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168 n. 5 / 2015 i i l l g g r r a a n n e e l l l l o o d d i i s s e e n n a a p p e e "è il più piccolo di tutti i semi, ma, una volta cresciuto, è il più grande dei legumi e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e fa nno i nidi fra i suoi rami” (Mt 13,32) REDAZIONE: COMUNITÀ DI MAMBRE Str. S. Martino, 144 12022 BUSCA (CN) tel. 0171 943407 e-mail: [email protected] - c.c.p. n. 17678129 intestato a IL GRANELLO DI SENAPE - Registrazione del Tribunale di Cuneo n. 433 del 30/1/1990 - Spedizione in abbonamento postale comma 20/C art. 2 Legge 662/’96 art. n. 819/DC/DCI/CN del 6/4/2001 Filiale di Cuneo Editore: Associazione La Cascina Direttore Responsabile: Gianluigi Martini Ciclostilato in proprio: Associazione La Cascina, via S. Maurizio 72, S. Rocco Castagnaretta (CN). Rapporto Sbilanciamoci! 2016 Come usare la spesa pubblica per i diritti, la pace, l’ambiente Una manovra economica a saldo 0 da 35 miliardi di euro, 7 aree di analisi e intervento dal fisco al lavoro, dall’istruzione all’ambiente, dal welfare all’altraeconomia, passando per la cooperazione internazionale e 89 proposte concrete, praticabili e puntuali per garantire giustizia e sostenibilità all’Italia, elaborate dalle 47 organizzazioni aderenti alla Campagna Sbilanciamoci! Sono questi i numeri del XVII Rapporto Sbilanciamoci! “Come usare la spesa pubblica per i diritti, la pace, l’ambiente”, che come ogni anno esamina in dettaglio la Legge di Stabilità e i principali provvedimenti legislativi del Governo e delinea una manovra alternativa di Bilancio. La manovra del Governo Renzi: sbilanciata, ma dalla parte sbagliata Anche quest’anno, la Legge di Stabilità 2016 non cambia verso: è iniqua, di corto respiro e priva di una strategia adeguata a rilanciare l’economia del Paese, una brutta copia della Legge di Stabilità 2015. Come quella dell’anno scorso, è presentata come una manovra espansiva. Oggi come allora l’obiettivo del raggiungimento del pareggio di bilancio è posticipato di un anno, questa volta al 2018. Ma più che rinunciare all’austerità, il Governo si limita a rallentare il passo: il deficit programmato è del 2,6% per il 2015 e del 2,2 o del 2,4% per il 2016, dunque comunque inferiore al limite del 3% imposto da Bruxelles. Anche quest’anno, e qui la continuità con il passato si allunga di molto, il Governo sceglie come priorità la riduzione delle tasse, omettendo di dire che si tradurrà anche in un ulteriore taglio dei servizi pubblici. Alla redistribuzione del patrimonio e del reddito il Governo preferisce di fatto la redistribuzione delle diseguaglianze a vantaggio di chi si trova nelle posizioni più privilegiate: ricchi e imprese. Né le assunzioni di circa 1.520 “eccellenze” tra docenti e ricercatori e la previsione di sgravi contributivi per i neo-assunti nel 2016 risolveranno il problema della disoccupazione giovanile, ancora oggi al 40,5%. La contromanovra di Sbilanciamoci!: il buon uso della spesa pubblica La strada percorsa dal Governo Renzi è l’unica possibile e auspicabile? Sbilanciamoci! dimostra di no con le sue 89 proposte alternative. Ai circa 31,6 miliardi impiegati male della manovra del Governo, Sbilanciamoci! contrappone infatti una contromanovra di 35 miliardi di euro, le cui direttrici principali sono quelle che da sempre Notiziario di comunità e gruppi dicembre 2015

Il granello di senape 168 n.5/2015- Dicembre 2015

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REDAZIONE: COMUNITÀ DI MAMBRE – Str. S. Martino, 144 – 12022 BUSCA (CN) – tel. 0171 943407 – e-mail: [email protected] - c.c.p. n. 17678129 intestato a IL GRANELLO DI SENAPE - Registrazione del Tribunale di Cuneo n. 433 del 30/1/1990 - Spedizione in abbonamento postale comma 20/C art. 2 Legge 662/’96 art. n. 819/DC/DCI/CN del 6/4/2001 Filiale di Cuneo – Editore: Associazione La Cascina – Direttore Responsabile: Gianluigi Martini – Ciclostilato in proprio: Associazione La Cascina, via S. Maurizio 72, S. Rocco Castagnaretta (CN).

Rapporto Sbilanciamoci! 2016

Come usare la spesa pubblica per i diritti, la pace, l’ambiente Una manovra economica a saldo 0 da 35 miliardi di euro, 7 aree di analisi e intervento – dal fisco al lavoro, dall’istruzione all’ambiente, dal welfare all’altraeconomia, passando per la cooperazione internazionale – e 89 proposte concrete, praticabili e puntuali per garantire giustizia e sostenibilità all’Italia, elaborate dalle 47 organizzazioni aderenti alla Campagna Sbilanciamoci! Sono questi i numeri del XVII Rapporto Sbilanciamoci! “Come usare la spesa pubblica per i diritti, la pace, l’ambiente”, che come ogni anno esamina in dettaglio la Legge di Stabilità e i principali provvedimenti legislativi del Governo e delinea una manovra alternativa di Bilancio.

La manovra del Governo Renzi: sbilanciata, ma dalla parte sbagliata

Anche quest’anno, la Legge di Stabilità 2016 non cambia verso: è iniqua, di corto respiro e priva di una strategia adeguata a rilanciare l’economia del Paese, una brutta copia della Legge di Stabilità 2015. Come quella dell’anno scorso, è presentata come una manovra espansiva. Oggi come allora l’obiettivo del raggiungimento del pareggio di bilancio è posticipato di un anno, questa volta al 2018. Ma più che rinunciare all’austerità, il Governo si limita a rallentare il passo: il deficit programmato è del 2,6% per il 2015 e del 2,2 o del 2,4% per il 2016, dunque comunque inferiore al limite del 3% imposto da Bruxelles. Anche quest’anno, e qui la continuità con il passato si allunga di molto, il Governo sceglie come priorità la riduzione delle tasse, omettendo di dire che si tradurrà anche in un ulteriore taglio dei servizi pubblici. Alla redistribuzione del patrimonio e del reddito il Governo preferisce di fatto la redistribuzione delle diseguaglianze a vantaggio di chi si trova nelle posizioni più privilegiate: ricchi e imprese. Né le assunzioni di circa 1.520 “eccellenze” tra docenti e ricercatori e la previsione di sgravi contributivi per i neo-assunti nel 2016 risolveranno il problema della disoccupazione giovanile, ancora oggi al 40,5%.

La contromanovra di Sbilanciamoci!: il buon uso della spesa pubblica

La strada percorsa dal Governo Renzi è l’unica possibile e auspicabile? Sbilanciamoci! dimostra di no con le sue 89 proposte alternative. Ai circa 31,6 miliardi – impiegati male – della manovra del Governo, Sbilanciamoci! contrappone infatti una contromanovra di 35 miliardi di euro, le cui direttrici principali sono quelle che da sempre

Notiziario di comunità e gruppi – dicembre 2015

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n. 5 (168) – dicembre 2015 il granello di senape pag. 2

IL GRANELLO AI SUOI LETTORI

Per qualsiasi problema di invio di questo nostro periodico, vi preghiamo

gentilmente di rivolgervi ad uno dei due seguenti recapiti: Comunità di

Mambre (tel. 0171 943407, strada S. Martino 144 - 12022 Busca; e-mail:

[email protected]) oppure Associazione La Cascina (tel. 0171 492441,

c/o Cartoleria, via Demonte 15, San Rocco Castagnaretta - Cuneo, e-mail:

[email protected]).

Se il Granello vi interessa e vi fa piacere riceverlo, vi chiediamo di

contribuire, se vi è possibile, alle spese per la carta, la stampa e la

spedizione postale, con un contributo minimo di 10 euro, da versare sul

c.c.p. n. 17678129, intestato a Il granello di senape, oppure da consegnare a

mano alla Cascina o a qualcuno del gruppo redazionale (di Mambre, della

Bottega Passaparola, ecc.). Ci sono graditi e utili suggerimenti, critiche,

proposte (e magari anche apprezzamenti!).

“Il Granello di senape” è un notiziario di comunità e di gruppi. In partico-

lare vi collaborano stabilmente: Comunità di Mambre, Ass. Ariaperta, La Cascina,

Cooperativa Colibrì, Gruppo Oltre di Vernante, Libera, Orizzonti di pace,

Tavolo delle Associazioni. A questo numero hanno contribuito anche: “i Casci-notteri”, Nadia Benni, Alberto Bosi, Federica Bosi, Massimiliano Bosi, Michele

Brondino, Claudio Califano, Anna Cattaneo, Franco Chittolina, Gianfranco

Conforti, Amedeo Cottino, Sergio Dalmasso, Oreste Delfino, Cecilia Dematteis,

Beatrice Di Tullio, Renzo Dutto, Gianni Fabris, Claudia Filippi, Yvonne

Fracassetti, Angelo Fracchia, Gigi Garelli, Elisa Gondolo, Costanza Lerda,

Adriana Longoni, Leonardo Lucarini, Eva Maio, Paola Marigioli, Carlo

Masoero, Claudio Mondino, Sergio Parola, Gianfranco Peano, Piera Peano,

Grazia Quagliaroli, Paola Tonelli.

Questo numero è stato chiuso in redazione il 4 dicembre 2015.

INDICE DEL GRANELLO N. 168

Come usare la spesa pubblica…, SBILANCIAMOCI! 2016 pag. 1-2 Europa sotto assedio, FRANCO CHITTOLINA 3-4 Vittime innocenti, non solo a Parigi, CLAUDIA FILIPPI 5-6 Musulmani e europei …, Y. FRACASSETTI E M. BRONDINO 7-9 Una luce di speranza da due donne, A. LONGONI 10 Una chiesa in (faticoso) movimento, ANGELO FRACCHIA 11-12 Per chi suona il corno dell’ariete?, GIGI GARELLI 13-14 Giuseppe // Bibblando, ANGELO FRACCHIA 15-17 Per un’inversione di rotta sul clima, GIANFRANCO PEANO 18 I droni assassini, AMEDEO COTTINO 19-20 Lev Tolstoj (2), ALBERTO BOSI 21-25 Accogliere e accompagnare …, ELISA GONDOLO 26 Voci… dal Marocco, FEDERICA BOSI 27-28 Incontri di memorie, COSTANZA LERDA 29-30 Testimonianze dai territori palestinesi, NADIA BENNI 31-32 Israele: un paese malato, LUISA MORGANTINI 33-34 In ricordo di Luciano Gallino, RENZO DUTTO 35 Cambiare… per tornare al passato, C. MONDINO 36-38 Il tramonto di una utopia, PAOLA MARIGIOLI 39-40 L’attenzione per i giochi dei bambini, P. TONELLI 41 Mani buone… per l’Africa, LEONARDO LUCARINI 42 Il maestro dentro, BEATRICE DI TULLIO 43 Il cibo dai campi alla tavola, MASSIMILIANO BOSI 44 Un cammino davvero lungo, ORESTE DELFINO 45 Se son rose fioriranno, CARLO MASOERO 46 Bloccato riordino psichiatria territoriale, G. CONFORTI 47 Comperare equo e solidale…, COOP. COLIBRÌ 48 Le pagine della Cascina, I CASCINOTTERI 49-52

contraddistinguono l’approccio e i principi di riferimento della Campagna. Sul versante delle entrate: l’opzione per una riforma fiscale improntata all’equità e alla progressività e una spending review molto selettiva, finalizzata a ridurre o eliminare la spesa pubblica inutile e nociva, come quella militare. Sul versante delle uscite: un intervento pubblico forte in campo economico a sostegno della buona occupazione nei settori più dinamici e innovativi, della riduzione delle diseguaglianze di reddito, economiche e sociali; un riorientamento profondo della spesa pubblica a beneficio del servizio sanitario nazionale, dei servizi pubblici di assistenza sociale, dell’istruzione, della ricerca, della, cultura, della tutela dell’ambiente e delle forme e pratiche di altraeconomia. Con una novità: quest’anno anno si è deciso di optare più coraggiosamente rispetto al passato per l’introduzione di una forma strutturale di sostegno al reddito, rivolta a una platea di beneficiari di un milione e mezzo di persone. Sul sito “http://www.sbilanciamoci.org” si possono leggere le proposte in dettaglio o la scheda di sintesi del Rapporto 2016 su 1. Un fisco equo contro rendite, speculazione finanziaria e privilegi 2. Ripartire dal reddito e dalla buona occupazione 3. Rimettere al centro i saperi e rilanciare la cultura e l’istruzione pubblica 4. Lo sviluppo intelligente è ecologicamente sostenibile 5. Il welfare non è una merce, i diritti non sono un lusso 6. Ridurre la spesa militare e investire sulle politiche di pace e cooperazione 7. Sostenere e valorizzare l’economia sociale e solidale Per contatti e informazioni: Campagna Sbilanciamoci! c/o Associazione Lunaria via Buonarroti 39 • 00185 Roma 06 88 41 880 • [email protected] www.sbilanciamoci.org • http://controfinanziaria.sbilanciamoci.org

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n. 5 (168) – dicembre 2015 il granello di senape pag. 3

Europa sotto assedio

Bruxelles, capitale delle Istituzioni europee, nei giorni

scorsi è stata a lungo “sotto assedio”, metafora di un’Europa accerchiata e smarrita, vittima in parte incolpevole di aggressioni che hanno colpito i suoi

Paesi membri, la Francia, a gennaio e adesso, Madrid

nel 2004 – dove i morti furono più numerosi che a

Parigi – e a Londra nel 2005, senza dimenticare

l’attentato al volo 103 Pan Am, precipitato in Gran Bretagna, a Lockerbie, nel 1988.

Sono solo alcuni degli attentati terroristici di questi

ultimi anni, volendoci limitare a quelli realizzati sul

territorio europeo e sapendo che sono molto più

numerosi e più gravi quelli avvenuti nel resto del

mondo: per rimanere vicino a noi, in Tunisia, Egitto,

Turchia e i ripetuti massacri in molti Paesi dell’area mediorientale e in Africa, senza dimenticare l’attentato alle Torri gemelle di New York nel 2001.

Una rassegna completa di questi eventi tragici

relegherebbe l’Europa in fondo alla lista delle vittime, ma non al punto di ridurre il nostro smarrimento e le

nostre paure, sensibili come siamo ai drammi di casa

nostra e spesso indifferenti a quelli che avvengono

lontano da noi.

Limitiamoci dunque, almeno provvisoriamente, a

questa Europa, più precisamente a questa nostra

Unione Europea, piccola porzione del mondo, terra di

pace da oltre settant’anni al punto da ottenere il Nobel per la pace nel 2012, ma comunque coinvolta dalle

“guerre” del terrorismo e accerchiata da crescenti conflitti armati alle sue frontiere.

Questa Unione Europea, possiamo ancora considerarla

un’ “isola di pace”? Sicuramente non un’isola, stretta com’è nella morsa di un mondo globale, e nemmeno una realtà veramente

pacifica, visto le guerre che i suoi Paesi hanno

alimentato (si pensi in particolare alla Francia e alla

Gran Bretagna dell’epoca coloniale e ancora dopo), i molti conflitti combattuti con armi vendute dalle nostre

industrie e le nostre numerose partecipazioni a

missioni militari in nome di interventi umanitari

discutibili.

Non è quindi eccessivo dire che molti Paesi dell’UE sono, direttamente o indirettamente, in guerra o

responsabili di guerre in corso: alcune convenzionali e

altre “asimmetriche”, come quelle contro il terrorismo. Deve partire di qui una riflessione sulle prospettive di

pace per l’Europa e sul possibile ruolo dell’Unione Europea per salvaguardare la pace al suo interno e

promuoverla al di là delle sue frontiere.

Molte cose sono cambiate da quel 1950, quando prese

avvio l’attuale UE: le conseguenze di una terribile guerra appena conclusa aiutavano gli europei nella

ricerca di una soluzione politica per una pace duratura

nella quale coinvolgere Paesi fino allora belligeranti e

allargare la partecipazione a nuovi partner. Nel 1989 la

“grande occasione” fu quella della riunificazione dell’Europa e la fine della “guerra fredda”, con la prospettiva di incassare quelli che allora vennero

chiamati i “dividendi della pace”. Oggi ci rendiamo conto che si è trattato di una “grande

Buon Natale Questa è la prima cosa che possiamo imparare dal messaggio del Natale: l’assoluto rispetto di fronte alla vita di ogni essere umano, all’inesprimibile bellezza del suo essere e all’inimmaginabile vocazione che vorrebbe vivere in lui. A questo si aggiunge direttamente un secondo elemento: la scoperta della gratitudine per l’esistenza dell’altro. Ogni volta che amiamo un’altra persona al punto di essere grati a Dio per averla creata, ci immergiamo nuovamente nel miracolo di divenire esseri umani, nel miracolo della nostra redenzione … Se il messaggio del Natale dice il vero, noi cercheremo di consentire l’uno all’altro di vivere, e la ricerca di un rifugio avrà fine. Poiché il cuore di ogni essere umano è capace di diventare per l’anima di un altro la mangiatoia in cui questi può incarnarsi, prendere forma, vivere.

Eugen Drewermann Benoit Mercier

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n. 5 (168) – dicembre 2015 il granello di senape pag. 4

illusione” e non perché non ci fosse l’esigenza di un balzo in avanti dell’integrazione politica, ma perché più rapide ripresero il sopravvento le “sovranità nazionali”, ciascuna per intestarsi quei dividendi di tutti, investendo sulla competizione invece che sulla

cooperazione.

Un’opzione che non impedì di allargare lo spazio geografico dell’UE, ma che frenò le dinamiche di integrazione, al punto di avere oggi un’Unione con 28 Paesi che muovono spesso in ordine sparso, tutti pronti

a invocare in coro la pace, ma qualcuno anche a fare la

guerra a fianco di superpotenze, come gli USA e la

Russia.

Non sembra servire in congiunture come questa il “soft power” – il potere morbido di persuasione – dell’U-

nione Europea, in un mondo in preda al caos, che sente

solo le ragioni delle armi.

Torna così sul tavolo il tema delicato – e sempre

rinviato – di una capacità propria di difesa in capo

all’UE in quanto tale, anche per non delegare questa funzione alla sola NATO e agli USA, azionista di

maggioranza dell’Alleanza atlantica. La disperata ricerca di alleanze militari da parte di

François Hollande dopo la strage di Parigi illustra bene

queste contraddizioni. Il Presidente francese è stato

tiepido con la NATO, anche perché preoccupato di non

perdere il sostegno della Russia, dopo aver invocato

senza troppe speranze la “clausola di solidarietà” prevista dall’art. 42.7 del Trattato di Lisbona. E così Hollande ha cercato accordi bilaterali con Obama,

Putin e Cameron, suoi colleghi nel Consiglio di

sicurezza dell’ONU, tutti dotati di importanti capacità militari, anche se non tutti disposti a mettere “gli stivali a terra”, almeno per il momento. Grande assente in questa disperata ricerca di alleanze

l’Unione Europea: non stupisce, viste le sue mancate

competenze in materia di politica estera e di sicurezza,

anche per le responsabilità della Francia che, a più

riprese, si è opposta a questa “delega di sovranità”, ai suoi occhi inaccettabile. E adesso non le resta che cerca-

re alleanze bilaterali, tentando di mettere insieme Stati

Uniti e Russia, nonostante gli interessi divergenti che

queste due potenze perseguono nell’area mediorientale. Tutto questo dando per acquisito che la Gran Bretagna

troverà il modo per affiancare la Francia negli

interventi militari in una zona che storicamente le ha

viste attive entrambe, fin da quando disegnarono col

righello i confini di quelle regioni proprio cent’anni fa: un’occasione che potrebbe ripresentarsi di nuovo, quando si dovessero ridisegnare le mappe della regione

e dar vita a nuovi Stati nella devastata area

mediorientale.

Una prospettiva questa che può aiutare a capire il ruolo

determinante a cui punta nella regione la Turchia,

membro importante della NATO e Paese con un

negoziato di adesione in corso con l’UE. Questi due

legami non impediscono al neo-sultano turco Recep

Erdogan di sviluppare al proprio interno un regime

autoritario e, verso l’esterno, politiche di “media potenza locale”, con ambizioni sui territori dei Paesi circostanti in progressivo disfacimento, almeno per

non consentire che, con l’occasione, prenda forma uno Stato curdo inevitabilmente ostile. Se poi a questo si

aggiungono le ambiguità di Erdogan nella sua battaglia

al terrorismo del cosiddetto Stato islamico, fin qui più

sostenuto che contrastato, si ha un’idea di quanto si sia complicata in questi anni la situazione politica e

militare nella regione e quanto sia difficile, se non

impossibile, per l’Unione Europea giocare un ruolo importante nella soluzione delle diverse crisi che vi si

intrecciano.

L’urgenza della situazione e i rischi di un’esplosione di conflitti armati, cresciuti di intensità dopo l’abbat-timento del caccia russo da parte dell’aviazione turca nello spazio aereo al confine tra Turchia e Siria,

impongono almeno intese-tampone per dare il tempo

alla diplomazia di fare il suo lavoro e all’UE di riconsiderare il suo atteggiamento nei confronti di

Russia e Turchia, nell’attesa che si faccia strada una nuova strategia condivisa in materia di politica estera e

di sicurezza comune, senza la quale non

esistono soluzioni durature per il

Medioriente e, forse, nemmeno

prospettive di sopravvivenza per l’Unione Europea.

Franco Chittolina

Tutte, o quasi, le immagini di questo n. del Granello rispondono ad un solo criterio di scelta: non, come di solito, un bravo vignettista o disegnatore da far conoscere e ammirare ai nostri lettori, ma la bellezza del contrasto bianco/nero nel disegno, nella foto, nella grafica. I nostri mezzi di stampa non ci permettono il colore e danno scarsi risultati nelle sfumature; il bianco e nero molto contrastato invece può anche risultare bene. Abbiamo arraffato le immagini dal web; ci scusino gli autori che non abbiamo neppure citati.

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n. 5 (168) – dicembre 2015 il granello di senape pag. 5

Vittime innocenti, non solo a Parigi L’Europa che si gioca l’anima tra terrorismo e austerità

Era il 7 gennaio 2015, quando Lilà, il cocker di uno dei vignettisti di Charlie Hebdo, il settimanale satirico francese, zampettava impaurita nel sangue dei suoi amici umani, massacrati dall’attentato terrorista che ha sterminato la redazione del giornale. Si dice miracolosamente sopravissuta alla strage, forse perché chi sparava lo faceva per uccidere persone, quindi a un’altezza che le ha risparmiato la vita. Adesso è diventata la mascotte della nuova redazione e porta un collare con la scritta Charlie. C’è stato un altro cane nella nuova strage di Parigi del 13 novembre, soltanto 10 mesi dopo. Ma non è stato così fortunato, anzi fortunata. Si chiamava Diesel, una splendida femmina di pastore belga, addestrata per ricognizione e ricerca di esplosivi. Il 18 novembre entra in un appartamento di Saint-Denis, dove sono nascosti dei sospetti terroristi, precedendo i suoi colleghi poliziotti, per fare il suo lavoro. Appena entra, le sparano, la feriscono a morte, e lei si trascina verso il suo padrone/collega, per andare a morire in braccio a lui.

Due piccole storie di animali, sullo scenario di tragedie costate la vita a tante persone innocenti, che hanno sconvolto per sempre, nel crudele domino del dolore, la vita di chi le amava, o le frequentava, o lavorava con loro, o le incrociava per le scale e per strada, cosa possono rappresentare, cosa contano? Perché ne parliamo, perché le ricordiamo? Forse è perché ci comunicano con immediatezza, in modo elementare, il senso aberrante di gesti di morte inconsulti che irrompono nel quotidiano e lo stravolgono, che potrebbero entrare nel quotidiano di ciascuno di noi, in qualunque momento della vita di tutti i giorni. Il cancro del terrorismo semina le sue cellule impazzite, genera metastasi letali che possono manifestarsi a sorpresa, ovunque e in qualunque momento.

Una cena al ristorante, una birra o un caffè con gli amici bastano per morire; arriva qualcuno con il kalashnikov e spara all’altezza dei tavoli, così è sicuro di uccidere più persone possibile. Una serata di musica in un locale storico si trasforma in una carneficina, dove non basta arrendersi e stendersi sul pavimento, perché ti sparano dall’alto in basso, come in un’esecu-zione, mentre una donna incinta disperata si aggrappa a una finestra per salvare due vite. Di questo si tratta, esecuzioni di massa per eliminare un nemico indegno di vivere, solo per il fatto che vive in un modo diverso, ha altre abitudini, mangia cose diverse, si veste in modo diverso, prega e crede in maniera diversa. Semplice, no? Terroristi brutali e disumani che

attentano alla nostra libertà, alla nostra società occidentale, al nostro stile di vita, ci chiudono in una gabbia di paura, sospetto, insicurezza, per rovinarci la vita e poi distruggerci. Scontro di civiltà, guerra di religione, “noi e loro”. Loro organizzano attentati e noi bombardiamo. Loro sono spietati e noi lo saremo di più. Molto semplice. Elementare, come direbbe Sherlock Holmes.

E allora perché non funziona? Perché non abbiamo vinto? Sono anni che percorriamo questa strada; in risposta all’11 settembre 2001 abbiamo devastato l’Afghanistan, poi l’Iraq, la Libia, la Siria. La Palestina è da tanto tempo un mattatoio a cielo aperto. Il Mediterraneo è un’immensa tomba d’acqua. Tutte le frontiere di migrazione sono disseminate di cimiteri. Abbiamo inventato armi sempre più sofisticate e bombe “intelligenti”, giustiziato tiranni e sceicchi del terrore, imprigionato e torturato centinaia di terroristi o sospettati tali (il che dovrebbe fare una certa

differenza) in carceri-lager, decimato intere popolazioni. Perché anche noi spariamo nel mucchio, e muoiono uomini, donne, bambini, vecchi: civili innocenti. Come quelli di Parigi. E se piangere e sentirsi più coinvolti per le vittime che ci sono vicine, che vivono nella nostra fetta di mondo, è normale, rientra nella sensibilità comune, come ha detto Massimo Gramellini, è un atteggiamento umanissimo e giustificato, non lo è più tanto quando consideriamo di serie B le vittime lontane, le centinaia di migliaia di morti che la guerra mondiale permanente in atto, a pezzi - come l’ha definita Papa Francesco - semina ovunque, tutti i giorni. Quando siamo indifferenti alle morti per fame, malattie, migrazione; alle catastrofi ambientali provocate dai cambiamenti climatici, dalle guerre per le risorse naturali, dall’oppressione e dalla deprivazione, dall’avidità e dal profitto di pochi potenti privilegiati, per i quali le nostre vite, tutte, che siano del primo, secondo, terzo mondo, valgono meno di uno spillo, come recita Gordon Gekko, il feroce super finanziere, protagonista di Wall Street, il famoso film del regista americano Oliver Stone.

Un giornale nazionale, che ha sempre titoli d’effetto, ha ridefinito “fiscal combat”. il “fiscal compact”. Che cos’è il fiscal compact ? È l’accordo europeo, firmato nel 2012, che prevede una serie di norme comuni e vincoli di natura economica, che hanno come obiettivo il contenimento del debito pubblico nazionale di ciascun paese; sostanzialmente è diventato sinonimo di austerità. Ed ecco che il presidente della

non perdiamoci di vista…

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n. 5 (168) – dicembre 2015 il granello di senape pag. 6

Dall’altra parte Dall’altra parte di me oltre il luogo rimango e il silenzio della casa tocca l’infinito mentre il tempo a gocce a gocce passa senza rumori Dall’altra parte

Commissione Europea, a tre giorni dall’attentato di Parigi, ha aperto i cordoni del fiscal compact: “I soldi spesi per la sicurezza e la difesa non saranno consi-derati nella valutazione sui limiti del deficit”. In nome della difesa e della sicurezza, i soldi per fare altre guerre, per nuovi traffici di Stato di armi, per milita-rizzare i territori, per nuove avventure militari con ul-teriori cosiddetti effetti collaterali che tanto odio semi-nano, ci sono e vanno messi liberamente in bilancio. Si tratta di quello stesso patto d’acciaio che ha bloccato e blocca ogni espansione della spesa pubblica, azione ineludibile e necessaria per i governi di fronte al disastro sociale provocato dalla crisi economica del modello di sviluppo nel quale viviamo, obbligando fin qui ogni Paese a restare dentro le logiche dei mercati e della finanza internazionale. È un cappio al collo per ogni governo e un handicap sui valori fondanti dell’Unione Europea. E’ stato l’arma di distruzione di massa che ha ridotto in ginocchio la Grecia, che pende come una spada di Damocle sulla testa di tutti i Paesi a rischio sforamento del debito pubblico, Italia in primis.

Si sta avvicinando il primo anniversario della strage di Charlie Hebdo, e risentiremo le solite solfe moralisti-che e ipocrite del politicamente corretto: in fondo se la

sono cercata, potendo aggiungere oggi che invece

quelle del 13 novembre, sì che sono vittime “inno-centi”… anche qui vittime di qualche gradino sotto o so-pra, più o meno rispettabili e meritevoli di compassione.

Il terrorismo è una sciagura planetaria; la libertà di movimento, di espressione, di stile di vita è sacra e incontestabile, un’affermazione assoluta e primaria di democrazia. Ma non quando lo stile di vita rivendicato è quello non negoziabile di George Bush e della sua banda di super ricchi guerrafondai. Quello stile di vita è esattamente responsabile delle attuali catastrofi, fondato su un delirio di onnipotenza che dà tutti i privilegi a un’élite di vampiri; sottomissione, miseria, guerra e disperazione alla parte più numerosa degli abitanti del pianeta. L’Occidente ha armato e continua

ad armare chiunque possa pagare l’adeguato prezzo di mercato per armi leggere e pesanti, con un commercio illegale o legale che sia. Il risultato non cambia. Eravamo davvero convinti che non ci sarebbe stato un prezzo, ben più alto e tragico, da pagare? A chi sapeva, non importava, come non importano mai le conseguenze dello strapotere e del profitto; chi non sapeva, o non voleva sapere, ha chiuso gli occhi e messo la testa sotto la sabbia in attesa che la tempesta passasse, convinto che riguardasse solo gli altri, e non sarebbe mai arrivata in casa. Ma non è così.

Nel finale del saggio “È l’economia che cambia il mondo. Quando la disuguaglianza mette a rischio il nostro futuro” (Rizzoli Ed.,2015) di Yanis Varoufakis - economista, docente universitario, ex ministro delle finanze del governo Tsipras in Grecia, strenuo oppositore delle politiche di austerità - si trova un’originale metafora della nostra attuale situazione, che prende spunto dal film Matrix, un film di fantascienza diventato, come si dice, un cult. Gli esseri umani sono ridotti a bozzoli informi, pieni di aghi e tubi, in alimentazione forzata, per produrre l’energia che necessita alle macchine, che ormai possiedono e governano il mondo. Matrix è la falsa realtà che le macchine stesse hanno inserito nel cervello degli uomini per illuderli di vivere una vita normale. Ma c’è una resistenza segreta che ha scoperto l’inganno e si batte per risvegliare l’umanità. I ribelli sono entrati in possesso di qualcosa che consente una scelta. È una pillola: verde per la non-vita e continuare a sognare, rossa per risvegliarsi dalla realtà virtuale che rende schiavi inconsapevoli. Questa seconda scelta offre la libertà, la vita vera, la consapevolezza di se stessi e degli altri, ma anche e inevitabilmente sofferenze, pericoli, lotta, un alto rischio di essere catturati e uccisi. Varoufakis consiglia alla figlia, alla quale il libro è dedicato, di scegliere la pillola rossa. E noi, cosa vogliamo fare?

Claudia Filippi

La mia testa La mia testa posata sul cuscino affonda come un contatto di persone nell’ombra Silenzi c.c.

Le mie ciglia Le mie ciglia sbattono emettono un minuscolo suono nel silenzio della umana indifferenza Le mie ciglia

Abbandonato alla vita Abbandonato alla vita posso ignorarmi posso dormire Attraverso il sonno nell’oscuro mentre l’alba riappare Abbandonato alla vita

Sembra moderno Sembra moderno tutto ciò

Sembra antico tutto ciò

Occulto con un senso di diverso da quello che risplende

Antico e moderno si confondono nella realtà

Sembra antico

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Musulmani e europei allo specchio

Di fronte alla tragedia del 13 novembre a Parigi e dopo la valanga di immagini, emozioni e rabbia venuta ad aggiungersi alla visione binaria del mondo, che fa crescere l’odio da ambo le parti dall’11 settembre 2001, esaltando gli animi in una spirale di violenza senza fine, vorremmo cercare di andare alle radici di questo male che lacera il Mediterraneo e il Medio Oriente. Le radici sono tante, complesse, e la cosa peggiore è proprio semplificare. Semplificare significa eliminare la complessa sedimentazione dei meccanismi e delle cause che hanno portato nel tempo alla drammatica situazione di oggi. Pensiamo si debba fare un passo indietro, non lasciare ai nostri figli una lettura fatta solo di immagini e di emozioni; tornare all’analisi, all’epistemologia, alla ragione, che sono il punto forte della cultura europea e occidentale. Torniamo ai valori europei che hanno fatto spiccare il volo all’Occidente e che ci separano nettamente dal mondo arabo-musulmano. Per capire il perché e la dimensione di questa frattura tra due mondi che sembrano refrattari, ci affidiamo alla voce di alcuni intellettuali musulmani (alcuni dei quali incontrati di recente a Tunisi) che hanno investito molta energia e convinzione nella necessità di fare uscire il mondo arabo-musulmano dal suo enorme ritardo, in particolare due voci che riteniamo importantissime e complementari. La prima voce è quella di Abdelwahab Meddeb un grande pensatore e filosofo appena scomparso, purtroppo, ma la cui voce è vivissima nel dibattito in corso (Malattia dell’Islam, Feltrinelli, 2003); la seconda è quella di Faouzia Farida Charfi, docente di fisica all’università di Tunisi (La

science voilée, Tunisi, 2015), ambedue decisi “a far pulizia davanti a casa loro”, a smettere di alimentare il senso di vittimismo che schiaccia i loro paesi, a far crescere nei loro compatrioti un grande senso di responsabilità per costruire un futuro diverso.

La malattia dell’Islam

“Davanti a casa loro”, cosa trovano nella loro storia, nel loro patrimonio culturale? Trovano sette secoli di una civiltà araba brillante (IX-XVI) improvvisamente decaduta mentre l’Europa spiccava il volo con il Rinascimento e le scienze moderne. Quando si parla di una civiltà araba brillante, non si pensa solo al ruolo di intermediario e di trasmettitore del sapere dai Greci a noi, come abbiamo l’abitudine di dire, ma di una reale cultura d’avanguardia, sia a livello filosofico con Averroè, che già aveva elaborato un’autonomia tra religione e politica, sia a livello scientifico con i grandi maestri dell’algebra, dell’ottica, dell’astronomia, della geografia, ecc. Dal XVI secolo questo fiorire della scienza scompare, la scienza abbandona le università, la religione riprende il sopravvento, il progresso si sviluppa

altrove, in Italia, sulla riva Nord del Mediterraneo. Ci è mancato Copernico e dopo di lui Galileo - dice F. Charfi - ci è mancato G. Bruno, bruciato vivo in Campo dei Fiori a Roma nel 1600 per non aver voluto abiurare il suo pensiero che, come quello di Galileo, emancipava la scienza dai dogmi religiosi, affermava che per capire l’universo occorre utilizzare il linguaggio della matematica, non quello delle Sacre Scritture. Davanti all’Inquisizione Galileo abiura, ma scrive Il Saggiatore. Ci ha colpiti che una fisica tunisina, oggi, citi nelle sue riflessioni Ludovico Geymonat, (il filosofo della scienza, originario di Barge) il quale, del Saggiatore, dice: “Il Saggiatore è un’opera di propaganda culturale affascinante, un’opera di rottura con i vecchi metodi, un invito a non accontentarsi delle antiche spiegazioni che ci sono state trasmesse dalla tradizione, ma sempre a cercarne nuove, coraggiosamente e senza debolezze”. Alla cultura e alla scienza araba è mancata la liberazione dal dogma, il senso dell’innovazione, lo spirito critico, che hanno permesso all’Europa, poi a tutto l’Occidente, con Newton, Kepler, Einstein, di garantire lo sviluppo della scienza, dando priorità alla metodologia sul dogma. E’ stato difficile anche per noi, ci abbiamo messo secoli, con guerre di religione e quant’altro, ma siamo riusciti con i Lumi ad imporre e allargare il metodo scientifico, il regno della ragione alla vita sociale e politica gettando le basi della democrazia dopo la Rivoluzione Francese. Questo percorso ha permesso “alla civiltà europea di spiccare il volo” (parole di Meddeb), di staccarsi netta-mente dalle altre (quella cinese, indiana…) per cui si può parlare di europeizzazione del mondo, di una vera rivoluzione del pensiero, data da un sistema di valori, i così detti valori universali - liberté, égalité, fraternité - adottati (con le relative curvature) dalle altre civiltà (Giappone, Asia…); mentre purtroppo questa rivoluzione è rimasta un mito, un faro per il mondo arabo che questo passo non l’ha ancora compiuto. E le conseguenze sul mondo arabo sono pesanti. A livello scientifico, il ritardo è enorme (nessun arabo fra i Nobel, tranne se emigrati in Occidente, nessun brevetto). A livello politico, se l’unica sovranità riconosciuta è quella divina, soltanto il Califfato è ammesso perché applica la legge di dio, e la democrazia, legge degli uomini, è ostacolata. Certo, il califfato è stato abolito nel 1923 e oggi la maggior parte dei sistemi politici del mondo arabo-musulmano sono repubbliche, ma quasi tutte le costituzioni affermano che la sharia, cioè la legge di Dio, è il fondamento del diritto (tranne la Tunisia, bersaglio del terrorismo, questo piccolo paese coraggioso nel portar avanti la sua modernità e che paga per questo un prezzo altissimo).

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La consapevolezza di questo declino, di questo essere rimasti alla periferia dello sviluppo, esclusi dalla creatività e l’orgoglio di appartenere a una civiltà una volta dominante, ha fatto maturare nei musulmani “la ferita di un soggetto islamico sconsolato dalla sua destituzione“ e fa del musulmano frustrato ed emarginato “un candidato alla vendetta, disponibile per ogni reazione violenta, compreso il sacrificio di sé” (Meddeb). Davanti a questo declino, il musulmano è smarrito, diventa l’uomo del risentimento che ha accesso certo alla tecnica, alla modernizzazione, ma non ne è l’inventore, non ne è l’attore, ne è soltanto il consumatore passivo. Davanti all’Occidente trionfante, non c’è altro da brandire se non una fantomatica e fanatica identità religiosa, assoluta e superiore.

Le sfide e la crisi dell’Europa dei valori

Ma questo rapporto Occidente/Mondo arabo-musulmano, che è un rapporto di odio/amore, ha ancora altre radici. L’Europa ha dovuto confrontarsi con tante sfide che hanno messo a dura prova i suoi valori, per primo quello della giustizia. La prima è sicuramente la colonizzazione a partire dall’800 e nel primo ‘900. Non tanto come fenomeno di espansione di un’Europa in pieno sviluppo industriale, quanto come incapacità di diffondere e applicare i suoi valori ai paesi conquistati. I valori della Repubblica – Liberté, Egalité, Fraternité – che pure sono germogliati nei paesi colonizzati, aprendoli alla modernità, sono stati quasi ovunque traditi: i benefici di questi valori, in particolare quelli derivanti dall’uguaglianza, erano riservati ai cittadini europei e non furono mai estesi ai popoli colonizzati. L’idea di uguaglianza universale è negata dal colonialismo. E’ il fallimento della “missione civilizzatrice” delle potenze coloniali in nome della modernità. E’ l’inizio della diffidenza da parte dei colonizzati inquadrati dal sistema dei valori repubblicani, ma esclusi dai suoi benefici. Ricordiamoci sempre che l’asse portante della modernità occidentale è l’individuo, i suoi diritti, la sua dignità, l’individuo attore del proprio destino in quanto cittadino. Se si dimentica questo, non si capisce nemmeno la crisi di oggi. Ebbene, proprio questo asse centrale viene messo in pericolo con la globalizzazione dell’economia, seconda sfida, in pieno svolgimento, per la credibilità del sistema Occidente. Perché? La globalizzazione dell’economia ha portato profondi mutamenti, il primo dei quali è il passaggio dal capitalismo produttivo al capitalismo finanziario che ha cancellato la centralità dell’individuo; ne consegue il fatto che la ricchezza di un paese non dipende più dalla sua produzione, ma dai profitti della finanza; che il lavoro non sia più la prima fonte di ricchezza; che l’individuo, come soggetto attivo nella società abbia perso il suo peso. Il suo peso è diventato quello di un consumatore passivo. Per questa ragione, oggi, sarebbe più giusto parlare di americanizzazione anziché di

europeizzazione. In che senso? Nel senso che il motore non è più costituito da un sistema di valori, dal concetto dell’individuo attivo, come è stato per la costruzione del cittadino europeo; ora, al centro, c’è l’economia = profitto e quindi una massa di consu-matori. Meddeb lo dice bene: l’europeizzazione del mondo richiedeva un’adesione ai valori della modernità, l’americanizzazione salta questo passaggio, basta aderire ad uno stile di vita consumistico senza interrogare l’anima. E dà un esempio chiaro: la facilità con cui l’Arabia Saudita adotta lo stile di vita degli USA (urbanistica, organizzazione dello spazio, tecnologia, …) senza aver bisogno di interrogare il proprio animo; americanizzarsi tecnicamente rimanen-do nell’arcaismo mentale e sociale. Il mondo islamico passa direttamente alla tecnica, salta la tappa fondamentale del ripensamento e dell’invenzione. Parallelamente, la facilità con cui gli USA possono fare dell’Arabia Saudita - il peggiore degli stati teocratici - il loro miglior alleato, senza remore di carattere morale, senza porre la condizione del rispetto dei diritti umani. Diciamo che di fronte a queste due grandi sfide, la colonizzazione e la globalizzazione, i valori della cultura occidentale sono usciti molto calpestati.

Serve una rivoluzione culturale

La voce degli intellettuali che abbiamo sentito, esclude che si possa attribuire esclusivamente la responsabilità all’Occidente, anche tenendo conto della colonizza-zione. Il problema è nostro, dice Meddeb, è radicato nella mancata evoluzione delle nostre società: se siamo stati colonizzati è perché eravamo indeboliti quindi colonizzabili. Meddeb indica la spiegazione nella storia dei paesi arabo-islamici, nella loro difficoltà a superare il blocco politico-religioso quando la parola di Dio resta sovrana e all’uomo non è consentito che rispettarla, senza innovare, senza interpretarla per adattarla alla realtà storica, senza esegesi del Corano. Allora - dicono questi intellettuali musulmani - siamo noi gli autori del nostro proprio declino e anche se l’Occidente sfrutta in modo impietoso questo nostro limite, solo da noi può venire la rinascita. A noi tocca fare evolvere masse tradizionaliste, scarsamente alfabetizzate. Ecco le parole di Samy Ghorbal, un giovane analista tunisino, militante della modernità che si chiede come mai la Tunisia esporta oltre 3000 candidati jihadisti in Siria. La scuola è il primo baluardo contro l’oscu-rantismo, dice (cfr. Tunisie: l’école premier rempart contre l’obscurantisme, in Jeune Afrique del 13-4-2015): “Il male non è unicamente sociale, è culturale. Si ha tendenza a dare tutta la colpa ad una interpretazione letterale della religione. La scusa è insufficiente. Bisogna anche aver il coraggio di incri-minare la scuola che ha per missione quella di formare e svegliare le coscienze … La scuola non è stata capa-ce di promuovere una morale umanista, secolarizzata e separata dalla religione, che costituisce il migliore

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Le pietre non accadono Nate da sempre, senza accadere accade che diventino altro. Non camminano, ma precipitano. Non cambiano, ma divengono. Non parlano, ma risuonano. Dentro i monoliti marmorei, già statue. Già tarsie, facciate, ponti, loggiati, castelli, torri. Muraglie. Lontana esplosione di forza, eterna manifestazione di bellezza.

Nulla di più duro, eppure, si forano per una stilla, si scindono in ghiaie, si polverizzano in sabbie. Nulla di più statico, eppure, s'intrecciano di minerali diversi, si tessono di trame e orditi preziosi, si ornano di licheni.

Ammantano i contorni con una coltre quasi morbida, che si dispiega in eleganti drappeggi, appesi alle scogliere e ai dirupi Disegnano le colline con arabeschi e spirali imprimendo ricami perfetti, sezioni auree primordiali. Danzano con piroette e venature sinuose al ritmo di una musica che asseconda gli umori delle viscere. Galleggiano senza nocchiero su placche massicce, sotto il gonfio fluttuare degli oceani, nel magma ribollente e denso, sino alla deriva dei continenti, oltre la rocca della Gibilterra del mondo dove finalmente si arenano anche le grosse navi del sapere.

Se piccole, se tonde, se lanciate da una fionda, sono capaci di sconfiggere Golia. Proiettili precisi. La propria forza ceduta a chi le usa, per il modo in cui le usa, a favor suo, sebbene contro un altro. La propria inerzia scagliata energicamente verso il nemico per sfogare l'odio, per dare inizio a certe guerre sante. Ma sante perché? Il proprio vigore e la potenza gettati a casaccio, con violenza, fuscelli trascinati nell'occhio del ciclone a distribuire distruzione. Frane, smottamenti, sfasciumi. Deserto. Morte.

Intelligenti come la mano che le raccoglie e le colleziona, gioiose e frizzanti come il bimbo che le fa rimbalzare sullo specchio del lago, vendicative come le Erinni furiose, le pietre raccontano l'esigenza radicale del mutamento necessario, catturano via via la forma che lo attraversa, suggellano la corsa, immobile, del tempo. Come campane roche battono in rintocchi smorzati e sordi e l'eco risponde nel silenzio della landa. Così l'intrinseca armonia scrive, anzi, scolpisce la sostanza delle cose, l'anima della terra. Trasparente e leggera traccia di materia sulla materia, per disvelare il vero che vi è nascosto.

Tanne Durante

La poesia è inserita nel catalogo della mostra-manifestazione “Non sono grigie le pietre”, tenutasi nei giorni di sabato 21 e domenica 22 novembre presso la sala dell'Antico Palazzo Comunale di Saluzzo con straordinaria partecipazione anche emotiva di pubblico, in cui sono state esposte 57 opere di pittori, scultori, fotografi e grafici donate per un atto di solidarietà verso il Nepal colpito dal terremoto dello scorso anno (i fondi raccolti serviranno per una scuola e borse di studio per studenti). L’iniziativa è il primo atto dell’Associazione Cecy-onlus da poco costituita per ricordare - attraverso progetti di solidarietà e di sensibilizzazione sociale rivolti soprattutto ai giovani - Cecilia Craveri, studente di Geologia ed appassionata di montagna,

scomparsa improvvisamente il 1° settembre all'età di vent’anni.

baluardo contro la violenza settaria”. A noi musulmani, concludono i nostri interlo-cutori arabo-musulmani, tocca recuperare i giovani frustrati, facilmente mani-polati dalla radicalizzazione della religione e da illusori sogni di grandezza ritrovata, i giovani che scelgono l’emi-grazione o il terrorismo. A noi europei, invece, tocca interrogarci sulla margina-lizzazione dei giovani delle banlieues, nati e scolarizzati in Europa, ma non integrati socialmente. Il senso di responsabilità sta crescendo: ecco cosa scrive, dopo i tragici fatti di Parigi, Ben Raies, un altro univer-sitario tunisino: “Non velia-moci la faccia, guardiamo le nostre responsabilità. Siamo musulmani e diciamo che questi atti non hanno nulla a che fare con la religione per esonerarci da questa respon-sabilità culturale, mentre noi non parliamo sufficientemente dell’Islam ai nostri figli. È un argomento tabù, quasi ovun-que”. La seconda ragione, profon-da, (già esplicitata sulle colonne del Granello, n. 4 del 2014) che costituisce un terreno fertile per il fonda-mentalismo e che il sedi-cente Stato Islamico sfrutta con lucidità e crudeltà, è la diffidenza, la frustrazione provocata dalla geopolitica mondiale, dalle incoerenze e dalle ambiguità dell’Oc-cidente che non vuole met-tere giù le mani dal Vicino e Medio Oriente per i suoi interessi economici e politi-ci, e dalla mancata com-prensione che a ridisegnare la mappa della regione debbano essere i paesi più inclini alla democrazia e alla modernità, non quelli reazionari con cui si fanno gli affari migliori.

Yvonne Fracassetti

e Michele Brondino

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Una luce di speranza da due donne Non è facile di questi tempi distogliere l’attenzione da un’attualità così nera, completamente assorbita dagli attacchi terroristici in Europa e a sud del Mediterraneo, da quei venti di guerra che soffiano in tutte le direzioni sul Medioriente e richiamano nuovamente interventi militari internazionali con obiettivi incompatibili o contradditori fra loro. La paura e l’inquietudine per gli effetti imprevedibili che questa situazione così incerta può provocare per il futuro della pace e della stabilità occupano quasi completamente gli animi di tutti e, comprensibilmente, lo spazio per accogliere notizie di speranza, piccole o grandi che siano, si riduce sempre più. Eppure è necessario fare spazio, tanto spazio, anche a queste realtà, non solo per l’esempio che rappresentano ma anche per rafforzare l’intima convinzione di ognuno che, con la partecipazione di tutti, può vincere la pace. A questo proposito è importante mettere in evidenza il profilo di due donne che, sebbene molto diverse fra loro, portano avanti un impegno politico, umanamente molto costoso, in nome della libertà e della democrazia, dei diritti fondamentali e del dialogo, in nome della pace fra i popoli. Il primo pensiero va ad una donna di cui conosciamo da anni e anni l’impegno per la lotta in favore dei diritti del popolo birmano e per i diritti dell’Uomo in generale, Aung San Suu Kyi. Una donna esile ma di solido coraggio, che non ha esitato ad affrontare più di 15 anni fra prigione e arresti domiciliari, lontana dai suoi figli e dagli affetti più cari in nome della libertà del suo Paese, la Birmania appunto, da anni nelle mani di una spietata dittatura militare. Verso la fine degli anni Novanta, Aung crea la Lega nazionale per la democrazia, un Partito che ha avuto vita estremamente difficile ma che, nelle recenti elezioni dell’8 novembre scorso, ha vinto contro i militari, raggiungendo un risultato di più del 70% dei voti in suo favore. Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace nel 1991, con il sostegno di tantissime altre donne, oggi ha vinto la sua guerra e si appresta a diventare Primo Ministro nel

suo Paese. I militari, in queste prime elezioni libe-re dopo 25 anni, hanno ammesso la loro sconfitta elet-torale, anche se la storia del Paese e dei suoi cittadini invita ancora alla prudenza. L’emo-zione suscitata da questa vittoria è stata ed è enorme e riporta alla mente

quella frase che Aung ripeteva per svelare la sua forza e il suo coraggio: “La sola vera prigione è la paura”. La seconda figura, certamente non meno umanamente importante, ma che è necessario presentare, è Latifa Ibn Ziaten. Latifa è una donna e mamma di origine marocchina che vive in Francia, vicino a Tolosa. Nel 2012 suo figlio Imad, soldato del-l’esercito fran-cese, viene uc-ciso dal terro-rista Mohamed Merah. Si ritro-vano così uno di fronte all’al-tro due giovani dalle stesse ori-gini, di cui uno non resiste al richiamo del terrorismo e l’altro diventa sua vittima. Latifa interpreta, attraverso il dolore, la necessità di agire e la sua prima iniziativa consiste nel creare un’Associazione “per la gioventù e per la pace” con l’obiettivo di parlare ai giovani e convincerli a non cadere nel terribile tranello del terrorismo, proprio come è successo a Merah e a centinaia di altri ragazzi come lui. Da quel momento Latifa inizia a percorrere la Francia per ascoltare e capire quei giovani figli dell’immi-grazione che cercano di comporre culture diverse e identità incerte, a portare il suo messaggio di pace e dignità nelle scuole, nelle “banlieues” e nelle prigioni, a parlare con i genitori e con gli insegnanti del loro importante ruolo educativo, a spiegare che “l’islam non è una nazionalità”. Latifa è venuta in questi giorni a portare il suo messaggio anche in Belgio, proprio in un momento in cui il Paese vive forte tensione e allarme dovuti proprio al timore di nuovi attacchi terroristici, come quelli avvenuti a Parigi lo scorso 13 novembre. Insignita del “Premio per la prevenzione dei conflitti” da parte di un’importante Fondazione francese, Latifa continuerà instancabilmente il suo viaggio attraverso l’Europa per portare un messaggio quanto mai significativo e importante, soprattutto in un momento in cui il pericolo che molti giovani cedano al radica-lismo e al fondamentalismo è veramente molto alto. Aung e Latifa, due donne che portano, con il loro coraggio, la luce della speranza in un momento in cui tutto sembra così buio. A loro un profondo ringraziamento per aiutarci a credere che la pace, la libertà, i diritti e una rispettosa convivenza non sono mai valori acquisiti, ma vanno conquistati e protetti giorno dopo giorno.

Adriana Longoni

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Una chiesa in (faticoso) movimento

L'anno che si sta chiudendo non è stato certo avaro di appuntamenti di grande rilievo nella chiesa cattolica. Oltre a tutto ciò che si muove fuori dalle pagine dei giornali e dei grandi documenti (e che rimane la vita più autentica e interessante, ma troppo spesso sfuggente), sembrano almeno quattro i grandi eventi per cui il 2015 potrà essere ricordato nella chiesa non solo italiana. Non ho intenzione di ripresentarli in modo esaustivo, non ne sarei capace, ma riprendo soltanto alcuni spunti di riflessione, molto soggettivi.

“Laudato si'”

Leggevo non più di dieci anni fa un testo di fantapolitica ecclesiale in cui si sognava un papa che, appena eletto, dismetteva il Vaticano, si dava come nome Francesco e scriveva come prima enciclica un testo sull'ecologia intitolata “Laudato si'”. Ignoro se anche Bergoglio abbia letto questa fantasia, ma parrebbe essersene ispirato, se si escludono le dismissioni del Vaticano (per quanto, già immaginare un papa che non vivesse negli appartamenti vaticani poteva sembrare molto, fino a quattro anni fa). In effetti, benché la sensibilità ecologica sia lentamente cresciuta negli ultimi tempi anche nella chiesa “ufficiale”, e non solo nei credenti che in questo stanno aprendo la strada, è vero che mancava un documento autorevole e riassuntivo. I documenti formali non sono necessariamente importanti e solitamente non sono decisivi, ma costituiscono dei “confini” più indietro dei quali non è possibile andare senza doversene giustificare. L'enciclica in questione, peraltro, è all'altezza delle aspettative. Ne riprendo, in disordine, alcuni aspetti. a) Nell'introduzione ogni documento pontificio cerca di ricollegarsi alle radici dei predecessori papali. Lo fa anche Francesco, che però cita tra gli interventi signi-ficativi dei suoi predecessori anche san Francesco d'Assisi (il che è carino ma ancora quasi prevedibile) e Bartolomeo, patriarca della chiesa ortodossa di Costan-tinopoli (n. 7). Iniziare a riconoscere che sulla strada dell'adeguamento all'attualità delle istanze del vangelo ci aiutano anche gli altri fratelli cristiani, e farlo in un documento ufficiale, è un passo non banale per arriva-re anche a un'ecologia dei nostri pensieri ecclesiali. b) Esemplare è poi il procedimento scelto e chiarito ai nn. 15-16. Il papa parte dalle questioni lette in chiave oggettiva e a partire dai contributi degli scienziati, quindi guarda alla Bibbia, ritorna all'attualità collegando la situazione alle sue radici più interiori, per arrivare a linee guida delle azioni umane, per proporre infine alcuni percorsi di maturazione umana stimolati dalla riflessione cristiana. In altri termini, si inizia ascoltando ciò che viene dalla saggezza scientifica umana e dalla radice biblica. A parlare non

è in primo luogo il papa, ma la sapienza umana (che oggi, e sulle questioni ecologiche, è anche e innanzi tutto scientifica) e la sapienza divina. Su quello si costruisce, guardando all'oggi anche con l'intenzione di andare in profondità, nelle ragioni e motivazioni dell'agire umano. Poi, alla fine, anche la tradizione cristiana può aiutare a stimolare un cambiamento di comportamento. Ma non costituisce il primo passo. c) Toccante e convincente è poi, in diversi passi, l'ammissione che, di fronte a determinate scelte o decisioni, la chiesa non ha ricette ma soltanto indicazioni molto di massima. E queste indicazioni di massima vanno soprattutto in due direzioni: la difesa dei più fragili e lo sguardo che mira in profondità, in un agire dell'uomo che non è soltanto pratico e tecnico ma che, nella prassi e nella tecnica, mette in campo anche la dimensione più globale e spirituale dell'uomo. Una chiesa che ascolta, che non si fa maestra di tutto e a ogni costo, ma che contemporaneamente non tace e sa vedere che alcune strade tecnicamente praticabili non sono umane. E che dunque si mette in dialogo, in collaborazione con tutto l'umano, senza ritirarsi più in disparte né pretendere di insegnare tutto a tutti. È lo stile di Dio, che in tutta la Bibbia non agisce senza la collaborazione dell'uomo, da cui si lascia anche condizionare pur continuando a indicargli le vie tramite le quali giungere a un'umanità più piena.

Un sinodo sulla famiglia in chiaroscuro

In molti hanno evidenziato e sottolineato come la XIV assemblea generale ordinaria del sinodo dei vescovi, celebrata dal 4 al 25 ottobre, sia stata tormentata e forse alla fine deludente per molti. Probabilmente nessun sinodo dei vescovi aveva ricevuto un'attenzione pari a quella riservata agli ultimi due (quello straordinario del 2014 e quello ordinario di quest'anno, sul medesimo tema). E questo in qualche modo spiega anche la delusione: le modalità e i tempi ecclesiali non sono quelli giornalistici. Per ricordare soltanto un aspetto, il sinodo non ha il compito di prendere alcuna decisione, ma ha soltanto un ruolo consultivo, che si esaurisce consegnando una relazione dei lavori al papa, che potrà decidere se tenerne conto o no, se farla confluire in un'esortazione postsinodale o scrivere questa esortazione in piena autonomia o non scrivere nulla. I giornali, anche perché dovevano parlare di un evento dalle modalità e dai tempi (e dalla comunicazione!) molto distanti da ciò che coprono solitamente, hanno probabilmente sfruttato con gusto l'occasione offerta da diversi “scandali”: coming out di funzionari di curia subito prima dell'inizio del sinodo, lettere di raccoman-dazione inviate al papa in forma più o meno privata da diversi vescovi, polemiche e interventi non sempre paludati. Anche qui, un paio di osservazioni

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estremamente personali. a) Di alcuni temi si è parlato. Questa è una notizia. Che tra le situazioni complesse vissute oggi dalla famiglia entri anche la possibile presenza di persone omosessuali è veramente poco, ma consente per la prima volta di prendere in carico senza giudizi la questione omosessuale in un documento semi-ufficiale. Si può vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, ma anche questo accenno ha rischiato di non essere incluso nelle raccomandazioni finali al papa, e dunque rallegriamoci che, per un soffio, si sia guadagnato un minimo spazio. b) In più occasioni nel documento si chiarisce che non si può parlare della famiglia senza ascoltarla, senza prenderne in carico fatiche, difficoltà e proposte. E si è ammesso che il compito educativo non è per nulla semplice. Certo, proprio per questo sarebbe stato opportuno che tra i coinvolti non vi fossero soltanto 17 laici uditori (su 51) e uno “esperto” (su 14). C'è anche chi ha segnalato che forse sarebbe valsa la pena di coinvolgere, tra i 15 presbiteri presenti insieme ai ve-scovi, almeno un esempio di un prete di una comunità cattolica di rito orientale, dove spesso i preti sono spo-sati. Il rischio è ancora che per “chiesa” si intendano i vescovi e i cardinali, e non tutta la comunità. c) In fondo, però, le polemiche sorte intorno al sinodo tradiscono il fatto che qualcosa si muova, che si inizi a parlare, a confrontarsi. Qualcuno ne è infastidito, qual-cuno reagisce in modo poco elegante. Ma nessun cam-biamento è pacifico e senza tensioni, e mettersi in mo-vimento esige sempre fatica. Che si inizi a confrontarsi sulle questioni, esplicitando paure e speranze, anche quando non del tutto condivise, va sempre nella direzione della schiettezza fraterna del Vangelo.

Convegno ecclesiale di Firenze

Come temevano gli organizzatori, il convegno della chiesa ecclesiale a Firenze, dal 9 al 13 novembre, è rimasto un po' “schiacciato” tra altre iniziative e ha rischiato di non essere notato. Peccato, perché si è trattato di un'esperienza non nuova, ma compiuta in modi rinnovati, con un coinvolgimento maggiore delle diverse realtà locali nella preparazione e in una settimana in cui davvero “è accaduto qualcosa”, non ci si è limitati a ripresentare a fine settimana i discorsi dell'inizio. Volendo concentrarsi sui contenuti, e non sull'esperienza di vita che è stata sicuramente preziosa per chi l'ha vissuta, tra le cinque brevi sintesi finali risulta particolarmente interessante quella presentata da don Albarello sulla prima delle cinque parole del sinodo, “Uscire”. Di fronte ai cambiamenti la reazione umana può essere quella del ritrarsi. Ebbene, è proprio ciò che la chiesa non deve fare, se non vuole tradire l'appello dell'umanità e l'invio del Signore. Nell'attuale mondo lo Spirito è all'opera, agisce e chiede di essere colto, di rispondergli, di collaborare. I segni della presenza dello Spirito si vedono nel cammino di conversione

all'essenziale che si nota anche nella nostra chiesa “di base”, una centralità sempre maggiore della Parola di Dio e della messa domenicale, la cura delle persone emarginate, compresi quei migranti che ci stimolano a non fare della nostra fede una conversazione da salotto. Seguendo l'appello e la forma comunicativa dei giovani intervenuti al sinodo, la nostra chiesa è dunque chiamata a “fare un falò dei nostri divani”, riuscendo a uscire da sé, a lanciarsi in un mondo che Dio ama. Più concretamente, sono tre gli impegni proposti alla chiesa italiana per i prossimi anni: a) avviare un processo sinodale, che continui questa esperienza di lavoro insieme. Significa sentirsi tutti compartecipi e collaborativi nel vivere la fede e la vita, senza più confini di diocesi, di competenze, di opportunità. b) Formare all'audacia della testimonianza, perché il vangelo non è una serie di cose da sapere e da ripetere, ma è vita vissuta, che coinvolge nel momento stesso in cui rende gustosa la vita. c) Promuovere il coraggio di sperimentare, senza paura e con piena fiducia nel Signore e nel mondo. Operativamente, significherà cogliere che è la comunità intera ad annunciare e che c'è bisogno di una rinnovata attenzione al modo nuovo di comunicare e a contesti umani lasciati un po' in disparte dall'annuncio “tradizionale” (adulti, nuovi emarginati, eccetera…).

Anno della misericordia

Si è quindi aperto l'anno santo straordinario della misericordia. Di questo non si può ancora parlare, essendo appena iniziato. Due osservazioni veloci si possono però già evidenziare: a) è il primo anno santo non aperto a Roma, ma in uno stato africano devastato da uno scontro condotto con pretesti religiosi. Le icone del nuovo giubileo, allora, diventano la semplice porta in legno di una piccola cattedrale centrafricana, già devastata da atti di guerra, che si apre per far entrare quella misericordia divina su cui il mondo islamico si ritrova, e l'accoglienza del-l'imam della moschea di Koudoukou sulla “papamo-bile”, simbolo visibile di una fratellanza anche tra le religioni, che può diventare la vera arma spirituale contro la violenza terroristica o integralistica. b) Nella bolla di indizione, poi, accanto al tradizionale pellegrinaggio si presentano come via privilegiata per vivere tale giubileo le opere di misericordia compiute a favore dei fratelli che si incontrano sulla strada. Non si parla di indulgenza se non per richiamare alla misericordia di Dio che gratuitamente accoglie e perdona, e facendo ciò si ricorda come questa sia la convinzione anche di musulmani ed ebrei. E si invita soprattutto ad accogliere la misericordia divina per farsi misericordiosi come lui. Sia pure sotto pesi significativi e su un terreno scabro-so, c'è chi cammina, e gradualmente si va avanti.

Angelo Fracchia

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n. 5 (168) – dicembre 2015 il granello di senape pag. 13

Per chi suona il corno dell’ariete? Brevi riflessioni sull’attualità della celebrazione giubilare

Giubileo: rito d’altri tempi? A sollevare dubbi circa l’opportunità di rinnovare in epoca postmoderna una celebrazione dalla storia millenaria e dal sapore un po’ retrò come quella giubilare non è stata una voce

giacobina, ma Paolo VI in persona, che in un discorso

alla vigilia dell’indizione dell’Anno Santo del 1975 confessava: “Ci siamo domandati se una simile

tradizione meriti di essere mantenuta nel tempo

nostro, tanto diverso dai tempi passati, e tanto

condizionato, da un lato dallo stile religioso impresso

dal recente Concilio alla vita ecclesiale, e, dall’altro, dal disinteresse pratico di tanta parte del mondo

moderno verso espressioni rituali d’altri secoli”. Un interrogativo onesto e inevitabile, vista la piega

assunta nel corso dei secoli da un’istituzione nata come occasione di giustizia e di sobrietà e trasforma-

tasi passo passo in celebrazione pomposa e ridondante,

cui Papa Montini rispose individuando il significato

originario del Giubileo nella riconciliazione e

compiendo tre gesti eloquenti: l’udienza con un gruppo di buddhisti giapponesi subito dopo l’apertura della Porta santa, l’abbraccio con un rappresentante dello Shintoismo e il bacio al piede del metropolita

ortodosso Meliton di Calcedonia.

Forse sollecitato da quel richiamo alla novità del

Concilio, o forse anche da quell’appello alla riconciliazione, Papa Francesco non ha voluto

attendere lo scoccare del canonico quarto di secolo e

ha indetto un nuovo Giubileo straordinario in

occasione del cinquantenario della chiusura del

Vaticano II, dedicandolo proprio al tema della

misericordia. E per fugare ogni dubbio circa l’im-

pronta da dare a questa nuova celebrazione, ha scelto

di inaugurarlo a 7mila chilometri da Roma, nel cuore

dell’Africa rapinata dalle multinazionali e martoriata dalle guerre, aprendo domenica 29 novembre, a mo’ di “Porta santa”, le porte di legno della cattedrale di

Bangui, capitale della Repubblica centrafricana, al

suono del tradizionale invito “Aprite le porte della giustizia!”.

Un’istituzione millenaria

Erano proprio misericordia e giustizia i valori sottesi

alle radici del Giubileo, così come prescritto dalle

pagine del Levitico, nell’Antico Testamento. “Dichia-

rerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la

liberazione nel paese per tutti i suoi abitanti. Sarà per

voi un giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua

proprietà e nella sua famiglia. Il cinquantesimo anno

sarà per voi un giubileo; non farete né semina,

né mietitura di quanto i campi produrranno da sé.

Potrete mangiare il prodotto che daranno i campi. In

quest'anno del giubileo, ciascuno tornerà in possesso

del suo” (Lv 25). L’usanza della remissione dei debiti e del ristabilimento di un ordine equo, ispirato a una

giustizia superiore, precedeva in realtà il comando

biblico, trovandosene traccia già in Mesopotamia nel

terzo millennio a.C., dove i sovrani erano soliti

concedere periodiche amnistie come gesto di

magnanimità. Ma anche a questa usanza, così come a

molte altre che aveva ereditato dai popoli circostanti,

l’ebraismo aveva conferito un valore tutto nuovo, legandolo alla celebrazione del sabato ed arric-

chendolo di un profondissimo portato teologico:

entravano in gioco l’idea dell’impossedibilità della

terra, la signoria di Dio su un mondo di cui l’uomo è inquilino, la gratuità dei doni del suolo, la giustizia

come premessa alla pace, la proibizione dello

sfruttamento scellerato delle risorse e degli uomini, il

dovere del perdono, l’attesa dei tempi messianici,… A differenza di quanto accadde per l’anno sabbatico, però, lo yobel, il corno d’ariete che avrebbe dovuto segnare con la sua eco l’inizio della celebrazione giubilare, molto probabilmente non suonò mai, e

quelle istanze di giustizia e di restituzione di terre e

case ai legittimi proprietari finirono per spiritualizzarsi

assumendo il carattere di un orizzonte esigenziale.

Tale doveva essere l’atteggiamento del mondo ebraico al tempo di Gesù, il quale entrando nella sinagoga di

Nazareth vi lesse il brano del profeta Isaia in cui si

annuncia un “anno di grazia” non già come indicazione cronologica, ma come inaugurazione di

un’epoca nuova dal carattere messianico.

Gesù: il Giubileo definitivo

“Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò

il passo dove era scritto: «Lo spirito del Signore è

sopra di me. Per questo mi ha consacrato con

l’unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la

liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà

gli oppressi e predicare un anno di grazia del

Signore». Poi arrotolò il volume, lo consegnò all’in-

serviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga

stavano fissi sopra di lui. Allora cominciò a dire:

«Oggi si è adempiuta questa Scrittura che avete udita

coi vostri orecchi»” (Lc 4,17-21). Forse per la

consapevolezza del compimento inaugurato da questo

annuncio, la prima comunità cristiana non

contemplava tra le sue celebrazioni ricorrenti quella

del Giubileo. L’anno santo, quello vero, era iniziato e

durerà per sempre. Non occorreva una ripetizione

rituale perché il Cristo, misericordia e giustizia di Dio,

aveva realizzato una volta per tutte nella propria

vicenda ciò che nel Giubileo ebraico era solo

prefigurato. E per molti secoli di giubileo non si

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n. 5 (168) – dicembre 2015 il granello di senape pag. 14

sentirà parlare, se non in alcune pagine dei Padri, con

significato simbolico, finché rimarrà alta la tensione

escatologica delle origini. Solo quando, dopo il Mille,

l’ansia dei Cieli nuovi e della nuova Terra si alleggerirà, tornerà l’interesse per una ripresa ciclica

della celebrazione giubilare, intesa perlopiù come

sinonimo di indulgenza e perdono dei peccati.

Predica un “anno come di Giubileo”, ad esempio, San Bernardo: durante la preparazione itinerante della

seconda Crociata annuncia per i pellegrini in partenza

un “annus remissionis, annus utque Jubilaeus”,

lasciando intravedere più un’occasione di grande perdono e di remissione dei peccati che un evento

collegato a un preciso ciclo temporale.

Solo intorno al XIII secolo maturerà nell’ambito della

cristianità l’idea di riprendere la tradizione giubilare sulla spinta di due processi abbastanza precisi: la

necessità di concentrare su Roma e sui suoi luoghi

santi la pratica del pellegrinaggio e il precisarsi della

dottrina dell’indulgenza come pratica per la salvezza

delle anime dei defunti.

Roma al centro della devozione

La caduta di Acri nelle mani dei musulmani aveva

fatto naufragare nel 1291 l’idea stessa di “Crociata”. I pellegrini, che fino ad allora avevano guardato alla

Palestina come meta privilegiata dei loro viaggi, si

vedevano costretti ad accontentarsi di percorsi dise-

gnati in Occidente, verso mete rese sante anch’esse dalla miriade di reliquie portate a casa dai Crociati. Ne

erano esempio la Sainte Chapelle, voluta e costruita da

Luigi IX come gigantesco reliquiario e gli altri innu-

merevoli santuari analoghi sparsi sul territorio

europeo.

Questa dispersione avrebbe potuto indebolire

l’intensità del sacro, allontanando nello stesso tempo i fedeli dalla sede indivisa del papato. Di qui la

necessità di ricollocare su Roma il fuoco della

devozione, evidenziando il valore di alcune reliquie

particolari: la sepoltura di Pietro, in primo luogo, e, a

seguire, la Scala santa percorsa da Gesù per recarsi da

Pilato (“Non c’è in tutto il mondo un luogo più santo”, recita la scritta che la sovrasta) o il sacro velo della

Veronica.

Il perdono dei peccati

Già nel V secolo i monaci itineranti irlandesi avevano

diffuso l’idea di un’espiazione proporzionata alla gravità dei peccati commessi. In alcuni casi, per le

colpe più gravi, era possibile ricevere come penitenza

l’obbligo di un pellegrinaggio che poteva addirittura spingersi fino a Gerusalemme. Nel corso dei secoli la

prassi era andata mitigandosi, prevedendo la possibilità

di sostituire con un’offerta in denaro o con una pratica alternativa le punizioni più severe. Nel frattempo

anche la dottrina del peccato, della colpa e dell’aldilà viene modificandosi e precisandosi in termini quasi

giuridici, con la definizione della realtà del Purgatorio

come luogo intermedio per la purificazione delle

anime. Diversamente dal Paradiso, questo si configura

come un annesso della Terra ove si prolunga il tempo

della vita e del ricordo, tempo sul quale è possibile

intervenire anche in vita, “lucrando” indulgenze.

Nasce il nuovo Giubileo

Nel contesto di questo clima Bonifacio VIII istituisce

nella notte del 22 febbraio del 1300 il Giubileo,

offrendo alle migliaia di pellegrini, giunti a Roma per

l’esposizione del volto della Veronica, un’occasione speciale per l’acquisto dell’indulgenza. Da allora non solo diviene possibile radunare nella Città Santa

quantità sempre crescenti di fedeli in un momento

stabilito, codificando funzioni liturgiche e devozioni,

ma anche istituire periodiche occasioni di comunica-

zione tra il tempo storico e quello escatologico del

sacro. Roma surroga la Gerusalemme perduta in terra

ad opera dei musulmani, e inizia ad essere abbellita e

ampliata quale preludio della Città celeste.

Sarebbe molto interessante, ma altrettanto lungo,

ripercorrere le tappe della codificazione delle pratiche

paraliturgiche nel corso dei secoli, dalla ritualizzazione

dell’apertura della porta santa ad opera di Papa Alessandro VI - padre e zio dei tanti Borgia che la

storia conosce - alla identificazione delle basiliche da

visitare per ottenere la remissione dei peccati; dalla

spettacolarizzazione teatrale del Giubileo nell’età del barocco alla sua sospensione in epoca risorgimentale,

ma si rimanda ai molti testi che raccontano in modo

appassionante e curioso le tappe di questa istituzione,

fonte di conversione autentica per alcuni ma anche

occasione di scandalo e di allontanamento per altri.

Con Papa Francesco il Giubileo cambia volto

C’è piuttosto di che riflettere con Paolo VI - per tor-

nare a quanto si diceva in principio - sull’opportunità di proseguire nella celebrazione periodica di un evento

che è diventato talvolta semplice pretesto per una

differente pratica turistica.

Ma la forza esplicita della Bolla di indizione di

quest’ultimo Giubileo - la Misericordiae vultus - forse

basta da sola a far recuperare fiducia nella possibilità

di ritrovare il significato autentico del Giubileo come

annuncio di giustizia e di misericordia, là dove senza

mezzi termini Papa Francesco afferma che “l’archi-trave che sorregge la vita della Chiesa è la

misericordia”. Come a dire che non saranno il nitore della verità, né il rigore dell’ortodossia e nemmeno l’arroganza dei valori non negoziabili, bensì proprio l’apparente debolezza della misericordia il “lieto annuncio” per il cuore dell’uomo disorientato del terzo millennio incipiente.

Gigi Garelli

[per un approfondimento del tema, si suggerisce la

lettura di un bell'articolo di Carmine Di Sante al link: http://www.notedipastoralegiovanile.it/index.php?optio

n=com_content&view=article&id=4362:dal-giubileo-

ebraico-al-giubileo-cristiano]

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n. 5 (168) – dicembre 2015 il granello di senape pag. 15

Giuseppe racconto

Mi sforzo di rallentare il ritmo della sega. Certo,

se continuo così finirò anche prima del dovuto il lavoro, ma ha ragione il mio ragazzo di bottega a chiedermi se sto bene, se qualche demone non mi ha preso. Chi mi fornisce la pece mi ha chiesto ridendo se era il matrimonio a rendermi così nervoso e difficile. Non poteva sapere di avere ragione. Per dire meglio, non è il matrimonio, ma quello che il mio matrimonio è diventato.

Già da alcuni mesi avevo posato gli occhi su Mirjam. Le ragazze del nostro paese mi sono sempre sembrate tutte di due tipi: ci sono quelle vane e chiassose come le canne sulla riva del lago, tutte tronfie e orgogliose, ma dal legno inutile se non a essere bruciato, e ci sono, meno numerose, quelle dure e scabrose come l'ulivo, che sono sicuramente migliori ma necessitano di troppo tempo e lavoro per diventare preziose. Ma poi vedevo lei, un gelso bianco discreto ma sicuro, solido senza essere duro, delicato ma non fragile. Se mio padre fosse stato ancora vivo, avrebbe probabilmente voluto per me un matrimonio migliore, che mi sistemasse tra le famiglie più in vista del paese, mentre la famiglia di Mirjam era tra quelle antiche di Nazaret, ma senza poter vantare né nobiltà né ricchezza. Io però cercavo non uno strumento per entrare nella nobiltà né per avere dei figli, ma una compagna di strada che mi accompagnasse nella vita, dolce, affidabile e sicura come il gelso.

Quando andai a parlare al padre, proposi un patto originale e inconsueto: non volevo alcuna dote (che probabilmente non sarebbe stato in grado di garantirmi, e forse dopo questa premessa aveva già deciso di concederla a me). Desideravo però, prima del qiddushin, parlarle due volte, alla presenza di donne testimoni che non avrebbero però potuto sentire che cosa le dicevo. Non ero certo mai stato un ragazzo che andava a infastidire le donne prima di essere loro promesso in sposo, ma questa era la mia condizione: non volevo dote, ma volevo che Mirjam desiderasse vivere con me, e per saperlo dovevo parlarle. Il padre oppose molte obiezioni, mi fece attendere, ma alla fine mi concesse un favore che sicuramente non lo urtava, ma che nella sua stra-nezza gli faceva temere un inganno non compreso.

Nel nostro primo colloquio le spiegai che cosa vedevo in lei, e le chiesi se voleva o no vivere con me. Nel secondo caso, non avendo formalizzato con me il fidanzamento, sarebbe comunque rimasta libera. Per questo avevo chiesto un secondo incontro con lei, perché potesse rispondere alla mia proposta dopo averla meditata. E lei mi parlò! Mi chiese se

poteva, prima del successivo incontro, raccogliere in giro informazioni su di me. Rimasi estasiato. Come tutti gli innamorati, trovai la sua voce incantevole e celestiale. Ma soprattutto, restai ammaliato dal suo coraggio, dal suo prendere la parola con un uomo non di famiglia, per chiedere, con la massima delica-tezza, ciò che avrebbe fatto infuriare qualunque uomo. Sicuro che le donne parlavano tra sé e investigavano su tutto ciò che si muoveva in città o nella campagna, ma di certo lo facevano di nascosto! Non era bene che un uomo sapesse di essere indagato, anche se senza dubbio se lo aspettava. E invece lei chiedeva il permesso (offensivo per quasi tutti!) di svolgere quelle ricerche che chiunque mette-va in campo. Da quel momento, la tentazione per me non fu più di tirarmi indietro, bensì di procedere nelle nozze anche se lei mi avesse rifiutato.

Due settimane dopo ci vedevamo nuovamente: «Yussef, voglio vivere con te. Sei il dono più

grande che mi abbia riservato l'Altissimo, dopo quello della mia vita», e con questo mi seduceva ancora: mi negava infatti di essere io il dono più grande di tutti, come avrebbe detto ogni altra ragazza, benché qualunque uomo dovesse dubitare di un'esagerazione tanto palesemente falsa. Faticai a riprendere fiato e parole:

«Mirjam, sarà una gioia vivere ogni giorno al tuo fianco. Mi verrebbe il desiderio di abbracciarti direttamente qui».

«Non me ne dispiacerebbe e non avrei obiezioni. Ma ciò disturberebbe e indisporrebbe mio padre e le donne che ci guardano. Non è necessario. Possiamo pazientare poche lune».

Le poche lune sono passate. Celebrammo molto

presto il qiddushin e tra pochissimo concluderemo il nissuim e andremo a vivere insieme. In questi mesi ho avuto il permesso di incontrarla e parlarle alcune volte, e sempre mi ha sorpreso e ha accresciuto il mio amore. Pochi giovani possono vantarsi della fortu-na di essere amati dalle proprie mogli, io sì. Eppure...

Eppure da due settimane sono tormentato da pialle che lavorano il mio stomaco dall'interno.

Due settimane fa, in uno dei nostri incontri fugaci, una delle follie della nostra tradizione, che prevede che due giovani siano già promessi l'uno all'altra in modo ineluttabile ma non possano parlarsi se non di nascosto, mi sussurrò senza esitazioni:

«Yussef, io sono incinta. Non ti ho mancato di rispetto e ti amo sempre di più. Ma sono incinta».

E siccome la guardavo a bocca aperta, senza sape-re come reagire, stupito come se il lago venisse diret-

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n. 5 (168) – dicembre 2015 il granello di senape pag. 16

Giuseppe in una scultura medievale su un capitello della cattedrale di Autun

tamente a prendersi la barca dalla mia bottega, proseguì:

«Capirò qualunque tua scelta, ma farai male se romperai il matrimonio. A volte siamo chiamati a qualcosa di più grande di ciò che immaginavamo».

Non le ho più parlato. Quando l'ho vista, mi ha

sempre donato un sorriso, che non le ho contrac-cambiato. Non so come dovrei muovermi, e so solo di non poterne parlare con nessuno.

Qualunque uomo, al mio posto, urlerebbe al tradimento, che è sotto gli occhi di tutti. La donna verrebbe indagata dalle anziane della sua famiglia, e poi lapidata. Anche i romani lo consentono: in fondo, non si tratta di nessuna azione politica, riguarda solo le nostre famiglie e le nostre donne, e non si immischiano. È un esito che ho pensato, immaginato, ma con orrore. Togliere Mirjam al nostro mondo sarebbe un misfatto, qualunque abominio lei abbia compiuto. La sua intelligenza e delicatezza non devono essere perse.

Ma potrei tenere un figlio non mio? Anni fa avevo conversato con un centurione, che mi aveva confessato che il suo primogenito era stato concepito da un altro uomo. Lui l'aveva accolto, gli aveva dato il nome, lo nutriva e gli apriva le strade della carriera nell'esercito per amore della bellezza di sua moglie. E lo riteneva un contratto che per lui era stato enormemente vantaggioso. Io avevo ammirato tale generosità, ma non avevo potuto fare a meno di notare che a me era imposta una responsabilità maggiore. A mio figlio non avrei soltanto trasmesso un nome, una professione, un modo di vivere e di pregare, ma soprattutto la benedizione divina, che da Abramo in poi si propagava di generazione in generazione. Dare il mio nome a un figlio non mio significava tradire il mandato del Benedetto, irridere l’Altissimo inserendo nel suo popolo chi forse non gli apparteneva. Non sarebbe più stato un gesto di affettuosa generosità, ma una truffa, ai danni di Chi non poteva non conoscerla e l’avreb-be forse castigata. E se non l’avesse castigata, sarebbe comunque stato offeso.

E dunque? Mi trovo davanti a una scelta impossibile: schernire l’Onnipo-tente o condannare a morte una donna che amo, e che mi pare degna e capace di donare molto al mondo.

Già, Mirjam! Non riesco a imma-ginarla mentre mente a chicchessia, e tanto meno al suo promesso sposo. Non riesco a immaginarla che inganna me e il nostro Dio. Non capisco, non so che cosa sia accaduto, ma fatico a pensarla colpevole. Forse è stata carpita con la violenza, forse è stata vittima di qualche stregoneria… Ma come posso farle del male? Se

devo crederle, se non mi ha ingannato (e perché farlo? Dove avrebbe potuto trovare un marito che le lasciasse scegliere se essere presa o no?), sta soffrendo come me. Con la differenza che io devo decidere, lei si deve sottoporre alla decisione mia, e non so chi viva nella situazione peggiore.

Dovrei concedere al padre del bambino di riscattarla. Ma come fare? Se la ripudio, devo spiegare al rabbino e al padre il motivo, e così la rovino. Se la denuncio come adultera, verrà sottopo-sta alla prova e, se incinta, sarà lapidata. Dovrei riuscire a ripudiarla senza che nessuno lo sappia… Forse rab Tishon potrebbe comprendere e aiutarmi… Un ripudio in segreto potrebbe consentire al padre del bambino di intervenire e chiederla in sposa prima che si sappia della sua vergogna. Quando lo si saprà, tutto sarà già riparato…

Ma lei mi ha invitato a non rompere il

matrimonio. Perché? Che cosa sa, che cosa è accaduto? Le ho parlato con calma soltanto due volte, però mi è subito stata chiara la sua decisione, la sua chiarezza, ma anche la sua pietà: la delicatezza con cui ha parlato di un padre per cui è solo una bocca, femmina, da sfamare; gli accenni di tenerezza verso le due vecchie vedove del suo cortile; l’affetto verso tutti i suoi vicini, anche i più insopportabili…

Continuo a non capire come possa essere stata responsabile di un inganno di questo tipo. Proprio lei, gelso bianco, figlia di Galilea ma tanto dissimile da tante piante di questa terra! Più la guardo, più la penso, più credo di non trovarmi di fronte a falsità… È come se l’avessi davanti a me, in questo momen-to… e d’un tratto mi pare di capire. O almeno di vedere un po’ meno oscuro: una donna come lei, che ha voluto vivere con me, che a questo era chiamata, non aveva motivo di lasciarsi sedurre da un altro. Una donna dalla schiena tanto dritta, tanto retta nel cammino, avrebbe denunciato ciò che poteva o doveva essere denunciato. Mi pare di

guardare nei suoi occhi, che ho già fissato trovandoli puri, decisi e limpidi. Io non so in che cosa mi stia imbarcando… ma se lei mi invita a salvare il matrimonio… io di lei mi fido, come di nessun altro in questo mondo. Non so che cosa accadrà… ma devo fidarmi. Il Benedetto, che scruta i cuori, vede la purezza della mia intenzione, vede il mio amore… non sarà offeso se questo mio fosse un errore, non lo considererà blasfemo. E Mirjam mi aiuterà a vederci più chiaro.

Angelo Fracchia

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n. 5 (168) – dicembre 2015 il granello di senape pag. 17

bibblando

Ecco le parole che disse il grande filosofo, mistico, poeta Ibn Arabi (1165-1240), quando veniva deriso e attaccato per le sue posizioni conciliatorie:

«Un tempo io mi offendevo col mio compagno se la sua religione non era uguale alla mia, ma ora il mio cuore ammette ogni forma. Il mio cuore oggi è un prato per le gazzelle, un chiostro per il monaco, una Kaaba per il pellegrino, per le tavole della Legge e per il sacro libro del Corano. Seguo la tenerezza e dovunque mi portano i cammelli d’amore, là trovo la mia religione, la mia fede».

Mt 18,7: "Inevitabile che accadano gli scandali" Non c'è dubbio che questi ultimi tempi ecclesiali ci pongano di fronte a diversi scandali che non è neppure necessario richiamare. Può valere invece la pena approfittarne per rileggere un versetto che risulta tra quelli del vangelo difficili da spiegare:

È inevitabile che vengano gli scandali, ma guai all' uomo a causa del quale viene lo scandalo! (Mt 18,7)

Potremmo innanzitutto pensare che se è inevitabile, non si può certo incolpare l'autore dello scandalo. Potremmo anche far notare che lo scandalo non è così inevitabile, se non vogliamo ammettere che l'uomo non abbia libertà di manovra, di decisione. Un po' come quando, riflettendo sulla passione di Gesù, i vangeli dicono che il figlio dell'uomo “doveva” soffrire e morire in croce (Lc 24,26). Nel senso che se Gesù non fosse morto qualcosa sarebbe andato storto, nell'intenzione divina? Soprattutto quando si parla di eventi negativi (uno scandalo, una morte) è chiaro che non può essere questa l'interpretazione corretta. Qui, invece, si sovrappongono due ragioni. Innanzi-tutto è la mentalità semita a tendere a vedere le cose “dal punto di vista della fine”. Se un uomo non accoglie la parola di Dio, è un empio, e lo è già da prima di mostrarsi tale, in quanto alla fine comunque si sarebbe svelato come tale. Ma soprattutto a essere inevitabile è che alla fine le cose si mostrino per ciò che sono. Dio non nega all'uomo nulla, neppure la propria stessa vita. Se

dunque l'uomo rifiuta la comunione che Dio intende offrirgli, questi accetterà le conseguenze estreme di tale offerta, senza scappare, senza negarsi, fino sulla croce. Il figlio dell'uomo “deve” morire in croce perché Dio non può fermarsi, e perché l'uomo non è capace di accoglierlo. Gesù potrebbe fuggire solo tradendo se stesso. Gli scandali “è inevitabile” che avvengano perché se l'uomo non è limpido, alla fine la sua doppiezza emergerà. E la tensione tra ciò che l'uomo dice di essere e ciò che si mostra fa inciampare, è scandalo. È come se Gesù dicesse: «Fingerà di seguirmi anche chi in realtà è interessato all'onore, al potere, alla ricchezza. E inevitabilmente ciò non potrà che emergere, a un certo punto. Non è possibile che tali persone ingannino gli altri per sempre. È nella logica delle cose che alla fine ciò venga alla luce. E questo scandalizzerà alcuni». Ma se ciò è inevitabile, è altrettanto chiaro che non succederebbe senza le scelte umane all'origine. È inevitabile che esca alla luce l'incoerenza umana, non che gli uomini siano incoerenti. Ecco perché, accanto all'inevitabilità, c'è anche il giudizio duro contro i responsabili: “guai a loro” (una forma durissima, nei vangeli), perché hanno messo a repentaglio il cammino sereno di alcuni loro fratelli. Gesù sembra suggerire che se ci si fosse limitati a offendere Dio, l'errore sarebbe stato facile da perdonare. Ma è l'inciampo al fratello ad essere inaccettabile per Dio.

Angelo Fracchia

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n. 5 (168) – dicembre 2015 il granello di senape pag. 18

Per un’inversione di rotta sul clima

La marcia per il clima, iniziativa mondiale promossa da Avaaz, sì è svolta domenica 29 novembre anche a Cuneo, con una bella partecipazione: almeno mille cittadini si sono dati appuntamento per ribadire con forza la richiesta di inversione di rotta ai 150 leader di tutto il mondo che dal 30 novembre all'11 dicembre a Parigi, in sede COP21, dovranno decidere, è il caso di dire, le sorti del pianeta. Il tempo è ormai scaduto, bisogna agire e in fretta per arrivare ad accordi vincolanti, dando seguito a quanto contenuto nella recente dichiarazione universale dell'ONU (“Global Goals”) per un mondo libero da povertà, diseguaglianza e cambiamenti climatici, pena il rischio di peggiorare sempre più la situazione attuale, con tutte le ormai note conseguen-ze catastrofiche per l'uomo e le altre specie viventi. La marcia di Cuneo, promossa da oltre 50 fra associazioni e sindacati, con l'adesione della provincia e di 16 comuni (Bene Vagienna, Bernezzo, Borgo San Dalmazzo, Centallo, Ceva, Chiusa Pesio, Costigliole Saluzzo, Cuneo, Frabosa Soprana, Gaiola, Garessio, Monastero di Vasco, Mondovì, Morozzo, Pamparato, Valdieri) e il sostegno di alcuni partiti, è stata volutamente un evento festoso e coinvolgente. La marcia si è snodata da via Roma a Piazza Europa, con quattro momenti di sosta e riflessione sui quattro elementi che fin dall'antichità sono stati oggetto della curiosità e del pensiero umano: fuoco (energia), aria, terra (suolo) e acqua: poesie e letture in tema, musiche, danze. Il tutto per rafforzare la richiesta di adozione di risoluzioni chiare e vincolanti, necessarie per porre fine al surriscaldamento del pianeta, che deriva dalle emissioni di gas serra. In sostituzione dei combustibili fossili, che alimentano anche le guerre, occorre incrementare l'uso delle energie rinnovabili e l'uso consapevole e razionale dell'energia (leggi risparmio), poiché anche le vicende belliche e terroristiche in corso hanno le loro radici e connessioni nell'accaparramento dei giacimenti, sia nel sottosuolo sia nei fondali marini, oltre che nel commercio degli armamenti. La marcia ha così coniugato i temi dell'ambiente e della pace, oggi più che mai condizione necessaria per uno sviluppo realmente sostenibile, condiviso e solidale. La catena umana, mano nella mano, intorno a piazza Galimberti ha suggellato e richiamato a gran voce queste relazioni. Al termine c'è stato un seguito al Centro incontri della Provincia, alla presenza di circa trecento partecipanti alla marcia, per dare spazio ad una serie di riflessioni sulla drammatica situazione ambientale che stiamo affrontando, intervallate dalla bella voce di Valeria Arpino che ha interpretato canzoni in tema di ambiente e pace. Il regista Enrico Cerasuolo ha parlato del suo film documentario “Ultima chiamata” (proiettato nella fase di preparazione alla marcia) incentrato sugli autori de “I limiti dello sviluppo”, uno studio che già negli anni settanta metteva in guardia sullo sfruttamento eccessivo e distruttivo delle risorse naturali (finite) ad opera del credo economico della crescita infinita. Sono stati ripresi i quattro temi della marcia con letture nel merito, sottolineando in particolare l'importanza fondamen-tale di foreste, boschi e suolo in generale, grandi serbatoi di

carbonio sottratto all'atmosfera, sempre più degradati o distrutti, con la conseguenza di aggravare ulteriormente i cambiamenti climatici. I gemelli Dematteis, grandi e simpatici atleti della Val Varaita, hanno sottolineato l'importanza della salvaguardia ambientale, tramite anche le belle immagini e il commento parlato del loro film “A Nosto Modo”. E' stato anche trattato, a cura del Comitato tutela ambiente di Bernezzo, il problema del possibile e nefasto utilizzo del Pet Coke (il peggior combustibile in termini di inquinamento e effetti climalteranti) da parte della Unicalce, in sostituzione del metano attualmente impiegato. Molto interessante il video dell'intervista, sul tema dei cambiamenti climatici, ad alcuni degli scrittori partecipanti alla rassegna “Scrittori in città”, realizzato dagli studenti dei licei di Mondovì. A proposito di studenti, va ricordato anche il notevole e proficuo impegno da parte del Liceo artistico e musicale di Cuneo (musiche, cartelloni, striscioni) durante la marcia. Il coordinamento, che ha dato vita alla riuscita, colorata e festosa manifestazione, sottolinea come questa sia l'inizio di un percorso condiviso, necessario per mantenere alta l’attenzione sui lavori della Conferenza di Parigi, pronto a rimettersi in movimento, qualora gli esiti della stessa risultassero poco incisivi a causa delle potenti forze che si oppongono al cambiamento in senso ecologico dell'econo-mia e condizionano i governi, anche per ottenere pesanti e non più sopportabili finanziamenti a favore delle fonti energetiche fossili. Qualche segnale locale intanto fa ben sperare: il Comune di Cuneo ha deciso di sottoscrivere il Patto dei Sindaci con l'impegno concreto ad attuare misure di contenimento delle emissioni climalteranti, e la Regione Piemonte ha ufficialmente dichiarato l'adesione al protocollo Under 2 MOU tra i governi sub-nazionali, impegnandosi a ridurre di almeno l’80% le emissioni di gas serra entro il 2050. L´accordo (nato dalla proposta originariamente lanciata da California e Baden-Württemberg) identifica le azioni che i governi locali dovrebbero adottare in risposta al cambiamento climatico. Al memorandum hanno finora aderito 46 tra firmatari e sostenitori, e molte altre amministrazioni locali di tutto il mondo sono invitate ad aderire in occasione della COP21 di Parigi. I firmatari si impegnano a limitare le emissioni in misura tra l´80 e il 95% rispetto ai livelli del 1990, o sotto i 2 mc pro capite, entro il 2050: questo è il livello di riduzione delle emissioni che si ritiene necessario per limitare il riscaldamento globale entro i 2°C da qui a fine secolo. L´accordo non introdurrà vincoli legali, ma intende dimostrare l´impegno chiaro e duraturo delle amministrazioni nella riduzione delle emissioni nei prossimi decenni. Che non siano solo impegni di facciata, ma che producano positivi e reali passi in avanti sulla strada della sostenibilità è quanto auspichiamo, così come è fondamentale che ogni cittadino, a sua volta, adotti consapevolmente comporta-menti ecologicamente virtuosi, secondo la sempre valida massima “pensare globalmente e agire localmente”.

Gianfranco Peano

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I droni assassini nei documenti segreti del Pentagono

Nel precedente numero del Granello (ottobre 2015),

concludevo le mie riflessioni sulla crisi del diritto e, in

particolare, sulla crisi dei diritti umani (Chi semina

vento, raccoglie tempesta), denunciando l’uso crimi-nale dei droni da parte degli Stati Uniti e di Israele, e

mi chiedevo, retoricamente, se queste ‘esecuzioni extragiudiziarie’ non alimentassero, a loro volta, il terrorismo. Non disponevo, allora, di informazioni più

dettagliate sull’impiego e sugli effetti di questa

tecnologia di guerra. Ora, grazie all’ impegno di contro-informazione (the Intercept) da parte dei

giornalisti americani Glenn Grenwald e Laura Poitras

(gli stessi che hanno prodotto

Citizen Four, il documentario su

Edward Snowden), possiamo

valutarne meglio l’impatto ed il probabile più generale effetto sul

mondo musulmano. Si tratta di un

materiale vastissimo dal quale

estraggo alcuni dati riguardanti

l’impiego dei droni in Afganistan, in Somalia e in Yemen

1 Mi avvalgo

di due articoli, a nome, ri-

spettivamente, di Jeremy Scahill 2 e

Cora Currier3, basati su documenti

del Pentagono che, grazie ad una

fonte interna all’Amministrazione, Intercept è riuscita a conoscere.

Una fonte che ha deciso di fornire

il materiale secretato, perché con-

vinta che il «pubblico abbia il

diritto di capire il processo

attraverso il quale delle persone

vengono inserite nelle killing lists

[…] e che questo assegnare loro dei

numeri […] e condannarli a morte senza preavviso, sia, fin dall’inizio, una cosa sbagliata».

Sì, questo è il punto. Certamente,

denunciare le menzogne del Penta-

gono è doveroso. In un mondo in cui l’informazione è spesso sistematicamente manipolata, la contro-

informazione costituisce uno dei pochi strumenti per

opporsi alla violenza del Potere. Ma prima ancora va

riaffermato che uccidere senza prove, senza processo,

negando al sospetto il diritto alla difesa, significa fare

strame di ogni principio di legalità e riportare i rapporti

tra gli uomini a puri rapporti di forza. Dobbiamo

perciò essere pienamente consapevoli che il giudizio

sui cosiddetti effetti collaterali a seguito dell’impiego dei droni non deve nascondere il fatto che non soltanto

la popolazione civile ma anche i presunti terroristi

sono, fino a prova contraria, innocenti. Pertanto,

l’agire di Stati che ne facciano uso, come i già citati Stati Uniti ed Israele, non è diverso da quello della

criminalità organizzata, con un’importante differenza: quest’ ultima raramente uccide ‘obiettivi’ diversi da quelli che si è proposta.

Un passo indietro e un po’ di storia. Scrive Scahill: «I droni sono lo strumento, non la politica. La politica è

l’assassinio. Tutti i presidenti americani, a partire da Gerald Ford, hanno bandito il ricorso a questa misura

da parte del personale dell’Amministrazione. Il Congresso dal canto suo non ha mai legiferato in

materia, evitando così di definire

la parola. Ciò ha permesso, ai

fautori delle guerre con il drone, di

rinominare gli assassini con un

linguaggio più digeribile, quale il

termine alla moda “uccisioni mirate” (targeted killings)».

L’Amministrazione di Obama, quando ne ha discusso pubblica-

mente l’impiego, ha fornito ogni garanzia sul fatto che i droni

costituiscono un’alternativa più sicura all’azione terrestre. Essa ha affermato infatti che il loro uso è

autorizzato soltanto se due

condizioni vengono soddisfatte:

che si configuri una “minaccia

imminente” e che si possegga la “quasi certezza” che l’obiettivo prescelto verrà eliminato. Inoltre,

secondo le linee guida rese

pubbliche dalla Casa Bianca nel

2013, la decisione di colpire (to

strike) deve non soltanto garantire

la massima accuratezza, ma

accertare l’assenza di civili sul luogo dell’intervento. In altre parole, si ‘colpisce’ quando si

possiede «la quasi certezza che l’obiettivo terrorista è

presente e l’altrettanta quasi certezza che non-

combattenti non vengono feriti o uccisi».

Come ci rivelano i dati di Intercept la realtà è un’altra. Una realtà di violenze mascherata da un linguaggio

asettico, neutro. Conoscevamo l’inventiva dei nazisti

per mascherare l’Olocausto, ma gli Stati Uniti non lo sono da meno. La lingua dei documenti infatti abbonda

di metafore. I presunti terroristi, trasformati in numeri

e in obiettivi da colpire, vengono chiamati baseball

cards’ (lett. cartoline di baseball), l’equivalente americano delle figurine dei calciatori con cui abbiamo

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giocato nell’infanzia. Un modo per rendere più lieve il compito degli ‘addetti ai lavori’? Forse sì. È più facile esercitare la professione di assassino se questa non

viene ricordata al suo titolare ad ogni passo.

Un primo dato che rivela quanto, concretamente, le

scelte del Pentagono smentiscano le dichiarazioni

ufficiali è la diversa regolamentazione dei droni a

seconda che siano impiegati dall’esercito o dalla CIA. Quest’ultima infatti - ci dicono i documenti -, a

differenza dell’esercito, non è tenuta a rispettare il principio della ‘minaccia immediata’, e può quindi uccidere chiunque si presuma possa compiere, in un

imprecisato futuro, un atto di terrorismo. Licenza di

uccidere, insomma, e, se è il caso, di falsificare le

cifre. Così, nelle operazioni condotte in Afganistan,

l’Amministrazione, per evitare di fornire il numero reale di civili uccisi a seguito degli attacchi con il

drone, classifica «i morti non identificati come nemici,

anche quando essi non costituiscono l’obiettivo prescelto». E in un altro documento si descrive una

campagna diretta non soltanto contro Al Qaeda e i

Talebani, ma anche contro altri gruppi armati locali.

Sempre in Afganistan, la cosiddetta Operation

Haymaker, condotta tra il gennaio 2012 ed il febbraio

2013, ha ucciso con i droni più di 200 civili, ma

soltanto 35 erano gli ‘obiettivi’ previsti. E lo stesso documento stima che «durante un periodo di cinque

mesi dell’operazione, quasi il 90% delle persone

assassinate non costituiva l’obiettivo prescelto». In Yemen ed in Somalia, dove gli Stati Uniti

dispongono di un’“intelligence” con una capacità molto ridotta nel «saper confermare che le persone

uccise erano veramente quelle che si intendeva

assassinare», le cifre corrispondenti sono ancora più

alte. A cominciare dal fatto che chiunque venga colto

nelle vicinanze (del presunto terrorista; n.d.r.) è

“colpevole per associazione”. Per di più, nei

documenti non si fa alcun riferimento allo standard

della ‘quasi certezza’ dell’assenza di civili, mentre si sottolinea «l’esigenza di evitare (sic) aree di danni collaterali, perché causa di fallimento delle missioni,

senza peraltro fornire né le cifre dei morti civili né

esempi di operazioni che hanno provocato l’uccisione di persone ‘sbagliate’»

Raramente, se mai, la Casa Bianca ammette di aver

commesso errori. In genere si limita a riaffermare di

aver seguito tutti i protocolli. Taluni di noi

ricorderanno l’omicidio, il gennaio scorso, da parte della CIA, di due ostaggi, un americano ed un italiano,

il cooperante italiano Giovanni Lo Porto, tenuti

prigionieri da Al Qaeda in Pakistan. In merito a questa

morte, il portavoce del governo americano si è limitato

a constatare che gli ostaggi erano stati uccisi

«malgrado la quasi certezza e la quasi continua

vigilanza». Con involontaria ironia, il Corriere della

Sera commentò l’uccisione di Lo Porto, scrivendo che «il drone non sapeva che nel compound c’erano degli ostaggi».

Un ultimo punto. La catena letale, quella che risalendo

nelle gerarchie, a partire dal pilota del drone, arriva

fino ad Obama. Si stima che l’intervallo di tempo, da quando il presunto terrorista è stato individuato, alla

sua ‘condanna a morte’ (senza prove e senza processo), trascorrano in media 58 giorni, dunque un

tempo che mal si concilia con l’urgenza invocata dal presidente, quando più volte ha pubblicamente

dichiarato che tale punizione va inflitta soltanto contro

coloro che costituiscono “una minaccia imminente e

continua contro il popolo americano”. Concludo ricordando una notizia recente a cui i

giornali, ad eccezione del ‘Il Manifesto’, non hanno prestato particolare attenzione e cioè che il nostro

governo ha accolto con soddisfazione la concessione

da parte degli Stati Uniti di impiegare i droni assassini.

Un’accoglienza di questo tipo significa che sia il ministro degli esteri Gentiloni sia il ministro della

difesa Pinotti non hanno nulla da obiettare all’ ‘opportunità’ del loro uso? Ora, scartata l’ipotesi che costoro non siano al corrente che l’uso di questa arma, oltre ad essere poco efficace, è criminale sotto il

profilo del diritto, dobbiamo concludere che il nostro

Paese si sta avviando sulla strada degli ‘assassini mirati’? E se così stanno le cose, possiamo noi continuare a

tacere?

Amedeo Cottino

1 Si tratta, in particolare, di uno studio del Pentagono che

ha valutato la intelligence and surveillance terchnology

utilizzata dal JSOC (Joint Special Operations Command)

nella campagna di omicidi in Yemen e Somalia nel 2011

e nel 2012 2 The Drone papers - The assassination Complex, The

Intercept, 19/10/2015 3 The Drone papers - The Kill chain, The Intercept,

19/10/2015

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Appunti sulla vita ed il pensiero di

Lev Tolstoj (1828-1910) (II)

Nello scorso numero del “Granello” (pp. 23-25)

richiamavo alcuni dati sulla vita di Lev Tolstoj, fino

alla fuga e alla successiva morte nella stazione

ferroviaria di Astapovo; sottolineavo, nella storia

della cultura russa, la tensione irrisolta tra cosmo-

politismo e nazionalismo, tra l’attrazione dell’occi-dente e quello della terra natia, tra la chiusura in

ristrette élites e il richiamo ad “andare verso il popolo”. Soprattutto, precisavo che il Tolstoj che ci

interessa non è tanto quello dei grandi romanzi, ma il

riformatore politico e religioso degli ultimi decenni, il

“convertito” emerso da una drammatica crisi esistenziale descritta nello scritto autobiografico La

confessione, composto tra il 1879 e il 1882.

Il succo di Confessione in tre grandi parabole Tolstoj è tutt’altro che digiuno di filosofia, ma ha troppo fretta di arrivare al cuore dei sistemi, sia in

filosofia che in religione, per dedicare troppa

attenzione alla tecnica architettonica. E’ grande non quando filosofa, ma quando fa il suo mestiere di poeta,

di uomo di immaginazione. E anche nella Confessione

sono proprio le sue parabole ad avere il più ricco

contenuto filosofico, che spesso si irrigidisce nelle sue

formulazioni concettuali.

Ecco la sua versione “parabolica” della propria vita, che descrive lo smarrimento della “selva oscura”e l’inizio della “conversione”: gli anni della scapigliata giovinezza, il fascino del “mondo” e delle sue seduzioni: in sostanza, il conformismo che si traveste

da libertà, originalità, “trasgressione”; poi il ritorno doloroso in se stesso, l’inizio della “metanoia”. “Era come se un giorno, non so dir quando, mi avessero fatto salire su una barca staccandola poi da

una riva a me sconosciuta, indicandomi la direzione

verso la riva opposta, affidando i remi alle mie mani

inesperte e lasciandomi solo. Avevo vogato

manovrando i remi come potevo e sapevo, ma quanto

più avanzavo verso il centro del fiume tanto più forte

si faceva la corrente che mi allontanava dalla meta e

tanto più spesso mi accadeva d’incrociare altri navigatori che come me venivano trascinati dalle

acque (…). Nel centro del fiume, in mezzo a tutte quelle barche e a quei vascelli portati dalla corrente, io

avevo completamente perduto la rotta e abbandonato i

remi. Da ogni parte intorno a me udivo esclamazioni di

giubilo e di esultanza di navigatori che, veleggiando o

remando, scendevano lungo la corrente, assicurandomi

- e assicurandosi l’un l’altro - che quella era l’unica rotta possibile. E anch’io mi lasciavo convincere e navigavo con loro. E ormai mi ero spinto così avanti

da poter già udire il frastuono delle cateratte contro cui

la mia barca stava per fracassarsi e da vedere le altre

barche che già vi s’infrangevano. E allora tornai in me

(...). Davanti vedevo soltanto la morte … ma guardando indietro e scorgendo innumerevoli barche

che, senza cedere, continuavano ostinatamente a

tagliare la corrente, mi ricordai della riva promessa,

dei remi e della direzione che mi era stata indicata, e

allora ripresi a remare, controcorrente, verso la riva.

Quella riva era Dio, la direzione indicatami era la

tradizione e i remi la libertà che mi era data di

approdare alla riva e di unirmi a Dio” (pp. 85-86).

Una seconda parabola racconta la vita di ciascuno di

noi. Essa è tratta da “un’antica fiaba orientale del viaggiatore sorpreso nel deserto da una belva

inferocita; per salvarsi dalla belva il viaggiatore si

precipita verso un pozzo asciutto, ma sul suo fondo

scorge un drago che spalanca le fauci per divorarlo” (pp. 29-30). Lo sventurato si aggrappa ad un cespuglio

che cresce sulle parete del pozzo, ma ecco che vede

sbucare due topolini, uno bianco ed uno nero (il giorno

e la notte) che rosicchiano il fusto del cespuglio. La

sua fine è inevitabile; ma ecco che egli scorge sulle

foglie del cespuglio delle gocce di miele, e le lecca.

Il viaggiatore è l’uomo, il drago è la morte che lo attende inevitabile, il tempo che passa e che lo

avvicina alla morte è rappresentato dai due topolini; le

gocce di miele rappresentano le effimere gioie della

vita. La vita, argomenta Tolstoj a questo punto, può

essere tollerabile solo per l’incosciente che non vede il drago, o ancora per chi pur vedendolo ha gusto per le

gioie effimere; ma per chi si rende chiaramente conto

della situazione dell’uomo sembrerebbe non esserci altra via che il suicidio. Eppure, se questo sembra

essere il punto di vista prevalente nei filosofi (in

particolare nel suo Schopenhauer) e nella classe colta e

abbiente alla quale Tolstoj appartiene, non sembra che

così pensi la maggior parte dell’umanità, dei tanti che faticano sotto il sole, vivendo una vita grama ma senza

dubitare che abbia un senso. Da cosa sono sostenuti?

Da una fede magari rozza e superstiziosa, ma che

rispetto alle elucubrazioni dei sapienti ha la capacità di

stabilire un rapporto vissuto tra l’infinito e il finito. E

questo rapporto ha molto a che fare con il giusto modo

Grandi esperienze spirituali (5)

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di vivere, che non è quello di una classe proprietaria

parassita, ma di chi si guadagna da vivere con il

proprio lavoro. E’ a questo punto che Tolstoj si sente impegnato ad un radicale cambiamento di vita pratica,

mettendo le sue ricchezze a disposizione di cause

umanitarie. Nello stesso tempo, riprende in

considerazione la fede cristiana, da lui abbandonata in

gioventù sotto l’influsso della lettura degli illuministi; fino a seguire alla lettera il consiglio di Pascal, di

cominciare a pregare e a fare pratiche di devozione

nella fiducia che la fede verrà per conto suo. Alla fine

però egli avverte questo tentativo come una forzatura

basata su una mancanza di sincerità con se stesso. La

soluzione, con un passo decisivo molto pascaliano,

sarà il riconoscimento della presenza operante di Dio

all’interno della stessa ricerca: “Conoscere Dio significa poter vivere. Dio è la vita. Vivi cercando Dio,

e allora non ci sarà vita senza Dio” (p. 84). Nelle pagine dedicate al cammino spirituale di Tolstoj

(Gandhi e Tolstoj op. cit, p. 133 e segg.) Piercesare

Bori mette in rilievo in Tolstoj la polarità tra

l’influenza di Pascal e quella di Rousseau, nel

complesso prevalente. Da un lato un rigorismo al

limite del manicheismo, un forte senso del male e del

peccato e una ricerca di purezza anche a costo di

un’ascesi mortificante. Dall’altro l’ampia visione della confessione di fede del Vicario savoiardo contenuta

nell’Emilio roussoiano, la ricerca di un nucleo comune

delle religioni in cui s’incontrano ragione e sentimento, filosofia e senso comune dei popoli. Alla

fine, più che agli illuministi Tolstoj è sicuramente

vicino alle esperienze del radicalismo cristiano come

quello dei Duchobory (in russo: lottatori dello spirito),

un movimento pacifista e di contestazione della

Chiesa, che nella Russia del settecento aveva dato vita

a comunità agricole autosufficienti. Una loro

manifestazione contro il servizio militare portò nel

1895 ad una durissima repressione del regime zarista,

che fece centinaia di morti. Tolstoj nel 1902

impiegherà i profitti del suo ultimo

grande romanzo, Resurrezione, per

aiutare ottomila di questi pacifici

settari ad emigrare in Canada (dove

tuttora vivono i loro discendenti).

Questa affinità elettiva con

movimenti di tipo anabattista la dice

lunga sull’orientamento di fondo del suo pensiero maturo: cristianesimo

integrale ma non dogmatico, che si

traduce in uno stile di vita

radicalmente alternativo; rifiuta lo

Stato come necessariamente legato

alla pratica della violenza, quella

violenza che bisogna sconfiggere con

la “non resistenza” (che non significa - va sottolineato - subire passiva-

mente il male, ma non rispondere al

male con il male) alla quale egli

riconduce il nucleo principale del

messaggio cristiano.

La terza parabola, che conclude La confessione, è un

sogno che Tolstoj racconta di avere fatto realmente nel

1882. E’ forse questo sogno la sintesi più felice

dell’idea - a mio modo di vedere centrale nel nostro

tempo - della vita come possibilità paradossale del

“vivere sospesi” e insieme serenamente. Tolstoj sogna di essere sdraiato sul suo letto, ma c’è qualcosa che non va; comincia a muoversi, e un poco alla volta

scopre di star sospeso su una serie di corde, al di sotto

delle quali si spalanca un abisso spaventoso.

Muovendosi, le corde una ad una scivolano via, ne

rimane solo una che sorregge la metà del corpo.

Disperato, rivolge lo sguardo verso l’alto e comincia a calmarsi. “Continuo a guardare l’infinito che si apre sopra di me, sento che mi sto calmando (…) E allora mi domando: come mai non sono ancora precipitato?

(…) E sento che non sono più appoggiato precariamente, con il rischio di cadere, ma che mi

reggo saldamente. Mi domando come sia possibile, mi

tocco dappertutto, mi guardo intorno e vedo che sotto

di me, proprio a metà del corpo, c’è una cinghia, e guardando in alto mi appoggio ad essa, nel più stabile

equilibrio, e allora capisco che anche in precedenza era

quella cinghia a sorreggermi. (…) Vedo inoltre che accanto al mio capo c’è un palo (…) cui è fissata una corda (…) per cui se si rimane coricati su questa corda poggiando su di essa con la parte centrale del corpo, e

se si guarda in alto, è impossibile cadere. Tutto questo

ormai mi è chiaro e mi sento tranquillo, felice. E mi

sembra che qualcuno mi dica: “Bada! Non te ne dimenticare mai!”. E mi sveglio”.

Due Tolstoj?

Il 24 settembre del 1908 esce ne “Il proletario”, organo

del partito socialdemocratico russo, un articolo di

Vladimir Ulianovic Lenin per l’ottantesimo

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compleanno di Tolstoj intitolato “Tolstoj, specchio della rivoluzione russa”. “Tolstoj è ridicolo come profeta che avrebbe scoperto nuove ricette per la

salvezza dell’umanità… Tolstoj è grande come

interprete delle idee e degli stati d’animo che si sono formati in milioni di contadini all’epoca della rivoluzione borghese in Russia. Tolstoj è originale

perché l’insieme delle sue idee, se si considerano in blocco, esprime appunto la peculiarità della nostra

rivoluzione come rivoluzione borghese contadina. Le

contraddizioni nelle idee di Tolstoj, da questo punto di

vista, sono un vero specchio delle condizioni

contraddittorie nelle quali ha dovuto svolgersi l’azione storica dei contadini durante la nostra rivoluzione”. E continua dicendo che il desiderio di “spazzar via” chiesa, stato, vecchi ordinamenti, di “creare in luogo dello stato poliziesco di classe una comunità di piccoli

contadini liberi e uguali nei diritti” attraversa come un filo rosso la storia russa e negli scritti di Tolstoj è più

importante dell’astratto “anarchismo cristiano”. Verrebbe voglia di insinuare che Lenin ce l’ha con il Tolstoj “profeta” perché lo sente come un pericoloso concorrente rivoluzionario (egli pensa d’essere un “profeta” assai più smaliziato politicamente e filosoficamente, di avere in tasca la scienza della

rivoluzione). Ma chi può dire chi vedesse meglio nel

presente e nel futuro, il materialista storico o il

cristiano radicale? Piercesare Bori, che abbiamo già

citato, in una conferenza di anni fa a Cuneo, ci ha fatto

scoprire un filo segreto tra i due “rivoluzionari”: esso riguarda la storia del fratello di Lenin, Aleksandr,

condannato a morte nel 1887 per la sua partecipazione

ad un complotto per uccidere Alessandro III (nel 1881

era stato ucciso dai terroristi lo zar Alessandro II).

Tolstoj chiede la grazia, che fu negata: forse la storia

della Russia - si è chiesto Bori - sarebbe stata diversa?

In Lenin possiamo vedere uno dei tanti “estimatori critici” che credono nell’esistenza di due Tolstoj: da un lato il grande romanziere dal quale c’è sempre qualcosa da imparare, dall’altro il profeta “ridicolo” perché prigioniero di contraddizioni

storiche oggettive la cui vera natura

gli sfugge. Senza negare il carattere

drammatico della sua “conversione”, da quello che abbiamo detto si

comprende che l’orientamento del presente articolo è piuttosto quello di

sottolineare la continuità tra i due

Tolstoj.

Giustamente Bori sottolinea come

non si possa difendere il secondo

Tolstoj dall’accusa di moralismo manicheo (e quelli tra di noi che

hanno letto in particolare la Sonata a

Kreutzer, con la sua demonizzazione

della sessualità anche coniugale, non

possono non essere d’accordo). Egli in sostanza nega la mediazione

storica dell’esigenza morale, i

percorsi tortuosi della storia. “In sintesi, quel che giustamente si può rimproverare a Tolstoj è di non

usare, nella sua riflessione etica e religiosa, quella

sensibilità alla dimensione storica, anzi, materiale e

corporea di cui pure è ricca la sua produzione

letteraria. Questo gli impedisce di cogliere e di

rispettare i difficili percorsi che nella storia delle

società umane e nella persona concreta, attraverso vie

traverse, trasgressioni, conflitti inevitabili, possono

condurre a far propria la concezione finale ed

altissima che ci propone, una concezione accentrata

sostanzialmente attorno ad un’idea radicale dell’amore che si afferma attraverso la sua forza indifesa. Idea che credo si debba condividere, purché

la si veda non come polo opposto, ma come esito finale

di un processo di maturazione della pulsione

fondamentale, con le sue basi basse, materiali,

corporee, storiche. Proprio dalla natura oppositiva e

dualistica e non affermativa del pensiero religioso

tolstojano, proprio da una certa ossessione di purezza

come separazione piuttosto che come sguardo limpido

e indifeso, nasce la riduzione negativa dell’amore a non-resistenza al male; nasce l’incomprensione per i fondamenti ebraici non eliminabili dalla concezione

cristiana e nasce la condanna di tutta la complessa

vicenda delle Chiese cristiane” (Introduzione di

Piercesare Bori a: Lev Tolstoj, La mia Fede,

Mondadori 1988: ho evidenziato in corsivo il passo

finale che mi pare sintetizzare efficacemente il valore

ma anche i limiti del contributo di Tolstoj al pensiero

nonviolento).

Un altro punto debole del secondo Tolstoj è a mio

modo di vedere la mitizzazione del popolo contadino

come portatore di verità primordiali incontaminate (ma

in errori del genere era in buona compagnia: i

democratici mitizzavano le masse, i nazionalisti

l’anima profonda del popolo, i marxisti la classe operaia). Temo che qualsiasi tentativo di attribuire un

valore assoluto al finito (e questo vale anche per i

fondatori delle grandi religioni, per i libri sacri, per le

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formulazioni nelle quali i teologi cercano di dar forma

al divino) porti a insuperabili contraddizioni. E

tuttavia, non possiamo rapportarci all’assoluto che attraverso il finito: ma - ricordando il famoso

proverbio dello stolto che, quando indichi la luna,

guarda il dito - altro è cogliere l’indicazione del finito,

altro è fissarsi su di esso in senso esclusivo; altro è

prendere le parole dei libri sacri con serietà e altro

prenderle alla lettera.

Direi che talora anche Tolstoj cede alla tentazione di

fornire soluzioni “pronte per l’uso” dei problemi della vita, con questo attirando folle di mediocri in cerca

appunto di soluzioni bell’e pronte, e ansiosi di usarle per un’auto valorizzazione egoica (si pensi alle folle

contemporanee di “fissati” con il rovello dell’ideale ma in cerca di scorciatoie, pacifiche come il new age o

violente come l’islamismo). Non sono sicuro di avere capito a fondo cosa Tolstoj intende con la “non resistenza al male” in cui egli fa risiedere l’essenza del cristianesimo, ma temo che in sostanza questa formula

rientri nelle scorciatoie di cui sopra. In sostanza, in

Tolstoj l’ispirazione nonviolenta vuole volare ma a rischio di clamorose cadute; sarà Gandhi a fornirle le

“gambe”, a metterla in condizione di camminare coi

piedi per terra. Tra i due c’è una differenza radicale: Tolstoj parla di non resistere al male, Gandhi di una

resistenza non violenta. Cosa che comporta un’attività, anzi la costruzione di una vera cultura della non

violenza, di un’economia alternativa, di una politica alternativa.

Del resto, una parte del fascino esercitato da Tolstoj

deriva proprio dal difficile compito in cui s’impegna, di mettere insieme i vari “pezzi” di cui è costituito. Di mettere d’accordo cristianesimo e modernità,

distinguendo - secondo il noto proverbio - tra il

bambino (il nucleo valido della tradizione) e l’acqua del bagno (le scorie di mentalità superate); di mettere

d’accordo particolare (famiglia) e universale (umanità: la sua fuga finale testimonia appunto questa difficoltà);

di mettere insieme vita e scrittura. “O si vive, o si

scrive”, diceva Pirandello: ma Tolstoj è un esempio

della possibilità - e della difficoltà - di mettere insieme

le due cose in modo onesto (altri modi, come quello di

D’Annunzio, non sono affatto onesti). Infine: questo interprete dell’anima popolare russa è un aristocratico nel midollo, che come tale si sente in colpa, in quanto

parassita del popolo lavoratore, ed è ben cosciente di

conoscere a fondo solo l’aristocrazia e di essere

estraneo all’anima borghese della Russia commerciale, industriale, operaia, che proprio verso la fine

dell’ottocento era in pieno sviluppo: molto più vicino a quest’altra faccia della Russia era Dostoevskij. Piercesare Bori conclude il proprio discorso facendo

un elenco degli elementi tuttora validi dell’ultimo Tolstoj: anzitutto la difesa della ragione di fronte alla

chiusura dogmatica delle religioni storiche e alle loro

derive superstiziose e magiche. Cade qui la forse

maggiore differenza rispetto a Dostoevskij, del quale è

nota l’affermazione scandalosa: “Se dovessi scegliere tra Cristo e la verità, sceglierei Cristo”. Un’affermazione che andrebbe contestualizzata, come in questa sede non è possibile fare; alla quale Tolstoj

risponderà implicitamente con le molte affermazioni

sulla necessità di disfarsi della “zavorra” accumulata dai secoli e che rende irrilevante l’insegnamento di Cristo. Anche volendo, non si può ritornare alla fede

del passato, non ci si può sforzare di credere a ciò cui

sinceramente non riusciamo a credere, bisogna partire

dal rispetto di se stessi e della ragione. Chi ha letto i

miei articoli precedenti ha capito che questa è la linea

che personalmente condivido, anche perché penso che

una presa di distanza “laica” sia in molti casi l’unico modo per riprendere contatto con il nucleo vivo di

parole coperte da secoli di patine “devote”. Ancora una volta, si tratta di distinguere tra il bambino e l’acqua del bagno che si butta via. Il guaio è che in tema

religioso questa operazione non è per nulla semplice:

una religione che prescinde dalla vita concreta della

comunità credente - sia pure con le sue contraddizioni

- e si alimenta solo di letture, congressi e iniziative

umanitarie è qualcosa che sa di

libresco e di artificioso (e questa

appunto è l’obiezione tante volte rivolta contro la religione di Tolstoj).

In secondo luogo, un elemento tuttora

valido del secondo Tolstoj è secondo

Bori il rifiuto del machiavellismo, il

rifiuto di separare etica e politica: il

messaggio di Cristo deve investire la

vita nella sua totalità. Sotto questo

aspetto - volendo piombare nell’at-tualità - osserviamo che i due opposti

nostri contemporanei, la nonviolenza

gandhiana e il terrorismo islamico,

convergono nel rifiutare questa stessa

separazione. Sia il nonviolento che il

terrorista dicono: guardate che noi

esistiamo, che non condividiamo i

vostri valori individualistici e

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consumistici, che siamo pronti a

morire (nel caso del terrorismo

anche ad uccidere) per affermare i

nostri e non lasciarci imporre i

vostri. Entrambi rifiutano l’indi-vidualismo occidentale, il suo

tagliare i ponti con il passato, con

la natura e con l’umanità, il suo attrarre le masse con le promesse

di paradisi artificiali, di felicità

virtuali.

Aggiungerei per mio conto che

l’idea di una vita più “naturale”, più vicina alla terra e a chi la

coltiva, è più che mai viva e

urgente proprio ora che le nostre

condizioni di vita sono quanto

mai “innaturali”. Tolstoj in campagna, vestito da contadino,

appariva un aristocratico eccen-

trico all’inizio del novecento: oggi, all’inizio del ventunesimo secolo, mi sembra piuttosto prefigurare - certo mutatis mutandis - un

futuro di ritorno alla terra, di un rapporto più

equilibrato con l’ambiente, come unica possibilità di un futuro per l’umanità: come unica possibilità di sostenibilità ecologica, economica e antropologica.

Lettera a un indù e corrispondenza con Gandhi Nell’ambito della sua ricerca della verità al di là degli steccati confessionali, accanto alle sue ampie letture di

testi delle religioni orientali, Tolstoj ha alimentato per

decenni corrispondenze con uomini di ogni paese,

cultura e fede religiosa. Tra il 1909 e il 1910 (anno

della morte), in questa vastissima corrispondenza si

inquadra un suo breve carteggio con Gandhi: sette

lettere in tutto, di cui tre di Tolstoj e quattro di Gandhi.

Mentre mi riservo di tornare su Gandhi anche in

rapporto a Tolstoj, accenno in conclusione brevemente

all’antefatto senza il quale non si spiega tale corrispondenza. Nel maggio 1908, scrive a Tolstoj

Taraknath Das, un giovane indiano di tendenze

estremiste. Esule in Nord America per ragioni

politiche, aveva dato vita a Vancouver alla rivista Free

Hindustan. Sostenitore della via rivoluzionaria armata

all’indipendenza indiana, scriveva: “Voi odiate la guerra, ma la fame in India è più spaventosa di

qualsiasi guerra. E questo, non per la penuria dei

prodotti alimentari, ma a causa del depredamento della

popolazione e della spoliazione del paese da parte del

governo britannico” (Bori, p. 107). E sollecitava

Tolstoj a esporre la sua opinione riguardo alla “penosa situazione dell’India”. Tolstoj rispondeva con un’ampia lettera che è un vero saggio sul potere, sul modo in cui esso sfrutta il

bisogno di unità che è proprio degli uomini.

L’imposizione dall’alto sarebbe inutile senza un consenso dal basso, senza quella che La Boethie

chiamò la “servitù volontaria”. C’è una forza antagonista, quella dell’amore, espressa dalle religioni, che mira all’unione con tutto ciò che gli è connaturale, e contesta il potere. A questo il potere risponde che la

violenza è indispensabile per mettere a posto i

“cattivi”, coloro che violano le regole: ma chi decide chi è cattivo? E chi formula le regole? Siamo nella

contraddizione, ma questa viene mascherata dal fatto

che sono molti coloro che ci guadagnano a servire il

potere esistente; e dal fatto che il potere impara a

servirsi della religione e del suo linguaggio basato

sull’amore come di un instrumentum regni.

Secondo il pensiero dominante, l’amore vale solo entro

le mura di casa, non nella vita sociale.

Con la modernità, alla religione tradizionale si

sostituisce una sorta di religione della scienza, ma le

cose non cambiano sostanzialmente; anche qui, la

scienza viene utilizzata dal potere come fonte di

legittimazione e giustificazione. Cosa dice la scienza?

Che la violenza c’è sempre stata, anche come legge di natura, infine che il potere è legittimato, non più

direttamente da Dio, ma ora dal popolo.

E allora? L’unico modo per liberare l’India è l’amore, non la violenza, che significa ricadere nello stesso

gioco del potere. Non sono stati gli Inglesi - sostiene

Tolstoj - a ridurvi in schiavitù, siete stati voi stessi,

proprio come l’ubriaco non può accusare gli osti ma se stesso della propria dipendenza dall’alcool. “Non resistere al male” viene inteso da Tolstoj come “sciopero” di non collaborazione, come non parteci-pazione (rifiuto della “servitù volontaria”). Sul piano delle credenze, è importante gettare a mare

la paccottiglia religiosa (dogmi, superstizioni ecc.);

dare la priorità non alla cosiddetta civiltà (arte

letteratura scienza ecc), ma alla legge dell’amore, unica cosa necessaria.

Alberto Bosi

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n. 5 (168) – dicembre 2015 il granello di senape pag. 26

Accogliere e accompagnare con consapevolezza La cooperazione sociale cuneese si mette in Rete

Il fenomeno delle immigrazioni forzate verso l'Europa negli ultimi anni ha vissuto un aumento esponenziale dovuto prevalentemente all'instabilità politica ed economica, alla povertà, alle guerre in numerosi Paesi africani. I dati relativi agli sbarchi sulle coste italiane nell’ultimo quinquennio, raccolti dal progetto ‘Rotte comuni’ della Caritas, sono, in questo senso, esemplificativi: 4.406 nel 2010 migranti approdati sulle coste italiane nel 2010; 62.692 nel 2011; 13.267 nel 2012; 42.295 nel 2013; 170.000 nel 2014. Secondo il Rapporto sulla protezione internazionale in Italia, promosso da Anci, Caritas Italiana, Cittalia, Fondazione Migrantes e Sprar, in collaborazione con l’Unhcr (Alto commissariato Onu per i rifugiati), sono stati circa 320 mila i migranti che da gennaio 2015 a metà settembre hanno percorso la rotta del Mediterraneo: circa 205 mila sono appro-dati in Grecia, mentre 115 mila persone hanno raggiunto l’Italia. Metà delle per-sone che hanno scelto la rotta mediter-ranea giungono dalla Siria, il 12% dal-l’Afghanistan, il 9% dall’Eritrea, mentre in misura minore si registrano presenze di nazionalità nigeriana e irachena. E’ chiaro come i numeri, incrementati notevolmente negli ultimi due anni, giustifichino politiche ed interventi volti a rispondere alla necessità primaria di accoglienza, come previsto dalla Costituzione italiana, che all’art.10 comma 3 recita: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Il forte aumento del flusso migratorio ha spinto il governo italiano a predisporre un secondo canale per l’accoglienza, a fianco dello SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati). Sulla base di criteri stabiliti dal Ministero, parte delle persone accolte presso i Centri Governativi per Richiedenti Asilo (CARA-CPSA-CDA) vengono inviate presso le varie sedi di accoglienza temporanea individuate sul territorio italiano, prevî accordi specifici con le locali Prefetture, che a loro volta le collocano, attraverso dei bandi, presso strutture recettive (alberghi e simili) e strutture del III° Settore (cooperative, associazioni). In un periodo iniziale è prevalsa l’urgenza dell’accoglienza ‘fisica’; successivamente ci si è giustamente preoccupati non solo della risposta ai bisogni materiali primari (alloggio, pasti), ma anche di offrire opportunità di socializzazione (insegnamento della lingua, contatti con il territorio, forme di approccio alla nostra cultura, accompagnamento legale

alla commissione che esamina la richiesta di Asilo, la mediazione sociale e culturale). Nel Cuneese la cooperazione sociale - rappresentata da Momo, Fiordaliso e CIS (consorzio di cooperative), Insieme a Voi e Armonia - ha ritenuto non sufficiente attenersi alle normative di accoglienza stabilite dal Ministero e ha costituito una rete di imprese denominata ‘Rifugiati in rete’ tendente a individuare, attraverso una serie di incontri, linee guida che fissino stili e modalità di un’accoglienza più consapevole. Questo confronto a breve porterà alla pubblicazione di una vera e propria Carta dei Servizi. In buona sostanza, si tratta di individuare dei princìpi base di azione e di

confrontarsi sulle pratiche concrete da mettere in atto. Si è scelta la costituzione di piccoli gruppi di persone, che più facilmente possono entrare nel contesto di uno specifico territorio senza creare problemi di convi-venza. Territorio che va preventivamente analizzato per coglierne caratteri e potenzialità recettive, e con il quale va stabilito un dialogo di accettazione e condivisione del progetto, sia con i cittadini che con gli amministratori.

Si tratta quindi di un ‘accompagnamento’ verso l’autonomia nella vita quotidiana e l’integrazione sociale, la cui necessità è motivata anche dai tempi lunghi di attesa del pronunciamento della commissione che valuta le pratiche: se infatti la legge prevederebbe 45 giorni come limite temporale per l’accoglimento o il respingimento delle domande d’asilo, nella realtà i tempi d’attesa oscillano tra i 12 e i 18 mesi. Particolare importanza assume anche l’accompagnamento degli immigrati verso l’audizione davanti alla commissione che esamina le domande di asilo. La maggior parte di loro, infatti, ha scarsa conoscenza dei suoi risvolti burocratici e neppure è consapevole della sua delica-tezza, in quanto momento fondamentale per ottenere lo status di rifugiato (meno del 50% delle domande ottiene una risposta positiva…), tanto che spesso non si pensa neppure a produrre documentazione e testimonianze che garantirebbero automaticamente l’accoglimento della domanda presentata. Da fonte del Ministero dell’Interno, i richiedenti asilo arrivati a seguito dell'emergenza profughi in provincia di Cuneo sono stati complessivamente 931. A febbraio 2015 il dato è di 329 persone presenti sul territorio provinciale. Il Viminale ha comunicato che in Regione Piemonte entro il 2015 si prevede l'arrivo di ulteriori 1.151 profughi, 191 dei quali in provincia di Cuneo.

(a cura di Elisa Gondolo - coop Momo, per ‘Rifugiati in Rete’)

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n. 5 (168) – dicembre 2015 il granello di senape pag. 27

E' un motivo ricorrente, ormai, il

tentativo di "dare voce a chi non

ce l'ha". Scrittori, organizzazioni

benefiche, istituzioni religiose. Si

tenta di essere mezzo di

espressione e di denuncia, di

utilizzare la propria voce per

esprimere la frustrazione, la gioia,

il dolore di qualcun altro.

Il nostro tentativo è ancora più

ardito, poiché abbiamo provato a

tacere per ascoltare quelle voci

che, di solito, vengono soffocate

dal guazzabuglio di rumore, urla,

parole. Ciò che segue è il risultato:

una serie di "voci" - la prima già

pubblicata sul numero di febbraio

- che non sono quelle di chi scrive,

che hanno un timbro e una caden-

za, un lessico e uno stile propri.

Voci belle più che disperate, sagge

più che bisognose. Voci che hanno

vissuto e conosciuto, voci diverse,

che hanno avuto la forza di

partire, trascinandosi dietro le

proprie radici.

(A cura di Federica Bosi)

… dal Marocco

Ho iniziato a lavorare in fabbrica d’estate, con le mie sorelle, a Casablanca. Avevo dodici anni. Riempivamo

le olive con pezzetti d’acciuga e peperone. Le mani bruciavano e il capo era una donna vecchia e severa.

Odiavo quel lavoro, ma a casa mancavano i soldi,

eravamo in nove noi figli, avevamo bisogno di libri e

di vestiti. Mi piaceva il momento della paga, quello sì,

mi piaceva guardare la segretaria, così ben vestita, in

mezzo a noi con il camice e le mani sporche. Voglio

essere come lei, pensavo. Le mie sorelle hanno smesso

di studiare e hanno fatto le operaie in una fabbrica

tessile, io ho preso la maturità e ho fatto un corso per

diventare stenografa. Ho vinto la selezione per un

impiego al Ministero della Salute. Mi piaceva il mio

ufficio, mi piaceva sedermi alla scrivania, vedere il

telefono poggiato sul tavolo. Non

guadagnavo molto ma avevo

capito come pensavano gli

uomini, e che per essere libera

avrei dovuto mostrarmi forte e

responsabile.

Poi un giorno ho conosciuto un

ragazzo. Ero a un matrimonio, lui

faceva il fotografo e aveva sei

anni più di me. Veniva dalle

montagne ma aveva studiato

all’università di Casablanca.

Abbiamo iniziato a frequentarci,

uscivamo di nascosto dalle nostre

famiglie. Andavamo al cinema,

parlavamo per ore al bar. Nessuno

doveva sapere che vedevo un uomo senza essere sua

moglie, sarei diventata il disonore della famiglia. Una

ragazza marocchina non ha nulla di più caro della

propria verginità.

Siamo stati insieme sei anni, e nel frattempo la mia

famiglia ha cambiato casa, ci siamo trasferiti in un

posto più grande, con una stanza per i maschi e una per

le femmine. Quando avevamo ospiti non dovevamo

più dormire tutti in cucina. Un giorno lui, il mio

ragazzo, mi ha detto, voglio sposarti. La sua famiglia è

venuta a casa mia, mia madre era morta da poco, e sua

madre ha chiesto la mia mano. Ho capito subito che

c’era qualcosa di diverso in lui, che qualcosa era

cambiato, teneva gli occhi bassi e non riusciva a

parlare. Siamo stati insieme un anno, da fidanzati. In

quell’anno è diventato un altro; aveva paura di contraddire la sua famiglia, faceva tutto quello che

diceva la sorella. Un giorno dovevamo andare a

comprare il divano per la casa nuova, lui mi ha

telefonato e mi ha detto che sarebbe venuta sua sorella

con me, a sceglierlo. Ma è casa nostra, ho protestato.

Non c’è stato niente da fare. Prima del matrimonio abbiamo litigato, ho lasciato le chiavi della casa nuova

sul tavolo e me ne sono andata. Speravo che mi

chiamasse, non l’ha mai fatto. Pochi mesi dopo ho saputo che si era sposato. Ero talmente arrabbiata che

continuavo a dire a me stessa che

non avrei più frequentato un

uomo, mai più. Ho raccontato

tutto a una mia amica d’infanzia e qualche giorno dopo è arrivata

con sua madre a casa mia e mi ha

detto, ti abbiamo scelta per mio

fratello. L’avevo visto solo una volta, di sfuggita. Non ci

conoscevamo. Lui era in Italia da

vent’anni, si era sposato con una

donna veneta ma avevano

divorziato. Stava cercando una

donna marocchina, tra gente della

stessa cultura è più semplice, ha

detto la mia amica. Ho accettato.

Il giovedì è arrivato a casa mia e il sabato eravamo

sposati.

Abbiamo vissuto un mese insieme per conoscerci. Io

ero ancora delusa e arrabbiata, non ero convinta ma

vedevo che tutti intorno a me erano contenti, la mia

famiglia voleva così. Avevo posto come condizione al

matrimonio che io restassi in Marocco, e vivessi sola.

Quando è ripartito per l’Italia ho scoperto di essere incinta, ho affrontato da sola la gravidanza e anche il

parto, lui è tornato tre giorni dopo la nascita del nostro

primo figlio.

voci voci voci

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n. 5 (168) – dicembre 2015 il granello di senape pag. 28

Pescatori di… uomini

“Una volta ci siamo imbattuti in una piccola imbarcazione piena di persone che stava affondando” racconta Yanes Bechiryanes, meccanico a bordo di un peschereccio tunisino. “Non potevamo lasciarli in quella situazione, così abbiamo chiamato in aiuto altri due pescherecci con cui spesso collaboriamo. Li abbiamo soccorsi, distribuendoli fra le tre imbarcazioni. Erano molto spaventati, abbiamo dovuto calmarli. Perdiamo ore di lavoro e quindi soldi, ma si tratta di esseri umani e abbiamo il dovere di aiutarli”. Da anni i pescatori tunisini si imbattono in imbarcazioni in difficoltà e salvano le vite dei migranti, mettendoli al sicuro sulle proprie barche. Medici Senza Frontiere (Msf) ha organizzato un corso di formazione di 6 giorni per 116 pescatori nella città di Zarzis (Tunisia) per aumentare la loro capacità di effettuare salvataggi in mare. Hanno ricevuto equipag-giamenti per la sicurezza e il soccorso, e informazioni sanitarie. “Le tragedie in mare continueranno sempre perché le persone sono disposte a tutto pur di fuggire in Europa” dichiara Wiet Vandormael, coordinatore della formazione Msf. “Le operazioni di ricerca e soccorso aiutano a salvare vite, ma non sono una soluzione a lungo termine. Per evitare che le persone continuino a rischiare la propria vita in mare, l’Unione Euro-pea deve creare canali sicuri per raggiungere l’Europa”. Almeno 2.800 persone sono morte nel Mediterraneo nel 2015. L'organizzazione ha lanciato la campagna #Milionidipassi, con un appello all’opinione pubblica e ai governi al quale i cittadini sono chiamati ad aderire.

Sergio Dalmasso Tavolo delle Associazioni, Cuneo

Lì sono iniziati i problemi veri, era sempre più

assillante, insopportabile. Litigavamo in continuazione

e lui minacciava urlando che avrebbe chiesto il

divorzio, io sapevo che una donna sola con un

bambino, in Marocco, non fa tanta strada. Ho capito

che l’unica via di fuga era l’Italia. Ho lasciato mio figlio alle mie sorelle e sono tornata con lui in Veneto.

Era il 21 febbraio 2003. Lì ho scoperto che mio marito

era ancora sposato con la donna italiana. Ho passato

dieci giorni d’inferno a casa di quest’altra sua moglie, fingendo di essere sua sorella. Dopo dieci giorni il mio

visto è scaduto e sono scappata, da clandestina, da un

mio cugino che stava in una cittadina del Cuneeese.

Per la prima volta dopo tanto tempo mi sono sentita di

nuovo sicura, rilassata. Mio marito mi ha seguita e

siamo andati a vivere in una piccola stanza in centro

città. Era solo una stanza ed era vecchia, ma era casa

mia. Una delle prime cose che ho pensato, in quei

giorni, è che imparare l’italiano sarebbe stata l’unica salvezza. Ho conosciuto la presidentessa di un’asso-

ciazione, che mi ha guardata negli occhi, senza chie-

dermi chi sei, da dove vieni, hai i documenti. Ho

iniziato a frequentare le lezioni di italiano e tramite un

prete abbiamo trovato, io e mio marito, un

appartamento in un paese lì vicino. In quegli anni c’era più lavoro: ho assistito una donna malata di cancro, ho

lavorato in una fabbrica di lavatrici, ho fatto la

lavapiatti. Mio marito ha trovato un posto in una

cooperativa che assemblava pezzi per le bici, ma

litigava con i capi e con i colleghi e alla fine ha perso il

lavoro. Ho scoperto che per avere i documenti sarei

dovuta essere madre di un cittadino italiano, così sono

rimasta incinta per la seconda volta.

Ero distrutta, odiavo mio marito e mi mancava il mio

primo figlio. Avevo bisogno di raccontare la mia storia

a qualcuno che mi credesse, e per fortuna ho conosciu-

to Maura, un’assistente sociale che mi ha dato fiducia. Nel 2005 sono tornata per la prima volta in Marocco, e

dopo tre anni ho visto quel figlio che avevo lasciato

neonato e che non riconoscevo più. Quando siamo

tornati in Italia ci ha seguiti anche mia sorella che per

avere un passaporto falso ha pagato 7000 euro. La

situazione in casa è ulteriormente peggiorata: eravamo

di più e c’erano meno soldi. Ho iniziato ad avere ansia, mal di stomaco e vertigini, l’assistente sociale mi ha

consigliato una psicologa a cui potermi rivolgere, le ho

raccontato la mia storia e il rapporto difficile con mio

marito. Lei mi ha guardata e mi ha detto, sei tu che

devi decidere. Odiavo l’uomo con cui vivevo, odiavo il padre dei miei figli.

Nel 2006 ho deciso di tornare a vivere in Marocco. In

Italia mi avevano aiutata in tanti, ma mi sembrava di

non riuscire più a sopportare il clima, il lavoro, la vita.

Nei due anni che sono stata in Marocco ho seguito un

corso per diventare infermiera, mi sono occupata dei

miei figli, ho lavorato. Finalmente mi sentivo bene e

ho capito che se prima stavo male e avevo l’ansia la colpa non era dell’Italia, ma di mio marito. Mi sono resa

conto che in un modo o nell’altro dovevo lasciarlo.

Una volta tornata in Italia, i litigi sono diventati

sempre più frequenti e violenti. Nel frattempo ho preso

terza media e il diploma da OSS; mi sentivo forte,

sicura, non riuscivo più a sopportare la situazione.

Quando ho lasciato mio marito lui mi ha picchiata.

Sono andata dai carabinieri per denunciarlo e tutto

quello che mi hanno detto è stato, è la sua parola

contro quella di suo marito, signora. Sono andata

avanti anche se lui mi cercava e continuava a

minacciarmi, ho trovato un avvocato per il divorzio e

ho affittato un piccolo alloggio per me e i bambini. In

Italia sto bene, i miei figli sono italiani. Ogni tanto

scherzo e dico al più piccolo che è piemontese: è

sempre così trattenuto, non dice mai quello che pensa.

Mio marito, quando ha capito che da me non avrebbe

più avuto un centesimo, ci ha lasciati stare ed è tornato

in Marocco.

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Incontri di memorie

il viaggio in Grecia e nei Balcani del Centro Santos Milani

Premessa: tra il viaggio e questo scritto c’è stato Parigi, il 13 di novembre 2015. Che le parole di Muhizin Omerovic, uomo musulmano incontrato a Srebrenica: “Non tutti i Serbi hanno ammazzato mio

padre... non tutti i Serbi hanno partecipato al

genocidio... impedire che lo spazio si riempia di

paura... bisogna comunicare, conversare, bisogna

essere attenti... voglio vivere con Serbi, Croati,

Ebrei.... restare da soli è un suicidio...” siano monito ed allo stesso tempo aiuto per individuare il senso del vivere in questi tempi difficili e scuri. Scorro Azione Nonviolenta (bimestrale del Movimento Nonviolento), il numero di luglio-agosto interamente dedicato ad Alex Langer, uomo della nonviolenza, del rispetto degli uomini e della natura (a vent’anni dalla morte), il cui pensiero è ancora profondamente e profeticamente attuale nell’analisi dei fatti, anche della storia recente. Basta ripercorrere qualche suo scritto per trovare ad esempio il richiamo alla necessità di una politica euro-mediterranea oppure l’accenno (siamo nel 1995!) alla “crescita del

fondamentalismo islamico”, all’immigrazione verso l’Europa, “nella possibilità di dover coesistere con

regimi (vecchi e nuovi) poco affidabili dal punto di

vista delle potenze europee e comunque dotati di forze

armate considerevoli”, possibili fattori minacciosi e potenzialmente forieri di instabilità. Dal 10 al 23 ottobre abbiamo percorso le strade balcaniche per raggiungere e tornare dalla Grecia, attraversato parecchie frontiere, di giorno e di notte senza incontrare la disperazione dei migranti, quelle processioni viste sui giornali premere ai confini con l’intento innanzi tutto di fuggire dalle guerre dei loro paesi prima di conoscere con precisione la meta dove arrivare... Personalmente avevo anche un certo timore di trovarmi/trovarci di fronte a quelle angosce, da turista, quindi “benestante” al confronto della loro estrema povertà ed insicurezza. La Grecia per tutti noi ha rappresentato in questi mesi una storia di lotta, di orgoglio nazionale, una dimostrazione di non volersi adagiare, sconfitta, sulle difficoltà, una voglia di farcela ed allora avevamo voglia di cercare riscontro a queste impressioni. Ad Atene ci sono tanti negozi chiusi, manifestazioni in centro, Tsipras che non è amato... Avevamo letto della solidarietà italiana con gruppi ed organizzazioni locali in difficoltà, della condivisione di ideali ma anche di aiuti materiali. Lo scorso anno, nel corso del viaggio per raggiungere le Meteore, in una cittadina di confine, una signora dall’aspetto dignitoso,

al nostro no per l’acquisto di un barattolo di marmellata, ci aveva chiesto di poter prendere il pane avanzato dal pranzo. Il viaggio in pullman consente di ripassare passo passo la complicata storia balcanica, sempre così difficile da comprendere e ricordare nelle varie sfaccettature della guerra recente e delle ferite non ancora del tutto rimarginate. Tutte le campagne, bulgare, serbe, macedoni, sono povere, le case sono essenziali, c’è tanta legna da ardere accatastata in ogni dove, anche per i condomini alla periferia. Nei monasteri si respira aria di spiritualità difficilmente descrivibile, una religiosità semplice ed immediata, fatta di tanti segni, di incensi, di immagini, di canti che invitano al silenzio, alla meditazione, ad un’attenzione composta e rispettosa. Ci sarebbe

piaciuto rimanere di più al monastero femminile di Ravanica (sulla strada per Belgrado) dove una sobria liturgia ci elevava spiritualmente, pur senza comprendere le parole. A Salonicco i ristoranti attorno al mercato, un grande mercato, segnalato

dalle guide turistiche, cercano di accaparrarsi i pochi clienti e mentre mangiamo parecchie sono le proposte di acquisto di biglietti della lotteria, con l’illusione di un guadagno facile. Ad Atene l’hotel è in una strada che un po’ divide il quartiere turco da quelli più benestanti, con i negozi delle grandi marche, non fa paura girare per quelle strade. Mi coglie una necessità di silenzioso rispetto entrando nell’Acropoli, per il tempo, per la storia, per quanto quelle vestigia hanno rappresentato, la stessa sensazione che provo al museo dove si ammirano i pezzi originali e restaurati, come il prodigio di delicatezza delle Cariatidi, visibili da vicino. Ci attardiamo al tramonto di capo Sunio e ci perdiamo nel quartiere de La Plaka, appena sotto l’Acropoli, stradine con negozi, piccoli esercizi, bar, botteghe di artigiani vecchie e rare. A tre di noi tocca il casuale e piacevole incontro con un falegname, uno dei pochi rimasti a lavorare interamente a mano, ad intagliare le tavole per le icone... non ci capiamo ed il figlio al computer dialoga con noi grazie al traduttore di Google, l’anziano un po’ burbero ci saluta commosso con un baciamano. C’è in effetti l’imbarazzo della scelta di quanto si vuole vedere, approfondire, guardare, osservare anche come ripasso di storia! I siti affascinanti nel loro restauro, adagiati su montagne ed incastonati in terrazzamenti come Delfi, ampio, inimmaginabile dalla strada sottostante.

“Sul mio ponte si transita in entrambe le direzioni,

e sono contento di poter

contribuire a far circolare

idee e persone”

Alex Langer (1946 - 1995)

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n. 5 (168) – dicembre 2015 il granello di senape pag. 30

Moscacieca Basta la lettura anche di due soli capitoli per vedere liquefarsi alcuni luoghi comuni attorno a professori e giuristi: che i primi sono tutti noiosi e i secondi petulanti e formali. L’eleganza di alcune affermazioni di Gustavo Zagrebelsky in Moscacieca (Roma/Bari, Laterza, 2015) sorprende per efficacia nel fotografare lo stato delle cose e per forza poietica. Dunque né noiosa né formale e petulante questa piccola opera che oserei definire graziosa, ossia pervasa dalla grazia di uno sguardo nitido e una scrittura chiara. “Vivere significa progettare ciò che ancora non è e si vuole che sia. Sopravvivere è dibattersi per non farsi sopraffare. Oggi la politica si è trasformata in una convulsa agitazione di tecnici della sopravvivenza.”

Roba prosaica la brutale sostanza di cui l’Autore argomenta: questo tempo veloce dell’ “esecutivo”, l’erosione della sovranità statale, l’importanza attribuita ai poteri economico-finanziari che “scorribandano” per i quattro punti cardinali sfrenati nella loro bulimia, la cieca processione di finte riforme per assuefarci al sopravvivere nel tentativo di far dimenticare ogni possibilità di vera progettazione di “futuri”, l’inge-gneria costituzionale del taglia e cuci …, gli slogan della “governabilità”, dell’effi-cacia decisionale,della modernizzazione del paese…

Gustavo Zagrebelsky argomenta, analizza, critica con un nitore che affascina, sprona, inquieta. Ed è giusto che inquieti e faccia da contraltare allo slogan che va per la maggiore: “piaccia o non piaccia, siamo dentro questa realtà, una realtà che ci sommerge e ci obbliga. Facciamocene una ragione e un’abitudine”. E' benefico che l'autore smonti questa sorta di iperrealismo che è la summa teologica della rassegnazione.

Così rassegnati riusciamo ancora a vedere e capire che tutta quell’agitazione tecnocratica vuole dare “l’impressione di dischiudere chissà quale futuro”; in realtà “somiglia tragicamente al gioco della moscacieca, dove il caos inghiotte la comprensione e la volontà si smarrisce”?

Eva

“La Grecia è come un pallone sgonfiato.... Non c’è più nulla”, dice sconsolata l’impiegata del museo di Delfi, lo dice dal cuore ed intanto non dimentica i tanti migranti, che arrivano dal mare, più malmessi di loro, già in difficoltà. Tempo di anniversari, di ricordi significativi: 20 anni fa moriva Alex Langer - una settimana prima della carneficina di Srebrenica - profondo conoscitore della terra balcanica, legato affettivamente agli attivisti per la pace di quelle zone martoriate per cui aveva speso tanta della sua energia, forse troppa. Ci ha quindi fatto piacere trovare riscontro di questo affetto, a Tuzla, sulla piazza principale: un giovane tiglio piantato da poco per ricordare questa amicizia e questo impegno. E 20 anni fa Tuzla, città della Bosnia legata a Srebrenica, perché è su Tuzla che ripiegano le donne ed i bambini dopo il massacro del luglio 1995. Su una porta dell’ufficio turistico di Srebrenica che si affaccia sulla piazza del paese, è rimasto un grande adesivo - Musicians without borders (Musicisti senza frontiere) - segno del passaggio di qualche significativa iniziativa artistica. 20 anni fa Srebrenica: un tempo autunnale, triste ed umido, ci accompagna, costeggiando il fiume Drina, nell’avvicinamento a questo grosso paese, famoso per la storia terribile che ci facciamo raccontare da un impiegato, musulmano, del comune perché - grazie alla determi-nazione di Renzo Dutto - andiamo a cercare il sindaco. Racconta con dovizia di particolari vicende personali e della sua famiglia, fatti che attraversano l’esperienza di questa enclave non protetta, con i suoi più di 8000 uomini uccisi ed interrati in fosse comuni, ancora oggi non tutte note. Ogni anno nel mese di luglio vengono approntate ulteriori tombe con i resti che di volta in volta si ritrovano, attribuiti dopo accurati e meticolosi esami del Dna. Infatti nel grande memoriale di Potocari, la distesa di tombe, tutte uguali, bianche, è intercalata, negli spazi, non molti quelli rimasti liberi, da piccole assicelle verdi su tumoli di terra fresca, sono gli ultimi, quelli inumati quest’anno... Noi, venti persone, sparse e sperse, ci aggiriamo nel grande capannone, ora, forse volutamente, non tanto illuminato, adibito a museo, la fabbrica dove erano stati raccolti i musulmani rastrellati nell’enclave. Vi campeggiano le gigantografie degli ammassamenti di allora e dei ritrovamenti successivi, delle file di bare allineate e delle tante donne velate che ogni anno accompagnano i loro uomini ritrovati, o meglio i resti dei loro uomini, figli, padri, ragazzi... Muhizin Omerovic, ora impegnato in attività pacifiste, nell’organizzazione della marcia che percorre queste strade in senso contrario, rispetto alla fuga, quindi da Tuzla a Srebrenica (in internet c’è il resoconto di questa esperienza e di quanti si coinvolgono di anno in anno anche dall’estero), dice che è tornato nel 2005, dalla Svizzera, dove era fuggito, per un richiamo della sua terra, e parla di un sostanziale buon vivere oggi. In effetti nelle strade, un po’ sconnesse, si respira un’aria di normalità.

Costanza

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n. 5 (168) – dicembre 2015 il granello di senape pag. 31

Testimonianze dai territori palestinesi

Le condizioni di vita del popolo palestinese, sia nella

Striscia di Gaza sia in Cisgiordania, non sono quasi

mai un argomento trattato nei programmi televisivi di

informazione, se non in occasione di eventi terribili

come la guerra a Gaza nell’estate del 2014. Le

distruzioni nella Striscia, la mancanza di infrastrutture

e servizi, le condizioni degli ospedali privi di medicine

e delle più elementari attrezzature, la disoccupazione

pressoché generalizzata, e soprattutto la disperazione

di questo popolo soggetto ad un embargo totale da

anni, non sono che raramente oggetto di discussione.

Allo stesso modo poco si parla dei palestinesi della

Cisgiordania che si vedono sottrarre sempre più terre,

tagliare uliveti, distruggere con le ruspe le loro case,

per far posto agli insediamenti dei coloni israeliani, e

che vengono cacciati sempre più lontano da quei

territori dove, secondo

l’ONU, doveva nascere lo Stato palestinese, o rinserrati

dal grande muro che divide i

loro villaggi da quelli

israeliani e che spesso separa

le loro abitazioni dai campi e i

campi dalle sorgenti.

Don Nandino Capovilla,

referente nazionale della

campagna “Ponti e non muri” promossa da Pax Christi

International, e Betta Tusset

hanno dato testimonianza di

tutto questo il 5 novembre

scorso a Cuneo presso il

Centro di Documentazione

Territoriale, durante l’incon-

tro intitolato “L’eterno con-

flitto fra israeliani e pale-

stinesi” organizzato dal Cen-

tro di Formazione Milton

Santos-Lorenzo Milani.

E’ stato proposto all’attenzio-ne del pubblico il

documentario “Toc-toc” che racconta la storia di un giovane palestinese, laureatosi a Venezia e con

promettenti opportunità di lavoro, che ha deciso di fare

ritorno nella sua terra martoriata, la Striscia di Gaza,

per ricongiungersi ai suoi cari e mettere su famiglia,

dovendo poi assistere agli ultimi bombardamenti che

hanno ridotto in macerie gran parte delle abitazioni.

Il titolo del documentario, fra l’altro, riporta il nome dei razzi che gli aerei israeliani fanno cadere sulle case

che stanno per colpire pochi minuti prima dello

sganciamento delle bombe. Questo avviene per

adempiere formalmente alle norme del diritto

internazionale in salvaguardia dei civili, ma la

popolazione, in realtà, difficilmente ha il tempo di

fuggire e inoltre non sa dove nascondersi essendo

questi territori ad altissima densità abitativa.

Nel documentario abbiamo visto le conseguenze dei

bombardamenti a tappeto, con l’uso anche delle bombe al fosforo bianco, vietate dalle Nazioni Unite perché

bruciano i tessuti del corpo fino alle ossa, senza

possibilità di fermarne gli effetti. Abbiamo visto la

gente scavare a mani nude fra le macerie alla ricerca

dei cadaveri, l’enorme fatica di tentare di ricostruire dei rifugi, che non si possono chiamare case, con i

materiali ricavati dagli edifici crollati; abbiamo visto

ospedali dove perfino i bisturi sono arrugginiti, dove

nascono bambini che non hanno nessuna speranza di

avere un futuro dignitoso, dei diritti, e in molti casi

non avranno proprio un futuro perché probabilmente

moriranno al prossimo raid israeliano.

Gaza è una specie di lager dove due milioni di persone,

in una striscia di quaranta

chilometri, sono ostaggio di

Israele e anche della politica

di Hamas che, rispondendo

alla violenza segregazionista

con i missili (seppur con

conseguenze per gli israeliani

di gran lunga inferiori, se non

irrisorie, grazie al loro ottimo

sistema di difesa), provoca

l’ira vendicativa del governo israeliano e la distruzione del

suo stesso popolo.

Dalla Cisgiordania non

partono missili contro le città

di Israele, eppure ugualmente

non si può dire che i

palestinesi che vi abitano

abbiano vita facile.

Don Nandino Capovilla ci ha

mostrato un altro documen-

tario, girato soprattutto a

Betlemme, che mostra la

progressiva espansione degli insediamenti dei coloni

israeliani a scapito dei villaggi palestinesi. Si tratta di

una vera e propria colonizzazione di quelle terre: le

ruspe distruggono le case palestinesi, con l’ausilio di appigli considerati legali, ma che in realtà mostrano

solo l’arroganza di una conquista; un muro serpeggiante, lungo centinaia di chilometri, separa gli

insediamenti dai villaggi, privando dei campi e perfino

dell’acqua potabile chi vive nei territori. Inoltre i palestinesi della Cisgiordania, che lavorano in Israele,

devono ogni mattina, alle prime luci dell’alba, affrontare lunghe e umilianti file in attesa ai check-

point, dove i soldati israeliani controllano i documenti.

“Due popoli e due Stati”: lo slogan per tanto tempo

ripetuto anche dalle nazioni occidentali, è ormai una

utopia e la rabbia dei palestinesi è sempre più forte.

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n. 5 (168) – dicembre 2015 il granello di senape pag. 32

Così sia

Così possa avvenire, forse (3)

Così possa avvenire

forse

che alle spiagge dell’inesausto pensare

vada a raccogliere almeno granelli

di polveri e sabbie lucenti

che le reni del mondo han deposto

estratto filtrato

dal dolore dei vinti.

Così possa avvenire

forse

che il mio olfatto conosca senza inganni

i prati su cui riposare

le fonti a cui bere

i lieviti le farine per il buon pane

le piccole follie

a cui chiedere saggezza.

Così possa avvenire

forse

che l’andare lieve sia forte

e i provvisori passi tenace viaggio

che lo scavare non sia che compimento

di fatica e canto

ad onorare il vero

mai veduto.

Così possa avvenire

forse

che stenda umide parole

al vento di tramontana

senza pinzarle ai fili

così che il vento cospiri

con chi le attende

senza neppure sapere.

Così possa avvenire

forse

che anch’io senza sapere

traversi i giorni

presa da inutile bellezza

arrivata da albe remote

fino ad aleggiarmi dentro

e dirmi proprio ora:

T’aspettavo.

Eva

[questa poesia prosegue quelle pubblicate sui n. 166 e 167 del Granello]

Oggi siamo ad un’altra Intifada, non più solo delle pietre, ma anche dei coltelli. Ma come si può pensare

di tenere in queste condizioni un intero popolo e che

questo semplicemente si rassegni a vivere

un’esistenza completamente priva di diritti e opportunità? Come può un governo democrati-

camente eletto, quello di Israele, non vedere che

anche per gli israeliani stessi non ci può essere pace

finché i palestinesi subiranno quella che è una vera e

propria persecuzione?

I paesi occidentali sono altrettanto colpevoli o per il

loro silenzio o addirittura per il loro assenso alle

violenze perpetrate nei confronti dei palestinesi, e

spesso chi alza la voce contro Israele viene incolpato

ipocritamente di antisemitismo per metterlo a tacere,

senza considerare che anche molti israeliani sono

contro la politica espansionistica del loro stesso

governo e comprendono le ragioni dei palestinesi e

sanno, e dicono, che non ci potrà mai essere né pace

né sicurezza per nessuno continuando in tal modo.

Con la nascita di Israele è terminata la secolare

diaspora degli ebrei, ma è iniziata la diaspora dei

palestinesi, costretti a rifugiarsi nei campi profughi,

cacciati sempre più in un altrove in cui la vita e

l’identità sono umiliate. Mi chiedo come si debba sentire chi una mattina si sveglia, ha solo il tempo di

tirare via in fretta da casa qualche masserizia, qualche

oggetto, qualche vestito, e poi assiste impotente alla

distruzione in pochi minuti della casa di una vita.

Come può quella persona non sentirsi distrutta dentro?

Come può non odiare, come può non diventare

violenta?

Eppure Don Nando Capovilla e Betta Tusset ci hanno

dato testimonianza di azioni quotidiane di resistenza

nonviolenta del popolo palestinese. In particolare

questo viene narrato nel loro libro “Voglia di norma-

lità” che raccoglie le testimonianze delle famiglie palestinesi a cui è stata sottratta la casa o la terra.

Di questo libro riporto alcune frasi tratte dalla

presentazione degli autori: “Vogliamo dedicare questo nostro lavoro alle case palestinesi o, meglio, ai loro

abitanti, ai loro modi di resistere perseguendo per se

stessi e per i loro figli tutte le modalità che consentono

di continuare a vivere ‘come se’ ogni giornata fosse

normale, quando ormai nulla, nella quotidianità di

qualsiasi palestinese, assomiglia alle situazioni che noi

occidentali consideriamo quantomeno ordinarie.” Queste famiglie hanno raccontato “come si vive in un’abitazione occupata dai soldati o con il muro di

divisione a un metro dal proprio cancello o, ancora,

come si affronta la giornata sotto una tenda

perennemente abbattuta dall’esercito. Le loro testimonianze, talvolta così drammatiche da sfiorare

l’inverosimile comunicano un vissuto che sembra

ripetersi identico da generazioni: diversi sono i fatti

storici, ma uguali la sofferenza di chi è costretto a

subirli senza poter disporre della propria vita.”

Nadia Benni

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n. 5 (168) – dicembre 2015 il granello di senape pag. 33

Israele: un Paese malato, fiancheggiato dagli Usa Il ministro della Difesa israeliano, Moshe Ya'alon, è in partenza per Washington dove incasserà, oltre ai 3,1 miliardi di dollari già messi in bilancio dal governo statunitense, un ulteriore aiuto in armi di 1 miliardo di dollari, mentre il programma di aiuti ai palestinesi su-birà un calo già annunciato pari a 80 milioni di dollari. Israele, malgrado le reiterate violazioni dei diritti umani e della legalità internazionale viene sempre giustificata e compensata dai suoi più fedeli alleati, gli Stati Uniti. Un accordo come quello raggiunto ad Amman tra il re di Giordania, il segretario del Dipartimento di Stato John Kerry e il premier Netanyahu, è una nuova trappola per i palestinesi: Kerry vuole solo tentare di fermare la rivolta. Lettere morte sono gli appelli della leadership palestinese alla comunità internazionale per la protezione delle moschee e della popolazione dei territori occupati, per il blocco della colonizzazione e della violenza dei coloni, così come per la fine dell'occupazione israeliana. Le dichiarazioni di Kerry vanno tutte nella direzione di responsabilizzare il presidente Mahmoud Abbas per non essere in grado di far cessare la rivolta, scoppiata in modo totalmente spontaneo, con l'effetto a catena dei tentativi di accoltellamento adottati da giovani pa-lestinesi, azioni individuali alle quali Israele risponde come al solito con punizioni collettive e rappresaglie, demolendo le case delle famiglie degli attentatori o presunti tali, non restituendo per la sepoltura i corpi degli assassinati, imponendo blocchi, costruendo muri anche dentro Gerusalemme Est, arrestando nel solo mese di ottobre circa 1.200 persone. Coloni, soldati e polizia israeliani compiono esecuzioni sommarie e con premeditazione uccidono giovani che dai video e dalle dichiarazioni di testimoni oculari non erano armati neppure di coltelli. Sono già 61 (18 solo ad Hebron) i palestinesi uccisi in questo mese di ottobre, tra loro bambini e donne. E Neta-nyahu, dopo l'accordo di Amman, propone di revoca-re la residenza a più di 100mila palestinesi che, non per loro scelta, vivono al di là del muro e continua a dare il via all'ampliamento di colonie illegali come quella di Itamar. Mentre, da Israele, Kerry si accontenta di un accordo che riguarda la gestione della Spianata delle moschee e la garanzia (alla quale nessuno crede) che il governo israeliano non ne muterà lo status, proibendo

quindi agli ebrei ortodossi di recarsi a pregare all'interno della moschea e permettendo solo le visite nel complesso di al-Aqsa. Questi non sono però "turisti" curiosi di visitare uno dei luoghi più belli del mondo, bensì nazionalisti religiosi che sulla moschea vogliono ricostruire il tempio, a loro dire distrutto dai romani, e con esso stabilire la sovranità ebraica sull'area. Nello stesso tempo il ministro Gilad Erdan ha predisposto gli orari di visita al complesso della moschea, con divieto di entrata ai musulmani dalle ore 7.30 alle 9.30: orari che fino a poco tempo fa erano predisposti solo dal Wafq, l'autorità islamica preposta. Già questo è un mutamento dello status quo, così come l'installazione di telecamere controllate dagli israeliani. Non battono un colpo né l'Onu né l'Unione Europea che con le loro vacuità e non affrontando il nodo della questione per cui questa nuova rivolta è scoppiata – l'occupazione militare israeliana che dura ormai dal 1967 – si rendono complici di Usa e Israele. Questa rivolta vede protagonisti giovani che non sono legati a forze politiche organizzate, ormai in crisi e screditate, che comunicano con il mondo attraverso i social network ma che, dalla Cisgiordania, non possono neppure arrivare al mare o andare a Gerusalemme o, nel caso di Gaza, non possono uscire né verso l'Egitto né verso la Cisgiordania. Giovani che non hanno mai vissuto un giorno di libertà, umiliati quotidianamente dal controllo militare israeliano, dalla disoccupazione, dall'ingiustizia aberrante di vedere la propria casa o quella dei propri vicini o parenti demolita, dall'avere padri, fratelli, amici rinchiusi nelle carceri israeliane, dal vedere o subire i massacri compiuti a Gaza nella totale impunità. Bisognerebbe conoscere e dare voce alla storia perso-nale di ciascuna di queste ragazze e di ciascuno di questi ragazzi ed analizzare i motivi che spingono ad impugnare un coltello. Azioni da condannare certo, ma

non per questo li chiamerei terroristi. I media hanno adot-tato la propaganda e i pregiu-dizi sui palestinesi "terrori-sti" e così i coloni, che sono illegali, vengono presentati come israeliani che si difen-dono – quando invece ammaz-zano, bruciano, linciano – e dei giovani palestinesi giusti-ziati a freddo si dice solo che sono stati "neutralizzati". Pochi giorni fa, mentre insieme ad altri israeliani ed internazionali con la sua presenza aiutava i palestinesi nella raccolta delle olive, il

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n. 5 (168) – dicembre 2015 il granello di senape pag. 34

Vendere armi non è intelligente

Alenia Aermacchi, società del gruppo Finmec-canica, è capofila di un consorzio, composto anche da Bae Systems e Airbus, che produrrà 28 Eurofighter per conto del Kuwait. “Il velivolo rappresenta al momento il più avanzato aereo da combattimento multiruolo di nuova generazione attualmente disponibile sul mercato mondiale” secondo il Sole 24ore. Una supercommessa da 8 miliardi di euro che “porterà negli stabilimenti italiani lavoro e occupa-zione e investimenti nell’ingegneria e nella proget-tazione” ha commentato con soddisfazione Miche-le Zanocco, segretario nazionale della Fim-Cisl. Purtroppo, la fornitura degli aerei al paese mediorientale, che non brilla per il rispetto dei diritti umani, potrebbe avere altre ricadute. Il Kuwait fa parte della coalizione guidata dall’Arabia Saudita che, per contrastare l’avanzata del movimento sciita-zaydita Houthi, sta bombardando lo Yemen da marzo, senza alcun mandato o giustificazione internazionale. Il conflitto ha finora causato più di 4mila morti e 20mila feriti, di cui circa la metà tra la popolazione civile, provocando una “catastrofe umanitaria” con oltre un milione di sfollati e 21 milioni di persone che necessitano di urgenti aiuti. “Nonostante l’aggravarsi del conflitto, non ci risulta che il governo italiano abbia sospeso l’invio di sistemi militari alla coalizione saudita, anzi in questi mesi dal nostro paese sono continuate ad essere inviate bombe e forniture militari per le forze armate dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti”, denuncia Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio per le Armi Leggere di Brescia.

Sergio Dalmasso Tavolo delle Associazioni, Cuneo

rabbino Arik Ascherman, dell'associazione Rabbis for Human Rights, è stato aggredito con un coltello da un colono. È tutto documentato, ma nessuno ne parla. Sono davvero rare le eccezioni di chi cerca di capire le ragioni di questa sollevazione, nessuno che dica che le rivolte continueranno a scoppiare fino a quando ci sarà l'occupazione militare, che la repressione potrà fermarle per qualche tempo ma che inevitabilmente riesploderanno. Israele è un Paese malato, che va salvato da se stesso, permeato com'è di razzismo non solo verso i palestinesi ma, al proprio interno, verso i falascia, gli africani, le minoranze. L'incitamento al razzismo è nelle parole e nei fatti di rabbini, politici, cittadini. Il giornalista israe-liano David Sheen da più di cinque anni documenta e testimonia della crescita di una destra nazionalista, annoverando al suo interno anche il ministro Naftali Bennet che si vanta di aver ucciso molti arabi. Il governo di Netanyahu pullula di coloni e di nazio-nalisti religiosi. Nel tentativo di demonizzare i palesti-nesi il primo ministro è arrivato persino a sostenere che non fosse Hitler a volere lo sterminio degli ebrei bensì Amin al-Husseini, ex Mufti di Gerusalemme. Lo scrittore Amos Oz, di fronte ai continui attacchi dei coloni e all'assassinio, lo scorso anno, del giovane Mohammed Abu Khdeir al quale hanno fatto inghiot-tire benzina per poi dargli fuoco, sostiene che «non bisogna nascondere la verità: anche in Israele ci sono gruppi neo-nazisti come in Europa, la sola differenza è che in Israele sono sostenuti dal governo». Le poche forze di sinistra che esistono ancora in Israele sono sottoposte a campagne denigratorie e additate come traditrici: è il caso di Meretz e dei parlamentari della lista unitaria, che comprende le diverse formazioni arabe e il partito Hadash, minacciati costantemente di espulsione dalla Knesset. La rivolta dei giovani palestinesi non è solo per al-Aqsa: è per la dignità, per la libertà. Non è solo la rivolta dei coltelli: da giorni e giorni, nei villaggi e ai check point, i giovani cercano di farsi varco per le strade per affermare il loro diritto a passare liberamente sulla loro terra, andando incontro a repressione ed arresti. Ancora pietre contro soldati armati che hanno l'ordine di sparare e uccidere, soldati nelle cui fila c'è un 40% di coloni, giovani anch'essi convinti che quella terra sia loro, per diritto divino, e spietati verso i palestinesi. In questa situazione i comitati popolari per la resistenza nonviolenta, che dal 2004 resistono al muro e all'occupazione – subendo incarcerazioni arbitrarie e contando feriti e morti a causa dei proiettili sparati dai soldati –, tentano di unire le forze e chiedono ai dirigenti palestinesi di definire una linea comune di condotta e di non muoversi solo sul piano della diplomazia internazionale. La maggioranza della popolazione è però bloccata dalla paura, dall'angoscia di veder uscire i propri figli e non vederli tornare, dal terrore di rivedere le distruzioni avvenute a Gaza e in Cisgiordania nel 2002, quando tutti vivevano sotto

coprifuoco e il campo profughi di Jenin fu raso al suolo, dalla delusione degli accordi di Oslo che hanno prodotto una maggiore colonizzazione del territorio palestinese... se fino al 1991, i palestinesi potevano andare a vedere il mare a Tel Aviv, oggi non possono neppure andare a Gerusalemme o al mare di Gaza. Non c'è speranza? Non ci sono possibilità di uscire da questa ingiustizia? In realtà sarebbe semplice, basterebbe coerenza tra le dichiarazioni e i fatti, basterebbe cominciare a dire ad Israele: fermati! Non lasciare Israele impunito, ma far pagare il prezzo delle violazioni della legalità internazionale adottando, come si fece per il Sudafrica, una politica di sanzioni. E noi, società civile, dovremmo mobilitarci, agire sui nostri governi, dare voce a quei palestinesi ed israeliani che insieme dicono che l'occupazione militare uccide tutte e tutti e che credono che la democrazia, la dignità, la libertà sia per tutti e tutte.

Luisa Morgantini (29/10/2015) già vice presidente del Parlamento europeo

(www.assopacepalestina.org) Tratto da: Adista Segni Nuovi, n. 38 del 7/11/2015

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n. 5 (168) – dicembre 2015 il granello di senape pag. 35

In ricordo del sociologo Luciano Gallino

Ho avuto la fortuna di essere un allievo del professor Luciano Gallino, uno di più importanti sociologi italiani. Ero uno studente lavoratore, orfano di padre, non potevo frequentare l’università, perché impegnato in lavori vari. Ma Gallino rispettava gli studenti che, provenienti da classi basse, non potevano frequentare. Ho sostenuto con lui 4 esami, ma soprattutto mi ha seguito con pazienza nella tesi di laurea e, nei molti incontri per prepararla, ho avuto modo di apprendere concetti basilari per un approccio sociologico alla realtà sociale. Luciano Gallino fu un grande uomo di cultura, lucidissimo nelle analisi, libero da condizionamenti di potere. Vorrei ricordarlo riportando alcune riflessioni tratte dall’ultimo suo libro (Il denaro, il debito e la

doppia crisi spiegati ai nostri nipoti, Einaudi, 2015, pp. 200), praticamente un suo testamento. La prefazione porta il titolo Perché la crisi non è quella

che vi raccontano. La realizzazione di una società migliore dell’attuale non può prescindere da una profonda conoscenza della crisi del capitalismo e del sistema finanziario. Gallino inizia rivolgendosi ai nipoti e dichiarando che la sua, ma anche la loro, è la storia di una sconfitta, perché “abbiamo visto scomparire due idee e relative pratiche

che giudicavamo fondamentali: l’idea di uguaglianza e quella di pensiero critico” e, come se ciò non bastasse, si è aggiunta “la vittoria della stupidità”. Analizza anzitutto il principio di uguaglianza, che ha come base i diritti inalienabili di ogni cittadino, e che pur con fatica “nell’insieme ha avuto esiti straordinari […] fino a diventare vita quotidiana per l’intera popo-

lazione”. In particolare, molto importanti per il diffondersi dell’uguaglianza furono, in quasi tutti gli Stati europei, i primi trent’anni dopo la seconda guerra mondiale. A partire dalla fine degli anni Settanta “una classe di

personaggi super-potenti e super-ricchi che controllano

la finanza, la politica, i media – e che si usa stimare

nell’1 per cento - iniziò un feroce quanto sistematico

attacco a qualsiasi cosa avesse attinenza con

l’uguaglianza”. Secondo lui, la causa fondamentale della sconfitta dell’uguaglianza è stata, a partire dagli anni Ottanta, la doppia crisi del capitalismo e del sistema ecologico. Una crisi del capitalismo che deriva “dall’incapacità di vendere tutto quello che produce; dalla riduzione

drastica dei produttori dei beni e servizi i quali abbiano

un reale valore d’uso; dal parallelo sviluppo del sistema finanziario al di là di ogni limite, da utile ausiliare

dell’economia produttiva a sfrontato padrone di ogni aspetto della vita sociale”. Il capitalismo reagisce a questa crisi “accrescendo lo sfruttamento irresponsabile dei sistemi che sostengono la vita […] nonché ostacolando in tutti i modi gli interventi che sarebbe

necessario adottare prima che sia troppo tardi”. Tutto questo con il ferreo sostegno del neoliberalesimo “che riducendo tutto e tutti a mere macchine contabili dà

corpo ad una povertà del pensiero e dell’azione politica

quale non si era forse mai vista nella storia”. Quanto al pensiero critico, afferma che “le rappre-

sentazioni della società predominanti in un paese -

proposte dai giornali, dalla TV, dai discorsi dei politici, dalle scienze economiche, … - distorcono la realtà al

fine di legittimare l’ordine esistente a favore delle élite o classi che formano tra l’1 e il 10 per cento della popolazione”. La drammaticità di questa situazione è accresciuta dal fatto che “non esiste più alcun punto di riferimento di qualche peso e visibilità sociale dal quale

un pensiero critico emerga per confutare ad alta voce tali

fittizie rappresentazioni della nostra società”. Domina su tutto “l’egemonia dell’ideologia neoliberale” che, tra l’altro, “ha fatto passare il principio che anzitutto

bisogna salvare le banche senza chiedere loro nulla

(quanto ai cittadini, se la sbroglino), ma soprattutto ha

avallato l’idea che una crescita senza limiti dell’eco-

nomia capitalista sia possibile e desiderabile”. Critica poi duramente le politiche di austerità, portatrici di disastri di ogni genere. La stupidità in campo economico “domina il governo dell’economia non solo in Italia, bensì in tutta la UE”. E commenta queste affermazioni con vari dati. Cerca infine di rispondere alla domanda che gli si potrebbe fare: che cosa possiamo fare noi?

Risponde che è fondamentale farsi un’idea solida del tipo di persona, “di essere umano che ammirate, e che vorreste essere […] partendo dalla fondamentale

distinzione tra ragione soggettiva o strumentale e

ragione oggettiva. La prima vede nell’essere umano principalmente una macchina da calcolo, che pondera

senza tregua il rapporto tra mezzi e fini: è l’idea alla base dell’ideologia neoliberale”. La ragione oggettiva “non guarda alla massimizzazione dell’utile, bensì al problema del destino umano […] incluso l’ideale di uguaglianza e quello di evitare all’umanità, in un futuro che si avvicina rapidamente, il fosco destino che l’aspetta se non provvede quanto prima a riparare i guasti da essa stessa apportati al sistema

ecologico”. Solo partendo di qui “verrà naturale pensare a quale sarebbe il genere di società in cui quel tipo umano

vorrebbe vivere, e che vorreste impegnarvi a realizzare”. La conclusione, nonostante la dura analisi, è piena di speranza in quanto “nessuno è veramente sconfitto se

riesce a tenere viva in se stesso l’idea che tutto ciò che è può essere diversamente, e si adopera per essere fedele a

tale ideale”. Tutto il suo lavoro vuole essere un tentativo volto ad aiutarci “a coltivare una fiammella di pensiero

critico nell’età della sua scomparsa”. Renzo Dutto

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Cambiare… per tornare al passato La classe media in America Latina ha deciso di voltare le spalle a un decennio di conquiste sociali

Quando in un paese o in un continente cresce la classe media, quando una buona percentuale della gente raggiunge un livello di benessere discreto, acquisisce uno stile di vita che la fa sentire “ricca”, e come per incanto – o per disincanto – rinuncia alla memoria, non vuol saperne di ricordare da dove è venuta, qual era la sua situazione prima di affacciarsi al “paradiso”. E men che meno vuol sentir parlare di diritti sociali, di Stato che controlli l’economia, di tasse da pagare per il funzionamento regolare e gratuito dell’educazione e della salute. Il benessere non può essere di tutti, deve essere di pochi. E questi pochi non sono dei privile-giati! Sono semplicemente persone che hanno sudato per ottenere quel pezzo di paradiso. E non è pensabile condividerlo, allargarlo, rinunciare a qualcosa perché tutti vi abbiano accesso. Quella stessa classe media – resa tale grazie a governi e a politiche sensibili ai temi dell’inclusione sociale, dell’allargamento dello spazio dei diritti, della cultura dell’accoglienza e della difesa delle diversità, dell’attenzione e della cura dell’ambiente – si sveglia una mattina e chiede un “cambio”. Un cambiamento che metta fine una buona volta all’insopportabile e antistorico “populismo” di quei governi. La vita è un’altra. “La società non esiste” – come diceva Margareth Tatcher. Le conquiste sociali ed economiche non sono per tutti! Qui non si tratta di ergersi a privilegiati. Si tratta di custodire i propri spazi, i propri diritti come individui, si tratta di difendere la propria “sicurezza”! È questa la parola magica del nuovo moto ondulatorio del pendolo. La nuova divinità di questo inizio di millennio. L’individuo – un mito creato dalla modernità e portato alla sua fase estrema dalla postmodernità fatta di ultra-comunicazione e di virtualità – ha diritto prima di tutto alla sua sicurezza. A qualsiasi costo. A scapito di qualsiasi bene comune, dei diritti stessi. Lo Stato esiste esclusivamente per difendere l’individuo… la sua sicurezza, i suoi interessi, il grado di benessere raggiunto, i suoi conti in banca. A tal fine occorre innescare un processo di aggiustamento strutturale, che riduca drasticamente le spese assurde e sempre più insostenibili dello stato sociale. Non sono più tollerabili sussidi per le classi meno abbienti, né la gratuità dei servizi. La classe “post-operaia” deve “cercarsi un lavoro” e con quello vedere di sopravvivere. Il movimento del pendolo è tornato a destra. Sorgono così governi conservatori, democraticamente votati da quella preponderante classe media, che impongono misure drastiche di aggiustamento strutturale, tagliano le politiche sociali, riducono

all’osso il welfare state o lo distruggono del tutto. L’economia comincia a indebolirsi, il lavoro scarseggia, il costo della vita risulta alto rispetto agli stipendi, sempre più esigui, le tasse aumentano, non vi è più incentivo statale per le piccole e medie industrie, la salute e l’educazione sono sempre più un privilegio di chi può pagare. E succede che una bella fetta di quella stessa classe media deve fare le valigie e tornare in periferia. Proprio com’era scritto a caratteri cubitali sul muro di una fabbrica nella periferia di Buenos Aires: “Bienvenida Clase Media”. Era il 1994. L’auge dell’epoca menemista con i suoi aggiustamenti strutturali e le sue politiche antisociali e di svendita al mercato delle pulci di tutti i beni dello Stato.

Qualsiasi costruzione non può fare a meno di

partire dal basso

Sembra che di questi tempi qualcosa stia “cambiando” in America Latina. C’è chi ha già decretato la “fine di un ciclo” progressista, riferendosi al tramonto di un’epoca che ha caratterizzato le politiche e i governi di buona parte dei paesi latinoamericani. Governi definiti “populisti”, e che sono effettivamente tali. Ma il termine va spogliato di quel connotato negativo o addirittura sprezzante di cui si è venuto caricando nel tempo in Occidente. Non è questo il contesto per un’analisi storica del termine e per le considerazioni rispetto all’attualità. Può risultare utile citare due studiosi che hanno sviluppato un concetto molto più serio e coerente del populismo: Ernesto Laclau e Giacomo Marramao. Un argentino e un italiano. Va precisato, peraltro, come il sorgere dei governi progressisti in America Latina non è dovuto all’inizio di un ciclo sostenuto dall’alto prezzo internazionale delle materie prime. È stato invece caratterizzato dal farsi strada di un movimento di massa a livello continentale che ha scalzato i governi neoliberisti imposti dal Fondo Monetario Internazionale, a partire dalle dittature degli anni ’70 fino agli inizi del millennio. Hugo Chavez, Evo Morales, Rafael Correa, Néstor e Cristina Kirchner, Lula da Silva, Dilma Rousseff costituiscono il frutto di una lotta dei lavoratori, dei movimenti sociali, delle comunità di base, della filosofia e della teologia della liberazione, dell’elaborazione intellettuale dei progetti culturali e politici di tanti centri di studio universitari sparsi sul continente, dei popoli originari, della lotta delle donne, delle periferie impoverite, contro i piani di aggiustamento neoliberisti.

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Qualsiasi costruzione non può fare a meno di partire dal basso, caratterizzandosi quindi come popolare, o populista che dir si voglia. Dall’alto si possono solamente costruire pozzi o creare voragini, dove sotterrare diritti, utopie e speranze. Si è trattato delle lotte per la terra, per la sovranità nazionale, per l’integrazione latinoamericana, per la casa, l’acqua, il petrolio, il gas, per un lavoro dignitoso, in difesa delle pensioni, dei risparmi, dei patrimoni nazionali, delle culture originarie, per un’educazione laica e gratuita, per il matrimonio ugualitario, per la salute per tutti, contro il debito internazionale immorale e illegale. Da qui sono sorte le rivoluzioni pacifiche, con matrici molto diverse nei vari paesi dell’America Latina, ma con radici e obiettivi comuni, che hanno portato con sé profondi cambiamenti strutturali nel continente, frutto di una democrazia più partecipativa. Non vi è stato un unico modello, un’unica via. Ogni progetto è sorto e ha caratterizzato le scelte dei diversi paesi. Con un obiettivo comune: la necessaria e urgente integrazione regionale, iniziata con la pietra d’angolo del radicale NO all’ALCA (libero mercato dall’Alaska alla Terra del Fuoco) a Mar del Plata, in Argentina, dieci anni fa.

La controffensiva della destra

Stanca di vedersi relegata in un angolo da oltre dieci anni, la destra conservatrice del continente – che non ha mai smesso di avere in suo potere i canali d’informazione – è passata ultimamente ad una forte controffensiva, con quelli che vengono chiamati “golpes blandos” (colpi di Stato blandi). Questa élite poderosa non è certo isolata a livello internazionale. Come sottolinea Emir Sader, all’avanguardia della lobby contro i governi progressisti latinoamericani e in favore di una restaurazione neoliberista – di un ritorno al passato per questo continente – s’incontrano alcune delle principali testate con proiezione internazionale e che costituiscono il gotha del neoli-berismo: Financial Times, Wal Street Journal, The Economist, Le Monde, El País, e molte altre. Naturalmente, la quasi totalità dei giornali, delle riviste e delle televisioni dell’America Latina è in mano a un gruppo di potere molto ristretto, che risponde al nome della destra più conservatrice e bigotta, sostenuta e foraggiata dal governo degli Stati Uniti. Scrive Sader: “Questi giornali e tivù, in particolare, si dedicano costantemente a campagne contro questi governi, contro i loro leader, dal momento che risulta loro insopportabile che questi abbiano

imposto il periodo più lungo di stabilità politica, con un enorme sostegno sociale, in una regione dove i loro governi – dittature militari e governi neoliberisti – hanno fallito clamorosamente. E d’altro lato, i governi europei che mantengono le politiche neoliberiste, malgrado i loro tragici effetti, non vengono condannati da questi organi d’informazione, anzi: li indicano come punti di riferimento, malgrado l’incapacità radicale e prolungata di superare la crisi recessiva iniziata nel 2008 e senza soluzione di continuità. Le lobby internazionali dei mezzi di comunicazione sono incapaci di capire il motivo per cui la gente, che ha votato quei governi così fortemente demonizzati, continui a rieleggerli, mentre i governi latinoamericani che essi hanno cercato di promuovere come alternativa – come quelli dell’Alleanza del Pacifico, specialmente il Messico e il Perù – sono risultati senza l’appoggio popolare, dove si succedono leader fortemente criticati e disprezzati”.

In gioco due progetti opposti

La realtà è che, purtroppo, il movimento oscillatorio del pendolo effettivamente sta tornando a destra. In primo luogo il gigante del continente: il Brasile. Dilma Rousseff è stata eletta per il suo secondo mandato alla presidenza del paese esattamente un anno fa. In questo anno in Brasile sono cambiate moltissime cose, e non sono cambiate in meglio… Il paese sta attraversando una crisi di gravi proporzioni, economicamente sta navigando a vista, socialmente si respira una profonda insoddisfazione, politicamente Rousseff sta vivendo una pressione enorme da parte del Congresso, che vuole a tutti costi portarla all’impeachment. Quando è stata rieletta nel ballottaggio un anno fa, il dollaro valeva 2,4 reali, oggi ne vale 4. L’inflazione è arrivata al 10 per cento. L’economia brasiliana è in piena crisi, con segno negativo quanto alla crescita per

il 2015. La disoccupazione sta arrivando al 10 per cento. La Presidente ha scelto come ministro dell’economia un neoliberista che sta tagliando radicalmente i sussidi che fin dal primo governo Lula andavano a favore delle classi meno abbienti e che hanno fruttato in questo decennio l’ingrandirsi della classe media e una notevole diminuzione del grado di disu-guaglianza (il Brasile ha uno dei peggiori indici di disuguaglianza del mondo). Oltre a ciò, Rousseff deve far fronte al Presidente della Camera, Eduardo Cunha, teoricamente del partito alleato al governo, ma che in realtà le sta facendo una compagna radicalmente contraria e che si è alleato al partito sconfitto nelle

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elezioni per portare a buon fine l’impeachment. Per ora, ciò che salva la Presidente è il fatto che Cunha, religioso di una chiesa evangelica ultra con-servatrice – dato piuttosto comune nel Brasile degli ultimi trent’anni, in mano alle sette religiose di stampo conservatore –, è stato accusato dai magistrati svizzeri di essere il titolare di conti con milioni di dollari, frutto di riciclaggio di denaro sporco. E la campagna contro la Presidente si basa esattamente su una presunta corruzione a motivo dello scandalo scoppiato attorno all’impresa petrolifera di bandiera Petrobras. I mass media in Brasile hanno messo in piedi questa campagna radicale, dove la destra e la classe media si sono appropriate delle piazze, tradizionalmente dei movimenti popolari, per chiedere la destituzione della Presidente, la cancellazione del Partito dei Lavoratori di Lula, addirittura il ritorno dei militari… In Argentina – dopo dodici anni di governo di Néstor Kirchner prima e in seguito di sua moglie Cristina Fernández de Kirchner – nel ballottaggio del 22 novembre scorso il peronismo ha subito uno scossone radicale: ha vinto – seppur con un margine esiguo – il candidato della destra Mauricio Macri, un impresario, figlio di un immigrato italiano dirigente Fiat, che negli ultimi otto anni ha governato la città di Buenos Aires. L’unica certezza derivante dal voto del ballottaggio è che la classe media ha voluto un “cambiamento”. L’indice chiaro di tutto questo è che per la prima volta in 30 anni il peronismo ha perso il governo della Provincia di Buenos Aires (grande come l’Italia), roccaforte economica e politica del paese, con un terzo dell’intero elettorato e con il settore più importante dell’economia. Ha vinto la candidata di Macri. Neppure loro ci credevano… Segno più che eloquente del fatto che l’elettorato vuole un cambiamento, a prescindere dai contenuti del medesimo, dalle proposte dell’opposizione e dal rischio di mandare all’aria le conquiste di oltre un decennio. Non per nulla “la volpe” Macri ha scelto come slogan della campagna “Cambiemos”. La sua vittoria significa per l’Argentina il ritorno all’epoca di Menem, da un punto di vista economico, sociale, delle conquiste cul-turali e tecnologiche, del senso della sovranità e del-l’integrazione latinoamericana, tutti temi peraltro asso-lutamente assenti nella campagna politica di Macri. Il suo stile è quello del “vogliamoci bene e cambiamo questa meravigliosa Argentina”. Senza mai entrare in questioni essenziali e fondamentali. È appoggiato e foraggiato, naturalmente, da tutti i mass media, sia dentro che fuori del paese. Il polo mediatico argentino è in mano a due soli proprietari, radicalmente implicati con l’imposizione del modello economico, che si è venuto elaborando fin dall’epoca della dittatura, e che “continuano a muovere le marionette”. Erano quindi in gioco due progetti chiaramente opposti. Da una parte il progetto popolare che in questo decennio ha tirato fuori l’Argentina dalla bancarotta, ha favorito l’inclusione sociale, ha portato

il paese ad avere la più grande classe media del continente, ha recuperato i “gioielli di famiglia” svenduti o regalati da Menem: la compagnia aerea di bandiera, l’impresa di bandiera del petrolio e del gas YPF, la previdenza sociale, l’istituto per la ricerca e la tecnologia, le ferrovie. E se vogliamo parlare di conquiste storiche per l’intero continente – e non solo – vale la pena citare la legge del matrimonio ugualitario, il progetto culturale legato al cinema argentino, le università gratuite, gli assegni familiari, la pensione per tutti, il più alto salario minimo dell’America Latina. Ma la classe media si è stufata di tutto ciò. E non vale la pena che il mondo della cultura – artisti, scrittori, scienziati, registi, musicisti – abbia alzato la voce per difendere un progetto di paese… La classe media ha deciso di “cambiare”.

Claudio Mondino

Attenzione al diserbante “Attenzione: diserbo in corso. Prodotto utilizza-to: Roundup Platinium Monsanto”. L'avviso è comparso sui muri di Cuneo la primavera scorsa, poi il Comune (in coincidenza con la protesta del Tavolo delle Associazioni) ha deciso di sospenderne l'uso. Roundup è un prodotto a base di glifosato, legato a filo stretto con gli organismi geneticamente modificati. La parte più cospicua di investimenti in questo settore, infatti, è portata avanti per sperimentare prodotti che siano resistenti agli erbicidi. Lo scorso marzo l'Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro ha classificato il glifosato, il pesticida più usato al mondo, come "probabile cancerogeno umano". L'Italia è uno dei maggiori utilizzatori di questo pesticida, che è addirittura incluso nel Piano Agricolo Nazionale per l'uso sostenibile dei fitofarmaci. L'Associazione Italiana per l'Agricoltura Biologica ha lanciato la campagna ‘Stop al Glifosato’ che ha raccolto attorno a sé un ampio fronte. Si chiede che Governo e Parlamento applichino il principio di precauzione in nome della tutela della salute pubblica, vietando definitivamente e in maniera permanente la produzione, la commercializzazione e l'uso di tutti i prodotti a base di glifosato. Gli Amici della Terra Europa nel 2013 hanno fatto analizzare le urine di cittadini volontari (non contadini!) in 18 Paesi UE - non in Italia - trovando tracce di glifosato nel 44% dei casi. Il rifiuto del glifosato è sempre più diffuso in tutto il mondo. El Salvador e Sri Lanka lo hanno vietato, mentre la Francia si è impegnata a farlo entro il 2018.

Sergio Dalmasso Tavolo delle Associazioni, Cuneo

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Il tramonto di un’utopia Note in margine alle recenti elezioni in Argentina

Siamo soggetti del linguaggio, attraversati dal linguaggio. Il linguaggio ci precede, ci determina e ci condiziona. Lo dicevano già i linguisti del post-strutturalismo: “crediamo di dominare una lingua e in realtà ne siamo dominati”. Il linguaggio come il Grande Altro, in questo caso il Grande Altro del Potere mediatico: la perfetta forma di alienazione, della perdita della libertà del soggetto e della sua autonomia. Il linguaggio del Potere s’impone costantemente. La rivoluzione comunicativa capitalista, per mezzo del potere mediatico, è riuscita a monopolizzare l’informazione, e si propone di sottomettere il soggetto, privandolo di ogni tipo di soggettività, per impedire il sorgere di una soggettività vera. In questo senso, la meccanica della creazione dei monopoli mediatici considera il soggetto come un recipiente che si deve costantemente colmare di “contenuti” forniti dal potere mediatico egemonico. Così, il potere mediatico si converte in un potere costituente, colonizzatore delle coscienze dei soggetti ricettori della globalizzazione capitalista e, per ottenere il suo fine, perfeziona tutti i suoi poteri di colonizzazione, per invadere e distruggere le soggettività. Si tratta di comprendere come il potere mediatico si costituisce come parte essenziale del mondo globalizzato di oggi, più di qualsiasi altra filosofia. Perché il capitalismo tende a formare monopoli e in seguito oligopoli? Da dove sorge questo desiderio costante di aumentare il potere creando gruppi di potere? Il fatto è che così funziona la volontà di potere. Aumentare sempre. Aumentare incessantemente. Capi-

re adeguatamente il meccanismo della volontà di potere (crescere per conservarsi) significa com-prendere adeguatamente il capitalismo imperialista (globalizzare per crescere). Il potere mediatico è capace di produrre inter-pretazioni differenziate della “realtà”. Tale realtà si costruisce e si formula attraverso il linguaggio, e le stesse interpretazioni della realtà si esprimono attraverso il linguaggio. Il potere mediatico diventa in questo modo padrone di una realtà importantissima per mantenersi: il “senso comune”. Il senso comune è essenziale per l’appropriazione della soggettività da parte del potere. In ogni sua parola il potere è andato depositando il suo modo di vedere il mondo, e questo modo – che è il suo – lo consideriamo come “senso comune”, creando quotidianamente la realtà. Milioni di persone parlano allo stesso modo, pensano allo stesso modo, parlano delle medesime cose, credono che quello che dicono, che ascoltano, quello su cui tutti sono d’accordo sia “la verità”, nella sua interpretazione più semplice, più quotidiana. Quella verità sulla quale tutti, senza sottometterla a nessun dubbio, senza questionamenti, sono d’accordo. E questo viene chiamato “senso comune”. In quest’ottica, il potere mediatico si è prefisso come meta la conquista delle anime, delle coscienze. Dirlo in questo modo significa metterlo in relazione con il “potere pastorale”, con quella sorta di “evangelismo mediatico” in voga in America Latina e non solo, e che d’altra parte ha avuto molto a che vedere con quanto è successo in Argentina nel ballottaggio delle elezioni del 22 novembre scorso.

Quanto è risultato dal voto della maggioranza in que-ste ultime elezioni (in cui per la prima volta si arriva a un ballottaggio) rappre-senta la materializzazione di questo “senso comune” che il potere mediatico è riuscito ad imporre nelle coscienze in questi ultimi dodici anni. I mass media egemonici hanno giocato un ruolo fondamentale nella costru-zione dell’immagine del candidato dell’opposizio-ne, Mauricio Macri, dal momento che la principale virtù dell’operazione me-

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diatica del “macrismo” è quella di essere riuscita a interpellare e a interpretare discorsivamente i diversi settori della società argentina. Un inganno chiaramente perverso, ma “effettivo”. E in politica non è importante dire la verità, bisogna essere “effettivi” dal punto di vista della comunicazione. La costruzione di Macri è stata assolutamente efficace, quale prodotto elettorale montato su un gioco di immagini e di discorsi vuoti di contenuto politico. Ma questo sì: con molti palloncini colorati, musica e balli! La campagna trionfante è stata quella della parola vuota, il contenitore vuoto del “cambio”, senza mai esplicitare cosa implicava questo cambiamento. Evidentemente le persone che lo hanno votato non ne avevano bisogno. Si tratta di un’altra lampante espressione di come i soggetti del consumo finiscono per essere “consumati” da questa nuova realtà, imposta a partire dalla costruzione del potere mediatico egemonico (Berlusconi insegna!). In questo senso, la campagna elettorale che ha portato alla presidenza Mauricio Macri, lo ha mostrato più come un candidato-prodotto imposto attraverso una strategia pubblicitaria che come un candidato-politico con proposte politiche concrete. Quale ripetitore di slogan pubblicitari che ricordano gli alienanti discorsi dei pastori evangelici, Macri non ha mai espresso chiaramente un progetto di governo o di Paese. Anche se, per chi non ha perso la memoria, rappresenta chiaramente un ulteriore, nuovo strumento del potere economico neoliberista di sempre, che ha mantenuto le redini dell’Argentina dalla dittatura degli anni settanta, passando per il decennio nefasto di Menem, per arrivare fino alla bancarotta dello Stato nel 2001. Al modo dei migliori “predicatori evangelisti”, Macri ha conquistato la gente con frasi quali “la rivoluzione della gioia”, “rendiamo possibile l’impossibile”, o l’emblematico “Sì! si può fare”, tipiche consegne rappresentative di un manuale di “auto-aiuto” (self help – nella lingua colonizzatrice inglese). Questi sono stati i suoi spot pubblicitari – un

linguaggio totalmente astratto – con i quali ha sedotto e ha conquistato la maggioranza dei votanti lo scorso 22 novembre. Una chiara espressione di come la performance degli assessori dell’immagine e dei pubblicisti esperti in marketing si converte nel centro della scena nella costruzione dei messaggi che un candidato utilizza per far presa sull’elettorato. La logica che si va imponendo sullo scenario globale dei diversi processi elettorali non ha ormai nulla a che vedere con la discussione delle idee politiche e con le differenze rispetto a un progetto di paese. Siamo contemporanei dell’epoca della ponderazione degli slogan pubblicitari della campagna elettorale, anziché della discussione relativa ai punti concreti di un progetto politico. Un tempo in cui si pretende di “polverizzare” le soggettività in favore di una logica pubblicitaria imposta dal potere mediatico in tutte le sue espressioni. Si tratta di una battaglia culturale che si gioca anche sul terreno elettorale, dove si è visto chiaramente come il termine popolo è stato sostituito dalla parola “gente”, i cittadini dai “vicini”. Alla fin fine, pare che “la gente” fosse insoddisfatta della sua vita, e per questo disposta sempre ad andare dietro a chi le prometteva cambiamenti e felicità. A questo punto, non rimane altro che assumere il fatto che ci troviamo di fronte a un “cambio di epoca”, come aveva assicurato Macri. Si è cambiato il futuro per il passato, l’inclusione per l’esclusione, lo Stato orientatore per il mercato disintegratore. Il trionfo della solidarietà sull’individualismo egoista è un marchio della “vecchia epoca”, un’epoca di conquiste che ci lascia un tesoro sociale, culturale e politico che non si riuscirà a distruggere facilmente. Intravediamo il tramonto di un’utopia (la “Patria Grande”) che è stata resa possibile durante molti anni in gran parte dell’America Latina… E forse l’Argentina rappresenta solamente la “prima tessera” dell’effetto domino.

Paola Marigioli (traduzione di Claudio Mondino)

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“La capacità di ascolto dell’adulto è co-me uno specchio in cui il bambino ritro-va esplicitata la propria forma e che gli consente quel consolidamento che è ne-cessario per l’acquisizione di nuove co-noscenze e per lo sviluppo di una crea-tività consapevole dei propri strumenti”.

Alessandra Ginzburg

L’attenzione dei grandi per i giochi dei bambini Aver dedicato molto tempo a riflettere sulla “Pedagogia dell’ascolto” formulata da Alessandra Ginzburgi, psicanalista figlia di Natalia e Leone, ha fortemente inciso sulla mia formazione. Alessandra, che considero una dei miei maestri, ha partecipato per molti anni al gruppo MCE (Movimento di Cooperazione Educativa) romano della scuola dell’infanzia ed il suo contributo è stato molto importante per tutti noi. Ho poi avuto la for-tuna di collaborare con lei, in que-gli anni, presso l’ufficio Psicope-dagogico del Comune di Roma e questa è stata un’ul- teriore occasione per approfondire il suo pensiero. La pedagogia dell’ascolto ci portò a modificare il nostro rapporto con i bambini: l’adulto non era più colui che sapeva tutto e che riversava a cascata su di loro proposte e risposte. L’adulto si fece attento docu-mentatore della cultura infantile per poi tessere con questa le sue proposte. Non fu tutto immediato! Il la-voro è stato lungo, ha richiesto molto tempo per docu-mentare e riflettere su quanto stavo mettendo a fuoco. La parola ascolto diede vita a vari filoni di ricerca: alcuni cominciarono ad approfondire l’ascolto dei pensieri, delle parole dei bambini; io cominciai a fare molta più attenzione ai giochi spontanei e iniziai a

parlare dell’ascolto degli occhi. Infatti per cogliere i giochi più segreti e spontanei mi serviva aprire gli occhi oltre alle orecchie. Il mio percorso di ricerca iniziò così: cominciai a

fotografare tutti i giochi e le attività spontanee dei

miei gruppi classe che riuscivo a cogliere. Riguar-dando il materiale dopo il primo anno mi accorsi che i bambini avevano iniziato, senza che io me ne fossi resa conto, infinite ricerche e che queste, senza il mio aiuto, erano andate disperse in breve tempo. Alcune erano emerse in tempi successivi per poi riscomparire: costatai dunque una specie di fenomeno carsico delle esperienze infantili spontanee. Sulla base di questa scoperta, che mi rese molto più attenta, progettai una verifica breve. Mi recai in una scuola dove si era deciso di costruire un piccolo “Parco giochi Robinson”ii per migliorare a basso costo le condizioni disastrose del giardino. Documentai, con foto e brevi appunti, tutto ciò che successe in due ore di scuola in un caldo mattino di giugno mentre tre adulti trasportavano, segavano, piantavano pali di legno per costruire una tenda indiana, una piattaforma, due brevi percorsi. I bambini giocavano liberi nel prato come al solito: non c’erano adulti che si preoccupa-vano di organizzare giochi o attività. Ad un primo sguardo sembrava non stesse accadendo nulla di

speciale. Nonostante ciò, volutamente, non allontanai mai gli occhi dai bambini scattando delle fotografie. Ricordo che alcune insegnanti mi chiedevano stupite: “Ma si può sapere cosa stai fotografando?” Agli occhi

di tutti sembrava di essere in pre-senza di bambini che scorrazza-vano liberi nel prato: come tante altre volte, come tutti i giorni quando si usciva all’aperto. Nulla di particolare appariva degno di essere fotografato. È stato solo dopo aver stampato le foto, dopo averle messe in ordine che emer-

sero chiaramente, anche per gli altri, tutte le scoperte, le esplorazioni, le ricerche, le invenzioni dei bambini. Questa esperienza, questo tempo che mi sono presa per guardare a lungo e ininterrottamente un gruppetto di bambini che giocavano liberamente nel giardino della loro scuola, mi hanno fatto riflettere. Questa documen-tazione, che ho poi condiviso con le maestre, si è trasformata in un invito a ripensare a tutte le volte in cui potremmo esser loro accanto, per camminare insieme sulle strade delle loro ricerche. Partendo da quanto osservato e fotografato sono stati infatti individuati diversi percorsi di lavoro, che nascevano dagli interessi evidenziati, dove l’adulto avrebbe potuto inserirsi con leggerezza per aiutare i bambini ad ampliare le loro ricerche. Da allora mi fu perfettamente chiaro che i bambini non smettono di essere attivi, curiosi, interessati quando non ci occupiamo di loro. Anche in un giardino sterrato, veramente povero, si danno molto da fare quando non li blocchiamo con continui divieti. Però non possiamo lasciarli soli abbandonati ad uno spontaneismo che non è ammissibile in una scuola o in un nido. La figura dell’adulto è indispensabile: si deve però sviluppare l’ascolto degli occhi. La presenza di un adulto silenzioso ma attento, curioso, realmente interessato al loro fare, rafforza incredibilmente la loro capacità di gioco e la loro creatività. La Pedagogia dell’ascolto mi ha insegnato che non basta aprire le orecchie e raccogliere le parole dei bambini. Bisogna imparare ad aprire anche gli occhi per raccogliere i loro gesti silenziosi, le micro-azioni ricche di possibili evoluzioni. Ho capito che i loro giochi possono fornire agli insegnanti percorsi progettuali molto ricchi e felici.

Paola Tonelli <[email protected]> 1Ginzburg A., Premessa ad una pedagogia dell’ascolto, Cooperazione Educativa n. 2, La Nuova Italia, 1982, FI. ii Parchi Robinson: si tratta di parchi gioco ispirati ad esperienze del nord Europa e introdotti in Italia ad Ivrea per i figli degli operai della Olivetti.

Bambini

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Dalla quarta di copertina Il titolo riassume bene lo spirito e il contenuto del libro. Mani "buone" per l'Africa sono strumenti efficienti, guidati con sapienza e amore: compiono interventi difficili, ma anche sanno incontrare il diverso arricchendosi da questa diversità. Nei puntini di sospensione si legge il rammarico di chi avrebbe molto da dare umanamente e professionalmente, ma sa che non sono questi i valori che contano nella nostra società. I brevi racconti, vere istantanee dal Madagascar, si legano alle memorie di una vita dando loro un senso nuovo. L'autore apre le mani per mostrare non il grillo di Ramura, il protagonista di uno dei racconti, ma la ricchezza del dare e del ricevere.

Mani buone… per l’Africa

E’ uscito in questi giorni, pubblicato da Primalpe, “Mani buone… per l’Africa” (ISBN 978-88-6387-198-2): è il mio ulteriore tentativo di definire “Il colore del grano”.

Perché tornare a scrivere? • Per fissare l'impalpabile impronta delle

esperienze • per essere più efficaci nel comunicare • per condividere le proprie “scoperte” • per portare alla luce le ingiustizie e dare voce a

chi le subisce • per rispondere a curiosità e critiche • per cogliere in qualcuno dei racconti l’occasione

per sorridere insieme • per ri-leggere le proprie parole e poterle offrire

ad una riflessione comune

• per rivedere con il cuore ogni presente vissuto, dilatarne lo spazio, cogliere meglio ciò che ti ha spinto a fermare nell’animo quel momento e desiderare di spartirlo con tutti.

E’ solo così che può apparire evidente “l’essenziale invisibile agli occhi”... proprio come dice la volpe al piccolo principe di Saint-Exupery.

Perché dunque tornare a scrivere? “Pourquoi pas?”. La presentazione ufficiale del libro avrà luogo merco-ledì 16 dicembre alle ore 17,30 presso la sala incontri del settimanale “La Guida” in via A. Bono 5, Cuneo: presiederà il Direttore de “La Guida” Ezio Bernardi.

Leonardo Lucarini A seguire alcuni brani tratti dall’introduzione

e dalla postfazione.

Dall'introduzione [...] "Mani buone... per l'Africa" [...] è uno scritto caratterizzato da una narrazione lineare e sempli-ce che ogni lettore potrebbe affrontare senza le sottolineature di qualcuno. Però c’è il rischio che il libro di Lucarini venga interpretato come una testimonianza di volontariato che proviene da una fascia di umanità privilegiata che si china con bene-volenza verso popolazioni oppresse e sofferenti; non mi sembra questo l’intento dello scrittore. […] Lucarini si pone davanti il problema del medico, a sua volta fragile e malato, che nella trasparenza della cura del sé associa la sofferenza della cura di coloro che sono presentati come soggetti apparentemente passivi. Nell’esperienza fatta a Henintsoa il medico fragile si china su una fragilità che non gli è ignota perché è anche sua. Questa non è solo una solidarietà nel soffrire, ma è qualche cosa di più... [...] si potrebbe parlare di empatia: l’incitamento a vivere e il superamento della sofferenza non sono visti come un obiettivo che il benefattore dona da una sorta di gradino più alto al paziente, ma come un vivere le stesse speranze, le stesse volontà, gli stessi rischi ed infine persino la stessa accettazione di una sconfitta, che peraltro sono state vissute insieme. Qui mi pare che Lucarini suggerisca qualche cosa non soltanto a coloro che operano nel volontariato in paesi con uno sviluppo sociale ed economico squilibrato, ma suggerisca un modo di vivere utile per chiunque in qualsiasi orizzonte della nostra umanità viva con passione amorosa il vivere ed il convivere.

Giovanni Franzoni

Dalla postfazione Parliamo ... di chi predilige in modo sospetto il futuro, capace com’è di promesse reboanti (in cento giorni faremo) riformulate con disinvoltura nello spazio d’un mattino (in mille giorni faremo); oppure di quell’altra troppo affollata categoria che conosce soltanto i verbi “Bisogna, si deve”, guardandosi bene dal trasformarli in “Io devo”. Decisamente il medico Lucarini appartiene a un altro ceppo. Lo dimostrano le pagine di questo libro, lontane anni luce dai proclami, dagli impe-gni accollati puntigliosamente agli altri, dalle la-mentele sul mondo che va male per colpa di terzi. Le pagine di “Mani buone... per l’Africa” profu-mano di responsabilità, di impegno al presente, di testimonianza. Leggi le esperienze narrate, le godi nella loro immediatezza, sorridi per l’aned-doto curioso, trepidi quando temi l’esito nefasto di un’operazione, ma pur nelle mille variazioni cogli il filo rosso della coerenza concettuale e ideale, che senza eccezioni porta allo stesso esito: l’impegno al presente, appunto. [...] Lucarini ha lavorato per decenni nella città, ora va in periferia. Bella carriera! Da primario che operava in sale attrezzate di tutto punto a chirurgo che si affida a un gruppo elettrogeno... Carriera sfumata o evangelicamente prestigiosa? Valuti ciascuno in base ai suoi parametri, intanto che si gode il contenuto e lo stile del libro, accattivanti per l’alternanza di concisi racconti e di ampie riflessioni...

Martino Pellegrino

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n. 5 (168) – dicembre 2015 il granello di senape pag. 43

cercatori/viaggiatori

MARIO TAGLIANI, Il maestro dentro: trent’anni tra i banchi di un carcere minorile, Torino, ADD editore, pag.192, 14 euro

«Oltrepassammo l’ufficio del capoposto che ci aprì l’ennesima porta di ferro e ci ritrovammo in un’altra palestra immensa. In fondo c’era un portone di ferro, non troppo alto stavolta, ma chiuso, ovvio. Fino a quel giorno non avevo mai visto le chiavi di una prigione. Sono enormi, si sentono a distanza, quando cozzano una contro l’altra fanno un suono inconfondibile. Con un solo gesto, perfezionato dal ripetersi continuo, il capoposto ci spalancò il portone e fu in quel preciso momento che decisi quale sarebbe stata la mia sede di lavoro. […] Davanti a me si aprì un tappeto verde, ma proprio verde, quel bel verde bottiglia di quando l’erba ha bevuto acqua a iosa, mentre i fili grassi e lucidi erano tormentati da gambe veloci di adolescenti che rincorrevano una palla. Maglie azzurre e rosse che s’incro-ciavano di continuo, urla di gioia e di disappunto: una partita di calcio. Sotto alcuni platani che stavano perdendo le prime foglie scolorite c’erano crocchi di altri ragazzi che fumavano, ridevano, si davano pacche sulle spalle in un’at-mosfera che a me, stranamente, parve normale. Il muro di cinta, quel muro grigio così alto che avevo visto fuori, faceva da cornice a tutto questo, era lo sfondo sbagliato di una scenografia che altrimenti sarebbe potuta apparire perfetta». Mario Tagliani è un maestro come tanti. A questo mestiere arriva un po’ per caso, un po’ per passione. Per amore arriva a Torino negli anni Ottanta. Ha appena vinto il concorso per l’insegnamento e si presenta a scuola per il suo primo giorno da maestro. La direttrice lo guarda con occhio attento, poi gli chiede: «Che ne pensa del Ferrante Aporti, il carcere minorile della città?». Così comincia la storia di quest’uomo, che per trent’anni è stato il maestro elementare di centinaia di ragazzi che dentro a quel muro non andavano semplicemente a scuola, ma scontavano anche la loro pena. Sui banchi delle sue classi, dentro a quei muri troppo alti, insieme ai minori ci sono storie tragiche, analfabetismi, lingue lontane, ci sono bambini intrappolati nei gesti, nella giustizia e nelle paure degli adulti, ci sono silenzi, segreti, e sentenze. Impossibile pensarle come classi tradizionali. Impossibile pensare a un programma codificato. Il racconto è totalmente privo di buonismi, e moralismi. Marco Tagliani non edulcora una realtà drammatica, ma ci pone di fronte alla domanda fondamentale che lo ha accompagnato per tutta la sua carriera di insegnante: «Che valenza educativa può avere un muro

così alto?». Eppure piano piano, nonostante quel muro isoli i suoi ragazzi dal mondo (nascondendoli), il maestro scopre una specie di “didattica possibile”, paziente personalizzata e discreta, capace di fare breccia nei cuori ruvidi, nelle storie tristi, nell’esi-stenza violenta e fragile dei suoi alunni. C’è sempre, o quasi sempre, il modo, il metodo di inserire la scuola, l’importanza di imparare, nelle vite di questi giovani reclusi. Anche se il dolore a volte è immenso. Anche se imparare vuol dire solo fare un disegno, o ascoltare una fiaba mai sentita. Anche se non mancano dubbi sulle risposte repressive di chi li giudica, accompagnati a dubbi ancora più grandi sul futuro dei minori, sulla

possibile integrazione nella società “dopo il carcere”. Questi trent’anni di “scuola reclusa” sono anche la storia di un’Italia che cambia, sono il disegno dei flussi migratori che modificano il tessuto sociale del nostro Paese. I primi anni gli ospiti del Ferrante Aporti sono giovani meridionali, e a loro si mescola qualche Rom, poi con il tempo insieme agli italiani arrivano i ragazzi dall’Europa dell’Est, dall’Albania, e infine dal Nordafrica. Il carosello di dentro e fuori, di problemi, di percorsi, di atrocità e di miserie fa in modo che i ragazzi si

trincerino dietro a mura silenziose ancora più alte e impenetrabili di quelle fisiche che li rinchiudono. «Se date carne ai cani e ai gatti, la potete dare anche a noi», dice un giorno un giovane recluso al maestro. Affermazione disarmante, implacabile sul nostro benessere deviante, sul nostro modo di obliterare gli errori altrui, senza appello, senza reale possibilità di recupero, nella stessa maniera con cui si nasconde alla vista la polvere sotto il tappeto. Ecco, nonostante tutto questo, il ‘Maestro dentro’ è un inno alle relazioni umane, sempre tenacemente cercate, coltivate e curate. Mario Tagliani ha fatto della relazione il fondamento della sua attività di educatore, come se cercare le risorse nascoste nell’animo umano, anche nell’animo più triste e refrattario, fosse la sua vera, unica missione di maestro. Per questo consiglio la lettura di questo libro a chi lavora nella scuola, o a chi comunque nella scuola ci crede. Pensate a dove eravate voi, in quegli anni, a cosa stavate facendo, perché la storia che Mario sta per raccontare è la parte invisibile della vostra (della nostra) quotidianità, il lato in ombra: è lo straordinario che accade «lì dove nessuno se ne accorge».

Beatrice Di Tullio

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n. 5 (168) – dicembre 2015 il granello di senape pag. 44

Il cibo, dai campi alla tavola Roberto Meregalli nel suo volume Cibo non cibo. La

fragilità alimentare. Dai campi alla tavola, conoscere

per cambiare (p. 192, Milano, Mc editrice, 2014)

analizza in modo chiaro e preciso il sistema agroalimentare nel mondo, dalla produzione del cibo alla sua distribuzione, includendovi acute riflessioni di tipo etico e provando a presentare delle possibili alternative rispetto al modello imperante. Uno dei grossi scandali dei nostri tempi riguarda l’asimmetria distributiva alimentare mondiale: mentre 800 milioni di persone non riescono a sfamarsi, un miliardo e mezzo di individui ha problemi di sovrappeso e di obesità. Causa principale di quest’ultima anomalia è la qualità dell’alimentazione a cui è abituata una consistente parte della popolazione mondiale; bibite gassate, grassi, zuccheri e sale sono un cocktail micidiale per la nostra salute. La globalizzazione ha favorito la diffusione di queste abitudini alimentari anche in paesi che un tempo ne erano immuni. Ci troviamo oggi nella situazione, per certi versi paradossale, per cui nei paesi ricchi ed industrializzati si sta prendendo coscienza del pericolo provocato da questo tipo di alimentazione, mentre nei paesi emergenti quest’ultimo sembra avere preso il sopravvento sull'alimentazione tradizionale. Non si può dimenticare il dramma dello spreco alimentare; si calcola che circa un terzo della produzione totale di cibo destinato al consumo umano viene gettato via. Questo quadro dipinge uno logica distorta, lungo tutta la filiera che dai campi porta il cibo sulle nostre tavole, ed interessa tutti gli attori coinvolti: agricoltori, industrie di processo, distributori e consumatori. Dal dopoguerra ad oggi vi è stato un aumento impressionante della produttività; l’agricoltura moderna, definita anche agricoltura industriale (proprio perché applica la logica di una industria), lavora con un unico obiettivo: massimizzare la produzione. Un’agricoltura che ha cercato di superare i limiti naturali, distaccandosi dalla natura attraverso l’uso di input esterni - quali fertilizzanti, pesticidi, acqua, macchinari, energia prove-niente da fonti fossili - ha conseguito rese mai raggiunte nel corso della storia dell’umanità. Un’agricoltura insostenibile a lungo termine, che si illude di poter prendere più di quanto restituisce. Sempre più diffuse sono le monoculture (con grosse estensioni di terreno in cui si coltiva lo stesso tipo di coltura); ciò implica la perdita di bio-diversità, caratte-

ristica fondamentale per garantire all’ambiente un equilibrio ecologico. Molte di queste coltivazioni monoculturali, in particolare mais e canna da zucchero, non vengono destinate all’alimentazione umana ma vengono utilizzate per produrre cibo per il bestiame e bio-combustibili (ad esempio l’etanolo). Un aumento esponenziale della produzione implica un allargamento del mercato: non è più sufficiente il mercato locale, occorrono grandi acquirenti che acquistino e trasformino i prodotti. La globalizzazione ha indebolito il potere contrattuale dei produttori: il cibo passa attraverso una strozzatura composta da chi commercia compra e distribuisce, mentre l’agricoltore finisce per essere l’anello debole della catena. Situazione che premia la GDO (grande distribuzione organizzata), che con grandi quantità di prodotto può permettersi di abbassare i prezzi, generando esternalità negative, ambientali ed umane (sfruttamento del lavoro e dell’ambiente). Inoltre imprese multinazionali gigantesche si sparti-scono il mercato delle sementi e dell’agrochimica, creando cartelli commerciali e situazioni di oligopolio. Dalla fine del 2006 si è sviluppato il fenomeno del land grabbing (trad. lett. “arraffare la terra”). In sostanza si tratta di acquisizioni da parte di investitori finanziari di grosse estensioni di terra, da cui trarre profitti consistenti. Su questi fondi si coltiva cibo, si alleva bestiame, si coltivano piante adatte a produrre biocarburanti. In tutti i casi la terra viene considerata esclusivamente come una fonte di denaro, qualcosa da sfruttare in una logica puramente speculativa. Questo fenomeno va a cozzare contro i diritti umani perché scoraggia riforme agricole volte a distribuire la terra e a dare la possibilità di una vita decente alle popolazioni rurali. Le conseguenze di questa tendenza ad un iper-sfruttamento delle risorse naturali non possono portare che ad una conclusione: il collasso. A fronte di una popolazione globale che aumenta, le risorse stanno diminuendo. L’uso indiscriminato degli input esterni sta riducendo la fertilità dei terreni, la mancanza di biodiversità rende le colture più esposte a

parassiti e malattie, la cementi-ficazione e l’urbanizzazione contri-buiscono al riscaldamento globale ed ai cambiamenti climatici. Se non vogliamo andare incontro a delle catastrofi naturali, bisogna cominciare a capire che soltanto attraverso il rispetto dell’ecosistema possiamo pensare di vivere in armonia con il creato.

Massimiliano Bosi

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n. 5 (168) – dicembre 2015 il granello di senape pag. 45

«Quand ch’a-i rivrà l’ora pì granda: l’ultima, e ch’am ciamran lòn ch’i l’hai fait ëd bel, mi rispondrai ch’i l’hai goardà le nivole: le nivole ch’a van… travers al cel».

Nino Costa (poeta dialettale torinese)

Un cammino davvero lungo

Lo scorso numero di ottobre del Granello non ha visto il nostro intervento, pur richiestoci dalla redazione, perché, sommersi dagli impegni legati agli avvenimenti locali sulla gestione dell'acqua, ce ne siamo semplicemente dimenticati. Chiediamo scusa ai lettori ed alla redazione di questa nostra latitanza. L'episodio serve però per descrivere il livello di coinvolgimento che ci caratterizza da anni e che è decisamente cresciuto nell'ultimo periodo. Perciò non vi parlerò specificatamente della situazione attuale sulla ripubblicizzazione dell'acqua in provincia di Cuneo, ma cercherò di rendervi partecipi di quello che è il nostro impegno. Nati come Gruppo di Lavoro per l'Acqua, a seguito di un incontro con Riccardo Petrella a Boves, organizzato da Emmaus nell'ormai lontano 2003, ci siamo poi evoluti nel Comitato Referendario Cuneese e, dopo il 2011, nel Comitato Cuneese Acqua Bene Comune. Fin dall'inizio la nostra stella polare è stata il considerare l'acqua non come una merce e neanche esclusivamente come un bisogno primario per l'uomo. In questi anni per noi l'acqua è stata sempre un bene comune di tutto l'ecosistema, prima ancora che dell'umanità. L'attacco portato avanti in questo periodo, prima dal mercato e poi dalla finanza, per trasformare questo bene in una merce per produrre profitti, ci ha costretti a specializzarci in campagne ed azioni per contrastare questo nefasto intendimento. Nel 2007, con la legge di iniziativa popolare, nel 2010 con la raccolta firme e nel 2011 con la campagna per il voto referendario, siamo riusciti a coinvolgere e a far partecipare davvero un gran numero di persone provenienti dalle più disparate storie personali e di

appartenenza. Di questo siamo davvero orgogliosi! Nel cammino abbiamo purtroppo vissuto anche la dipartita di grandi amici del movimento locale, come Mario Monaco e Francesco Musso. Soprattutto i cittadini del nostro territorio hanno sempre compreso il valore di questo percorso e l'hanno fatto diventare un emblema nel campo della democrazia partecipata e della difesa dei beni comuni. Questo ci conforta, ci sprona, ci dà la forza di continuare, anche se i risultati a volte sembrano così lontani e la lotta così impari. Così, oggi, quando continuiamo a rivolgerci alle persone chiedendo ancora e sempre la loro partecipazione, siamo spesso accompagnati da una sensazione di eccessiva insistenza, di marcata difficoltà a trasmettere correttamente quella che è ancora, e lo sarà forse per molto, una situazione in divenire che se solo abbandonata per un istante potrebbe inesorabilmente regredire. Ogni volta rimaniamo perciò stupiti della presenza dei cittadini agli eventi ai quali li invitiamo. Non da ultima, la Conferenza d'Ambito dello scorso 16 novembre: riempie il cuore vedere l'autorità di governo locale (EGATO4), forse per la prima volta nella storia del palazzo della provincia di Cuneo, obbligata ad aprire al pubblico i soppalchi della sala Giolitti, per poter accogliere tutte le persone intervenute, compresi diversi sindaci e consiglieri comunali! Ma non ritenetevi al termine del percorso: è stata votata semplicemente una delibera di inizio percorso; la vostra presenza sarà richiesta ancora molte volte in futuro. Oggi la politica delle istituzioni nazionali e locali è ancora molto distaccata dalla realizzazione del bene comune ed il rapporto di collaborazione che noi vogliamo costruire con i nostri amministratori è ancora troppo spesso limitato da paure ed interessi che divergono sensibilmente da questo traguardo. Sicuri che voi non mollerete, noi continueremo a “tormentarvi” senza ritegno!

Per il Comitato Cuneese Acqua Bene Comune,

Oreste Delfino

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n. 5 (168) – dicembre 2015 il granello di senape pag. 46

Se son rose fioriranno Il Consiglio comunale di Cuneo ha votato all'unanimità l'odg “Liberiamo il Puf”

Il Puf (Palazzo uffici finanziari) è un palazzone, con annessa palazzina di 18 alloggi, di 50 metri di altezza, 12 piani, 4 ascensori, parcheggio sotterraneo. Enorme per le dimensioni di una città piccola come Cuneo, quasi un ecomostro. Inaugurato il 15 novembre 2001, il Puf era destinato ad accorpare tutti gli uffici finanziari della città anche in vista di un loro accrescimento che poi non c'è stato. Entrò nelle cartolarizzazioni di Tremonti del 2004: lo Stato vendeva e poi riaffittava immobili di sua proprie-tà, nel nostro caso il Puf, a privati garantendo loro, tramite il Demanio, il pagamento dell'affitto, della manutenzione ordinaria e di parte della straordinaria. La struttura nel corso degli anni è diventata un vero e proprio scandalo cittadino: 30mila i metri quadri inutilizzati che solo di riscaldamento costano allo Stato 400mila euro l'anno, la palazzina degli alloggi per gli impiegati mai utilizzata, nel parcheggio sotterraneo costanti gli allagamenti e le infiltrazioni. Questo mentre le casse delle amministrazioni sono sempre più vuote e solo a Cuneo città ci sono più di 80 famiglie sfrattate e centinaia che hanno fatto domanda di case popolari. L'intera vicenda del Puf è stata caratterizzata dalla riprovazione unanime dell'opinione pubblica, da svariate interrogazioni parlamentari (rigorosamente senza risposta), da ripetute dichiarazioni di sdegno di uomini politici (anch'esse rigorosamente senza alcun seguito pratico). Naturale che il Palazzo Uffici Finanziari sia diventato il luogo simbolo di ogni protesta cittadina che abbia per bersaglio lo sperpero del denaro pubblico, l'ignavia della politica, lo strapotere delle burocrazie, la

negazione del diritto alla casa. A sbloccare questa situazione, “inaccettabile” a sentire le vuote dichiarazioni di tanti politici, ci sta provando adesso lo Sportello Casa del Centro sociale di Cuneo con l'immediata adesione della Coalizione sociale di Landini. A cominciare dalla manifestazione “Sfratti zero” del 10 ottobre e dalla raccolta di firme (ha firmato anche Dario Fo) che ha lanciato la campagna “Liberiamo il PUF”. Obiettivo: ottenere dal Demanio, che ribadiamo ne paga l'affitto, l'affido gratuito della palazzina al Comune “per dare risposta a qualcuna delle numerose richieste di alloggi popolari”. Lo Sportello è assai determinato nella sua iniziativa e ottiene una buona risposta dell'opinione pubblica e l'appoggio della stam-pa cittadina. A favore adesso anche la votazione unani-me del Consiglio comunale, lo scorso 23 novembre, ma l'esperienza di 15 anni di silenzi, rinvii, opacità, pesa come un macigno e smorza gli entusiasmi. Il Sindaco Borgna ha parlato in Consiglio del subentro di una dirigenza del Demanio, sia a livello nazionale che locale, più sensibile al problema e su questa base si è dichiarato ottimista. Ad ogni modo il documento votato lo vincola a rappresentare la situazione al Prefetto e soprattutto a riferire nel prossimo Consiglio comunale i passi fatti per ottenere l’utilizzo della palazzina. Vedremo. Vedremo anche se quelle azioni, quali la requisizione e il ricorso a metodi di lotta di resistenza civile, che la maggioranza ha chiesto di non menzionare nella mozione in cambio del suo voto favorevole, non diventeranno indispensabili.

Carlo Masoero L'Associazione di commercio equo e solidale Compartir Giovane, che gestisce le botteghe Checevò di Cuneo, Basta Poco di Caraglio e la Bottega del Mondo di Dronero, propone per il 2016 un planning settimanale. Ogni mese una fotografia scelta tra le tante pervenute da volontari e sostenitori. Ogni settimana una segnalazione su commercio equo, misfatti delle multinazionali, ecologia, diritti u ani, nonviolenza… Un equoplanning costa 10 euro. Il ricavato servirà a finanziare le iniziative dell'associazione.

Per informazioni: www.checevo.org

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n. 5 (168) – dicembre 2015 il granello di senape pag. 47

Bloccata dal TAR Piemonte la Delibera regionale sul riordino della psichiatria territoriale

Con ordinanza del 30 ottobre 2015 il TAR del Piemonte ha bloccato, previa sospensiva del provvedimento, la Delibera della Giunta regionale n.30 del 3 giugno 2015 inerente al “riordino della rete dei servizi residenziali della Psichiatria”. Tale sospensione durerà sino al 13 Gennaio 2016, data in cui vi sarà la trattazione di merito in udienza pubblica. L’Assessore regionale alla Sanità, Antonio Saitta, si è trova-to un muro contro tale delibera: associazioni di familiari e utenti, sindacati, ordini professionali, sindaci, rappresentanti di strutture accreditate e di cooperative sociali l’hanno critica-ta, pur sottolineandone i punti positivi e, quindi, non a priori. Vari erano i temi di dissenso. La DiAPsi (Difesa Ammalati Psichici) Piemonte, ad esempio, in un suo comunicato del 28 Settembre 2015, lamentava l’approccio ‘Torinocentrico’ della delibera e l’assurdo accorpamento di Asti ed Alessandria in un unico Dipartimento di Salute Mentale. Inoltre sottolineava il mancato rafforzamento del territorio che, anzi, verrebbe indebolito con la chiusura di numerose strutture. Ciò determinerebbe una ripercussione anche per quanto riguarda il livello occupazionale, con la perdita di non meno di 500 posti di lavoro, specie per quanto riguarda gli psicologi ed il personale delle cooperative sociali. L’accusa principale, mossa da tutti quelli che hanno criticato la delibera, è di non aver consultato le parti interessate ma di aver deciso in modo unilaterale. Malgrado questo decisionismo, spinto tra l’altro dalla giusta volontà di mettere ordine circa le rette giornaliere delle diverse strutture residenziali (a seconda della intensità assistenziale) ed i criteri di accreditamento, si è evidenziata la mancanza di un ufficio di riferimento regionale per la psichiatria, come denunciato dalle parti consultate nel corso dell’audizione della IV Commissione regionale del 7 Ottobre 2015 ed anche dal Presidente della Comunità “Il Porto” e della FENASCOP (Federazione Nazionale Strutture Comunitarie Psico-socio-terapiche) del Piemonte, Metello Corulli. La compartecipazione della spesa, da parte dei comuni e/o dei familiari, è un altro importante punto che ha raccolto critiche. Non a caso Piero Fassino, Presidente dell’ANCI e Sindaco di Torino, si è opposto, unitamente ad altri sindaci, alla delibera. Infatti, se non fosse stata bloccata la DGR 30, il Comune di Torino avrebbe avuto un aumento di spesa non inferiore ai 10 milioni di euro. A mio parere, dopo questa premessa in cui ho citato quanto riportato da vari organi d’informazione, due cose, ad un primo esame della delibera, stupiscono e preoccupano. La prima è lo scarso peso che si dà al possibile valore terapeutico della comunità (con la ‘c’ minuscola, e cioè l’ambiente sociale in cui vivono i nostri pazienti). Tale terapeuticità dell’ambiente sociale1 può essere forte, specie se le strutture psichiatriche territoriali cercano di svilupparne le potenzialità. A questo riguardo appaiono importanti le parole pronunciate dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in occasione della Giornata Mondiale per la

Salute Mentale del 10 Ottobre, specie quando afferma che “nella cura di chi è affetto da malattia mentale, un ruolo di primo piano è svolto dal territorio e dalle sue reti”. Certo l’obiettivo della Delibera regionale era mettere ordine per quanto riguarda le strutture residenziali psichiatriche. Ma un accenno, un invito ai vari responsabili dei Dipartimenti di Salute Mentale affinché si adoperino per sviluppare tali me-todologie di rete, di collaborazione fra vari attori (operatori, amministratori, associazioni, utenti, familiari, ecc.) poteva esserci. Ciò, tra l’altro, farebbe diminuire i costi per il Servizio sanitario regionale e per i servizi sociali. Eppure la prevista fase transitoria prevede un ricollocamento degli utenti da una struttura all’altra e non parla di percorsi di autonomizzazione. Vi è un riferimento, a onor del vero, sul “reinserimento nella comunità locale” ma si riferisce solamente all’ubicazione della struttura che deve essere “sul territorio del D.S.M. di competenza o comunque sul territorio”2. Positivo, a tale proposito invece, risulta il Progetto Terapeutico Riabilitativo Personalizzato previsto nella DGR 30 che, tra le altre cose, deve “garantire la valorizzazione dei legami familiari e sociali, dei contesti di vita e delle opportunità offerte dal territorio”3. La seconda è consequenziale. È prevista una compar-tecipazione da parte dei Comuni o dei familiari per gli utenti inseriti nelle “strutture residenziali psichiatriche per interventi socio riabilitativi” (SRP3), quelle a bassa intensità assisten-ziale, per sostenerne le spese. Ciò potrebbe determinare un incentivo ad indirizzare gli utenti ospiti delle SRP3 verso strutture a più alta intensità assistenziale, non per motivi clinici ma economici. Con l’assurda conseguenza che aumenterebbero i costi per la sanità piemontese. Cosa che avviene anche, a volte, con ricoveri ospedalieri in reparti psichiatrici che potrebbero essere evitati (o resi meno lunghi) con un’aumentata assistenza territoriale. C’è da augurarsi che la sospensione della delibera possa rappresentare un’occasione per applicare i punti positivi e superare le lacune, in un clima di consultazione ed ascolto dei vari soggetti interessati, tenendo nel contempo conto della necessità di addivenire ad un quadro omogeneo, razionale e soprattutto cogente.

Gianfranco Conforti

1 – Non a caso si è sviluppata una metodologia d’intervento per la malattia mentale denominata “La comunità che guari-sce”. Come si legge nel sito www.e-rav.it occorre “pensare alle diverse realtà territoriali come luogo di incontro… in cui l’uomo sia al centro e in cui qualsiasi politica, pensiero, prassi siano orientati al benessere e alla salute mentale. (cfr http://www.e-rav.it/pub/c_La_Comunit_che_guarisce.php). 2 – Sezione 1, punto 2 della Delibera della Giunta regionale n.30 del 3 Giugno 2015 (pag. 6). 3 – Sezione 1, punto 3 della Delibera della Giunta regionale n.30 del 3 Giugno 2015 (pag. 7).

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n. 5 (168) – dicembre 2015 il granello di senape pag. 48

COLIBRÌ

società cooperativa sociale ONLUS Via Monsignor Peano, 8 - 12100 CUNEO tel. e fax : 0171/64589 www.coopcolibri.it

Le botteghe della Colibrì si trovano a : CUNEO Corso Dante 33 BORGO SAN DALMAZZO Via Garibaldi 19 FOSSANO Via Garibaldi 8 MONDOVI’ Via S. Arnolfo 4 SALUZZO Via A. Volta 10

COMPRARE EQUO E SOLIDALE È UN ATTO POLITICO "Comprare fair trade in questo momento è un atto politico", queste le parole di Alessandro Franceschini, presidente di Equo Garantito (nuovo nome dell’associazione che esprime l’assemblea generale delle organizzazione italiane di commercio equo e solidale). Le parole di Franceschini arrivano dopo gli attentati, le bombe e i morti di Beirut, Parigi e Bamako. Secondo il presidente di Equo Garantito, di cui la Cooperativa Colibrì è socia, "quel che sta accadendo oggi è il frutto di modelli economici che favoriscono gli interessi di pochi e la spoliazione di intere popolazioni. Di fronte a quello che sta accadendo vicino e lontano a noi, di fronte al sostanziale sgretolamento di sicurezze che ci parevano incrollabili, è normale avvertire un senso di impotenza. Le forze in gioco sembrano infatti mosse da mani invisibili e lontane, tanto forti quanto incomprensibili. Legittimo quindi cercare risposte attendendo che politica e istituzioni internazionali prendano una qualche decisione e indichino una via.” Eppure il movimento del commercio equo e solidale non vuole restare a guardare: mai come ora pare essenziale che ciascuno in quanto cittadino prenda una posizione precisa rispetto a quello che sta accadendo. Questo perché le organizzazioni di commercio equo e solidale, e chi ne fa parte, sentono in prima battuta la necessità e l’opportunità di non restare inerti, di fare qualcosa, di agire e di coinvolgere altre persone, diffondendo un atteggiamento costruttivo, dinamico, positivo, nonostante il clima di paura. Il racconto mediatico ci restituisce l’immagine di un contesto globale in rapido mutamento, ma appare sempre più chiaro che quanto sta accadendo sia la conseguenza di modelli economici che depredano i territori, sfruttano le persone e creano profitti a vantaggio di pochi. I grandi flussi migratori cui torniamo ad assistere non sono altro che il frutto della distruzione di assetti politici, sociali e produttivi di interi Paesi, con la relativa fuga di milioni di persone verso l’Europa e l’emergere di forze intolleranti, radicali e violente. In questo panorama prosperano gruppi di potere che di volta in volta si schierano con l'una o l'altra forza in campo, approfittando della situazione per giustificare un sistema di perenne impoverimento dei lavoratori, l’accaparramento delle terre e delle risorse ambientali, il generarsi di capitali sporchi legati a diversi traffici (droga, armi, esseri umani …). Senza contare il ruolo delle organizzazioni finanziarie internazionali che spesso facilitano questi sistemi utilizzando i nostri risparmi, in un gioco che non ha più confini geografici

precisi, ma neppure schieramenti netti. “In questo mutato scenario internazionale - ha ricordato Franceschini su Altreconomia -, in cui tutti i riferimenti che avevamo solo pochi anni fa sembrano anacronistici e in cui non sappiamo più trovare chiavi di lettura valide a decodifi-care quanto accade, ecco che siamo interpellati tutti come cittadini e consumatori a operare delle scelte precise, a vincere il nostro senso di inadeguatezza: non vogliamo essere parte di un sistema economico che tollera disegua-glianze strutturali, opacità nei mercati commerciali e finan-ziari, ricchezze fondate sul mercato degli armamenti o su traffici criminali, concentrazioni economiche scandalose che fatalmente diventano poi strumenti di condizionamento politico. L'economia solidale in generale e il Commercio Equo in particolare possono essere parte di questa risposta. Possono essere testimoni delle nostre scelte e delle nostre posizioni. Mai come in questo momento il nostro comportamento di cittadini può dare dei segnali precisi a chi ci sta intorno, soprattutto ai ragazzi che hanno di certo meno punti di riferimento di chi era ragazzo qualche anno fa.” Ecco allora che “comprare equo e solidale in questo momento è un atto politico”, come afferma Franceschini. Perché il Commercio Equo e Solidale opera, al contrario, per costruire una rete di relazioni fondate sul rispetto e il reciproco riconoscimento culturale tra produttori e consumatori. Perché le sue botteghe sono luoghi di dialogo e confronto, in un orizzonte interculturale, interdisciplinare, in contatto con realtà ed esperienze attive sui territori. Perché negli anni il Commercio Equo e Solidale ha provato a cercare una relazione aperta e di sostegno anche con gli attori economici locali messi in difficoltà dalla crisi. Perché, infine, su alcune questioni il Commercio Equo e Solidale non è disposto a scendere a compromessi, a voltarsi dall’altra parte oppure a fingere di non vedere. Quando è nato, negli anni Settanta, il movimento del Commercio Equo e Solidale era un’avanguardia nell’affrontare il tema degli squilibri tra Nord e Sud del mondo, oggi continua a volerlo essere, cercando di costruire un’economia nuova, in cui i confini da superare non sono più solo geografici, ma legati a paure e chiusure che ci condizionano nel profondo. “Comprare equo e solidale oggi - conclude Franceschini - vuol dire che possiamo reagire all’impotenza e alla frustrazione, rimettendo la giustizia economica al centro delle nostre scelte e quindi del futuro in cui vogliamo sperare e che possiamo già costruire”.

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n. 5(168) – dicembre 2015 il granello di senape pag. 49

L’Associazione “La Cascina”

TI INVITA ALLA

Ore 13.00 Pranzo Ore 15.30 Canti Natalizi con la corale “I Cantalegher”.

N.B. Per motivi organizzativi non ci sarà lo scambio dei doni.

Quota di partecipazione € 10. È necessario prenotarsi in cartolibreria (0171/492441) !!

Ore 19,30 S. Messa conclusiva dell’anno Ore 21 Cenone di capodanno

Si raccomanda la puntualità sia per chi vuole partecipare alla S. Messa che per chi vuole consumare il Cenone.

Iscrizioni fino ad esaurimento posti (n. 120) e comunque entro e non oltre martedì 29 dicembre presso la Cartoleria (0171/492441).

Il cenone sarà anche un momento di solidarietà per il centro “Cre-siendo” per minori disabili a Bosques (Grande Buenos Aires, Argentina) dove operano le suore Giuseppine di Cuneo. Parte della quota del cenone (€ 7) per ogni partecipante saranno devoluti per l’iniziativa. La somma devoluta lo scorso anno, tra cenone, 5% sui libri scolastici ed offerte varie, è stata di € 3.000. Il contributo richiesto è

a. da 0 a 3 anni gratis b. da 3 a 6 anni € 10 c. da 7 – 10 anni € 15 d. oltre gli 11 anni € 20

LA QUOTA VA VERSATA ALL’ATTO DELL’ISCRIZIONE

CONSERVARE IL BIGLIETTO

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n. 5(168) – dicembre 2015 il granello di senape pag. 50

L’invito è rivolto a tutti, occorre prenotarsi alla festa di Natale o Capodanno in Cascina (a Pulce, Guido o Franco)

Ore 18.00 Ritrovo Ore 19.00 Cena Ore 21.30 Tutti a casa Q a i ar i azi € 10.

Ore 12.30 pranzo Ore 15.00 musica con il mitico “Gino” Ore 17.30 The e.... tutti a casa

Qu a i ar i azi € 10.

È necessario prenotarsi!!!

DOMENICA 7 febbraio 2015

Festa di CARNEVALE

DOMENICA 20 MARZO 2016

Sono in vendita, presso la Cartoleria “La Cascina” ad offerta libera, le candele della solidarietà per il centro Cre-siendo di Bosques, in Argentina. Chi vuole contribuire a questo progetto sarà il benvenuto!!! Vi aspettiamo numerosi, ringraziandovi anticipatamente della vostra generosità.

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n. 5(168) – dicembre 2015 il granello di senape pag. 51

Los Angeles A luglio sono andato a Los Angeles per fare le gare di atletica . Ho preso l’aereo a Milano. Il giorno dopo ho fatto le gare di staffetta, salto in lungo e i 100 m di corsa. Ho vinto tre medaglie. Mi sono divertito e ho conosciuto tanta gente. Spero di tornarci presto!

Samuele

La nuova cuoca

Il 7 settembre è arrivata la nuova

cuoca, Serena. E’ una ragazza di 19

anni e ha appena finito la scuola

alberghiera.

Vive a San Rocco Castagnaretta e sa

cucinare molto bene. E’ una persona vivace e molto simpatica.

Abbiamo fatto subito amicizia!

Bruno

LA NUOVA COLLEGA

La nuova collega qui in Cascina si chiama Serena. Ha cominciato a settembre. In Cascina fa anche cucina e anche diversi lavori. È simpatica, viene anche a camminare con noi. Saluti da Paolo C.

Lunedì 7 Settembre Serena è venuta a lavorare in Cascina. Ha 19 anni e ha frequentato la Scuola Alberghiera di Dronero. Pur essendo ancora alle prime armi si destreggia bene nel cucinare per tutti noi. Oggi, per esempio, mangeremo polenta, spezzatino e salsiccia. Serena è molto gentile e paziente con tutti e spero che resti a lavorare in Cascina per molto tempo. Fulvio

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n. 5(168) – dicembre 2015 il granello di senape pag. 52

SAN SERENO, FESTA DEDICATA AL MIO PAPA’ Ogni anno, a San Rocco si festeggia San Sereno, il patrono di San Rocco. Quest’anno la festa è stata dedicata a una persona per me molto importante, il mio papà. In questo giorno importante abbiamo fatto molte cose. Siamo andati a messa, con il mio papà MARIO. Dopo la messa siamo andati a cenare, per concludere la giornata siamo andati a vedere i fuochi d’artificio. Mi sono divertito molto!

Claudio

A inizio settembre a San Rocco Castagnaretta si è svolta l’annuale festa di San Sereno. Io, Marcella e Davide una sera siamo andati alla lotteria della Scuola Materna di S. Rocco, abbiamo comperato un po’ di biglietti e aspettato l’estrazione. Purtroppo io e Marcella non abbiamo vinto nulla, mentre Davide è stato fortunato e ha vinto un bel cesto pieno di cose da mangiare. Comunque anche se non ho vinto ho passato una bella serata.

Enrico

È autunno! La stagione che segna il passaggio dall’estate all’inverno. Arriva il primo freddo, le foglie cambiano colore: sono gialle, rosse e arancioni, e pian pianino cadono le foglie. In autunno io faccio il cambio di stagione con i vestiti: da quelli estivi a quelli più caldi e pesanti per l’inverno. Assieme ai miei amici faccio tante passeggiate in montagna, e con la mia famiglia vado a raccogliere le castagne, prepariamo la polenta con il sugo e passiamo delle belle giornate a Goletta. L’autunno è una stagione che mi piace molto per il tempo, per i mille colori e per le passeggiate che faccio con la famiglia e gli amici. Alberto

Oggi, come ogni venerdì, siamo andati in piscina. La nuova piscina è molto grande e ci sono tante corsie lunghe. Ci siamo cambiati nello spogliatoio e ci siamo messi il costume. Il mio costume è rosso. In piscina tutti indossano il costume. Obbligatorio è anche l’uso della cuffia. La mia cuffia è blu. Prima di entrare in acqua è obbligatorio fare la doccia. Per fare funzionare la doccia bisogna usare la tessera. Ho messi i miei vestiti nell’ armadio di colore verde. Oggi abbiamo fatto una lezione di nuoto. Le insegnati sono molto brave. Mi è piaciuto molto e sono uscito dalla piscina contento. Luciano