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- 1 - Il Commercio Equo e Solidale Prospe�ive, Funzionamento e Critiche Sergio Bucci Paolo Forteleoni Massimo Deligios

Il Commercio Equo e Solidale - Libero.it · stri figli, la qualità della loro istruzione, la gioia dei loro giochi. Non considera rilevanti la bellezza della nostra poesia o la

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Il Commercio Equo e SolidaleProspe�ive, Funzionamento e Critiche

Sergio BucciPaolo Forteleoni

Massimo Deligios

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Sommario

SVILUPPO ECONOMICO E POVERTA’ ...............................41.1 Misurare lo sviluppo ...........................................................................41.1.1 Il PIL e la ricchezza misurata in consumo .................................................... 41.1.2 Altri strumenti per misurare lo sviluppo umano ......................................... 8

1.2 Ineguaglianza, povertà e confli�i internazionali .........................10

1.3 Aiuti e commerci internazionali ......................................................121.3.1 Gli aiuti internazionali ............................................................................... 121.3.2 Il commercio internazionale ........................................................................ 15

IL COMMERCIO EQUO E SOLIDALE ................................162.1 Il comercio equo e solidale ...............................................................16

2.2 Nascita del commercio equo e solidale ..........................................16

2.3 Cara�eristiche del commercio equo e solidale ..............................16

2.4 Vecchi e nuovi obie�ivi del commercio equo e solidale ...............19

CANALI DISTRIBUTIVI .........................................................203.1 I distributori .......................................................................................20

3.2 Il commercio equo e solidale in Europa .........................................20

3.3 La stru�ura produ�iva del commercio equo e solidale in Italia .23

3.4 I trader italiani ..................................................................................25

3.5 Le funzioni del commercio equo ......................................................26

3.6 Ruolo delle istituzioni (FMI, Banca Mondiale, WTO) ................28

3.7 Qualche conclusione provvisoria ....................................................29

CERTIFICAZIONI E TUTELA ................................................324.1 Riconoscimento prodo�i equo solidali ..........................................32

4.2 Certificazioni di prodo�o e di filiera ..............................................33

4.3 Chi stabilisce i criteri del commercio equo e solidale ..................33

4.4 Chi controlla i sogge�i accreditati .................................................34

4.5 Chi controlla i prodo�i certificati ...................................................35

4.6 Problematiche a�uali ........................................................................36

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Sommario

I PREZZI ....................................................................................375.1 La fase iniziale: accordi di fornitura e prezzo di partenza .........37

5.2 Metodo di produzione .......................................................................39

5.3 Accesso ai mercati 1: i dazi ..............................................................39

5.4 Accesso ai mercati 2: i sussidi ..........................................................41

5.5 La distribuzione .................................................................................43

5.6 Considerazioni finali .........................................................................43

LE CRITICHE ............................................................................446.1 Distribuzione geografica nel mondo ...............................................44

6.2 Produ�ori e prezzo equo ...................................................................45

6.3 Prezzo equo e prezzo di mercato ......................................................48

6.4 Strumento economico o mezzo di informazione? ......................... 51

TURISMO RESPONSABILE ..................................................527.1 Generalità sul turismo ......................................................................52

7.2 Cara�eristiche dei viaggi responsabili .......................................... 53

FONTI .........................................................................................558.1 Bibliografia .........................................................................................55

8.2 Sitografia .............................................................................................56

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SVILUPPO ECONOMICO E POVERTA’

I governanti dei Paesi occidentali danno grande importanza al PIL (Prodot-to Interno Lordo) e, sopra�u�o durante la preparazione della Finanziaria, le diver-se stime della sua crescita rimbalzano da un mass media all’altro. Il problema è che nessuno dice cosa misuri il PIL. Il Prodot-to Interno Lordo è il valore del reddito ag-gregato, in altre parole esso è la somma dei redditi di tu�i gli individui presenti in un

Paese nel periodo di tempo preso in consi-derazione. Può anche essere visto come la somma del valore dei beni e servizi finali prodo�i nel Paese nell’intervallo tempora-le considerato.Analizzando il PIL pro capite dei vari Pae-si del mondo possiamo avere un primo quadro su come è distribuita la ricchezza nel mondo.

Fonte: Human Development Report 2005 - UNDP; dati in dollari 2003

L’OECD è l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE). Ne fanno parte gli Stati dell’UE, la Svizzera, la Turchia, gli USA, il Cana-da, il Messico, il Giappone, l’Australia e la Nuova Zelanda. Nei Paesi in via di svilup-po sono inclusi gli stati del Sud-Est asiati-

co, dell’America Latina e quelli Arabi. Da questo grafico è possibile vedere le prime differenze. Per facilitare l’analisi abbiamo aggregato i dati in macrogruppi. Il coefficiente di variazione è molto ampio (quindi le medie o�enute non sono mol-

Le varie regioni del mondo non hanno mai avuto un medesimo livello di sviluppo. Vi sono sempre state aree più sviluppate ed anche all’interno di uno

stesso Paese vi sono delle differenze sia in termini geografici sia in termini di catego-rie sociali.

1.1 Misurare lo sviluppo1.1.1 Il PIL e la ricchezza misurata in consumo

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to rappresentative), sia su scala mondiale che all’interno delle stesse macrocatego-rie. Per rendere l’idea, considerando che la media mondiale è di $ 8.229 pro capite, basti pensare che il campo di variazione è compreso tra il limite massimo di $ 62.298 (è quello dei ci�adini del Lussemburgo), scende a $ 37.562 di un ci�adino america-no per arrivare al limite minimo di $ 548 di un ci�adino della Sierra Leone (la media italiana è di $ 27.119).

Oltre a ciò, bisogna considerare che i dati sul PIL non ci indicano come la ricchezza si distribuisce all’interno di una nazione (lo stesso problema del pol-lo di Trilussa). Infa�i, all’interno di Stati che vengono classificati ricchi possono esserci fasce di popolazione che vivono in condizioni di povertà, mentre nei Pae-si classificati poveri sono presenti fasce di popolazione ancora più povere di quanto misurato. Ecco che, seppur il PIL pro capi-te medio dei Paesi so�osviluppati è pari a $ 2.168, il 20% della popolazione mondiale vive con meno di $ 1 al giorno (quindi il PIL pro capite è inferiore a $ 365), mentre un altro 20% vive con un reddito compre-so tra $ 1 – 2, cioè con un PIL pro capite compreso tra $ 365 – 730. Perciò, all’inter-no di questi Paesi c’è qualche benestante ed una moltitudine di persone che quoti-dianamente lo�a contro la morte.

Conti alla mano, il 40% della popo-lazione mondiale si accontenta del 5% del reddito globale, mentre il 10% della popo-lazione, quasi tu�a concentrata nei Paesi OECD sviluppati, ha a disposizione il 54% del reddito prodo�o. A questo punto è an-cor più chiaro che le aree del mondo dove si concentra la ricchezza non corrispondo-

no alle zone in cui si concentra la popola-zione. Con $ 300 miliardi (stime UNDP) si riuscirebbe a portare tu�a la popolazione a vivere con più di $ 1 al giorno (cioè 1 mi-liardo di persone supererebbe la soglia di estrema povertà). L’ammontare necessa-rio è pari all’1,6% del PIL dei Paesi OCSE. Con $ 7 miliardi (sempre stime UNDP) si garantirebbe a 2,6 miliardi di persone l’ac-cesso all’acqua potabile (la cifra necessaria è pari a quanto spendono gli Europei in profumi, meno di quanto spendono gli Americani in chirurgia estetica). Il valore di 3 giorni di spesa militare corrisponde al budget annuale dell’ONU per comba�ere l’AIDS. Per ogni $1 speso in aiuti dai Paesi Occidentali, essi ne spendono $10 in arma-menti.

Statistiche a parte, bisogna anche ricordare che dietro ai numeri ci sono le speranze e le vite della gente e che i costi umani non potranno mai essere rappre-sentati da semplici cifre1. “Il PIL non considera la salute dei no-stri figli, la qualità della loro istruzione, la gioia dei loro giochi. Non considera rilevanti la bellezza della nostra poesia o la forza dei nostri matrimoni, l’intelligenza del diba�ito politico o l’integrità dei pubblici funzionari. Non mi-sura né il coraggio, né le speranze, né la fede del nostro paese. Misura tu�o, fuorché ciò che rende la vita degna di essere vissuta; può dirci tu�o dell’America, meno la ragione per la qua-le siamo orgogliosi di essere americani”(sen. Robert Kennedy – 1968).

Il PIL, infa�i, non misura né la qua-lità della vita né il livello di preservazione

1 Da Human Development Report 2005, pag. 4 - United Nations Development Program

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Capitolo 1 Sviluppo Economico e Povertà

della qualità dell’ambiente in cui viviamo. Anzi, paradossalmente, un livello di in-quinamento più elevato crea danni alla sa-lute e porta alla necessità di a�uare delle politiche di disinquinamento; entrambi gli effe�i presuppongono l’acquisto di beni e servizi (spesa sanitaria, ecc.) e quindi van-no ad incrementare il PIL, “migliorando”, in una visione molto ristre�a, la situazione del sistema economico preso in considera-zione.

I dati sul PIL, infine, non indicano il

livello di uguaglianza sociale, di rispe�o dei diri�i dell’uomo e di libertà. Accade anche nei Paesi ricchi che i bambini siano diversi già prima della nascita (in termi-ni di assistenza alle future mamme), sia a causa dell’etnia dei loro genitori o del loro livello di reddito, che per il sesso del nascituro. Il sesso è spesso uno dei fa�ori maggiormente discriminanti sopra�u�o nei Paesi mediorientali e del sud-est asia-tico, ma anche da noi nascere donna non sempre significa avere le medesime op-portunità degli uomini.

Box 1 Ineguaglianze negli Stati Uniti d’AmericaI Paesi appartenenti all’OCSE spendono in media il 13% del PIL in assistenza sanita-ria. Negli USA si spende il doppio. Nonostante ciò, l’accesso all’assistenza sanitaria è notevolmente limitato a causa di profonde disuguaglianze sociali connesse alle ca-ra�eristiche dei ci�adini, come il livello di reddito, la copertura assicurativa, la razza e l’ubicazione geografica. Il tasso di mortalità infantile è più alto rispe�o alla media dei Paesi sviluppati ed è uguale a quello della Malesia (circa il 7‰) e varia molto in base all’etnia del nuovo nato: se bianco, il tasso si avvicina al 6‰ (comunque quasi il doppio rispe�o a quello giapponese), mentre se è un afroamericano, il tasso supera il 14‰ (è uguale al tasso di alcuni stati dell’India). La sua mamma ha il doppio di probabilità di partorire un bambino so�opeso rispe�o ad una mamma bianca ed il bimbo nero ha il doppio di probabilità di morire prima del suo primo compleanno rispe�o ad un connazionale bianco. Le differenze non si fermano solo all’etnia, ma si estendono al reddito. Un bambino nato in una famiglia appartenente al 5% più ricco della popolazione ha una speranza di vita del 25% più lunga rispe�o al suo conna-zionale nato da una famiglia che fa parte del 5% più povero. Gli USA sono l’unico Paese ricco a non fornire un’assistenza sanitaria di base. L’ele-vato costo dei tra�amenti rappresenta una barriera d’accesso insormontabile per il 40% dei ci�adini che non sono assicurati, i quali non possono neanche perme�ersi nessun tipo di controllo sanitario preventivo. L’innovativa ricerca medica americana perme�e di salvare ogni anno circa 20.000 vite. L’assenza di un sistema di preven-zione ed assistenza sanitaria di base ne uccide, nello stesso periodo, circa 85.000. Le disuguaglianze si estendono anche in altri se�ori (istruzione, occasioni lavorative, ecc.).Fonte: Human Developmente Report 2005, pag. 58 - UNDP

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Capitolo 1 Sviluppo Economico e Povertà

2 Mohammad Yunus - Il Banchiere dei Poveri, pag.28 - Universale Economica Feltrinelli, 2006

Il primo esempio di disuguaglianza è legato all’origine etnica ed al livello di reddito delle persone ed è riferito ad un Paese che consideriamo ricco e democrati-

co. Il secondo, invece, è una delle tante sto-rie di discriminazione sessuale. Differenti opportunità sono anche legate al luogo in cui si nasce.

Box 3 L’istruzioneLa differenza nelle opportunità di ricevere un’istruzione, seppur di base, rimangono elevatissime. In linea generale, un bambino che nasce oggi in Mozambico può spera-re di ricevere circa qua�ro anni di istruzione pubblica di base. Un suo coetaneo fran-cese riceverà sicuramente almeno quindici anni di formazione, sia di base che di alto livello. Le ineguaglianze di oggi nel se�ore dell’educazione dei giovani diventeranno le disuguaglianze sociali ed economiche di domani.Fonte: Human Development Report 2005, pag.24 – UNDP

Dopo quanto de�o sopra, forse, non è irrazionale concepire lo sviluppo come

un diri�o dell’uomo e non come un au-mento di punti percentuali di PIL2.

Box 2 Il muro del purdahPer via delle regole del purdah (le�eralmente velo, cortina) le donne sono fortemente discriminate. Il termine comprende una serie di pratiche legate all’ingiunzione cora-nica di proteggere la virtù e la modestia delle donne. Nella versione più restri�iva, si fa obbligo alle donne di nascondersi alla vista degli uomini, salvo i familiari più stre�i. Spesso, nelle famiglie conservatrici, le donne non escono di casa neanche per andare a trovare i vicini. Anche dove il purdah non è stre�amente osservato, la fami-glia, i costumi, la tradizione e il decoro fanno sì che nelle campagne del Bangladesh i rapporti tra uomini e donne rimangano estremamente formali. La fame e la povertà riguardano più le donne degli uomini. Se in una famiglia qual-cuno deve soffrire la fame, sarà sicuramente la donna. Ed è sempre la donna, in quanto madre, a vivere la traumatica esperienza di non essere in grado di sfamare i bambini con il proprio la�e in tempi di penuria e carestia. Nella società del Bangladesh la donna povera vive nell’insicurezza più totale. È insi-cura nella casa del marito, il quale la usa come un ogge�o anche per sfogarsi di tu�i i torti che ha subito durante il giorno e dalla quale può essere estromessa in qualsiasi momento. Non sa né leggere né scrivere e solitamente non le è permesso neanche di uscire di casa per guadagnarsi da vivere. Fonte: Il banchiere dei Poveri, pag.91 – Mohammad Yunus (premio Nobel per la Pace 2006) - Feltrinelli, 2006

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3 Da Human Development Report 2005, pag.18 - UNDP

Nel precedente paragrafo abbiamo analizzato il PIL ed i suoi limiti. Abbiamo anche constatato come il PIL non conside-ri come la ricchezza si distribuisca all’in-terno di un Paese, né misuri i diri�i e le libertà individuali. Spesso ci raccontano di quanto sia importante andare in luoghi più arretrati a portare libertà o democra-zia. Sicuramente esse sono conquiste im-portantissime che ci hanno permesso di progredire, ma a cosa serve la libertà se la gente è povera, analfabeta, discriminata o minacciata da confli�i armati?3

La globalizzazione ci ha permesso di o�enere uno sviluppo economico ra-pido, grazie a miglioramenti tecnologici e all’espansione dei mercati e degli investi-menti. Purtroppo, tu�a questa prosperità non sempre si è trado�a in un migliora-mento delle condizioni di vita dei più po-veri, anzi talvolta questi hanno pagato il prezzo di una crescita economica selvag-gia e senza regole. Il miglioramento del-le condizioni di vita viaggia ad un ritmo molto più lento rispe�o alla crescita eco-nomica ed il divario fra ricchi e poveri ten-de ad aumentare.

1.1.2 Altri strumenti per misurare lo sviluppo umano

L’Indice di Sviluppo Umano (HDI) ci aiuta a misurare sia la crescita economi-ca che il cambiamento delle condizioni di vita. Si basa su tre indicatori principa-li: reddito, istruzione e salute. Non è un indicatore completo, ma almeno tenta di andare oltre il PIL. Il reddito viene consi-derato solo come un mezzo per migliora-

re le condizioni di vita. Per esempio, una variazione positiva della situazione reddi-tuale potrebbe essere compensata da una variazione negativa del livello d’istruzio-ne e quindi l’indice non si sposta. L’HDI ha valori compresi fra un minimo di 0 ed un massimo di 1.

Fonte: nostra elaborazione su dati Human Development Report 2005

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Capitolo 1 Sviluppo Economico e Povertà

Come si può notare anche da questo grafico, il risultato più alto si ha sempre nei Paesi più sviluppati, ma le differenze fra gli aggregati sono meno marcate (sin-tomo del fa�o che anche all’interno dei Paesi ricchi vi sono fasce di popolazione che non hanno pieno accesso ai servizi so-ciali). Il valore medio a livello mondiale è pari a 0,741, il campo di variazione è com-preso fra lo 0,963 della Norvegia e lo 0,281 del Niger (l’Italia è dicio�esima con un in-

dice pari a 0,934).

Indicatori ancora più efficaci sono quelli che riguardano i bambini. Essi sono la fascia sociale più debole, che richiedono al sistema sociale di prestargli particola-ri a�enzioni. Il più significativo è sicura-mente il tasso di mortalità nei primi cin-que anni di vita (bambini morti ogni 1000 nati vivi – fonte: nostra elaborazione su dati UNDP).

Fonte: nostra elaborazione su dati HDR 2005 - UNDP

Ancora una volta l’ubicazione geo-grafica ed il reddito sono discriminanti no-tevoli nel determinare la qualità e l’aspet-tativa di vita delle persone. Una riflessione va fa�a sulla Nigeria, Pae-se che sta divenendo noto sui mass media a causa dei continui assalti delle popola-zioni ribelli alle stazioni di pompaggio del petrolio. È lo Stato africano che esporta la maggior quantità di petrolio e che perciò dovrebbe essere abbastanza ricco. Ma i proventi del petrolio evidentemente non

si fermano lì (il PIL pro capite del 2003 è pari a $ 1.050); ciò fa presumere un certo sfru�amento da parte degli stranieri. Sono secondi nella classifica mondiale per nu-mero di bambini che muoiono prima di compiere cinque anni e, sempre secondo le stime delle Nazioni Unite, una donna su dicio�o muore per complicazioni legate alla gravidanza (in Canada ne muore una su 8.700)4. Senza addentrarsi in più appro-fondite riflessioni (e senza voler giustifi-care l’uso della violenza), vista l’enorme

4 Da Human Development Report 2005, pag.32 - UNDP

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Capitolo 1 Sviluppo Economico e Povertà

5 La traduzione è nostra6 Da Human Development Report 2005, pag.12 - UNDP

1.2 Ineguaglianza, povertà e confli�i internazionali

Dopo questa breve riflessione sui li-miti del PIL e gli strumenti alternativi per misurare lo sviluppo di una società ci si potrebbe chiedere cosa c’entri tu�o ciò con il commercio equo e sostenibile. È lecito domandarsi se e perché la disuguaglianza sono importanti.

Nel 1945, il segretario di Stato Ame-ricano Edward R. Ste�inius affermò che la sicurezza dell’umanità era connessa a due elementi fondamentali ed alla loro relazio-ne: “la ba�aglia per la pace deve essere com-ba�uta su due fronti. Il primo è quello della sicurezza, dove vi�oria è sinonimo di libertà dalla paura. Il secondo è il fronte economico e sociale, dove vi�oria significa libertà dalla po-vertà. Solo la vi�oria su entrambi i fronti può assicurare al mondo una pace duratura.”5

Ecco che da questa riflessione si può iniziare a considerare lo sviluppo di tu�a l’umanità come un obie�ivo fondamenta-le per il benessere di tu�i. Cercare di ri-durre le differenze fra ricchi e poveri non

è un’operazione a saldo zero. Aumentare le opportunità per le genti delle nazio-ni povere affinché anch’esse abbiano una vita sana e duratura e possano assicurare ai propri figli un’istruzione decente che gli perme�a di uscire dalla povertà non si traduce con una diminuzione di benesse-re delle nazioni ricche. Anzi, in un mondo che tende sempre più ad abba�ere le bar-riere, tu�o ciò contribuirà ad aumentare la sicurezza di tu�i. Un mondo senza bar-riere che si regge sulla povertà di massa è economicamente inefficiente, politicamen-te insostenibile e moralmente indifendibi-le6.

Le profonde differenze economiche e le ingiustizie sociali sono serbatoi sem-pre pieni che alimentano i confli�i armati, il commercio di schiavi ed i flussi migrato-ri e che, seppur i fenomeni che li causano sono geograficamente lontano da noi, di tanto in tanto gli effe�i di questo model-lo di sviluppo bussano alla nostra porta di casa.

ricchezza di materie prime presenti nel Paese, forse questi sono già elementi suf-ficienti a dare una spiegazione alla nascita del movimento ribelle del delta del Niger (il Mend), che comba�e contro lo sfru�a-mento straniero (probabilmente, quindi, questi non sono movimenti appoggiati per ragioni religiose, ma spinti dalla ricerca di

una vita più sicura e dignitosa).

Vi sono anche altri indicatori (aspet-tativa di vita, qualità ambientale, ecc) che non verranno analizzati in questa sede, in quanto il nostro obie�ivo era quello di rendere noto che si può andare anche oltre il PIL.

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Capitolo 1 Sviluppo Economico e Povertà

Box 4 Le guerre nascosteSpesso il costo dei confli�i sullo sviluppo umano non è ben conosciuto, anzi non sono conosciute neanche le guerre. Nella Repubblica Democratica del Congo, le vi�ime a�ribuibili alla guerra civile hanno superato il numero di vi�ime che il Regno Unito ha subito nei due confli�i mondiali messi insieme. La guerra del Darfur ha creato 2 milioni di profughi. Le vi�ime umane di questi confli�i solo saltuariamente finiscono nei telegiornali. Ma, i danni più pesanti sono nascosti e minano le possibilità di svi-luppo di lungo periodo. I confli�i generano carestie e me�ono a repentaglio la salute delle persone, distruggono le scuole, devastano i villaggi e le ci�à ed allontanano le prospe�ive di crescita economica.Si comba�e in nome della diversità etnica o religiosa, ma la vera ragione di queste guerre è il controllo delle risorse naturali (acqua, petrolio, diamanti ed altre pietre preziose). Il tu�o è alimentato dall’intervento dei Paesi esterni che qualche volta in-viano proprie truppe (Somalia, Afghanistan, Iraq per citarne alcune), ma sempre si preoccupano di fornire alle opposte fazioni in guerra un numero sufficiente di armi (solo le armi leggere, nei Paesi so�osviluppati, uccidono circa 500.000 persone l’an-no).Fonte: Rapporto sullo Sviluppo Umano 2005, pag.19 - UNDP

L’estrema povertà di massa non ne-cessariamente porta ad un confli�o arma-to, poiché nel legame fra disuguaglianza e violenza spesso intervengono anche altri fa�ori. La disuguaglianza può essere sia verticale (fra classi sociali) che orizzontale (fra diverse regioni). Sicuramente l’estre-ma povertà ed un alto livello di disugua-glianza possono costituire delle basi forti per il sorgere di violenze fra diversi grup-pi sociali. Fa�ore scatenante il confli�o è spesso dato dalla presenza di una risorsa naturale. Tra il 1990 ed il 2002 il mondo ha visto più di 17 guerre per il controllo del-le risorse naturali: diamanti in Angola e Sierra Leone, diamanti e legno in Liberia, rame, oro e legno nella Repubblica Demo-cratica del Congo. Spesso nei confli�i in-tervengono anche i Paesi vicini che sfrut-tano l’occasione per appoggiare la fazione che gli garantirà le migliori forniture di queste materie.

La guerra interrompe i commerci, ina-sprisce la povertà, favorisce le mala�ie e genera flussi umani in fuga che cercano aree più tranquille. Alimenta i movimenti estremisti e fa sì che diminuisca il livello generale di sicurezza a livello mondiale.

La povertà non genera necessaria-mente una guerra e spesso concedere alla gente un’altra alternativa per migliorare la propria situazione impedisce il formarsi ed il radicarsi di correnti violente e rivolu-zionarie. La ba�aglia contro la povertà ha lo scopo umanitario di impedire che degli individui muoiano di fame. Ma perme�e di raggiungere anche un altro importante risultato che forse è più difficile da coglie-re ed è quello della dimensione sociale e politica. Essa non solo libera il povero dal-la fame, ma lo libera anche dalla soggezio-ne politica.

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Capitolo 1 Sviluppo Economico e Povertà

Gli aiuti internazionali sono l’arma più utilizzata per contrastare la povertà ed i problemi ad essa connessi. A�ualmente, però, non si massimizza il risultato o�eni-bile, a causa di inefficienze di gestione de-gli stessi e di determinazione degli obiet-tivi che si intendono raggiungere e dei metodi per farlo. Inoltre, spesso, i Paesi ricchi vedono gli aiuti come una forma di carità, non scorgendo in essi un buon mez-zo, in un modo sempre più interconnesso, per raggiungere una maggiore sicurezza e condividere una più ampia prosperità.

In linea generale, gli aiuti interna-zionali si traducono in investimenti per la realizzazione di infrastru�ure ed altre

opere primarie nei Paesi poveri. Il proble-ma è costituito dal fa�o che per realizza-re tali opere la manodopera locale non è in grado di fare molto di più che semplici lavori di manovalanza a basso valore ag-giunto (il resto dell’opera viene realizzato da sogge�i provenienti dal Paese donato-re o da altro Paese ricco). Inoltre, termina-ta l’opera, per esempio la realizzazione di un acquedo�o, il Paese ricco me�e tu�o in mano alla popolazione locale, senza in-segnarle come utilizzare quanto costruito né come effe�uare la manutenzione; di conseguenza, non vi è alcun miglioramen-to delle condizioni di vita del Paese, ma il beneficio principale è stato a favore del donatore stesso.

Box 5 Gli aiuti internazionali in BangladeshDal 1972 al 1997 sono affluiti qualcosa come $ 30 miliardi di aiuti stranieri. Quest’an-no il contributo dall’estero sarà di circa $ 2 miliardi. Ma dov’è andato a finire tu�o quel denaro? Visitando i nostri villaggi non si vede traccia di tanta munificenza sui volti degli abitanti. Dov’è finito, dunque, il denaro?Risalendo la filiera dei fondi si fanno scoperte poco lusinghiere sul conto sia dei do-natori sia dei beneficiari. Circa i tre quarti dell’ammontare complessivo degli aiuti stranieri sono spesi nel Paese donatore: insomma, le donazioni sono diventate un mezzo, per il Paese ricco, di dar lavoro ai propri abitanti e di vendere i propri pro-do�i. Quanto all’ultimo quarto, finisce quasi per intero ad arricchire una piccola elite bengalese di consulenti, imprenditori, burocrati e funzionari corro�i, che lo spendo-no in prodo�i d’importazione o lo trasferiscono sui conti correnti stranieri, il che non apporta alcun beneficio alla nostra economia.Lo spreco dei fondi internazionali rappresenta una doppia tragedia per il Bangla-desh. Usati con più a�enzione quei fondi potrebbero in larga misura contribuire a migliorare le condizioni di vita nelle zone rurali e nelle bidonville. Per esempio, se anche solo due miliardi di dollari fossero consegnati dire�amente alle famiglie ben-galesi più povere, circa la metà della nostra popolazione si vedrebbe assegnare circa $ 200 a titolo individuale. I beneficiari lo userebbero principalmente per acquistare beni e servizi prodo�i sia dalle famiglie povere beneficiarie del proge�o sia da sog-ge�i diversi, apportando così nuova linfa all’economia rurale (grazie al moltiplicato-re della spesa pubblica, ndr).

1.3 Aiuti e commerci internazionali1.3.1 Gli aiuti internazionali

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Capitolo 1 Sviluppo Economico e Povertà

Di solito, invece, i fondi servono a costruire strade, ponti ed altre infrastru�ure, che si presume andranno ad aiutare i poveri “a lunga scadenza”. Ma sulla lunga scaden-za si ha ampiamente il tempo di morire e degli aiuti i poveri non vedono neanche il colore. Gli aiuti vengono sempre consegnati ai governi, aumentando la burocrazia, l’ineffi-cienza e gli sprechi. Se si vuole davvero che l’aiuto riesca ad incidere nella vita dei poveri, bisogna far sì che esso arrivi dire�amente nelle case.Fonte: Il banchiere dei Poveri, pag.10 – Mohammad Yunus - Universale Economica Feltrinelli, 2006

Quella riportata è ovviamente un’opinione personale relativa alla situa-zione in un determinato Paese e per que-sto motivo non è necessariamente vera ed è susce�ibile di essere contradde�a. Cer-to è che, se dopo che per decenni i Paesi ricchi hanno riversato fiumi di denaro su quelli poveri senza riuscire ad estirpare le

cause della povertà (dato che il 40% della popolazione mondiale vive con meno di $2 al giorno), siamo certi che il sistema degli aiuti internazionali debba essere rivisto. Bisogna riconoscere, tu�avia, che grazie agli aiuti internazionali è possibile raggiungere risultati positivi sopra�u�o nell’assistenza ai bambini.

Box 6 Risultati dei finanziamenti condizionati nei Paesi dell’America LatinaI programmi di finanziamento condizionati a fondo perduto in molti Paesi del-l’America Latina forniscono assistenza monetaria alle famiglie povere a condizione che vengano assunti dei comportamenti di sviluppo umano, come la frequentazione delle scuole o la partecipazione ai programmi sanitari. Questi proge�i hanno di-mostrato di avere un impa�o positivo sull’educazione, la salute e la riduzione della povertà.Per quanto riguarda le iscrizioni nelle scuole, in Messico sono aumentate del 14% quelle delle ragazze ed dell’8% quelle dei ragazzi. In Colombia i ragazzi frequentan-ti delle aree rurali fra i 12 ed i 17 anni sono aumentati del 10 %, mentre in Equador le iscrizioni nella scuola primaria sono aumentate del 10%.Questi proge�i hanno contribuito, di conseguenza, anche alla riduzione del lavoro minorile. In Nicaragua la probabilità per un bambino fra i 7 ed i 13 anni di lavorare è diminuita del 5%, mentre per un ragazzo messicano fra gli 8 ed i 17 anni è diminuita del 10-14%.I programmi di assistenza sanitaria hanno permesso un numero maggiore di vacci-nazioni, una diminuzione dei tassi di mortalità infantile ed hanno aumentato il peso e l’altezza dei bambini con meno di qua�ro anni di età.Fonte: Annual Review of Development 2006, pag.7 – World Bank

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Capitolo 1 Sviluppo Economico e Povertà

7 Mohammad Yunus - Il banchiere dei Poveri, pagg.32-33 - Universale Economica Feltrinelli, 2006

In aggiunta a quanto già de�o, bi-sogna assicurarsi che l’aiuto non si confi-guri come una semplice elemosina. Que-sto è un gesto che serve solo a calmare la coscienza, ma non riesce realmente a ri-solvere il problema, anzi ci esime dall’af-frontarlo nella sostanza. Talvolta diventa persino dannoso. Traducendo il proble-ma alla vita quotidiana, fare l’elemosina ad un mendicante al semaforo lo aiuta ad entrare in un circolo vizioso senza via d’uscita. Il mendicante trascorrerà la vita passando da un’auto all’altra. Per affron-tare onestamente il problema dovremmo impegnarci ad avviare un processo: se il donatore aprisse la portiera e chiedesse al mendicante qual è il suo problema, come si chiama, quanti anni ha, che cosa sa fare, se ha bisogno di assistenza medica e così via, quello sarebbe un modo per aiutarlo davvero. Ma allungare una moneta signi-fica implicitamente invitare il mendicante a sparire, è un modo per sbarazzarsi co-modamente del problema.

Con ciò non si vuole sostenere che si debba ignorare il dovere morale di aiu-tare, o l’istinto a soccorrere i bisognosi; si afferma solo che l’aiuto deve assumere

una forma diversa. In ogni caso, mendicare priva l’uo-mo della sua dignità, togliendogli l’incen-tivo a provvedere alle proprie necessità con il lavoro, lo rende passivo e incline ad una mentalità parassitaria: perché faticare, quando basta tendere la mano per guada-gnarsi la vita?

Il meccanismo che opera sul piano individuale è lo stesso che interviene più in grande nel campo degli aiuti interna-zionali. La dipendenza dal soccorso inter-nazionale favorisce quei governi che più si dimostrano capaci nell’a�irare nel proprio Paese i contributi. Per esempio, acce�are gli aiuti alimentari significa perpetuare la carenza di quel tipo di beni in quanto nessuno li produrrà perché non potrebbe venderli in quanto qualcun altro li rega-la7.

Probabilmente, quindi, gli aiuti in-ternazionali dovrebbero trasformarsi in un aiuto internazionale a porre fine defi-nitivamente alla condizione di povertà dei singoli individui.

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Capitolo 1 Sviluppo Economico e Povertà

Un modo sicuramente migliore di sviluppare i sistemi economici di tu�i i Paesi è dato dal commercio internaziona-le. Grazie ai cosidde�i vantaggi com-parati, ognuno si specializza in ciò che sa fare meglio e scambia i prodo�i così o�e-nuti con i propri vicini. Per esempio, un Paese potrebbe essere in grado di produr-re sia più grano che più automobili del proprio vicino. Nonostante ciò, per lui po-trebbe comunque essere conveniente spe-cializzarsi maggiormente nella produzio-ne di automobili ed importare dal vicino parte del grano che gli occorre.

Lo sviluppo dei mezzi di trasporto e dei sistemi di comunicazione ha dato linfa vitale alla crescita del commercio interna-zionale negli ultimi decenni, facendolo di-ventare un fa�ore trainante della crescita economica mondiale. Esso è stato anche sostenuto da politiche di abba�imento dei dazi doganali e di miglioramento dei rap-porti politici internazionali. Il mondo è di-ventato un grande mercato.

A questo punto potrebbe interes-sarci il funzionamento di un mercato per capire a favore di chi vanno i benefici che esso produce. Il mercato tende quasi sem-pre a massimizzare il risultato o�enibile in un’o�ica di breve periodo (anche se la storia ci ha insegnato che sono possibili degli equilibri di so�outilizzo dei fa�ori, che per semplificare l’analisi non prendia-mo in considerazione). In un mercato in concorrenza perfe�a è l’insieme degli a�o-ri presenti a determinare l’equilibrio, cioè le quantità da produrre ed il prezzo a cui venderle. In questo modo si o�iene il be-neficio massimo e questo viene ripartito in

1.3.2 Il commercio internazionalemodo equo (in base all’elasticità delle cur-ve di domanda e offerta) fra consumatori e produ�ori. Purtroppo, i mercati in concorren-za perfe�a praticamente non esistono, ma il mercato assume solitamente la forma di monopolio, concorrenza monopolisti-ca o al massimo oligopolio. Ciò significa che l’equilibrio del mercato (cioè prezzo e quantità) viene determinato solo da uno o comunque pochi a�ori presenti (che eser-citano il cosidde�o potere di mercato), che distorcono sia l’equilibrio che la ripartizio-ne del beneficio derivante dagli scambi. Con il monopolio, per esempio, si produce una quantità di prodo�o minore di quella che si produrrebbe in concorrenza perfet-ta, la si vende ad un prezzo più alto e si genera una perdita secca (cioè una parte di consumatori non possono più realizza-re lo scambio). Inoltre, il beneficio viene ripartito principalmente in favore del pro-du�ore. Il sogge�o possessore del pote-re di mercato si identifica con il più ricco o comunque con colui che è in grado di esercitare una forza maggiore (economica, politica, militare, ecc). Il conce�o si può applicare sia a mercati circoscri�i di beni e servizi, che ai commerci internazionali che ai rapporti fra Stati o gruppi di Stati.

In un sistema lasciato al libero mer-cato la ricchezza tende, quindi, a concen-trarsi nelle mani di chi è già ricco, poiché il maggior beneficio derivante dallo scam-bio va a favore del detentore del potere di mercato.

Ma è anche possibile che il mercato sia regolato e stru�urato in modo tale da essere vantaggioso per tu�i.

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IL COMMERCIO EQUO E SOLIDALE

2.1 Il comercio equo e solidale Proprio per una critica al modello commerciale tradizionale nasce il “Com-mercio Equo e Solidale”. Una presa di fat-to del fallimento di una politica economica che ha creato forti squilibri nella distribu-zione della ricchezza.

Questo commercio fin dalla sua na-scita è stato accompagnato dallo slogan: “Trade non Aid”, “Commercio non aiuti”. Perché si è subito voluto so�olineare che

era ed è molto più importante fornire gli strumenti per uscire autonomamente da situazioni di povertà, senza dipendere so-lamente da aiuti esterni, che possono crea-re dipendenze e scoraggiare i locali.Innanzitu�o questo commercio vuole of-frire un mercato per i produ�ori del Sud del Mondo, i quali in questo modo pos-sono produrre sia per esportare che per il mercato interno.

2.2 Nascita del commercio equo e solidale Questo tipo di commercio viene fat-to risalire alla fine degli anni cinquanta, quando nasce “S.O.S. Wereldhandel”, una fondazione creata da un gruppo di giovani del partito Ca�olico olandese a Kerkrade. Essi rimangono impressionati dalle noti-zie di povertà e fame provenienti dalla Si-cilia e per questo vogliono raccogliere la�e in polvere. Nello stesso periodo, OXFAM, un ONG inglese fondata da un gruppo di quaccheri e da altri gruppi religiosi, si rese conto che una delle necessità di base delle

popolazioni del Sud del mondo era tro-vare un mercato per i propri prodo�i. In questo modo non erano più “mendicanti” bisognosi di elemosine, ma partner com-merciali che ricevevano un giusto prezzo per le loro produzioni. Da queste espe-rienze nascono le prime Centrali d’impor-tazione, in Italia la prima vera esperienza si ha a Morbegno in provincia di Sondrio, dove nasce nel 1976 la Coop. Sir John Ltd che nel 1979 avvia la vendita di prodo�i artigianali in juta del Bangladesh.

2.3 Cara�eristiche del commercio equo e solidale Possiamo riassumere il perché il Commercio equo e solidale viene definito un mercato alternativo in queste definizio-ni:

1) Lavora con i produ�ori e i lavo-ratori che si trovano ai margini del mer-cato tradizionale, con essi hanno rapporti

commerciali dire�i e di lungo periodo, per consentire la pianificazione del loro futuro con più certezza;

2) Viene pagato un prezzo equo che garantisce a tu�e le organizzazioni un giu-sto guadagno. Il prezzo equo è concordato con il produ�ore stesso sulla base del co-

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Capitolo 2 Il Commercio Equo e Solidale

sto delle materie prime, di una giusta retri-buzione del lavoro svolto, più un premio destinato a finanziare proge�i di sviluppo decisi e gestiti dai produ�ori;

3) I produ�ori provengono dire�a-mente da comunità, villaggi e cooperative che sono a�ente alla reale partecipazione alle decisioni da parte di tu�i i lavoratori;

4) Rispe�a l’ambiente privilegiando e promuovendo le produzioni biologiche, l’uso di materiali riciclabili e processi pro-du�ivi e distributivi a basso impa�o am-bientale;

5) Garantisce condizioni di lavoro che rispe�ano i diri�i dei lavoratori sanci-ti dalle Convenzioni dell’Organizzazione

Internazionale del Lavoro;

6) Non ricorre al lavoro infantile e rispe�a le convenzioni internazionali sui diri�i dell’infanzia;

7) I produ�ori hanno diri�o di ri-chiedere prefinanziamenti fino al 50% del valore del contra�o per evitare di cadere nelle mani degli usurai;

8) È trasparente verso i consumato-ri, che possono conoscere l’effe�iva com-posizione del prezzo;

9) Promuove azioni informative, educative e politiche sul Commercio Equo e Solidale, sui rapporti fra Paesi svantag-giati ed economicamente sviluppati.

Gli a�ori che agiscono all’interno del Commercio Equo e Solidale sono: • I produ�ori; • Le centrali d’importazione; • Le bo�eghe del mondo; • La grande distribuzione; • Il consumatore.

Un esempio che possiamo riportare dei produ�ori è quello chiamato UCIRI. Per UCIRI si intende l’Union de las Comu-nidades Indigenas de la Regiòn del Istmo, questo proge�o è nato nel 1983 da cin-quecento famiglie di indigeni Zapotecos, Mixes e Chontales residenti in tre diversi villaggi della regione montuosa di Oaxaca, nel Sud del Messico, dopo soli due anni le famiglie erano 1500, originarie di 17 co-munità. Ora le comunità sono già 54, per un totale di 2549 famiglie. Proprio UCIRI rappresenta come un proge�o riuscito rie-sca a far progredire un’intera area.

Qui si produce caffè e tu�a la produ-zione è biologica certificata, inoltre l’80% della produzione viene esportato nel mer-cato internazionale del commercio equo, in Europa, negli Stati Uniti, in Canada e recentemente anche in Giappone.

Le entrate apportate dalla vendita di caffè hanno consentito notevoli investi-menti nella salute e nell’alloggio, inoltre c’è stato anche un tentativo di diversifica-zione della produzione, con un’apertura di una fabbrica di jeans e la produzione di fru�a. L’obbie�ivo primario di questo proge�o rimane la creazione di un mer-cato interni di caffè a prezzo equo, infa�i uno dei successi più recenti è stato proprio l’apertura di una coffe house nella ci�à di Ixtepec.

Uno degli anelli fondamentali nella catena della produzione al consumo dei

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Capitolo 2 Il Commercio Equo e Solidale

prodo�i del commercio equo e solidale sono proprio le Centrali d’importazione. Esse curano i rapporti con i produ�ori e la diffusione dei prodo�i ai canali di ven-dita, vengono chiamate Alternative Trade Organizations (ATOs)

Le ATOs si occupano di trovare o creare mercati di sbocco nei Paesi del Nord per i prodo�i del Sud del Mondo. Nei paesi del Nord del Mondo rivestono un grande ruolo politico-sociale, facendosi promo-trici di campagne di sensibilizzazione nei confronti dei consumatori e utilizzando ri-sorse e strumenti per fare pressione sulle istituzioni affinché sostengano le realtà e i principi del Commercio equo.

Le Bo�eghe del Mondo sono i di-stributori ultimi dei prodo�i del commer-cio equo e solidale. Nel mondo sono circa 4000, mentre in Italia sui 450. In esse ope-rano come volontari circa 6000 persone che offrono il loro tempo libero per stare nelle bo�eghe e portare avanti il commer-cio equo.

Le bo�eghe non si limitano solo a vendere i prodo�i provenienti dal Sud del

Mondo, ma si occupano di fare opera di sensibilizzazione, informazione e promo-zione sui temi del commercio equo e so-ciale e solidale. La maggior parte vendono anche prodo�i biologici e alcune addirit-tura vendono viaggi di turismo responsa-bile, investimenti ed assicurazioni etiche, contra�i per compagnie telefoniche no profit e altro ancora.

Ormai c’è la possibilità di trovare alcuni prodo�i alimentari equi e solidali anche in alcune catene di supermercati. Le centrali d’importazione però in questi casi applicano una serie di vincoli e condizio-ni commerciali fisse e non tra�abili, come il prezzo fisso al consumatore, un’azione informativa e culturale negli spazi dei su-permercati.

Infine, ma non per importanza, vi è il consumatore, infa�i esso è colui che ha il potere più grande all’interno di questa ca-tena, cioè il potere d’acquisto. Coloro che appoggiano il Commercio Equo chiedono al consumatore di trasformare il suo a�o quotidiano di fare la spesa in un vero a�o di giustizia e responsabilità acquistando i prodo�i del Commercio Equo.

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Capitolo 2 Il Commercio Equo e Solidale

2.4 Vecchi e nuovi obie�ivi del commercio equo e solidale

Nella Carta Italiana dei Criteri del Commercio Equo e Solidale sono riportati gli obie�ivi che si proponeva e si propone questo tipo di commercio. Punta a:

• migliorare le condizioni di vita dei produ�ori aumentandone l’accesso al mercato, pagando un prezzo migliore ed assicurando continuità nelle relazioni commerciali;

• promuovere opportunità di svi-luppo per produ�ori svantaggiati;

• divulgare informazioni sui mecca-nismi economici e stimolare nei consuma-tori la crescita di un a�eggiamento alter-nativo al modello economico dominante;

• proteggere i diri�i umani pro-muovendo giustizia sociale, sostenibilità ambientale, sicurezza economica;

• favorire l’incontro tra consumato-ri critici e produ�ori dei Paesi economica-mente meno sviluppati;

• favorire l’autosviluppo economi-co e sociale;

• Stimolare non solo i consumatori ma anche le istituzioni nazionali ed inter-

nazionali nel prendere le proprie decisio-ni.

Ora col passare del tempo a tu�i questi obie�ivi, i quali rimangono fermi ed irremovibili, se ne affiancano alcuni, più aperti al nuovo mondo che si prospet-ta. Infa�i si vuole:

• Crescere nei se�ori tradizionali del Commercio Equo;

• Cercare di allargare l’a�ività del commercio equo ad alcuni prodo�i di massa come abbigliamento e calzature;

• Confrontarsi con realtà industriali e della grande distribuzione, e diventare più professionali (cosa non facile visto che in larga parte si appoggia sul volontaria-to), senza perdere la propria identità;

• Continuare sempre a sensi-bilizzare l’opinione pubblica affinché il mercato mondiale venga regolato diversa-mente;

• Crescere nella capacità di stabilire alleanze e rapporti politico-economici, in particolare con il biologico e le organizza-zioni non governative.

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CANALI DISTRIBUTIVI

I distributori sono le organizzazioni, localizzate nei paesi occidentali, che ven-dono i prodo�i della filiera del commer-cio equo e solidale ai consumatori finali. Nei primi anni di sviluppo del commercio equo e solidale questi prodo�i venivano distribuiti in maniera pressoché esclusiva a�raverso le “bo�eghe del mondo”, nego-zi gestiti prevalentemente da organizza-zioni senza scopo di lucro (spesso grazie all’apporto determinante di volontari) e specializzati nel tra�amento esclusivo di prodo�i della filiera del commercio equo e solidale (e, in Italia in epoca più recente, anche di alcuni prodo�i biologici prove-nienti dal mondo delle cooperative socia-li che effe�uano l’inserimento lavorativo di sogge�i svantaggiati). Oltre a svolgere una a�ività di distribuzione commerciale, le bo�eghe del mondo svolgono un ruo-lo cruciale di informazione, sensibilizza-zione e divulgazione delle a�ività e delle proposte del commercio equo e solidale; si potrebbe anzi affermare che, in Italia al-

meno, questa seconda funzione sia forse più rilevante della prima, tanto che le bot-teghe del mondo spesso somigliano più a stru�ure di animazione territoriale che non a veri e propri esercizi commerciali.

In un periodo più recente, i prodo�i del commercio equo e solidale hanno in-teressato anche alcune catene della gran-de distribuzione organizzata, così come alcuni negozi tradizionali, sicché ora essi sono disponibili presso un ampio spe�ro di esercizi commerciali al de�aglio. L’in-gresso della g.d.o. nel commercio equo e solidale, così come il fa�o che alcuni gran-di produ�ori e trasformatori di commo-dity alimentari abbiano introdo�o linee di prodo�o “eque e solidali”, non è stato privo di contraccolpi, specie in Italia, dove un parte dei sogge�i che ha contribuito a fare nascere il fenomeno ritiene che una simile contaminazione sia poco opportu-na e rischi di diminuire la radicalità della proposta del commercio equo e solidale.

Secondo i più recenti dati disponibi-li sull’Europa (Krier, 2005), riferiti in larga misura agli anni 2004 e 2005, il commercio equo e solidale ha raggiunto dimensioni ragguardevoli e ha mostrato – negli anni più recenti – una dinamica di assoluto in-teresse. Innanzitu�o, dal punto di vista del-la distribuzione, i prodo�i del commercio equo e solidale sono ormai disponibili ai consumatori in una vasta rete di punti di

3.2 Il commercio equo e solidale in Europa

vendita; si tra�a di circa 79.000 stru�ure, con una ne�issima prevalenza della g.d.o. (57.000), seguita dai normali esercizi com-merciali (19.000) ed infine dalle “bo�eghe del mondo” (2.854). I punti vendita in cui sono disponibili prodo�i del commercio equo e solidale sono aumentati di circa il 24% rispe�o al 1997, con una crescita par-ticolarmente vivace proprio nel se�ore della gdo (32%) ed un aumento più conte-nuto per le piccole stru�ure commerciali (7%) e per le bo�eghe del mondo (4%). La

3.1 I distributori

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Capitolo 3 Canali Distributivi

rete commerciale del commercio equo e solidale è particolarmente diffusa, in ter-mini assoluti, in Germania (circa 24.000 punti vendita), Francia (10.000), Italia (5.500), Norvegia (4.000), Olanda (3.500), Gran Bretagna (3.200), e Svizzera (2.800); non manca una presenza significativa an-che negli altri stati membri storici della UE, mentre le prime esperienze si stanno diffondendo anche nei paesi di nuova ade-sione all’Unione. A�raverso questa amplissima rete distributiva, il commercio equo e solida-le sta accrescendo il proprio fa�urato; le stime fornite da Kries (2005), integrate dai dati sull’Italia, evidenziano un fa�urato complessivo al de�aglio all’interno della

UE pari a circa 635 milioni di euro nel 2004, determinato in massima parte da prodot-ti a marchio “Fairtrade” (circa 480 milioni di euro) e per la quota rimanente da pro-do�i (anche privi di marchio, come per l’artigianato) commercializzati a�raverso la rete delle bo�eghe del mondo. Per que-ste ultime, nel loro insieme, viene stimato un fa�urato complessivo pari a circa 155 milioni di euro. Per quello che riguarda i diversi paesi europei (includendo anche la Svizzera che non è membro della UE), è il Regno Unito il paese dove i prodo�i del commercio equo e solidale raggiungono il fa�urato più elevato (tabella 1), seguito proprio da Svizzera, Italia, Francia, Ger-mania e Olanda.

Prodo�i a marchio Bo�eghe del mondo TotaleRegno Unito 206.289 10.400 216.689 Svizzera 136.028 1.980 138.008 Italia 43.106 54.3931 97.499 Francia 69.000 9.300 78.300 Germania 58.000 20.000 78.000 Olanda 35.000 30.000 65.000 Belgio 20.000 7.700 27.700 Austria 15.781 7.500 23.281 Totale UE2 479.448 155.513 634.961

Tabella 1: fa�urato al de�aglio del commercio equo e solidale nel 2004 (migliaia di €)

1Dati 20032Include i 15 paesi aderenti alla UE nel 1995, esclusa la Grecia, per la quale non sono disponibili datiFonte: Università ca�olica del Sacro Cuore - Centro ricerche sulla cooperazione - elaborazione su dati Krier, 2005.

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Capitolo 3 Canali Distributivi

1 EFTA (European Fair Trade Association): è l’associazione europea delle Atos cui aderiscono 11 organizzazioni di 9 paesi

Tabella 2: fa�urato per abitante del commercio equo e solidale nel 2004 (€)

Svizzera 18,74 Olanda 3,99Regno Unito 3,63 Austria 2,86 Belgio 2,66 Italia 1,70 Francia 1,31 Germania 0,94 Totale UE1 1,66

1Include i 15 paesi aderenti alla UE nel 1995, esclusa la Grecia, per la quale non sono disponibili datiFonte: Krier, 2005

La rete distributiva dei prodo�i pro-venienti dal circuito del commercio equo e solidale viene alimentata – oltre che dalle importazioni effe�uate dire�amente da alcune catene della grande distribuzio-ne - dalla rete di importatori specializzati (Atos) composta da oltre 200 sogge�i a�ivi nei 25 paesi coperti dall’indagine di Kries (2005). Queste organizzazioni hanno rea-

lizzato, nel loro insieme, un fa�urato sti-mato pari a circa 243 milioni di euro. Gran parte delle a�ività è svolta da un numero relativamente rido�o di grandi organizza-zioni; basti pensare che le 11 Atos aderenti a EFTA1 hanno realizzato un giro d’affari approssimativo di circa di circa 170 milio-ni di euro, pari a circa il 70% del fa�urato totale degli importatori (tabella 3).

Se si considera invece il fa�urato per abitante, i valori più elevati sono rag-giunti in Svizzera, seguita dall’Olanda, dal Regno Unito, dall’Austria, dal Belgio e dall’Italia (tabella 2). Nonostante questi risultati piut-tosto lusinghieri, le quote di mercato dei

principali prodo�i del commercio equo e solidale sono ancora piu�osto limitate e – nei casi del caffè e delle banane, i pro-do�i probabilmente di maggiore successo – non superano il 5% di quota di mercato in praticamente nessuno dei 14 paesi ana-lizzati.

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Capitolo 3 Canali Distributivi

Questo vasto insieme di organizza-zioni di importazione e distribuzione, crea anche una certa quota di lavoro retribui-to, che l’indagine europea stima in oltre 1.500 lavoratori equivalenti tempi pieno, distribuiti tra circa 1.100 dipendenti per le Atos, le associazioni delle bo�eghe e le organizzazioni di marchio, ed in circa 450 lavoratori equivalenti tempi pieno per le

bo�eghe del mondo. Quest’ultima stima è tu�avia estremamente conservatrice se si tiene conto che, per le sole bo�eghe del mondo si stima la presenza di circa 600 la-voratori tempo pieno retribuiti. Si ritiene quindi che i lavoratori europei impegnati nel commercio equo e solidale possano ar-rivare a circa 2000 unità.

3.3 La stru�ura produ�iva del commercio equo e solidale in Italia

Nel complesso, il cees generava in Italia, tra il 2003 ed il 2004, un fa�urato stimato di oltre 97 milioni di euro (tabella 4). Tale fa�urato deriva dalla somma di tre diverse componenti:a) il fa�urato al de�aglio (oltre 54 milioni di euro) realizzato dalla rete dei circa 485 punti vendita gestiti dalle 347 bo�eghe censite dall’indagine condo�a per questo studio; b) il fa�urato all’ingrosso (oltre 18 milioni di euro) realizzato dalle 8 principali Atos italiane a�raverso la vendita di prodo�i a operatori della distribuzione tradizionale,

della gdo e della ristorazione colle�iva e, infine,c) il fa�urato al de�aglio (oltre 24 milioni di euro, stimato da Fairtrade Transfair Ita-lia) derivante dalla vendita di prodo�i a marchio Fairtrade presso la distribuzione tradizionale e la gdo. A realizzare questo fa�urato contribuivano oltre 730 lavora-tori retribuiti (equivalenti tempo pieno) - occupati in larga maggioranza (78%) dalle bo�eghe del mondo e, in misura minore, dalle Atos - oltre a circa 4.500 volontari (per un valore stimato di circa 850 equiva-lenti tempo pieno).

Tabella 3. Fa�urato delle principali Atos europee (milioni di euro)

Organizzazione Nazione 2004 1999Gepa Germania 39,7 29,8 CTM Altromercato Italia 34,3 9,3 Cafèdirect Regno Unito 25,2 12Fair Trade Organisatie Olanda 20,7 15,9 Traidcratf Regno Unito 20,6 12,4 Oxfam Fairtrade Belgio 15,5 5 Claro Fair Trade Svizzera 11,5 8,3

Fonte: Krier, 2005

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Capitolo 3 Canali Distributivi

Da questi dati emergono in maniera piu�osto chiara due indicazioni.

In primo luogo, si osserva che il commercio equo e solidale italiano ha di-mensioni complessive ancora assai mode-ste; basti pensare che i circa 100 milioni di euro di fa�urato del commercio equo e so-lidale si confrontano con fa�urati dell’or-dine di 11 miliardi di euro per CoopItalia, la principale catena della gdo italiana, 7 miliardi per Conad, 4 per Esselunga ed 2,5 per Pam, per citarne solo alcuni. Paralle-lamente, i 700 dipendenti del commercio equo e solidale si confrontano con i 52.000 di CoopItalia, i 15.000 di Esselunga, i 5.000 di Pam. Anche i dati della precedente ta-bella 2 (con acquisti di prodo�i commercio equo e solidale pari a circa 1,7 euro annui per abitante, in linea con la media UE ma inferiori a quelli dei paesi con maggiore penetrazione del fenomeno) confermano questa prima indicazione. Nondimeno il commercio equo e solidale è ogge�o di

una crescita che, sia pure inferibile solo da fonti non sistematiche, appare piu�osto evidente. In primo luogo, si osserva come il volume complessivo dei prodo�i alimen-tari, certificati da FLO, venduti in Italia sia cresciuto significativamente nell’ultimo anno (tabella 5), con un incremento medio del 25% e tassi di crescita significativi per pressoché tu�i i prodo�i. In secondo luo-go, in crescita appare anche il valore dei prodo�i equi e solidali a marchio Fairtra-de distribuiti al di fuori del circuito delle bo�eghe, passato dagli 8 milioni di euro del 2002 ai quasi 30 milioni del 2005 (fon-te Fairtrade Transfair Italia), con un tasso medio annuo di crescita superiore al 37%. Anche per le bo�eghe, in mancanza di dati sistematici, informazioni aneddotiche mo-strano un inizio di millennio favorevole, con una stasi (ma non una riduzione) nel-l’ultimissimo periodo. Possiamo dunque, nel complesso, parlare di un fenomeno di dimensioni ancora limitate ma sicuramen-te in crescita.

Tabella 4. Fa�urato al de�aglio, punti vendita ed occupati del commercio equo in Italia

Canale Fa�urato (000 di €) Punti vendita (numero)

Lavoratori retribuiti

(e.t.p.)

Volontari (e.t.p.)

Bo�eghe del mondo 54.393 486 578 744

Distribuzione tradizione, GDO e ristorazione colle�iva

43.106 5.100 n.s. n.s.

Centrali d’im-portazione, Atos n.s. n.s. 155 100

TOTALE 97.499 5.586 733 844

Fonte: Krier, 2005

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Alternativo, della cooperativa ROBA del-l’altro mondo, della cooperativa sociale Li-bero Mondo, della cooperativa Equoland, della cooperativa Equomercato, della coo-perativa sociale Ravinala e dell’associazio-ne RAM. L’insieme di questi sogge�i pro-duceva, nel 2004, un fa�urato stimato di circa 47 milioni di euro, con una presenza dominante di CtmAltromercato che, da solo, rappresentava oltre il 70% del com-parto. Molte Atos italiane hanno dunque dimensioni estremamente rido�e, tanto da essere addiri�ura più piccole di alcune bo�eghe del mondo. Nell’insieme, le Atos italiane hanno creato nel 2004 circa 150 posti di lavoro equivalenti tempi pieno, in larghissima parte rappresentati da lavora-tori dipendenti.

Capitolo 3 Canali Distributivi

In secondo luogo, si osserva come le bo�eghe del mondo rappresentino il prin-cipale canale distributivo (in termini di fa�urato) del commercio equo e solidale italiano, nonostante la rete di questi punti vendita specializzati sia sensibilmente più rido�a di quella della gdo. Si tra�a di una tendenza radicalmente diversa rispe�o a ciò che accade nel resto d’Europa, dove la distribuzione tradizionale (la gdo in par-ticolare) rappresenta il principale canale di diffusione dei prodo�i del commercio equo e solidale (si veda la tabella 1).

Questa cara�eristica del commercio equo e solidale italiano dipende sia dal

peso assai elevato del canale delle bo�e-ghe (le bo�eghe italiane realizzano un fa�urato di gran lunga superiore a quello delle bo�eghe degli altri paesi europei) e, al contrario, dal peso ancora molto mode-sto della distribuzione tradizionale come canale di distribuzione dei prodo�i del commercio equo e solidale (con un fa�ura-to paragonabile a quello dell’Olanda, con una popolazione molto inferiore a quella italiana).

Sarà dunque interessante interro-garsi sul significato e sulle possibili conse-guenze di queste “anomalie italiane”.

3.4 I trader italiani

In Italia, il canale principale è quel-lo delle Atos, organizzazioni specializza-te nel commercio all’ingrosso di prodo�i del commercio equo e solidale, che rifor-niscono sia il circuito delle bo�eghe (alle quali sono stre�amente legate, talvolta da rapporti proprietari, come ad esempio nei casi di CtmAltromercato, consorzio parte-cipato da circa 120 bo�eghe italiane, o di Commercio Alternativo, cooperativa par-tecipata da circa 70 bo�eghe e organizza-zioni senza scopo di lucro) che la grande distribuzione e la ristorazione colle�iva. In Italia, i principali sogge�i che svolgo-no in modo prevalente questa funzione di importatori e rivenditori all’ingrosso dei prodo�i del commercio equo e solidale sono o�o: si tra�a del consorzio Ctm Al-tromercato, della cooperativa Commercio

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Capitolo 3 Canali Distributivi

3.5 Le funzioni del commercio equo I dati e le descrizioni riportati sino-ra ci consentono di avanzare alcune osser-vazioni generali e sintetiche sulle funzioni che le organizzazioni di commercio equo e solidale svolgono entro il sistema econo-mico.

Le a�ività svolte dalle organizza-zioni del commercio equo e solidale ci in-ducono – un po’ provocatoriamente, data la rappresentazione “anti-sistema” che buona parte del commercio equo e soli-dale ha di sé stesso – a identificare queste istituzioni come sogge�i che operano per migliorare il funzionamento dei meccani-smi di mercato a livello locale e globale, correggendone le “imperfezioni” o i “fal-limenti”. Questa funzione è immediata-mente evidente quando le organizzazioni di commercio equo e solidale offrono ai produ�ori uno sbocco di mercato alterna-tivo rispe�o agli acquirenti locali (spesso monopsonisti) che possono esercitare un potere di mercato rilevante sui produt-tori stessi. In questo caso, l’azione dire�a dell’intermediario, rappresentato dalla organizzazione di commercio equo e so-lidale, consente di ridurre grandemente le barriere all’entrata nei mercati occiden-tali, che sarebbero altrimenti invalicabili per il singolo produ�ore. L’intermedia-rio – che opera spesso con una pluralità di produ�ori locali – può, infa�i, ridurre i costi di scoperta dei mercati, di ideazio-ne dei prodo�i, di trasporto, di istituzione delle reti di vendita (e così via), costi che i singoli produ�ori non sarebbero in grado di affrontare da soli. In tal senso, le orga-nizzazioni di commercio equo e solidale aumentano l’efficienza degli scambi ridu-cendo il potere di mercato degli acquirenti locali e facilitando l’entrata dei produ�ori nei mercati; per queste ragioni, le orga-

nizzazioni del commercio equo e solidale favoriscono l’avvicinamento dei merca-ti reali alle cara�eristiche dei “mercati di concorrenza perfe�a” descri�i dalla teoria economica.

Una tale azione di correzione dei fallimenti dei mercati può essere svolta dire�amente dalle organizzazioni di com-mercio equo e solidale, oppure può essere da esse indire�amente favorita incremen-tando le capacità di auto-organizzazione dei produ�ori. In tal senso, anche le azio-ni più “politiche” del commercio equo e solidale - come ad esempio quelle volte a creare “organizzazioni democratiche” di produ�ori (cooperative o consorzi per il conferimento dei prodo�i agricoli e per l’esportazione degli stessi) - possono esse-re interpretate come finalizzate a miglio-rare il funzionamento dei meccanismi di svolgimento delle transazioni. Un simile risultato si realizza grazie alla riduzione del potere di mercato che – in mercati di dimensioni rido�e e geograficamente poco accessibili - gli acquirenti possono eserci-tare sui venditori di beni. La riduzione del potere di mercato dell’acquirente avviene grazie alla creazione ex-novo di imprese (cooperative e consorzi di trasformazio-ne delle materie prime) di proprietà degli stessi produ�ori.

L’assegnazione ai produ�ori di ma-terie prime della proprietà delle imprese trasformatrici delle stesse (come nel caso dei consorzi di acquisto ed esportazione di caffé, cacao, banane ed altre commo-dity alimentari, sorti grazie all’azione di alcune organizzazioni di commercio equo e solidale) è – storicamente – un meccani-smo diffuso per ridurre il potere di mer-cato dell’acquirente rispe�o al venditore.

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Capitolo 3 Canali Distributivi

Anche in contesti di mercato evoluti, come quelli dei paesi occidentali si verifica spes-so che le organizzazioni che acquisiscono e trasformano materie prime alimentari (specie in mercati geograficamente limi-tati) - come ad esempio i trasformatori di prodo�i del la�e – siano state, in qualche momento della loro storia, possedute (in forma consortile) dai produ�ori stessi; l’assegnazione della proprietà dell’im-presa trasformatrice a questa categoria di stakeholders (anziché ai portatori di capi-tale) consente infa�i di minimizzare il co-sto dello svolgimento degli scambi poiché riduce i costi di transazione dei venditori, la categoria che maggiormente potrebbe soffrire del potere di monopsonio eserci-tato dall’acquirente (spesso unico) dei loro prodo�i. L’azione del commercio equo e solidale – in questo caso – è volta ad au-mentare l’efficienza dei mercati riducendo il costo delle transazioni.

Una analoga funzione di correzio-ne del ca�ivo funzionamento dei mercati viene svolta dalle organizzazioni di com-mercio equo e solidale anche a�raverso il classico meccanismo della anticipazione al produ�ore di una parte del costo della fornitura. In queste circostanze, le orga-nizzazioni di commercio equo e solidale correggono possibili “incompletezze” dei mercati locali del credito. In questi ultimi infa�i, gli intermediari creditizi sono tra-dizionalmente poco interessati ad a�ività di dimensioni rido�e e spesso poco reddi-tizie, come quelle svolte dai produ�ori che operano con il commercio equo e solidale; in più, vista l’impossibilità dei produ�ori di fornire garanzie reali, gli intermediari potrebbero renderli ogge�o di pratiche di razionamento del credito a causa di una “tecnologia di affidamento” che non è in grado di valutare i “meriti” delle singole

iniziative economiche intraprese. Analo-gamente, l’azione delle organizzazioni di commercio equo e solidale potrebbe cor-reggere il ca�ivo funzionamento del mer-cato indo�o da una mancanza di competi-zione tra fornitori di credito; la mancanza di competizione, accrescendo il potere di mercato degli intermediari, potrebbe in-fa�i portare ad un rilevante aumento del prezzo del credito. Sempre più frequen-temente, a�ività di micro-credito simili a quelle volte dai trader del commercio equo e solidale vengono messe in a�o proprio da operatori creditizi specializzati (anche a fine di lucro) che sono riusciti a svilup-pare affidabili tecnologie di selezione dei potenziali debitori e di controllo del loro operato, superando la tradizionale asim-metria informativa che cara�erizza l’eser-cizio del credito.

A fianco a queste azioni, che eserci-tano funzioni corre�ive del funzionamen-to dei mercati, il commercio equo e soli-dale ne svolge un’altra che pare muoversi nella direzione opposta e che, in talune circostanze, potrebbe rivelarsi contropro-ducente. Si tra�a del pagamento di prezzi minimi determinati in maniera tale da ga-rantire adeguate condizioni di vita ai pro-du�ori, prezzi che talvolta sono superio-ri a quelli di mercato per beni omogenei. Una simile azione può essere interpretata come una volontaria misura redistributi-va del “surplus” generato dallo scambio, ed è pertanto assimilabile ad un sussidio pagato al produ�ore dall’intermedia-rio o dal consumatore. Il pagamento di tale sussidio è perfe�amente giustificabi-le dal punto di vista “etico” (una misura redistributiva a�uata volontariamente da sogge�i privati) e può svolgere anche una rilevante funzione economica garantendo un sostegno (privato e temporaneo) ad

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Capitolo 3 Canali Distributivi

un produ�ore, finalizzato al suo rafforza-mento competitivo. La stessa misura (se protra�a nel tempo, in situazione di prez-zi di mercato calanti e senza un utilizzo finalizzato all’aumento della produ�ività del produ�ore) rischia tu�avia di rivelarsi controproducente, poiché può trasme�ere al produ�ore segnali distorti, inducendo-lo a permanere entro mercati che sarebbe invece opportuno abbandonare a causa della presenza di cronici eccessi di offerta sulla domanda. Un caso simile si è veri-ficato, ad esempio, nel mercato interna-zionale del caffé dove l’ingresso di nuovi produ�ori (molto efficienti e/o sussidiati) ha determinato un eccesso di offerta con massiccia riduzione dei prezzi. In questo contesto, il sostegno ai prezzi dei produt-

tori da parte del commercio equo e solida-le può avere senso per aiutare la crescita della loro produ�ività, così da portarli a competere con i nuovi produ�ori più effi-cienti; oppure può facilitarne la transizio-ne verso altre colture. Trascurare il segnale fornito da prezzi di mercato calanti e non aiutare il produ�ore ad accrescere la pro-du�ività o a convertire le proprie produ-zioni significherebbe esporlo ad una cro-nica situazione di difficoltà e all’esigenza di un sussidio permanente. Si tra�a quin-di di misure che debbono essere gestite oculatamente ed accompagnate da chiare azioni di sostegno e di orientamento delle scelte produ�ive dei sogge�i che ne sono destinatari.

3.6 Ruolo delle istituzioni (FMI, Banca Mondiale, WTO)

Sia il FMI che la Banca Mondiale prevedono un sistema di diri�o di voto per ciascun membro in relazione all’entità della quota versata. Questo sistema per-me�e ai 10 paesi più ricchi di controllare più della metà dei voti delle due organiz-zazioni che si traduce in un potere di in-fluenza sulle loro a�ività. (Vedi caso inde-bitamento paesi terzo mondo).

Altro interprete massimo di questo tipo di “Politica economica” è il W.T.O. ossia l’organizzazione mondiale del com-mercio nata nel 1995 con l’intento o la scu-sa di disciplinare il commercio a livello mondiale e poi “stranamente” interessata a tu�i i campi della vita dei Paesi membri, considerando l’interesse pubblico relativo alla protezione dell’ambiente e della salute quasi come un ostacolo da rimuovere per

arrivare al “libero commercio” ovvero al-l’interesse delle multinazionali. (Esempio catastrofico del TRIPS sistema di breve�i che appartengono per il 97% alle imprese dei paesi industrializzati che casualmente detengono l’80% dei breve�i per la tecno-logia e i prodo�i del sud del mondo). Inol-tre basta pensare che al suo interno non sono coinvolti rappresentanti di sindacati, consumatori o ci�adini.

L’insieme di tali dati ge�a ombre minacciose sul sistema economico mon-diale e quindi anche sul Commercio equo e solidale che deve comba�ere una ba�a-glia dura per aumentare le proprie quote mondiali che a�ualmente rappresentano solamente il 0.1% del commercio mondia-le.

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Capitolo 3 Canali Distributivi

3.7 Qualche conclusione provvisoria

I dati illustrati fin qui evidenziano come il commercio equo e solidale in Ita-lia possa essere considerato un fenomeno ancora in fase nascente, date le sue mode-ste dimensioni complessive ed il numero rido�o di consumatori che coinvolge. Allo stato a�uale paiono presentarsi due osta-coli principali alla crescita di questo inno-vativo modello di cooperazione interna-zionale per lo sviluppo.

Il primo ostacolo è rappresenta-to dallo sviluppo della rete distributiva. E’ infa�i chiaro che la rete delle bo�eghe del mondo, date le sue a�uali dimensioni, non è in grado di raggiungere gran parte dei consumatori italiani ed opera in una condizione di stru�urale marginalità (con le pochissime eccezioni rappresentate dal-le bo�eghe di grandi dimensioni). Proprio questa condizione di marginalità rischia di privare i produ�ori del sud del mon-do di una quota consistente della doman-da potenziale per i loro prodo�i se, come paiono dire le indagini di mercato, una percentuale elevata dei consumatori ita-liani sarebbe interessata ad acquistare dal commercio equo e solidale. Nel contempo, la rete distributiva non specializzata (rap-presentata in larga parte dagli esercizi del-la gdo che commercializzano prodo�i del commercio equo e solidale) - pur significa-tivamente più estesa rispe�o alla rete delle bo�eghe specializzate – genera un fa�ura-to ancora estremamente modesto, forse a causa della difficoltà che sperimenta nel trasme�ere ai consumatori quei “conte-nuti valoriali” che sono invece comunicati a�raverso le bo�eghe.

Per uscire da questa situazione di stagnazione sono possibili diverse strate-

gie alternative.

La prima è quella che mira ad un rafforzamento (nella forma della crescita dimensionale e della diffusione territoria-le) della rete distributiva specializzata del-le bo�eghe del mondo. E’ evidente che un simile risultato potrebbe essere raggiunto solo con una massiccia iniezione di risor-se economiche che consenta alle bo�eghe di uscire dall’area della marginalità grazie all’apertura di nuovi punti vendita, a su-perfici operative di dimensioni più eleva-te, con migliori localizzazioni, maggiore varietà di prodo�i tra�ati e migliore pro-fessionalità degli adde�i. Le capacità del-le bo�eghe di finanziare internamente la crescita (finalizzata all’espansione e al mi-glioramento della produ�ività) appaiono, da questo punto di vista, assolutamente insufficienti a garantire che il commercio equo e solidale possa raggiungere dimen-sioni rilevanti e rappresentare un’autenti-ca alternativa di consumo per una parte significativa dei consumatori italiani. Nep-pure le bo�eghe di dimensioni maggiori paiono infa�i in grado di sostenere lo sfor-zo finanziario richiesto da una simile stra-tegia. La redditività della bo�eghe, infa�i, non pare sufficiente a generare le risorse necessarie; inoltre, la possibilità di reperi-re tali risorse a�raverso la raccolta di capi-tale (di rischio o di debito) dei soci incon-tra diversi limiti (pur se tentata da alcune bo�eghe). La raccolta di capitale di rischio è ostacolata dalla natura “senza fine di lu-cro” delle bo�eghe, che riduce molto l’in-centivo alla loro capitalizzazione da parte dei soci. La raccolta di capitale di debito si scontra invece con la modesta capacità di generare reddito e dunque di ripagare i debiti stessi. Maggiori possibilità potreb-bero forse derivare da un coinvolgimento

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Capitolo 3 Canali Distributivi

delle centrali di importazione, ma anche la redditività di questi sogge�i è modesta (con poche eccezioni per alcuni operato-ri già a�ivi in tal senso ma con esiti che paiono comunque insufficienti). La strada della crescita finanziata internamente non pare dunque facilmente praticabile.

Qualche possibilità potrebbe for-se derivare dal finanziamento esterno at-traverso gli operatori creditizi, ma anche questa strada deve fare i conti con la red-ditività delle bo�eghe. Pare dunque indi-spensabile, per il se�ore del commercio equo e solidale, affrontare la tematica con strumenti innovativi e con accordi in gra-do di fare crescere, oltre alla rete commer-ciale, anche la sua redditività. Un’oppor-tunità è quella legata a possibili “alleanze” con operatori già a�ivi nel se�ore della distribuzione commerciale ed eventual-mente interessati ad entrare nel commer-cio equo e solidale con il ruolo di partner finanziario e tecnico (ma lasciando alle bo�eghe i contenuti “valoriali”); in questo modo, il partner potrebbe fornire risorse economiche ed umane finalizzate alla dif-fusione di una rete commerciale specia-lizzata ed alla crescita della produ�ività delle bo�eghe, da realizzare a�raverso la trasmissione di opportuni contenuti ma-nageriali ed organizzativi ad una rete di a�ività finora gestita con molta buona vo-lontà ma con modesta competenza speci-fica. Si tra�a di un’eventualità che potreb-be essere discussa e tra�ata solo con le bo�eghe di dimensioni maggiori o con le centrali di importazione, gli unici sogge�i in grado di offrire garanzie credibili a sog-ge�i con spiccata vocazione commerciale. Non è una strada facile, sia per l’elevato livello di “contaminazione culturale” che essa comporta (che obbligherebbe le bot-teghe a confrontarsi con le tematiche del-

l’efficienza e della redditività e l’eventuale operatore commerciale a fare i conti con il tema delle motivazioni e con la necessità di effe�uare investimenti anche in a�ivi-tà a modesta redditività immediata, come quelle culturali e di sensibilizzazione) che per la complessità degli accordi contrat-tuali e proprietari che sarebbero indispen-sabili ad a�uarla. Una possibilità alternativa è quella di non puntare ad una capillare rete distri-butiva specializzata, ma di favorire mag-giormente la diffusione dei prodo�i del commercio equo e solidale entro la distri-buzione tradizionale, correggendone i di-fe�i rappresentati sopra�u�o dalla “aset-ticità” della proposta e dalla modestia dei contenuti culturali trasmessi nei luoghi di vendita. In questa direzione si potrebbero immaginare molte iniziative diverse, alcu-ne delle quali già in corso di realizzazione. In primo luogo si può pensare che i con-tenuti culturali possano essere veicolati in momenti distinti rispe�o alla commercia-lizzazione dei prodo�i, sulla linea delle iniziative di comunicazione ado�ate sia dal mondo delle bo�eghe (ad esempio le fiere, ecc.) che da Fairtrade-Transfair Italia e che mirano a sensibilizzare i consumato-ri a�raverso i media o iniziative dedicate al commercio equo e solidale. Un consu-matore reso sensibile dall’insieme delle iniziative culturali e di animazione, gesti-te sia a�raverso eventi mediatici che a�ra-verso il lavoro capillare delle bo�eghe, po-trebbe poi trovare nei luoghi tradizionali di consumo i prodo�i del commercio equo e solidale. Oltre a ciò, gli stessi luoghi tra-dizionali di consumo potrebbero essere ogge�o di “animazione” da parte dei vo-lontari sensibili a queste tematiche, con un alleanza fru�uosa tra efficienza nella logi-stica e nella distribuzione (da parte dei ca-

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Capitolo 3 Canali Distributivi

nali commerciali tradizionali) ed efficienza nella comunicazione e sensibilizzazione (da parte del mondo delle associazioni di commercio equo e solidale). Le diverse or-ganizzazioni vedrebbero dunque sfru�ati pienamente i rispe�ivi vantaggi compa-rati: le bo�eghe nella sensibilizzazione, le stru�ure commerciali nella distribuzione. Il secondo ostacolo alla crescita del commercio equo e solidale è rappresen-tato dalla capacità ancora modesta delle

organizzazioni italiane di illustrare e giu-stificare adeguatamente a consumatori e ci�adini i benefici della propria a�ività, specie per quello che riguarda i benefi-ci ricavati dai produ�ori. Un certo grado di auto¬referenzialità e la ritrosia per i processi di certificazione rischiano infa�i di generare, nel medio termine, risposte negative da parte dei ci�adini. Anche da questo punto di vista uno sforzo di aper-tura, confronto e dialogo sarebbe larga-mente auspicabile.

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CERTIFICAZIONI E TUTELA

In generale è possibile riconoscere il commercio equo e solidale quando:

1) Il prodo�o è etiche�ato FAIR-TRADE, che implica la certificazione in relazione al rispe�o dei principi del Com-mercio equo e solidale nella realizzazio-ne di un prodo�o specifico. L’organismo di certificazione è il F.L.O. International (Fair Labelling Organization) che in Italia è rappresentato dal marchio TRANS FAIR – FAIR TRADE ITALIA.

2) L’organizzazione che importa è distribuisce i prodo�i è una F.L.O., e la certificazione non riguarda il singolo pro-do�o ma l’intero operato. La IFAT (International Federation of Alter-native Trade) che rappresenta l’associazio-ne internazionale del Commercio equo e

solidale, ha sviluppato un sistema di mo-nitoraggio per un controllo nelle importa-zioni e distribuzioni delle organizzazioni certificate e soltanto se una organizzazio-ne è riconosciuta dagli standard IFAT può utilizzare il marchio FAIR TRADE ORGA-NIZATION.

3) L’Accreditamento di AGICES (Assemblea generale italiana del C. E e S.)L’AGICES è una associazione che rappre-senta le organizzazioni del commercio equo e solidale (diversi importatori e le Bo�eghe del Mondo); è inoltre deposita-ria della Carta Italiana dei criteri del com-mercio equo e solidale. Le associazioni riconosciute da AGICES sono iscri�e e ac-creditate dal Registro Italiano delle Orga-nizzazioni di Commercio Equo e Solidale (Registro AGICES).

Abbiamo visto che il commercio equo e solidale rappresenta un approccio alternativo al commercio convenzionale, si fonda sulla crescita della consapevolez-za dei consumatori. L’educazione, l’infor-mazione e l’azione politica.

Per rispondere all’esigenza di man-tenere integri i principi applicati nella pro-duzione e commercializzazione dei pro-

do�i di commercio equo e solidale e per consentire l’allargamento dei canali distri-butivi, sono stati intrapresi percorsi verso la definizione di un sistema di certificazio-ne. A tal fine esistono delle organizzazioni di secondo livello che certificano il singolo prodo�o o accreditano l’organizzazione garantendo maggiore affidabilità ai con-sumatori.

4.1 Riconoscimento prodo�i equo solidali

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Capitolo 4 Certificazioni e Tutela

4.2 Certificazioni di prodo�o e di filiera

Dall’inizio delle esperienze del com-mercio equo e solidale, verso la fine degli anni ’60, se ne sono affermati due modelli complementari.

Il primo è il commercio equo e so-lidale della Filiera, con il quale vengono controllati dall’IFAT i diversi passaggi dalla produzione alla distribuzione e im-portazione, l’IFAT si occupa di garantire i requisiti di trasparenza, il divieto del la-voro minorile e di definire e prestabilire parametri di produzione che siano eco so-stenibili.

A�raverso un sistema di accredita-mento l’organizzazione socia riceve il mar-chio FTO (Fair Trade Organization) che certifica l’appartenenza alla filiera. Que-sto marchio si riferisce, quindi, all’operato complessivo dell’organizzazione, e non al singolo prodo�o commercializzato. Il secondo modello di commercio equo e solidale. E’ quello basato sulla certi-ficazione dei prodo�i: questo ha consentito la diffusione dei prodo�i di equo - solidali

nei canali della distribuzione tradizionale. Di solito all’interno dei supermercati viene dedicato uno spazio apposito a questi pro-do�i, al fine di evidenziarne le differenze dagli articoli tradizionali e stimolare quin-di il consumatore a scegliere un prodo�o dall’alto valore sociale.

La certificazione viene rilasciata da un’organizzazione che opera a livello na-zionale, in coordinamento con altri enti di certificazione rappresentati in FLO (Fair Labelling Organization). Il ruolo del coor-dinamento internazionale è quello di for-mulare gli standard per i principali pro-do�i agricoli commercializzati, stabilendo i prezzi minimi e le condizioni di lavoro da rispe�are. A livello nazionale, le orga-nizzazioni di marchio coordinano la tra-sformazione e la distribuzione, vigilando sull’uso della certificazione rilasciata.

In Italia FLO è presente a�raverso Transfair Italia, che gestisce la distribuzio-ne dei prodo�i certificati all’interno dei supermercati commerciali.

4.3 Chi stabilisce i criteri del commercio equo e solidale

Alla fine degli anni ’90, si sono com-piuti numerosi passi avanti per tradurre in regole prassi già consolidate dal movimen-to equo e solidale negli anni precedenti: nel 1998, ad esempio, News! ha approvato la Carta Europea dei Criteri del Commer-cio Equo e Solidale, in cui vengono definiti tu�i i sogge�i coinvolti e gli standard da rispe�are; a livello internazionale invece, IFAT ha iniziato il percorso di definizione

e controllo dei criteri dapprima a�raverso la formulazione di un codice di condo�a, giungendo nel 2002 alla definizione dei Fair Trade Standards, che stabiliscono tan-to gli standard quanto gli indicatori per misurare l’aderenza delle organizzazioni.

In Italia, è stato intrapreso un per-corso di definizione dei criteri specifico: muovendo da quanto era già stato con-

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Capitolo 4 Certificazioni e Tutela

diviso in ambito europeo, i criteri hanno considerato la specificità del nostro Paese, dove il ruolo delle bo�eghe del mondo è particolarmente significativo e diversi-ficato. Nel 1999, si è riunita per la prima volta l’Assemblea Generale Italiana del Commercio Equo e Solidale (AGICES), formalmente costituita come associazio-

ne nel 2003. AGICES è il sogge�o depo-sitario della Carta Italiana dei Criteri del Commercio Equo e Solidale, nonché re-sponsabile dell’istituzione e della gestione del Registro Italiano delle organizzazioni di Commercio Equo e Solidale: Registro AGICES.

4.4 Chi controlla i sogge�i accreditati

E’ importante al fine della tutela del consumatore e anche in relazione alla pos-sibile espansione del commercio equo e solidale conoscere chi controlla i sogge�i accreditati dalle organizzazioni di cui ab-biamo sopra descri�o i cara�eri principa-li.

Nel caso dell’accreditamento, ossia del riconoscimento di un’organizzazione come FTO (Fair Trade Organization), l’or-ganismo di coordinamento che accredita prevede un insieme di passaggi per veri-ficare il rispe�o dei criteri e monitorarne la continuità. Il sistema di monitoraggio IFAT ha compiuto notevoli passi avanti negli ultimi anni: dalla formulazione di un codice di condo�a nel 1995, si è giunti a un sistema più complesso, articolato in tre fasi: auto-valutazione, controllo reciproco e verifiche esterne a campione. Ogni due anni, le FTO procedono all’autovaluta-zione, supportati da IFAT a�raverso delle linee guida che forniscono indicatori mi-surabili per valutare il rispe�o degli stan-

dard.

La seconda fase si basa sul control-lo reciproco, ovvero nella redazione di un rapporto che descriva la pratica reale del-le organizzazioni partner, senza costituire uno strumento di denuncia, ma piu�osto un momento di trasparenza teso a rin-forzare il dialogo tra i diversi sogge�i. I rapporti vengono utilizzati come base va-lutativa da una Commissione di accredita-mento che stabilisce il rilascio, la conferma o l’annullamento dell’accreditamento.Infine una volta l’anno viene effe�uata una revisione esterna su un campione del 5-10% dei rapporti ricevuti dalla commis-sione.

IFAT ha registrato un marchio per le organizzazioni che so�oscrivono il codice di condo�a. In Italia AGICES ha indivi-duato standards e identificatori verificabili che rendono concreti i principi della Carta Italiana dei criteri del commercio equo e solidale.

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Capitolo 4 Certificazioni e Tutela

4.5 Chi controlla i prodo�i certificati Di analoga importanza è la cono-scenza degli enti e delle organizzazioni che controllano i prodo�i certificati. Per ciò che riguarda l’utilizzo del marchio e i sistemi di certificazione dei prodo�i, il lavoro di coordinamento tra le organizza-zioni nazionali di marchio svolto da FLO (Fair Labelling Organization) ha portato all’adozione di un marchio unico FairTra-de. Tali operazioni avvengono su “due fronti”: F.L.O. incentra la propria a�ività sui produ�ori dei paesi del Sud, mentre le organizzazioni Nazionali (per l’Italia: TRANSFAIR ITALIA) si occupano delle imprese dei paesi del Nord che distribui-scono e commercializzano i prodo�i.

FLO collabora inoltre con un grup-po di esperti indipendenti che visita rego-larmente i gruppi di produ�ori, relazio-nando a FLO – Cert LTD (una società nata per assicurare maggiore trasparenza nelle a�ività di monitoraggio). Il monitoraggio, inoltre, è reso co-stante dall’a�ività di revisione periodica del Trade Audit Department, che verifica il rispe�o delle condizioni lavorative e pro-du�ive certificate: dal pagamento del giu-sto prezzo al rispe�o dei criteri per prodot-to. Per o�enere il marchio FLO sui propri prodo�i, un’organizzazione di produ�ori deve rispondere a criteri di natura sociale

ed economica, dall’organizzazione demo-cratica del lavoro al rispe�o della norme de�ate dall’Organizzazione Internaziona-le del Lavoro sulle condizioni lavorative. Per rispe�are i criteri prescri�i, le orga-nizzazioni di produ�ori devono, in primo luogo, soddisfare i “requisiti minimi” e, in seguito, programmare una strategia adat-ta a raggiungere i “requisiti progressivi”, che approfondiscano e consolidino i pri-mi. Una volta appurata la presenza delle condizioni eque di produzione, il control-lo si rivolge al prodo�o.

A seguito dell’iscrizione nei registri internazionali di FLO dei prodo�i certifi-cati, le organizzazioni nazionali di certifi-cazione rilasciano una licenza all’uso del marchio (royalty) da parte del sogge�o commerciale tradizionale. L’azienda deve impegnarsi a rispe�are i criteri del Com-mercio Equo e Solidale stabiliti nel siste-ma di certificazione FLO, so�oscrivendo un vero e proprio contra�o di sublicenza del marchio, rispe�ando il prezzo minimo garantito e impegnandosi a stabilire rela-zioni commerciali stabili con i produ�ori coinvolti. Il marchio, quindi, certifica il rispe�o dei criteri del commercio equo e solidale limitatamente al lavoro dei pro-du�ori e al modus operandi dell’azienda rispe�o allo specifico accordo commercia-le con i produ�ori.

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Capitolo 4 Certificazioni e Tutela

4.6 Problematiche a�uali Non tu�i i prodo�i “equi e solidali” che si trovano in commercio sono tu�avia “certificati” a�raverso la catena di control-li e marchi cui abbiamo fa�o finora cen-no, e questo per diverse ragioni. In primo luogo, alcuni sogge�i del commercio equo e solidale (in particolare le centrali di im-portazione, ma anche alcune bo�eghe del mondo che intra�engono un rapporto di-re�o con i produ�ori) hanno a che fare con produ�ori così svantaggiati e marginali da non essere in grado di rispe�are tu�i i requisiti richiesti da FLO per o�enere la certificazione; nei confronti di questi pro-du�ori, gli importatori svolgono azioni di assistenza che mirano a farne crescere le capacità tecniche, commerciali ed am-ministrative così da consentire loro di ri-spe�are i requisiti imposti dal processo di certificazione gestito da FLO. In queste cir-costanze, al di là delle rassicurazioni forni-te dai sogge�i importatori dei beni (Atos o bo�eghe), non esistono garanzie precise (e processo certificato secondo metodologie trasparenti e condivise) sulla natura e le cara�eristiche dei processi che hanno por-tato alla creazione ed alla vendita di un prodo�o. Una veloce analisi dei siti inter-net di molti sogge�i italiani impegnati in queste a�ività mostra che molto potrebbe essere fa�o per aumentare l’informazione e la trasparenza; rimane comunque irri-

solto il problema di un evidente confli�o di interessi per il sogge�o che svolga si-multaneamente sia il ruolo di importatore e distributore di un prodo�o sia quello di certificatore del processo produ�ivo.

In secondo luogo, il processo di creazione degli standard e la gestione dei processi di certificazione si sono scontrati con le difficoltà connesse alle produzioni di beni artigianali, per definizione poco o per nulla standardizzate, rispe�o alle quali l’applicazione di alcune delle carat-teristiche del commercio equo e solidale si presenta oltremodo complessa. Basti pen-sare al principio del pagamento di prezzi “equi”, una categoria difficile da concet-tualizzare, ma che viene solitamente im-plementata sulla base di tre principi: il prezzo è stabilito congiuntamente da pro-du�ore ed acquirente (cioè non è necessa-riamente quello vigente sul mercato inter-nazionale del bene ogge�o di tra�ativa); il prezzo è stabilito ad un livello sufficiente a garantire uno standard di vita dignitoso al produ�ore; il prezzo così determinato rappresenta una soglia minima che viene pagata al produ�ore solo quando il prezzo quotato sui mercati internazionali sia infe-riore ad essa; negli altri casi, l’acquirente pagherà i prezzi quotati dal mercato.

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I PREZZI

È stato affermato che il principa-le scopo del commercio equo e solidale è quello di ridurre la povertà cercando di accrescere il reddito e le opportunità dei produ�ori dei Paesi in via di sviluppo. Per raggiungere questo obie�ivo, il commer-cio equo e solidale fornisce ai produ�ori un mercato prote�o e assistenza nello svi-luppo delle capacità necessarie ad entrare nel mercato convenzionale delle esporta-zioni, garantendo ai produ�ori l’accesso dire�o al mercato europeo, evitando così il ricorso agli intermediari ed agli specula-tori. Talvolta, per facilitare l’investimento iniziale (sopra�u�o dove non è presente il microcredito) e per impedire agli usurai di concludere facili affari, gli importatori equo – solidali pagano parte del prezzo in anticipo. In questo modo si instaurano re-lazioni a lungo termine che garantiscono maggior sicurezza ai produ�ori.

Il prezzo viene concordato dire�a-mente fra produ�ori ed importatori tra-mite la stipulazione di contra�i di lunga durata. Il prezzo pa�uito cerca di essere “equo”, cioè non solo deve coprire i costi individuali di produzione (vale a dire i co-sti monetari sostenuti dal produ�ore), ma deve anche internalizzare i costi sociali ed ambientali dovuti all’a�ività produ�iva; in altre parole, entrano nella funzione di

costo individuale anche le esternalità ne-gative, cioè gli effe�i negativi che l’a�ività ha sui terzi estranei alla produzione (per esempio: l’utilizzo di fertilizzanti a basso impa�o ambientale minimizza i danni alle acque e quindi non vengono diminuite le possibilità di reddito dei pescatori. Il pro-du�ore sostiene un costo maggiore per i fertilizzanti perché si accolla il danno che avrebbero subito i pescatori, dovuto al minor pescato, se egli avesse utilizzato fertilizzanti tradizionali). Infine, il prezzo deve essere sufficiente a garantire al pro-du�ore (ed ai suoi collaboratori) un livel-lo di vita dignitoso e a perme�ergli di ef-fe�uare degli investimenti futuri. Inoltre, la lunga durata del contra�o perme�e al produ�ore di pianificare l’a�ività e di non essere schiavo dell’assillo quotidiano delle vendite a prezzo di mercato.

In conclusione, si può affermare che il prezzo di partenza viene fissato seguen-do il consiglio di John Maynard Keynes: “Il giusto prezzo non dovrebbe essere fissato al livello più basso possibile, ma ad un livello sufficiente che assicuri al produ�ore condizio-ni di vita consone al luogo in cui vive…ed è interesse di tu�i i produ�ori che questo prezzo delle merci non scenda so�o il livello fissato e per questo i consumatori non hanno diri�o di aspe�arsi che ciò avvenga”1.

A questo punto è necessario effe�ua-re un’analisi dei prezzi dei prodo�i equi e solidali. La gente è portata a pensare che questi beni costino di più rispe�o a quelli

tradizionali. Nella maggior parte dei casi, in effe�i, il prezzo al consumo è superiore. Ma perché? E sopra�u�o, come mai quel-lo dei prodo�i tradizionali è inferiore?

5.1 La fase iniziale: accordi di fornitura e prezzo di partenza

1 La traduzione è nostra

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Capitolo 5 I Prezzi

2 Sono i mercati dei beni

Nel mercato tradizionale delle com-modity2, per esempio, non vi è alcun ac-cordo a priori. I produ�ori producono la materia prima e successivamente la ven-dono al prezzo di borsa. Ad acquistarlo sono principalmente gli intermediari e gli speculatori. A differenza del precedente, questo tipo di prezzo viene fissato in base all’andamento del mercato (domanda e of-ferta) e solitamente non rispecchia il costo effe�ivo di produzione, né si preoccupa di internalizzare i costi esterni. Poiché la quantità domandata finale di questi pro-do�i è abbastanza costante nel tempo, il prezzo varia in basa alle flu�uazioni del-l’offerta ed alle speculazioni. Capita, per esempio, che, a causa di eventi climatici sfavorevoli, alcuni raccolti vadano distrut-ti. L’offerta diminuisce, gli speculatori en-trano in azione e, seppur al produ�ore iniziale sia pagato praticamente il prez-zo base, il prezzo della materia aumenta, perme�endo agli intermediari di avere un ampio margine di guadagno. Nel caso con-trario in cui si verifichi un eccesso di offer-ta, per esempio a causa dell’ingresso di un nuovo produ�ore, come avvenne quando iniziò a vendere caffé anche il Vietnam, il prezzo della materia crolli. Ma il minor prezzo viene quasi completamente scari-cato sui produ�ori, poiché gli intermedia-ri si rifiutano di acquistare al prezzo base e i produ�ori vendono so�ocosto pur di evitare di dover bu�are tu�o il raccolto.

Perché il prezzo di partenza si forma così? Tu�o questo avviene perché i pro-du�ori essendo piccoli, numerosi e scar-samente coordinati tra loro sono la parte debole del rapporto e quindi subiscono l’iniziativa degli intermediari, che al con-trario, sono pochi e molto ben organizzati. Per esempio, il 40% del mercato del caffé viene gestito da solo qua�ro multinazio-nali. Inoltre, i produ�ori hanno scarsa co-noscenza dei mercati e sono “costre�i” ad affidarsi agli intermediari.

In conclusione, vediamo che nel-la prima fase di formazione del prezzo di vendita, la differenza è dovuta non al prezzo maggiore dei prodo�i equo – so-lidali, ma al fa�o che quello del mercato tradizionale è un prezzo che non rispec-chia tu�i i costi di produzione (esternalità negative, ecc). Inoltre, gli intermediari tra-dizionali saldano i debiti verso i produt-tori agricoli con grande ritardo (si arriva anche ad un anno). In questo modo essi possono rivendere il prodo�o ad un prez-zo più basso perché non hanno anticipato somme di denaro, scaricando questo costo sui produ�ori che spesso sono costre�i ad indebitarsi con gli usurai. Le centrali di importazione equo – solidali, come visto, talvolta anticipano addiri�ura il pagamen-to e quindi rivenderanno il prodo�o ad un prezzo maggiorato degli oneri finanziari.

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Capitolo 5 I Prezzi

5.2 Metodo di produzione A questo punto è necessario analiz-zare la merce ogge�o dello scambio. Per quanto riguarda i prodo�i agricoli, per esempio, nella quasi totalità dei casi la loro provenienza è di origine biologica. Le coltivazioni biologiche sono condot-te in modo tale da preservare la capacità produ�iva del terreno e di evitare conta-minazioni chimiche degli stessi prodo�i, delle acque e dell’aria. Per evitare l’azione nociva dei parassiti e per la concimazione vengono utilizzati solo sistemi naturali. Non sono coltivate specie geneticamente modificate.

Queste tecniche fanno sì che si ot-tenga un prodo�o qualitativamente su-periore, ma incidono negativamente sulla resa dei terreni riducendo le quantità rac-

colte. Per questa ragione il prezzo unitario è più elevato.

Da alcuni anni anche l’Unione Eu-ropea sta incoraggiando questo tipo di coltivazioni, i cui prodo�i vengono con-traddistinti da un marchio apposito ed i produ�ori ricevono un finanziamento maggiore rispe�o a quelli tradizionali. Ovviamente queste misure sono riservate alle coltivazioni europee.

Dal punto di vista del lavoro, i pro-du�ori equo – solidali devono aderire alla Carta Internazionale dei Diri�i dei Lavo-ratori e non possono avvalersi di manodo-pera a basso costo (come quella infantile). Tu�o ciò fa sì che il prezzo del prodo�o sia più elevato.

5.3 Accesso ai mercati 1: i dazi Concluso lo scambio giunge il mo-mento di trasportare il prodo�o verso i mercati di sbocco. Il problema è che l’ac-cesso ai mercati non sempre avviene in condizioni paritarie. Infa�i, le modalità di circolazione dei prodo�i sono differen-ti in base alla nazionalità di origine degli stessi. Così, alcuni prodo�i possono circo-lare liberamente (si pensi, per esempio, al prodo�o agricolo italiano che può essere

venduto in qualunque Paese dell’Unione Europea senza che il suo prezzo venga gravato da dazi doganali); ad altri vengo-no imposti dazi esigui; ad altri ancora dei dazi più pesanti. Per capire queste diffe-renze, abbiamo riportato una tabella indi-cante il valore percentuale medio dei dazi rispe�o ai prezzi dei prodo�i, applicati dai maggiori Paesi importatori in base al luogo di origine delle merci.

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Capitolo 5 I Prezzi

Tabella 1: Dazi doganali sulle importazioni

Esportatore-------------------------Importatore

Paesi Sviluppati

OCSE

Paesi in via di Sviluppo

Paesi So�osviluppati

USA 1,2 4,5 13,6Unione Europea 2,5 4,5 5,0Giappone 1,6 4,7 5,0

Fonte: Elaborazione UNDP (Human Development Report 2005, pag.127) su dati 2001 del IMF e World Bank

Dalla tabella si evince che i grandi Paesi importatori a�uano delle politiche abbastanza protezionistiche sopra�u�o nei confronti dei prodo�i che provengo-no dai Paesi meno sviluppati (ovviamen-te non è per loro conveniente ostacolare i commerci reciproci). Come de�o, i dazi riportati in tabella si riferiscono al valore medio applicato nell’anno di riferimento. Infa�i, la situazione è, dal punto di vista

dei Paesi non OCSE, anche peggiore. I Paesi ricchi hanno un sistema a tassazione crescente con meccanismo alquanto per-verso. Quando importano prodo�i grezzi applicano dazi bassi, quando comprano prodo�i lavorati i dazi sono molto più ele-vati. In questo modo, cercano di evitare che i Paesi in via di sviluppo aggiungano valore al prodo�o, riservandosi così que-sta facoltà.

Box 1 Il meccanismo dei daziIn Giappone i dazi sui prodo�i lavorati sono se�e volte maggiori di quelli sui prodot-ti grezzi. Nella UE, per esempio, i dazi sul cacao partono dallo 0% sulla materia grez-za, salgono al 9% sulla pasta e arrivano al 30% sul prodo�o finito. Questa stru�ura tariffaria disincentiva i Paesi in via di sviluppo dall’aggiungere valore e favorisce il trasferimento di valore dai produ�ori dei Paesi poveri alle imprese dei Paesi ricchi. A dimostrare ciò, basti pensare che il 90% del cacao cresce nei Paesi in via di sviluppo, mentre solo il 44% della pasta ed il 29% della polvere vengono esportati da questi Paesi. Il sistema dei dazi fa sì che Paesi come Ghana e Costa d’Avorio esportino cacao non lavorato, rimanendo legati, così, al mercato molto volatile della borsa (come già de�o, la domanda di prodo�i finiti è più stabile). Nel fra�empo, la Germania è il più grande esportatore al mondo di prodo�i finali a base di cacao (cioccolata, burro di cacao, ecc.) e la parte maggiore di valore derivante dalla produzione africana rimane quasi interamente in Europa.Fonte: HDR 2005, pag.127 - UNDP

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Capitolo 5 I Prezzi

Poiché i prodo�i del commercio equo e solidale provengono da Paesi in via di sviluppo o so�osviluppati, la politica dei dazi doganali contribuisce ad aumen-tare ulteriormente la differenza tra il loro prezzo e quello dei prodo�i tradizionali. Quindi il prezzo pagato dal consumatore è relativamente più alto, poiché una quota dello stesso costituisce un’entrata fiscale

per lo Stato e per questo anch’egli, indiret-tamente, nei beneficerà.

È doveroso segnalare che nel 2000 l’Unione Europea ha preso l’impegno di rivedere entro il 2008 le norme che regola-no i rapporti commerciali con i Paesi ACP (Africa, Caraibi e Pacifico) più poveri.

5.4 Accesso ai mercati 2: i sussidi Nel paragrafo precedente abbiamo analizzato come i mercati dei prodo�i dei Paesi sviluppati siano prote�i da una po-litica di dazi a loro favorevoli. In aggiunta a ciò, i Paesi sviluppati sussidiano le pro-prie produzioni per aumentarne la com-

petitività. Sopra�u�o nel se�ore agricolo, le politiche di finanziamento pubblico fan-no sì che il prezzo al consumo dei prodot-ti sia più basso. Abbiamo riportato alcuni grafici relativi ai sussidi agricoli nei Paesi OCSE.

Fonte: elaborazione UNDP (HDR 2005, pag. 129) su dati OCSE 2005

Fonte: elaborazione UNDP (HDR 2005, pag. 129) su dati OCSE 2005

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Capitolo 5 I Prezzi

Dai grafici si evince che le produ-zioni occidentali sono finanziate in ma-niera cospicua. La stru�urazione di questi finanziamenti, oltre che penalizzare i pro-do�i importati, crea delle ineguaglianze anche all’interno dei Paesi ricchi. Infa�i, la CAP (Politica Agricola Comunitaria) favo-

3 Da HDR 2005, pag. 130 - UNDP

risce i grandi produ�ori, ai quali vengono concessi finanziamenti maggiori, e disin-centiva i piccoli coltivatori. Basti pensare che nel 2003 sei produ�ori europei di zuc-chero hanno diviso un sussidio di € 831 milioni3.

Box 2 Zucchero amaroL’Unione Europea assicura € 43 miliardi di sussidi dire�i ai produ�ori. Il se�ore agri-colo europeo impiega circa il 2% della forza lavoro, ma assorbe circa il 40% dei finan-ziamenti comunitari. Lo zucchero è la produzione più aiutata ed è un o�imo caso di studio di comportamento irrazionale dell’a�ore pubblico. Ai produ�ori ed alle imprese di trasformazione viene assicurato un prezzo di vendita qua�ro volte più alto di quello del mercato mondiale e ciò genera una sovrapproduzione di 4 milioni di tonnellate annue. Questo surplus viene allocato sui mercati internazionali grazie ad un ulteriore sussidio pubblico sulle esportazioni pari a $ 1 miliardo, pagato ad un piccolo gruppo di imprese di trasformazione del prodo�o. Il risultato: l’Europa è il secondo esportatore mondiale pur senza possedere alcun vantaggio comparato rispe�o agli altri concorrenti. Il costo di questa politica viene pagato dai Paesi in via di sviluppo. L’esportazione di zucchero europeo ha fa�o crollare il prezzo mondiale del 33% e si stima che gli altri Paesi abbiano subito ingenti perdite ad essa dovute: $494 milioni per il Brasile, $151 milioni per il Sud Africa e $60 milioni per la Tailandia (Paese dove 60 milioni di persone vivono con meno di $2 al giorno). Nel fra�empo, il Monzabico, che possiede un’o�ima industria di trasformazione dello zucchero, è tenuto fuori del mercato europeo a causa di una quota di export consentita pari al valore europeo di qua�ro giorni di consumo di zucchero.Fonte: Human Development Report 2005, pag. 130 – UNDP

Per concludere, bisogna considerare che i sussidi, oltre a distorcere i mercati ren-dendo i prodo�i nostrani più convenienti, sono indire�amente pagati dai ci�adini e quindi il prezzo dei prodo�i tradizionali è più basso, poiché in parte è stato già cor-risposto dal consumatore finale tramite il sistema fiscale (al contrario di quanto det-to alla fine del paragrafo precedente per i

prodo�i gravati da dazi).

È doveroso segnalare, anche in que-sto caso, che le politiche agricole comuni-tarie stanno cambiando e che lentamen-te il livello dei sussidi pubblici a favore dell’agricoltura sta diminuendo anche se, come sopra descri�o, si a�estano ancora su livelli elevati.

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Capitolo 5 I Prezzi

5.5 La distribuzione In ultima analisi va considerato il canale di distribuzione. Il commercio equo e solidale, per quanto riguarda l’Italia, si affida principalmente ad una fi�a rete di bo�eghe, appoggiandosi solo in manie-ra marginale alla grande distribuzione. Questo sistema di vendita non perme�e di usufruire appieno dei vantaggi delle

economie di scala e tende ad aumentare il costo fisso unitario che grava sui prodo�i così venduti. È una scelta che fa perdere competitività. Va considerato, infine, che spesso il fa�ore lavoro delle bo�eghe non è remunerato, in quanto questa a�ività è gestita da volontari (altrimenti il prezzo finale sarebbe ancora maggiore).

5.6 Considerazioni finali

In questo capitolo abbiamo ana-lizzato l’iter di formazione del prezzo di vendita dei prodo�i. Abbiamo constatato che la differenza di prezzo fra prodo�i tra-dizionali e equo – solidali è principalmen-te legata a tu�a una serie di fa�ori esterni che distorcono il mercato già prima che la produzione abbia inizio. Abbiamo visto che parte della differenza di prezzo è do-vuta alle politiche commerciali e fiscali dei Paesi ricchi, che hanno il comprensibile in-tento di proteggere i propri produ�ori, ma che concorrono a spingere il prezzo dei prodo�i tradizionali provenienti dai Paesi in via di sviluppo a livelli troppo bassi. Il basso prezzo provoca un eccessivo sfrut-tamento dell’ambiente, e talvolta anche delle risorse umane, per poter o�enere quantità di prodo�o maggiori. Si genera

così degrado e povertà e le popolazioni sono portate a cercare migliori condizioni di vita. Questa ricerca si traduce spesso in emigrazione e il problema si presenta alle nostre frontiere. Tralasciando il non valu-tabile dramma umano, la gestione degli immigrati comporta, per lo Stato, dei costi elevati (pa�ugliamento dei confini, soc-corso e rimpatrio dei clandestini, ecc.) che vengono indire�amente sostenuti dai cit-tadini dei Paesi ricchi. Pensiamo, quindi, che per poter fare un raffronto valido con i beni equo – solidali, il prezzo dei prodo�i tradizionali provenienti dai Paesi poveri vada aumentato di una quota di questi co-sti. E, probabilmente, il costo economico e sociale delle politiche protezionistiche è maggiore dei benefici che ricevono i pro-du�ori europei.

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LE CRITICHE

Alla fine del nostro viaggio, dopo aver visto la situazione economica e so-ciale nel mondo, inquadrato il commercio equo e solidale come un’alternativa possi-bile e descri�o le sue peculiarità, è giunto il momento di analizzare anche i punti di debolezza di questa forma di scambio, sia per me�ere “in guardia” il consumatore finale, sia per impedire che i suoi buoni propositi sociali si traducano in comporta-menti contrari all’idea iniziale che ha fa�o nascere questa forma di commercio.

Riteniamo che questa analisi deb-ba partire da alcune definizioni. Per farlo

ci aiutiamo con il dizionario italiano. Per equo si intende: con riferimento a cosa, che obbedisce a un criterio di giustizia sostanziale, di corrispondenza tra dare e avere, ecc. Per solidale: che comporta il vincolo della solidarietà tra i sogge�i di un rapporto obbligazionario. Solidarietà: rapporto di comunanza tra persone pron-te a collaborare tra loro e ad assistersi a vi-cenda1.

Partendo da queste due definizio-ni, che poi sono la base di questa forma di commercio, analizziamo se è veramente equo e solidale.

6.1 Distribuzione geografica nel mondo

1 Le definizioni sono tra�e dal dizionario italiano Sabatini - Cole�i

Il commercio equo e solidale nasce con l’obie�ivo di ridurre la povertà nel mondo, ma la sua a�ività si concentra pre-valentemente nei Paesi in via di sviluppo dell’America Latina e dell’Asia, toccando in minima parte i Paesi so�osviluppati e l’Africa. Questo significa che i benefici del commercio equo e solidale non van-no a vantaggio di coloro che ne avrebbero maggior bisogno, cioè i Paesi so�osvilup-pati, ma come avviene nei mercati non in concorrenza perfe�a, il più forte riesce ad acquisire una parte di beneficio maggiore. In questa forma di commercio, infa�i, non essendoci la concorrenza dei Paesi svilup-pati la parte del leone la fanno i Paesi che stanno sul secondo gradino della scala (cioè quelli in via di sviluppo).

Quindi, il commercio equo e solida-le opera sì in ambiti svantaggiati, ma non

poveri, forse perché non si ha una defini-zione precisa di povero. Pur riconoscendo che questa forma di commercio migliori effe�ivamente le condizioni di vita di po-polazioni che con il modello tradizionale sarebbero svantaggiate, a�ualmente, nulla fa per porre rimedio alla povertà intesa in senso stre�o. Chi è il povero? Una perso-na senza lavoro? Una persona analfabeta? Una persona senza casa? Una persona che soffre di denutrizione? Una persona che non può mandare i figli a scuola?

Perciò, al livello mondiale, il com-mercio equo e solidale, per il momento, non risponde ad un criterio di giustizia sostanziale (una dei significati del termi-ne equo), poiché non inizia la sua opera agendo su coloro che ne hanno un più im-mediato bisogno, cioè sulla parte di popo-lazione mondiale che vive con meno di $ 1

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Capitolo 6 Le Critiche

al giorno.

Come de�o, i prodo�i provengono da Paesi lontani rispe�o ai Paesi ricchi. Perciò, per farli arrivare nei mercati Oc-cidentali è necessario sostenere dei costi di trasporto superiori e, di conseguenza, si hanno maggiori emissioni inquinanti. Quindi, uno degli obie�ivi del commercio equo – solidale (cioè quello della protezio-ne ambientale) viene parzialmente con-

tradde�o. Infa�i, per rispe�arlo, questa forma commerciale non dovrebbe favori-re la vendita dei prodo�i sui mercati oc-cidentali, ma dovrebbe cercare di limitare gli spostamenti della merce e favorire gli scambi fra Paesi vicini. Va considerato che mentre fra i Paesi ricchi le barriere doga-nali sono abbastanza blande, fra gli altri Paesi queste barriere costituiscono veri e propri disincentivi per i commerci reci-proci.

6.2 Produ�ori e prezzo equo Le centrali di importazione equo – solidali tra�ano gli accordi con i produt-tori. Per capire i limiti di questa tra�ati-

va riportiamo una storia proveniente dal Bangladesh.

Box 1 L’esperienza della fa�oria dei tre terziDurante l’inverno del 1975 mi dedicai al problema dell’irrigazione al fine di o�enere un raccolto supplementare nella stagione invernale. Durante la stagione dei mon-soni, ovunque andassi vedevo che ogni minima particella di terreno era sfru�ata. Invece, durante l’inverno, tu�e quelle terre erano abbandonate. Mi chiedevo se non fosse possibile cercare di o�enere un raccolto invernale.Passando in inverno in mezzo ai campi, deserti per la siccità, notai un pozzo pro-fondo nuovo di zecca che rimaneva del tu�o inutilizzato. Quando me ne domandai il motivo scoprii che, durante l’inverno precedente, i contadini avevano litigato tra loro a causa della tassa da pagare per avere diri�o al prelievo dell’acqua e da allora nessuno voleva più anticipare i soldi per la gestione del pozzo. Era assurdo in un Paese dove la carestia mieteva così tante vi�ime.Ebbi allora l’idea di fondare un nuovo tipo di cooperativa agricola, che pensai di chiamare dei tre terzi. Chi possedeva la terra avrebbe messo a disposizione il proprio appezzamento durante la stagione invernale, i mezzadri avrebbero contribuito con il lavoro ed io avrei coperto tu�e le spese di funzionamento del pozzo. Ognuna delle parti (i proprietari, i mezzadri ed io) avrebbe ricevuto un terzo del raccolto.La prima stagione, che per tu�i fu una fase di apprendistato, si concluse con un successo strepitoso. I mezzadri ed i contadini erano raggianti: senza spendere un centesimo avevano ricavato un raccolto abbondante. Dal canto mio mi sembrava di avere riportato una vi�oria, perché l’esperimento era riuscito: avevamo o�enuto una messe là dove prima, in inverno, c’era solo un’arida distesa.

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Capitolo 6 Le Critiche

Il successo della nostra iniziativa, però, aveva messo in luce un problema che fino a quel momento non avevo previsto. Una volta effe�uata la raccolta occorreva della manodopera per separare il riso dalla lolla (che è l’insieme di scorie che si forma du-rante la trebbiatura, ndr). Questo compito, noioso ed ingrato, era affidato ovviamente ai lavoranti giornalieri peggio pagati: quasi sempre donne poverissime che altrimenti sarebbero state rido�e a mendicare. Per me lo spe�acolo era quasi insopportabile: 25 o 30 donne arrivavano presto la ma�ina, remissive come bestie da soma, e per tu�a la giornata, senza interruzione, lavoravano in piedi contro un muro al quale si appog-giavano per non cadere. Il loro salario dipendeva dalla quantità di prodo�o pulito che riuscivano ad o�enere, in genere un sedicesimo del riso già separato. Ciò signifi-cava circa qua�ro chili di riso grezzo, equivalenti a quaranta centesimi di dollaro.Era evidente che, nel sistema che avevamo creato, i profi�i più alti andavano a chi possedeva più terra. Ai proprietari più piccoli e ai poveri spe�ava ovviamente una quota di partecipazione inferiore. La più infima di tu�e andava alle donne che face-vano la ba�itura del riso.Scoprii che con la stessa quantità di lavoro quelle donne avrebbero potuto guada-gnare cinque volte tanto avendo la possibilità di comprare e lavorare il riso in prima persona. Ma erano troppo povere per farlo.Fonte: Il Banchiere dei Poveri, pag.65 – Mohammad Yunus - Universale Economica Feltrinelli, 2006

Come rilevato dal prof. Yunus, i proprietari ed i contadini non sono le cate-gorie più povere e deboli. Gli accordi con i produ�ori equo – solidali, per ovviare a questo problema, prevedono che non ven-

ga impiegata manodopera minorile e che siano rispe�ati i diri�i dei lavoratori (in termini anche di equa retribuzione). Sul punto si possono fare due considerazioni:

1) L’opinione pubblica internazionale, pri-ma dei mondiali di calcio giapponesi, si era notevolmente indignata perché una gran-de multinazionale utilizzava manodopera minorile (stipendiata, seppur a basso li-vello) nel Terzo Mondo per cucire i propri palloni. Questa multinazionale, allora, per non rovinare la propria immagine, licen-ziò i bambini per assumere degli adulti. Conseguenze: le famiglie di quei bambini non avevano nulla da offrire loro e, non es-sendoci scuole o assistenza statale, questi si sono ritrovati costre�i a mendicare per procurarsi da vivere. Era questo che vole-va la comunità internazionale? Tornando al commercio equo e solidale, è giustifica-

ta la linea di principio che me�e al bando l’impiego di manodopera minorile, solo a pa�o, però, che questi bambini abbiano la possibilità di frequentare una scuola e di vivere. Un divieto così categorico, a pre-scindere dall’analisi delle fa�ispecie locali, potrebbe solo contribuire a peggiorare le condizioni di vita di molti minori. Allora, probabilmente, sarebbe stato più corre�o formulare un divieto di utilizzo della ma-nodopera minorile quando i piccoli han-no l’effe�iva (e non formale) possibilità di frequentare la scuola. In caso contrario, ai produ�ori è permesso l’impiego dei bam-bini per svolgere mansioni commisurate alle loro possibilità, equamente remunera-

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te, che perme�ano loro di apprendere un mestiere e di sopperire, in qualche misura, alla mancanza di un’istruzione scolastica. In questo modo si risolverebbero tre tipi di problemi: i nostri problemi morali, in quanto i minori non sarebbero sfru�ati in nessuna maniera; i problemi delle famiglie

dei bambini, in quanto questi porterebbero a casa un reddito; i problemi dei bambini stessi, in quanto avrebbero almeno la pos-sibilità di apprendere un mestiere, visto che non ci sono scuole, e grazie a questo potrebbero migliorare le loro aspe�ative future.

2) Come rilevato a se�embre da un’inchie-sta del Financial Times, alcuni produ�ori equo – solidali di caffé pagavano la mano-dopera al di so�o dei livelli salariali mi-nimi. Questo perché, secondo la giustifi-cazione della F.L.O., solo una parte della loro produzione veniva acquistata dagli importatori equi, mentre per l’altra, vale-vano le regole del mercato tradizionale. Gli importatori equi hanno riba�uto che, avendo il produ�ore un basso ricavo da una fe�a consistente di raccolto, esso non era in grado di stipendiare adeguatamen-te tu�i i lavoratori. Tralasciando le sterili polemiche che il fa�o ha scatenato, è però lecito fare alcune riflessioni. In primis, il

produ�ore (che come abbiamo visto pri-ma quasi mai è il più povero) deve aderire alla produzione equo – solidale perché ne condivide appieno i valori (fra i quali c’è la giusta remunerazione del lavoro) e non perché questo modello garantisce un rica-vo superiore. In secondo luogo, la centrale di importazione non deve stipulare con-tra�i con produ�ori che non rispe�ano determinate norme di comportamento in tu�e le occasioni e tantomeno può giustifi-care queste condo�e con la scusa che solo una parte della produzione è destinata al mercato equo – solidale. Ne va della fidu-cia dei consumatori.

Come abbiamo visto, anche a livello locale, questa forma di commercio, talvol-ta, non realizza l’obie�ivo di equità (sem-pre inteso in un’accezione di giustizia) e, nei rapporti con i lavoratori, neanche di solidarietà, in quanto, in qualche caso, i produ�ori hanno interesse a guadagnare il più possibile e non a collaborare per aiu-tarsi a vicenda con i lavoratori.

Dopo quanto de�o (sia qui che nel capitolo dedicato ai prezzi), è facile capire che il prezzo equo, poiché considera anche costi che si manifestano nel lungo periodo e costi non monetari, non viene fissato su

basi “matematiche” (per esempio a�raver-so i meccanismi del costo dire�o o del full costing), ma a�raverso delle conge�ure e delle valutazioni sogge�ive. Quindi, vi è il rischio, come visto, che il prezzo stabi-lito non sia in grado di realizzare appie-no gli obie�ivi che si pone questo tipo di commercio. Per cercare di limitare, par-zialmente, la sogge�ività della valutazio-ne, le regole di commercio equo e solidale prevedono che il prezzo venga concordato e che sia trasparente, ciò venga espressa-mente indicato sull’etiche�a del prodo�o; ma, nonostante ciò, il prezzo così fissato crea ulteriori problemi.

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6.3 Prezzo equo e prezzo di mercato Come visto anche in altri capitoli, il prezzo di partenza è superiore al prez-zo del mercato (talvolta anche di cinque volte). Quindi, viene creato un prezzo minimo superiore al prezzo di equilibrio del mercato. Come già de�o nel primo capitolo, il mercato agisce in un’o�ica di breve periodo, mentre il prezzo equo – so-lidale viene fissato in un’o�ica di medio – lungo periodo. Ciò, però, crea notevoli distorsioni nel breve, che vengono parti-

colarmente so�olineate dagli oppositori di questa forma commerciale (fra i quali vi sono anche autorevoli testate, come l’Eco-nomist). Analizziamo alcune distorsioni preme�endo che il mercato non si trova mai in un punto di o�imo sociale, quindi si è sempre in una situazione di vice o�i-mo, che il commercio equo – solidale cerca di correggere. Vediamo quali critiche sono fondate e quali meno.

1) Il mercato lasciato a sé stesso (cioè in concorrenza perfe�a) fissa prezzi e quanti-tà, me�endo in equilibrio domanda ed of-ferta. La presenza di un prezzo superiore a quello di equilibrio aumenta la quantità offerta e diminuisce la quantità doman-data e le due grandezze cessano di coin-cidere. Il risultato è un eccesso di offerta (sovrapproduzione) che spinge il mercato ad aggiustamenti bruschi e repentini, che vengono scaricati principalmente sui pro-du�ori più deboli e su quelli sogge�i alla volatilità dei prezzi (cioè i produ�ori non equo solidali). La critica è in minima par-te fondata. Come abbiamo visto, infa�i, il mercato non è mai in concorrenza perfe�a e sopra�u�o il mercato delle commodity è assogge�ato al grande potere di pochi intermediari (si tra�a di mercati in pseu-do monopsonio2). Questo fa sì che il prez-zo quotato nelle Borse merci sia da loro

fortemente influenzato e sia solitamente più basso del prezzo di equilibrio di con-correnza perfe�a. Non vi è eccesso di do-manda perché la domanda della materia grezza è regolata dagli intermediari stessi che fissano anche il prezzo (infa�i, la do-manda del prodo�o finale ed il suo prezzo sono costanti). In compenso, non sempre i produ�ori riescono a coprire interamen-te i costi di produzione. In teoria il prezzo equo è fissato al prezzo di equilibrio del mercato di concorrenza perfe�a. Quindi, non abbiamo elementi in grado di prova-re o smentire pienamente questa critica in quanto non possiamo conoscere esat-tamente il prezzo di equilibrio di concor-renza perfe�a. Se il prezzo equo è stabilito in misura tale da coprire solo tu�i i costi e non da garantire extra-profi�i, allora la critica è infondata.

2 Regime di mercato nel quale la domanda è concentrata in un solo sogge�o a fronte di una pluralità di venditori

2) Una seconda critica è relativa al fa�o che la presenza di un prezzo più alto di quello del mercato fa sì che sopravvivano anche coloro che sono meno efficienti (cioè che hanno un costo medio più alto). In questo caso, la critica è fondata se i maggiori pro-

venti dovuti al prezzo equo non sono uti-lizzati per i fini previsti, ma vengono usati per coprire le inefficienze (per esempio se il produ�ore equo – solidale non utilizza il surplus per remunerare i lavoratori secon-do quanto previsto).

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3) Il prezzo equo è più alto di quello del mercato, ma viene applicato solo sulla merce venduta all’importatore equo – so-lidale. Questa situazione spinge molti pro-

du�ori locali ad indirizzare la produzione verso i mercati esteri perché più remune-rativi, tralasciando quelli interni.

4) Poiché alcuni prodo�i vengono com-merciati nel circuito equo – solidale, ga-rantendo al produ�ore una remunerazio-ne superiore, vi è il rischio di creare delle monoculture (sia agricole che artigianali). Infa�i, anche altri produ�ori potrebbero convertire i loro processi verso i prodo�i commercializzabili come equo – solidali, impoverendo così il tessuto economico della regione, creando diversi problemi: l’area potrebbe dover ricorrere all’impor-tazione dei beni che non produce più, au-mentando così la dipendenza dall’estero; la produzione di una sola tipologia di pro-do�o è rischiosa poiché si lega il proprio

sistema economico ad un solo mercato e ci si rende dipendenti delle sue variazioni (in pratica si me�ono tu�e le uova nello stesso paniere e ciò non è molto saggio). Poiché il mercato è addiri�ura straniero, i rischi sono ancora maggiori, in quanto non solo si dipende dal mercato, ma anche dal Paese importatore. Se questo modifi-ca le proprie preferenze o sceglie un altro fornitore, le conseguenze sono facilmente immaginabili. In questo caso, il commer-cio equo – solidale non solo non perme�e lo sviluppo del Paese povero, ma lo rende ancor più dipendente del Paese ricco.

5) La presenza di una remunerazione su-periore (che talvolta diventa addiri�ura extra-profi�o), spinge i produ�ori ad am-pliare la loro produzione. Ciò significa au-mentare il consumo di territorio, che può

tradursi in distruzioni di foreste vergini e stravolgimenti degli equilibri naturali (andando nuovamente contro uno degli obie�ivi).

Il problema di fondo è che il com-mercio equo – solidale, così come è at-tualmente impostato, risolve assai pochi problemi. Infa�i, nonostante i buoni pro-positi, esso non costituisce un cambia-mento significativo rispe�o al commercio tradizionale, ma ne ripropone il modello, introducendo solo alcune modifiche che non si sa per quanto tempo possano so-pravvivere. Innanzi tu�o non è de�o che la nostra concezione commerciale sia vali-da anche in altre zone della Terra. Poi, c’è da considerare il fa�o che la produzione equo – solidale assorbe una quantità di risorse all’incirca uguale a quella consu-mata dal commercio tradizionale (infa�i, al minor utilizzo di fa�ori inquinanti nei luoghi di produzione, si deve aggiungere

il maggior inquinamento dovuto al tra-sporto delle merci nei mercati di desti-nazione). Questa situazione è abbastanza insostenibile. Infa�i, la nostra economia ha un impa�o ambientale molto forte che il Pianeta ha difficoltà ad assorbire. Vista la nostra scarsa capacità di cambiamen-to (per esempio, sono anni che si parla di ridurre l’inquinamento atmosferico, ma ancora poco si è fa�o in proposito), non è pensabile aggiungere altro inquinamento. E considerato che qualcuno deve sme�e-re di inquinare, si può ipotizzare che, ad iniziare a farlo, non saranno certamente i Paesi più forti. Quindi per i Paesi in via di sviluppo bisogna trovare soluzioni alter-native.

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Capitolo 6 Le Critiche

Abbiamo ampiamente parlato del fa�o che il prezzo equo è maggiore del prezzo del mercato. Sono tu�e corre�e le consi-derazioni fa�e in merito. Il problema è che il prezzo equo è comunque un prezzo ar-

tificiale e non di mercato e quindi bisogna verificare, specialmente nel lungo perio-do, se lo si riuscirà a mantenere. Gli scena-ri possibili sono due:

1) Vengono riviste completamente le po-litiche dei dazi e dei sussidi dei Paesi ric-chi, eliminando così queste distorsioni sui prezzi dei prodo�i tradizionali. In questo caso, il prezzo equo – solidale ed il prez-zo dei prodo�i tradizionali si riavvicine-ranno. Se si riuscirà anche ad obbligare i produ�ori tradizionali ad internalizzare la maggior parte delle esternalità negati-ve allora i due prezzi dovrebbero quasi coincidere. In questo caso i prodo�i equo – solidali diventerebbero competitivi e po-

trebbero tranquillamente sopravvivere. Il problema è che è difficile pensare che i Paesi ricchi non proteggano le proprie produzioni. Anche se abbiamo visto che nel lungo periodo sarebbe conveniente per tu�i eliminare dazi e sussidi, nel bre-ve periodo bisogna fare i conti con i turni ele�orali e con il fa�o che i produ�ori tra-dizionali votano e scelgono chi deve pren-dere queste decisioni, mentre quelli equo – solidali no.

2) Nella seconda ipotesi, le cose riman-gono così come sono. Allora è difficile immaginare che la quantità di prodo�i equo – solidali domandata possa crescere, poiché essi subiscono la concorrenza (da certi punti di vista “sleale”) dei prodo�i

tradizionali. In questa situazione, il mer-cato dei prodo�i equo – solidali rimarrà di nicchia e non sarà in grado di espandersi. Quindi non riuscirà a risolvere i problemi della povertà a livello globale.

Da queste considerazioni possiamo trarre la conclusione che il successo nel lungo pe-riodo del commercio equo – solidale (inte-so anche in termini di realizzazione degli obie�ivi che si è preposto) è abbastanza legato a cosidde�i “stati di natura”, cioè al verificarsi di situazioni esogene che gli at-tori di questo tipo di commercio non pos-

sono controllare. È quindi un po’ utopisti-co pensare che tu�i i “se” si realizzeranno ed è indice di scarsa visione economica il non cercare qualche soluzione alternativa che apra una strada di sviluppo autonoma e non vincolata al comportamento degli altri.

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Capitolo 6 Le Critiche

6.4 Strumento economico o mezzo di informazione?

Analizzando le critiche interne al movimento (vedi, per esempio, la le�era aperta di padre Alex Zanotelli3) si evin-ce una certa confusione su che cosa sia il commercio equo – solidale. Per alcuni do-vrebbe essere un mezzo per migliorare la situazione economica delle popolazioni del cosidde�o sud del mondo, per altri, invece, è un modo per rendere noto alle popolazioni del nord che il sistema econo-mico tradizionale ha dei limiti enormi. In-fa�i, mentre sarebbe economicamente più conveniente vendere i prodo�i equo – so-lidali tramite la grande distribuzione (ciò li renderebbe anche più competitivi), vi sono resistenze interne ad abbandonare il canale delle bo�eghe del mondo, in quan-to si perderebbe il conta�o umano con il venditore/volontario e verrebbe meno quella funzione informativa che costitui-sce uno degli obie�ivi di questo commer-cio. Questo “confli�o” interno si estende anche nella pianificazione degli obie�ivi e delle strategie.

Da tu�o ciò si evince che gli a�o-ri del commercio equo – solidale ancora non hanno ben chiaro quale è il mezzo che stanno guidando. E se non si conosce cosa si guida è improbabile riuscire a determi-nare a priori dove si può andare e come si può raggiungere la meta.

Per concludere, quindi, visto anche quanto de�o precedentemente, gli a�ori di questa forma commerciale si stanno muovendo un po’ “alla cieca”, senza una precisa stra-tegia di crescita, senza un obie�ivo chiaro (il che, come visto, crea una certa confu-sione) ed affidando molte possibilità di sviluppo al verificarsi di situazioni che de-vono essere decise da altri. La situazione è anche comprensibile in quanto il movi-mento è gestito in maniera preponderante da volontari, che, seppur dotati di grande volontà e spirito di sacrificio, non sempre possiedono le conoscenze economico – ge-stionali necessarie.

Se la situazione non si modifica, è difficile ipotizzare qualsiasi cosa, poiché si vive alla giornata ed è impossibile de-terminare adesso, in maniera ogge�iva, se questa strategia si dimostrerà vincente o meno. Non si può neanche dire se la quota di mercato del commercio equo – solidale rimarrà stabile o tenderà a diminuire, poi-ché a�ualmente si regge su valori etico – morali dei consumatori occidentali (il che giustifica il maggior prezzo che alcuni di loro sono disposti a pagare) e non si può certo affermare a priori che questi valori rimarranno immutati nel tempo (potreb-bero anche scomparire con conseguente caduta delle vendite dei prodo�i equo – solidali).

3 Il testo integrale della le�era è disponibile in internet all’indirizzo h�p://italy.peacelink.org/zanotelli/articles/art_13130.html

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TURISMO RESPONSABILE

7.1 Generalità sul turismo

Secondo l’Organizzazione mondia-le del turismo (Omt) il se�ore turistico dà lavoro, dire�amente o indire�amente, a oltre 250 milioni di persone; il fa�ura-to totale annuo ha superato i 510 milio-ni di dollari, cioè circa il 10% dell’intero prodo�o interno lordo mondiale. Il flusso degli spostamenti, degli investimenti e dei benefici economici del turismo è molto squilibrato. Oltre l’80% di chi viaggia per turismo risiede nei venti paesi più ricchi del mondo, gli stessi che ricevono il 70% dei turisti; inoltre in questi paesi è concen-trato il 72% del fa�urato complessivo.

In un contesto simile, il turismo nei paesi del Sud del mondo può offrire alcu-ni benefici: per esempio può creare reddi-to e occupazione nei paesi visitati e può perme�ere ai turisti di entrare in relazione con popoli e culture talvolta molto diffe-renti. Al tempo stesso esso è contraddit-torio: in seguito al conta�o con i turisti i paesi e i popoli visitati vedono trasformar-si le proprie culture, le proprie abitudini, le identità più profonde. I turisti - spesso occidentali - rischiano di guardare solo la conferma delle immagini (televisive o dei cataloghi) che già hanno visto prima della partenza e rischiano di dormire, mangiare

e spostarsi senza entrare in conta�o con la realtà locale.

Occorre dunque pensare a modi in-novativi e sostenibili per viaggiare, senza comprome�ere il patrimonio ambientale, culturale e sociale del territorio che si visi-ta e cercando anzi di salvaguardare quelle risorse per le generazioni successive. Nella speranza che il turismo del presente pos-sa riassaporare l’essenza di quello passato senza comprome�ere quello futuro.

Una delle alternative possibili è il turismo responsabile: un modo di viaggiare che privilegia lo scambio con le popolazio-ni locali del paese di destinazione, l’espe-rienza umana dell’incontro come momen-to di arricchimento personale, di crescita, di conoscenza.

Le comunità locali e le organizza-zioni partner, con cui collaborano i tour operator che promuovono questo tipo di turismo, sono dunque essenziali per la riuscita di questi viaggi. I quali, inoltre, costituiscono una possibilità reale di cre-scita economica per le persone ed i paesi coinvolti.

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Capitolo 7 Turismo Responsabile

7.2 Cara�eristiche dei viaggi responsabili

Tu�i i viaggi di turismo responsabi-le cercano di ispirarsi a equità economica, tolleranza, rispe�o, conoscenza, incontro. Vorrebbero essere un modo per rilanciare le economie dei paesi di destinazione, an-che trasme�endo professionalità alle asso-ciazioni con cui si collabora e lasciando la maggior parte dei profi�i alle popolazioni locali, a differenza del turismo di massa che esporta la maggior parte dei suoi gua-dagni. Questi viaggi dunque di per sé cer-cano di essere una forma di cooperazione.

L’incontro con le popolazioni locali è il momento centrale dell’esperienza; un’oc-casione di confronto e di conoscenza tra abitudini e tradizioni differenti. Viaggiare dunque come possibilità di provare a ca-pire una cultura diversa dalla propria e di entrare in conta�o con la realtà sociale di un paese. Senza nascondere le difficoltà e talvolta anche i drammi che vivono alcu-ni popoli, anzi provando a condividere -anche solo parzialmente- le loro speranze di cambiamento. Un’esperienza di questo tipo stimola la consapevolezza degli enor-mi squilibri esistenti tra Nord e Sud del mondo e perme�e un lavoro introspe�i-vo, personale e di gruppo. Spesso, dopo il viaggio, si sono creati piccoli gruppi che autonomamente appoggiano proge�i di solidarietà. Viaggiare è iniziare una rela-zione che continua, che non si esaurisce nelle due o tre se�imane di ferie all’anno.

Tu�o questo senza trascurare il lato più propriamente turistico dell’esperienza: conoscere un nuovo paese significa anche visitare siti archeologici, camminare nella foresta, visitare ci�à e mercati...

Questo viaggi talvolta -quasi sempre nel caso di gruppi numerosi- prevedono un accompagnatore che funge sopra�u�o da mediatore culturale e punto di riferimen-to per il gruppo, ma che non è una guida professionista.

Altra costante è l’utilizzo per il per-no�amento di case private, ostelli, pensioni locali, cercando comunque il più possibile sistemazioni accoglienti. Può capitare -so-pra�u�o quando il viaggio prevede la per-manenza di qualche giorno in comunità indigene- di perno�are in condizioni non sempre comodissime: si richiede in questo caso un po’ di spirito di ada�amento; ad esempio non è possibile garantire sempre il bagno in camera o l’acqua calda tu�o il giorno; l’accompagnatore è comunque in grado di spiegare tu�i i de�agli prima del-l’inizio del viaggio.

Spesso gli spostamenti interni uti-lizzano trasporti pubblici locali o pulmi-ni delle organizzazioni referenti; il vi�o è spesso gestito a�raverso un fondo perso-nale. Alcuni viaggi sono gestiti totalmente con cassa comune (vi�o e anche alloggio, guide locali, trasporti).

Si viaggia sempre in piccoli gruppi -(10/12 persone al massimo)- per limitare gli impa�i sulle comunità ospitanti. In al-cuni casi una parte della quota viene diret-tamente destinata al finanziamento di un proge�o di cooperazione e sviluppo locale visitato. Sempre però il viaggio è di per sé un proge�o di sviluppo locale.

Questo tipo di viaggi richiede un approccio particolare, di apertura a ciò che

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Capitolo 7 Turismo Responsabile

è nuovo e diverso; occorre forse lasciare da parte alcuni luoghi comuni e ricordare che -come in un qualsiasi viaggio vero - possono esserci imprevisti, inconvenienti, difficoltà. Si richiede quindi una capacità

di ada�amento probabilmente superiore a quella di un viaggio “tradizionale”: essa viene segnalata nelle cara�eristiche di ogni viaggio in una scala che va da bassa (*) a media (**) ad alta (***).

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FONTI

8.1 Bibliografia

BARBETTA Gian Paolo, Il commercio equo e solidale, Università ca�olica del Sacro Cuore - Centro ricerche sulla cooperazione che comprende la seguente bibliografia: GUADAGNUCCI L. e GAVELLI F, 2004, La crisi di crescita, Feltrinelli. HANSMANN H., 1996, The ownership of enterprise, The Belknap press of Harvard University press. KRIER, J., 2005, Fair Trade in Europe – 2005, Fair Trade Advocacy Office, Brussels. Dove va il commercio equo e solidale? Grande distribuzione e bo�eghe del mondo, Libe-roMondo, 2004, Supplemento al n. 8 di Tempi di Fraternità. ROOZEN N. e VAN DER HOFF, 2003, Max Havelaar. L’avventura del commercio equo e solidale, Feltrinelli.

BOSIO Roberto, Mini guida al commercio equo e solidale, Edizioni La Tortuga, 2005.

YUNUS Mohammad, Il banchiere dei poveri, Universale Economica Feltrinelli, 2006.

UNDP, Human Development Report 2005, disponibile in lingua inglese all’indi-rizzo internet h�p://www.undp.org

WORLD BANK, Annual Review of Development 2006, disponibile in lingua in-glese all’indirizzo internet h�p://www.worldbank.org

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Capitolo 8 Fonti

8.2 Sitografiah�p://www.grameen-info.orgh�p://www.grameenfoundation.orgh�p://www.povertymap.neth�p://europa.euh�p://www.ecoblog.it/post/1465/capra-critica-il-commercio-ecquoh�p://www.unicef.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/2361h�p://www.terre.it/giornale/articoli/618.htmlh�p://www.ifat.org/downloads/marketing/FairTradeinEurope2005.pdfh�p://www.commercioalternativo.it/comes/http://aconservativemind.blogspot.com/2006/12/le-bugie-del-cibo-organico-equo-e.htmlh�p://www.lavoce.info/news/view.php?id=9&cms_pk=2450&from=indexh�p://www.altromercato.orgh�p://www.banderaflorida.it/criteri.htmh�p://www.equocomes.org/iframes/prezzotrasparente.htmlh�p://www.barcellonapg.it/Rubriche/equosolidale/strumenti_operativi.htmh�p://it.wikipedia.org/wiki/Commercio_equo_e_solidaleh�p://italy.peacelink.org/zanotelli/articles/art_13130.htmlh�p://www.altreconomia.it/modules.php?op=modload&name=News&file=article&sid=235h�p://www.greenplanet.net/Articolo18108.htmlh�p://communitaction.blogspot.com/2006/12/commercio-equo-e-snob-le-critiche.htmlh�p://www.faitraderitalia.ith�p://www.agices.orgh�p://www.respet.org