: ma sì, meglio distrarsi, e bere dolci nettari per togliersi quel retrogusto amaro che lascia l’impotenza, adagiarsi nell’indolenza; chi può sfrena nel lusso, e anche chi non può, e lì lo spettacolo s’intristisce davvero. A un certo punto c’è chi ti presenta il conto, servendoti una verità che pulisce tutta la bocca, asciugandola dalle ipocrisie e dalle incoerenze trasformate in coerenza. L’inerzia può essere un rifugio agrodolce, o una mediocre scappatoia, quanto più anestetizzanti o luride possano essere le valutazioni, il principio scientifico postula una certezza da cui non esuliamo, in quanto corpi. L’inerzia è una nostra proprietà e l’ambiguità con cui si rivela scolpisce un’eterna verità che sdogana inquietudini escatologiche, dinnanzi alla quale soccombe ogni sforzo che già in principio, forse, era destinato al fallimento. Ma c’è qualcuno che si salva, il cui sforzo viene dall’interno, dalle intestina consumate e corrose, in peristalsi negativa a causa della nausea insopportabile che gli provoca l’assurdità del mondo. La nausea insopportabile può costringerti ad un onesto digiuno dagli alimenti inquinati o a sederti al banchetto degli ideali e saziarti, se sei fortunato. In entrambi i casi, comunque, sarai riuscito ad uscire dalla culla.

L

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Sta fredda,sulla cima più alta della nuda esistenza,la statua distratta e insolente dell’Insofferenza:pesante sulla neve che imperversa senza attese.

Nebbia perpetua l’ammanta con luce bianca,la vista stenta per il sole, livido all’occasione,e una selva di dubbi s’infittisce in verticaleper una serie di domande a risoluzione laterale.

Ritratti statici di giorni vulnerabilisi infrangono stanchi su aguzzi cocci,candidi e gelidi, ricoperti dai fiocchi:

la neve copre anche i lamenti più plausibilifinché l’Eco, rimbombando in lontananza,non riveli di quanti danni sia capaceuna valanga.

una valanga

-effetti collaterali-

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DIALOGO A DISTANZA TRA PENDULUS ED APPLY: EVOLUZIONE E INERZIA, EVOLUZIONE CONTRO INERZIA.

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Leida, nei fatti, era l’Arte. La impersonificava. Difficile dire se fosse donna o uomo, e che età realmente avesse. Ma solo a Leida poteva essere affidato un compito così impor-tante. Epifania 1642, colline fiorentine.

A volerlo proprio dire, Leida prediligeva le arti figurative. E, confessandolo un po’ sottovoce, anche Pendulus aveva questa preferenza, rispetto alle altre espressioni. Quando Leida arrivò al capezzale di Pendulus, anziano, che sere-namente si stava spegnendo, entrambi trovarono il tempo di parlare anche delle differenze tra pittura e scultura. E di come entrambi preferissero la prima. Ma, in realtà, Pendulus aveva fatto chiamare Leida per un altro motivo. Prendere un manoscritto preparato da Pendulus, e che egli non voleva finisse dimenticato o, peggio, arso, attraversare l’Europa, e portarlo in una casa di un piccolo villaggio nel centro dell’Inghilterra. E farlo entro il Natale di quello stes-so anno. Praticamente, un anno intero di viaggio. Ma, si sa: terra, montagne, ancora terra, e poi mare, e poi ancora terra. Pendulus spirò con la certezza di aver dato i suoi appunti nelle mani giuste. Toccava a Leida collegare la vita di Pendulus con quella di chi sarebbe nato il successivo Natale. E, in realtà, gli studi di Pendulus non potevano che arrivare lì dove si era deciso. Nelle mani giuste.

Leida ebbe le 4 stagioni, un anno intero di tempo e di spazio, per poter sfogliare ciò che Pendulus aveva scritto. Formule, grafici, disegni, certo. Ma anche pensieri, rifles-sioni. Quando avrebbe consegnato il testo, Leida sapeva bene che il suo destinatario sarebbe stato un neonato: non avrebbe certo potuto parlargliene. Avrebbe dovuto, in real-tà, lasciare il manoscritto in custodia a sua madre, essendo consapevole che suo padre sarebbe morto poco prima della sua nascita. Leggendo durante il lungo viaggio, Leida capì cosa c’era scritto negli ultimi studi di Pendulus. Egli era partito dal Principio d’Inerzia, che aveva sviluppato in Fisica Meccanica, e aveva provato ad estenderlo alle dina-miche umane. Una domanda-chiave affascinò molto Leida, una questione che Pendulus poneva spesso: “resistere alle variazioni, opporsi ai cambiamenti, è, nel sentire comune, un tratto negativo. Ma, in Natura, il Principio ci dice che l’Inerzia è una caratteristica distintiva dei corpi. E allora? Male, o bene? Apply, tu che studierai questo Principio dopo e meglio di me, cerca di approfondire. E ricorda: la Scienza, di per sé, non dovrebbe affascinarti. Non dovresti cadere nel tranello dell’auto-referenzialità, mio caro Apply. La Scienza dovrebbe esserti invece da strumento, per capire i comportamenti naturali ed umani. Metti la chiesa al centro del villaggio, mio erede. Metti la Natura e l’Uomo al centro dei tuoi studi.” E così, in un pomeriggio d’estate, nel bel mezzo del viaggio dalla Toscana al cuore dell’Inghilterra, l’arte conobbe anche il nome del bambino che essa stava andando a collegare al suo padre scientifico.

***

Natale 1642, un villaggio del Lincolnshire. Leida conobbe Apply…conobbe, insomma! Diciamo che lo vide in fasce. Parlò piuttosto con sua madre. Le diede il mano-scritto. Le spiegò tutto, anche se Anna era un’allevatrice…non poté cogliere i dettagli. Ma il suo istinto, per inerzia, le

suggerì di conservare quel libro, per farlo avere poi al piccolo Apply appena lui fosse stato in grado di compren-derlo. Cosa che avvenne ben presto, in realtà. Leida svanì, continuando a vagare nel cuore dell’Europa, portando i messaggi più alti e profondi che l’Uomo desiderava tra-smettere. Apply crebbe, e cambiò la Storia della Scienza, così come aveva fatto prima di lui Pendulus. Quel Principio, Apply riuscì anche ad enunciarlo in maniera più formale e rigorosa. Ovvio, Pendulus gli aveva aperto la strada, col suo manoscritto. Giusto così. Libro portatogli da Leida, Leida che lui non conobbe mai, se non sentendone innata-mente la presenza dentro di sé. Però, la questione posta da Pendulus rimase sospesa. Gli uomini tendono a cambiare. Ma hanno anche paura di farlo. Evoluzione, e inerzia. Evoluzione contro inerzia? Sono due regole entrambi naturali, pensò Apply. Cosa ha deciso, la Natura? Che siano in equilibrio, o in lotta? Preferì pensare che, se fossero state alleate, l’Uomo sarebbe cambiato così rapidamente da non riflettere sulla sua evoluzione. La Natura aveva creato l’Inerzia, il vero Principio d’Inerzia, per instillare una sottile diffidenza verso il cambiamento. Per far accettare le evoluzioni, nella mente di chi vive, non solo dell’Uomo, ma anche di tutte le altre specie animali e vegetali, secondo la giusta scala temporale. Era soltanto, si convinse Apply, una questione di tempi caratteristici. Certo, l’evoluzione, la sua spinta, avrebbe sempre prevalso. Ma tenendo conto dell’inerzia, lì a preservare lo status quo ante. Quando morì, l’equinozio di primavera di molti anni dopo, a Londra, questo fu l’esatto pensiero che accompagnò il suo ultimo respiro.

***

Antefatto. Nell’ultimo periodo della sua vita, Pendulus fu costretto al confino dalle autorità oscurantiste del suo tempo. Fu in quel periodo che ebbe tra le mani una serie di testi mai svelati, e poco dopo arsi dalle stesse autorità. Essi svelavano che la Storia dell’Uomo, così come era nota, non cominciava davvero dall’inizio. Cominciava piuttosto dalla fine dell’ultima glaciazione, poi le prime civiltà cosid-dette preistoriche, e via a seguire così come tutti sappia-mo. Ma non teneva in conto cosa fosse successo prima. Altre civiltà, molto evolute, avevano abitato il Pianeta. Civiltà dissoltesi a seguito degli sconvolgimenti climati-ci. Gli stessi che porteranno questa civiltà a scomparire, naturalmente. Leggendo questi testi, Pendulus capì che c’era stato un altro se stesso, in un’era precedente. Morto agli inizi dello stesso anno in cui, alla fine, sarebbe nato un nuovo grande scienziato, Apply. In quello stesso villaggio inglese. Pendulus si rese conto che non avrebbe mai potu-to interagire con l’Apply del suo tempo, che sarebbe nato solo dopo la sua morte. E poi, se avesse voluto mandare un messaggero in carne ed ossa, un nuovo Fidippide, avrebbe dovuto ammettere di conoscere gli avvenimenti futuri…come giustificarlo? Meglio di no, date anche tutte le umiliazioni che Pendulus aveva già patito. Invocò allora l’arte, per permettere almeno un contatto con l’Apply della civiltà precedente. Così, pensò, avrebbe contribuito allo sviluppo della conoscenza non solo per la sua civiltà, ma anche per gli antichi abitanti del Pianeta.

Il viaggio di Leida fu, in realtà, un lungo viaggio nel tempo.

IL VIAGGIO DI LEIDA.

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“ Il moto incessante della città è oramai sterile e malandato. Una massa inerte spinta dal desiderio pallido dell’uomo avido. Ogni movimento ideale, ogni progetto e imposizione, ogni griglia e geometria dovranno rapidamente scontrarsi col movimento originale. Lo stimolo vitale che muove acqua e terra, sabbia e roccia. “

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Ormai siamo veramente in tanti. Ognuno vuole il suo spazio su questa terra ,e ne consuma letteralmente un piccolo pezzo: sfruttiamo e cementiamo il suolo, inqui-niamo acque e atmosfera, spesso con le azioni più consuete, bruciamo troppo. Sosteniamo continui ed incontrollati processi ossi-dativi. La nostra attitudine al consumismo e alla ricerca della paradossale conve-nienza ci spinge all’abban-dono del bene materiale ormai obsoleto. Prendiamo ad esempio un triste e logoro rudere in campagna. Ricoperto di muschi, asse-diato dai rovi, tana per topi e chissa cosa altro. Questo rudere ci fa capire quanto siamo fortunati, nonostante

la nostra incoscienza. È sta-to costruito al centro di un querceto: alberi abbattuti, scavi, cemento ovunque. Il consumo di suolo influenza una miriade di processi: permeabilità del terreno stesso con conseguenti dissesti idrogeologici, morte assoluta di ogni forma di vita, riduzione della vegetazione, dell’ossigeno quindi. Anche il più concre-to materialista dovrebbe temere questo fenomeno: meno terra significa meno cibo. Siamo in molti, non possiamo permettercelo. Il consumo di suolo è fonte anche di squilibri sociali non poco rilevanti: si pensi alle aeree delle periferie metro-politane ad urbanizzazione forzata e mal controllata.

-the agronomist-

suolo inerte

I trasporti inefficienti e costosi, causa la distanza dal centro, e la separazione geografica stessa dal nucleo cittadino causano isolamen-to e ghettizzazione. Non da meno è la fatiscenza assunta dalle periferie mal progettate. In molti se ne sono accorti, ma l’entità che realmente ci salva da noi stessi, almeno per ora, è in verità la natura. La nostra immensa fortuna rappresentata da un rudere infestato da piante e anima-li. Questa è la concretizza-zione della resistenza della natura alla sconsiderata e opportunistica antro-pizzazione. La forza che reagisce, che si oppone al cambiamento distruttivo condotto dall’uomo del

breve periodo. Ristabilisce l’ equilibrio iniziale, il moto rettilineo uniforme troppo spesso perturbato.E cosi il cemento, come le plastiche lentamente degradate dai batteri, le polveri sottili, le diossine, e tutti gli altri scarti e prodotti della specie più egocentrica di sempre, sono flebilmente consumati, scomposti, e riutilizzati da processi natu-rali che ignoriamo. Un lento ed insostituibile ritorno all’i-nizio, ad uno stato di quiete apparente che ancora ci permette di esistere.

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“ERA UN NOSTRO PRODOTTO,UNA RIVOLUZIONE.

SIAMO IL SUO PRODOTTO.CI HA RIMODELLATO,CI DETTA LE REGOLE,

CI TRASCINA.NON CI OPPONIAMO,

COME MORTI, MORTI DENTROCI PORTA NELL’OSCURITÀ.”

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[...] Stamani mi sono distesoIn un’urna d’acquaE come una reliquiaHo riposato

[...] E qui meglioMi sono riconosciuto

Una docile fibraDell’universo

“I Fiumi - Ungaretti”

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Aprii lentamente gli occhi. Il mio corpo era steso sull’erba soffice, l’ombra della celeberrima torre pendente mi proteggeva dai raggi solari insolenti di quella giornata di primavera, che tentava in tut-ti i modi di rubare la scena all’estate imminente. Neanche il tempo di realizzare da quanto tempo e perché fossi steso privo di sensi nel bel mezzo di Piazza del Duomo, che eccolo arrivare, correndo verso di me: un uomo barbuto e piuttosto affannato. “La prego di scusarmi, messere, ero troppo preso dai miei esperimenti, non mi ero accorto che ci fosse qualcuno lungo la mia traiettoria.”“No, aspetti un attimo” dissi, alquanto frastornato “Io non so nemmeno cosa mi sia esattamente successo, ho solo un gran mal di testa.”“Ecco…” replicò lui “Ero lì, sul campanile che facevo le mie prove sulla caduta dei gravi… quando uno dei gravi… ha colpito lei, la sua testa volendo essere precisi.” Spalancai gli occhi, incredulo: “Mi faccia capire bene: lei mi sta dicendo che di tanto in tanto si piazza sulla torre di Pisa a lancia-re pietre per eseguire degli “esperimenti”, rischiando di colpire il primo malcapitato che passa? Un novello Galileo, insomma!” “Ha detto Galileo? Ma come fa lei a conoscermi? Ci siamo forse già incontrati altrove e la memoria mi sta giocando chissà quale scherzo?”“Ci risiamo!” pensai “L’ennesimo folle che incrocio sul mio cammino…” non mi restava che stare al gioco. “Ma come, signor Galilei, migliaia di libri parlano di lei: par-tendo dalle scienze, passando per la letteratura e la filoso-fia, fino ad arrivare, in un certo senso anche alla religione.”Qualcosa nelle mie parole lo incupì, mi parve evidente che avessi toccato una corda particolarmente sensibile. Forse sapevo anche quale. Cercai di riparare al danno commes-so: “Lei, il padre del metodo scientifico, insigne fisico e matematico, astronomo. Pilastro della scienza moderna! Perfezionò il cannocchiale, intuì per primo uno dei più importanti principi della fisica, l’inerzia… Potrei continuare per ore.”Non funzionavano le mie parole, la mia captatio benevo-lentiae a poco servì. Il folle Galileo, con l’aria assente di chi sta rievocando ricordi dolorosi, cominciò: “L’inerzia! Inerte fui io, che pur di conservare la mia vita rinnegai la mia scienza e le mie convinzioni. Inerte fu la chiesa, ferma e ri-gida nelle proprie convinzioni, ottusa come spesso accade, terrorizzata da un cambiamento tanto grande e scomodo che avrebbe messo in discussione troppi contenuti, troppi fondamenti essenziali per i suoi proseliti. Spesso gli uomini sono codardi, o forse conservano istintivamente la loro vita ad ogni costo, ma questo non farà mai di loro degli eroi. Io sarò tutto ciò che lei mi ha detto ma mai potrò essere un eroe. Sarò il codardo padre della scienza che pur di non rischiare ha ritrattato ogni parola affermata con convinzio-ne poco tempo prima.”Restai immobile, non sapevo esattamente cosa dire: “ In

tanti si sarebbero comportati come lei, siamo uomini e quello della conservazione della vita è un istinto primario. La prego non sia così severo, erano tempi difficili. E poi sa, la Chiesa ci ha messo un po’, 360 anni per essere precisi, ma alla fine ha ritrattato. Si è resa conto di aver commesso un terribile errore.”“Non mi consola, mio caro. Il bavaglio alla bocca, la censu-ra, la condanna del sapere e della conoscenza perpetrate per anni, non potranno né saranno mai riscattate da un discorsetto.” Durezza e rassegnazione comunicavano le sue parole ed il suo sguardo. Sentii l’esigenza di rispondergli, dicendogli quello che era il mio pensiero da sempre: “Sa cosa penso? Che spesso il motore degli atti peggiori è la paura. In questo specifico caso la paura del cambiamento, sinonimo di progresso, che certamente avrebbe creato non poche crepe al fragile ca-stello costruito tanto faticosamente in migliaia e più anni.”“Basta! Hanno errato loro: ottusi, spaventati o ignoranti che fossero. Ho errato io: incapace di affrontare le conse-guenze del sapere di cui per anni mi sono nutrito. Io padre del sapere, ma non del coraggio. Io che con quell’E pur si muove…”“… si muove! Mamma, mamma… il signore si muove, si è svegliato!” aprii gli occhi, davanti a me un bambino biondis-simo con una giovane donna. “Signore, sta bene? Una pietra le è caduta in testa, il dotto-re sta arrivando.”

-fosfeni-

e p u r s i m u o v e

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Enunciato: posti un punto x in stato di inerzia in e y che si muove di moto inerziale in , esiste almeno un punto z ad essi coerente in.

Quando sono solo, nel mio letto,e penso che domani il sognofinirebbe, ricordo le letteredella mia mente:amo quando di notte la finestra della cucina è aperta, e l’aria è calma;amo quando non ci sono le api;amo quando l’aria del mattinonon è fredda ed è facile alzarsi.

Sono queste le chiaviche salvano il mio tempo.

°°°°°°

E’ buio. Davanti a me c’è un agglomerato di corpi celesti appa-rentemente infinito. Ci muoviamo nello spazio, mentre enormi masse dalle forme di giganti sembrano immobilmente muover-si intorno. Si liberano delle visioni: sembrano porte di stelle.

°°°°°°

L’istante è catturato,ed il momento passato.

Z-la piramide-

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Nel lungo percorso dell’e-voluzione umana, la Storia si è più volte presentata come una crudele signora, sempre pronta a punire inesorabilmente l’individuo che dimostra di non aver imparato dai propri errori.Un caso esemplare ne è la Restaurazione, ovvero il processo che nel 1814, in seguito al Congresso di Vienna, riportò il potere in mano ai sovrani d’Europa, cancellando la rivoluzione francese, Napoleone, i tentativi reazionari di un continente che dopo secoli aveva trovato il coraggio di

1 8 4 8ribellarsi al giogo dell’as-solutismo. Dopo decenni di lotte, il cittadino che tanto aveva combattuto per vedere affermate le proprie libertà, si trovò al punto da cui era partito, come se il tempo si fosse cristallizzato intorno a lui, in un ambien-te immobile e con la falsa pretesa di cancellare gli avvenimenti passati.Ma è proprio nei momenti più oscuri che quella signo-ra abbandona i suoi abiti da matrona e rimembra di essere la madre di tutto ciò che esiste, sorridendo a quella parte di umanità più

vera, quella onesta.Italia, Regno delle Due Sicilie, XIX secolo. Gli abitanti di Palermo, il 12 gennaio 1848, si riversano per le strade scontrandosi con la debole resistenza dell’eser-cito borbonico e ottengono da Ferdinando II una Co-stituzione che rispolverava quella siciliana, precedente alla Restaurazione. Questo fu solo il focolaio di una serie di rivolte che scoppia-rono in gran parte d’Europa, come risposta delle forze liberali, democratiche e rivoluzionarie alle decisioni prese durante il Congresso

LAPRIMAVERA

DEIPOPOLI

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di Vienna. Spinti dall’o-pinione pubblica e dalle continue dimostrazioni di piazza, prima Carlo Alberto di Savoia, poi Leopoldo II di Toscana e infine Pio IX, si decisero a concedere la costituzione.Pochi mesi dopo, una rivolta di operai veneziani a cui si unirono numerosi marinai e ufficiali, riuscirono a scacciare gli austriaci e a proclamare la Repubblica veneta, mentre Milano, dopo le celebri “Cinque Giornate”, mise in fuga il ge-nerale Radetzky e l’esercito asburgico oltre il confine.

Intanto questo vento di rivoluzione approdò nelle capitali di Francia, Austria, Germania, Ungheria e Repubblica Ceca, portando con sé anche istanze di tipo sociale e facendo tremare le classi dirigenti ormai im-paurite da una sollevazione di tale entità.Sebbene i moti furono col tempo sedati, un po’ a cau-sa dell’inadeguatezza della battaglia di normali cittadini contrapposti a reggimenti scelti, un po’ per motivi finanziari che sul lungo periodo favorirono l’élite ri-spetto alle masse, gli effetti

dei moti del 1848, anche chiamati “primavera dei popoli”, furono molti e di grande rilevanza: sul lungo periodo infatti saranno la miccia che porterà all’unifi-cazione di Germania, Italia e Ungheria, ma soprattutto faranno nascere un nuovo sentimento di autodeter-minazione da parte delle popolazioni.Questa primavera quindi non è che il destarsi di un popolo intero dal freddo ed immobile scenario delle convenzioni, proiettando-si, con qualche difficoltà, certo, verso un futuro caldo

e luminoso.Un uomo molto saggio, parecchio tempo addietro, affermò: “la Sorte – in-contrastata signora delle vicende umane – può im-provvisamente stravolgere la condizione presente e far degli schiavi i padroni e dei padroni gli schiavi”. Farebbe bene il despota sicuro di sé ad impararlo, prima che, come si suol dire, succeda un altro ‘48.

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-FREI GEIST-

L’ I LLUSIONE

D E L

F I N I M E N T OL’inghippo sta nella campagna di Russia, l’evento ripetuto nella storia dello spirito – espressione che è a suo modo una tautologia. Con la teoria razionalizzante del sapere assoluto sembrava tutto rinchiuso sotto un giustissimo progresso storico ad alta predittibilità. Il progressus consisteva però, appunto, in una mancanza di progresso, nella capacità di poter dare una fine allo sviluppo storico nella sua linea orizzontale, ammirando al contempo l’impossibile riduzione a residuo della verticalità. L’errore era di qualche decade, ma poteva essere perdonato ai polverosi e tronfi idealisti, avvaporati dal loro accademismo. Poi però il nazionalismo e l’imperialismo avevano detto la loro, terminando, con tocco felpato, le guerre di colonialismo e il Commonwealth.Quanto può valere la prima

guerra mondiale, la Grande Guerra, in questo contesto? È più interessante quello che avviene subito dopo, nei fermenti di una Europa distrutta, e di una mitteleuropa ferita, di una Germania umiliata dalla severa pace di Versailles. Chi ha perso paghi, e sia tenuto d’occhio, come un debitore senza più alcune pretese sulla sua terra, come quel massiccio della Ruhr. E il mondo torna ad essere improvvisamente, più che mai, un coacervo in cui il problema esistenziale si fonde a quello storico. Quello che corrisponde ad un revanscismo facile ma consapevole che il compito storico è terminato – e che la situazione attuale nasce proprio da una forzatura – e quello di sconforto, di una ammissione di finitezza che riconfigura totalmente il mondo sul piano soprattutto politico. Nel mondo in cui il dato-in-compito è tramontato resta solo una brutale

sussistenza, in cui ad interessare è la ricchezza delle nazioni, la salute degli stati ormai conchiusi in loro stessi e nelle loro dinamiche economiche. In quanto moto da se stessi verso se stessi, il capitalismo – in una espressione brutale che urla perdono – nasce dalla fine della storia, dalla fine del compito storico assegnabile. L’uomo che perde il valore paradigmatico all’interno della dinamica storica passa dallo sconforto alla consapevolezza di sé, alla fine dello scopo ad uno scopo che è radicamento e putridume. Uno scopo che invoca ed esalta i totalitarismi: dove è finito lo spirito, inizia uno spirito fatto di carne e di erranza.E in questo dinamismo, che in realtà è solamente un fermarsi, trascinati, inerti, in balia del tempo che è comunque costretto a trascorrere, torna il problema della ripetizione del senso storico.

La campagna di Russia, con il secondo generale Inverno, con la battaglia di Stalingrado e i soldati con scarsi vettovaglie ed equipaggiamenti, è il legittimo sospetto che il ciclo sintetico delle storie circolari non sia concluso. Una storia che non finisce crea uno sgomento difficilmente articolabile in un secolo, “il secolo breve”, che è imbevuto di un carattere evenemenziale di ostica caratterizzazione.Il particolarismo della contingenza in una guerra per noia, la guerra per il capitale – petrolifero o domino che sia – che obbliga ad una ridefinizione delle scatole conchiuse che ha portato all’istante. Una ridefinizione per cui però manca l’ambizione, il tempo storico, e il fumo negli occhi. Perché è doloroso ammettere che la teoria si è fatta storia.

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ANTITESI INTRINSECA DELL’INERZIA

L’uomo come variabile dipendente dal contesto.

La monotonia del sopravvivere inerziale.

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Quand’è stata l’ultima volta che mi sono nutrito di immagini? Quando ho ascoltato il mio respiro giocare con l’esterno? Mi sento inserito in una dinamica senza riguardo verso l’interiorità: vado avanti per inerzia. Eppure so che ci sono degli spazi interstiziali, dei tempi morti con cui posso ossigenare il mio spirito. La mezz’ora in treno o al gate dell’aeroporto, i dieci minuti prima di prendere sonno o quelli di cottura della pasta: non sono tutte delle attese causate dall’effetto domino quotidiano? Perché non rigirare contro il mondo la sua arma e subire positivamente questi attimi? Non riempirò con ulteriori facezie i tempi morti che la mia giornata è ancora capace di regalarmi. Li vivrò così come li ho ricevuti. Ne approfitterò per godere del puro fatto di esistere.

E L O G I OD E I

T E M P I. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . M O R T I....................................

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In un periodo storico che vede la velocità come compagna costante e quasi obbligata del quotidiano, è complicato conquistarsi e godersi senza sensi di colpa un momento di stasi. Eppure c’è un preciso attimo della giornata in cui spesso, talvolta senza volere, questo accade. L’improvviso rumore della sveglia mattutina ci risucchia dallo stadio finale del sonno, riportando la mente

cotton fiocigiene auricolare

Nightmares On Wax – Pipes Honour

Burt Bacharach – Blue On Blue

Morcheeba -Slow Down

Portishead – It Could Be Sweet

Natalie Beridze/Tba – Hurt

Jamiroquai – Morning Glory

Eryka Badu -Incense

Piero Umiliani – Crystal

al concreto, agli impegni imminenti; ma anche se il cervello è tornato vigile e pensante, le membra sono ancora rallentate e intorpidite dal calore e dalla comodità. Si vuole ancora godere del piacere del riposo, ma risulta anche ormai chiaro che sarebbe un lusso sconveniente; in quel determinato istante si crea un piccolo conflitto tra ciò che è necessario e ciò che invece risulta

più facile e confortevole. Conflitto che spesso si risolve col raggiungimento di un compromesso, posticipando di qualche minuto la sveglia definitiva. Col passare del tempo, la voce che ci esorta a muoverci diventa sempre più assordante e paradossalmente sempre più viva è la volontà nel rimanere esattamente in quella condizione di quiete, silenzio, beatitudine. Che musicalmente potrebbe

essere descritta, magari anche accompagnata, da ritmiche concilianti; da melodie luminose come i raggi che già filtrano nella stanza; da voci fragili ma vellutate, amniotiche, rassicuranti…Finché la mente non è completamente attiva, gli occhi si spalancano, il respiro aumenta di frequenza,il nuovo giorno ha davvero inizio.

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Ricerca Google, digito a r c h e o l o g o. Wikipedia: è un professionista qualificato in una delle branche dell’archeologia, ossia quella vasta disciplina che studia le civiltà e le culture umane del passato; professioni.it: l’archeologo è specializzato nel ricostruire la storia delle civiltà antiche attraverso i reperti. Non mi convince. Dicono di me: Indiana Jones, appassionato di piramidi, dinosauri, sagace manovratore di pennellino, complessa figura indefinita… ecco il gruppo dei disfattisti: quanto sono belli i beni mobili e immobili, che peccato! quindi i numeri sulla disoccupazione, questioni spinose e poi? Alt! “Siamo esseri mobili che per pura volontà interiore, per un movimento che nasce da un’indole nascosta, scavano e sfogliano il terreno fino al madre”. Ecco, sento ancora la voce del professore di metodologia e tecnica di scavo mentre teneva in mano il venerabile libro di Carandini: “Solo quelli animati da un sacro fuoco”. Un continuo oscillare tra due sfere: mobilità che ci ravviva, pronti e attenti al cambiamento di forma, composizione e colore, e l’immobilità delle nostre scrivanie che fissano i corpi e le menti alla sedia, in attesa di una risposta e dell’incerta interpretazione di identità scovate sotto grani di terreno. Ecco un secondo eco nella mia testa, la guida, la professoressa: “Ricerca di tempo e spazio, coordinate fondamentali per orientarsi in un passato complesso, da sfogliare come un libro”. Continue metafore nella

G I O R G I O E L A PA N C I Adefinizione di uno stile di vita, non di un semplice mestiere. La formazione di quest’essere a tratti mitologico vive e nasce con l’uomo stesso. Isolato, romantico, affascinato, teso alla scoperta, viaggiatore: ogni uomo vuol essere archeologo da bambino. Ma la sfida allettante per tutti viene accolta da pochi. Il passaggio finale è la propria identità: terzo eco della mia insegnate: vuoi essere un’archeologa nella tua vita? Quale archeologa vuoi essere? La scelta della definizione di se stessi arriva dopo anni di studio. Affascinata dall’arte guardo per l’ennesima volta un quadro che di metafisico ha il principio, per cui non ho coordinate e forse me ne compiaccio. Giorgio doveva essere particolarmente coinvolto dal tema al punto da riproporlo più volte. Un manichino senza volto, immobile seduto sulla sua poltrona o disteso sul letto, passa da un libro ad un altro: l’archeologo. Ho letto pagine di commenti. L’identità greca e una certa familiarità con l’antico si manifestava chiaramente in De Chirico attraverso l’uso e la conoscenza del classico e della mitologia. I quadri vanno scavati. L’antichità si erge in atmosfere cupe, sospese, quasi morte: le piazze vuote. Associazioni di idee: l’Apollo del Belvedere con il suo compagno, il guanto da cucina. I corpi appaiono inermi, il mito si gioca nelle poche e semplici posizioni dei suoi protagonisti. Il tempo metafisico: qualcuno attende. Orologi fermi segnano un tempo che non passa mai, zac, la voce

di un treno, eco paterno. La partenza, gli adii, la nostalgia. La scossa rompe improvvisamente l’inerzia, moti interiori potrebbero dar vita ai personaggi della mitologia e forse anche all’archeologo stesso. Questi è in un luogo distaccato, quasi inesistente e lontano dal mondo, dalla comunità. Solo una cosa salta ai miei occhi: l’archeologo di De Chirico ha l’archeologia nella pancia. Colonne diroccate in rovina, archi, ponti, frontoni di tempio, un misto di cose … evidenze archeologiche. E’ il sommerso di Freud, quello che passando dall’inerzia della poltrona viene tirato fuori dalla terra dando stupore alla vita. “Scavare è salvare dal caos”, direbbe quel Carandini. Affermava Giorgio: “Senza la scoperta del passato non è possibile la scoperta del presente”. Per cui inizio a pensare che come lui anche io ho questa esigenza. Scavare è far uscire fuori la conoscenza nascosta, una maieutica che implica uno sforzo in ognuno di noi: la scoperta di se stessi parte dalla pancia e diventa accattivante anche nelle più complesse stratigrafie, basta trovare il metodo.

U N

C O N T I N U O

O S C I L L A R E

T R A

D U E

S F E R E

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Lo stato abituale dell’essere umano è quello di sentirsi ingabbiato, impotente, trascinato dal flusso travolgente della vita, anelando continuamente una qualche forma di liberazione, una leggerezza dell’animo, che lo porti alla pienezza della vita. Ogni uomo si prefigge di vivere al cento per cento la propria esistenza, di assumersi le proprie responsabilità, di prendere decisioni importanti, di fare scelte personali decisive, eppure la gran parte degli uomini finisce col seguire il corso naturale degli eventi, adattandosi a ciò che viene loro offerto, cogliendo al volo le occasioni più convenienti, servite su un piatto d’argento, accettando passivamente di vivere una vita imposta, molto più comoda e appetibile della propria. Così l’uomo si ritrova a vivere, o meglio a sopravvivere in un mondo di eventi più grandi di lui, ai quali soccombe senza opporre la minima resistenza, crogiolandosi nel dolce elisir dell’indolenza.La prospettiva delineata non è di certo delle più rosee, ma è proprio questa la condizione generata dal principio di inerzia; ogni essere umano custodisce un’inconsapevole tendenza a non mutare la propria posizione raggiunta, a perseverare in uno stato di calma piatta apparente, barricandosi dietro i muri della pigrizia, dell’abitudine o del torpore, senza trovare il coraggio e la volontà di mutare una situazione di disagio o di inoperosità. È uno scenario tragico, a cui anche il grande Michelangelo Buonarroti ha cercato di dare una forma, per quanto “incompleta” possa presentarsi. Applicando il concetto di “non-finito” alle sue sculture, Michelangelo distrugge la forma per cedere il posto alla purezza della materia grezza, che custodisce segretamente dentro di sé l’immagine e aspetta solo l’intervento dell’artista per liberarsi dalla pietra con tutta la sua energia. Il metodo esecutivo consiste nel realizzare un bozzetto preparatorio in cera, per poi affrontare la pietra dura con scalpello e subbia.Tra gli esemplari più noti realizzati con questa pratica, spiccano i Prigioni, un gruppo di sei statue, inizialmente destinate ad ornare la maestosa tomba di Papa Giulio II; due di essi, lo Schiavo morente e lo Schiavo ribelle, sono quasi del tutto completati e si possono ammirare al Louvre, mentre gli altri quattro, Prigione giovane, Prigione barbuto, Atlante, Prigione che si ridesta, sono incompleti e sono conservati nella Galleria dell’Accademia a Firenze. La fama di queste sculture è dovuta proprio al loro stato incompiuto, come se l’artista avesse voluto lasciarle in sospeso, spalancando le porte all’interpretazione, infatti, le quattro sculture fiorentine non sono state levigate, ma sono state lasciate volontariamente allo stato grezzo, a voler rappresentare metaforicamente l’imperfezione umana. Le figure degli uomini, appena sbozzate nella pietra, riescono a trasmettere una sensazione di movimento, di materia viva, sembra quasi di sentirli respirare e divincolarsi, anelare la vita.

-oltre lo sguardo di medusa-

I P r i g i o n i

Osservando i Prigioni, sembra di assistere ad una lotta tra corpo e spirito, tant’è che è possibile percepire un’analogia tra la figura che tenta di liberarsi dalla materia e l’animo umano che cerca di purificarsi dai peccati della carne per raggiungere la salvezza dei cieli e ricongiungersi a Dio, l’essere perfetto. È come se Michelangelo avesse voluto bloccare quelle figure vive nella pietra, fissarle all’interno del blocco di marmo inerte, per alludere allo slancio vitale dell’uomo che si contrappone allo stato di quiete e di immobilità della materia; oppure è anche possibile che l’artista intendesse mostrare la condotta passiva e indolente dell’essere umano che si lascia sopraffare dalla pesantezza della pietra; gli uomini, infatti, sembrano liberi ed incatenati allo stesso tempo, a tratti intorpiditi dall’inerzia e ad altri sopraffatti dal vitalismo. Quello che è certo è che le sculture sono incompiute, aperte all’immaginazione e, proprio per questo, sta all’osservatore decidere come interpretarle: nel blocco di marmo vogliamo vedere un uomo in uno stato di azione o in una condizione di torpore?E noi, come siamo disposti a vivere?

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Bob Harris affoga nell’inerzia. Campione di inerzia è colui che si lascia trascinare dalla corrente, che non è al timone della propria vita, bieca o meno che sia, ma è quell’esistenza stessa che lo sovrasta, che lo domina e il povero Bob è come flebile foglia al vento. Cinquant’anni suonati, gloriosa carriera attoriale alle spalle che cola a picco verso un lento quanto inarrestabile declino, al quale non ci si oppone, lo si asseconda dolcemente. Nessuno stoico distacco dagli eventi o qualsivoglia volontà di riscatto, solo nostalgia e amara rassegnazione. Nessun anelito verso la

lenti a contattoi g i e n e v i s u a l e

luce che, si sa, è lì, oltre il mare di inettitudine e monotonia in cui annaspa il nostro Bob. E allora cosa resta da fare? Forse per Bob altra strada non c’è se non quella di farsi travolgere da quel tutto che scorre perenne e lasciarsi docilmente annegare. Ma un vento nuovo soffia su quella foglia inerte e, piano piano, lo spinge verso di lei, Charlotte, giovane moglie, secondo una precisa struttura chiastica, di un talentuoso fotografo in ascesa. Non un urto fisico, non il minimo contatto tra i due ma il solo incontro d’anime infonde in loro un nuovo soffio vitale. Ed ecco che quel motore che

avevamo (erroneamente) creduto guasto si rimette in funzione a pieno ritmo, perché, finalmente, sollecitato dal giusto stimolo, quella chiave che, convenzionalmente, siamo soliti definire empatia. Pedine nelle mani di una vita che non vivono, in questo gioco di equilibri precari e simmetrie mancate, in cui tutti sono inconsapevolmente alla ricerca di qualcosa che manca, Bill e Charlotte collidono, e dalla loro collisione si imprimono, reciprocamente, moto. Un moto nuovo e inatteso di cui sono padroni e non più succubi: ci si risveglia dal torpore, si

rompe quell’indolenza che annichilisce e che immobilizza. Adesso e soltanto adesso giunge il momento del commiato, quando i due s’incrociano, sullo sfondo di una Tokyo trafficata, un’ultima volta e si sussurrano qualcosa all’orecchio; qualcosa di cui non ci è dato sapere, ma non importa, perché ciò che conta è solo il moto ritrovato, e che li porta, dopo un ultimo sguardo che tradisce un amore mancato e un desiderio non consumato, a percorrere strade, se pur opposte, non più imposte dai fili del destino, ma, finalmente, scelte.

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Le presentazioni sono buona norma: l’inerzia è un concetto appartenente alla fisica ed alla meccanica e determina la resistenza alle variazioni dello stato di moto; qualcuno ricorderà sicuramente tali nozioni dai tempi delle superiori, ma anche stavolta non serviranno perché ci confronteremo con la declinazione più concreta dell’inerzia, intesa come condizione e tendenza all’inoperosità ed alla pigrizia, che cresce e convola a nozze con la drammatica vita da provincia. Provincia? Sì, provincia. Prima ancora di una provincia geolocalizzata il riferimento è diretto a chi vive uno state of mind (o modus vivendi, libera scelta) fatto di banalità e chiusura mentale, a chi preferisce ripetere, drammaticamente, sempre la stessa routine piuttosto che elevare la propria esistenza attraverso i gesti, anche quelli più semplici. La quotidianità scandita attraverso stanchi riti che si perpetrano con puntuale cadenza è il motore principale della provincia, prigione che accomuna, stavolta con chiari riferimenti geografici, tutte le menti che vorrebbero evadere ma si trovano costrette in una di quelle zone corrispondenti ad un buon 70-80% del Bel Paese. Io stesso abito in provincia, la vivo giungendo spesso a conflitti con la stessa: i tessuti sociali installati in una cornice fatta di tradizioni meridionali, visite natalizie ai parenti e conseguenti pranzi/cene da battaglia, nutrono spesso atteggiamenti ostili nei

confronti di qualsivoglia apertura, che può manifestarsi ora come cambiamento, ora sotto forma di semplici domande. Ritengo interessante approfondire il tema attraverso opinioni pubbliche ma mi sono imbattuto in atteggiamenti a tratti refrattari. Chiedendo in giro cosa potesse significare, a livello meramente personale, la parola inerzia, una è stata in particolare l’affermazione che mi ha colpito: disegnare il concetto come “La benzina di un motore non nostro”. Ecco. Se da una parte c’è la serena ed incosciente accettazione della provincia, una consistente percentuale vive, contrastata, un ambiente all’insegna dell’io totalmente spersonalizzato. Una condizione fatta di grandi incoerenze da cui spesso è più facile fuggire piuttosto che rimboccarsi le maniche per edificare il Bello, emblema a tuttotondo di una realtà relegata agli ideali, ai sogni dei giovani. E tutto torna all’inerzia, che ti attanaglia ed anestetizza quando gli ideali cozzano con la crudeltà dei fatti: da umano ad automa è un passo, fino a diventare una macchina costretta a produrre senza la minima possibilità d’evasione. Un discorso che parte dall’immediato per conglobare tutto quello che ci circonda. La provincia è uno stato mentale, e l’inerzia l’arma più preziosa a sua disposizione: è questo che vogliamo?Abbiamo ancora la possibilità di scelta.

P R O V I N C I A C R O N I C A

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Appena ci svegliamo si è soliti dire: “a mente fresca”, ma in realtà come ci sentiamo al mattino o subito dopo un sonnellino pomeridiano? Non riusciamo ad essere immediatamente operativi ed abbiamo bisogno di alcuni minuti per carburare e iniziare al meglio le nostre attività.Ciò non dipende dal nostro coefficiente di pigrizia, né dalla volontà di alzarci, ma da come funziona il nostro cervello. È lui che ha bisogno di più tempo per “destarsi”: infatti, nei primi cinque minuti che seguono il risveglio, l’intera corteccia cerebrale presenta una costante diminuzione dell’attività elettrica ad alta frequenza, quella tipicamente associata a uno stato di veglia vigile.Questo fenomeno, studiato a fondo dagli scienziati, è definito “Inerzia del sonno”. Esso consiste in

una dissociazione tra la percezione di essere svegli, legata probabilmente ad una ripristinata attività elettrica tipica dell’individuo vigile nelle regioni cerebrali anteriori, ed un rallentamento della capacità sensoriali e di integrazione, mediato dalle aree posteriori del cervello.In altre parole, nella fase di “Inerzia del sonno”, le aree cerebrali anteriori sono già in piena attività, mentre quelle posteriori lavorano a ritmo ridotto, manifestando ancora un’attività tipica del sonno anche nei primi minuti del risveglio. Da qui, dunque, la sensazione di essere svegli senza però riuscire a elaborare appieno le informazioni sensoriali.Le diverse aree cerebrali non hanno gli stessi ritmi: esse non si addormentano, né si svegliano, tutte contemporaneamente.La persistenza di un funzionamento cerebrale

in specifiche regioni, tipica di un individuo sveglio, durante l’addormentamento, o quella inversa, tipica di un individuo che dorme, al risveglio, spiega una serie di fenomeni come ad esempio le allucinazioni ipnagogiche, esperienze intense e vivide che si verificano all’inizio di un periodo di sonno, o ipnopompiche, che portano dal sonno alla veglia.Più si dorme, più si fatica a riemergere dal torpore. Tanto che in termini di efficienza del cervello “è meglio passare la notte in bianco che non superare la soglia delle otto ore di sonno consecutive.”È una conclusione che spiazza ma che ha tutte le basi per essere fondata, e potremmo ulteriormente sentirci spiazzati dal fatto chegli effetti di questo “sonno inerziale” sono paragonabili a quelli di una sbronza. Un

individuo risvegliatosi da poco è in una situazione simile, se non peggiore rispetto a una persona ubriaca.Questa scoperta potrebbe avere applicazioni molto utili a chi, per lavoro, deve avere una mente attiva e pronta anche appena sveglio, come i pompieri o gli operatori di pronto soccorso. Si potrebbe ipotizzare di realizzare un sistema di sensori elettroencefalografici (EEG) che determini se tutte le aree cerebrali siano al livello adatto per garantire adeguate prestazioni.Le neuroscienze sono il nostro futuro, appassionarsi a questi studi significa dare sempre più un significativo aiuto all’evoluzione della nostra specie.

l’inerzia

del

sonno

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V I A D A Q U ICAPITOLO QUINTO

I

Adesso potrei stare ore qui a raccontarvi storie di baci e primi appuntamenti, potrei dirvi i sorrisi, tentare di spiegarvi i sospiri, e tutto ciò solo per farvi scoprire che il mio magico grande amore, in fondo in fondo, non è poi così speciale. Sì perché dopo quel giorno io e la mia bella Julia, la madrelingua che leggeva l’Ulisse di Joyce, siamo passati attraverso tutte le stagioni del sentimento, fino a far sbocciare il frutto del nostro amore del quale ci siamo nutriti. Ma a voi non interessa questo, lo so. Nel migliore dei casi trovereste il tutto banale. È per questo che vado dritto al punto in cui si sono complicate le cose.

La prima verità da affrontare è che davanti alla potenza di un uragano non c’è resistenza che tenga, ed è così che nonostante la mia congenita indifferenza verso i fatti del mondo mi sono ritrovato a Roma, nel caldo di luglio, per manifestare per qualcosa che ho dimenticato e contro qualcuno al cui nome non devo aver prestato troppa attenzione. Julia è un occhio vigile sul mondo, ed una voce pronta a gridare il suo sdegno in piazze affollate. Ma queste sono cose che scopri dopo, di solito non le trovi scritte né in prima pagina né sulla quarta di copertina.Ha una rete di amici sparsi per l’Europa, paladini di una battaglia rumorosa alla ricerca di una giustizia imprecisata. In questa occasione li ospita una scuola, e sembra ci sia un po’di pavimento riservato anche alle nostre schiene.Quando arriviamo, lei abbraccia un po’di gente, io stringo un po’ di mani nella confusione che generano le rimpatriate tra vecchi amici, e piano piano scivolo sempre più ai margini della conversazione. Julia, presa in mezzo dal fuoco incrociato di ricordi e novità, non bada a me, impiedi e con lo sguardo a vagare in giro per la palestra. Viene in mio soccorso una ragazza piccolina e un po’ tondetta, ma con un sorriso aperto e gentile.- Cos’hai Guido? Ti vedo un po’perso.Alzo le spalle e caccio un sorriso che comunichi chiaramente quanto io mi senta a mio agio e rispondo che no, sto dando solo un’occhiata, e intanto penso che devo smetterla di dimenticare i nomi delle persone che ho conosciuto neanche cinque minuti prima.Non devo essere stato molto convincente. Infatti ci mette poco a decidere di prendermi sotto braccio- Dai ti accompagno io!Inizia quindi in modo molto democratico il tour della palestra, durante il quale scopro un sacco di cose che non mi interessano su chiunque ci circondi.Mentre comincio ad elaborare una sofisticata scusa per fuggire, intercetto lo sguardo di Julia, che per fortuna riconosce l’S.O.S. lanciato dai miei occhi e viene in mio soccorso.- Allora Guido, la ingaggiamo Alessia come accompagnatrice ufficiale?Sorrido cercando la sguardo di Alessia (ecco, adesso cerca di non dimenticarlo il nome!), pronto a lanciare una battutina complice, ma lei guardando oltre la mia spalla dice eccitata- Eccolo quello è Jean-Louis! Venite che vi presento!Ci tira senza troppi complimenti e ci presenta ad un ragazzo biondo e magro fino all’osso, che si introduce con un accento fastidiosamente francese.Alessia ci spiega che lui è uno dei leader della manifestazione del giorno dopo, e Julia, subito interessata, comincia con le domande.Jean-Louis parla in apnea, con un sacco di parole complicate che probabilmente vogliono dire poco e niente e con tutte quelle erre mosce che fanno tanto chic.Come mi succede sempre, non appena mi accorgo che il mio interlocutore ha l’hobby di leggere il dizionario e ci tiene a far-melo capire, il mio cervello si disconnette automaticamente. Dopo anni di esperienza riesco anche a mantenere un’espressione che non mi faccia sembrare un demente, a ridere quando è il momento di ridere e sostenere la conversazione con versi di stupore sapientemente distribuiti qui e là. Julia invece sembra interessata a qualsiasi cosa Jean-Louis stia dicendo, e non sembra disprezzare il suo vocabolario forbito.Chissà se in mezzo a tutte le parole che conosce ce n’è una per descrivere il mio giramento di coglioni in questo momento.Mi domando se sia opportuno chiederglielo, ma poi opto per la classica sigaretta da evasione.Allora dico che esco per fumare, e Jean-Louis mi risponde che se voglio posso tranquillamente fumare dentro. Dico che no, grazie, preferisco prendere un po’ d’aria, e che no, non c’è bisogno che Julia mi accompagni, che resti pure. Fortunatamente neanche Alessia sente il bisogno di accompagnarmi, così posso godermi la relativa solitudine della serata romana.

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La seconda verità da affrontare è che l’eccitazione è contagiosa, così la mattina dopo anche io sento l’adrenalina e il sangue grosso. Non so bene cosa aspettarmi, non so se sono d’accordo o meno con quello che sto andando a fare, ma ho Julia vicino a me, e stamattina ha messo su quell’espressione decisa che me la fa vedere più bella che mai. Usciamo dalla scuola mano nella mano, lei con lo sguardo deciso rivolto avanti, io come un bambino aggrappato alle sue sottane.Arriviamo in una piazza dove ci sono anche altri gruppi. Cominciano ad uscire fuori striscioni, megafoni, idee, discorsi. Qualcuno comincia a parlare con toni duri, partono cori contro il mondo, si accende qualche fumogeno e a poca distanza si sente inconfondibile il botto di un esplosivo artigianale.Ma che ci faccio qui? Lo penso distintamente, e Julia deve essersene accorta perché mi stringe forte la mano e mi guarda negli occhi. Quanto sei bella, Julia. Quante volte mi sono perso nei tuoi occhi e quante volte è bastato un tuo sguardo a convincermi a seguirti ovunque volessi andare. Ma questo no, non è per me. Tra poco verranno gridate parole che non condivido, voleranno pietre, ci saranno manganelli e botte e urla e botte, vetrine rotte, auto distrutte, strade martoriate e botte.Avrei potuto cominciare così ed andare avanti per un bel po’, ma la cosa bella con Julia è che spesso non c’è bisogno di andare avanti. Talvolta neanche di cominciare. Mi fa solo un cenno del capo, mi dice che forse è meglio che io vada a fare una passeggiata, di non preoccuparmi, che ci vedremo dopo.E io dico che sì, probabilmente ha ragione. Mi ci vuole una passeggiata. Allora a dopo, a dopo.Però non mi ero sbagliato. Quelle cose ci sono state tutte, il passaggio dalle parole alle prime pietre è stato breve.Da un po’più su, seduto su di una panchina di legno, ho visto le scene di una lotta fra una giovane generazione esasperata, smarrita davanti all’idea di un futuro molto ipotetico, e una schiera di lavoratori da mille e pochi euro al mese, che con caschi, scudi e manganelli proteggono interessi ben diversi e distanti dalle loro vite. Ho pianto parecchio davanti allo spettacolo di due fazioni di oppressi messe in lotta tra loro, con la sigaretta accesa tra le dita e senza riuscire a tirare neanche una boccata di fumo. E sono rimasto seduto lì finché, piano piano, la sigaretta non si è consumata e mi ha bruciato le dita.

La terza e ultima verità da affrontare è l’ineluttabilità dell’inerzia. Quella dei piedi quando decidono di camminare, ad esempio. Non sai dove ti stiano portando, e del resto importa poco. L’importante è andare. Lasciarsi alle spalle il mondo, circondarsi di visi sconosciuti e occhi indifferenti, scivolare tra la gente o attraversare strade vuote. Ovunque ma non lì.Ma se è vero che la vita è un cerchio, a camminare troppo si rischia di tornare al punto di partenza.È così che sbucando da un vicoletto che si apre in una piccola piazza vedo Jean-Louis in compagnia di due persone. Nella mia mente si fanno strada una serie di alternative. Potrei fare dietro front, gettarmi nel primo negozio che mi viene a tiro, nascondermi dietro al passante di turno. O magari potrei andare da Jean-Louis e dirgli quanto sia un coglione. Magari non direi proprio coglione, magari userei un bel giro di parole, di quelli che piacciono a lui, per esprimergli tutto il mio sdegno. Ecco, sdegno ce lo devo mettere.Mentre sono alla ricerca della frase giusta che lo colpisca come un ceffone e mano aperta, le gambe della ragazza che è con lui diventano molli, lei si piega sulle ginocchia e cade a terra svenuta.Ti sei salvato, stronzo.

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MOSSIDAINERZIACREATIVA

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