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Capitolo 4 Il disegno della ricerca nelle indagini qualitative Giampietro Gobo 1. Introduzione Il disegno della ricerca, pur essendo una delle fasi più importanti di una indagine empirica, è un argomento ancora trascurato nell’ambito della riflessione metodologica qualitativa. Il disegno della ricerca riguarda la definizione dell’unità di analisi, del campione di indagine, delle proprietà relative all’argomento di ricerca, degli indicatori empirici delle proprietà, della definizione operativa attraverso cui raccogliere e registrare le informazioni. E’ questa una delle fasi cruciali dell’intero processo di ricerca, da cui dipende una rigorosità concettuale non sempre presente nelle indagini qualitative e che espone i metodi qualitativi a una delle critiche più ricorrenti: quella di essere approssimativi e poco rigorosi. Peraltro questa critica è in parte condivisa anche da alcune metodologhe qualitative come Marshall e Rossman [1989]. I metodi quantitativi, al contrario, pur essendo carenti in diverse fasi della ricerca (raccolta delle informazioni, addestramento degli intervistatori, interpretazione dei risultati delle elaborazioni statistiche, fedeltà dei dati [per una rassegna cfr. Gobo 1997a] hanno sviluppato una profonda riflessione in relazione al disegno della ricerca. Dobbiamo soprattutto al filosofo Dewey e al sociologo Lazarsfeld, che padroneggiava sia tecniche quantitative che qualitative, il merito di aver per primi chiarito quali rapporti intercorrono tra i concetti e i loro indicatori. I ricercatori qualitativi, forse un po’ restii a sottomettersi a schemi troppo restrittivi o rigorosi, hanno invece sottovalutato l’importanza di questa riflessione ritenendo più importante il lavoro sul campo. L’obiettivo di questo capitolo è delineare una mappa degli ambiti del disegno della ricerca qualitativa in cui, a partire dal contributo fornito dai metodologi quantitativi, si potrebbe introdurre una maggior formalizzazione. Se preservata dagli eccessi della matematizzazione delle scienze sociali, la formalizzazione si può coniugare con un “metodo riflessivo” [Gobo 1993, 305ss]. Senza implicare un’epistemologia neopositivista, che tende a ridurre tutti i linguaggi scientifici a quello della fisica (il fisicalismo di Carnap e Neurath), l’attività di formalizzare invita il ricercatore a esplicitare i suoi ragionamenti, le intuizioni e le conoscenze tacite, al fine di fornire al pubblico dei lettori le informazioni per un dialogo all’interno della comunità scientifica. Una maggior formalizzazione introdurrebbe quindi una maggior intersoggettività. Tuttavia il capitolo non intende muoversi a livello prescrittivo bensì soltanto circoscrivere alcuni ambiti o livelli del disegno della ricerca che dalla formalizzazione potrebbero trarre beneficio sotto il profilo del rigore e della chiarezza concettuale. Peraltro alcune delle proposte che verranno richiamate nel corso del capitolo sono già da tempo presenti nella letteratura metodologica qualitativa. Eppure, per motivi che meritano riflessione, queste indicazioni metodologiche raramente hanno avuto seguito. 2. Il bambino e l’acqua sporca Molti metodologi e sociologi qualitativi sono sempre stati diffidenti nei confronti della stesura di un preciso disegno della ricerca. Come sottolinea la metodologa

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Capitolo 4

Il disegno della ricerca nelle indagini qualitative Giampietro Gobo

1. Introduzione Il disegno della ricerca, pur essendo una delle fasi più importanti di una indagine empirica, è un argomento ancora trascurato nell’ambito della riflessione metodologica qualitativa. Il disegno della ricerca riguarda la definizione dell’unità di analisi, del campione di indagine, delle proprietà relative all’argomento di ricerca, degli indicatori empirici delle proprietà, della definizione operativa attraverso cui raccogliere e registrare le informazioni. E’ questa una delle fasi cruciali dell’intero processo di ricerca, da cui dipende una rigorosità concettuale non sempre presente nelle indagini qualitative e che espone i metodi qualitativi a una delle critiche più ricorrenti: quella di essere approssimativi e poco rigorosi. Peraltro questa critica è in parte condivisa anche da alcune metodologhe qualitative come Marshall e Rossman [1989]. I metodi quantitativi, al contrario, pur essendo carenti in diverse fasi della ricerca (raccolta delle informazioni, addestramento degli intervistatori, interpretazione dei risultati delle elaborazioni statistiche, fedeltà dei dati [per una rassegna cfr. Gobo 1997a] hanno sviluppato una profonda riflessione in relazione al disegno della ricerca. Dobbiamo soprattutto al filosofo Dewey e al sociologo Lazarsfeld, che padroneggiava sia tecniche quantitative che qualitative, il merito di aver per primi chiarito quali rapporti intercorrono tra i concetti e i loro indicatori. I ricercatori qualitativi, forse un po’ restii a sottomettersi a schemi troppo restrittivi o rigorosi, hanno invece sottovalutato l’importanza di questa riflessione ritenendo più importante il lavoro sul campo. L’obiettivo di questo capitolo è delineare una mappa degli ambiti del disegno della ricerca qualitativa in cui, a partire dal contributo fornito dai metodologi quantitativi, si potrebbe introdurre una maggior formalizzazione. Se preservata dagli eccessi della matematizzazione delle scienze sociali, la formalizzazione si può coniugare con un “metodo riflessivo” [Gobo 1993, 305ss]. Senza implicare un’epistemologia neopositivista, che tende a ridurre tutti i linguaggi scientifici a quello della fisica (il fisicalismo di Carnap e Neurath), l’attività di formalizzare invita il ricercatore a esplicitare i suoi ragionamenti, le intuizioni e le conoscenze tacite, al fine di fornire al pubblico dei lettori le informazioni per un dialogo all’interno della comunità scientifica. Una maggior formalizzazione introdurrebbe quindi una maggior intersoggettività. Tuttavia il capitolo non intende muoversi a livello prescrittivo bensì soltanto circoscrivere alcuni ambiti o livelli del disegno della ricerca che dalla formalizzazione potrebbero trarre beneficio sotto il profilo del rigore e della chiarezza concettuale. Peraltro alcune delle proposte che verranno richiamate nel corso del capitolo sono già da tempo presenti nella letteratura metodologica qualitativa. Eppure, per motivi che meritano riflessione, queste indicazioni metodologiche raramente hanno avuto seguito.

2. Il bambino e l’acqua sporca Molti metodologi e sociologi qualitativi sono sempre stati diffidenti nei confronti della stesura di un preciso disegno della ricerca. Come sottolinea la metodologa

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qualitativa Mason sono ancora molti a pensare che «il concetto stesso di disegno della ricerca sia appropriato soltanto alle ricerche sociali quantitative di tipo quasi-sperimentale, proprie della tradizione positivista» [1996, 9]. I sociologi qualitativi sembra abbiano sofferto di una sorta di diffusa allergia nei confronti di termini come ‘indicatore’, ‘campione’, ‘ipotesi’, ‘controllo’. Un esempio fu l’epico attacco di Blumer [1956] contro l’uso del concetto di variabile nella ricerca sociologica. Blumer 1975 in Wallace 290 Ancor oggi, se immaginiamo che due ricercatori di “opposta fede” si incontrino per discutere le loro ricerche, la conversazione si modula secondo questa litania: il quantitativo chiede “qual era l’ipotesi di partenza... come è stata verificata... quanto grande era il campione... era rappresentativo...quali sono le variabili indipendenti... e quelle dipendenti... come sono state misurate... come si fa a generalizzare da un campione così piccolo?”. Allo stesso modo, il qualitativo domanda: “come sono stati raccolti i dati... in quali condizioni è avvenuta l’intervista... come sono stati istruiti gli intervistatori... qual è stata la percentuale dei rifiuti... sono stati eseguiti controlli sulla fedeltà dei dati... il questionario era lo strumento più attendibile per questo tipo di ricerca... quante volte è stato provato?”. Peraltro, parlando della ricerca etnografica, l’antropologo cognitivo Agar sostiene in modo perentorio che «ipotesi, misurazione, campioni e strumenti sono orientamenti sbagliati. Al contrario, hai bisogno di apprendere un mondo che non capisci, incontrandolo in prima persona e dandogli un senso» [1986, 12]. Questo tipo di impostazione che, per usare una metafora, sembra fare di ogni erba un fascio, tende a confondere piani distinti e non permette il decollo di una riflessione più articolata.

2.1. L’acqua sporca L’antropologo culturale Spradley, nel suo manuale sull’osservazione partecipante, afferma: «molte ricerche partono con un’idea precisa su cosa cercare (...) Nella pratica la differenza può essere espressa in due diversi patterns di ricerca. Mentre gli altri ricercatori tendono a seguire un pattern di ricerca di tipo lineare, l’etnografo tende a seguire un pattern circolare (cyclical)» [1980, 26]. Posto un problema da indagare, il modello lineare prevede che: (i) si formulino delle ipotesi con una conseguente (ii) definizione operativa e che vengano predisposti degli (iii) strumenti di rilevazione per (iv) raccogliere i dati. Terminata la fase del campo il ricercatore inizia (v) ad analizzare i dati, (vi) a produrre delle inferenze e infine (vii) a comunicare i risultati attraverso un rapporto di ricerca. Di questa linearità Marradi diffida: INFRA ricercatori di (...) questo tipo esistono solo nei testi di metodologia. Nella realtà, l’adesione alla tesi rituale della formulazione-e-falsificazione delle ipotesi è puramente verbale. Se così non fosse, i ricercatori dovrebbero pubblicare, prima di raccogliere i dati, un breve articolo in cui espongono le loro ipotesi principali (...) ma non mi è mai capitato di vedere un articolo del genere. Non solo: l’adesione al rituale della

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formulazione-e-falsificazione è talmente vuota di contenuto che persino i libri o articoli che riportano i risultati di una ricerca si aprono assai raramente con l’esposizione delle ipotesi di partenza; eppure, nessuno potrebbe controllare se quelle ipotesi ex ante sono state in realtà fabbricate o modificate ex post, cioè dopo l’analisi statistica (1984, 93). FINE Al modello lineare Spradley contrappone un modello circolare, capace di superare i seguenti limiti: «il problema di ricerca viene definito prima che i dati possano essere raccolti; l’analisi dei dati inizia dopo che essi sono stati completamente raccolti; il problema o lo strumento di ricerca non mutano durante il progetto; la stesura del rapporto finale non porta a nuove domande e alla raccolta di dati ulteriori da inserire nel rapporto » [1980, 28]. Dello stesso avviso sono i sociologi della medicina e metodologi Schatzman e Strauss [1973, 142-5] che considerano dannoso un modello di ricerca in cui tutto viene definito e programmato anticipatamente, precludendo così la possibilità di incorporare (nel disegno della ricerca) gli eventi inaspettati che provengono dal campo: «sotto il profilo metodologico il ricercatore è pragmatico. Egli considera ogni metodo di ricerca come un sistema di strategie e operazioni pensate — in ogni momento — per ottenere risposte a determinate domande sugli eventi che lo interessano» [1973, 7]. Ne consegue che egli sceglierà di volta in volta lo strumento di indagine più adatto alle proprie capacità e a quelle dei suoi collaboratori, alle caratteristiche del campo, alle peculiarità dell’argomento di ricerca, ecc. Esattamente l’opposto dell’odierna pratica di ricerca, in cui la maggioranza dei ricercatori usa sempre lo stesso metodo perché è l’unico che conosce [Mason 1996, 19].

2.2. E il bambino? La prospettiva avanzata da Spradley, Schatzman, Strauss e molti altri, per cui propende anche il presente capitolo, non ha però nulla a che vedere con l’opposizione manichea all’utilizzo di ipotesi, campioni, indicatori e variabili nella ricerca qualitativa. La pratica di ricerca infatti testimonia quanto questa opposizione sia inconsistente. All’inizio di aprile del 1958, quando Geertz giunge a Bali, non vi arriva con delle particolari ipotesi di ricerca ma è animato dal generico desiderio di «comprendere l’intima natura (...) di una società estremamente difficile da penetrare per gli estranei» [Geertz 1972, trad. it. 1987, 402]. In modo abbastanza casuale e rocambolesco viene a contatto con un’attività illegale (ma parzialmente tollerata dalle autorità) che è una delle componenti fondamentali della «maniera di vivere balinese»: il combattimento di galli con relative scommesse clandestine. Geertz osserva che «a parte alcune note fuggevoli, il combattimento di galli non ha goduto di un’attenzione particolare benché (...) sia una rivelazione di che cosa significhi essere balinese almeno altrettanto importante quanto fenomeni più celebrati » [p. 403] come l’arte, le forme giuridiche, i modelli di educazione dei bambini, ecc. L’autore assiste complessivamente a 57 combattimenti e pian piano costruisce il significato di questa pratica, la logica delle scommesse e altri particolari. Nel fare ciò egli forma più o meno esplicitamente delle ipotesi, le documenta con successive osservazioni, individua delle cause e costruisce delle spiegazioni sociologiche degli eventi osservati. Una di queste ipotizza che nel combattimento di galli dove

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INFRA le somme di denaro sono grosse (cioè un gioco profondo) è in palio molto più del guadagno materiale (caratteristica dei giochi superficiali in cui sono giocate piccole cifre): vale a dire la stima, l’onore, la dignità, il rispetto — in breve lo status (...) E’ in palio simbolicamente perché, tranne alcuni casi di giocatori incalliti rovinati, lo status di nessuno viene effettivamente alterato dal risultato di un combattimento di galli [p. 423]. FINE Geertz documenta questa ipotesi composta da due asserti (“nel gioco profondo è in palio lo status” e “lo è però simbolicamente”) in modo dettagliato e con un linguaggio quasi positivista: INFRA Per suffragare la tesi generale che il combattimento di galli, e specialmente quello profondo, è fondamentalmente una drammatizzazione dei problemi di status, occorre considerare i fatti seguenti che, per evitare un’estesa descrizione etnografica, dichiarerò essere semplicemente fatti — sebbene le prove concrete, gli esempi, le dichiarazioni ed i numeri che si potrebbero citare per avvalorarli siano ampi e inconfutabili [p. 428]. FINE L’autore elenca 8 “fatti” che, con un’altra terminologia, potremmo tranquillamente chiamare indicatori (delle proprietà) del concetto di drammatizzazione. Il primo di questi è: INFRA Un uomo praticamente non scommette mai contro un gallo di proprietà di un membro del suo stesso gruppo di parentela. Di solito si sente obbligato a scommettere a suo favore, tanto maggiormente quanto più stretto è il legame di parentela e profondo il combattimento. Se dentro di sé è sicuro che non vincerà, può darsi che non scommetta affatto, specialmente se è solo il gallo di un secondo cugino o se il combattimento è superficiale. Ma di regola sente di doverlo sostenere e nei combattimenti profondi lo fa quasi sempre [p. 428]. FINE Se Geertz avesse voluto controllare con più precisione la sua ipotesi e osservare i combattimenti con ancora maggior accuratezza, avrebbe potuto costruire un questionario (o griglia di rilevazione) ad uso personale, dove ciascuna frase del brano appena riportato poteva essere trasformata in una variabile. Ad esempio un indicatore di fedeltà parentale poteva considerarsi la variabile “scommettere contro un gallo di un parente”, a cui potevano aggiungersi le seguenti modalità pre-codificate: “mai”, “qualche volta”, “spesso”. Dall’indagine sistematica poteva emergere che nel 95% dei casi si ossservava una fedeltà oppure che questo accadeva soltanto nel 72% dei casi. Quest’ultimo risultato avrebbe messo in dubbio l’esistenza di una regola così ferrea come appariva a prima vista. Forse queste e altre accortezze gli avrebbero evitato la

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critica dell’antropologo riflessivo Crapanzano [1986, trad. it. 1997] il quale, considerati i fondamenti metodologici e la scarsa documentazione della ricerca, ha avanzato seri dubbi sulle scoperte e le tesi sostenute da Geertz. Come si può vedere campioni, indicatori, variabili, ipotesi e relativi controlli non hanno nulla di intrinsecamente incompatibile con la ricerca qualitativa. Se sono giustificate le numerose critiche rivolte ai metodi quantitativi, accusati di fondarsi su pratiche di ricerca oggettuali, non riflessive e poco capaci di cogliere la cultura dei soggetti studiati, appare però ingiustificato privare la ricerca qualitativa di alcuni utili strumenti concettuali soltanto per un’idiosincrasia nei confronti di questi termini. In altri parole, il rischio è quello di buttare il bambino con l’acqua sporca.

3. Le fasi di ricerca Un’indagine è composta da almeno sette fasi, che a volte possono essere distinte, a volte intrecciarsi; in ogni caso non sono sempre momenti di una sequenza progressiva e lineare, per cui nell’elenco che segue vengono presentate intenzionalmente senza alcun ordine, come livelli di riflessione (per un’eventuale formalizzazione) anziché come sequenza ordinata di fasi da attivare per condurre correttamente una ricerca: • individuazione dell’argomento (ancora a livello generico) e delle finalità della

ricerca; • redazione di un testo e comunicazione dell’esito della ricerca. • disegno della ricerca (concettualizzazione del fenomeno da indagare, definizione

operativa, tipo di campione); • organizzazione dei dati; • il campo (il campionamento, la prova degli strumenti, la raccolta delle informazioni); • analisi dei dati; • scelta del metodo di indagine e degli strumenti di raccolta delle informazioni per

costruire i dati; Osservando le pratiche dei ricercatori all’interno di ciascuna fase, possiamo rilevare quali siano le principali peculiarità, ideologie e assunzioni tacite che distinguono i diversi tipi di ricerca. All’inizio l’argomento di ricerca è ancora generico e dai contorni sfocati. A volte il committente (privato o pubblico) ha un’idea vaga e il suo interesse cognitivo si delinea durante le interazioni con il ricercatore. Anche nel caso di progetti di ricerca presentati a enti finanziatori, difficilmente il progetto è la copia esatta della ricerca che verrà effettuata. Infine nel caso di ricerche auto-commissionate (tesi empiriche di laurea, di dottorato, progetti di ricerca di post-dottorato, ecc.) l’argomento di ricerca viene delineato con precisione nel corso della ricerca oppure diviene tema di negoziazione con i responsabili dell’organizzazione che il ricercatore vuole studiare. Nonostante il carattere provvisorio, in questa fase intervengono fattori che condizioneranno l’intero processo di ricerca. Ad esempio per la prima volta compaiono le dimensioni sociali e politiche implicate nell’argomento di ricerca [Sjoberg 1967]. Spesso l’individuazione di un argomento non è guidata solo da interessi teorici ma anche dagli interessi sostanziali del ricercatore, come i motivi che lo hanno indotto a scegliere quel preciso argomento, gli

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obiettivi concreti e contingenti, gli intenti extra-scientifici [Gobo 1993, 309]. Gli interessi sostanziali raramente vengono esplicitati pur permeando le pratiche successive. Infine gli interessi teorici contribuiscono a modellare l’argomento di ricerca. A tal proposito Tesch [1990; 1991] osservando le finalità della ricerca, ha distinto undici tipi diversi: storie di vita, analisi del contenuto di tipo classico, analisi del contenuto etnografica, analisi del discorso, etnografia (olistica), etnografia strutturalista, etnometodologia, etnoscienza (antropologia cognitiva), grounded theory, analisi della struttura degli eventi e l’analisi matrix-oriented. Nel disegno della ricerca il ricercatore giunge a definire con più precisione l’argomento di ricerca: il focus si restringe, emergono nuovi aspetti del problema, si fanno i conti con le risorse (finanziamenti ottenuti, tempo a disposizione, numero di collaboratori). La decisione di restringere il campo cognitivo solitamente giunge dopo aver problematizzato tre livelli: la concettualizzazione del fenomeno da indagare, la definizione operativa e la scelta del tipo di campione. La fase relativa alla scelta del metodo e degli strumenti è quella più nota e discussa nella letteratura metodologica. In base alle sue riflessioni il ricercatore sceglie il metodo di indagine e gli strumenti di raccolta delle informazioni più adatti in relazione al tema della ricerca [Gasperoni e Marradi 1996]. Il ricercatore non dovrebbe usare sempre lo stesso metodo e gli stessi strumenti per ogni tema di ricerca, ma pragmaticamente li dovrebbe scegliere ottimizzando i vincoli e le risorse della specifica situazione di ricerca. Durante la fase del campo si procede alle pratiche di campionamento e alla prova degli strumenti. Successivamente si inizia la raccolta delle informazioni per costruire i dati. I problemi più spinosi sorgono a questo livello: il campione si costituisce in maniera diversa da come ci si aspettava; gli strumenti spesso necessitano di una taratura, le informazioni raccolte non sono sempre complete e soddisfacenti. Se il ricercatore è allenato ad ascoltare gli stimoli che provengono dal campo, ad aspettarsi l’inaspettato, gli eventi che succedono in questa fase retroagiscono sulla concettualizzazione e sulle ipotesi a cui era giunto durante il disegno della ricerca. Le informazioni raccolte sul campo vengono organizzate in una qualche forma per essere poi analizzate. In questa fase le informazioni vengono trasformate in dati: ad esempio, un’intervista (orale) diviene un testo scritto, dattiloscritto seguendo certe convenzioni (la sequenza domanda-risposta, le annotazioni sul contesto delle risposte, le annotazioni dell’espressioni nonverbali, ecc.) utili per permetterne l’analisi successiva. Per il ricercatore l’organizzazione dei dati e l’analisi sono le fasi emotivamente più laceranti. Egli assiste inesorabilmente a un impoverimento dei suoi materiali: i dati non possono mantenere tutta la ricchezza delle informazioni e le informazioni, a loro volta, si presentano come una copia sbiadita della vivezza del campo. Si accorge inoltre dei limiti e della finitezza del suo lavoro, di quanti aspetti hanno ottenuto risposte troppo superficiali e di quante altre domande poteva porre per comprendere meglio il fenomeno studiato. A tal fine i teorici della grounded theory invitano a iniziare l’analisi dei dati durante il processo di ricerca in modo che il ricercatore possa modificare per tempo la raccolta delle informazioni [Schatzman e Strauss 1973, 117]. La fase dell’analisi dei dati ha sempre rappresentato il tallone d’Achille della ricerca qualitativa. Da sempre in questa fase si intrecciano consigli metodologici di

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sapore neo-positivista (come il testing, la validation e la verification di un’ipotesi proposti da Schatzman e Strauss [1973], Strauss e Corbin [1990]) con operazioni del tutto arbitrarie, analisi di certosina pazienza con letture superficiali, genio e sregolatezza... Questa fase raccoglie simultaneamente i pregi e i limiti della ricerca qualitativa: lo spazio alla creatività del ricercatore e l’opacità delle sue procedure. Rispetto a quest’ultimo limite diversi autori [ad esempio Strauss e Corbin 1990] hanno recentemente avanzato una serie di proposte e sono nati alcuni programmi di trattamento automatico dei dati (Ethnograph, HyperResearch, QSR NUD·IST, ecc.). Se queste proposte recenti troveranno seguito, le nuove generazioni di ricercatori qualitativi si presenteranno come metodologicamente meno naïf delle precedenti. La ricerca solitamente prevede la redazione di un testo, che segua determinati criteri [cfr. i contributi di Tota e di Colombo nei capitoli 11 e 12 di questo libro], e la comunicazione dei risultati. Essa può essere diversa da un testo redatto organicamente: ad esempio un’audizione, una conferenza, un convegno o una trasmissione. Questa fase è forse la più importante delle sei precedenti; non soltanto perché il testo redatto (con le sue convenzioni retoriche) diviene uno dei criteri per valutare la scientificità della ricerca, ma perché scrivendo si continua ad analizzare i dati. L’attività di scrittura mette in comunicazione il ricercatore con il suo “Lettore Modello” [Eco 1979]; in questo rapporto virtuale il ricercatore chiarisce (e si chiarisce) i suoi asserti, sviluppa nuove idee, affina certi concetti, costruisce pezzi di teoria, generalizza o non generalizza alcuni risultati e, a volte, censura se stesso evitando di proferire certe affermazioni o azzardare determinate spiegazioni; in questa fase, quindi, egli continua l’attività di interpretazione dei dati. Allo stesso modo anche le tecnologie della scrittura (a penna, con la macchina da scrivere o con il computer) co-determinano l’analisi dei dati.

4. Il disegno della ricerca Le decisioni prese in ciascuna fase hanno delle conseguenze teoriche e pratiche sulla fase successiva. Per cui non è utile parlare di metodologia della ricerca senza contemplare queste decisioni perché ne deriverebbe una trattazione puramente astratta. Inoltre la situazione particolare di ogni ricerca richiede che la metodologia si abitui a confrontarsi sempre più con le situazioni specifiche. La fase che forse risente meno delle contingenze del processo di ricerca è quella del disegno della ricerca. Le sue caratteristiche prettamente riflessive la rendono relativamente autonoma dalla specificità dell’argomento di ricerca. Essa quindi si presta a una trattazione quasi-generale.

4.1. Concettualizzazione Uno degli obiettivi principali di una ricerca è rilevare gli stati su una proprietà. Ad esempio se la proprietà indagata è l’emancipazione femminile, le risposte di un’intervistata, qualora non siano subentrate distorsioni nell’interazione durante l’intervista, rappresentano i suoi stati rispetto a quella proprietà. Per poter porre domande adeguate è necessario che il singolo ricercatore o il gruppo di ricerca abbia riflettuto lungamente e approfonditamente sulle proprietà che compongono l’argomento di indagine. Questa attività viene definita “concettualizzazione” e serve a formalizzare il disegno della ricerca:

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INFRA attraverso la concettualizzazione si determina il bisogno informativo dell’indagine (...) [Essa però] si configura in maniera differenziata nell’ambito di diverse strategie d’indagine (...) quanto più un fenomeno rappresenta per una disciplina un problema oscuro, per il quale non sono cioè disponibili promettenti linee di attacco e dunque ipotesi di soluzione adeguate a selezionare aspetti ben definiti e precisati, tanto più delicato e difficoltoso sarà il processo di discriminazione selettiva fra la gamma di tutti gli aspetti potenzialmente rilevanti [Agnoli 1994, 66-7, corsivo originale]. FINE Finora i sociologi qualitativi hanno rifiutato questo passaggio per due ragioni: l’intrinseca maggior difficoltà della ricerca qualitativa [Ricolfi1997, 13] e l’avversione ai modelli matematico-statistici. Per quanto riguarda la seconda preoccupazione è bene ricordare che la formalizzazione non conduce necessariamente a una matematizzazione delle scienze sociali; formalizzare significa anche costruire un percorso chiaro (al lettore) e preciso per il ricercatore al fine di rendere il più possibile espliciti i suoi ragionamenti e le sue decisioni, troppo spesso relegate all’impenetrabilità del non detto. Prendendo a prestito la nota metafora batesoniana, formalizzare permette di disporre di una mappa che, pur non essendo il territorio, è uno strumento cognitivo utile a orientarci. Ovviamente sta al ricercatore utilizzare in modo riflessivo questa “mappa”. Un primo passo nell’attività di concettualizzazione è riflettere sulle relazioni tra le proprietà dei concetti e gli indicatori. Come sottolinea Agnoli «attraverso la concettualizzazione l’oggetto di interesse viene suddiviso in elementi più semplici, o parti, che insieme concorrono a formare l’intelaiatura elaborata per ridurre la complessità di una data situazione problematica e delimitarne l’ambito di interesse specifico in “quella data ricerca”» [1994, 66]. L’esito di questo processo cognitivo suggerisce al ricercatore quali aspetti osservare con cura e quali tralasciare perché marginali o perché renderebbero troppo estesa l’indagine. Tralasciare non vuol dire eliminare, ma lasciare sullo sfondo. Dato che osservare tutto è cognitivamente impossibile, è più opportuno focalizzare pochi aspetti e studiarli con cura: «Dalla gran massa delle possibili osservazioni empiriche noi scegliamo quindi quelle che assumiamo come significative rispetto alla nostra formulazione del problema nei suoi aspetti rilevanti» [ibidem]. La memoria e i processi inferenziali compiono di fatto questa selezione e riduzione della complessità; l’ideale sarebbe che questa inevitabile attività sia controllata (almeno parzialmente) dal ricercatore. Molti sociologi e metodologi qualitativi ritengono che una tale decisione sia dannosa in questa fase, delegando al campo il compito di indirizzare cognitivamente il ricercatore come se gli eventi fossero di per sé auto-evidenti. Consideriamo questo dialogo immaginario tra due ricercatori qualitativi: INFRA A Vorrei studiare il rapporto medico-paziente... B Perché proprio il rapporto e non qualcos’altro come le politiche sanitarie, la

burocrazia ospedaliera, le lobby dei medici e delle aziende farmaceutiche? A Perché sono interessato alle interazioni...

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B Ma allora hai una prospettiva teorica precisa... A Beh, si... insomma.... B Che cosa intendi per interazione? Quali interazioni vuoi osservare? Quelle del

medico con il paziente o anche del paziente con la segretaria del medico, quelle del medico con la sua segretaria, o anche le interazioni fra i pazienti in sala d’attesa?

A Beh... non lo so... ci devo pensare... B Ma cosa vorresti osservare dell’interazione fra medico e paziente? A quali

particolari sei interessato? Ai rituali di accoglienza, di presentazione, alle strategie retoriche del medico, alle incomprensioni tra il medico e il paziente, alle difficoltà del paziente nell’esprimere i propri stati, alla relazione di potere e asimmetria tra i due...

A Non lo so... non lo so.... scusa ma adesso ho da fare... FINE Anche se all’apparenza questa conversazione può evocare le provocazioni garfinkeliane, la concettualizzazione dovrebbe dare risposte proprio a questo tipo di domande. Se un’attività apparentemente meccanica come la trascrizione di una conversazione è condizionata dalla teoria [Ochs 1979], a maggior ragione lo sono le altre fasi: anche una traccia di intervista è già un artefatto delle teorie del ricercatore e del suo «modello implicito di attore» [Cicourel 1964, 223]. Dunque «un’accurata concettualizzazione è presupposto irrinunciabile di qualsivoglia tipo di ricerca» [Agnoli 1994, 70].

I concetti L’argomento di una ricerca (spesso chiamato oggetto) è in prima istanza un concetto. La droga, il disagio, la mobilità sociale, ecc. sono primariamente dei concetti che vengono trasformati in oggetti dai codici comunicativi presenti nella comunità sociologica. Gli attori sociali (e quindi anche i ricercatori) fanno esperienza attraverso i concetti. I concetti sono gli strumenti attraverso cui conosciamo e senza i quali la nostra osservazione sarebbe cieca. I concetti non sono ritagli di realtà bensì ritagli di esperienze [Marradi 1984, 9-10]. Essi possono essere personali oppure collettivi. I concetti vengono comunicati sia verbalmente che nonverbalmente: verbalmente attraverso le parole (termini) e non verbalmente attraverso molteplici segnali (il rossore come segnale del concetto di ‘imbarazzo’; lo sbuffo come segnale del concetto di ‘noia’). I concetti si distinguono a seconda del livello di generalità [Marradi 1984, 14 e ss.]; sono posti, quindi, su una scala gerarchica di generalità. Inoltre essi possono avere un referente astratto (come ad es. il concetto di disagio sociale) oppure un referente concreto (come ad esempio il concetto di extracomunitario). Scendendo sulla scala di generalità nel primo caso possiamo trovare solo concetti con referenti astratti; nel secondo caso soltanto concetti con referenti concreti. Ad ogni passaggio scendendo nella scala di generalità viene aggiunta una proprietà diversa per cui il concetto ha una maggior intensione (aumenta il numero di proprietà) e una minor estesione (cioè definisce un insieme di eventi più ristretto). E’ importante non

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dimenticare che la gerarchia della scala di generalità é un prodotto culturale prima che logico-formale. La riflessione sui concetti e l’attenta scomposizione delle loro proprietà aiuta il ricercatore a definire le unità di analisi e, successivamente, il campione (cfr. § 5.3). Trascurare questo passaggio porta a raccogliere informazioni su casi così difformi da rendere poi difficile un’analisi comparativa.

Le definizioni Più un concetto ha un elevato grado di generalità più è necessaria un’estesa attività di discussione, negoziazione e ridefinizione al fine di garantire l’univocità di significati all’interno di un gruppo di ricerca. A tal fine l’argomento di indagine richiede una definizione lessicale e una definizione operativa. La definizione lessicale descrive il raccordo fra il concetto (o concetti) e il termine. A seconda degli scopi della ricerca la definizione lessicale svolge quattro funzioni diverse: • qualora fossimo interessati a ricostruire il codice di una comunità o di una categoria

professionale oppure sociale (i giovani, gli anziani, le donne, ecc.) la definizione lessicale diviene il risultato della ricerca. Ne sono un esempio le ricerche tese a indagare come un termine (‘sballare’, ‘divertirsi’, ecc.) viene inteso fra i membri di una categoria oppure come viene svolta una determinata attività (ad es. il corteggiamento). Questa funzione è solo parzialmente ricoperta dai dizionari e dalle enciclopedie, che riproducono la cultura standard e non le culture locali. Si muove in questa direzione soprattutto l’antropologia che a tale scopo ha messo a punto alcune tecniche come la feature analysis, la domain analysis e la component analysis [cfr. D’Andrade 1976; Spradley 1980];

• se la ricerca mira ad accertare in modo sistematico le modalità con cui una serie di proprietà è presente in una serie di casi, allora la definizione lessicale precede la rilevazione sul campo. Ad esempio nella ricerca sulla creatività in alcune categorie professionali [Melucci 1994], per stabilire se l’invenzione era da considerarsi principalmente un fenomeno individuale oppure collettivo, nel gruppo di ricerca si rese necessario stabilire preventivamente il significato (il concetto quindi) dei termini ‘invenzione’, ‘individuale’ e ‘collettivo’;

• il ricercatore o il gruppo di ricerca appartiene a una comunità scientifica dove esistono diversi concetti di uno stesso termine. Ad esempio Melucci [1994, 14-23] riscontra una marcata polisemia del termine ‘creatività’ che si muove su tre piani: genetico, morfologico, processuale o delle abilità. Per ogni piano vi sono poi diverse teorie (psicoanalitiche, socio-psicologiche, cognitiviste e sociologiche) che contribuiscono ad arricchire, ma anche a complicare, il patrimonio concettuale. Le definizioni lessicali descrivono quindi i diversi raccordi tra concetti e termine presenti all’interno della comunità scientifica con cui il ricercatore deve confrontarsi;

• in alcuni casi la ricerca giunge a proporre un nuovo raccordo fra il concetto (o concetti) e il termine sintetizzando oppure allargando ulteriormente il patrimonio terminologico-concettuale della disciplina.

La definizione operativa invece consiste in un complesso di norme e convenzioni che stabiliscono nei dettagli i criteri della rilevazione empirica (cfr. § 5.2).

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Ma se è relativamente semplice accordarsi sulle definizioni lessicali e stabilire le definizioni operative che trasformino in variabili il tasso di analfabetismo o il titolo di studio, altre caratteristiche, più rilevanti sotto il profilo teorico (come l’orientamento politico degli intervistati, la libertà di stampa in un dato paese, ecc.) non si prestano altrettanto agevolmente a una definizione lessicale e operativa [Marradi 1984, 33; Cartocci 1984, 76]. Quindi nell’esplorare una proprietà a un alto livello di generalità, la definizione lessicale e operativa ci aiutano a disciplinare la rilevazione empirica e l’impiego coordinato di proprietà che i ricercatori ritengono legate al concetto in un rapporto di indicazione. Infatti ci troviamo in presenza di concetti riferiti all’argomento studiato e concetti riferiti alle proprietà dell’argomento stesso.

Gli indicatori Per ridurre la generalità del concetto, per farlo scendere dalla cima della scala, occorre cercare uno o più indicatori per ciascuna delle sue proprietà. Secondo Lazarsfeld i ricercatori dovrebbero tradurre concetti con un alto grado di generalità (lontani dall’esperienza dell’intervistato — experience-distant) a concetti con gradi di generalità sempre più bassi (vicini all’esperienza — experience-near) familiari al non specialista, secondo una terminologia introdotta vent’anni più tardi [Geertz 1977, 481]. Come esplicita Cartocci «la ‘personalità autoritaria’ è un esempio di concetto lontano dall’esperienza. Un suo indicatore è il giudizio [dell’intervistato/a] sull’affermazione “i bambini devono imparare il rispetto dell’autorità”, affermazione vicina all’esperienza degli intervistati» [1984, 79]. Dunque “lontani” sono i concetti di maggior rilievo per i ricercatori e “vicini” gli indicatori a cui rimandano. Rifiutando la centralità della logica formale, assegnata dai neopositivisti ai criteri di giustificazione, e nella prospettiva tracciata dalla nuova retorica [Toulmin 1958; Perelman e Olbrechts-Tyteca 1958; Perelman 1977] Cartocci sostiene:

INFRA

Gli indicatori di un concetto ‘lontano-dall’esperienza’ possono essere individuati in vario modo: attraverso le conoscenze di senso-comune, l’esempio di precedenti ricerche, l’intuizione, il sogno o l’associazione d’idee. Non esistono vie più ‘scientifiche’ di altre. Al metodologo spetta soprattutto la valutazione delle motivazioni addotte dal ricercatore a sostegno delle proprie scelte, piuttosto che l’indagine dei meccanismi di scelta [1984, 80]. FINE L’argomentazione delle proprie decisioni e scelte dovrebbe, quindi, diventare un esercizio fondamentale per il ricercatore [Cicourel 1968] o il gruppo di ricerca. Peraltro una delle principali critiche mosse dall’etnometodologia [Garfinkel 1967; Mc Hugh 1968; Zimmerman e Pollner 1974; Mehan e Wood 1975] e della sociologia cognitiva [Cicourel 1964; 1974] alle sociologie tradizionali sottolinea l’estrema facilità con cui gli scienziati sociali sono portati a trasferire le loro pre-comprensioni (e a volte pregiudizi) nelle “scoperte”. Gli scienziati costruiscono ingenuamente degli oggetti sociologici e

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finiscono per ritrovare in essi le categorie proprie dell’apparato concettuale da loro stessi usato per la ricerca. A differenza «dell’orientamento oggettivista di Lazarsfeld — cioè la tendenza a considerare oggetti e indicatori come ‘cose’ e non come strumenti cognitivi — (...) la scelta di un concetto, a preferenza di innumerevoli altri, come indicatore di un altro concetto è sempre un’operazione discrezionale da parte del ricercatore» [Cartocci, 1984, 81 e 88]. Ma a differenza dell’attività artistica INFRA al ricercatore corre l’obbligo di giustificare le sue scelte, esponendo le garanzie [dati di partenza a disposizione dell’argomentazione, le conclusioni a cui approda l’argomentatore, le inferenze dai dati alle conclusioni, le teorie ed osservazioni su cui poggiano tali inferenze] su cui fonda il rapporto fra concetto-indicatore. Tale relazione deve essere trasparente alla critica da un’argomentazione. Al ricercatore non è consentito ricorre a metafore ardite o a suggestive evocazioni di atmosfere [Cartocci 1984, 89]. FINE

Le ipotesi Un altro luogo comune consiste nel ritenere che la ricerca qualitativa si accosti al suo tema di indagine priva di ipotesi ma soltanto con l’intento di capirlo e descriverlo. L’avere delle ipotesi non è però in conflitto con questo intento. Dal punto di vista concettuale un’ipotesi è un asserto, di natura congetturale, circa «taluni aspetti di un oggetto di studio e le loro connessioni» [Agnoli 1994, 24]. Dal punto di vista operativo un’ipotesi è un asserto «circa le relazioni tra due o più variabili» [Marradi 1984, 90]. Le ipotesi sono una forma di ragionamento di senso-comune che utilizziamo quotidianamente. Se la moglie non saluta il marito, egli può pensare che sia assorta nei suoi pensieri, che sia arrabbiata oppure triste. Scegliendo la seconda ipotesi il marito formula un asserto circa la relazione tra uno stato emotivo e la mancata esecuzione di un rituale. Se poi volesse svolgere un’indagine più accurata potrebbe scoprire che “più profonda è l’arrabbiatura di sua moglie tanto più il silenzio rischia di estendersi ad altri rituali” (il pranzo, il caffè, ecc.). Potrebbe quindi scoprire una relazione positiva di covariazione tra le variabili ‘arrabbiatura’ (molto arrabbiata/ poco arrabbiata...) e ‘durata del silenzio’. In base alle sue scoperte potrebbe forse anche fare delle previsioni e comportarsi di conseguenza per il futuro. Dunque ipotesi e previsione appartengono sia al patrimonio concettuale ordinario che scientifico. Nel processo di ricerca il ricercatore qualitativo, in quanto membro della società e scienziato, sviluppa (spesso tacitamente) delle ipotesi e realizza previsioni. Le posizioni dei metodologi qualitativi nei confronti dell’utilizzo di ipotesi sono diversificate: Agar è categorico nel rifiuto [1986, 12]; l’antropologo Hymes [1978] invece ritiene che l’etnografo possa intraprendere un’etnografia hypothesis-oriented, una volta raggiunto un buon livello di conoscenza della cultura che sta studiando. Glaser e Strauss [1967], Schatzman e Strauss [1973], Strauss e Corbin [1990] affermano che le ipotesi sono una necessità della ricerca, ma devono essere formulate e controllate soltanto dopo la raccolta delle informazioni affinché il ricercatore giunga sul campo senza posizioni precostituite. In buona sostanza nella ricerca qualitativa vige il più assoluto pluralismo. Le

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ipotesi sostanziali possono essere fatte prima di iniziare la ricerca, durante e/o al termine della raccolta delle informazioni. La genericità o specificità delle ipotesi dipendono dal grado di conoscenza dell’argomento che il ricercatore ritiene di avere. Nel primo caso possiamo formulare delle ipotesi di lavoro, nel secondo delle ipotesi guida [Agnoli 1994, 21]. Ipotesi guida sono state usate, ad esempio, dallo psicologo David Rosenhan nella nota ricerca sulla costruzione della malattia mentale da parte dell’istituzione psichiatrica, uno studio qualitativo che si può tranquillamente definire quasi-sperimentale o una “dissimulazione” (come la chiama l’autore). Spinto dal dubbio (peraltro condiviso da molti studiosi) che la malattia mentale possa «essere molto meno sostanziale di quanto molti non pensino» o anche un «mito» [Szasz 1966], Rosenhan formula l’ipotesi che l’insanità mentale sia una costruzione dell’istituzione manicomiale e degli psichiatri [Rosenhan 1973, trad. it. 1988, 106]. L’autore quindi si pone la seguente domanda: «le caratteristiche salienti che portano alle diagnosi si trovano nei pazienti, oppure negli ambienti e nei contesti in cui gli osservatori li trovano?» [ibidem]. La risposta può essere trovata INFRA facendo ricoverare persone normali (cioè persone che non presentano e non hanno mai presentato sintomi di gravi disturbi psichiatrici) in ospedali psichiatrici per verificare se viene scoperto che sono state sane e come. Se la sanità di questi pseudopazienti fosse sempre riconosciuta, si avrebbe, prima facie, una prova del fatto che un individuo sano può essere distinto dall’ambiente insano in cui si trova (...) e l’anormalità si trova all’interno della persona stessa. Se, al contrario, la sanità degli pseudopazienti non fosse mai scoperta, tutti quelli che sostengono le modalità tradizionali di diagnosi psichiatrica si troverebbero in difficoltà [ibidem]. FINE Per controllare l’ipotesi iniziale otto persone ricercatori si fanno ricoverare in dodici ospedali psichiatrici diversi distribuiti in cinque stati degli Stati Uniti. Nonostante tengano fin dal primo giorno un comportamento assolutamente “normale”, essi sono comunque trattenuti per alcuni mesi in ospedale e poi dimessi, tutti e indistintamente, con un’inequivocabile diagnosi: “schizofrenia in remissione”. Per «verificare se era possibile invertire la tendenza a diagnosticare folle una persona sana» [ibi, 111] l’autore realizza un ulteriore esperimento, che rappresenta una specie di controprova: comunica all’équipe medica di un ospedale, a indirizzo didattico e di ricerca che conosceva la precedente ricerca di Rosenhan e riteneva impossibile che errori così macroscopici potessero accadere nel suo ospedale, «che nei successivi tre mesi uno o più pseudopazienti avrebbero tentato di esservi ammessi» [ibidem]. Su 193 pazienti ammessi in ospedale in quel periodo 41 pazienti vennero dall’équipe dichiarati pseudopazienti. Rosenhan però afferma che «nessun vero pseudopaziente (almeno del mio gruppo) si presentò in quel periodo»! La ricerca sperimentale non necessariamente deve essere esiliata o lasciata ai neopositivisti. La Piere [1934], Becker et al. [1961], Garfinkel [1962; 1963] hanno condotto ricerche quasi-sperimentali in modo non positivista. Zimmerman e Wilson [1973] hanno anche ideato un programma (poi esauritosi) di studi sperimentali a impronta

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etnometodologica, coinvolgendo studenti di dottorato. Infine Denzin ha sostenuto che «l’uso di Garfinkel del quasi-esperimento in situazioni “naturali” può diventare un modello per studi maggiormente rigorosi degli incontri faccia-a-faccia» [1971, trad. it. 1983, 249]

I modelli L’ipotesi può essere definita come il corrispondente verbale del modello. «i modelli sono rappresentazioni grafiche delle nostre ipotesi sulle relazioni fra due o più variabili» [Marradi 1984, 80]. L’ipotesi può essere di tipo descrittivo, affermando cioè l’esistenza di una relazione tra due proprietà, oppure di tipo esplicativo ipotizzando una relazione di causazione: «il modello A —> B è l’equivalente grafico della frase “si ipotizza che fra la variabile A e la variabile B intercorra una relazione e — data la natura delle corrispondenti proprietà — riteniamo che tale relazione sia unidirezionale, nel senso che A influenza B mentre non è influenzata”» [ibidem]. Strauss et al [1964], studiando empiricamente le regole e gli accordi informali presenti in diverse istituzioni psichiatriche, hanno costruito un modello causale in cui la diversità delle regole vigenti è spiegata in base all’esistenza di differenti modi di trattare il paziente. Ma a loro volta le modalità di intervento sul paziente sono condizionate dai diversi modelli professionali interiorizzati dal personale ospedaliero, che si rifanno a ideologie psichiatriche diverse. Venticinque anni dopo Strauss ha elaborato un modello più raffinato: per la fase dell’analisi dei dati (che trascende gli obiettivi di questo capitolo) Strauss e Corbin prevedono il livello della “codifica assiale” in cui i dati vengono assemblati, integrati e riorganizzati sulla base di connessioni fra categorie: INFRA nella grounded theory colleghiamo sotto-categorie a categorie in un set di relazioni che denotano le condizioni causali, il fenomeno, il contesto, le condizioni intervenienti, le strategie di interazione/azione e le conseguenze. In modo altamente semplificato, il modello può apparire così: (A) CONDIZIONI CAUSALI ---> (B) FENOMENO ---> (C) CONTESTO ---> (D) CONDIZIONI INTERVENIENTI ---> (e) STRATEGIE DI INTERAZIONE/AZIONE ---> (F) CONSEGUENZE. L’uso di questo modello aiuta a pensare in modo sistematico sui dati e a relazionarli in modi molto complessi” [Strauss e Corbin 1990, 99 — grassetto e maiuscole nel testo originario]. FINE

4.2. La definizione operativa Cicourel [1964, 18-22] nota che a differenza delle scienze fisiche, nelle scienze sociali a concetti posti a un elevato grado di generalità non corrispondono definizioni lessicali e operative sulle quali esista un accordo nella comunità degli scienziati. Per cui, come osserva Cartocci, mentre INFRA un metro, una bilancia ed un cronometro sono i presupposti per la definizione operativa di ‘quantità di moto’, concetto posto ad un elevato livello di generalità, niente di così

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affidabile è disponibile per giungere alla definizione operativa di concetti come ‘democrazia’, ‘razionalizzazione’, ‘autorità’, ‘partecipazione politica’, (...) Data la natura dei suoi oggetti, la ricerca sociale non può contare su definizioni valide sempre e dovunque [1984, 74-5]. FINE La definizione operativa consiste nel INFRA complesso delle regole che guidano le operazioni con cui lo stato di ciascun caso sulla proprietà X viene rilevato, assegnato a una delle categorie stabilite (...) e registrato nel modo necessario a permettere (...) l’analisi con le tecniche che si intendono usare. Molte di queste regole sono consuetudini che governano in via generale certi aspetti tecnici della ricerca (...) altre regole sono specifiche, e il ricercatore deve ogni volta esplicitarle se vuole trasformare la proprietà X in una variabile della sua ricerca [Marradi 1984, 23]. FINE Fra queste consuetudini e regole troviamo la definizione lessicale dell’indicatore, il modo di formulare la domanda, la procedura di rilevazione delle risposte, gli accorgimenti (tipo di garanzie, contratti informali, mosse particolari, ecc.) predisposti al fine di rimuovere la probabile ritrosia dell’intervistato, le eventuali procedure di controllo della veridicità delle risposte date. «In più essa comprende anche un insieme di elementi quasi impalpabili, non meno importanti nel determinare gli esiti dell’indagine. La preparazione e la sensibilità dei ricercatori emergono proprio nella capacità di padroneggiare questi aspetti» [Cartocci 1984, 77]. La definizione operativa dunque trasforma gli indicatori, relativi alle proprietà di un concetto, in variabili. Contrariamente alla consuetudine espressa nella maggioranza dei disegni della ricerca per indagini quantitative, questa trasformazione non è automatica e fissa, anche per l’esistenza di diversi tipi di proprietà [cfr. Rositi, 1993, 182-3], e dovrebbe essere pensata ed eseguita per ogni specifica situazione di ricerca: «le parti specifiche della definizione operativa, il cui contenuto varia da proprietà a proprietà, sono innestate su un tessuto di regole generali, che variano a seconda della tecnica usata per la raccogliere le informazioni» [Marradi 1984, 24]. La variabile è quindi l’esito della definizione operativa, il suo terminale, la protesi con cui il ricercatore raccoglie le informazioni. Come ricorda Leonardi tra proprietà e variabili non c’è isomorfismo [1991, 28], per cui «relativamente a un medesimo indicatore il ricercatore può costruire tanti diversi strumenti di rilevazione e registrazione, cioè a dire tante variabili» [Agnoli 1994, 163]. Dunque l’indicatore appartiene al piano concettuale, mentre la variabile al piano tecnico. Infatti gli «indicatori diverranno variabili solo quando il ricercatore avrà stabilito come rilevare e registrare lo stato di singoli intervistati relativamente ad essi» [ibidem]. A differenza del paradigma lazarsfeldiano, la rilevazione costituisce solo una tappa intermedia della costruzione delle variabili. Per cui la definizione operativa viene parzialmente riprogettata anche nelle fasi successive come l’analisi dei dati e il controllo delle ipotesi: «concettualizzazione e operativizzazione (...) si intrecciano in un continuo processo di reciproci aggiustamenti (...) in virtù della possibile ri-specificazione

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dell’originaria formulazione di un concetto ovvero di una ri-concettualizzazione del dato» [ibi, 116]. L’antropologia culturale, la psicoanalisi e molte correnti della sociologia qualitativa sostengono che è possibile effettuare ricerca scientifica senza dover ricorrere alla definizione operativa dei concetti impiegati. Secondo Marradi invece «la necessità di definire operativamente le proprietà che si studiano è un aspetto caratteristico dell’attività scientifica, al punto da costituire la discriminante più sicura fra essa e altri generi di attività, ad esempio la speculazione filosofica» [1984, 25]. L’autore ritiene che la definizione operativa sia un passo deciso per ridurre l’opinabilità delle nostra affermazioni, per raggiungere una maggiore intersoggettività anziché per conferire certezza alle stesse. Inoltre le definizioni lessicali e la relativa definizione operativa possono essere considerate come delle risorse (più che delle dannose restrizioni) all’attività cognitiva del ricercatore.

4.3. Le unità di analisi e il campione Attraverso la concettualizzazione il ricercatore giunge anche a definire le unità (ovvero l’estensione di un concetto, detta anche universo o popolazione) e i casi (gli elementi dell’universo su cui viene effettuata l’indagine, cioè il campione). Anche su questo punto, come osserva Mason, esiste una comune convinzione che «strategie di campionamento in qualche modo rigorose e sistematiche non siano realmente importanti nella ricerca qualitativa dal momento che essa si realizza quasi sempre su piccola scala oppure non è riconducibile alla logica della probabilità matematica» [1996, 83] e di campionamenti probabilistici. Per cui il dibattito sulle forme di campionamento, al di là di poche eccezioni [Glaser e Strauss 1967; Schatzman e Strauss 1973; Agar 1980; Corsaro 1985; Patton 1987; Strauss e Corbin 1990], è del tutto assente nei metodi qualitativi. Eppure definire le unità di analisi è di estrema necessità se non si vogliono condurre ricerche pasticciate ed empiricamente inconsistenti. Mitchell e Karttunen [1991], analizzando una serie di ricerche finlandesi sugli “artisti”, hanno riscontrato la produzione di risultati diversi a seconda della definizione di artista che veniva impiegata dai ricercatori. In altri termini artista è (i) chi si autodefinisce come tale, (ii) colui produce in modo duraturo e continuativo opere d’arte, (iii) chi viene riconosciuto come artista dalla società nel suo complesso oppure (iv) colui che viene riconosciuto dalle associazioni degli artisti? Lo stesso problema definitorio si è posto nella ricerca sulla creatività diretta da Melucci [1994] al momento di identificare le unità dei pittori e degli attori teatrali, le cui proprietà sono meno intersoggettive di quelle che costituiscono i concetti di managers, pubblicitari e scienziati — le altre categorie professionali tema della ricerca. Un primo importante passo per scegliere il campione è quindi decidere qual è l’unità più appropriata. Fuorviati dall’«impostazione corrente del problema del campionamento [che] risente della trasposizione meccanica dei suoi principi dal campo delle scienze biologiche dove sono stati formulati» [Pitrone 1984, 133] e che diversi autori [Goode e Hatt 1952, trad. it. 1962, 322-7; Guidicini 1968, 331; Gilli 1971, 222-6; Capecchi 1972; Perrone 1977, 71; Gangemi 1982; Marradi 1984, 98-100] hanno indicato come problema da superare, si tende a identificare ancora i casi con gli individui. Per cui, al fine di studiare i comportamenti o gli atteggiamenti, i ricercatori prima campionano gli individui e li intervistano, poi dalle loro risposte ricostruiscono gli atteggiamenti e i comportamenti. Appare invece più corretto prima campionare i comportamenti [Cicourel

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1982b; Strauss e Corbin 1990, 176-93] e gli atteggiamenti oggetto del sondaggio, e successivamente intervistare gli individui che tengono quei comportamenti e condividono quegli atteggiamenti: «le regole rigorose della teoria del campionamento debbono essere combinate con le tecniche teoricamente più flessibili di un campionamento impostato sui concetti. Allorché sono state campionate delle unità di natura interattiva (come rapporti sociali, incontri, organizzazioni), è necessario per il ricercatore dimostrare la rappresentatività di quelle unità rispetto alla totalità dei fenomeni dello stesso tipo» [Denzin 1971, trad. it. 1983, 232]. Questo obiettivo può essere perseguito ad esempio individuando un quartiere noto per atteggiamenti razzisti e intervistarne i residenti; oppure intervistando le persone che escono dai cinema, dalle mostre, dai teatri, ecc. per studiare i consumi culturali [per un caso esemplare cfr. Tota 1997]. Dunque le unità possono essere individui ma anche (e soprattutto nelle scienze sociali) atteggiamenti, stereotipi, opinioni, comportamenti e interazioni, emozioni, credenze, eventi, regole o convenzioni sociali, istituzioni, ecc. Scelta l’unità dobbiamo definirne i confini; ad esempio se iniziamo un case study per studiare alcuni comportamenti in un’organizzazione, dobbiamo decidere dove l’organizzazione inizia e finisce, sia dal punto di vista spaziale sia temporale [Mason 1996, 89]. Inoltre, dal momento che il ricercatore non può osservarla per ventiquattro ore al giorno e non ha il dono dell’ubiquità, per studiare in modo sistematico dovrà decidere gli orari e i luoghi da campionare [Schatzam e Strauss 1973, 39-41; Corsaro 1985, 28-32; Gobo 1997b].

5. Per un linguaggio comune della e nella ricerca empirica L’assenza di un preciso e dettagliato disegno della ricerca è stata una caratteristica della ricerca qualitativa, nonché l’oggetto di una delle principali critiche che si sono mosse ad essa [Cardano 1991, Ricolfi 1995]. Tuttavia la ricerca qualitativa continua a nutrire una certa diffidenza e resistenza nei confronti della formalizzazione, anche quando viene proposta dai metodologi qualitativi stessi. Ne sono testimonianza le reazioni di Bryman e Burgess [1994], di Richards e Richards [1994] — peraltro inventori del software qualitativo QSR NUD·IST — e di Kelle [1995] nei confronti della formalizzazione introdotta da Strauss e Corbin per la codifica e analisi dei dati. In questo capitolo si è cercato di esemplificare come la formalizzazione del disegno della ricerca può diventare un’opportunità, una risorsa anziché un inutile oltre che fuorviante vincolo per il ricercatore. Attraverso la formalizzazione egli rende esplicite molte delle procedure che altrimenti rimarrebbero relegate fra le sue conoscenze tacite, la sua esperienza o a quella del gruppo di ricerca. Formalizzare, nel nostro intento, significa soprattutto rendere più intersoggettivo l’intero processo di ricerca. A tal fine la riflessione sui concetti e le loro proprietà, la tematizzazione del rapporto fra indicatori e variabili, la formulazione di ipotesi e previsioni con relativi controlli, la costruzione di modelli e di campioni non sono procedure da demonizzare ma da reinventare all’interno di una ricerca empirica e di un metodo riflessivi; anche per la semplice ragione che (volenti o nolenti) si tratta di procedure che adoperiamo quotidianamente (e spesso inconsapevolmente) in quanto basi cognitive sui cui si fondano i processi di ragionamento di senso-comune come compiere inferenze, deduzioni, abduzioni, generalizzazioni, categorizzazioni, ipotesi, previsioni, comparazioni, contestualizzazioni, spiegazioni, conteggi, calcoli di frequenza,

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ecc. Problematizzare e, per quanto possibile, rendere espliciti i propri ragionamenti dovrebbe essere considerato un obbligo dello scienziato. Non bisogna, infine, sottovalutare la reazione che alcuni termini (come quelli sopra riportati) suscitano fra i sociologi qualitativi. Essi sono stati coniati in un clima positivista e neopositivista ed è normale che evochino quell’ideologia scientista. Al di là dei nostri desideri e delle nostre illusioni, dal punto di vista pratico i termini sono più importanti dei concetti; se cambiano i concetti ma non i relativi termini, il mutamento concettuale difficilmente potrà essere avvertito. Si rende quindi necessario un rinnovamento del patrimonio terminologico (il linguaggio) delle scienze sociali che si adegui all’ormai mutato patrimonio concettuale (il pensiero). Un esempio in tal senso proviene dal dibattito sul riscontro delle ipotesi. Alla concezione che «le ipotesi devono essere dimostrate vere», che si fondava sulla tesi induttivista baconiana — peraltro «accettata da tutto il positivismo ottocentesco, e sostanzialmente anche dal neopositivismo di questo secolo» [Marradi 1984, 90], si legò il termine “verifica” delle ipotesi. Il successivo mutamento concettuale introdotto da Popper (le ipotesi devono essere formulate in modo da poter essere dimostrate false) produsse anche un mutamento nel linguaggio. Dal quel momento prevalse l’espressione “falsificare un’ipotesi”. I neopositivisti, accusato il colpo, modificarono parzialmente le loro posizioni concettuali che presero forma nei termini “grado di conferma” di un’ipotesi (che significava che la verifica poteva essere solo di «natura parziale e cumulativa anziché integrale e istantanea come per i positivisti» [ibi, 94]. Dopo il declino della posizione falsificazionista nelle scienze sociali e la nascita del “pensiero debole”, il termine generalmente utilizzato per il riscontro di un’ipotesi è quello (più soft) di “controllo”. In tempi più recenti, stretti tra il dilagante postmodernismo e l’ineludibile svolta riflessiva — proposta anche da questo libro — al mutato paradigma concettuale l’espressione epistemologicamente più appropriata sembra essere “documentare” un’ipotesi. Trovare nuovi termini, più conformi al mutato patrimonio concettuale, forse può essere la strada per trovare un linguaggio comune su cui fondare un’integrazione tra metodi che, nonostante lo sforzo per dimostrare l’inconsistenza della loro contrapposizione [Leonardi 1991; Cardano 1991; Statera 1992; Campelli 1992; 1996; Agodi 1996], rimangono di fatto ancora distanti.

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