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Il fulmine a mani nude Editoriali e Lettere di Antonio Gramsci www.piazzadelgrano.org

Il fulmine a mani nude

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Inedito della rivista mensile Piazzadelgrano

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Il fulmine a mani nudeEditoriali e Lettere di Antonio Gramsci

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Prima di giudicare (e per lastoria in atto o politica il giudizio èl’azione) occorre conoscere e perconoscere occorre sapere tutto ciòche è possibile sapere.(Antonio Gramsci)

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“Le idee – scrive Gramsci - non nascono da altre idee, le filo-sofie non sono partorite da altre filosofie, esse sono l’espres-sione rinnovata dello sviluppo storico. Le forze materiali nonsarebbero concepibili storicamente senza forma, e le ideolo-gie sarebbero ghiribizzi individuali senza le forze materiali.”Le idee nascono dallo sviluppo storico del reale, ne sonol’espressione, ma nello stesso tempo hanno il potere dicambiare la storia. Ecco perché le idee non sono figlie diidee, ma nascono da rapporti storici reali. Nel momento incui il capitalismo è entrato nella fase monopolistica e legrandi masse sulla scena della storia, il problema della so-vrastruttura diviene determinante. Prendere il potere signi-fica, innanzitutto, occupare le “casematte dello Stato”, cioèquegli apparati della società civile, come la scuola, i partiti,i sindacati, la stampa, che hanno il compito di inculcare nel-le menti delle grandi masse i valori della classe dominante.La supremazia di un gruppo sociale non può attuarsi solocol dominio e con la forza, deve avvalersi degli apparati ege-monici della società civile, deve evocare il consenso più am-pio. Il potere non è dominio, è egemonia, intesa essenzial-mente come capacità di direzione intellettuale e morale.Ogni classe sociale tende a produrre i propri intellettuali or-ganici connessi ai propri bisogni e alla propria mentalità. Lemasse dei lavoratori e degli sfruttati debbono dotarsi di unaloro guida intellettuale e l’ “intellettuale organico” alle classisubalterne è il partito comunista che, rappresentando la to-talità degli interessi e delle aspirazioni della classe lavora-trice, si configura come la sua guida politica, morale e idea-le. Per questa sua capacità unificatrice delle istanze popolarie per il suo fermo tendere verso un supremo fine politico,Gramsci denomina il partito comunista “moderno Principe”,con l’avvertenza che, mentre per Machiavelli esso si identi-fica in un individuo concreto, per i comunisti si tratta di unorganismo in cui si concreta la volontà collettiva della classerivoluzionaria. In un sistema capitalistico organico e globa-lizzato la strategia rivoluzionaria non può essere frontale,cioè alla “facciata dello Stato”, deve invece dirigersi in pro-

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fondità, mediante una “snervante guerra di posizione”, con-tro le “fortezze” e le “casematte” del nemico, ossia control’insieme delle istituzioni della società civile. Si tratta di lo-gorare progressivamente la supremazia di classe della bor-ghesia, conquistando i punti strategici della società civile, eponendo così le premesse per la conquista del potere e larealizzazione della propria egemonia. La conquista delloStato borghese deve avvenire dunque dall’interno della so-cietà, attraverso una “battaglia delle idee” e sulla base diuna prospettiva sociale, economica, politica, intellettuale emorale, che sia in grado di ottenere il consenso delle masse.Il Partito “intellettuale organico” deve ricucire la frattura tracultura e vita, tra cultura e masse, operata dall’intellettualetradizionale, membro di una casta separata dal popolo-na-zione, e dunque deve essere portatore di una “cultura na-zional-popolare” che rappresenta il cemento del rapportotra dirigenti e diretti, tra governanti e governati. Solo se rie-sce ad ottenere il consenso di tutte masse subalterne esfruttate, il partito comunista può creare un sistema di al-leanze di classe che gli permetta di mobilitare contro lo Sta-to borghese la maggioranza della popolazione lavoratrice ediventare classe dirigente e dominante.

Sandro Ridolfi

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(tratto da un intervento tenuto da Mario Trontialla Camera dei Deputati il 17 aprile 2007)

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Ho riflettuto a lungo sul perché, pensando a Antonio Gram-sci, scatti in me, subito, per istinto, un titolo: la figura delgrande italiano. Sarà che questo nostro paese continua ametterci di fronte una sostanziale ambiguità: da un lato ladebolezza politica della storia italiana, dall’altro lato il pae-se forse più politico del mondo, in tutte le sue componentisociali e popolari. Noi abbiamo inventato la politica per lamodernità. Ne abbiamo fatto una forma, privilegiata, eun’espressione, intensa, di pensiero umano. Perché Gramsciha così a lungo pensato su Machiavelli? Intanto: il grandeitaliano è l’uomo del Rinascimento. Dietro c’era la stagionemagica che, fra Trecento e Quattrocento, aveva visto svol-gersi quella contraddizione lancinante, fondativa della no-stra successiva natura, la contraddizione tra una storiad’Italia, ancora molto lontana dal presentarsi come tale, euna poesia, una letteratura, un’arte, una filosofia, già italia-ne, in forme dispiegate e mature, con, in più, una naturalevocazione universalistica. ... Come Machiavelli aveva chio-sato la prima decade di Tito Livio, così Gramsci chiosa IlPrincipe. Geniale la sua interpretazione del partito politicocome moderno principe. Credo, ancora di una sconvolgenteattualità. «Il moderno principe, non può essere una personareale, un individuo concreto; può essere solo un organismo;un elemento di società complesso nel quale già abbia inizioil concretarsi di una volontà collettiva, riconosciuta e affer-matasi parzialmente nell’azione. Questo organismo è giàdato dallo sviluppo storico ed è il partito politico; la primacellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettivache tendono a divenire universali e totali» ... «il partito noncome categoria sociologica, ma il partito che vuole fondarelo Stato »: fondare lo Stato, non farsi Stato ... Il problema ori-ginalmente comunista di Gramsci - vorrei dire, se questonon disturba troppo, l’originale leninismo di Gramsci - è lacostruzione di un rapporto virtuoso tra classe dirigente eclasse sociale. Il mito - usa lui questa parola e voglio usarlaanch’io del partito-principe è l’organizzazione di una volon-tà collettiva, «elemento di società complesso», come l’unica

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forza in grado di contrastare l’avvento della personalità au-toritaria. A questo punto vorrei non dare l’impressione diedulcorare il personaggio Gramsci, iscrivendolo nel ruolonon esaltante di Padre della Patria. Non si può parlare diGramsci restando neutrali. Scrisse di sé, dal fondo del car-cere fascista: «Io sono un combattente, che non ha avutofortuna nella lotta pratica». Non era un’anima bella. Natoper l’azione, circostanze esterne lo costringono a diventareuomo di studio. Se dovessi riassumere in una definizionel’insegnamento che Gramsci ci lascia, direi così: come unuomo di parte possa diventare risorsa della nazione, senzadismettere la propria appartenenza, ma agendola nell’inte-resse di tutti. Gramsci ci dice che, machiavellianamente, lapolitica non ha bisogno dell’etica per nobilitarsi. Si nobilitada sé, sollevandosi a progetto altamente umano. Gramscinon è solo i Quaderni del carcere. C’è un Gramsci giovaneche si fa amare, se possibile, ancora di più ... quell’articolo(febbraio 1917) che comincia con le parole: «Odio gli indif-ferenti»: «Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virilidella mia parte già pulsare l’attività della città futura che lamia parte sta costruendo»... «All’individuo capitalista sicontrappone l’individuo-associazione, al bottegaio la coo-perativa: il sindacato diventa un individuo collettivo chesvecchia la libera concorrenza, la obbliga a forme nuove dilibertà e di attività». Gramsci nasce, politicamente e intellet-tualmente, a Torino. Davanti a lui, il biennio rosso, l’occu-pazione operaia delle fabbriche, l’esperienza dei consiglioperai. La vera università: la grande scuola della classe ope-raia. Del resto, ormai lo sappiamo: o si parte da lì, o si rag-giungono solo quelli che oggi si chiamano non-luoghi. L’or-dine Nuovo, settembre 1920: «L’operaio comunista che persettimane, per mesi, per anni, disinteressatamente, dopo ot-to ore di lavoro in fabbrica, lavora altre otto ore per il Parti-to, per il sindacato, per la cooperativa, è, dal punto di vistadella storia dell’uomo, più grande dello schiavo o dell’arti-giano che sfidava ogni pericolo per recarsi al convegno clan-destino della preghiera». Già Togliatti, nel ricordo che scri-

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veva, nel 1937, appena dopo la morte di Gramsci, diceva: «Illegame di Antonio Gramsci con gli operai di Torino non fusoltanto un legame politico, ma un legame personale, fisico,diretto, multiforme». Non ci sono due Gramsci. L’operazio-ne di valutare il Gramsci studioso e di svalutare il Gramscipolitico è senso comune intellettuale corrente, e come taleva abbandonato a se stesso. Specialista + politico è formulagramsciana risolutiva. Dalla tecnica-lavoro alla tecnica-scienza e di qui alla concezione umanistico-storica, senza laquale si rimane specialista e non si diventa dirigente. Il mo-do di essere del nuovo intellettuale sta nel mescolarsi atti-vamente nella vita pratica, come costruttore, organizzatore,persuasore, non puro oratore. Quindi, per Gramsci, l’equi-valente di politico è dirigente, armato però di cultura tecni-ca, scientifica, umanistica. Qui c’è la preziosa distinzionegramsciana tra direzione e comando, tra guidare e imporre.Questo vale per il gruppo dirigente nei confronti del partito,vale per il partito nei confronti dello Stato, vale per lo Statonei confronti della società. Egemonia non è solo cosa diver-sa, è cosa opposta a dittatura. Sul concetto di egemonia pe-sa ancora un’incomprensione di fondo e una falsificazionedi fatto. Non c’è pratica di egemonia senza espressione dicultura. Praticare egemonia è una cosa molto complessa, di-rei raffinata: vuol dire guidare seguendo, essere alla testa diun corso storico già in movimento, e che fa movimento an-che in virtù delle idee, ideeguida, idee-forza che tu ci mettidentro. Una politica senza cultura politica, non cercatela inGramsci. Scriveva nei Quaderni: «Il grande politico non puòche essere ‘coltissimo’, cioè deve ‘conoscere’ il massimo dielementi della vita attuale; conoscerli non ‘librescamente’,come ‘erudizione’, ma in modo ‘vivente’, come sostanzaconcreta di ‘intuizione’ politica ». Tuttavia - aggiungeva -perché in lui diventino sostan za vivente occorrerà appren-derli anche librescamente. Ho sempre pensato che le dueculture non sono, come si dice, la cultura scientifica e la cul-tura umanistica. Sono la cultura del popolo e la cultura degliintellettuali. Due cose diverse: non si identificano, non si

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sommano, non si confondono. Eppure un ponte di dialogoe di scambio tra queste due esperienze culturali, deve esser-ci e devi trovarlo. C’è una cultura materializzata nel lavoro,interiorizzata nel lavoratore: un orizzonte che, per un intel-lettuale di parte, è come la bussola per il marinaio, ti indicala rotta dove devi andare a cercare, a capire, a scoprire. Èdifficile comunicare la tranquilla forza di pensiero che ticonferisce l’essere, il sentirsi radicato in questa parte dimondo. L’unico luogo sicuro e libero da quella nevrosi nar-cisistica che è la maledizione del lavoro intellettuale. La fi-gura gramsciana dell’intellettuale organico, al partito e allaclasse, può essere oggi demonizzata e derisa solo da chinon sarebbe mai stato capace di esserlo. Ebbene, quel pontetra le due culture lo ha costruito quella figura storica, quelsoggetto politico della modernità che si chiama movimentooperaio. E lo ha fatto, generando coscienza e organizzazio-ne delle masse e al tempo stesso creando pensiero, teoria,cultura alta. Analisi scientifica delle leggi di movimento deimeccanismi di produzione e riproduzione sociale e insiemeprogetti di liberazione politica.

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EEddiittoorriiaall ii

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Odio gli indifferentiCredo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire esserepartigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gliestranei alla città. Chi vive veramente non può non esserecittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassiti-smo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.L’indifferenza è il peso morto della storia. E’ la palla dipiombo per il novatore, è la materia inerte in cui affoganospesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recingela vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, me-glio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoigorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualchevolta li fa desistere dall’impresa eroica. L’indifferenza operapotentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera.E’ la fatalità; e ciò su cui non si può contare; è ciò che scon-volge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è lamateria bruta che si ribella all’intelligenza e la strozza. Ciòche succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile beneche un atto eroico (di valore universale) può generare, nonè tanto dovuto all’iniziativa dei pochi che operano, quantoall’indifferenza, all’assenteismo dei molti. Ciò che avviene,non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga,quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volon-tà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spadapotrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la ri-volta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poisolo un ammutinamento potrà rovesciare. La fatalità chesembra dominare la storia non è altro appunto che apparen-za illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo.Dei fatti maturano nell’ombra, poche mani, non sorvegliateda nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e lamassa ignora, perché non se ne preoccupa. I destini diun’epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette,degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personalidi piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, per-ché non se ne preoccupa. Ma i fatti che hanno maturato ven-gono a sfociare; ma la tela tessuta nell’ombra arriva a com-

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pimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto etutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomenonaturale, un’eruzione, un terremoto, del quale rimangonovittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva echi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. E que-sto ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vor-rebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli nonè responsabile. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri be-stemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domanda-no: se avessi anch’io fatto il mio dovere, se avessi cercato difar valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successociò che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpadella loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver da-to il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadiniche, appunto per evitare quel tal male, combattevano, diprocurare quel tal bene si proponevano. I più di costoro, in-vece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fal-limenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di al-tre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza daogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nellecose, e che qualche volta non siano capaci di prospettarebellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelliche, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tut-tavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangonobellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vitacollettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodottodi curiosità intellettuale, non di pungente senso di una re-sponsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che nonammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere. Odiogli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagni-steo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essidel come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e glipone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente diciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, dinon dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire conloro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle co-scienze virili della mia parte già pulsare l’attività della città

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futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catenasociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succedenon è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera deicittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra aguardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacri-fizio; e colui che sta alla finestra, in agguato, voglia usufrui-re del poco bene che l’attività di pochi procura e sfoghi lasua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato perchénon è riuscito nel suo intento. Vivo, sono partigiano. Perciòodio chi non parteggia, odio gli indifferenti.

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Cos’è l’uomoÈ questa la domanda prima e principale della filosofia. Co-me si può rispondere. La definizione si può trovare nell’uo-mo stesso; e cioè in ogni singolo uomo. Ma è giusta? In ognisingolo uomo si può trovare che cosa è ogni «singolo uomo». Ma a noi non interessa che cosa è ogni singolo uomo, chepoi significa che cosa è ogni singolo uomo in ogni singolomomento. Se ci pensiamo, vediamo che ponendoci la do-manda che cosa è l’uomo vogliamo dire: che cosa l’uomopuò diventare, se cioè l’uomo può dominare il proprio de-stino, può «farsi», può crearsi una vita. Diciamo dunque chel’uomo è un processo e precisamente è il processo dei suoiatti. Se ci pensiamo, la stessa domanda: cosa è l’uomo? Nonè una domanda astratta, o «obbiettiva». Essa è nata da ciòche abbiamo riflettuto su noi stessi e sugli altri e vogliamosapere, in rapporto a ciò che abbiamo riflettuto e visto, cosasiamo e cosa possiamo diventare, se realmente ed entroquali limiti, siamo «fabbri di noi stessi», della nostra vita,del nostro destino. E ciò vogliamo saperlo «oggi», nelle con-dizioni date oggi, della vita «odierna» e non di una qualsiasivita e di un qualsiasi uomo. La domanda è nata, riceve il suocontenuto da speciali, cioè determinati modi di considerarela vita e l’uomo: il più importante di questi modi è la «reli-gione» ed una determinata religione, il cattolicismo. In real-tà, domandandoci: «cos’è l’uomo», quale importanza ha lasua volontà e la sua concreta attività nel creare se stesso ela vita che vive, vogliamo dire: «è il cattolicismo una conce-zione esatta dell’uomo e della vita? essendo cattolici, cioèfacendo del cattolicismo una norma di vita, sbagliamo o sia-mo nel vero?». Tutti hanno la vaga intuizione che facendodel cattolicismo una norma di vita sbagliano, tanto è veroche nessuno si attiene al cattolicismo come norma di vita,pur dichiarandosi cattolico. Un cattolico integrale, che cioèapplicasse in ogni atto della vita le norme cattoliche, sem-brerebbe un mostro, ciò che è, a pensarci, la critica più rigo-rosa del cattolicismo stesso e la più perentoria. I cattolici di-ranno che nessuna altra concezione è seguita puntualmen-

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te, ed hanno ragione, ma ciò dimostra solo che non esiste difatto, storicamente, un modo di concepire ed operare ugua-le per tutti gli uomini e niente altro; non ha nessuna ragionefavorevole al cattolicismo, sebbene questo modo di pensareed operare da secoli sia organizzato a questo scopo, ciò cheancora non è avvenuto per nessun’altra religione con glistessi mezzi, con lo stesso spirito di sistema, con la stessacontinuità e centralizzazione. Dal punto di vista «filosofico»ciò che non soddisfa nel cattolicismo è il fatto che esso, no-nostante tutto, pone la causa del male nell’uomo stesso in-dividuo, cioè concepisce l’uomo come individuo ben defini-to e limitato. Tutte le filosofie finora esistite può dirsi cheriproducono questa posizione del cattolicismo, cioè conce-piscono l’uomo come individuo limitato alla sua individua-lità e lo spirito come tale individualità. È su questo puntoche occorre riformare il concetto dell’uomo. Cioè occorreconcepire l’uomo come una serie di rapporti attivi (un pro-cesso) in cui se l’individualità ha la massima importanza,non è però il solo elemento da considerare. L’umanità che siriflette in ogni individualità è composta di diversi elementi:1) l’individuo; 2) gli altri uomini; 3) la natura. Ma il 2° e il 3°elemento non sono così semplici come potrebbe apparire.L’individuo non entra in rapporti con gli altri uomini pergiustapposizione, ma organicamente, cioè in quanto entraa far parte di organismi dai più semplici ai più complessi.Così l’uomo non entra in rapporto con la natura semplice-mente, per il fatto di essere egli stesso natura, ma attiva-mente, per mezzo del lavoro e della tecnica. Ancora. Questirapporti non sono meccanici. Sono attivi e coscienti, cioècorrispondono a un grado maggiore o minore d’intelligenzache di essi ha il singolo uomo. Perciò si può dire che ognunocambia se stesso, si modifica, nella misura in cui cambia emodifica tutto il complesso di rapporti di cui egli è il centrodi annodamento. In questo senso il filosofo reale è e nonpuò non essere altri che il politico, cioè l’uomo attivo chemodifica l’ambiente, inteso per ambiente l’insieme dei rap-porti di cui ogni singolo entra a far parte. Se la propria indi-

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vidualità è l’insieme di questi rapporti, farsi una personalitàsignifica acquistare coscienza di tali rapporti, modificare lapropria personalità significa modificare l’insieme di questirapporti. Ma questi rapporti, come si è detto, non sono sem-plici. Intanto, alcuni di essi sono necessari, altri volontari.Inoltre averne coscienza più o meno profonda (cioè cono-scere più o meno il modo con cui si possono modificare) giàli modifica. Gli stessi rapporti necessari in quanto sono co-nosciuti nella loro necessità, cambiano d’aspetto, e d’impor-tanza. La conoscenza è potere, in questo senso. Ma il pro-blema è complesso anche per un altro aspetto: che non ba-sta conoscere l’insieme dei rapporti in quanto esistono inun momento dato come un dato sistema, ma importa cono-scerli geneticamente, nel loro moto di formazione, poichéogni individuo non solo è la sintesi dei rapporti esistenti maanche della storia di questi rapporti, cioè è il riassunto, ditutto il passato. Si dirà che ciò che ogni singolo può cambia-re è ben poco, in rapporto alle sue forze. Ciò che è vero finoa un certo punto. Poiché il singolo può associarsi con tuttiquelli che vogliono lo stesso cambiamento e, se questo cam-biamento è razionale, il singolo, può moltiplicarsi per unnumero imponente di volte e ottenere un cambiamento benpiù radicale di quelle, che a prima vista può sembrare pos-sibile. Società alle quali un singolo può partecipare: sonomolto numerose, più di quanto, può sembrare. È attraversoqueste «società» che il singolo fa parte del genere umano.Così sono molteplici i modi con cui il singolo entra in rap-porto, colla natura, poiché per tecnica, deve intendersi nonsolo quell’insieme di nozioni scientifiche applicate indu-strialmente che di solito s’intende, ma anche gli strumenti«mentali», la conoscenza filosofica che l’uomo non possaconcepirsi altro che vivente in società è luogo comune, tut-tavia non se ne traggono tutte le conseguenze necessarieanche individuali: che una determinata società umana pre-supponga una determinata società delle cose e che la socie-tà umana sia possibile solo in quanto esiste una determina-ta società delle cose è anche luogo comune. È vero che fino-

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ra a questi organismi oltre individuali è stato dato un signi-ficato meccanicistico e deterministico (sia la societas homi-num che la societas rerum): quindi la reazione. Bisogna ela-borare una dottrina in cui tutti questi rapporti sono attivi ein movimento, fissando ben chiaro che sede di questa atti-vità è la coscienza dell’uomo singolo che conosce, vuole,ammira, crea, in quanto già conosce, vuole, ammira, creaecc. e si concepisce non isolato ma ricco di possibilità offer-tegli dagli altri uomini e dalla società delle cose, di cui nonpuò non avere una certa conoscenza. (Come ogni uomo è fi-losofo, ogni uomo è scienziato ecc.).

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Progresso e divenireSi tratta di due cose diverse o di aspetti diversi di uno, stes-so concetto? Il progresso è una ideologia, il divenire è unaconcezione filosofica. Il «progresso» dipende da una deter-minata mentalità, a costituire la quale entrano certi elemen-ti culturali storicamente determinati; il «divenire» è un con-cetto filosofico, da cui può essere assente il «progresso».Nell’idea di progresso è sottintesa la possibilità di una mi-surazione quantitativa e qualitativa: più e meglio. Si suppo-ne quindi una misura «fissa» o fissabile, ma questa misuraè data dal passato, da una certa fase del passato, o da certiaspetti misurabili ecc. (Non che si pensi a un sistema metri-co del progresso). Come è nata l’idea del progresso? Rappre-senta questa nascita un fatto culturale fondamentale, taleda fare epoca? Pare di sì. La nascita e lo sviluppo dell’ideadel progresso corrisponde alla coscienza diffusa che è statoraggiunto un certo rapporto tra la società e la natura (inclu-so nel concetto di natura quello di caso e di «irrazionalità»)tale per cui gli uomini, nel loro complesso, sono più sicuridel loro avvenire, possono concepire «razionalmente» deipiani complessivi della loro vita. Per combattere l’idea diprogresso il Leopardi deve ricorrere alle eruzioni vulcani-che, cioè a quei fenomeni naturali che sono ancora «irresi-stibili » e senza rimedio. Ma nel passato c’erano ben più nu-merose forze irresistibili: carestie, epidemie, ecc. che entrocerti limiti sono state dominate. Che il progresso sia statauna ideologia democratica è indubbio; che abbia servito po-liticamente alla formazione dei moderni Stati costituzionaliecc. pure. che oggi non sia più in auge, anche; ma in che sen-so? Non in quello che si sia perduto la fede nella possibilitàdi dominare razionalmente la natura e il caso, ma in senso«democratico»; cioè che i «portatori» ufficiali del progressosono divenuti incapaci di questo dominio, perché hanno su-scitato forze distruttive attuali altrettanto pericolose e an-gosciose che quelle del passato (ormai dimenticate «social-mente » se non da tutti gli elementi sociali, perché i conta-dini continuano a non comprendere il «progresso» cioè cre-

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dono di essere, e sono ancora troppo in balia delle forze na-turali e del caso, conservano quindi una mentalità «magica»,medioevale, «religiosa») come le «crisi», la disoccupazioneecc. La crisi dell’idea di progresso non è quindi crisi del-l’idea stessa, ma crisi dei portatori di essa idea, che sono di-ventati «natura» da dominare essi stessi. Gli assalti all’ideadi progresso, sono molto interessati e tendenziosi. Può di-sgiungersi l’idea di progresso da quella di divenire? Non pa-re. Esse sono nate insieme, come politica (in Francia), comefilosofia (in Germania, poi sviluppata in Italia). Nel «divenire» si è cercato di salvare ciò che di più concreto è nel «pro-gresso», il movimento e anzi il movimento dialettico (quindianche un approfondimento, perché il progresso è legato allaconcezione volgare dell’evoluzione). Da un articoluccio diAldo Capasso nell’«Italia Letteraria» del 4 dicembre 1932 ri-porto alcuni brani che presentano i dubbi volgari su questiproblemi: «Anche da noi è comune l’irrisione verso l’ottimi-smo umanitario e democratico di stile ottocentesco, e Leo-pardi non è un solitario quando parla delle “sorti progres-sive” con ironia; ma s’è escogitato quell’astuto travestimen-to del “Progresso” che è l’idealistico “Divenire”: idea che re-sterà nella storia, crediamo, più ancora come italiana checome tedesca. Ma che senso può avere un Divenire che siprosegue ad infinitum, un miglioramento che non sarà maiparagonabile ad un bene fisico? Mancando il criterio di unultimo gradino stabile, manca, del “miglioramento”, l’unitàdi misura. E inoltre non si può arrivare nemmeno a pascersidella fiducia di essere, noi uomini reali e viventi, migliori,che so io, dei Romani o dei primi Cristiani, perché il “miglio-ramento” andando inteso in un senso tutto ideale, è perfet-tamente ammissibile che noi oggi siamo tutti “decadenti”mentre, allora, fossero quasi tutti uomini pieni o magarisanti. Sicché, dal punto di vista etico, l’idea d’ascesa ad infi-nitum implicita nel concetto di divenire resta alquanto in-giustificabile, dato che il “melioramento” etico, è fatto indi-viduale e che nel piano individuale è proprio possibile con-cludere, procedendo caso per caso, che tutta l’epoca ultima

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è deteriore... E allora il concetto del Divenire ottimistico sifa in questa situazione, inafferrabile tanto sul piano idealequanto nel piano reale (...). È noto come il Croce negasse ilvalore raziocinativo del Leopardi, asserendo che pessimi-smo e ottimismo sono atteggiamenti sentimentali, non filo-sofici. Ma il pessimista (...) potrebbe osservare che, per l’ap-punto, la concezione del Divenire idealistica, è un fatto d’ot-timismo e di sentimento: perché il pessimista e l’ottimista(se non animati di fede nel Trascendente) concepiscono allostesso modo la Storia: come lo scorrere di un fiume senzafoce; e poi collocare l’accento sulla parola “fiume” o sulleparole “senza foce”, secondo il loro stato sentimentale. Di-cono gli uni: non c’è foce, ma, come in un fiume armonioso,c’è la continuità delle onde e la sopravvivenza, sviluppata,nell’oggi, dello ieri... E gli altri: c’è la continuità di un fiume,ma non c’è la foce... Insomma, non dimentichiamo che l’ot-timismo è sentimento, non meno del pessimismo. Resta cheogni “filosofia” non può fare a meno, di atteggiarsi senti-mentalmente, come pessimismo o come ottimismo» ecc.ecc. Non c’è molta coerenza nel pensiero del Capasso, ma ilsuo modo di pensare è espressivo di uno stato d’animo dif-fuso, molto snobistico e incerto, molto sconnesso e super-ficiale e talvolta anche senza molta onestà e lealtà intellet-tuale e senza la necessaria logicità formale. La questione, èsempre la stessa: cos’è l’uomo? cos’è la natura umana? Se sidefinisce l’uomo come individuo, psicologicamente e specu-lativamente, questi problemi del progresso e del diveniresono insolubili o rimangono di mera parola. Ma se si con-cepisce l’uomo come l’insieme dei rapporti sociali, intantoappare che ogni paragone tra uomini nel tempo è impossi-bile, perché si tratta di cose diverse, se non eterogenee. D’al-tronde, poiché l’uomo è anche l’insieme delle sue condizio-ni di vita, si può misurare quantitativamente la differenzatra il passato e il presente, poiché si può misurare la misurain cui l’uomo domina la natura e il caso. La possibilità nonè la realtà, ma è anch’essa una realtà: che l’uomo possa fareuna cosa o non possa farla, ha la sua importanza per valu-

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tare ciò che realmente si fa. Possibilità vuol dire «libertà».La misura delle libertà entra nel concetto d’uomo. Che cisiano le possibilità obbiettive di non morire di fame, e chesi muoia di fame ha la sua importanza, a quanto pare. Mal’esistenza delle condizioni obbiettive, o possibilità o libertànon è ancora sufficiente: occorre «conoscerle» e saperseneservire. Volersene servire. L’uomo, in questo senso, è volon-tà concreta, cioè applicazione effettuale dell’astratto volereo impulso vitale ai mezzi concreti che tale volontà realizza-no. Si crea la propria personalità: 1) dando un indirizzo de-terminato e concreto («razionale») al proprio impulso vitaleo volontà; 2) “identificando i mezzi che rendono tale volon-tà concreta e determinata e non arbitraria; 3) contribuendoa modificare l’insieme delle condizioni concrete che realiz-zano questa volontà nella misura dei propri limiti di poten-za e nella forma più fruttuosa. L’uomo è da concepire comeun blocco storico di elementi puramente individuali e sog-gettivi e di elementi di massa e oggettivi o materiali coi qua-li l’individuo è in rapporto attivo. Trasformare il mondoesterno, i rapporti generali, significa potenziare se stesso,sviluppare se stesso. Che il «miglioramento» etico sia pura-mente individuale è illusione ed errore: la sintesi degli ele-menti costitutivi dell’individualità è «individuale», ma essanon si realizza e sviluppa senza una attività verso l’esterno,modificatrice dei rapporti esterni, da quelli verso la naturaa quelli verso gli altri uomini in vari gradi, nelle diverse cer-chie sociali in cui si vive, fino al rapporto massimo, che ab-braccia tutto il genere umano. Perciò si può dire che l’uomoè essenzialmente «politico», poiché l’attività per trasforma-re e dirigere coscientemente gli altri uomini realizza la sua«umanità», la sua «natura umana».

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Sincerità e spontaneità“Sincerità (o spontaneità) e disciplina. La sincerità (o spon-taneità) è sempre un pregio e un valore? È un pregio e un va-lore se disciplinata. Sincerità (e spontaneità) significa mas-simo di individualismo, ma anche nel senso di idiosincrasia(originalità in questa caso è uguale a idiotismo). L’individuoè originale storicamente quando dà il massimo di risalto edi vita alla «socialità», senza cui egli sarebbe un «idiota» (nelsenso etimologico, che però non si allontana dal senso vol-gare e comune). C’è dell’originalità, della personalità, dellasincerità un significato romantico, e questo significato è giu-stificato storicamente in quanto nacque in opposizione a uncerto conformismo essenzialmente «gesuitico»: cioè unconformismo artificioso, fittizio, creato superficialmenteper gli interessi di un piccolo gruppo o cricca, non di unaavanguardia. C’è un conformismo «razionale» cioè rispon-dente alla necessità, al minimo sforzo per ottenere un risul-tato utile e la disciplina di tale conformismo è da esaltare epromuovere, è da fare diventare «spontaneità» e «sinceri-tà». Conformismo, significa poi niente altro che «socialità»,ma piace impiegare la parola «conformismo» appunto, perurtare gli imbecilli. Ciò non toglie la possibilità di formarsiuna personalità e di essere originali, ma rende più difficilela cosa. È troppo facile essere originali facendo il contrariodi ciò che fanno tutti; è una cosa meccanica. Ê troppo facileparlare diversamente dagli altri, essere neolaici, il difficile èdistinguersi dagli altri senza perciò fare delle acrobazie. Av-viene proprio oggi che si cerca una originalità e personalitàa poco prezzo. Le carceri e i manicomi sono pieni di uominioriginali e di forte personalità. Battere l’accento sulla disci-plina, sulla socialità, e tuttavia pretendere sincerità, spon-taneità, originalità, personalità: ecco, ciò che è veramentedifficile e arduo. Né si può dire che il conformismo è troppofacile e riduce il mondo a un convento. Intanto, qual è il «ve-ro conformismo», cioè qual è la condotta «razionale» piùutile, più libera, in quanto ubbidisce alla «necessità»? Cioèqual è la «necessità»? Ognuno è portato a fare di sé l’arche-

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tipo della «moda», della «socialità» e a porsi come «esem-plare». Pertanto la socialità, il conformismo, è il risultato diuna lotta culturale (e non solo culturale); è un dato «ogget-tivo» o universale, così come non può non essere oggettivae universale la «necessità» su cui si innalza l’edificio dellalibertà.”

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Uomini in carne e ossaGli operai della Fiat sono ritornati al lavoro. Tradimento?Rinnegamento delle idealità rivoluzionarie? Gli operai dellaFiat sono uomini in carne e ossa. Hanno resistito per un me-se. Sapevano di lottare e resistere non solo per sé, non soloper la restante massa operaia torinese, ma per tutta la clas-se operaia italiana. Hanno resistito per un mese. Erano este-nuati fisicamente perché da molte settimane e da molti me-si i loro salari erano ridotti e non erano più sufficienti al so-stentamento familiare, eppure hanno resistito per un mese.Erano completamente isolati dalla nazione, immersi in unambiente generale di stanchezza, di indifferenza, di ostilità,eppure hanno resistito per un mese. Sapevano di non potersperare aiuto alcuno dal di fuori: sapevano che ormai allaclasse operaia italiana erano stati recisi i tendini, sapevanodi essere condannati alla sconfitta, eppure hanno resistitoper un mese. Non c’è vergogna nella sconfitta degli operaidella Fiat. Non si può domandare a una massa di uomini cheè aggredita dalle più dure necessità dell’esistenza, che ha laresponsabilità dell’esistenza di una popolazione di 40.000persone, non si può domandare più di quanto hanno datoquesti compagni che sono ritornati al lavoro, tristemente,accoratamente, consapevoli della immediata impossibilitàdi resistere più oltre o di reagire. Specialmente noi comuni-sti, che viviamo gomito a gomito con gli operai, che ne co-nosciamo i bisogni, che della situazione abbiamo una con-cezione realistica, dobbiamo comprendere il perché di que-sta conclusione della lotta torinese. Da troppi anni le masselottano, da troppi anni esse si esauriscono in azioni di det-taglio, sperperando i loro mezzi e le loro energie. E’ statoquesto il rimprovero che fin dal maggio 1919 noi dell’ “Or-dine Nuovo” abbiamo incessantemente mosso alle centralidel movimento operaio e socialista: non abusate troppo del-la resistenza e della virtù di sacrificio del proletariato; sitratta di uomini comuni, uomini reali, sottoposti alle stessedebolezze di tutti gli uomini comuni che si vedono passarenelle strade, bere nelle taverne, discorrere a crocchi sulle

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piazze, che hanno frame e freddo, che si commuovono asentir piangere i loro bambini e lamentarsi acremente le lo-ro donne. Il nostro ottimismo rivoluzionario è stato sempresostanziato da questa visione crudamente pessimistica del-la realtà umana, con cui inesorabilmente bisogna fare i con-ti. Già un anno fa noi avevamo previsto quale sbocco fatal-mente avrebbe avuto la situazione italiana, se i dirigenti re-sponsabili avessero continuato nella loro tattica di schia-mazzo rivoluzionario e di pratica opportunistica. E abbiamolottato disperatamente per richiamare questi responsabili auna visione più reale, a una pratica più congrua e più ade-guata allo svolgersi degli avvenimenti. Oggi scontiamo il fio,anche noi, dell’inettitudine e della cecità altrui; oggi ancheil proletariato torinese deve sostenere l’urto dell’avversario,rafforzato dalla non resistenza degli altri. Non c’è nessunavergogna nella resa degli operai della Fiat. Ciò che dovevaavvenire è avvenuto implacabilmente. La classe operaia ita-liana è livellata sotto il rullo compressore della reazione ca-pitalistica. Per quanto tempo? Nulla è perduto se rimane in-tatta la coscienza e la fede, se i corpi si arrendono ma nongli animi. Gli operai della Fiat per anni e anni hanno lottatostrenuamente, hanno bagnato del loro sangue le strade,hanno sofferto la fame e il freddo; essi rimangono, per que-sto loro passato glorioso, all’avanguardia del proletariatoitaliano, essi rimangono militi fedeli e devoti della rivoluzio-ne. Hanno fatto quanto è dato fare a uomini di carne ed os-sa; togliamoci il cappello dinanzi alla loro umiliazione, per-ché anche in essa è qualcosa di grande che si impone ai sin-ceri e agli onesti.

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La conquista dello StatoLa concentrazione capitalistica, determinata dal modo diproduzione, produce una corrispondente concentrazione dimasse umane lavoratrici. In questo fatto bisogna cercarel’origine di tutte le tesi rivoluzionarie del marxismo, biso-gna cercare le condizioni del costume nuovo proletario, del-l’ordine nuovo comunista destinato a sostituire il costumeborghese, il disordine capitalistico generato dalla libera con-correnza e dalla lotta di classe. Nella sfera dell’attività ge-nerale capitalistica, anche il lavoratore opera sul piano dellalibera concorrenza, è un individuo-cittadino. Ma le condizio-ni di partenza della lotta non sono uguali per tutti; nellostesso tempo: l’esistenza della proprietà privata porta la mi-noranza sociale in condizioni di privilegio, rende impari lalotta. Il lavoratore è continuamente esposto ai rischi più mi-cidiali: la sua vita stessa elementare, la sua cultura, la vita el’avvenire della sua famiglia sono esposti ai contraccolpibruschi delle variazioni del mercato di lavoro. Il lavoratoretenta allora di uscire dalla sfera della concorrenza e dell’in-dividualismo. Il principio associativo e solidaristico diventaessenziale della classe lavoratrice, muta la psicologia e i co-stumi degli operai e contadini. Sorgono istituti e organi neiquali questo principio si incarna; sulla base di essi si iniziail processo di sviluppo storico che conduce al comunismodei mezzi di produzione e di scambio. L’associazionismopuò e deve essere assunto come il fatto essenziale della ri-voluzione proletaria. Dipendentemente da questa tendenzastorica sono sorti nel periodo precedente all’attuale (chepossiamo chiamare periodo della I e II Internazionale o pe-riodo di reclutamento) e si sono sviluppati i Partiti socialistie i sindacati professionali. Lo sviluppo di queste istituzioniproletarie e di tutto il movimento proletario in genere nonfu però autonomo, non ubbidiva a leggi proprie immanentinella vita e nella esperienza storica della classe lavoratricesfruttata. Le leggi della storia erano dettate dalla classe pro-prietaria organizzata nello Stato. Lo Stato è sempre stato ilprotagonista della storia, perché nei suoi organi si accentra

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la potenza della classe proprietaria, nello Stato la classeproprietaria si disciplina e si comporta in unità, sopra i dis-sidi e i cozzi della concorrenza, per mantenere intatta lacondizione di privilegio nella fase suprema della concorren-za stessa: la lotta di classe per il potere, per la preminenzanella direzione e nel disciplinamento della società. In que-sto periodo il movimento proletario fu solo una funzionedella libera concorrenza capitalistica. Le istituzioni proleta-rie dovettero assumere una forma non per legge interna, maper legge esterna, sotto la pressione formidabile di avveni-menti e di coercizioni dipendenti dalla concorrenza capita-listica. Da ciò hanno tratto origine gli intimi conflitti, le de-viazioni, i tentennamenti, i compromessi che caratterizzanotutto il periodo di vita del movimento proletario precedenteall’attuale e che hanno culminato nella bancarotta della IlInternazionale. Alcune correnti del movimento socialista eproletario avevano posto esplicitamente come fatto essen-ziale della rivoluzione l’organizzazione operaia di mestieree su questa base fondavano la loro propaganda e la loroazione. Il movimento sindacalista parve, per un momento,essere il vero interprete del marxismo, vero interprete dellaverità. L’errore del sindacalismo consiste in ciò: nell’assu-mere come fatto permanente, come forma perenne dell’as-sociazionismo, il sindacato professionale nella forma e conle funzioni attuali, che sono imposte e non proposte, e quin-di non possono avere una linea costante e prevedibile di svi-luppo. Il sindacalismo, che si presentò come iniziatore diuna tradizione liberista “spontaneista”, è stato in verità unodei tanti camuffamenti dello spirito giacobino e astratto. Daciò gli errori della corrente sindacalista, che non riuscì a so-stituire il Partito socialista nel compito di educare alla rivo-luzione la classe lavoratrice. Gli operai e i contadini sentiva-no che, per tutto il periodo in cui la classe proprietaria e loStato democratico-parlamentare dettano le leggi della sto-ria, ogni tentativo di evasione dalla sfera di queste leggi èinane e ridicolo. È certo che nella configurazione generaleassunta dalla società colla produzione industriale, ogni uo-

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mo può attivamente partecipare alla vita e modificare l’am-biente solo in quanto opera come individuo-cittadino, mem-bro dello Stato democratico-parlamentare. L’esperienza li-berale non è vana e non può essere superata se non dopoaverla fatta. L’apoliticismo degli apolitici fu solo una dege-nerazione della politica: negare e combattere lo Stato è fattopolitico tanto quanto inserirsi nella attività generale storicache si unifica nel Parlamento e nei comuni, istituzioni popo-lari dello Stato. Varia la qualità del fatto politico: i sindaca-listi lavoravano fuori della realtà e quindi la loro politica erafondamentalmente errata; i socialisti parlamentaristi lavo-ravano nell’intimo delle cose, potevano sbagliare (commise-ro anzi molti e pesanti sbagli), ma non errarono nel sensodella loro azione e perciò trionfarono nella “concorrenza”;le grandi masse, quelle che con il loro intervento modificanoobbiettivamente i rapporti sociali, si organizzarono intornoal Partito socialista. Nonostante tutti gli sbagli e le manche-volezze, il Partito riuscì, in ultima analisi, nella sua missio-ne: far diventare qualcosa il proletario che prima era nulla,dargli una consapevolezza, dare al movimento di liberazio-ne un senso diritto e vitale che corrispondeva, nelle linee ge-nerali, al processo di sviluppo storico della società umana.Lo sbaglio più grave del movimento socialista è stato di na-tura simile a quello dei sindacalisti. Partecipando all’attivitàgenerale della società umana nello Stato, i socialisti dimen-ticarono che la loro posizione doveva mantenersi essenzial-mente di critica, di antitesi. Si lasciarono assorbire dalla re-altà, non la dominarono. I comunisti marxisti devono carat-terizzarsi per una psicologia che possiamo chiamare “ma-ieutica”. La loro azione non è di abbandono al corso degliavvenimenti determinati dalle leggi della concorrenza bor-ghese, ma di partecipazione critica. La storia è un continuofarsi, è quindi essenzialmente imprevedibile. Ma ciò non si-gnifica che “tutto” sia imprevedibile nel farsi della storia,che cioè la storia sia dominio dell’arbitrio e del capriccio ir-responsabile. La storia è insieme libertà e necessità. Le isti-tuzioni, nel cui sviluppo e nella cui attività la storia si incar-

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na, sono sorte e si mantengono perché hanno un compito euna missione da realizzare. Sono sorte e si sono sviluppatedeterminate condizioni obbiettive di produzione dei benimateriali e di consapevolezza spirituale degli uomini. Sequeste condizioni obbiettive, che per la loro natura mecca-nica sono commensurabili quasi matematicamente, muta-no, muta anche la somma di rapporti che regolano e infor-mano la società umana, muta il grado di consapevolezza de-gli uomini; la configurazione sociale si trasforma, le istitu-zioni tradizionali si immiseriscono, sono inadeguate al lorocompito, diventano ingombranti e micidiali. Se nel farsi del-la storia l’intelligenza fosse incapace a cogliere un ritmo, astabilire un processo, la vita della civiltà sarebbe impossibi-le: il genio politico si riconosce appunto da questa capacitàdi impadronirsi del maggior numero possibile di terminiconcreti necessari e sufficienti per fissare un processo disviluppo e dalle capacità quindi di anticipare il futuro pros-simo e remoto e sulla linea di questa intuizione impostarel’attività di uno Stato, arrischiare la fortuna di un popolo. Inquesto senso Carlo Marx è stato di gran lunga il più grandedei geni politici contemporanei. I socialisti hanno, supina-mente spesso, accettato la realtà storica prodotto dell’ini-ziativa capitalistica; sono caduti nell’errore di psicologia de-gli economisti liberali: credere alla perpetuità delle istitu-zioni dello Stato democratico, alla loro fondamentale perfe-zione. Secondo loro la forma delle istituzioni democratichepuò essere corretta, qua e là ritoccata, ma deve essere ri-spettata fondamentalmente. Un esempio di questa psicolo-gia angustamente vanitosa è dato dal giudizio minossico diFilippo Turati, secondo il quale il parlamento sta al Sovietcome la città sta all’orda barbarica. Da questa errata conce-zione del divenire storico, dalla pratica annosa del compro-messo e da una tattica “cretinamente” parlamentarista, na-sce la formula odierna sulla “conquista dello Stato”. Noi sia-mo persuasi, dopo le esperienze rivoluzionarie della Russia,dell’Ungheria e della Germania, che lo Stato socialista nonpuò incarnarsi nelle istituzioni dello Stato capitalista, ma è

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una creazione fondamentalmente nuova per rispetto ad es-se, se non per rispetto alla storia del proletariato. Le istitu-zioni dello Stato capitalista sono organizzate ai fini della li-bera concorrenza: non basta mutare il personale per indi-rizzare in un altro senso la loro attività. Lo Stato socialistanon è ancora il comunismo, cioè l’instauramento di una pra-tica e di un costume economico solidaristico, ma è lo Statodi transizione che ha il compito di sopprimere la concorren-za con la soppressione della proprietà privata, delle classi,delle economie nazionali: questo compito non può essereattuato dalla democrazia parlamentare. La formula “conqui-sta dello Stato” deve essere intesa in questo senso: creazio-ne di un nuovo tipo di Stato, generato dalla esperienza as-sociativa della classe proletaria e sostituzione di esso alloStato democratico-parlamentare. La creazione dello Statoproletario non è, insomma, un atto taumaturgico: è anch’es-sa un farsi, è un processo di sviluppo. Presuppone un lavo-ro preparatorio di sistemazione e di propaganda. Bisognadare maggior sviluppo e maggiori poteri alle istituzioni pro-letarie di fabbrica già esistenti, farne sorgere di simili neivillaggi, ottenere che gli uomini che le compongono sianodei comunisti consapevoli della missione rivoluzionaria chel’istituzione deve assolvere. Altrimenti tutto il nostro entu-siasmo, tutta la fede delle masse lavoratrici non riuscirà aimpedire che la rivoluzione si componga miseramente in unnuovo Parlamento di imbroglioni, di fatui e di irresponsabilie che nuovi e più spaventosi sacrifizi siano resi necessariper l’avvento dello Stato dei proletari.

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Tre principi, tre ordiniL’ordine e il disordine sono le due parole che più frequen-temente ricorrono nelle polemiche di carattere politico. Par-titi dell’ordine, uomini dell’ordine, ordine pubblico... Tre pa-role avvicinate ad un cardine unico: l’ordine, sul quale le pa-role si basano e girano con maggiore o minore aderenza aseconda della concreta forma storica che gli uomini, i partitie lo stato assumono nella molteplice possibile loro incarna-zione. La parola ordine ha un potere taumaturgico; la con-servazione degli istituti politici è affidata in gran parte aquesto potere. L’ordine presente si presenta come qualcosadi armonicamente coordinato, di stabilmente coordinato; ela moltitudine dei cittadini esita e si spaura nell’incertezzadi ciò che un cambiamento radicale potrebbe apportare. Ilsenso comune, il balordissimo senso comune, predica al so-lito che è meglio un uovo oggi che una gallina domani. E ilsenso comune è un terribile negriero degli spiriti. Tanto piùquando per aver la gallina bisogna rompere il guscio del-l’uovo. Si forma nella fantasia l’immagine di qualcosa di la-cerato violentemente; non si vede l’ordine nuovo possibile,meglio organizzato del vecchio, più vitale del vecchio, per-ché al dualismo contrappone l’unità, all’immobilità staticadell’inerzia la dinamica della vita semoventesi. Si vede solola lacerazione violenta, e l’animo pavido arretra nella pauradi tutto perdere, di aver dinanzi a sé il caos, il disordine ine-luttabile. Le profezie utopistiche erano costituite appuntoin vista di questa paura. Si voleva, con l’utopia, prospettareun assetto nel futuro che fosse ben coordinato, ben lisciato,e togliesse l’impressione del salto nel buio. Ma le costruzio-ni sociali utopistiche sono crollate tutte, perché essendo ap-punto così lisciate e assettatuzze, bastava dimostrarne in-fondato un particolare, per farle crollare nella loro totalità.Non avevano base queste costruzioni, perché troppo anali-tiche, perché fondate su un’infinità di fatti, e non su un uni-co principio morale. Ora i fatti concreti dipendono da tantecause, che finiscono per non aver più causa, e per essere im-prevedibili. E l’uomo ha bisogno, per operare, di poter al-

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meno in parte prevedere. Non si concepisce volontà che nonsia concreta, che cioè non abbia uno scopo. Non si concepi-sce volontà collettiva che non abbia uno scopo universaleconcreto. Ma questo non può essere un fatto singolo, o unaserie di fatti singoli. Può essere solo un’idea, o un principiomorale. Il difetto organico delle utopie è tutto qui. Credereche la previsione possa essere previsione di fatti, mentre es-sa può solo esserlo di principi, o di massime giuridiche. Lemassime giuridiche (il diritto, il giure è la morale attuata)sono creazione degli uomini come volontà. Se volete dare aqueste volontà una certa direzione, ponete loro come scopociò che solo può esserlo: altrimenti, dopo un primo entusia-smo, le vedrete abbiosciarsi e dileguare. Gli ordini attualisono stati suscitati per la volontà di attuare totalmente unprincipio giuridico. I rivoluzionari dell’89 non prevedevanol’ordine capitalistico. Volevano attuare i diritti dell’uomo,volevano che fossero riconosciuti ai componenti la colletti-vità determinati diritti. Questi, dopo la lacerazione inizialedel vecchio guscio, andarono affermandosi, andarono con-cretandosi e, divenuti forze operose sui fatti, li plasmarono,li caratterizzarono e ne sbocciò la civiltà borghese, l’unicache potesse sbocciarne, perché la borghesia era l’unica ener-gia sociale fattiva e realmente operante nella storia. Gli uto-pisti furono sconfitti anche allora, perché nessuna delle loroparticolari previsioni si realizzò. Ma si realizzò il principio,e da questo fiorirono gli ordinamenti attuali, l’ordine attua-le. Era un principio universale quello affermatosi nella sto-ria attraverso la rivoluzione borghese? Certamente sì. Eppu-re si è soliti dire che se J.-J. Rousseau potesse vedere qualefoce hanno avuto le sue predicazioni, probabilmente le rin-negherebbe. In questa affermazione paradossale è contenu-ta una critica implicita del liberalismo. Ma essa è parados-sale, cioè afferma in modo ingiusto una cosa giusta. Univer-sale non vuol dire assoluto. Nella storia niente vi è di asso-luto e di rigido. Le affermazioni del liberalismo sono delleidee-limiti che, riconosciute razionalmente necessarie, sonodiventate idee-forze, si sono realizzate nello stato borghese,

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hanno servito a suscitare a questo stato un’antitesi nel pro-letariato, e si sono logorate. Universali per la borghesia, nonlo sono abbastanza per il proletariato. Per la borghesia era-no idee-limiti, per il proletariato sono idee-minimi. E infattiil programma liberale integrale è diventato il programmaminimo del partito socialista. Il programma cioè che ci servea vivere giorno per giorno, in attesa che si giudichi giuntol’istante più utile. Come idea-limite il programma liberalecrea lo stato etico, uno stato cioè che idealmente sta al di-sopra delle competizioni di classe, del vario intrecciarsi edurtarsi degli aggruppamenti che ne sono la realtà economi-ca e tradizionale. E’ un’aspirazione politica questo stato, piùche una realtà politica; esiste solo come modello utopistico,ma è appunto questo suo essere un miraggio che lo irrobu-stisce e ne fa una forza di conservazione. Nella speranzache finalmente esso si realizzi nella sua compiuta perfezio-ne, molti trovano la forza per non rinnegarlo, e non cercarequindi di sostituirlo (...) E’ la forma mentis venutasi creandoattraverso questi movimenti. E’ la convinzione venutasi for-mando nel sempre maggior numero di cittadini che venneroattraverso queste lotte a partecipare all’attività pubblica,che nella libera manifestazione dei propri convincimenti,nel libero esplicarsi delle forze produttive e legislative delpaese era il segreto della felicità. Della felicità, naturalmen-te, intesa nel senso che di tutto ciò che succede di male, nonpossa andare la colpa a singoli, e di tutto ciò che non riescedebba ricercarsi la ragione solo nel fatto che gli iniziatorinon possedevano ancora la forza per affermare vittoriosa-mente il loro programma. Per l’Inghilterra il liberismo hatrovato, per citare un esempio, prima della guerra, il suopropugnatore teoricopratico in Lloyd George, che, ministrodi stato, in un comizio pubblico, e sapendo che le sue paroleacquistavano significato di programma di governo, dicepress’a poco agli operai: - Noi non siamo socialisti, cioè nonaddiveniamo subito alla socializzazione della produzione.Ma non abbiamo pregiudiziali teoriche contro il socialismo.A ognuno il suo compito. Se la società attuale è ancora ca-

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pitalista, ciò vuol dire che il capitalismo è ancora una forzastoricamente non esaurita. Voi socialisti dite che il sociali-smo è maturo. Provatelo. Provate di essere la maggioranza,provate di essere non solo potenzialmente, ma anche in at-to, la forza capace di reggere le sorti del paese. E noi vi la-sceremo il posto pacificamente. Parole che a noi, abituati avedere nel governo qualcosa di sfingico, astratto completa-mente dal paese e da ogni polemica viva su idee e fatti, sem-brano strabilianti. Ma che non lo sono, e non sono neppureretorica vuota, se si pensa che è da più di 200 anni che in In-ghilterra si combattono delle lotte politiche nella piazza, eche il diritto alla libera affermazione di tutte le energie è undiritto conquistato, e non un diritto naturale, che si presu-me tale in sé e per sé (...) Questa forma di socialismo di statoborghese, cioè socialismo non socialista, faceva si che ancheil proletariato non vedesse molto di cattivo occhio lo statocome governo, e persuaso, a torto o a ragione, di essere tu-telato, conducesse la lotta di classe con discrezione e senzaquell’esasperazione morale che caratterizza il movimentooperaio. La concezione dello stato germanico è agli antipodidi quella inglese, ma produce gli stessi effetti. Lo stato te-desco è protezionista per forma mentis. Fichte ha dato il co-dice dello stato chiuso. Cioè dello stato retto dalla ragione.Dello stato che non deve essere lasciato in balia delle forzelibere spontanee degli uomini, ma deve in ogni cosa, in ogniatto imprimere il suggello di una volontà, di un programmastabilito, preordinato dalla ragione. E perciò in Germania ilparlamento non ha quei poteri che ha altrove. E’ sempliceente consultivo, da mantenere solo perché razionalmentenon si può ammettere l’infallibilità dei poteri esecutivi, e an-che dal parlamento, dalla discussione può scoccare la veri-tà. Ma la maggioranza non ha diritto riconosciuto alla verità.Arbitro rimane il Ministero (l’Imperatore), che giudica e sce-glie, e non è sostituito che per volontà imperiale. Ma le clas-si hanno la convinzione, non retorica, non supina, ma for-matasi attraverso decenni di esperienze di retta ammini-strazione, di osservata giustizia distributiva, che i loro di-

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ritti alla vita sono tutelati e che la loro attività deve consi-stere nel cercare di diventar maggioranza, per i socialisti, edi conservarsi maggioranza e dimostrare continuamente laloro necessità storica, per i conservatori. Un esempio: la vo-tazione, approvata anche dai socialisti, del miliardo permaggiori spese militari, avvenuta nel 1913 (...) Questi due ti-pi di ordine costituito sono il modello base dei partiti d’or-dine d’Italia. I liberali e i nazionalisti dicono (o dicevano) ri-spettivamente di volere che in Italia si creasse qualcosa disimile allo stato inglese e allo stato germanico. La polemicacontro il socialismo è tutta tessuta sull’aspirazione di que-sto stato etico potenziale in Italia. Ma in Italia è mancatocompletamente quel periodo di svolgimento che ha resopossibile l’attuale Germania e Inghilterra. Pertanto se por-tate alle ultime conseguenze i ragionamenti dei liberali e deinazionalisti italiani, ottenete come risultato nel presentequesta formula: il sacrifizio da parte del proletariato. Sacri-fizio dei propri bisogni, sacrifizio della propria personalità,della propria combattività per dare tempo al tempo, perpermettere che la ricchezza si moltiplichi, per permettereche l’amministrazione si purifichi. I nazionalisti e i liberalinon arrivano fino a sostenere che in Italia esista un ordinequalsiasi. Sostengono che quest’ordine dovrà esistere, pur-ché i socialisti non intralcino la fatale sua instaurazione.Questo stato di fatto delle cose italiane è per noi fonte dimaggiore energia e di maggiore combattività. Se si pensaquanto sia difficile convincere a muoversi un uomo che nonabbia delle ragioni immediate per farlo, si comprende quan-to sia più difficile convincere una moltitudine negli stati do-ve non esiste, come in Italia, da parte del governo, il partitopreso di soffocarne le aspirazioni, di taglieggiarne in tutti imodi la pazienza e la produttività. Nei paesi dove non suc-cedono i conflitti di piazza, dove non si vedono calpestatele leggi fondamentali dello stato, né si vede l’arbitrio essereil dominatore, la lotta di classe perde della sua asprezza, lospirito rivoluzionario perde di slancio e si abbioscia. La co-siddetta legge del minimo sforzo, che è la legge dei poltroni,

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e vuol dire spesso non far niente, diventa popolare. In queipaesi la rivoluzione è meno probabile. Dove esiste un ordi-ne, è più difficile che ci si decida a sostituirlo con un ordinenuovo. I socialisti non devono sostituire ordine ad ordine.Devono instaurare l’ordine in sé. La massima giuridica cheessi vogliono realizzare è: possibilità di attuazione integraledella propria personalità umana concessa a tutti i cittadini.Con il concretarsi di questa massima cadono tutti i privilegicostituiti. Essa porta al massimo della libertà col minimodella costrizione. Vuole che regola della vita e delle attribu-zioni sia la capacità e la produttività, all’infuori di ogni sche-ma tradizionale. Che la ricchezza non sia strumento dischiavitù, ma essendo di tutti impersonalmente, dia a tuttii mezzi per tutto il benessere possibile. Che la scuola educhigli intelligenti da chiunque nati, e non rappresenti il premio.Da questa massima dipendono organicamente tutti gli altriprincipi del programma massimo socialista. Esso, ripetia-mo, non è utopia. E’ universale concreto, può essere attuatodalla volontà. E’ principio d’ordine, dell’ordine socialistico.

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MarginiLo sforzo fatto per conquistare una verità, fa apparire unpo’ come propria la verità stessa, anche se alla sua nuovaenunciazione non si è aggiunto nulla di veramente proprio,non s’è data neppure una lieve colorazione personale. Eccoperché spesso si plagiano gli altri inconsciamente, e si rima-ne disillusi per la freddezza con cui vengono accolte affer-mazioni che riputavamo capaci di scuotere, di entusiasma-re. Amico mio, ci ripetiamo sconsolatamente, il tuo era l’uo-vo di Colombo. Ebbene, non mi importa di essere lo scopri-tore dell’uovo di Colombo. Preferisco ripetere una verità giàconosciuta al cincischiarmi l’intelligenza per fabbricare pa-radossi brillanti, spiritosi giochi di parole, acrobatismi ver-bali, che fanno sorridere, ma non fanno pensare. La giardi-niera plebea è sempre la minestra più nutriente e più appe-titosa appunto perché preparata con le civaie più usuali. Mipiace vederla ingoiare a larghe cucchiaiate dagli uomini ga-gliardi e ricchi di succhi gastrici che contengono nella forzadella loro volontà e dei loro muscoli l’avvenire. La più tritaverità non è mai stata ripetuta quanto basti perché essa di-venti massima e stimolo all’azione in tutti gli uomini. Quan-do discuti con un avversario, prova a metterti nei suoi pan-ni. Lo comprenderai meglio e forse finirai con l’accorgertiche ha un po’, o molto, di ragione. Ho seguito per qualchetempo questo consiglio dei saggi. Ma i panni dei miei avver-sari erano così sudici che ho concluso: è meglio essere in-giusto qualche volta che provare di nuovo questo schifo chefa svenire. Le diserzioni dal socialismo di molti cosiddettiintellettuali (a proposito: intellettuale vuol sempre dire in-telligente?) sono diventate per gli sciocchi la miglior provadella povertà morale della nostra idea. Il fatto è che fenome-ni simili sono avvenuti e avvengono per il positivismo, peril nazionalismo, per il futurismo, e per tutti gli altri “ismi”.Ci sono i crisaioli, le animucce sempre in cerca di un puntofermo, che si buttano sulla prima idea che si presenti conl’apparenza di poter diventare un ideale e se ne nutrono fi-no a quando dura lo sforzo per impossessarcene. Quando

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si è arrivati alla fine dello sforzo e ci si accorge (ma questoè effetto della poca profondità spirituale, del poco ingegno,in fondo) che essa non basta a tutto, che ci sono problemi lacui soluzione (se pur esiste) è fuori di quella ideologia (maforse è ad essa coordinata in un piano superiore), ci si buttasu qualche altra cosa che sia una verità, che rappresenti an-cora un incognito e quindi presenti probabilità di soddisfa-zioni nuove. Gli uomini cercano sempre fuori di sé la ragio-ne dei propri fallimenti spirituali; non vogliono convincersiche la causa ne è sempre e solo la loro animuccia, la loromancanza di carattere e di intelligenza. Ci sono i dilettantidella fede, così come i dilettanti del sapere. Ciò nella miglio-re delle ipotesi. Per molti la crisi di coscienza non è che unacambiale scaduta o il desiderio di aprire un conto corrente.Si dice che in Italia ci sia il peggior socialismo d’Europa. Esia pure: l’Italia avrebbe il socialismo che si merita. Il pro-gresso non consiste per lo più che nella partecipazione diun sempre maggior numero di individui a un bene. L’egoi-smo è il collettivismo degli appetiti e dei bisogni di un sin-golo: il collettivismo è l’egoismo di tutti i proletari del mon-do. I proletari non sono certo altruisti nel significato che aquesta parola danno gli umanitari frolli. Ma l’egoismo delproletariato è nobilitato dalla coscienza che il proletariatoha di non poterlo totalmente appagare senza che lo abbianoappagato nello stesso tempo tutti gli altri individui della suaclasse. E perciò l’egoismo proletario crea immediatamentela solidarietà di classe. E’ stato detto: il socialismo è mortonel momento stesso in cui è stato dimostrato che la societàfutura che i socialisti dicevano di star creando era solo unmito buono per le folle. Anch’io credo che il mito si sia dis-solto nel nulla. Ma la sua dissoluzione era necessaria. Il mitosi era venuto formando quando era ancor viva la supersti-zione scientifica, quando si aveva una fede cieca in tutto ciòche era accompagnato dall’attributo scientifico. Il raggiun-gimento di questa società modello era un postulato del po-sitivismo filosofico, della filosofia scientifica. Ma questaconcezione non era scientifica, era solo meccanica, arida-

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mente meccanica. Ne è rimasto il ricordo scolorito nel rifor-mismo teorico di Claudio Treves, un balocco di fatalismopositivista le cui determinanti sono energie sociali astrattedall’uomo e dalla volontà, incomprensibili e assurde: unaforma di misticismo arido e senza scatti di passione dolo-rante. Era questa una visione libresca, cartacea, della vita; sivede l’unità, l’effetto, non si vede il molteplice, l’uomo di cuil’unità è la sintesi. La vita è per costoro come una valangache si osserva da lontano, nella sua irresistibile caduta. Pos-so io fermarla?, si domanda l’homunculus: no, dunque essanon segue una volontà. Perché la valanga umana obbediscead una logica che caso per caso può non essere la mia indi-viduale, ed io individuo non ho la forza di fermarla o di farladeviare, mi convinco che essa non ha una logica interiore,ma ubbidisce a delle leggi naturali infrangibili. E’ avvenutala débâcle della scienza, o per meglio dire, la scienza si è li-mitata ad assolvere il solo compito che le era concesso; si èperduta la cieca fiducia nelle sue deduzioni ed è quindi tra-montato il mito che essa aveva contribuito potentemente asuscitare. Ma il proletariato si è rinnovato; nessuna delusio-ne vale ad essiccare la sua convinzione, come nessuna bri-nata distrugge il virgulto ricolmo di succhi vitali. Ha riflet-tuto sulle proprie forze, e su quanta forza è necessaria peril raggiungimento dei suoi fini. Si è maggiormente nobilitatonella coscienza delle sempre maggiori difficoltà che ora ve-de, e nel proposito dei sempre maggiori sacrifizi che sentedi dover fare. E’ avvenuto un processo di interiorizzamento:si è trasportato dall’esterno all’interno il fattore della storia:a un periodo di espansione ne succede sempre uno di inten-sificazione. Alla legge naturale, al fatale andare delle cosedegli pseudo scienziati è stata sostituita: la volontà tenacedell’uomo. Il socialismo non è morto, perché non sono mor-ti per esso gli uomini di buona volontà (...) E’ più facile con-vincere chi non ha mai partecipato alla vita politica di chi hagià appartenuto a un partito già sagomato e ricco di tradi-zioni. E’ immensa la forza che la tradizione esercita suglianimi. Un clericale, un liberale che diventano socialisti, sono

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altrettante macchine a sorpresa che possono da un momen-to all’altro esplodere con effetti letali per la nostra compa-gine. Le anime vergini degli uomini di campagna, quando siconvincono di una verità, si sacrificano per essa, fanno tuttoil possibile per attuarla. Chi si è convertito, è sempre un re-lativista. Ha esperimentato in se stesso una volta quanto siafacile sbagliarsi nello scegliere la propria via. Pertanto glie-ne rimane un fondo di scetticismo. Chi è scettico non ha ilcoraggio necessario per l’azione. Preferisco che al movimen-to si accosti un contadino più che un professore d’universi-tà. Solo che il contadino dovrebbe cercare di farsi tantaesperienza e tanta larghezza di mente quanta ne può avereun professore d’università, per non rendere sterile la suaazione e il possibile suo sacrifizio. Accelerare l’avvenire.Questo è il bisogno più sentito nella massa socialista. Ma co-s’è l’avvenire? Esiste esso come qualcosa di veramente con-creto? L’avvenire non è che un prospettare nel futuro la vo-lontà dell’oggi come già avente modificato l’ambiente socia-le. Pertanto accelerare l’avvenire significa due cose. Essereriusciti a far estendere questa volontà a un numero tale diuomini quanto si presume sia necessaria per far diventarefruttuosa la volontà stessa. E questo sarebbe un progressoquantitativo. Oppure: essere riusciti a far diventare questavolontà talmente intensa nella minoranza attuale, che siapossibile l’equazione: 1 = 1 000 000 . E questo sarebbe unprogresso qualitativo. Arroventare la propria anima e farnesprizzare miriadi di scintille. Ciò è necessario [...]. Aspettaredi essere diventati la metà più uno è il programma delle ani-me pavide che aspettano il socialismo da un decreto regiocontrofirmato da due ministri.

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Ai figli(Delio è il primogenito nato nel 1924. Julik/Giuliano è il se-condogenito nato nel 1926)

Studiare è difficileCarissimo Giuliano, ti faccio tanti auguri per l’andamentodel tuo anno scolastico. Sarei molto contento se tu mi spie-gassi in che consistono le difficoltà che trovi nello studiare.Mi pare che se tu stesso riconosci di avere delle difficoltà,queste non devono essere molto grandi e potrai superarlecon lo studio: questo non è sufficiente per te? Forse sei unpo’ disordinato, ti distrai, la memoria non funziona e tu nonsai farla funzionare? Dormi bene? Quando giochi pensi a ciòche hai studiato o quando studi pensi al gioco? Ormai sei unragazzo già formato e puoi rispondere alle mie domandecon esattezza. Alla tua età io ero molto disordinato, andavomolte ore a scorrazzare nei campi, però studiavo anchemolto bene perché avevo una memoria molto forte e prontae non mi sfuggiva nulla di ciò che era necessario per la scuo-la: per dirti tutta la verità debbo aggiungere che ero furbo esapevo cavarmela anche nelle difficoltà pur avendo studiatopoco. Ma il sistema di scuola che io ho seguito era molto ar-retrato; inoltre la quasi totalità dei condiscepoli non sapevaparlare l’italiano che molto male e stentatamente e ciò mimetteva in condizioni di superiorità perché il maestro do-veva tener conto della media degli allievi e il saper parlarel’italiano era già una circostanza che facilitava molte cose(la scuola era in un paese rurale e la grande maggioranzadegli allievi era di origine contadina). Carissimo, sono certoche mi scriverai senza interruzione e mi terrai al correntedella tua vita. Ti abbraccio. Antonio

Il regalo del babboCaro Giuliano, così ti sei liberato dal collettivo e vai al cam-po. Tornerai a scuola. Perché scrivere proprio all’ultimomomento, in attesa della macchina? Ti abbraccio tanto perla tua festa e ti mando un orologino, sperando che ti faccia

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riflettere al tempo e quindi ... scrivere non all’ultimo mo-mento. Ti bacio. Antonio

Studiar beneCaro Giuliano, come va il tuo cervellino? La tua lettera mi èpiaciuta molto. Il tuo modo di scrivere è più fermo di prima,ciò che mostra che tu stai diventando una persona grande.Mi domandi, ciò che mi interessa di più. Devo rispondereche non esiste niente che «mi interessi di più», cioè che mol-te cose mi interessano molto nello stesso tempo. Per esem-pio, per ciò che ti riguarda, mi interessa che tu studi bene econ profitto, ma anche che tu sia forte e robusto e moral-mente pieno di coraggio e di risolutezza; ecco quindi chem’interessa che tu riposi bene, mangi con appetito ecc...:tutto è collegato e intessuto strettamente; se un elementodel tutto viene a mancare o fa difetto, l’intiero si spappola.Per ciò mi è dispiaciuto che tu abbia scritto di non poter ri-spondere alla quistione se vai con risolutezza verso la tuameta, che in questo caso significa studiar bene, esser forteecc. Perché non puoi rispondere, se dipende da te il discipli-narti, il resistere agli impulsi negativi ecc.? Ti scrivo seria-mente, perché ormai vedo che non sei più un ragazzino, eanche perché tu stesso una volta mi hai scritto che vuoi es-sere trattato con serietà. A me pare che tu abbia molte forzelatenti nel cervello; la tua stessa espressione che non puoirispondere alla domanda, significa che rifletti e sei respon-sabile di ciò che fai e scrivi. Eppoi, si vede anche dalla foto-grafia che ho ricevuto che c’è molta energia in te. Evviva Giu-liano! Ti voglio molto bene. Antonio

Impara a star sedutoCaro Delio, i tuoi bigliettini diventano sempre più corti estereotipati. Io credo che tu abbia abbastanza tempo perscrivere più a lungo e in modo più interessante; non c’è nes-sun bisogno di scrivere all’ultimo momento, in fretta in fret-ta, prima di andare a spasso. Ti pare? Non credo neppureche ti possa far piacere che il tuo babbo ti giudichi dai tuoi

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bigliettini come uno stupidello che si interessa solo dellasorte del suo pappagalluccio, e fa sapere che sta leggendoun libro qualsiasi. Io credo che una delle cose più difficili al-la tua età è quella di star seduto dinanzi a un tavolino permettere in ordine i pensieri (e per pensare addirittura) e perscriverli con un certo garbo; questo è un «apprendissaggio»talvolta più difficile di quello di un operaio che vuole acqui-stare una qualifica professionale, e deve incominciare pro-prio alla tua età. Ti abbraccio forte. Antonio

Mantenere le promesseCaro Giuliano, ho ricevuto tue notizie dalle lettere dellamamma e di nonna. Ma perché tu non scrivi qualche parola?Io sono molto contento quando ricevo una tua lettera, e chisa quante cose tu potresti scrivermi sulla scuola, sui tuoicompagni, suoi tuoi insegnanti, sugli alberi che vedi, suituoi giochi ecc. E poi ... tu avevi promesso di scrivermi qual-che cosa ogni giorno di vacanza. Bisogna sempre mantenerele promesse, anche se costa qualche sacrifizio e immaginoche per te non deve essere un grande sacrifizio scriverequalche cosa ... Caro, ti abbraccio. Antonio

Impara a essere ordinatoCaro Giuliano, questa volta non ho ricevuto nessuna tua let-tera. Mi dispiace. Sarei contento se tu mi scrivessi molto, an-zi avevi promesso (mi pare) di scrivere qualche cosa ognigiorno di vacanza e poi mandarmi lo scritto insieme alla let-tera di Delio. Si vede che sei un po’ disordinato e che dimen-tichi ciò che era per te un impegno. Puoi scrivermi di tutto,e io ti risponderò seriamente. Ormai sei un ragazzo giàgrandetto e devi avere un certo senso di responsabilità. Chene pensi? Scrivimi ciò che fai nella scuola, se impari con fa-cilità, ciò che ti interessa. Ma se una cosa non ti interessa etuttavia devi impararla, come fai? E quali giochi preferisci?Caro Giuliano, ogni momento della tua vita interessa me. Tiabbraccio. Antonio

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Ogni cosa è seriaCarissimo Giuliano, tu vuoi che ti scriva di cose serie. Moltobene. Ma cosa sono le «cose serie» che vuoi leggere nellemie lettere? Tu sei un ragazzo, e per un ragazzo anche le co-se per i ragazzi sono molto serie, perché sono in rapportocon la sua età, con le sue esperienze, con le capacità che leesperienze e la riflessione su di esse gli hanno procurato.Del resto prometti di scrivermi qualche cosa ogni cinquegiorni: sono molto contento se lo farai, dimostrandomi diaver così molta forza di volontà. Io ti risponderò sempre (sepotrò) e molto seriamente. Caro, io ti conosco solo per le tuelettere e per le notizie che mi mandano di te i grandi: so chesei un bravo ragazzo, ma perché non mi hai scritto nulla deltuo viaggio al mare? Credi che non sia una cosa seria? Tuttociò che ti riguarda è per me molto serio e mi interessa mol-to; anche i tuoi giochi. Ti abbraccio. Antonio

Studia la storiaCarissimo Delio, mi sento un po’ stanco e non posso scriver-ti molto. Tu scrivimi sempre e di tutto ciò che ti interessanella scuola. Io penso che la storia ti piace, come piaceva ame quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini vi-venti e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uominiè possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si unisconofra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stes-si, non può non piacerti più di ogni altra cosa. Ma è così? Tiabbraccio. Antonio

I cinque minuti del babboCaro Delio, aspetto che tu risponda alla questione su Pu-skìn, senza fretta; tu devi ferrarti bene e fare del tuo meglio.Come va la scuola per te e per Giuliano? Adesso che avete leannotazioni ogni mese, sarà più facile il controllo sull’anda-mento dei corsi. Ti ringrazio di avere abbracciato forte fortela mamma per parte mia: penso che devi farlo ogni giorno,ogni mattino. Io penso sempre a voi; così immaginerò ognimattino: ecco i miei figli e Giulia pensano a me in questo

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momento. Tu sei il fratello maggiore, ma devi dirlo anche aGiuliano, così ogni giorno avrete i «cinque minuti del bab-bo». Cosa ne pensi? Ti bacio. Antonio

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Alla moglie e ai parenti(Julca/Giulia è Julca Schucht, la moglie di Gramsci, di nazio-nalità russa, conosciuta nel 1922. Tatiana/Tania è TatianaSchucht (1888-1943), sorella maggiore di Julca, segue Gram-sci negli anni del carcere e del confino. La madre è Giuseppi-na Marcias (1861-1932). Piero Sraffa (1898 - 1983) è un ce-lebre economista italiano: torinese, insegna economia politi-ca a Cagliari fino al 1927, quando si trasferisce all’universitàdi Cambridge, in Inghilterra)

Roma, 20 novembre 1926Mia carissima Julca, ricordi una della tue ultime lettere? (eraalmeno l’ultima lettera che io ho ricevuto e letto). Mi scriveviche noi due siamo ancora abbastanza giovani per poter spe-rare di vedere insieme crescere i nostri bambini. Occorreche tu ora ricordi fortemente questo, che tu ci pensi forte-mente ogni volta che pensi a me e mi associ ai bambini. Iosono sicuro che tu sarai forte e coraggiosa, come sempre seistata. Dovrai esserlo ancora di più che nel passato, perché ibambini crescano bene e siano in tutto degni di te. Ho pen-sato molto, molto, in questi giorni. Ho cercato di immagina-re come si svolgerà tutta la vostra vita avvenire, perché ri-marrò certamente a lungo senza vostre notizie; e ho ripen-sato al passato, traendone ragione di forza e di fiducia infi-nita. Io sono e sarò forte; ti voglio tanto bene e voglio rive-dere e vedere i nostri piccoli bambini. Mi preoccupa un po’la questione materiale: potrà il tuo lavoro bastare a tutto?Penso che non sarebbe né meno degno di noi né troppo, do-mandare un po’ di aiuti. Vorrei convincerti di ciò, perché tumi dia retta e ti rivolga ai miei amici. Sarei più tranquillo epiù forte, sapendoti al riparo da ogni brutta evenienza. Lemie responsabilità di genitore serio mi tormentano ancora,come vedi. Carissima mia, non vorrei in modo alcuno tur-barti: sono un po’ stanco, perché dormo pochissimo, e nonriesco perciò a scrivere tutto ciò che vorrei e come vorrei.Voglio farti sentire forte forte tutto il mio amore e la mia fi-ducia. Abbraccia tutti di casa tua; ti stringo con la più gran-

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de tenerezza insieme coi bambini. Antonio

Ustica, 19 dicembre 1926Carissima Tania, arrestato l’8 sera alle 10 e mezzo e condot-to immediatamente in carcere, sono partito da Roma il mat-tino prestissimo del 25 novembre. La permanenza a ReginaCoeli è stato il periodo brutto della detenzione: 16 giorni diisolamento assoluto in cella, disciplina rigorosissima. Hopotuto avere la camera a pagamento solo negli ultimi giorni.I primi tre giorni li ho trascorsi in una cella abbastanza lu-minosa di giorno e illuminata di notte; il letto era però mol-to sudicio, le lenzuola erano già adoperate; formicolavanogli insetti più diversi; non mi è stato possibile avere qualco-sa da leggere, neanche la «Gazzetta dello Sport», perchénon ancora prenotata: ho mangiato la minestra del carcereche era abbastanza buona. Sono quindi passato a una nuovacella, più oscura di giorno e senza illuminazione la notte,ma che è stata disinfettata con la fiamma di benzina e il cuiletto aveva biancheria di bucato. Ho incominciato a compra-re qualcosa dal bettolino del carcere: le steariche per la not-te, il latte per il mattino, una minestra con brodo di carne eun pezzo di lesso, formaggio, vino, mele, sigarette, giornalie riviste illustrate. Sono passato dalla cella comune alla ca-mera a pagamento senza preavviso, cosa per cui rimasi ungiorno senza mangiare, dato che il carcere passa il vitto soloagli abitatori delle celle comuni, mentre quelli delle camerea pagamento devono “vittarsi” (termine carcerario) del pro-prio. La camera a pagamento consistette per me nel fattoche aggiunsero un materasso di lana e un cuscino idem alsaccone di crine, e che la cella fu arredata di un lavabo concatinella e boccale e di una sedia. Avrei dovuto avere ancheun tavolino, un reggipanni e un armadietto ma l’ammini-strazione mancava di “casermaggio” (altro termine carcera-rio): ebbi anche la luce elettrica ma senza interruttore, sic-ché tutta la notte mi rigiravo per proteggere gli occhi dallaluce. La vita trascorreva così: alle 7 del mattino sveglia e pu-lizia della camera; verso le 9 il latte, che poi divenne caffè e

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latte quando incominciai a ricevere il vitto dalla trattoria. Ilcaffè giungeva di solito ancora tiepido, il latte invece erasempre freddo, ma io facevo allora una abbondantissimazuppa. Dalle nove a mezzogiorno capitava l’ora del passeg-gio: un’ora o dalle nove alle dieci, o dalle dieci alle undici, odalle undici alle dodici; ci facevano uscire isolati, con laproibizione di parlare e di salutare chiunque, e si andava inun cortile diviso a raggi con muri divisori altissimi e con unacancellata sul resto del cortile. Eravamo sorvegliati da unaguardia issata su un terrazzino, dominante la raggera e dauna seconda guardia che passeggiava dinanzi ai cancelli; ilcortile era incassato tra muri altissimi e da una parte era do-minato dalla bassa ciminiera di una piccola officina interna;talvolta l’aria era fumo, una volta dovemmo rimanere circamezz’ora sotto uno scroscio di pioggia. A mezzogiorno cir-ca arrivava il pranzo; la minestra era spesso tiepida ancora,il resto era sempre freddo. Alle 3 c’era la visita alla cella colcollaudo delle sbarre dell’inferriata; la visita si ripeteva alledieci di sera e alle tre del mattino. Io dormivo un po’ tra que-ste due ultime visite: una volta svegliato dalla visita delle trenon riuscivo ad addormentarmi; era però obbligatorio starea letto dalle 7 e mezzo di sera fino all’alba. Lo svago era da-to dalla voci diverse e dai brani di conversazione che talvol-ta si riusciva a cogliere dalle celle vicine o prospicienti. Ionon incorsi mai in nessuna punizione: Maffi invece ebbe tregiorni di pane e acqua in una cella di punizione. In veritànon sentii mai nessun malessere: quantunque non abbiamai consumato tutto il pasto, tuttavia mangiai sempre conappetito superiore a quello della trattoria. Avevo solo uncucchiaio di legno; né forchetta, né bicchiere. Un boccale eun boccaletto di terraglia per l’acqua e per il vino; una gros-sa scodella di terraglia per la minestra e un’altra per catino,prima della concessione della camera a pagamento. Il 19 no-vembre mi fu comunicata l’ordinanza che mi infliggeva 5anni di confino in colonia, senza altra spiegazione. I giornisuccessivi mi giunse la voce che sarei partito per la Somalia.Seppi che avrei scontato il confino in un’isola italiana solo

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la sera del 24, indirettamente: la destinazione esatta mi fucomunicata ufficialmente solo a Palermo; potevo andare aUstica ma anche a Favignana, a Pantelleria o a Lampedusa;erano escluse le Tremiti perché altrimenti avrei viaggiato daCaserta a Foggia. [...]

2 gennaio 1927Carissimo [ Sraffa], la vita scorre senza novità e sorprese;unica preoccupazione è l’arrivo del vaporetto che non sem-pre riesce a fare le quattro corse settimanali (lunedì, merco-ledì, venerdì, sabato) con grande dispiacere di ognuno di noiche aspetta sempre con ansia la corrispondenza. Siamo giàuna sessantina, dei quali 36 amici di località diverse; predo-minano relativamente i romani. Abbiamo già iniziato unascuola, divisa in vari corsi: 1° corso (prima e seconda ele-mentare), 2° corso (terza elementare), 3° corso (quarta equinta elementare), corso complementare, due corsi di fran-cese (inferiore e superiore), un corso di tedesco. I corsi sonostabiliti in relazione alla coltura nelle materie che possonoridursi ad un certo corredo di nozioni esattamente determi-nabili (grammatica e matematica), perciò gli allievi dei corsielementari frequentano le lezioni di storia e geografia delcorso complementare, per esempio. Insomma, abbiamo cer-cato di contemperare la necessità di un ordine scolasticograduale col fatto che gli allievi, anche se talvolta semianal-fabeti, sono intellettualmente sviluppati. I corsi sono seguiticon grande diligenza e attenzione. Con la scuola, che è fre-quentata anche da alcuni funzionari e abitanti dell’isola, ab-biamo evitato i pericoli di demoralizzazione che sono gran-dissimi.

Milano, 12 febbraio 1927Carissime [ Tania e Giulia], vi voglio dare un’impressioned’insieme della traduzione. Immaginate che da Palermo aMilano si snodi un immenso verme, che si compone e si de-compone continuamente, lasciando in ogni carcere una par-te dei suoi anelli, ricostituendone dei nuovi, vibrando a de-

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stra e a sinistra delle formazioni e incorporandosi le estra-zioni di ritorno. Questo verme ha dei covili, in ogni carcere,che si chiamano transiti, dove si rimane dai 2 agli 8 giorni,e che accumulano, raggrumandole, la sozzurra e la miseriadelle generazioni. Si arriva, stanchi, sporchi, coi polsi addo-lorati per le lunghe ore di ferri, con la barba lunga, coi ca-pelli in disordine, con gli occhi infossati e luccicanti perl’esaltazione della volontà e per l’insonnia; ci si butta perterra su pagliericci che hanno chissà quale vetustà, vestiti,per non aver contatti col sudiciume, avvolgendosi la facciae le mani nei propri asciugamani, coprendosi con coperteinsufficienti tanto per non gelare. Si riparte ancora più spor-chi e stanchi, fino al nuovo transito, coi polsi ancora più li-vidi per il freddo dei ferri e il peso delle catene e per la fati-ca di trasportare, cosi agghindati, i propri bagagli: ma, pa-zienza, ora tutto è passato e mi sono già riposato. Sto qui,in una cella buona, riscaldata dal sole, coperto da un ma-glione che ho acquistato subito e finalmente ho cacciato ilfreddo dalle mie vecchie ossa. [...]

19 febbraio 1927Carissima Tania, ti immagino seria e tetra, senza un sorrisoneanche fuggevole. Vorrei farti rallegrare in qualche modo.Ti racconterò delle storielle; che te ne pare? Ti voglio, peresempio, come intermezzo alla descrizione del mio viaggioin questo mondo così grande e terribile, dire qualcosa intor-no a me stesso e alla mia fama, di molto divertente. Io nonsono conosciuto all’infuori di una cerchia abbastanza ri-stretta; il mio nome è storpiato perciò in tutti i modi più in-verosimili: Gramasci, Granusci, Gramisci, Granisci, Gramà-sci, fino a Garàmascon, con tutti gli intermedi più bizzarri.A Palermo, durante una certa attesa per il controllo dei ba-gagli, incontrai in un deposito un gruppo di operai torinesidiretti al confino; insieme a loro era un formidabile tipo dianarchico ultra individualista, noto coll’indicazione di «Uni-co » che rifiuta di confidare a chiunque, ma specialmente al-la polizia e alle autorità in generale, le sue generalità: «sono

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l’Unico e basta», ecco la sua risposta. Nella folla che atten-deva, l’Unico riconobbe tra i criminali comuni (mafiosi) unaltro tipo, siciliano (l’Unico deve essere napoletano o giù dilì) arrestato per motivi compositi, tra il politico e il comune,e si passò alle presentazioni. Mi presentò: l’altro mi guardòa lungo, poi domandò: «Gramsci, Antonio?» Sì, Antonio, ri-sposi. «Non può essere, replicò, perché Antonio Gramscideve essere un gigante e non un uomo così piccolo». Nondisse più nulla, si ritirò in un angolo, si sedette su uno stru-mento innominabile e stette, come Mario sulle rovine di Car-tagine, a meditare sulle proprie illusioni perdute. Evitò ac-curatamente di parlare ancora con me durante il tempo incui restammo ancora nello stesso camerone e non mi salutòquando ci separarono. Un altro episodio simile mi successepiù tardi, ma, credo, ancor più interessante e complesso.Stavamo per partire; i carabinieri di scorta ci avevano giàmesso i ferri e le catene; ero stato legato in un modo nuovoe spiacevolissimo, poiché i ferri mi tenevano i polsi rigida-mente, essendo l’osso del polso fuori del ferro e battendocontro il ferro stesso in modo doloroso. Entrò il capo scorta,un brigadiere gigantesco, che nel fare l’appello si fermò almio nome e mi domandò se ero parente del «famoso depu-tato Gramsci.». Risposi che ero io stesso quell’uomo e mi os-servò con sguardo compassionevole e mormorando qualco-sa di incomprensibile. A tutte le fermate lo sentii che parla-va di me, sempre qualificandomi come il «famoso deputato», nei crocchi che si formavano intorno al cellulare (devo ag-giungere che mi aveva fatto mettere i ferri in modo più sop-portabile), tanto che, dato il vento che spira, pensavo che,oltre a tutto, potevo avere anche qualche bastonata da qual-che esaltato. [...] A un certo punto cominciò a chiamarmi«maestro». Mi sono divertito un mondo, come puoi imma-ginare. E così ho fatto l’esperienza della mia «fama». Che tene pare?

11 aprile 1927Carissima Tania, [...] lo scrivere mi è anche diventato un tor-

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mento fisico, perché mi danno degli orribili pennini, chegrattano la carta e domandano un’attenzione ossessionantealla parte meccanica dello scrivere. Credevo di poter ottene-re l’uso permanente della penna e mi ero proposto di scri-vere i lavori ai quali ti ho accennato; non ho però ottenutoil permesso e mi dispiace insistere. Perciò scrivo solo nelledue ore e o tre ore in cui si sbriga la corrispondenza set-timanale (2 lettere); naturalmente non posso prendere ap-punti, cioè in realtà non posso studiare ordinatamente e conprofitto. Leggicchio. Tuttavia il tempo passa molto rapida-mente, più di quanto pensassi. [...]

8 agosto 1927Carissima Tania, vorrei fare qualcosa per farti sorridere al-meno. Ti racconterò la storia dei miei passerotti. Devi dun-que sapere che ho un passerotto e che ne ho avuto un altroche è morto, credo avvelenato da qualche insetto (una blattao un millepiedi). Il primo passerotto era molto più simpati-co dell’attuale. Era molto fiero e di una grande vivacità. L’at-tuale è modestissimo, di animo servile e senza iniziativa. Ilprimo divenne subito padrone della cella. Credo che avesseuno spirito eminentemente goethiano, come ho letto in unabiografia a proposito dell’uomo biografato. Ueber allen Gip-feln [Sopra ogni vetta]. Conquistava tutte le cime esistentinella cella e quindi si assideva per qualche minuto ad assa-porarne la sublime pace. Salire sul tappo di una bottigliettadi tamarindo era il suo perpetuo assillo; e perciò una voltacadde in un recipiente pieno dei rifiuti della caffettiera e fulì lì per affogare. Ciò che mi piaceva in questo passero è chenon voleva essere toccato. Si rivoltava ferocemente, con leali spiegate e beccava la mano con grande energia. Si era ad-domesticato, ma senza permettere troppe confidenze. Il cu-rioso è che la sua relativa famigliarità non fu graduale, maimprovvisa. Si muoveva per la cella, ma sempre nell’estremoopposto a me. Per attirarlo gli offrivo una mosca in una sca-toletta di fiammiferi; non la prendeva se non quando io erolontano. Una volta invece di una, nella scatoletta erano cin-

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que o sei mosche; prima di mangiarle danzò freneticamenteintorno per qualche secondo; la danza fu ripetuta sempreper le mosche numerose. Un mattino, rientrando dal pas-seggio, mi trovai il passero vicinissimo; non si staccò più,nel senso che da allora mi stava sempre vicino, guardando-mi attentamente e venendo ogni tanto a beccarmi le scarpeper farsi dare qualcosa. Ma non si lasciò mai prendere inmano senza rivoltarsi e cercare subito di scappare. È mortolentamente, cioè ha avuto un colpo improvviso, di sera,mentre era accovacciato sotto il tavolino, ha strillato pro-prio come un bambino, ma è morto solo il giorno dopo: eraparalizzato dal lato destro e si trascinava penosamente permangiare e bere, poi di colpo morì. L’attuale passero inveceè di una domesticità nauseante; vuole essere imboccato,quantunque mangi da sé benissimo: viene sulla scarpa e simette nella piega dei calzoni: se avesse le ali intiere volereb-be sul ginocchio; si vede che vuol farlo perché si allunga,freme, poi va sulla scarpa. Penso che morirà anch’esso, per-ché ha l’abitudine di mangiare le capocchie bruciate deifiammiferi, oltre al fatto che il mangiare sempre pane mollodeve procurare a questi uccelli dei disordini mortali. Peradesso è abbastanza sano, ma non è vivace; non corre, stasempre vicino e si è già involontariamente preso alcune pe-date. Ed ecco la storia dei miei passerini. [...]

21 novembre 1927Carissima Giulia, nel cortile, dove con altri due detenuti va-do a fare il passeggio regolamentare, è stata tenuta unaesposizione di fotografie dei bambini rispettivi. Delio haavuto un grande successo di ammirazione. Da qualche gior-no non sono più isolato, ma sto in una cella comune con unaltro detenuto politico, che ha una graziosa e gentile bim-betta, di tre anni, che si chiama Maria Luisa. Secondo un co-stume sardo, abbiamo deciso che Delio sposerà Maria Luisaappena i due siano giunti all’età matrimoniale; che te ne pa-re? Naturalmente attendiamo il consenso delle due mamme,per dare al contratto un valore più impegnativo, sebbene ciò

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costituisca una grave deroga ai costumi e ai principi del miopaese. Immagino che tu sorrida e ciò mi rende felice; nonriesco che con grande difficoltà a immaginarti sorridente. Tiabbraccio teneramente, cara. Antonio

30 aprile 1928Carissima mamma, ti spedisco la fotografia di Delio. Il mioprocesso è fissato per il 28 maggio: questa volta la partenzadeve essere prossima. Ad ogni modo vedrò di telegrafarti.La salute è abbastanza buona. Il vicino processo mi fa starmeglio, perché almeno uscirò da questa monotonia. Nonpreoccuparti e non spaventarti qualsiasi condanna mi dia-no: io credo sarà dai 14 ai 17 anni, ma potrebbe essere an-che più grave, appunto perché contro di me non ci sonoprove: cosa non posso aver commesso, senza lasciar prove?Sta’ di buon animo. Ti abbraccio. Nino

15 dicembre 1930Carissima mamma, ecco il quinto natale che passo in priva-zione di libertà e il quarto che passo in carcere. Veramentela condizione di coatto in cui passai il natale del 26 ad Usti-ca era ancora una specie di paradiso della libertà personalein confronto alla condizione di carcerato. Ma non credereche la mia serenità sia venuta meno. Sono invecchiato diquattro anni, ho molti capelli bianchi, ho perduto i denti,non rido più di gusto come una volta, ma credo di essere di-ventato più saggio e di avere arricchito la mia esperienzadegli uomini e delle cose. Del resto non ho perduto il gustodella vita; tutto mi interessa ancora e sono sicuro che se an-che non posso più «zaccurrare sa fae arrostia» [sgranoc-chiare le fave arrostite], tuttavia non proverei dispiacere avedere e sentire gli altri a zaccurrare. Dunque non sono di-ventato vecchio, ti pare? Si diventa vecchi quando si inco-mincia a temere la morte e quando si prova dispiacere a ve-dere gli altri fare ciò che noi non possiamo più fare. In que-sto senso sono sicuro che neanche tu sei diventata vecchianonostante la tua età. Sono sicuro che sei decisa a vivere a

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lungo, per poterci rivedere tutti insieme e per poter cono-scere tutti i tuoi nipotini: finché si vuol vivere, finché si sen-te il gusto della vita e si vuole raggiungere ancora qualchescopo, si resiste a tutti gli acciacchi e a tutte le malattie. [...]

9 febbraio 1931Carissima Giulia, penso che la nostra più grande disgraziaè stata quella di essere stati insieme troppo poco, e semprein condizioni generali anormali, staccate dalla vita reale econcreta di tutti i giorni. Dobbiamo ora, nelle condizioni diforza maggiore in cui ci troviamo, rimediare a queste man-chevolezze del passato, in modo da mantenere alla nostraunione tutta la sua saldezza morale e salvare dalla crisi ciòche di bello c’è pure stato nel nostro passato e che vive neibambini nostri. Ti pare? Io voglio aiutarti, nelle mie condi-zioni, a superare la tua attuale depressione, ma bisogna an-che che tu un po’ mi aiuti e mi insegni il modo migliore diaiutarti efficacemente, indirizzando la tua volontà, strap-pando tutte le ragnatele di false rappresentazioni del pas-sato che possono incepparla, aiutandomi a conoscere sem-pre meglio i due bambini e a partecipare alla loro vita, allaloro formazione, alla affermazione della loro personalità, inmodo che la mia “paternità” diventi più concreta e sia sem-pre attuale e così diventi una paternità vivente e non soloun fatto del passato sempre più lontano. Aiutandomi cosìanche a conoscere meglio la Julca di oggi che è Julca + DelioGiuliano, somma in cui il più non indica solo un fatto quan-titativo, ma soprattutto una nuova persona qualitativa. Ca-ra, ti abbraccio stretta stretta e aspetto che mi scriva a lun-go. Antonio

1 giugno 1931Carissima Giulia, [...] vorrei raccontare a Delio una novelladel mio paese che mi pare interessante. Te la riassumo e tugliela svolgerai, a lui e a Giuliano. — Un bambino dorme. C’èun bricco di latte pronto per il suo risveglio. Un topo si beveil latte. Il bambino, non avendo il latte, strilla e la mamma

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strilla. Il topo disperato si batte la testa contro il muro, masi accorge che non serve a nulla e corre dalla capra per averedel latte. La capra gli darà il latte se avrà l’erba da mangiare.Il topo va dalla campagna per l’erba e la campagna aridavuole acqua. Il topo va dalla fontana. La fontana è stata ro-vinata dalla guerra e l’acqua si disperde: vuole il mastro mu-ratore che la riatti. Il topo va dal mastro muratore: vuole lepietre. Il topo va dalla montagna e avviene un sublime dia-logo tra il topo e la montagna che è stata disboscata daglispeculatori e mostra dappertutto le sue ossa senza terra. Iltopo racconta tutta la storia e promette che il bambino cre-sciuto ripianterà pini, querce, castagni, ecc. Così la monta-gna dà le pietre ecc. e il bimbo ha tanto latte che si lava an-che col latte. Cresce, pianta gli alberi, tutto muta; sparisco-no le ossa della montagna sotto nuovo humus, la precipita-zione atmosferica ridiventa regolare perché gli alberi trat-tengono vapori e impediscono ai torrenti di devastare lapianura ecc. Insomma il topo concepisce una vera e propriapiatilietca [quinquennale]. È una novella propria di un paeserovinato dal disboscamento. Carissima Giulia, devi proprioraccontare questa novella e poi comunicarmi le impressionidei bimbi. Ti abbraccio teneramente. Antonio

7 settembre 1931Carissima Tatiana, devi sapere che io sono morto una voltae poi sono resuscitato, ciò che dimostra che ho sempre avu-to la pelle dura. Da bambino, a 4 anni, ho avuto delle emor-ragie per tre giorni di seguito, che mi avevano completa-mente dissanguato, accompagnate da convulsioni. Il medicomi aveva dato per morto e mia madre ha conservato fino al914 circa la piccola bara e il vestitino speciale che dovevanoservire per seppellirmi; una zia sosteneva che ero resuscita-to quando lei mi unse i piedini con l’olio di una lampada de-dicata a una madonna e perciò quando mi rifiutavo di com-piere gli atti religiosi mi rimproverava aspramente ricordan-do che alla madonna dovevo la vita, cosa che mi impressio-nava poco, a dir la verità. Da allora in poi, quantunque non

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sia mai stato molto forte, non ho però più avuto nessun gra-ve malore, all’infuori degli esaurimenti nervosi e delle di-spepsie.

5 ottobre 1931Carissima Tania, capisco benissimo che tu non partecipere-sti a un pogrom, tuttavia perché un pogrom possa avvenireè necessario che sia molto diffusa l’ideologia dei «due mon-di » impenetrabili, delle razze ecc. Questo forma quell’at-mosfera imponderabile che i Centoneri sfruttano facendotrovare un bambino dissanguato e accusando gli ebrei diaverlo assassinato per il sacrificio rituale. Lo scoppio dellaguerra mondiale ha dimostrato come le classi e i gruppi di-rigenti sappiano sfruttare queste ideologie apparentementeinnocue per determinare le ondate di opinione pubblica. Lacosa mi pare così sorprendente nel caso tuo, che mi parreb-be di non volerti bene se non cercassi di liberarti completa-mente da ogni preoccupazione della questione stessa. Cosavuoi dire con l’espressione «due mondi»? Che si tratta comedi due terre che non possono avvicinarsi ed entrare in co-municazione tra loro? Se non vuoi dire questo, e si tratta diuna espressione metaforica e relativa, essa ha poco signifi-cato, perché metaforicamente i «mondi» sono innumerevolifino a quello che si esprime nel proverbio contadino: «Mo-glie e buoi dei paesi tuoi». A quante società appartiene ogniindividuo? E ognuno di noi non fa continui sforzi per uni-ficare la propria concezione del mondo, in cui continuano asussistere frantumi eterogenei di mondi culturali fossiliz-zati? E non esiste un processo storico generale che tende aunificare continuamente tutto il genere umano? Noi due,scrivendoci, non scopriamo continuamente motivi di attritoe nello stesso tempo non troviamo o riusciamo a mettercid’accordo su certe quistioni? E ogni gruppo o partito, o set-ta o religione, non tende a creare un proprio «conformi-smo» (non inteso in senso gregario e passivo)? - Ciò che im-porta nella nostra quistione è che gli ebrei sono stati liberatidal ghetto solo dal 48 e sono rimasti nel ghetto o in ogni

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modo segregati dalla società europea per quasi due millennie non per loro volontà ma per imposizione esterna. Dal 48in poi il processo di assimilazione nei paesi occidentali èstato così rapido e profondo, da far pensare che solo la se-gregazione imposta ha impedito la loro completa assimila-zione nei vari paesi se fino alla Rivoluzione francese la reli-gione cristiana non fosse stata la «cultura statale» unica chedomandava appunto la segregazione degli ebrei religiosa-mente irriducibili (allora; ora no perché dall’ebraismo pas-sano al deismo puro e semplice o all’ateismo). In ogni caso,è da notare che molti caratteri che passano per essere do-vuti alla razza, sono invece dovuti alla vita dei ghetti impo-sta in forme diverse nei vari paesi, per cui un ebreo inglesenon ha quasi nulla di comune con un ebreo di Galizia. Gan-dhy oggi pare che rappresenti l’ideologia indù; ma gli indùhanno ridotto allo stato di paria i Dravida che prima abita-vano l’India, sono stati un popolo bellicoso e solo dopo l’in-vasione mongola e la conquista inglese, hanno potute espri-mere un uomo come Gandhy. Gli ebrei non hanno uno statoterritoriale, un’unità di lingua, di cultura, di vita economicada due millenni; come si potrebbe trovare un’aggressivitàecc. in loro? Ma anche gli arabi sono semiti, fratelli carnalidegli ebrei e hanno avuto il loro periodo di aggressività e ditentativo di impero mondiale. In quanto poi gli ebrei sonobanchieri e detentori di capitale finanziario, come si fa a di-re che essi non partecipino all’aggressività degli stati impe-rialisti?

12 ottobre 1931Carissima Tania, [...] La quistione delle razze fuori dell’an-tropologia e degli studi preistorici non mi interessa ... Iostesso non ho nessuna razza: mio padre è di origine albane-se recente (la famiglia scappò dall’Epiro dopo o durante leguerre del 1821 e si italianizzò rapidamente); mia nonna erauna Gonzalez e discendeva da qualche famiglia italo-spa-gnola dell’Italia meridionale (come ne rimasero tante dopola cessazione del dominio spagnolo); mia madre è sarda per

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il padre e per la madre e la Sardegna fu unita al Piemontesolo nel 1847 dopo essere stata un feudo personale e un pa-trimonio dei principi piemontesi, che la ebbero in cambiodella Sicilia che era troppo lontana e meno difendibile. Tut-tavia la mia cultura è italiana fondamentalmente e questo èil mio mondo: non mi sono mai accorto di essere dilaniatotra due mondi, sebbene ciò sia stato scritto nel «Giornaled’Italia» del marzo 1920, dove in un articolo di due colonnesi spiegava la mia attività politica a Torino, tra l’altro, conl’essere io sardo e non piemontese o siciliano ecc. L’essereoriundo albanese non fu messo in gioco perché anche Crispiera albanese, educato in un collegio albanese e che parlaval’albanese. D’altronde in Italia queste quistioni non sonomai state poste e nessuno in Liguria si spaventa se un mari-naio si porta al paese una moglie negra. Non vanno a toccar-la col dito insalivato per vedere se il nero va via né credonoche le lenzuola rimarranno tinte di nero. [...]

29 agosto 1932Carissima Tania, ecco il mio punto di vista: - Sono giunto aun punto tale che le mie forze di resistenza stanno per crol-lare completamente, non so con quali conseguenze. In que-sti giorni mi sento così male come non sono mai stato; dapiù di otto giorni non dormo più di tre quarti d’ora per not-te e intere notti non chiudo occhio. È certissimo che l’inson-nia forzata non determina essa alcuni mali specifici, li ag-grava però talmente e li accompagna con tali malesseri con-comitanti, che il complesso dell’esistenza diventa insoppor-tabile e qualunque via d’uscita, anche la più pericolosa e ac-cidentata diventa preferibile alla continuazione dello statopresente.

3 ottobre 1932Cara Tatiana, [...] Del resto non devi credere che io abbia in-tenzione di suicidarmi o di abbandonarmi, come un canemorto, al filo della corrente. Mi dirigo da me da molto tem-po e mi dirigevo da me già da bambino. Ho incominciato a

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lavorare da quando avevo 11 anni, guadagnando ben 9 lireal mese (ciò che del resto significava un chilo di pane al gior-no) per 10 ore di lavoro al giorno compresa la mattina delladomenica e me la passavo a smuovere registri che pesavanopiù di me e molte notti piangevo di nascosto perché mi do-leva tutto il corpo. Ho conosciuto quasi sempre solo l’aspet-to più brutale della vita e me la sono sempre cavata, bene omale. Neanche mia madre conosce tutta la mia vita e le tra-versie che ho passato: a lei ricordo qualche volta quella pic-cola parte che in prospettiva sembra ora piena di lietezza dispensieratezza. Adesso le addolciscono la vecchiaia perchéle fanno dimenticare le traversie ben più gravi e le amarezzeben più profonde che ella ha subito nello stesso tempo. Seella sapesse che io conosco tutto quello che conosco e chequegli avvenimenti mi hanno lasciato delle cicatrici, le avve-lenerei questi anni di vita in cui è bene che dimentichi e chevedendo la vita lieta dei nipotini che ha intorno confonda leprospettive e pensi realmente che le due epoche della suavita sono la stessa e una. [...]

2 gennaio 1933Carissima Tania, [...] ti assicuro che non ho aspettato lamezzanotte del 31 dicembre per aver l’impressione di en-trare nell’anno nuovo. L’anno vecchio non era precisamentepieno di ricordi piacevoli per me; è stato l’anno più bruttoche ho passato in carcere. Né l’anno nuovo si presentavacon prospettive allettanti. Se l’anno 32 è stato brutto mi pa-re che il 33 debba essere peggiore. Sono logorato e nellostesso tempo le gravezze vanno aumentando; il rapportotra le forze disponibili e lo sforzo da sostenere è ancorapeggiorato. Tuttavia non sono demoralizzato, anzi la miavolontà trae alimento proprio dal realismo con cui analizzogli elementi della mia esistenza e resistenza.

25 gennaio 1936Cara Julca, [...] Da dieci anni sono tagliato dal mondo (cheimpressione terribile ho provato in treno, dopo sei anni che

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non vedevo che gli stessi tetti, le stesse muraglie, le stessefacce torve, nel vedere che durante questo tempo il vastomondo aveva continuato ad esistere coi suoi prati, i suoi bo-schi, la gente comune, le frotte di ragazzi, certi alberi, certiorti, ma specialmente che impressione ho avuto nel vedermiallo specchio dopo tanto tempo: sono ritornato subito vici-no ai carabinieri). Non pensare che voglia commuoverti: vo-glio dire che dopo tanto tempo, dopo tanti avvenimenti, chein gran parte mi sono sfuggiti forse nello loro significato piùreale, dopo tanti anni di vita compressa, meschina, fasciatadi buio e di miserie grette, poter parlare con te da amico adamico, mi sarebbe molto utile. [...]

Dicembre 1936Cara Julca, [...] Sono molto contento dei figli e delle loro dueultime lettere. Julik è laconico, epigrafico. Non un aggettivoné un riempitivo: stile quasi telegrafico. Delio è molto diver-so. E tu, cara, come sei? Non riesco più a immaginarti bene,sebbene pensi sempre al passato. Mandami delle fotografie;sono poca cosa, ma aiutano. Quando ero a Ustica confinato,un beduino mi si era affezionato molto: era confinato anchelui; veniva a trovarmi, si sedeva, prendeva il caffè, mi rac-contava novelle del deserto e poi stava zitto per delle ore aguardarmi leggere o scrivere; invidiava le fotografie che ioavevo e diceva che sua moglie era così stupida che maiavrebbe pensato a mandargli la fotografia del figlio (non sa-peva neanche che i musulmani non possono ritrarre la sem-bianza umana e non era stupido). Tu non diventerai mica«la moglie del beduino»? Cara, ti abbraccio con grande te-nerezza. Antonio

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Concludendo la propria requisitoria l’accusa del tribunalefascista aveva chiesto una pena che impedisse “a questocervello di funzionare per venti anni”. Antonio Gramsci èmorto il 27 aprile 1937 ucciso dal carcere fascista, ma inquel carcere, in quei dieci anni di difficilissima sopravvi-

venza “quel cervello” ha funzionato come non mai, lascian-do all’intera cultura del pensiero subalterno mondiale unaeredità di idee che è ancora oggi difficile apprezzare nella

loro interezza, lucidità e persistente attualità.

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Quando discuti con un avversario, prova a metterti nei

suoi panni. Lo comprenderai meglio e forse finirai con

l’accorgerti che ha un po’, o molto, di ragione. Ho segui-

to per qualche tempo questo consiglio dei saggi. Ma i

panni dei miei avversari erano così sudici che ho con-

cluso: è meglio essere ingiusto qualche volta che prova-

re di nuovo questo schifo che fa svenire.

Antonio Gramsci