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IL CUORE A BRANDELLI Gigliola Izzo

Il Cuore a Brand Elli

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l'ultimo, per ora, libro di Gigliola iZZO , EDITO IN MANIERA LIBERA e fruibile da tutti.

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Page 1: Il Cuore a Brand Elli

IL CUORE A BRANDELLI

Gigliola Izzo

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Brandelli

Per ottenere questo incontro ho dovuto mentire

sulla mia identità. Mi aspetta nella hall dell’albergo.

Mentre mi avvicino l’ansia prende il sopravvento.

Vorrei tornare indietro ma è troppo tardi: mi ha

visto.

Lo osservo con morbosità. E’ molto diverso da

come me lo aspettavo. Per prima cosa è un

vecchio. Sono talmente abituata alla storia che per

tanti anni mi ha raccontato mia madre che anche

se adesso so che si trattava soltanto di patetiche

bugie non riesco a levarmi dalla mente l’immagine

di mio padre che avevano creato.

Mi sembra impossibile che sia vecchio. Ma come.

Non era morto in un incidente stradale prima che io

nascessi?

Quante volte lo avevo sentito dire.

“Muore giovane chi è amato dagli dei.”

E io mi disperavo per quel padre mai conosciuto.

Troppo amato dagli dei per rimanere con me.

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Chiedevo continuamente a mia madre di

parlarmene e lei aggiungeva sempre nuovi

particolari. Cose sempre più inverosimili. Eppure io

le credevo, prendevo tutto per oro colato. A

ripensarci adesso mi domando come abbia potuto

bermi tante stupidaggini. Come abbia potuto

accontentarmi delle sue spiegazioni false come le

pubblicità dei biscotti. Senza una sua foto,senza

chiedere mai dove fossero i miei nonni.

I miei compagni di scuola avevano famiglie

complete. Padri, madri, nonni, zii, cugini. Io invece

non avevo nessuno. Non avevo che mia madre.

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Madre e figlia. Abituarsi alla diversità.

Sempre noi due sole. Mia madre sembrava non

conoscere nessuno. Lavorava come infermiera in

una casa di riposo e spesso passava la notte fuori.

Io ho cominciato a dormire da sola da

piccolissima. Lei non voleva che nessuno rima-

nesse con me. E così mi ero abituata. Mi sembrava

normale.

Quando io e Cinzia diventammo amiche provai a

chiedere a mia madre se potevo farla venire a casa

un pomeriggio. Lei mi disse di no. Non mi diede

nessuna spiegazione. Io allora decisi di fare una

cosa che non avevo mai fatto. Le mentii. Quando

lei era al lavoro nel turno pomeridiano io prendevo

il mazzo di chiavi di casa e me ne uscivo. Andavo a

casa di Cinzia e passavo il pomeriggio da lei. Stavo

attenta ad andarmene sempre prima che mia

madre tornasse.

Un giorno però successe una cosa strana. La

mamma di Cinzia venne da me e mi chiese:

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“Ma come mai tua mamma non ti accompagna

mai? Mi piacerebbe conoscerla.”

E così dovetti inventare una bugia anche per la

mamma di Cinzia. Le dissi che mia nonna era

molto malata e mia madre passava tutto il suo

tempo libero con lei.

Dopo questa bugia pensai che fosse meglio

cercare di far venire una volta Cinzia da me per

evitare che sua madre si insospettisse.

Però avevo paura di non riuscire a evitare che

Cinzia si incontrasse con mia madre.

Mi arrovellavo su questo problema quando la

soluzione si presentò da sola.

Cinzia mi disse che il giorno dopo doveva andare

alle 6 dal dentista. Allora io le dissi subito: “Che

peccato, volevo giusto invitarti a casa mia.”

La curiosità di Cinzia e della mamma era tale che

subito dissero che sarebbero passate a salutare e

poi sarebbero andate dal dentista.

Così Cinzia venne a casa mia e le feci vedere la

mia camera, i miei giochi e rimanemmo un po’

insieme.

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Quando la sera tornò mamma non si accorse di

niente. Disse solo che le sembrava di sentire uno

strano profumo. In effetti la mamma di Cinzia

sembrava sempre appena caduta in una boccetta

di profumo.

Il tempo passava e tutto sembrava immobile. Non

ci facevamo mai fotografie e così, se non fosse

stato per i piedi e per le tette che crescevano io

avrei potuto avere ancora tre anni.

Quello che era davvero cambiato era la mia

capacità di mentire.

Oramai non mi spaventava più niente. Ero

velocissima ad inventare la bugia giusta in

qualunque situazione.

Dovetti arrivare al liceo per capire quanto la mia

condizione fosse strana anche agli occhi degli altri.

Un giorno mentre ero nel bagno della scuola sentii

parlare due mie compagne di classe.

"Certo che Marzia è proprio strana. Quando sta

insieme alla mamma fa sempre finta di non

conoscerci. Eppure è assurdo. Mica la mamma è

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scema. Lo immaginerà che abbia qualche amica a

scuola. E poi come si veste. Sembra che non vada

in un negozio da anni."

Aspettai che le mie compagne uscissero dal bagno

e poi aprii la porta. Nell'attimo in cui la aprii mi vidi

nello specchio. Veramente ero vestita in maniera

strana. Avevo un paio di pantaloncini corti verde

militare e un pullover lunghissimo color mattone. Ai

piedi dei mocassini che avevano conosciuto tempi

migliori. E i capelli poi erano veramente

scombinati. Non li tagliavo da mesi ed erano

cresciuti senza alcun criterio. Erano un po’ mossi,

né lisci né ricci. Capelli senza senso.

Non avrei neanche saputo dire se ero carina o no.

A casa non si parlava mai di questo. Mia madre

non parlava mai di vestiti o di scarpe o di capelli.

Per lo più mia madre non parlava. Era finita l'epoca

in cui mi raccontava cose. Adesso le nostre

conversazioni si limitavano all' essenziale. A quello

che serviva per la pura sopravvivenza.

Mia madre aveva l'aria di una persona senza

nessuna speranza. E se quando io ero piccola

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nutriva qualche speranza per me adesso era morta

anche quella.

Io mi accorgevo che lei non era come le altre madri

ma ne davo sempre la colpa alla morte di mio

padre.

Ma anche di questo non parlavo più.

Nessuno dei miei nuovi compagni sapeva la mia

storia. Sentivo che parlarne era inutile. Non volevo

la loro pietà e comunque pensavo che nessuno mi

avrebbe capito.

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Non sapere niente

Durante l'ultimo anno di liceo successero due cose

che provocarono uno scossone inaspettato nella

mia statica vita. Anzi le cose furono tre.

La prima fu che mi piaceva un ragazzo. Era un

ragazzo della quinta C e si chiamava Riccardo.

Scossone numero 1: bisognava farsi notare. Il

pullover color mattone che ancora indossavo non

andava più bene. Dovevo inventarmi qualcosa.

La seconda cosa fu che morì il padre di una mia

compagna di classe, Loredana.

Scossone numero 2: il padre era morto ma noi

andavamo a trovare Loredana a casa. La madre

era triste e piangeva ma non aveva chiuso la porta

al resto del mondo. Loredana faceva una vita quasi

normale ed era circondata dai parenti e dagli amici.

Niente a che vedere con la nostra vita.

La terza cosa fu che mia madre si ammalò.

Una sera tornata a casa dalla clinica disse che le

faceva male in petto. Si mise subito a letto dopo

aver preso una aspirina ma, durante la notte la

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situazione peggiorò. I dolori si fecero più forti e non

riusciva a respirare.

Chiamai l'ambulanza e la trasportarono in

ospedale. I paramedici mi dissero di prendere i

documenti e qualche indumento di mia madre e di

raggiungerli all'ospedale X.

Mi misi allora a cercare nella sua camera e di colpo

realizzai che non ci entravo da anni. Aprii con

titubanza l'armadio per prendere un vestito e mi

colpì la pochezza degli abiti che conteneva. Un

paio di gonne, tre o quattro camicette, un vestitino,

una giacca. Presi una gonna e una camicetta e poi

aprii il cassetto della biancheria. Nel cassetto la

stessa pochezza. Presi una camicia da notte, presi

anche una mutanda antiquata e chiusi subito. Mi

aveva assalito una sorta di angoscia. Aprire quei

cassetti era stato come guardare dentro un pozzo e

sentire il freddo umido che ti arriva in faccia. Non

sai cosa ci sia nel pozzo perché é troppo buio ma

senti la puzza della morte.

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Scossone numero tre: accorgersi di non sapere

nulla della propria madre e forse neanche di se

stessi.

Di questi tre scossoni il primo non produsse alcuna

conseguenza. Non avevo né il tempo né i soldi per

comprarmi dei vestiti nuovi e comunque Riccardo

non si accorse mai di me. Il dubbio sulla possibilità

che con un altro pullover le cose sarebbero andate

diversamente mi rimarrà per sempre.

Il secondo scossone ebbe l'effetto di farmi riflettere

sulla stranezza della mia vita.

Il terzo scossone ebbe invece effetti devastanti.

Mia madre era ricoverata in ospedale per una

polmonite virale molto grave e io ebbi tantissimo

tempo libero. In ospedale erano molto rigidi con gli

orari di visita e quindi, tranne dalle 18 alle 19 in cui

potevo andare a trovarla, il resto del tempo ero

libera di fare quello che volevo.

Cominciai a frugare nella sua camera quasi per

caso. Dopo la brutta sensazione della prima volta

non avevo voglia di entrarci di nuovo. Ma c'erano

carte che dovevo cercare per tutte le pratiche

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burocratiche da sbrigare. E così iniziarono le

scoperte.

Nell'armadio, mentre cercavo un paio di scarpe,

trovai una scatola di cartone tutta decorata che non

avevo mai visto.

Mi misi a fissarla. Fu un impulso. Non c’era motivo

di aprirla. Ma lo feci lo stesso. Non mi aspettavo

niente, ero solo curiosa.

Aprii la scatola.

Dentro c'erano:

alcune lettere;

alcune fotografie;

una catenina d'oro;

una penna stilografica;

una raccolta di cartoline in bianco e nero dipinte a

mano del Lago di Carezza;

un chicco di riso con inciso il nome Caterina;

un sottilissimo anellino d'oro con sopra un piccolo

cuoricino;

un passaporto jugoslavo con dentro una foto di mia

madre giovanissima e con un altro nome: Khadija.

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Per un attimo ebbi la tentazione di chiudere la

scatola e far finta di niente ma ormai non potevo

più tornare indietro. Avevo morso la mela della

conoscenza. La mia innocenza era perduta per

sempre.

Portai la scatola in cucina. Lontano dalla sua

stanza mi sembrava che le cose acquistassero un

aspetto più normale, meno sinistro.

Cominciai dalle lettere. Erano tutte indirizzate a

Khadija M. ed erano tutte scritte da un certo

Krescan V.

Purtroppo erano scritte in una lingua sconosciuta.

Addirittura in un alfabeto che non riuscivo a

riconoscere. Cercai di pensare a come tradurle ma

non mi veniva in mente niente.

Decisi di passare alle cartoline. Si capiva che era

un paesino di montagna ma non lo conoscevo.

Andai al computer e cercai Lago di Carezza.

Questo fu quello che trovai su Wikipedia:

Il lago di Carezza, Karersee in tedesco è un piccolo

lago alpino situato nell'alta Val d'Ega a 1.534 m nel

comune di Nova Levante (BZ), a circa 25 km

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da Bolzano. È incastonato tra fitti boschi di abeti e

si trova sotto le pendici del massiccio del Latemar,

che si specchia nella sua acqua cristallina.

Non sapevo bene come inquadrare tutto questo.

Non mi sembrava di aver mai sentito parlare di

questo paese. Ma intanto le cartoline erano lì

davanti a me.

Mi accorsi che sul retro di una di loro c'era scritto "A

Khadija con affetto. Spero di rivederti presto più

serena. Qui sarai sempre la benvenuta."

La cartolina raffigurava un albergo: Il Waldhaus.

Passai a esaminare le fotografie. In alcune si

vedeva mia madre da giovane insieme ad altre

persone. Dietro c'erano segnate delle cose e anche

delle date ma erano sempre nella lingua

sconosciuta.

La collanina e la penna non mi dicevano niente.

Per ultimo osservai il passaporto che era la cosa

più inquietante. Nonostante non riuscissi a capirci

niente dimostrava in maniera inequivocabile che,

nella vita di mia madre, c’era qualcosa di nascosto

e di oscuro. Se quel passaporto era vero mia

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madre non era italiana e non si chiamava Caterina.

Veniva dalla ex Jugoslavia ma non sapevo

precisamente da dove.

Mi chiedevo come mai non me ne avesse mai

parlato. Aveva forse commesso qualche reato o

forse c’era qualche altro motivo. Capivo solo che

un evento casuale mi aveva rivelato un lato di mia

madre che ignoravo completamente e, anche se mi

sentivo molto scossa, il sentimento principale era la

rabbia. Avrei voluto sbattere il passaporto sul suo

letto d’ospedale e urlarle contro tutta la mia rabbia

e la mia frustrazione. Ma quella sera, quando la vidi

così sofferente, mi tormentai tutto il tempo. Non

riuscivo a decidere se parlarle o no. Era ancora

intubata e non poteva parlare. Decisi di lasciar

perdere per il momento e di cercare di scoprire

qualcosa di più. Mentre tornavo a casa mi venne in

mente Oleksandra. Faceva le pulizie nel palazzo ed

era ucraina. Pensai che forse mi avrebbe potuto

dare una mano con le lettere e le fotografie.

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La storia di Oleksandra raccontata da lei stessa.

Mi chiamo Oleksandra e sono nata in Ucraina

quarantadue anni fa. Sono cresciuta in un paese di

campagna. I miei genitori avevano una bella casa

tutta di legno vicino ai campi dove coltivavano il

grano. Noi ragazzi giocavamo, facevamo sport,

vivevamo una vita molto libera. A Pasqua colora-

vamo e dipingevamo le uova, nascondevamo

piccoli dolcetti sotto gli alberi e organizzavamo la

caccia al tesoro. Quando veniva l’inverno

giocavamo a scacchi e ci radunavamo intorno alla

stufa di ceramica che bisognava rifornire

continuamente di legna. Quando ho finito la scuola

primaria ho deciso di studiare per diventare

infermiera. Mi ero appena diplomata quando sono

rimasta incinta di un mio compagno di scuola e così

mi sono sposata. Ho avuto due bambini molto belli.

La femminuccia si chiama Valentina e il maschio si

chiama Ivan. In quel periodo c'è stata la disso-

luzione dell'Unione Sovietica. Improvvisamente la

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nostra economia è andata in pezzi. Per mesi la

gente che lavorava per lo stato non è stata più

pagata. Non abbiamo avuto più l'assistenza

sanitaria. I soldi non bastavano più per comprare

nulla. Io fortunatamente vivevo in un piccolo paese

di campagna e così almeno da mangiare ce

l'avevo. Ma conosco persone di città che hanno

rischiato davvero di morire di fame e di freddo. Una

mia amica giornalista è finita a chiedere l'elemosina

in mezzo alla strada. Anche se per noi le cose non

erano così drammatiche mio marito perse il lavoro

e cominciò a bere più del solito. Una signora che

conoscevo mi disse che, se avessi voluto, mi

avrebbe potuto far arrivare in Italia dove avrei

potuto lavorare come cameriera.

Ci pensai molto ma, nonostante il dolore di lasciare

i miei figli, decisi che, proprio per il loro bene,

dovevo partire. E così ho affidato i miei figli a mia

madre e sono venuta in Italia. Sono venuta con un

pulmino Transit attraverso la Polonia e poi l'Austria.

Avevo un permesso turistico. Ad aspettarmi c'era il

contatto che mi ha aiutato a trovare una siste-

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mazione. I primi tempi ho diviso una stanza con

altre tre ucraine. Eravamo tutte e quattro in cerca di

lavoro. Tutte e quattro senza sapere una parola di

italiano.

Qui faceva caldissimo, non ero proprio abituata, mi

ritrovavo sudata qualunque cosa facessi.

Vedevo tante cose strane e che non conoscevo.

Per la prima volta ho visto un albero di arancio.

Non sapevo che le arance crescessero sugli alberi.

Non avevo mai mangiato un fico né un caco e

anche adesso non mi piacciono tanto. Così

mollicci.

Neanche la pasta mi piace tanto.

E preferisco il te al caffè ma nessuno me lo offre

mai.

Ho trovato lavoro in una casa di militari. La moglie

era brasiliana e così si può dire che ho imparato

prima il portoghese che l'italiano. Facevo i servizi e

aiutavo il primo figlio che era disabile e doveva

essere assistito per ogni cosa. Mi sono affezionata

e ancora adesso la signora mi chiama quando ha

bisogno di aiuto con Roberto.

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Solo quando sono arrivata qui ho scoperto la vera

storia di Chernobyl. Mi sono ricordata che quando è

successo il fatto ci fecero uscire da scuola e ci

dissero che si trattava di una esercitazione. Ci

dissero di rimanere in casa e di non aprire le

finestre. Di non mangiare frutta e verdura. Dopo

qualche giorno distribuirono delle pillole da

prendere e ci dissero che era iodio per la tiroide ma

di non preoccuparsi perché c'era stata una fuga di

gas radioattivo da una centrale tedesca.

Solo qui ho scoperto quello che era davvero

accaduto.

Il tempo è passato, i miei figli sono cresciuti senza

di me.

Adesso sono diventata anche nonna.

Ora è tutto più facile.

Ho un computer e la sera mi metto su Skype e

parlo con i ragazzi e con i nipotini. Mi sento meno

sola.

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Ho anche trovato un nuovo compagno. Lui fa il

vigile urbano e, ogni tanto, la domenica andiamo in

gita da qualche parte.

Qui mi faccio chiamare Alessandra perché è un

nome che tutti capiscono.

Faccio tre lavori. La mattina lavo le scale qui nel

palazzo e poi faccio compagnia a una signora

anziana. Ogni tanto la accompagno al circolo dove

si incontra con le amiche e gioca a carte e la notte

vado a dormire a casa di un signore anziano che

ha bisogno di compagnia. Ogni tanto la sera con il

mio computer chiamiamo i suoi figli e così li saluta.

Una volta ogni due settimane vado al supermercato

e faccio una bella spesa. Poi vado al capolinea dei

pulmini per l'ucraina e mando un pacco a mia

madre e ai miei figli.

Ormai da noi si trova tutto ma alcune cose costano

troppo e così nel pacco metto il tonno, il detersivo

per la lavatrice, qualche giocattolino per i nipotini,

qualche shampoo, insomma cose così.

Ci conosciamo tutte. Mandiamo i pacchi e, qualche

volta, qualcuna di noi parte per andare a trovare la

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famiglia. Chi è fortunata e guadagna bene ci va

anche una volta all'anno e chi non può ci va ogni

tre, quattro anni. Il pulmino costa 130 euro e ti porta

fino alla città più vicina e lì ti vengono a prendere i

parenti.

A volte il problema non sono solo i soldi ma anche

il fatto che non puoi lasciare sola la persona che

accudisci per tanto tempo. Rischi di perdere il

posto. Io ho una amica che si chiama Olga che mi

sostituisce quando vado via. Tanto lei è sposata

con un italiano e non vuole rubarmi il lavoro.

Qui mi trovo abbastanza bene. Conosco parecchie

persone e la domenica riesco sempre a fare

qualcosa. Quando sono le feste ortodosse ci

riuniamo con tutti gli altri ucraini e cerchiamo di

rispettare la tradizione. Cuciniamo i nostri cibi e

proviamo a far finta di essere a casa. Ma siamo

sempre un po' tristi di essere lontani dalla famiglia.

Non parliamo mai veramente di quello che ci è

successo. Siamo sempre presi dai problemi

quotidiani ma tutti noi dei paesi dell’est abbiamo

come un buco dentro. Perché tutto quello che

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avevamo sognato e pensato e sperato quando

eravamo giovani è andato distrutto. Niente è stato

come ci aspettavamo. Io pensavo che avrei avuto

la mia casa,il mio lavoro, una vita tranquilla. E

invece sono stata costretta ad andare via dalla mia

terra, dalla mia famiglia e,anche quando torno a

casa, non ritrovo nulla di quello che ricordo. Perché

la vita lì è cambiata tantissimo e nulla è più come

prima. Quando vedo in televisione quelle grandi

catastrofi come lo tsunami ho pena per loro ma

penso che almeno loro hanno la compassione di

tutto il mondo. Perché quello che hanno perso è

evidente. Invece noi abbiamo perso tutto ma

nessuno lo capisce e persino noi abbiamo paura di

parlarne. Perché è meglio non guardare nel buco

che abbiamo dentro. Ogni tanto qualcuno si mette

a rifletterci troppo e finisce in depressione o ubriaco

ai margini della strada.

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Improbabili aiuti.

La mattina dopo puntai la sveglia alle 6. Volevo

essere sicura di incrociarla. Mi vestii alla bell'e

meglio e mi sedetti sul pianerottolo ad aspettare.

Verso le 7 sentii Oleksandra che stava lavando le

scale al piano di sopra. Aspettai pazientemente

perché non volevo darle l'impressione che si

trattasse di una cosa urgente. Non volevo che lei

attribuisse alla faccenda troppa importanza.

Preferivo evitare che ne parlasse in giro.

Finalmente girò le scale e mi vide. "Ciao Marzia.

Che ci fai sveglia a quest'ora? Mamma sta bene?"

"Si grazie, mamma sta meglio. Ti stavo aspettando.

Ti devo chiedere un piacere. Puoi entrare a

prendere un caffè?"

"Fammi finire il pianerottolo e poi, mentre si

asciuga, entro cinque minuti. Giusto il tempo di una

sigaretta. Se no chi lo sente l'amministratore."

Quando entrò avevo già messo la macchinetta sul

fuoco. Ci sedemmo in cucina e io andai a prendere

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le lettere e le foto. Il passaporto no perché non

volevo che lei capisse tutta la storia.

"Mettendo a posto delle vecchie carte ho trovato

queste lettere e queste fotografie. Ho pensato che

forse tu sai di che lingua si tratta."

Oleksandra guardò una foto e la busta di una

lettera.

"E' cirillico. Non è ucraino e neanche russo. Penso

che sia serbo. Qualcosa capisco perché l'ho

studiato quando facevo la segretaria ma non mi

ricordo quasi più niente. Quello che ti posso dire di

sicuro è che le lettere sono tutte scritte da un certo

Krescan. Questo tizio è anche in alcune fotografie.

Deve essere questo qui, vedi? Questo coi capelli

tutti scombinati, né ricci né lisci. E qui, mi disse

indicando un' altra fotografia, c'è scritto mamma,

papà e Herman. Penso che siano i tuoi nonni."

La guardai con un'aria stranita. Non riuscivo ad

inquadrare la situazione. Una donna ucraina che

quasi non conoscevo mi stava dicendo che mia

madre non era italiana. Forse era iugoslava. E che

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forse c'era una famiglia da qualche parte al di là

dell'Adriatico.

Oleksandra si alzò e spense il fuoco. Il caffè era

uscito fuori dalla caffettiera ed era caduto quasi

tutto sul fornello. La puzza di bruciato riempiva il

cucinino. Versò il caffè rimasto in due tazzine.

"Dove sta lo zucchero?"

Le indicai con un cenno il contenitore e lei zuccherò

il caffè.

Si sedette al tavolo e si accese una sigaretta.

"Senti Marzia. Vedo che questa cosa ti ha

sconvolta. Non voglio immischiarmi ma, se vuoi

una mano per tradurre le lettere, posso trovare

qualcuno che legge bene il serbo. Qualcuno fidato

a cui non devi dare nessuna spiegazione e

neanche soldi."

Non mi sentivo in grado di decidere niente. Nelle

orecchie mi rimbombava un rumore come di acqua

che scorre.

Oleksandra fu carina. Mi diede un colpetto sulla

mano e se ne andò dicendo che sarebbe passata

l'indomani.

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Rimasi molto tempo seduta al tavolo. Mi sembrava

di non star pensando a niente e di avere la testa

completamente vuota e invece qualcosa doveva

star funzionando perché di colpo mi alzai, andai in

bagno e, prese le forbicine per le unghie, cominciai

a tagliarmi i capelli. Mentre piccole ciocche di

capelli cadevano nel lavandino pensai che dovevo

assolutamente leggere le lettere.

Andai a prenderle. Guardandole con più attenzione

mi accorsi che erano tutte indirizzate ad un albergo

di Carezza. Si trattava dello stesso albergo della

cartolina. Cercai su internet il numero di telefono e

chiamai. Mentre aspettavo che qualcuno

rispondesse cercavo di elaborare una strategia. Mi

rispose una voce di donna.

"Waldhaus. Posso esserle utile?"

"Mi scusi. Mi chiamo Marzia X. Sto cercando notizie

di una persona che soggiornava lì una ventina di

anni fa. C'è qualcuno con cui potrei parlare?"

"Guardi, così su due piedi non so risponderle. Mi

deve dare un po’ di tempo anche perché la

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gestione dell'albergo è cambiata varie volte negli

ultimi anni. Può richiamarmi domani mattina."

"La ringrazio tanto. Ci sentiamo domani."

Il resto della giornata trascorse così, senza senso.

Feci le solite cose. Studiai un po’ nel disperato

tentativo di non essere bocciata all'esame di

maturità, mi preparai il solito tramezzino con fesa di

tacchino al forno, insalata, pomodoro e una

cipollina,andai a trovare mamma e poi mi ritirai a

casa.

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La storia di Sasha raccontata da lui

stesso.

Mi chiamo Sasha. Ho ventitré anni, sono italiano

ma vengo dalla Serbia.

Sono un falegname. Per lo più faccio infissi ma

faccio anche piccoli lavori artistici.

Sono arrivato dalla Serbia con la mia famiglia

quando ero molto piccolo. Per questo non ricordo

nulla della mia patria d'origine. Ho un fratello che si

chiama Voin che ha un anno meno di me.

Ho frequentato le scuole elementari qui insieme a

lui. Eravamo nella stessa classe anche se non so

come fosse possibile visto che abbiamo un anno di

differenza. Forse io ho perso un anno di scuola ma

non ne sono sicuro. Da che mi ricordo ho sempre

saputo anche l'italiano. C'ho messo molto tempo a

capire che la mia situazione era diversa da quella

degli altri bambini. L'unica cosa che sentivo diversa

era il fatto di parlare un’altra lingua in casa. Da un

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certo momento in poi mia madre ha voluto che

cominciassimo anche a imparare a leggere e a

scrivere in serbo. Così nonostante le proteste di

Voin, che è sempre stato il più ribelle, lo abbiamo

studiato.

L'altra cosa un po' strana era il fatto che

frequentassimo pochissimo gli altri bambini della

scuola. Stavamo sempre solo io e Voin oppure ci

vedevamo con i miei cugini.

Io e Voin crescendo ci siamo molto allontanati.

Tutte le nostre differenze caratteriali sono venute

fuori e così facciamo ognuno la propria vita in

maniera assolutamente indipendente. Lui studia

ancora io invece dopo il liceo ho smesso. Andavo

bene a scuola ma non mi interessava niente. Sono

un tipo un po' solitario. Ho solo un paio di amici con

i quali ce ne andiamo qualche volta ad un concerto

o a un cinema.

Soltanto verso i tredici anni mio padre ci ha

spiegato che eravamo scappati dalla Serbia perché

lì c'era la guerra. Per questo motivo ho cominciato

a cercare notizie sulla guerra di Serbia ma, a parte

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le cose generiche che si possono apprendere sui

libri non sono riuscito a trovare niente di più. I miei

genitori non hanno mai voluto spiegarci bene cosa

fosse successo e perché fossimo venuti via. Per

esempio non so come mai abbiano scelto l’Italia. A

scuola non frequentavo l’ora di religione. I miei

giustificarono questa scelta con la scusa di essere

ortodossi ma, a dire il vero, io non sono mai entrato

in una chiesa. Penso solo che i miei volessero

evitare che si parlasse di religione dopo tutto quello

che era successo nel loro paese.

Non sono una persona interessante, sono uno dei

tanti. Non sono brillante né particolarmente

simpatico, ho sempre un po’ di difficoltà quando

conosco una persona nuova a cominciare una

conversazione. Mi sento così lontano dall’idea che

tutti, ma le ragazze in particolare, hanno di come

dovrebbe essere e comportarsi un vero uomo. Non

mi piace espormi e rischiare di essere rifiutato. Non

amo guidare e anche se ho la patente non prendo

la macchina quasi mai perché preferisco farmi

scarrozzare dagli amici. Certe volte guardo mio

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fratello così solare e disinvolto e mi chiedo come

sia possibile che siamo cresciuti nella stessa

famiglia. Secondo me lo pensano anche i miei

genitori. Sono contenti che io abbia deciso di

seguire le orme di mio padre ma, anche se non

hanno il coraggio di confessarlo neanche a loro

stessi, pensano che io non abbia nessuna

ambizione e che sia una persona passiva. Io invece

trovo che il lavoro manuale sia molto gratificante.

Mentre lavoro a un pezzo la mia mente può

spaziare e posso sognare senza essere distratto.

Forse tutto questo sognare e spaziare mi ha reso

ancora più passivo. Non lo so. La verità è che la

realtà è sempre talmente diversa dai miei pensieri.

Nessuna ragazza mi ha mai amato veramente.

Forse solo quando ero piccolo qualcuna mi ha

voluto bene. E anche io ho avuto solo una cotta per

una compagna del liceo. Certe volte ho come la

sensazione di essere uno stagno, un posto pieno di

vita nascosta dall’acqua torbida. A nessuno

interessa guardare nell’acqua torbida per trovare le

cose, quasi tutti preferiscono mettere le mani

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32

nell’acqua limpida anche se si vede subito che

dentro non c’è niente.

Insomma, è vero che ho solo 23 anni ma della mia

vita c'è ben poco da raccontare. Forse ci sarebbe

se sapessi qualcosa di più del passato della mia

famiglia. Ma i miei sono stati sempre molto reticenti

al riguardo e quindi io non ne so molto. E poi

comunque sarebbe la loro vita e non la mia.

Penso che prima della guerra fossimo abbastanza

ricchi perché mio padre qui ha potuto aprire una

piccola fabbrica di infissi di legno. La fabbrica va

abbastanza bene e ne ricaviamo di che vivere

dignitosamente. Mia madre è una psicologa e

lavora in una specie di centro di ascolto per

immigrati.

A furia di stare qui abbiamo conosciuto tanta gente.

C'è la signora che lava le scale del palazzo di

fronte che viene sempre a prendere il caffè con mio

padre e si fuma una sigaretta qui da noi prima di

andare a lavorare da un'altra parte. Lei non è

serba, è ucraina ma ha in comune con mio padre la

Page 33: Il Cuore a Brand Elli

33

sensazione di essere da un lato oramai italiana e

dall’altro ancora straniera.

Venendo a lavorare qui tutti i giorni ho notato

questa ragazza vestita sempre in maniera un po'

strana, sempre sola, che abita qui di fronte.

Ma non penso che riuscirò mai a rivolgerle la

parola.

Page 34: Il Cuore a Brand Elli

34

Sapere troppo.

La mattina dopo puntai la sveglia alle 7 meno un

quarto e aspettai Oleksandra. Lei arrivò insieme a

un ragazzo dall' aria stranita. Forse non era

abituato a svegliarsi presto. Non so. O forse, più

probabilmente, era un po' in imbarazzo per la

situazione.

Aveva una faccia conosciuta. Doveva abitare in

zona perché mi sembrava di averlo già visto ma

non riuscivo a ricordare dove.

Oleksandra doveva avergli già spiegato la faccenda

perché non ci fu bisogno di molte parole. Lui mi

salutò e mi disse di chiamarsi Sasha.

Gli diedi le lettere che avevo ordinato in base alla

data del timbro postale.

Sasha aprì la prima.

"Khadija adorata,

sono mesi che cerco di mettermi in contatto con te.

Nessuno sapeva dirmi dove fossi andata. O forse

nessuno voleva farlo. Alla fine tua nonna ha avuto

Page 35: Il Cuore a Brand Elli

35

pietà di me e mi ha dato questo indirizzo. Ti scrivo

nella speranza che questa mia ti raggiunga.

Anche se sono un senza dio ho pregato perché tu

capissi il mio gesto ma il tuo silenzio mi dice che

non è così.

Noi non ce lo eravamo mai detto chiaramente ma

sapevamo tutti e due di amarci.

La guerra ci ha travolti ma io non ho dubitato

neanche per un attimo che ci saremmo ritrovati e

amati.

Quando sono partito con la milizia non avevo capito

la gravità di quello che stava accadendo. Se no, te

lo giuro, sarei scappato pur di non combattere.

Parlavano di nemici, non avevo capito che

parlavano dei miei stessi vicini di casa.

Dopo un paio di mesi di addestramento nei boschi

abbiamo iniziato i primi blitz contro i villaggi.

Assaltavamo le fattorie isolate, davamo fuoco alla

paglia, ammazzavamo le bestie e spaventavamo gli

abitanti. Ma si può dire che ancora non avevo

capito la follia di tutto questo. E' stato solo quando

siamo venuti al villaggio che ho capito. Quando il

Page 36: Il Cuore a Brand Elli

36

tenente ha ordinato di radunare gli uomini da una

parte e le donne dall'altra credevo ancora che non

sarebbe successo niente di grave. Invece lui ha

sparato in testa al capo villaggio e poi ha ordinato a

noi ragazzi più giovani di violentare le donne. In

quel momento non ho capito più nulla. Ti cercavo

con lo sguardo fra tutte nella speranza che fossi

scappata al rastrellamento.

Ma poi ti ho vista. Il cuore mi si è spezzato all'idea

di quello che stava per succedere. E così ho

chiesto al tenente se potevo prendermi la ragazza

che volevo. Gli ho spiegato che quello era il

villaggio dove passavo le vacanze quando ero

piccolo e che c'era una ragazza che mi aveva fatto

tanto soffrire. Al tenente non sembrò vero che io

potessi vendicarmi di qualcuno direttamente e

disse subito di si. E così corsi verso di te e ti

strattonai violentemente e cominciai a gridarti tutti

gli insulti che mi vennero in mente, proprio come un

amante respinto. Pensavo ancora che sarei riuscito

a farti scappare senza farti del male. Ma poi sono

arrivati gli altri. Urlavano, mi incitavano. E allora ho

Page 37: Il Cuore a Brand Elli

37

avuto paura. Ho capito che se non ti avessi

violentata ti avrebbero uccisa e forse avrebbero

ucciso anche me. Lo so. Sono stato un vigliacco.

E così l'ho fatto. Ti ho strappato i vestiti e ti ho

violentata e, mentre lo facevo, è stato come se mi

avessero strappato il cuore dal petto. Sentivo solo

le urla dei miei compagni e il tuo pianto silenzioso.

E mentre arrivavo riuscivo soltanto a pensare a

quante volte avevo sognato di fare l'amore con te.

L'unica cosa che ricordo con chiarezza è di essere

riuscito ad impedire che ti violentassero anche gli

altri. Con le mie parole avevo messo come una

specie di marchio di possesso che, in parte, ti ha

salvato.

Ti devo lasciare. Non riesco ad andare avanti.

Perdonami

Krescan

"Mia amata Khadija,

dopo quello che era successo non potevo più stare

con la milizia. L'orrore di quello che stava

succedendo, che io stavo facendo mi fu

Page 38: Il Cuore a Brand Elli

38

improvvisamente chiaro e divenne un peso

insostenibile. Alla prima occasione scappai nei

boschi. Ho passato un paio di mesi terribili. Non

potevo andare da nessuno né farmi vedere in giro.

Per la milizia ero un disertore e se mi avessero

trovato mi avrebbero fucilato e per tutti gli altri ero

un bastardo della milizia e, se mi avessero avuto

tra le mani, mi avrebbero strappato il cuore a bran-

delli.

In quel periodo sono quasi morto di fame e di

freddo nascosto nei boschi cercando di camminare

solo di notte per non essere visto.

Alla fine ho avuto fortuna. Mi sono imbattuto in una

pattuglia dell'ONU. Mi sono consegnato a loro che

mi hanno portato via. Mi hanno curato e mi hanno

rimesso in sesto, almeno fisicamente.

In tutto questo tempo non ho avuto nessuna notizia

di te e neanche del villaggio. Era in una parte del

territorio ancora non pacificato. Ho cercato di avere

tue notizie in tutti i modi possibili ma nessuno

sapeva dirmi qualcosa. Poi ho avuto di nuovo un

colpo di fortuna. Al campo è arrivato Herman. Dopo

Page 39: Il Cuore a Brand Elli

39

quello che era successo al villaggio si era arruolato

nelle altre milizie per vendicarsi. Ecco che il veleno

dell' odio era entrato nel suo cuore. Come in quello

di molti altri. Ma era solo un ragazzino. Per fortuna

era stato catturato prima che potesse commettere

delitti troppo gravi. Cose di cui si sarebbe pentito

per tutta la vita.

Lui mi vide da lontano ma sembrò non

riconoscermi.

Invece una notte mi aggredì con un coltello

improvvisato. Riuscii a disarmarlo e cercai di

parlargli. Ma lui continuava a insultarmi e a cercare

di picchiarmi. Gli ripetei la storia mille volte ma mi

accorsi che lui non ci credeva.

Cominciai a sudare freddo. Capii che nessuno

avrebbe creduto e capito perché lo avevo fatto. Per

tutti ero un bastardo violentatore e andavo trattato

come tale.

Rimasi immerso nella depressione per settimane.

Ero sconvolto al pensiero che tu non avessi capito

il mio gesto. Che forse questa idea di un amore fra

noi fosse soltanto una mia illusione.

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40

E poi arrivò tua nonna. Venne a recuperare

Herman che era ancora minorenne.

Arrivò con la sua solita energia. Con il bel foulard

colorato in testa, il suo bel corpo prosperoso. Io la

vidi da lontano e le corsi incontro. Correvo e

piangevo. Quando le fui vicino lei cominciò a

prendermi a schiaffi e a urlare ma io non mi difesi.

Continuavo soltanto a dire: “Baka, baka, credimi, io

la amo. L’ho fatto solo per salvarla. Io la amo,

credimi.” Non so cosa sia stato a convincerla. Ma, a

un tratto, lei ha smesso di picchiarmi e mi ha

abbracciato. Non ha versato neanche una lacrima

ma io ho sentito che stavamo provando lo stesso

dolore.

E' stata lei che, prima di andarsene, mi ha dato un

foglietto con questo indirizzo.

Io continuo a sperare che queste mie ti giungano.

Ti abbraccio."

"Mia adorata Khadija,

cerco disperatamente di ricordarmi la tua risata ma

mi tornano in mente solo le tue lacrime.....,"

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41

Ascoltavo Sasha ma avevo la sensazione di non

capire cosa stesse dicendo. Era un po' come

leggere un libro. Essere dentro ma nello stesso

tempo essere un semplice spettatore.

Fu Sasha a rompere l'incantesimo quando, dopo

aver letto la terza lettera, disse: "Potrebbe essere

tuo padre."

Per un attimo lo guardai come se fosse pazzo. Poi

venni sopraffatta da una rabbia incontrollabile.

Cominciai a urlare: "Ma che cazzo dici!!!! Non sai

niente di me, di mia madre, di questa storia. Non

sai neanche se la persona a cui sono indirizzate

queste lettere sia mia madre. Vaffanculo,

Vaffanculo!!!!"

Lui mi disse soltanto: "Hai ragione, scusami."

Rimasi malissimo e la rabbia svanì con la stessa

velocità con cui era comparsa.

Mi dispiaceva averlo trattato così male. Lui in fondo

mi stava facendo un piacere. Aveva espresso solo

il suo pensiero che forse era anche quello di

Oleksandra. La guardai per cercare di capire se

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anche lei la pensasse così. Ma Oleksandra stava

zuccherando il caffè e mi dava le spalle.

Page 43: Il Cuore a Brand Elli

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Mettere ordine.

Cercai di concentrami per mettere un poco di

ordine nelle cose che avevo saputo dalle lettere.

1) Mia madre era jugoslava

2) Era stata violentata da un suo amico d'infanzia

3) Era arrivata in qualche modo in Italia

4) Aveva abitato al Lago di Carezza

5) Aveva ricevuto queste lettere ma non aveva

mai risposto. Non so se perché non avesse

creduto alle sue spiegazioni o per qualche altro

motivo

6) Non era mai più tornata in Serbia quindi forse la

sua famiglia era tutta scomparsa.

7) C'era una remota possibilità che l'uomo delle

lettere fosse mio padre.

Ero sempre indecisa sul parlarne con mia madre.

Lei non stava bene e avevo paura che se avesse

saputo che io avevo scoperto questo segreto ne

sarebbe morta.

Mi ricordai che non avevo più telefonato all'albergo

di Carezza.

Page 44: Il Cuore a Brand Elli

44

Ero sovrappensiero quando la mano di Sasha si

chiuse sulla mia. "Ehi, come va? Ti senti bene? Hai

voglia di un po' di caffè?"

Non so se fu questo inatteso contatto fisico ma il

peso di tutta questa storia mi cadde addosso come

un macigno.

Cominciai a piangere a dirotto e non riuscivo a

frenarmi. Sasha venne ad abbracciarmi. "Non

preoccuparti. Ci siamo noi qui con te, non sei sola."

Le sue parole invece di calmarmi mi intristirono

ancora di più. I miei singhiozzi si fecero disperati. E

poi, così come iniziato, il pianto finì. Proprio come

un bambino ogni tanto avevo un singulto ma poi mi

passava. Avevo gli occhi rossi e gonfi. Oleksandra

scosse la testa e mi disse di bere il caffè e che

dopo mi avrebbe fatto un impacco miracoloso per

far sparire il gonfiore.

Poi si avviò verso la porta dicendo che andava a

finire le scale e che mi lasciava Sasha perché era

meglio che non rimanessi sola.

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45

Improbabili amori.

La accompagnai attraverso il corridoio e, quando

mi girai, mi accorsi che Sasha mi aveva seguito e

così me lo trovai quasi addosso. Non so perché ma

istintivamente lo abbracciai. E lui mi baciò. Non me

lo aspettavo ma non mi stupii. Sembrava tutto così

naturale.

"Sai, quando Oleksandra mi ha chiesto di venire qui

mi è sembrato un miracolo. Era tanto tempo che ti

guardavo dalla mia bottega ma non sapevo come

fare a parlarti. E poi é arrivata questa cosa. Mi

dispiace di quello che ti sta succedendo ma sono

così contento di averti conosciuto."

Continuammo a baciarci fino a quando non tornò

Oleksandra.

"Adesso dobbiamo andare. Sono contenta che ti

sei calmata. Dopo dovresti telefonare all'albergo.

Magari ti sanno dire qualcosa. Noi torniamo domani

mattina."

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Se ne andarono e io misi un po' in ordine la casa.

Lavai il bagno e avviai una lavatrice. Aspettai che si

facesse un'ora decente e poi telefonai.

Mi rispose la stessa voce della prima volta e io le

ripetei la domanda. Mi disse che si, in effetti c'era

una persona che era in servizio tanti anni fa. Era il

portiere di notte Joseph e che dovevo chiamarlo

verso le otto di sera quando prendeva servizio. La

ringraziai e scesi a fare un po' di spesa. Non so dire

bene perché ma volevo che la casa avesse un

aspetto meno abbandonato.

Studiai un po' e poi alle 18 andai in clinica. Mia

madre stava come al solito. Era ancora intubata e il

dottore continuava a ripetere che non sembrava

metterci abbastanza energia per cercare di reagire.

Io cercavo di parlarle come suggerivano tutti ma

non avevo molto da dirle. Mi stavo ancora

interrogando sull'opportunità o meno di raccontarle

di Sasha quando entrò l'infermiera a dirmi che

dovevo andare via. E poi aggiunse: "Sai, se

qualche giorno non vuoi venire non ti preoccupare.

Ci siamo qui noi, abbiamo il tuo numero di cellulare

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e ti possiamo chiamare se c'è qualche novità."

L'idea di non andare a trovarla non mi aveva mai

neanche sfiorato. Mi sembrò una proposta oscena

e assurda. Comunque la ringraziai e andai via.

Tornai a casa e, alle otto, telefonai al portiere. Mi

rispose una voce d'uomo.

"Il signor Joseph? Sono Marzia X. La signorina

della reception le ha già accennato la cosa."

"Si certo mi ha detto di cosa si tratta ma non di chi

si tratta."

"Io sono la figlia di Khadija che forse lei ha

conosciuto con il nome di Caterina. Era una

ragazza jugoslava scappata dalla guerra. Ho

trovato alcune lettere indirizzate a lei presso il

vostro albergo e mi chiedevo se qualcuno si

ricordasse di lei e mi potesse raccontare qualcosa

di più."

"Khadija è morta?"

"No, non è morta ma è molto malata e purtroppo

non può rispondere alle mie domande. Io sono sola

e non ho nessun altro a cui chiedere."

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"Mi ricordo benissimo di tua madre e mi ricordo

anche di te. Ma naturalmente sono cose un po'

delicate per parlarne per telefono soprattutto

mentre sono al lavoro. Ti do il mio cellulare così ci

possiamo sentire domani con calma verso le 10

quando torno a casa. Va bene?"

"Ok. Allora a domani."

Mi segnai il numero e riattaccai.

Andai in cucina e misi un po' di tavola. Erano

settimane che non lo facevo più. Apparecchiai per

due.

Con Sasha non ci eravamo detti niente ma ero

sicura che sarebbe venuto.

Verso le nove suonò il citofono. Era lui. Salì con in

mano un pollo del girarrosto e delle patatine.

Ci sedemmo e mangiammo. Poi lavammo i piatti e

mettemmo in ordine la cucina. Non parlammo

quasi. Poi andammo in camera mia e facemmo

l'amore. Parlammo un po' e poi ci addormentammo.

Eravamo tutti e due stanchissimi. Era stata una

giornata emotivamente troppo intensa.

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Avevo la sveglia impostata alle sei per aspettare

Oleksandra. Per la prima volta dopo tanto tempo mi

svegliai e, vedendo Sasha, mi sentii bene.

Facemmo di nuovo l'amore e tutte le tensioni si

allentarono. Mentre facevamo colazione bussò

Oleksandra.

Guardò Sasha in modo un po' strano ma io la

rassicurai. "E' tutto a posto. Ci vogliamo bene e

siamo due adulti."

Mentre prendevamo il caffè io riassunsi gli ultimi

sviluppi.

"Penso che dovresti andare a Carezza di persona.

E' meglio se vedi con i tuoi occhi e parli con questa

persona dal vivo. Non preoccuparti per mamma.

Posso andare io a trovarla in ospedale." Commentò

Oleksandra.

"Alle 10 devo chiamarlo e sento cosa mi dice. Poi

magari decido."

"Va bene. Vi lascio e torno al lavoro. Sasha vieni

anche tu?"

"Si, scendo anche io se no faccio tardi."

Mi baciò e se ne andarono tutti e due.

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Tornai in cucina e mi sedetti a bere un altro po’ di

caffè. Appoggiai un attimo la testa sul braccio e,

senza neanche accorgermene, mi addormentai.

Mi svegliai che erano quasi le dieci. Mi sciacquai la

faccia e andai a prendere il cellulare.

La conversazione non aggiunse granché a quello

che già sapevo. Joseph mi disse che si ricordava di

mia madre. Che quando era arrivata era incinta e

che aveva partorito lì una bambina. Aveva lavorato

in albergo nella lavanderia e che era molto brava.

Mi disse che avrei dovuto parlare con Maria che

lavorava con lei e con la quale erano diventate

grandi amiche. Soltanto che Maria era molto malata

e al telefono non sentiva quasi più. Lo ringraziai e

riattaccai.

Forse aveva ragione Oleksandra. Dovevo andare a

Carezza.

La giornata trascorse così, senza infamia e senza

lode.

Finalmente si fecero le nove e tornò Sasha.

Mangiammo in silenzio come la sera prima,

riordinammo la cucina e poi andammo in camera

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mia e facemmo l'amore. Mentre rimanevamo

abbracciati mi disse: “Domani chiedo qualche

giorno di permesso e partiamo."

La mattina dopo dissi ad Oleksandra che avevo

deciso di partire e che Sasha sarebbe venuto con

me. Avremmo preso il treno fino a Bolzano e poi

saremmo andati in pullman. Una cosa tranquilla.

La sera andai a trovare mia madre e avvertii

l'infermiera del fatto che per qualche giorno non

sarei andata e che al mio posto sarebbe venuta

una mia amica. Mi ricordai che solo qualche giorno

prima alla proposta di non andare avevo reagito

malissimo e avevo pensato che l'infermiera fosse

una persona orribile e invece adesso tutto era

cambiato. La salutai e tornai a casa più serena.

Aver deciso di partire mi aveva come risvegliato. Mi

resi conto che era tanto che vivevo in questa

specie di limbo. Come sospesa in attesa di

qualcosa. La malattia di mia madre mi aveva

bloccato ed ora, finalmente, decidevo di riprendere

la mia vita e di andare avanti. Di ricominciare come

se esistesse un futuro.

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Quando la sera arrivò Sasha si avvertì subito

un'aria diversa.

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Andare.

All'apparenza tutto si svolse come al solito, cena

quasi in silenzio e riordino della cucina ma quando

fu il momento di andare in camera da letto lo fermai

e gli dissi:

"Andiamo un po’ in salotto. C'è tutta una parte della

casa che non conosci proprio"

E così andammo in salotto e io accesi la radio su

Virgin Radio e, dopo cinque minuti facevamo

l'amore sul divano sentendo un vecchio pezzo di

Elton John. E fu ancora più bello del solito. Ci

addormentammo abbracciati sul divano e facemmo

tutto un sonno fino alla mattina dopo.

Del viaggio in treno non mi ricordo quasi nulla. Un

po' leggemmo, un po' dormimmo, un po'

guardammo il paesaggio che correva al di là del

finestrino. Arrivammo a Bolzano che era già

pomeriggio inoltrato e dovemmo prendere subito il

pullman. Cominciammo a salire lungo una strada

impressionante. Era letteralmente scavata nella

roccia. In certi punti sembrava che il bus non

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sarebbe proprio riuscito a passare. Per me che ero

una cittadina DOC tutto questo era spaventoso. Mi

sentivo davvero impaurita. Sasha era altrettanto

colpito anche se, mi raccontò, era stato spesso in

montagna quando ancora viveva in Serbia.

A un certo punto il pullman fece una fermata e la

voce registrata annunciò il lago. Ci girammo e lo

vedemmo. Era quasi il tramonto e il lago era uno

spettacolo pazzesco. Completamente circondato

dalle montagne, di un verde intensissimo, con tutti i

pini che si riflettevano nell'acqua.

Il pullman ripartì e dopo un paio di tornanti ci

trovammo davanti all'albergo. Era una enorme

costruzione di pietra scura. Nel crepuscolo era

piuttosto inquietante. Alle sue spalle una montagna

bellissima. La cima era ancora illuminata dal sole

ed era tutta rosa. Il Catinaccio. Rosengarten.

Con mia grande sorpresa scoprii che Sasha

parlava anche il tedesco. Quando gli chiesi come

mai si mise a ridere. "Non lo sai che noi slavi siamo

portati per le lingue? Le impariamo con grande

facilità."

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Beati voi, pensai.

Entrammo nell'albergo e ce ne andammo subito in

camera. Decidemmo di rinviare a domani la visita al

Waldhaus. Mi sentivo stanca e non ce la facevo ad

affrontare la questione di mia madre.

Ci avevano detto che in albergo c'era una piscina e

così decidemmo di andarci.

La piscina aveva un soffitto a volta altissimo tutto in

legno intarsiato. In fondo c'era una vetrata da cui si

vedevano le montagne coperte di neve. Sull'altro

lato c'erano invece le vasche idromassaggio e la

sauna. C'erano pochissime persone e si stava

benissimo. Ci sentivamo un po' come in un film in

costume. Sapevamo che in quell'albergo aveva

soggiornato spesso Agatha Christie e in effetti

l'atmosfera era un po' quella dei suoi romanzi.

Passammo una bella nottata e, anche se può

sembrare assurdo, mi sentii tranquilla e per niente

ansiosa rispetto a quello che avrei potuto scoprire

l'indomani.

Quando ci alzammo il sole era già alto. Facemmo

una colazione ricchissima. Sasha addirittura si

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mangiò delle piccole salsicce con le patate in

padella. Io mangiai il mio solito yoghurt anche se

era al gusto di stracciatella.

Alla fine ci avviammo verso la pensione Waldhaus.

Sasha mi disse che mi avrebbe aspettato fuori.

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Incontrare.

Entrai. Come vidi l'uomo alla reception ebbi la

sensazione di conoscerlo. Non ebbi dubbi.

"Joseph?"

"Si, prego"

"Sono Marzia. Ci siamo sentiti per telefono."

Gli occhi gli si riempirono di lacrime.

"Che meraviglia averti qua. Non pensavo che ti

avrei rivista mai più. Mamma come sta? Quanto era

bella tua madre. Tutto il paese era innamorato di

lei."

“Mamma purtroppo è ancora ricoverata. Ha avuto

una polmonite virale e ancora non si è ripresa. Per

cercare qualcosa che possa aiutarla a tirarsi un po’

su ho deciso di venire qui a parlare con qualcuno”.

Mentre parlavo mi ero resa conto che preferivo non

raccontare la verità a Joseph. Non so neanche io

perché ma l’idea che lui capisse che mia madre

non mi aveva mai detto niente mi dava molto

fastidio. Mi faceva sentire tradita e presa in giro.

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Così gli lasciai credere che sapevo già tutto e che

volevo soltanto fare un viaggio nella memoria.

“Sa adesso che mamma non sta bene sento molto

forte il bisogno di rivedere questi luoghi e di parlare

con le persone che l’hanno conosciuta quando era

giovane. Un conto è sentirsi raccontare le storie e

un conto è vedere con i propri occhi. Del resto ero

così piccola che davvero non ricordo niente di quel

periodo.”

“Certo, tu eri proprio piccolissima. Non ho mai

capito perché tua madre sia voluta andare via.

Pensare che Sepp la voleva sposare nonostante il

suo passato. Ha tanto sofferto quando è andata

via. Chissà. Siamo rimasti tutti male ma abbiamo

capito che forse per lei era meglio vivere in una

grande città. Del resto si capiva che non era una

persona abituata alla vita isolata di montagna. Mi

dispiace che non stia bene. Però, a vederti, sembra

che se la sia cavata benissimo. Tu sei una bellezza

quasi come lei e le darai sicuramente tante

soddisfazioni. Cosa fai, studi?”

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“Si, studio. Anche se, a dire il vero, in questo

momento è tutto un po’ fermo per colpa della

malattia di mamma. Sono stata molto impegnata

con lei e così quasi non sto andando a scuola.

Spero di riuscire a dare l’esame ma non ne sono

sicura. Volevo sapere se mi poteva dire dove

trovare Maria, quella che era la sua migliore amica.

Mi farebbe piacere conoscerla e magari scambiare

qualche parola con lei.”

“Ti do il suo numero di telefono. Le farà tanto

piacere conoscerti. Erano molto amiche. Ho

sempre pensato che fossero ancora in contatto ma,

a quanto sembra, tua madre ha tagliato i ponti

anche con lei.”

Dopo aver memorizzato il numero di telefono sul

mio cellulare salutai Joseph e promisi che sarei

tornata a salutarlo prima di partire.

Uscii fuori e fui contenta di ritrovare Sasha. Era

disteso sul prato e mi aspettava guardando le

nuvole che passavano veloci nel cielo. L’aria era

limpidissima. Gli tesi la mano e lui si tirò su. Era

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così agile. Si pulì i pantaloni dai fili d’erba e poi mi

abbracciò.

Ci avviammo verso il paesino. Era davvero un

posto incantevole. Piccolissimo. Ci fermammo in un

bar e ci prendemmo un brulè di mele. Era così

dolce. Alla fine mi feci coraggio e decisi di

telefonare a Maria.

Dopo una mezza dozzina di squilli mi rispose una

voce un po’ nasale. Le chiesi se fosse la signora

Maria e quando mi disse di si le spiegai la mia

storia.

Rimasi turbata perché si mise a piangere al

telefono e non riusciva quasi a parlare. Alla fine mi

disse se volevo andare a trovarla a casa perché lei

non riusciva quasi più a camminare. Mi diede

l’indirizzo e io le chiesi se potevo portare anche un

amico che mi aveva accompagnato nel viaggio.

Non volevo andare senza Sasha. Lei mi rispose di

si.

Ci inerpicammo lungo una strada fra i pini e, dopo

un paio di curve vedemmo la casa.

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Bussammo e venne ad aprirci una donna su una

sedia a rotelle. Rimasi sconcertata. Non avevo

capito che stesse così male.

Lei mi tese le braccia con difficoltà e io mi

accovacciai per abbracciarla. Quando mi lasciò

andare mi tirai su e le presentai Sasha.

Anche lei mi disse che somigliavo molto a mia

madre ma, aggiunse subito dopo, avevo qualcosa

anche di mio padre.

"Lei ha conosciuto mio padre?" domandai turbata.

"Si. Caterina mi aveva fatto vedere delle fotografie

e poi l' ho conosciuto quando è venuto a cercarla."

"Mio padre è stato qui?"

"Si. Ma non sapeva nulla della tua esistenza e io ho

mantenuto il segreto per rispettare la volontà di tua

madre. Mi sono sempre chiesta se sia stato giusto

agire così. "

"Scusi mi faccia capire meglio. Mio padre è venuto

qui a cercare mia madre ma nessuno gli ha detto

dove era andata?"

"Si, è così. Nessuno avrebbe potuto aiutarlo perché

Caterina, dopo essere partita, ha tagliato i ponti con

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tutti. Qualche volta mi ha telefonato ma non ha

voluto mai dirmi dove fosse e poi ha smesso del

tutto di chiamarmi. Perciò sono così stupita della

tua visita. Lei è andata via perché tu non scoprissi

mai la verità. Pensava che in un posto piccolo

come questo avresti finito per scoprire tutto. Per

questo ha anche rifiutato di sposare Sepp. È

proprio scappata via. E invece eccoti qui"

Continuare a mentire mi sembrò inutile. Le

raccontai come avessi scoperto tutta la storia. Le

dissi di Sasha che mi aveva aiutato e di come fossi

a caccia di tutte le informazioni possibili.

Rimanemmo d'accordo di rincontrarci il giorno dopo

per darle il tempo di cercare delle foto e altre cose

che aveva conservato. E poi aveva un'aria

stanchissima.

Non le avevo neanche chiesto cosa avesse. Fa

niente, lo avrei fatto il giorno dopo.

Il giorno dopo quando arrivammo a casa di Maria

trovammo che aveva già preparato delle carte e le

aveva messe sul tavolo. Ci fece accomodare e

Page 63: Il Cuore a Brand Elli

63

mise su un caffè. La casa era perfettamente

attrezzata per permetterle di muoversi con la sedia

a rotelle. Si vede che era malata da tempo. Fra

l'altro né il giorno prima né oggi c'era con lei

qualcun altro. Sembrava che vivesse sola. Mentre

facevo queste considerazioni bussarono alla porta.

"Non preoccupatevi. È solo la ragazza che mi porta

la spesa."

Mentre lei sbrigava le sue faccende io cominciai a

frugare fra le carte sul tavolo. Vidi mia madre

giovanissima con il pancione. Una me appena nata

in braccio a Maria che sorrideva felice. Un gruppo

di ragazzi che faceva un picnic su un prato pieno di

fiori.

Maria ci raggiunse portando il caffè.

Vide la foto che stavo guardando e cominciò a

raccontarmi.

“Quando tua madre arrivò in paese era ridotta uno

straccio. Non mangiava, non dormiva, non

sembrava interessata a niente. Venne ospitata per

un po’ nella parrocchia ma poi pensammo di

trovare una soluzione diversa visto che non era di

Page 64: Il Cuore a Brand Elli

64

religione cattolica. E così venne a casa mia. Io

all’epoca non ero ancora malata. Ero giovane e

avevo tanta voglia di aiutare gli altri. Così Caterina,

avevamo deciso di chiamarla così perché il suo

vero nome era troppo difficile da pronunciare,

venne da me. Forse per il fatto di trovarsi in una

casa normale oppure per il fatto che io fossi una

ragazza quasi sua coetanea un po’ alla volta

cominciò a reagire. Intanto il tempo passava e io

cominciai a notare che la pancia le si ingrossava e

così la portai dal dottore del paese il quale disse

subito che era incinta. In tutto questo lei stava

cominciando a parlare e a capire un poco di

italiano. Era veramente molto svelta a imparare. Mi

fece capire che si sentiva meglio e voleva darmi

una mano in casa. Io però pensavo che per lei

fosse meglio fare un vero lavoro che l’aiutasse

anche a pensare di meno e così le trovai un lavoro

nella lavanderia del Waldhaus. Lei era molto brava

sia a lavare che a stirare. Stando lì insieme ad a-

ltre persone imparò l’italiano molto bene. E così

cominciarono le confidenze. Mi raccontò che il

Page 65: Il Cuore a Brand Elli

65

padre del bambino era un suo vecchio compagno

di scuola. Non mi disse altro. Mi fece capire che la

guerra li aveva divisi e che lei, in seguito alla

distruzione del suo villaggio era finita presso una

organizzazione italiana che era riuscita a farla

venire qui. Aveva qualche foto con se. Da come

parlava io pensai che la sua famiglia fosse tutta

morta perché lei non accennava mai al desiderio di

tornare in patria per ritrovarli.

Il tempo passava e la pancia cresceva.

Improvvisamente arrivò una lettera. Come la vide il

suo umore cambiò. La lesse e poi la mise in un

cassetto. Devo confessare che un giorno, mentre

lei era al lavoro, cercai di leggerla ma era scritta in

un altro alfabeto e in un’altra lingua. E così rimasi

con la mia curiosità.

E infine venne il giorno del parto. Nacque una bella

bambina e lei disse che voleva darle un nome

italiano. Mi chiese quale nome in italiano

significasse “guerra” e io le dissi che forse poteva

usare il nome Marzia che viene da Marte il dio della

guerra. E così ti chiamò Marzia. In questi mesi che

Page 66: Il Cuore a Brand Elli

66

aveva trascorso da noi c’era un ragazzo che si era

perdutamente innamorato di lei. Si chiamava Sepp.

Dopo la tua nascita lui le propose di sposarsi in

modo da dare un cognome italiano alla bambina.

Ma tua madre non ne volle sapere.

Le lettere continuavano ad arrivare e, dopo la tua

nascita, ebbi l’impressione che stesse maturando

una decisione riguardo al suo futuro. Un giorno mi

disse che voleva andare a vivere in una grande

città per essere sicura che tu potessi crescere con

l’idea di essere italiana. Sapeva che lì nel paesino

non sarebbe mai stato possibile e che, prima o poi,

tu avresti scoperto la verità. Mi disse che aveva

parlato con l’organizzazione che l’aveva fatta venire

in Italia e che loro l’avrebbero aiutata a trovare

un’altra sistemazione.

Mi disse che le dispiaceva molto ma che era

necessario per la sua sicurezza e anche per la mia.

Mi chiese di non dire niente a nessuno perché

voleva partire in segreto senza che gli altri lo

sapessero.

Page 67: Il Cuore a Brand Elli

67

E così facemmo. All’alba di una giornata

freddissima, dopo aver preparato i bagagli, prese la

prima corriera per Bolzano e andò via. Mi promise

che mi avrebbe telefonato appena si fosse

sistemata.

E’ da allora che non la vedo e che non vedo te.

Dopo qualche giorno mi telefonò, mi disse che

stava bene e che si era sistemata. Aveva trovato

lavoro nella lavanderia di una casa di riposo e che

l’esperienza fatta al Waldhaus le era stata molto

utile. Mi disse anche che le avevano dato un

passaporto italiano e che ufficialmente tu risultavi

essere italiana. Insomma tutto secondo i suoi

desideri.

Poi smise anche di telefonarmi e così non seppi più

niente. Sono stata tentata tante volte di cercarla ma

poi ho sempre pensato che la sua volontà fosse

quella di lasciarsi tutto alle spalle e che non avevo il

diritto di forzarla. Poi è iniziata la malattia e non ho

avuto più il tempo di pensare a niente. Fino a

questa bella sorpresa della tua visita.”

Page 68: Il Cuore a Brand Elli

68

Dalle sue parole capii che mia madre non aveva

voluto raccontarle tutta la storia e quindi pensai che

non fosse giusto dirgliela. Le dissi solo che adesso

mamma stava male e che forse non se la sarebbe

cavata. Le dissi di aver ritrovato fra le sue carte

delle vecchie foto e delle vecchie lettere e che,

incuriosita, ero andata alla ricerca della sua storia e

così avevo scoperto tutto.

Le dissi anche che un po’ mi dispiaceva perché

forse ero andata contro la sua volontà ma ormai

era successo e tornare indietro non era possibile.

Le chiesi di dirmi qualcosa di più su mio padre.

“Quando è arrivato aveva un’aria molto smarrita.

Sperava di trovare Caterina e quando gli dicemmo

che era andata via e che nessuno sapeva dove

fosse sembrò davvero disperato. Capì che non

sarebbe riuscito più a rintracciarla e così decisi di

non dirgli della bambina per non aumentare il suo

dolore. Se era già così disperato per la perdita della

persona amata figuriamoci se avesse saputo di

aver perduto anche una figlia.”

Page 69: Il Cuore a Brand Elli

69

Poi Maria aggiunse: “Io però prima che andasse via

mi feci lasciare un suo recapito. Naturalmente è

passato tanto tempo e quindi non è detto che sia

ancora valido ma, se lo vuoi cercare, può essere un

punto di partenza. E’ un indirizzo di Belgrado. Puoi

provare ad andare all’ambasciata e vedere se ti

sanno dire qualcosa.”

A sentire queste parole il cuore mi balzò in gola. Un

suo recapito. Anche se era passato tanto tempo

forse qualcuno sapeva qualcosa di lui e magari

avrei potuto rintracciarlo. In realtà non ero sicura di

volerlo fare però il pensiero che fosse possibile mi

rese felice.

Maria tirò fuori da un vecchio borsellino di pelle

marrone un foglietto. Sul foglietto c’era scritto un

indirizzo: Krescan Dokovic, Jevrejska 24,

Belgrade.

Ecco. Davanti a me vedevo materializzato quel

padre che credevo perduto. Poi mi raggelai

pensando che era passato tanto tempo e che, nel

frattempo, avrebbe potuto essere morto davvero.

Page 70: Il Cuore a Brand Elli

70

Ero così frastornata. Si doveva capire anche dal

mio viso.

“Forse è meglio se ti vai a riposare un po’. Ci

rivediamo più tardi. Anche io sono stanca. Tutte

queste emozioni non sono facili da sopportare.”

La salutammo e ci avviammo verso l’albergo.

L’aria si era fatta molto più fredda e mi sentivo

proprio giù. Nemmeno la vicinanza discreta di

Sasha riuscì a farmi star meglio.

In albergo cercai di riposare un po’ ma non ci

riuscii. Mi girai verso Sasha e vidi che neanche lui

riusciva a dormire.

“Voglio andare via. Subito. Non voglio rimanere più

qui. Tanto è inutile. Queste persone mi hanno detto

tutto quello che sanno ed è chiaro che da loro non

potrò avere altre indicazioni. E poi, proseguii, non

ce la faccio proprio a reggere tutto questo dolore.

La malattia di Maria, il suo dispiacere per

l’abbandono di mamma, insomma tutte queste cose

brutte. Mi sembra che già abbiamo abbastanza

casini per i fatti nostri. Lo so che è brutto. Ma io

voglio andare via.”

Page 71: Il Cuore a Brand Elli

71

Sasha non mi rispose neanche. Si alzò e si mise a

fare le valigie. Dopo venti minuti eravamo pronti per

andare via. Scendemmo giù, pagammo il conto e ci

facemmo chiamare un taxi. Non volevamo correre il

rischio di incontrare qualcuno mentre aspettavamo

il bus.

Page 72: Il Cuore a Brand Elli

72

Andare via.

In meno di mezz’ora eravamo a Bolzano e dopo

due ore salivamo sul treno che ci riportava a casa.

Durante il viaggio avevo osservato tutto con molta

attenzione per ricordarmi tutti i dettagli del luogo in

cui ero nata. Arrivata a Bolzano pensai che non ci

sarei tornata mai più.

Eravamo soli nello scompartimento e così ci

sedemmo vicini vicini per baciarci. Questo mi fece

sentire un po’ meglio.

Arrivammo a casa. Ero contenta di essere tornata

ma l’assenza di mia madre mi apparve in tutta la

sua gravità. E’ vero che parlavamo pochissimo e

che io ero spesso sola ma non c’era paragone con

la solitudine attuale. Adesso tutto era muto. La

casa era priva di vita. Tutto era identico a come lo

avevo lasciato.

La mia ansia peggiorò ulteriormente quando Sasha

mi disse che non poteva fermarsi da me perché

doveva andare a casa a cambiarsi e a lavare la

roba.

Page 73: Il Cuore a Brand Elli

73

Ero angosciata ma ero anche talmente stanca che

dopo neanche mezz’ora già dormivo.

Passai una notte agitata. Mi giravo e rigiravo nel

letto. Mi alzai che albeggiava. Sentivo di dover

prendere delle decisioni difficili. E, oltretutto, non

sapevo da dove cominciare. Alla fine pensai che la

cosa migliore fosse andare all’ambasciata. Avrei

iniziato da quella serba. In ogni caso nel

pomeriggio sarei andata da mamma.

Mi feci un caffè. Si sentivano i rumori della città che

si stava svegliando. Lo sferragliare dei tram, le

frenate brusche delle automobili quando i semafori

ancora lampeggiano, i camion della spazzatura.

Tutto un mondo che ogni mattina si rimette in moto.

Mi feci una bella doccia e poi, con i capelli ancora

bagnati avvolti nell’asciugamano, andai in camera

di mamma a prendere la cassetta. Tirai fuori il

passaporto e le fotografie. Oleksandra non era

riuscita a risalire al paese dove erano state

scattate. Avrei dovuto scoprirlo in qualche altro

modo. Ero determinata a sapere qualcosa di più di

mia madre ma non ero ancora sicura di voler

Page 74: Il Cuore a Brand Elli

74

sapere anche della sua famiglia. Non riuscivo a

spiegarmi perché lei non avesse voluto far sapere a

nessuno di essere ancora viva e di aver avuto una

bambina. Oltre alla violenza c’era forse qualche

altra cosa che l’aveva spinta a tagliarsi tutti i ponti

alle spalle. Mi venne in mente che ogni tanto mi

capitava di vedere quella trasmissione che cerca le

persone scomparse. Ogni volta pensavo che è

assurdo andare via e lasciare tutte le persone che ti

amano e ti conoscono nell’angoscia di non sapere

cosa ti sia successo. Non mi ricordavo se qualche

volta era capitato di parlare di questo anche con

mamma ma forse si. Come poteva aver fatto una

cosa simile.

L’altra cosa che mi turbava era il pensiero di non

sapere se pensava di parlarmi un giorno di tutto

questo oppure no. Le carte le aveva conservate ma

chissà se intendeva mostrarmele e raccontarmi la

vera storia. Pensai che dovevo parlarle ma che lo

avrei fatto solo quando avessi avuto qualche notizia

in più. Non volevo darle la possibilità di mentirmi

ancora.

Page 75: Il Cuore a Brand Elli

75

Si erano fatte quasi le sette e così mi affacciai sul

pianerottolo per vedere se per caso Oleksandra

fosse arrivata al mio piano. La sentii fischiettare

sottovoce e la chiamai. Mi raggiunse subito. Mi

abbracciò e mi chiese come era andato il viaggio.

La feci entrare e mentre aspettavamo che uscisse il

caffè le feci un breve resoconto del soggiorno a

Carezza. Non entrai nei dettagli anche perché non

erano realmente importanti. Le dissi anche che

pensavo di andare all’ambasciata. Ci trovammo

d’accordo di cominciare dall’ambasciata serba.

Così mi avrebbe potuto accompagnare Sasha ed

aiutarmi con la burocrazia.

Ci salutammo e rimanemmo d’accordo di vederci

l’indomani mattina.

Finii di vestirmi e scesi giù per fare un poco di

spesa. In casa non c’era niente, neanche un po’ di

latte per fare colazione.

Mentre camminavo a passo svelto verso l’emporio

incontrai una mia compagna di scuola. Mi chiese

cosa fosse successo e come mai non stessi

andando a scuola da tanto tempo. Guardandola mi

Page 76: Il Cuore a Brand Elli

76

accorsi di quanto la scuola e tutti i miei problemi di

allora fossero lontani. Mi sembrava di essere

un’altra persona. Mi chiedevo come avessi fatto a

trovare argomenti in comune con questa ragazzina

che mi stava di fronte. La salutai dicendole che

avevo molta fretta e me ne andai. Non avevo

tempo da perdere in inutili convenevoli con persone

che non mi interessavano minimamente.

Decisi di andare all’ambasciata senza aspettare

Sasha. Sapevo che poteva essermi utile ma

preferivo vedermela da sola. Quando arrivai

davanti alla villa circondata da un grande giardino

che ospitava l’ambasciata rimasi a osservarla un

po’. Sembrava deserta. Andai vicino al cancello e

vidi un videocitofono. Suonai. Dopo un po’ di tempo

rispose una voce femminile con un forte accento

straniero. Le dissi che ero una cittadina italiana in

cerca di informazioni e la voce mi rispose che era

un po’ presto ma mi aprì lo stesso il cancello.

Attraversai il giardino e salii le scale. Al di là della

porta a vetri vidi una signora elegante. Mi venne in-

contro e mi chiese in cosa poteva essermi utile.

Page 77: Il Cuore a Brand Elli

77

Le raccontai la storia del ritrovamento del

passaporto e glielo mostrai. Lei mi disse che

doveva vedere cosa si poteva scoprire perché

ovviamente dopo la guerra civile e la divisione della

jugoslavia molti documenti erano andati perduti. Si

fece delle fotocopie dei documenti e poi mi suggerì

di andare anche all’organizzazione per i rifugiati. Mi

disse che forse mia madre era arrivata qui come

rifugiata e poi si era data alla clandestinità. Mi disse

che escludeva categoricamente che potesse aver

avuto i documenti italiani in maniera legale perché

questo era impossibile in tempi così brevi e che

quindi, probabilmente, aveva ottenuto i nostri

documenti italiani al mercato nero. Questo rendeva

più difficile risalire alla nostra vera storia ma mi

disse anche di non perdere le speranze. Mi chiese

una settimana di tempo per cercare qualche notizia

in più. Me ne andai molto delusa. Avevo cercato di

non riporre troppe speranze nella visita

all’ambasciata ma rimasi male lo stesso. Cercai su

internet l’indirizzo dell’agenzia per i rifugiati e ci

andai direttamente. Mi ricevette un impiegato

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78

piuttosto sgarbato. Raccontai anche a lui

brevemente la storia e gli mostrai il passaporto. Lui

lo guardò e mi disse che avrebbe dovuto consultare

l’archivio e che questo avrebbe richiesto del tempo.

La digitalizzazione di queste informazioni era co-

minciata più tardi e quindi all’epoca dei fatti c’erano

solo documenti cartacei. Mi diede un pass con il

quale accedere all’archivio e chiedere direttamente

all’archivista di dare un’ occhiata. Scesi nel

seminterrato. L’archivista fu gentile ma mi fece

capire che avrebbe dovuto scartabellare fra molte

carte. Andò a prendere i faldoni che riguardavano i

rifugiati jugoslavi arrivati in quel periodo. Mi disse

che non tutti erano rifugiati, alcuni erano arrivati qui

ospiti di famiglie italiane che offrivano loro ospitalità

per qualche tempo per sfuggire allo stress della

guerra. Di solito gli ospitati erano donne e bambini.

Sicuramente una donna incinta sarebbe stata in-

serita senza difficoltà. Comunque decidemmo di

partire dai rifugiati anche perché non ero sicura che

mia madre sapesse già di essere incinta quando

era venuta in Italia.

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79

Guardammo decine di fotocopie di passaporti con

attaccate carte di ogni tipo. Avevo quasi perso ogni

speranza ed ero anche morta di fame quando lui

trovò qualcosa.

“Ecco qua, mi sembra proprio tua madre. E’ come

pensavo. E’ venuta qui in un programma di

assistenza ma si è data subito alla clandestinità.

Era diretta presso una famiglia di Milano ma non ci

è rimasta. Come dicono le carte dopo poco più di

una settimana una mattina è uscita per fare una

passeggiata e non è più rientrata. E’ stata data la

segnalazione ma non è mai stata rintracciata. Se

vuoi ti faccio una fotocopia. Ci sono tutti i

riferimenti. Pare sia venuta da un piccolo villaggio

bosniaco. Un villaggio dove sono state commesse

molte violenze. Jablanica.”

“Grazie. Ma sinceramente lei che pensa. Ha visto

altri casi simili? Crede che sarà possibile

rintracciare qualche parente?"

"Guarda non te lo so dire. I dati che abbiamo

trovato sono veri ma la guerra ha distrutto tutti. Il

resto della famiglia potrebbe essere morto o essere

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80

andato via come ha fatto tua madre. Sono

situazioni molto caotiche in cui è facile perdersi.

L'ideale sarebbe andare lì di persona e verificare.

Ma tieni presente che la situazione in quella parte

del paese non è tranquilla neanche adesso."

Me ne andai dopo averlo ringraziato molto.

Tornai a casa con tutte queste nuove informazioni

ma lasciai tutto lì e andai in ospedale.

Purtroppo la situazione non migliorava e i medici mi

fecero capire che pensavano ci fosse anche una

componente psicologica nel suo essere così

stazionaria.

"Sa. Sembra quasi che si stia prendendo una

pausa. Una pausa dalla vita. Sta lì immobile, come

bloccata. Dobbiamo sperare che qualcosa riesca a

smuoverla, a convincerla a rimettersi in cammino."

Tornai a casa perplessa. Da un lato pensavo che

magari parlarle delle mie scoperte poteva essere

una spinta ma avevo anche paura che potesse

invece avere un impatto negativo e magari

spingerla nella direzione opposta. Decisi di

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81

prendermi ancora un po' di tempo per decidere.

Finalmente si fecero le nove e arrivò Sasha.

Gli fui grata che non mi chiedesse niente. Eppure

ero sicura che avesse visto le carte sul tavolino.

Trascorremmo la nostra solita serata tranquilla e,

come per un tacito accordo, rimandammo ogni

spiegazione all'indomani.

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82

Cercare.

Mi svegliai con la sensazione di avere tutto più

chiaro. Forse è vero che la notte porta consiglio.

“Voglio andare di nuovo all’ambasciata. Questa

volta cercherò di avere notizie di mio padre. Anche

se conosco solamente il nome e il cognome può

darsi che riesca a sapere lo stesso qualcosa.

Diversamente andare al paese di mia madre e

cercare di rintracciare qualcuno. Mi prendo ancora

una settimana di tempo e poi, se non ho scoperto

niente, partirò. Che ne pensi?”

“Anche io penso che sia inutile perdere altro tempo.

Ormai il quadro è abbastanza chiaro.”

Mi sentii sollevata all'idea che Sasha la pensasse

come me. Mentre facevamo colazione gli mostrai

tutte le carte del giorno prima. Mi accorsi che

parlavo di mia madre quasi come di una

sconosciuta di cui stessi studiando la storia. Era

una sensazione molto strana. Decisi di porre a

Sasha la domanda cruciale.

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83

"Credi che dovrei parlare a mia madre di quello che

ho scoperto?"

"Non lo so. Però penso che il silenzio di tutti questi

anni le abbia fatto male. Forse smetterla con tutte

queste bugie potrebbe esserle d’aiuto. Ma è molto

difficile decidere."

Decisi di lasciar perdere ancora per qualche giorno.

Avrei aspettato di sapere con precisione cosa fare.

Se andare in Serbia o cercare di rintracciare

quest'uomo da qui in qualche modo.

Passai un’altra settimana senza che cambiasse

niente. Mia madre non migliorava né peggiorava.

Dall’ambasciata non arrivava nessuna notizia. Ero

piuttosto scoraggiata.

Il sabato mattina ciondolavo per casa quando

squillò il telefono. Era l’ambasciata. C’era un

riscontro per quanto riguardava mio padre.

Pensavano di aver rintracciato il suo passaggio in

Italia. Le ultime notizie lo collocavano in Germania

e precisamente a Berlino.

Queste furono esattamente le parole che usò

l’impiegata dell’ambasciata. Un linguaggio

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84

burocratico insopportabile. Mi disse anche che

dovevo andare di persona per farmi dare

eventualmente un recapito.

Il lunedì andai e riuscii a farmi dare un recapito a

Berlino. Non so perché ma ero contenta di non

dover andare in Serbia.

In fondo Berlino era un terreno neutro mentre se

fossi andata in Serbia mi sarei trovata a dover

affrontare molti fantasmi. Primo fra tutti quello della

famiglia di mia madre. Sarebbe stato impensabile

andare fino laggiù senza cercare di rintracciarli. Ma,

nello stesso tempo, la cosa sarebbe stata

pesantissima. Mentre riuscivo a capire il motivo per

cui mia madre avesse voluto troncare ogni rapporto

con mio padre non riuscivo davvero a comprendere

cosa la avesse invece allontanata in maniera così

drastica dalla sua famiglia. Anche a giudicare da

quel poco che si capiva dalle lettere e dalle

fotografie che aveva comunque voluto conservare

sembrava che i loro rapporti non fossero così cattivi

da giustificare tutto questo.

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85

In ogni caso volevo procedere un po’ alla volta. In

questo momento mi sembrava più importante

rintracciare mio padre. Avevo bisogno di vederlo

per decidere cosa fare e cosa dirgli. Se parlargli di

me oppure lasciare le cose come stavano ma,

almeno da lontano, volevo vederlo di persona.

Il fatto che fosse a Berlino rendeva tutto più facile.

Fra l’altro Berlino era una città che già conoscevo e

quindi mi sentivo più tranquilla.

Decisi che avrei parlato la sera stessa con Sasha

per trovare un modo per incontrare mio padre

senza fargli sospettare nulla. E decisi anche che

non avrei detto nulla a mia madre. Avrei fatto come

per Carezza. Sarei partita e basta.

Può sembrare pazzesco ma ero quasi contenta che

non si stesse ripigliando. Volevo che stesse meglio

ma pensavo che, in questo momento, la sua

presenza mi sarebbe stata d’impaccio. Quasi

certamente avrebbe cercato di dissuadermi dal

conoscerlo e forse sarebbe riuscita a convincermi.

Così invece potevo fare come mi pareva senza

dover rendere conto a nessuno. Immaginavo il suo

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86

dolore ma non volevo farmene carico. La mia vita

era stata già abbastanza incasinata senza

aggiungerci altri problemi. Riuscivo solo a pensare

che lui ignorava completamente la mia esistenza e

questo mi sembrava molto brutto. Mi faceva sen-

tire male.

La sera sembrava non arrivare mai. Preparai

qualcosa da mangiare. Da quando non c’era più

mia madre a casa cucinavo sempre le stesse cose.

Meno male che c’era Sasha a mangiare con me.

Se non ci fosse stato lui credo che avrei finito col

mangiare sempre wurstel freddi di frigorifero e

pezzi di parmigiano. Quando cucinava mia madre

mi sembrava che facesse sempre le stesse cose,

che non avesse nessuna fantasia. Adesso mi

rendevo conto di quanta attenzione mettesse nel

preparare anche quel poco che mangiavamo

insieme.

Ma fortunatamente c’era Sasha. Sembrava molto

più bravo di me nell’organizzare le cose. Comprava

da mangiare, quasi sempre cose sane e soprattutto

con un minimo di criterio. Se voleva fare una frittata

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87

comprava tutto, dalle uova a quello che voleva

metterci dentro. Non come me che, ogni volta che

volevo fare qualcosa, mi accorgevo all’ ultimo

minuto che mi mancava sempre un ingrediente

fondamentale.

Comunque preparai un passato di verdure da fare

con un po’ di pastina in brodo. Una cosa calda

faceva sempre piacere la sera. Sasha poi lavorava

nel laboratorio dove faceva molto freddo. Dovevano

tenere sempre i finestroni aperti per evitare che la

polvere si accumulasse troppo. Ogni tanto passavo

a salutarlo e così vedevo suo padre. Era un tipo

molto riservato. Altissimo, con i capelli brizzolati e

una bella barba. Vestiva in maniera molto sportiva

e dava l’impressione di essere fortissimo. Era

sempre gentile con me ma non dava l’idea di

volermi conoscere meglio. Forse era un po’ seccato

dal fatto che Sasha passasse tanto tempo con me.

In fondo veniva quasi tutte le sere a dormire da me.

Magari a casa sua non erano contenti di questa

situazione. Forse avrei dovuto spiegargli un po’ la

mia situazione ma poi pensai che ne parlava tutto il

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88

quartiere e che non c’era bisogno che gli dicessi

niente.

Comunque la giornata passò e venne il momento di

sederci a parlare. Raccontai a Sasha quello che

avevo scoperto e così ragionammo un po’ su come

fare per entrare in contatto con mio padre. Non ci

veniva in mente niente di sensato. Qualunque

approccio da parte di due ragazzi italiani sarebbe

sembrato poco credibile. Non era una persona

famosa di cui potevamo aver avuto notizia. A furia

di pensare ci venne in mente che forse potevamo

fingerci studenti di storia e di lingua serba. E

potevamo magari dire di aver avuto alcuni nomi

dall’ambasciata dove avevamo fatto il tirocinio.

Sasha, in quanto rifugiato, sarebbe stato credibile e

io avrei potuto benissimo passare per una

laureanda in storia. Viene un momento in cui è

difficile capire l’età esatta di una persona. In fondo

potevo avere tanto diciotto anni quanto ventitre. Ma

poi, tutto sommato, non c’era motivo per cui lui

dovesse avere il sospetto che ci fosse sotto

qualche motivo strano. Era una persona normale,

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89

che aveva deciso di emigrare per lasciarsi alle

spalle la guerra e tutte le sue brutture. Forse per

cercare di dimenticare.

Chissà, magari in Germania aveva formato una

famiglia. Forse aveva moglie, altri figli. Non riuscivo

ad immaginare niente di questo uomo. Neanche

che faccia avesse. La foto lo ritraeva ventenne. E

non riuscivo ad immaginarlo diverso.

Sasha si accorse che ero pensierosa ma non

riuscivo a spiegargli bene cosa mi passasse per la

testa. Per tanto che fosse comprensivo certamente

aveva difficoltà a capire la situazione. Lui che

aveva una famiglia regolare, una madre e un padre

amorevoli. Un fratello col quale dividere giochi e

pomeriggi. E anche se nel suo passato c’erano

state cose pesanti lui non ne aveva ricordo.

Era difficile spiegargli il caos nel quale era

precipitata la mia vita dopo la scoperta di tutto

questo. Niente di quello che sapevo da sempre era

più valido. Tutta la mia vita prendeva una piega

diversa. E mi trovavo a dover convivere con la

coscienza di essere stata in parte tradita da mia

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90

madre. Lei lo aveva fatto con le migliori intenzioni

ma i risultati erano pessimi. Averlo scoperto così,

da sola, senza il suo aiuto a mediare la situazione,

mi faceva sentire sbandata, senza un punto fermo.

A furia di parlare trovammo una specie di schema

che poteva funzionare. Decidemmo di scrivergli

una lettera in serbo in modo da rendere credibile il

fatto di essere degli studenti. Gli avremmo chiesto

un incontro dicendo che avevamo scelto alcuni

serbi emigrati in diversi paesi europei a cui fare

un’intervista su come fossero stati accolti nei vari

paesi europei. La tesi consisteva nella

comparazione fra le diverse esperienze nei vari

paesi europei e quali fossero le differenze di

accoglienza.

Sembrava abbastanza verosimile. Guardammo su

internet per capire quale fosse la facoltà dove era

possibile studiare tutto questo e decidemmo di

spacciarci per due studenti dell’Orientale di Napoli.

Cercammo qualche nome e trovammo due docenti

che facevano al caso nostro. Stilammo un

canovaccio della lettera e poi andammo a dormire.

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91

Il giorno dopo ci alzammo presto perché volevamo

scrivere la lettera prima che Sasha andasse al

lavoro. Per rendere le cose più facili gli scrivemmo

che volendo avrebbe potuto risponderci via e-mail

per fare più in fretta. Alla fine Sasha tradusse la

lettera cercando di evitare di usare frasi che fa-

cessero capire che lui era madrelingua. Ci mise

anche qui e là qualche errore.

Sasha andò al lavoro, io mi vestii e scesi a

imbucare la lettera. Mi sentivo il cuore in gola.

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Aspettare.

I giorni scorrevano lenti. Aspettavo notizie ma sulla

mail non arrivava niente. Andavo a trovare mamma

e la vedevo sempre lì, immobile, con il suo tubo in

gola. Ogni giorno mi sentivo più in colpa per non

averle detto niente di quello che stava succedendo.

Adesso forse era troppo tardi. Forse le sue funzioni

erano ormai compromesse. Oltretutto per paura

che mi scappasse detto qualcosa di sbagliato non

le parlavo quasi più.

L’infermiera venne da me e mi disse: “Lo so che sei

sconfortata ma dovresti sforzarti di parlarle un po’.

Già è terribile che non abbia nessun altro che la

venga a trovare se poi tu vieni ma non le parli

nemmeno è proprio triste.”

Mi misi a piangere. Era vero. Non veniva a trovarla

nessuno. Aveva solo me. E io non le parlavo quasi

più.

E così cominciai a raccontarle tutta la storia. Le

dissi di come avevo scoperto la cassetta nascosta

nel suo armadio. Delle telefonate fatte, del viaggio

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a Carezza. Di come mi fossi sentita tradita da lei e

di come non riuscissi a perdonarle di non avermi

raccontato la mia e la sua storia.

Non le parlai però di mio padre. Avevo pudore e

anche paura che questo le avrebbe fatto male.

Non mi sembrò succedere nulla. Aveva il solito

sguardo spento.

Guardavo mia madre così immobile e quasi la

odiavo. Le avevo parlato senza tante aspettative

ma, sotto sotto, speravo che mostrasse qualche

reazione. Non lo sapevo bene neanche io. Un

battito di ciglia, una lacrima, un cenno, qualcosa.

Invece niente.

Nei film succedono sempre cose di questo genere.

Nella realtà invece niente.

Tu parli, racconti, ti fai tanti problemi per non fare

del male a nessuno e invece potresti fregartene

tanto quello che dici scorre via senza lasciare

traccia.

Me ne andai. Comunque, nonostante la rabbia,

anche se non c’era motivo mi sentivo meglio.

Averle mentito non mi aveva fatto bene. Ero

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arrabbiata con lei ma questo non mi dava il diritto di

ripagarla con la stessa moneta. E poi mi resi conto

che anche io non facevo che mentirle da quando

ero piccola. Mi ero sempre sentita in diritto di farlo

per i suoi divieti e le sue fissazioni ma era da tempo

che avevo l’età per affrontare le cose e ribadire le

mie ragioni. Avevo continuato a non dirle

praticamente nulla per evitare noie e discussioni.

Non era quindi proprio il caso di ergersi a giudice

senza sapere niente di quello che l’aveva convinta

ad agire così. In ogni caso ormai le avevo parlato.

Non so se avesse capito o meno quello che le

avevo detto ma speravo che qualcosa le fosse

arrivato nella testa attraverso la nebbia che la

avvolgeva.

Quando arrivai a casa accesi il computer e subito

andai a controllare la posta. C’era una mail.

Telefonai subito a Sasha per dirgli di venire al più

presto perché ci avevano risposto.

Arrivò in dieci minuti.

Ci sedemmo e lui cominciò a tradurre.

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La mail era molto breve. Diceva che non aveva

nulla in contrario a incontrarci. Che sarebbe bastato

avvertirlo con qualche giorno di anticipo ma che

comunque la sera lui era quasi sempre disponibile.

Diceva anche che gli faceva piacere sapere che dei

ragazzi italiani fossero così interessati alla lingua

ed alla storia serba.

Ci scriveva il suo indirizzo mail e il suo numero di

cellulare per contattarlo direttamente.

Ecco qua. La risposta era arrivata. Non c’erano più

scuse. Dovevo decidere cosa fare. Se andare a

Berlino a conoscerlo oppure lasciar perdere tutto e

far finta che non fosse successo niente.

Naturalmente sapevo benissimo che sarei andata a

Berlino. Ormai ero andata troppo oltre. E poi la

storia che avevamo inventato mi consentiva di

decidere davvero all’ultimo momento cosa dirgli.

Guardammo su internet che offerte c’erano per

partire. Non avevo più tanti soldi. E’ vero che

continuavo a prendere lo stipendio di mia madre

ma da un momento all’ altro questa entrata poteva

venire a mancare. Erano ormai alcuni mesi che

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mamma stava male e, passati sei mesi, avrebbero

potuto licenziarla.

Cercando con attenzione trovammo un’offerta

buonissima. Con meno di 100 euro a testa

potevamo andare e tornare. Cercammo anche un

albergo economico per un paio di giorni.

Fortunatamente Berlino è una città molto economi-

ca. L’ostello costava davvero poco e così

prenotammo. Saremmo partiti tre giorni dopo.

Decisi che in questi giorni non volevo passare a

trovare mia madre. Mi avrebbe creato troppe

tensioni. Così telefonai ad Oleksandra e le chiesi la

cortesia di andare lei in ospedale al posto mio. Le

raccontai per sommi capi quello che era successo

e della decisione di partire per Berlino. Le dissi

anche che avevo parlato a mia madre di aver sco-

perto la sua vera identità ma che, purtroppo, lei non

sembrava aver capito quello che dicevo.

Le dissi che arrivati a Berlino, per non spendere

troppi soldi, avremmo comprato una scheda

telefonica tedesca e che l’avrei chiamata

immediatamente per darle il numero. Le dissi

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anche come si chiamava l’ostello dove avremmo

dormito. Mentre le dicevo tutte queste notizie mi

resi conto che Oleksandra era quanto di più simile

a un parente avessi mai avuto. Guardando adesso

la mia storia con più lucidità ero sbalordita da

quanto io e mia madre fossimo sole. Non avevamo

davvero nessuno.

Mi venne spontaneo chiedere a Sasha come mai

non mi aveva mai invitato a casa sua a conoscere

sua madre e suo fratello.

La sua risposta mi sorprese. “Pensavo che

preferissi essere lasciata in pace. Se vieni a casa

mia sarai sottoposta a un fuoco di fila di domande.

Soprattutto mia mamma è curiosissima di

conoscerti. In effetti mi stupisce che non si sia fatta

trovare in bottega per incontrarti. Secondo me è

stato mio padre che le ha proibito di venire. A lui ho

spiegato un po’ la situazione e credo che si senta

molto vicino a te in questo momento. Credo che lui

conosca tante storie simili che sono accadute in

Serbia. Anche se noi siamo andati via prima che le

cose degenerassero tanti loro amici hanno subito

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cose terribili. Comunque appena torniamo da

Berlino ti devo assolutamente portare a casa se no

mia madre mi spara.”

Però. Qualcuno interessato a me. Che mi voleva

conoscere. Che bella sensazione. Pensai che

anche a me avrebbe fatto piacere far conoscere

Sasha a mia madre. Al ritorno gli avrei chiesto di

accompagnarmi un giorno in ospedale per farle

visita.

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Trovare.

I tre giorni seguenti passarono organizzando le

cose. Cercai il giubbotto più pesante che avevo e

mi comprai un paio di guanti e un cappellino carino.

Volevo essere presentabile e così andai anche dal

parrucchiere. Non ne conoscevo nessuno e così

andai dal primo che incontrai. Mi chiese chi mi

avesse fatto il taglio. Non ebbi il coraggio di

confessargli che li avevo tagliati da me con la

forbicina per le unghie. Mi tagliò un po’ i capelli e

me li fece lisci. Davvero sembravo un’altra persona.

Pensai che Sasha non mi avrebbe riconosciuto.

Ogni volta che mi vedevo riflessa in una vetrina

sobbalzavo e mi veniva da ridere.

In un modo o nell’altro i giorni passarono. Avevamo

mandato una mail per chiedere di fissare un

incontro in un albergo del centro di Berlino. Lui ci

aveva risposto che andava bene e che, a meno che

non ci fossero problemi, ci potevamo incontrare lì

senza ulteriori contatti.

Partimmo.

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A Berlino faceva freddissimo. Uscimmo

dall’aeroporto e andammo a prendere la

metropolitana.

Raggiungemmo l’ostello e lasciammo lì i bagagli.

Avevamo quasi tutta la giornata a disposizione e

così andammo a fare un po’ i turisti. Ci facemmo un

giro nel parlamento e poi andammo a vedere il

museo sull’olocausto. Alla fine andammo a vedere i

centri sociali e ci comprammo dei braccialetti fatti

con delle forchette arrotolate. Pioveva e dopo un

po’ eravamo tutti zuppi.

Tornammo in ostello per cambiarci ed essere un

po’ più presentabili all’appuntamento.

Avevo passato tutto il giorno cercando di non

pensarci ma adesso eccomi qui.

Fuori dall’albergo ci fermammo un attimo. Guardai

dalle vetrate. Pensavo che non lo avrei riconosciuto

e invece, appena lo vidi, capii subito che era lui.

Sedeva da solo, in un angolo del bancone del bar.

Aveva un’aria così triste. Mi sembrò di vedere mia

madre declinata al maschile. Ci aveva detto che

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potevamo vederci qualunque sera. Pensai che non

avesse nessuno. Come me. Come mia madre.

*******

Entriamo nell’albergo. Mi prende un’ansia terribile.

Vorrei tornare indietro ma è troppo tardi: mi ha

visto.

Io e Sasha ci avviciniamo. Mi riavvio i capelli per

sistemarmi un po’.

Lui si alza, ci tende la mano. Io lo guardo e gli dico

semplicemente. “Ciao papà.”