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Università Cà Foscari di Venezia
Corso di Laurea magistrale (ordinamento ex D.M. 270/2004)
in Filologia e Letteratura Italiana
Tesi di Laurea
Il Metodo Narrativo
Paesaggi mentali della formazione
Relatore: Ch. Prof. Ivana Padoan
Correlatore: Ch. Prof. Ricciarda Ricorda
Laureando: Tiziano Battaggia
Matricola: 825124
Anno Accademico 2012/2013
1
INDICE
Abstract pag. 3
Introduzione pag. 5
1 Identità e narrazione
1.1 Il racconto dell’esperienza pag. 13
1.2 I dispositivi della narrazione pag. 16
1.3 La costruzione narrativa del sé pag. 22
2 La creazione del sé nel romanzo di formazione
2.1 La metafora formativa del Bildungroman pag. 27
2.2 Principio di classificazione e principio di trasformazione pag. 30
2.3 La Bildung goethiana pag. 33
2.4 Bildungroman e identità professionale pag. 39
2.5 Bildungroman e quotidianità pag. 42
2.6 Il rapporto figura sfondo nel Bildungroman pag. 45
2.7 L’integrazione tra socialità, orgoglio e pregiudizio pag. 49
2.8 Il romanzo di formazione nella modernità pag. 53
2.9 Realismo narrativo e relativismo sociale pag. 56
3 Autoformazione tra riflessività e narazione
3.1 Aspetti dell’autoformazione pag. 59
3.2 Autoformazione e identità sociale pag. 63
3.3 Identità complesse e complessità sociale pag. 66
3.4 Autoformazione e riflessività nell’azione pag. 69
2
3.5 L’importanza del contesto nell’autoformazione pag. 76
3.6 L’apprendimento situato e le comunità di pratica pag. 79
3.7 Lo sfondo integratore pag. 82
3.8 La funzione del fantastico nell’autoformazione pag. 89
3.9 Identità, immaginazione e immaginario sociale pag. 99
3.10 Identità e individualizzazione nella postmodernità pag. 101
3.11 Per un apprendimento trasformativo pag. 105
4 Formazione narrativa e Narrazione formativa
4.1 Verso una Formazione Narrativa pag. 112
4.2 La Narrazione Formativa come “cura sui” pag. 116
4.3 La lettura per formarsi: una questione di metodi pag. 120
4.4 “Dimmi cosa leggi...”: la lettura come comunità di pratica pag. 122
4.5 Un laboratorio di Lettura Performativa pag. 127
4.6 La scrittura-di-sé: verso una definizione di metodi pag. 132
4.7 Le scritture-di-sé: l’approccio esistenzialista di Pineau pag. 138
4.8 Le scritture-di-sé: l’approccio fenomenologico di Demetrio pag. 142
4.9 Le scritture-di-sé: l’approccio costruttivo-relazionale di Le Bohec pag. 148
Conclusioni pag. 155
Appendice pag. 159
Bibliografia pag. 184
3
Abstract
La tesi vuole analizzare le influenze del pensiero narrativo, fondamentale
modo di funzionamento della mente, nella costruzione delle esperienze
formative degli adulti. È noto il potere pervasivo della dimensione
narrativa nei percorsi di apprendimento. Ciò che ci interessa è individuare
come la narrazione delle esperienze e sulle esperienze orienti l’identità
professionale, le costruzioni di senso dell’agire, le epistemologie implicite
ed esplicite sottese alle prassi, la produzione di modelli significativi e di
dispositivi efficaci. Si tratta di esaminare i diversi approcci culturali alla
dimensione narrativa dell’individuo, da quelli letterari, a quelli psicologici e
terapeutici, fino agli ambiti scientifici delle neuroscienze e degli studi
riguardo l’apprendimento e il lifelong learning.
L’intento è di ricavare indicatori validi per definire una proposta di metodo
o, forse, sarebbe meglio parlare di metodi narrativi utili a supportare la
problematicità dei ruoli professionali, in particolare di quelli educativi e
sociali.
The purpose of this thesis is to analyze the influences of narrative
thinking, fundamental mind mode of operation, in building the learning
experiences of adults.
The pervasive power of the narrative dimension in learning pathways is a
renown fact. What we are interested in is to identify how telling
experiences orientates professional identity, the construction of the
meaning of acting, implicit and explicit epistemologies underlying the
common practice, the production of meaningful models and effective
devices.
It is about examining the different cultural approaches to narrative
dimension of the individual, from the literary, psychological and
therapeutic ones, until the scientific fields of neuroscience and studies
about learning and lifelong learning.
4
We aim to obtain valid markers able to define a proposal for a method, or
rather say narrative methods, useful to support the problematic nature of
professional roles, especially educational and social ones.
5
Introduzione
La narrazione è uno dei modi privilegiati attraverso cui l'uomo si pone in
rapporto con il mondo. Infatti, attraverso i racconti, l'uomo ha potuto
tramandare la sua cultura e assicurare così la continuità fra le generazioni.
Raccontando storie gli uomini condividono emozioni ed esperienze,
trasmettono conoscenze utili per la sopravvivenza, e costruiscono le forme
e i modi delle relazioni.
Per il tramite del pensiero narrativo, diventiamo nel corso del nostro
sviluppo via via sempre più capaci di descrivere, spiegare e comprendere
eventi, atti e comportamenti, inscrivendoli in strutture di senso che sono
personali, e al tempo stesso connessi con i modi sociali e culturali
attraverso cui la realtà è letta e interpretata.
Il pensiero narrativo ci permette, quindi, di organizzare le esperienze in
racconti, che stimolano e orientano le nostre riflessioni, sostenendo i
processi di formazione e cambiamento.
La tesi presenta alcune declinazioni di tale processo, iscrivendole
nell’ambito educativo e sociale, dove la dimensione formativa, intesa come
costruzione del sé e della propria identità nel tempo, coinvolge sia gli
operatori, sia gli utenti. L'attribuzione di significati attraverso la narrazione
è un fatto soggettivo, che si rispecchia e amplifica nell’interpretazione dei
contesti di vita e di lavoro condivisi con altri. In tal modo, non solo
mettiamo in relazione i propri stati interiori con la realtà esterna, ma
costruiamo e spesso, nelle relazioni d’aiuto alla persona, de-costruiamo e
ricostruiamo il significato stesso di tali contesti per accedere a livelli di
integrazione più rispondenti ai bisogni personali e sociali.
Scopo della tesi è individuare in quali modi, attraverso quali funzioni e con
quali mezzi la narrazione delle esperienze e sulle esperienze orienta
l’identità professionale, le costruzioni di senso dell’agire, le epistemologie
implicite ed esplicite sottese alle prassi, fino a giungere alla produzione di
modelli significativi e di dispositivi efficaci nell’ambito della formazione.
6
Nel primo capito si delinea uno degli sfondi epistemologici portanti della
tesi, a partire dall’analisi della prospettiva socio-costruttivista di Bruner.
Secondo l’autore, la realtà che percepiamo è una realtà costruita e noi
strutturiamo la conoscenza e l’esperienza soprattutto tramite il pensiero
narrativo. Lo sviluppo di tale competenza è, quindi, fondamentale sia per
la strutturazione dell’identità individuale sia per la coesione della cultura, o
meglio, delle culture cui apparteniamo. Con l’aiuto di Bruner si cercherà di
analizzare cosa costituisce un racconto, e attraverso quali dispositivi la
narrazione ci fornisce le chiavi d’interpretazione per trasformare
l’indicativo della nostra realtà nel congiuntivo delle possibilità, al fine di
affrontare l’imprevedibile delle nostre esistenze nella società dell’incertezza
in cui viviamo. Sta, come vedremo, nel significato e nella funzione della
metafora la “raccontabilità” delle storie: ciò che ci spinge a far coincidere
la costruzione della propria identità con la narrazione di sé, come una vera
e propria arte narrativa.
Proprio a quest’arte narrativa è dedicato il secondo capitolo. È preso in
esame il “romanzo di formazione”, sulla base della ricca e complessa
analisi di Franco Moretti. L’intento è di comprendere la dialettica che
intercorre tra letteratura e modelli culturali della formazione di sé; e come
dal “Bildungroman” si avvia la trasformazione del carattere privato
dell’esperienza in divenire sociale e storico. Infatti, l’influenza dei temi
narrativi e dei modelli d’individuo che i romanzi di formazione veicolano, la
stessa rappresentazione psicologica e sociale dei rapporti tra privato e
pubblico, nonché le idee di gioventù e di maturità, che il romanzo di
formazione scandisce nelle sue trame, si estendono ben al di là della
letteratura in genere, giungendo fino ai giorni nostri. Mobilità sociale,
come rapporto storico con la propria epoca e interiorità, come intimità del
quotidiano, sono i motivi privilegiati del romanzo di formazione, che si
fissano nell’immaginario collettivo continuando a condizionare le idee
sull’identità e sulla costruzione del sé, assumendo contenuti via via
differenti, in particolare nel passaggio dalla modernità alla cosiddetta post-
modernità. Analizzando le differenze d’intreccio tra il “Bildungroman”
7
goethiano, basato sul “principio di classificazione” e i successivi romanzi di
Stendhal e Puškin, fondati sul “principio di trasformazione”, si
comprendono le diverse declinazioni che può assumere il paradigma
dell’autodeterminazione del soggetto e della sua socializzazione. Si tratta
di leggere le vicende dei protagonisti in un rapporto “figura/sfondo”, per
comprendere come l’introduzione di nuovi elementi a livello di trama
narrativa può rendere ancor più disfunzionale l’integrazione dell’individuo,
oppure permettere di riorganizzare le situazioni problematiche in senso co-
evolutivo. Da questo punto di vista, matura nella tesi l’ipotesi che la
lettura dei “romanzi di formazione” fornisce ancor oggi indicazioni utili su
come favorire quei cambiamenti di paradigma personale necessari per
operare una più attiva e consapevole integrazione del sé. In particolare, la
molteplicità dei punti di vista, che rende realistico il romanzo moderno, col
suo moltiplicarsi delle prospettive, il continuo passaggio dal piano del
racconto a quello del discorso e del commento, richiede un lettore attento
a non farsi attrare dalle lusinghe del disincanto, optando invece per un
atteggiamento curioso e duttile, aperto ed empirico, responsabile e
maturo.
Possiamo approfondire quegli elementi e quei dispositivi narrativi
intrinsechi alle nostre esistenze, che la letteratura contribuisce a rendere
esemplari e rappresentativi, a condizione di sviluppare un percorso
consapevole e intenzionale di “autoformazione”. È questo il tema
affrontato nel terzo capitolo della tesi. Esaminando gli aspetti e quei
modelli di autoformazione che privilegiano l’approccio narrativo, non si
può far a meno di analizzare la condizione contemporanea dell’identità
individuale e ciò che la caratterizza in rapporto alle dinamiche sociali della
post-modernità. Zygmunt Bauman ci avverte del rischio al quale siamo
esposti nella società dell’incertezza di eludere la problematicità delle
nostre esistenze quotidiane, rifugiandoci nel consumo delle merci,
illudendoci di garantirci nell’esperienza dell’effimero l’autoaffermazione di
sé; invece di cogliere le opportunità che una società più libera da
ideologie, strumenti e modelli istituzionali coercitivi potrebbe offrire in
8
termini di costruzione di sé, di nuove forme di legame e di relazione con
gli altri.
La prospettiva che s’intende indagare e far propria per affrontare
l’indeterminatezza della società fluida e in continua trasformazione nella
quale viviamo è quella sistemica e relazionale, che s’ispira alle tesi di
Maturana e Varela. Cioè, interpretare il rapporto “interno/esterno” come
un “accoppiamento strutturale” fra realtà che si sviluppano mantenendo la
propria organizzazione: in questo senso le due realtà, soggetto e contesto,
costruiscono un “mondo” condiviso, cioè una “storia”. Di fronte alla
complessità sociale, si propone, allora, un processo di autoformazione, in
cui risalti la complessità della persona (leggi: le intelligenze multiple di
Gardner), e la necessità di un apprendimento come costruzione attiva e
consapevole di saperi e competenze. Tale complessità del soggetto è
declinabile, in senso batesoniano, in termini di “narrazione”, quale
espressione della propria “riflessività”. Qui sta uno dei fulcri intorno ai
quali si articola la tesi: la reciprocità dialettica, appunto, tra narrazione e
riflessività, in cui l’una implica l’altra, le nutre e la arricchisce. Da Schön e
Mezirow ricaviamo indicazioni precise e pertinenti, che orientano
l’autoformazione verso pratiche di razionalità riflessiva: col primo per
superare la tradizionale scissione tra pensare e agire; col secondo, per
imparare a distinguere le teorie “dichiarate” da quelle “in uso” e a
modificare quest’ultime trasformando le proprie “prospettive di
significato”.
Ciò può realizzarsi solo a condizione che il processo auto-formativo si
sviluppi attraverso pratiche cognitive “situate” e “interattive”, non in
termini solipsistici e di mera acquisizione di conoscenze. L’integrazione tra
dimensione individuale, collettiva e sociale dell’apprendere presuppone
contesti di vita e di lavoro che mettono in gioco l’”intersoggettività”. S’è
ritenuto, quindi, importante analizzare le diverse definizioni di “contesto",
da concetto linguistico, ai significati psicologici e culturali che ha assunto,
dando sempre più rilievo all’esperienza socio-relazionale dell’individuo. In
tal senso, la visione sistemica di Bateson, che interpreta il contesto come
9
coevoluzione di parti interagenti, e l’approccio socioculturale di Vygotsky,
per il quale l’apprendimento è il prodotto di contesti socializzanti, hanno
favorito lo sviluppo di una serie di proposte metodologiche in ambito
educativo, sociale e professionale caratterizzate dalla partecipazione attiva
e dal coinvolgimento dei soggetti nella progettazione e realizzazione di
azioni volte all’acquisizione di abilità e competenze. Le “comunità di
pratica” e la metodologia dello “sfondo integratore” sono le due proposte
esposte nel capitolo, scelte in quanto considerate affini all’ambito
dell’autoformazione, e nelle quali la narrazione si rivela una dimensione
determinante della relazione educativa e dei processi di apprendimento.
Un terzo aspetto che s’è ritenuto importante analizzare e che connette tra
loro le diverse proposizioni della tesi, è quello dell’”immaginario”. La
capacità riflessiva si articola in una narrazione di sé che coinvolge la
persona nella sua globalità, gli aspetti cognitivi e la sua intelligenza
emotiva, la razionalità e l’intuizione, la logica e l’immaginazione.
Quest’ultima si alimenta a sua volta di quell’immaginario “diurno” e
“notturno”, che struttura la nostra personalità. Infatti, indagando alcune
tra le fondamentali concezioni dell’immaginario, s’è potuto verificare come
tutte condividono l’importante funzione che riveste nella costruzione del
sé. Indugiare nell’immaginario e nel fantastico permette al soggetto di
riassorbire il “negativo” delle proprie esperienze, di rassicurarsi sulla
propria consistenza, di realizzare un rapporto più dinamico tra gli aspetti
esperienziali e soggettivi con quelli più razionali e istituiti, di affrontare la
pluralità e la molteplicità dell’esistente come nuove opportunità e ispirare
la ricerca di equilibri diversi, tenendo in considerazione gli impensati della
coscienza e le dinamiche dell’inconsapevolezza e del tacito.
È nei colori dell’immaginario e in quelli della cognizione che attingiamo il
pennello della nostra immaginazione, delle nostre ipotesi, delle nostre
aspettative e intraprese, per dipingere i quadri che rappresentano i
paesaggi della formazione esposti in questa tesi.
Per restare nella metafora, l’ultimo capitolo è dedicato proprio alle
tecniche di pittura. Sono analizzati gli elementi strutturanti del paesaggio
10
formativo: i contesti e gli attori, i linguaggi e la comunicazione, le
tecniche e gli strumenti operativi, le dinamiche dei gruppi e le architetture
relazionali. Un particolare riferimento è dedicato all’ambito delle
neuroscienze, in quanto la scoperta dei neuroni specchio conferma come
l’empatia sia lo sfondo della nostra intelligenza. L’imitazione degli stati
d’animo altrui ci consente di dedurre l’ordine delle relazioni affettive e
sociali, i complessi di valori che le organizzano, gli schemi di
comportamento individuali e collettivi, e di conseguenza, di creare un
mondo possibile, evocando su di noi il richiamo della condizione umana
nel linguaggio della rappresentazione metaforizzata.
Sulla scia di Franco Cambi s’intende declinare la “formazione”, o meglio,
l’”autoformazione” come una “cura del sé”, che favorisce da una parte una
lettura dell’identità soggettiva e intersoggettiva, dall’altra il recupero delle
dimensioni di tipo processuale caratteristiche dei percorsi di evoluzione e
crescita, di interpretazione e cambiamento.
“Cura del sé” che riguarda sia chi ha il compito di prendersi cura di altri,
sia la cura di coloro che ci sono affidati, dei soggetti a rischio, per
sostenerli nel loro sviluppo emotivo e cognitivo e in vista del
raggiungimento di una migliore integrazione. Cura, quindi, legata anche a
interventi di “risveglio del sé”, intesi a rafforzare l’identità dei soggetti e a
promuoverne la capacità di costruire propri progetti esistenziali.
Trova conferma in Cambi l’ipotesi intorno alla quale si muove la tesi: la
narrazione come via maestra della “costruzione del sé”, attività primaria,
fondamentale e permanente da presidiare e coltivare come un paradigma
formativo della mente e collante culturale in tutte le civiltà.
L’indagine sui “metodi narrativi” è preceduta dall’analisi di quelle tecniche
di vita fondamentali per innescare e sviluppare la propria autoformazione
come processo continuo, da portare avanti con rigore e disciplina,
indispensabili nella guida di se stessi: la “lettura” per formarsi e conoscere
il mondo, la “scrittura” per il piacere formativo e pensare i propri pensieri,
e, in particolare, l’”autobiografia” come cura di sé.
Si tratta di tecniche che affondano le loro origini nel passato della nostra
11
civiltà occidentale, da quella ellenistica, per declinarsi in seguito con
Sant’Agostino nella cultura cristiana e con Rousseau nell’illuminismo. In
tempi più recenti, un paradigma d’eccellenza dell’autobiografia è
rappresentato senz’altro dalla “Recherche” proustiana, il cui modello
letterario ha ispirato e continua a farlo molti autori anche in Italia, come
Svevo e Calvino. Con Proust l’autobiografia abbandona definitivamente
l’intento celebrativo e giustificatorio, per assumerne uno più problematico
di ripensamento dell’io e di ricerca di sé. Il rischio attuale è che la scrittura
perda la sua “aura”, si desublimi per farsi mezzo, e come tale merce. Blog
e forum, insieme alle altre forme di multimedialità, pur con le loro evidenti
potenzialità creative e articolazioni comunicative, si consumano
nell’immediatezza della loro funzionalità. Ciò mette a repentaglio il ruolo
cognitivo-espressivo, problematico e interpretativo che sta alla base della
testualità. Si è ritenuto importante registrare alcune considerazioni sul
ruolo da attribuire alla “scrittura-di-sé” nella post-modernità, e sulle
funzioni che può assumere per le generazioni dei cosiddetti nativi digitali
avvezzi all’uso delle tecnologie informatiche.
Riguardo alla prima tecnica, sono descritti due laboratori che partono dalla
lettura per ritornare ad essa e su di essa tramite vissuti condivisi e
partecipati in gruppo. La loro valenza formativa sta nella rielaborazione di
una pratica personale e intima in un’attività di relazione e di scambio. Tale
esperienza implica un ascolto reciproco ed una restituzione, intesa sia
come impressione personale sia come espressione di reciprocità, per
giungere in uno dei casi anche ad una vera e propria produzione
espressiva e creativa.
Il metodo della “scrittura di sé” è esaminato attraverso la descrizione di
tre diversi approcci, che condividono l’attenzione agli aspetti problematici
dell’esistenza.
Per gli autori delle proposte metodologiche esposte l’uso
dell’”autobiografia” avanza pretese di “decostruzione-ricostruzione”
dell’identità personale e professionale dei soggetti coinvolti in tali pratiche,
per rispondere alle esigenze della società complessa, ma anche e
12
soprattutto ai bisogni personali e sociali di cambiamento e di
trasformazione in senso etico ed ecologico.
L’”approccio esistenzialista” di Pineau propone le “biografie di vita” per
ricostruire i frammenti delle proprie esistenze e cercare di dare senso e
valore alle “transazioni”, che permettono di modificare e di cambiare il
proprio agire nel mondo.
Attraverso il suo “approccio fenomenologico” Demetrio contestualizza la
forma “auto-educativa” in una rilettura “originale/originaria” della
condizione fenomenologico esistenziale del soggetto, includendo in essa
l’insieme dei paradigmi della vita e della morte, del lavoro e del gioco.
L’”approccio costruttivo-relazionale” di Le Bohec, infine, sviluppa il metodo
delle “co-biografie” nella formazione. Con la raccolta e il confronto in
gruppo di biografie personali, si cerca di individuare i debiti familiari e il
progetto di vita di ognuno, quale fonte della propria e dell’altrui
formazione.
Il quadro delle proposte metodologiche si chiude in appendice con il
resoconto di un “seminario di formazione” condotto dal sottoscritto e da
Nerina Vretenar. Con tale documentazione si vuole proporre e divulgare
un esempio di applicazione pratica di un dispositivo, che richiama l’insieme
delle considerazioni e delle ipotesi avanzate nella tesi, ispirandosi alle
teorie e ai modelli esposti.
13
1 Identità e narrazione
La grande sfida lanciata alla nostra civiltà è quindi
quella di promuovere spazi e forme di
socializzazione animati dal desiderio, pratiche
concrete che riescano ad avere la meglio sugli
appetiti individualistici e sulle minacce che ne
derivano. Educare alla cultura e alla civiltà
significava – e significa ancora – creare legami
sociali e legami di pensiero.
(M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni
tristi)
1.1 Il racconto dell’esperienza
Nell’incipit di un recente articolo apparso su “La Repubblica” Eugenio
Scalfari introduce un’intervista al Presidente Giorgio Napolitano,
affermando che la narrazione serve
“… a guardare il passato e a raccontarlo con gli occhi di oggi
ricavandone un’esperienza da utilizzare per agire sul presente e
costruire il futuro. Narrare il passato è dunque un elemento
indispensabile per dare un senso alla vita. Chi rinuncia a
raccontare vive schiacciato sul presente e il senso, cioè il
significato e la nobiltà della propria esistenza, fugge via.” 1
Subito dopo, l’illustre giornalista descrive la differenza tra la narrazione, in
cui il riscontro con i fatti avvenuti si rivela doveroso, e le favole che, senza
alcun riscontro con la realtà,
1 Scalfari E., Due testimoni alle prese con i mali dell’Italia, in “La Repubblica, 2 giugno 2013.
14
“sono lo strumento preferito dei demagoghi e servono solo per
accalappiare gli allocchi.” 2
In questa pur sintetica ma puntuale “lezione” si può leggere e intuire
l’influenza della narrazione nelle nostre vite.
Bruner,3 considera la capacità di narrare una dimensione fondamentale del
pensiero umano. Nel momento stesso in cui la raccontiamo, noi
interpretiamo la realtà e la organizziamo per dare senso e significato al
rapporto col mondo. Il racconto s’intreccia con la cultura, dando luogo a
un processo di scambio di significati, che ci consente di aderire a una
comunità, condividendo il sistema simbolico culturale. I racconti, però, ci
avverte l’autore, non sono innocenti, possono strutturare o distorcere la
nostra visione della realtà: non basta distinguerli dalle “favole dei
demagoghi”, sono entrambi narrazioni.
Per gli scopi di questa tesi sono di particolare interesse gli ultimi sviluppi
della prospettiva bruneriana. In uno dei suoi saggi più recenti, “La fabbrica
delle storie”, 4 con l’intento di spiegare cosa costituisce un racconto,
l’autore fa riferimento al concetto aristotelico di “peripéteia”5. Si tratta del
meccanismo letterario della “peripezia”, individuato da Aristotele nella
Poetica; il significato etimologico è “accadimento improvviso”. L’esempio di
Aristotele è illuminante.
“Nell’Edipo [re di Sofocle], il messo, venuto ad allietare Edipo e
a liberarlo dal timore nei confronti della madre, quando svelò chi
fosse, produsse il contrario.” 6
Secondo Bruner
2 Ivi. 3 Cfr. Bruner J. S., La mente a più dimensioni, Laterza, Roma-Bari 1988 e Bruner J. S., La ricerca del significato, Bollati Boringhieri, Torino 1992. 4 Cfr. Bruner J. S., La fabbrica delle storie, Laterza, Bari 2002. 5 Ivi, p. 5 – 6. 6 Barbarino A. (a cura di), Poetica/Aristotele, Mondadori, Milano 1999.
15
“ […] i racconti cominciano sempre dando per scontata (e
invitando il lettore o l’ascoltatore a dare per scontata)
l’ordinarietà o normalità di qualche particolare stato di cose nel
mondo – la situazione che dovrebbe esistere quando
Cappuccetto Rosso va a far visita alla nonna […]. A questo
punto, la peripéteia sconvolge le attese: è un lupo travestito da
nonna […]. Il racconto è partito, con l’iniziale messaggio
normativo in agguato sullo sfondo. Forse la saggezza popolare
riconosce che è meglio lasciare che il messaggio normativo
rimanga implicito piuttosto che rischiare un confronto aperto su
di esso. Vorrebbe la Chiesa che i lettori della Genesi criticassero
l’iniziale ‘vuoto’ del Cielo e della Terra, protestando ‘ex nihilo
nihil’?” 7
C’è da chiedersi come nei racconti della propria formazione si genera la
“peripéteia” attraverso gli eventi “ordinari” della nostra esistenza; quali
indicatori ci consentono di cogliere i momenti di svolta nella complessità
delle esperienze personali e professionali; perché, invece, proprio a causa
dell’incapacità di leggere nella complessità delle nostre vite, rischiamo
spesso di eluderli o di lasciarcene travolgere, senza raggiungere
cambiamenti significativi e soddisfacenti. Ci troviamo già di fronte ad una
di quelle questioni di metodo che s’intendono affrontare e chiarire nella
tesi. Bruner ci suggerisce di rivolgere la nostra attenzione al modo
implicito e di conseguenza reticente con cui interpretiamo le nostre
esperienze. Nei tentativi di comprendere ciò che ci succede costruiamo le
nostre narrazioni, ma
“raramente ci chiediamo quale forma venga imposta alla realtà
quando le diamo la veste di un racconto. Il senso comune si
ostina ad affermare che la forma di un racconto è una finestra
7 Bruner J. S., La fabbrica delle storie, op. cit., p. 6.
16
trasparente sulla realtà, non uno stampo che le impone la sua
forma.” 8
Per chiarire quest’aspetto fondamentale della nostra capacità di narrare,
Bruner riprende la distinzione di Gottlob Frege tra il “senso”, che è
connotativo e la “referenza”, che è denotativa.9 La narrazione, in quanto
finzione letteraria e non pura esperienza, non ci consente di pervenire alla
vera realtà, ma ci offre un mezzo indispensabile per dare senso
all’esistenza, rendendo così possibile la referenza alla vita reale. La
narrazione diventa, allora, l’espressione della propria visione della realtà,
del proprio punto di vista, delle proprie credenze e intenzioni, che
diventano interpretabili. Così, attraverso le relazioni, le successive
sedimentazioni delle interazioni sociali, le esperienze individuali si
convertono in esperienze collettive e queste, a loro volta trasformano le
prime.
In questa visione, la cultura in cui siamo cresciuti, che abbiamo appreso, o
sarebbe meglio dire, le culture che si sono depositate in noi, ci vincolano a
particolari modelli narrativi della realtà, che utilizziamo per dar forma alle
nostre esperienze. Possiamo intendere i “vincoli” come limiti da
riconoscere per reinterpretare le nostre esperienze, e come possibilità,
orizzonti culturali dai quali aprirsi a nuove prospettive di senso.
1.2 I dispositivi della narrazione
Nel capitolo successivo vedremo come la letteratura ci abbia fornito, e
continua a farlo, i modelli narrativi di riferimento per la costruzione del sé.
Sceglieremo in particolare di analizzare quelli più rilevanti nella nostra
cultura occidentale, nell’ipotesi di poterne ricavare efficaci indicatori di
metodo negli ambiti della nostra formazione personale e professionale.
8 Ivi, p. 7 9 Cfr. Frege F.G., Senso, funzione e concetto, a cura di C. Penco ed E. Picardi, Laterza, Roma 2001.
17
Prima di accingerci a questo compito, è importante proseguire la nostra
visita alla fabbrica delle storie di Bruner, per attrezzarci con strumenti utili
a comprendere e manovrare i dispositivi della narrazione.
Innanzitutto, il rapporto tra esistenza e racconto implica una disponibilità
ad aprire spazi di ascolto e di lettura, di dialogo e di confronto tra la
soggettivizzazione e la pluralità di prospettive, per transitare dalla
prevedibilità del quotidiano all’eventualità dell’inatteso, dal familiare e
consolidato al possibile e immaginabile. Per Bruner si tratta di “coniugare
la realtà al congiuntivo”,10 partire da chi e cosa noi siamo per esplorare
cosa potremmo essere.
Questa capacità di “congiuntivizzare” la realtà assume una particolare
rilevanza nelle attuali società complesse. L’identità culturale attraversa una
profonda crisi per effetto dei processi di omologazione dei mass-media, di
sradicamento dovuti ai flussi emigratori e alle nuove mobilità territoriali,
per i problemi derivanti dall’accelerazione sociale, dalla globalizzazione e
dalla stessa crisi economica. Tutto ciò genera incertezza nel futuro e un
sentimento di insicurezza, che incide profondamente sul senso delle
identità sia individuali che collettive.
Soprattutto per le giovani generazioni, il futuro come “promessa”,
prospettiva fondamentale della cultura occidentale moderna, si è
trasformato in futuro come “minaccia”. La risposta a questo permanente
stato di emergenza e fragilità individuale e sociale, come avvertono
Benasayag e Schmit, 11 è l’imporsi di un’ideologia dell’utilitarismo, che
invita i giovani a crescere ed apprendere, a costruire la propria identità, i
propri ruoli sociali in una logica di produttività ed efficienza immediata.
Tale “narrazione” si oppone alla possibilità di proporre ai giovani la loro
integrazione sociale attraverso una più equilibrata coniugazione del
desiderio profondo con le necessità sociali.
La narrativa letteraria può offrire non solo modelli o esempi, ma
soprattutto chiavi di interpretazione e strategie per trasformare l’indicativo
10 Cfr. Bruner J. S., La mente a più dimensioni, op. cit.. 11 Cfr. Benasayag M., Schmit G., L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2009.
18
della propria realtà familiare e quotidiana nel congiuntivo regno del
possibile. La narrativa letteraria è un’occasione per orientare la nostra
disponibilità a creare alternativi racconti produttori del sé.
La sensibilità del racconto a sfidare la nostra concezione del canonico, ci
aiuta a prevenire il prevedibile, ma anche ad aprirci al possibile e ad
affrontare l’imprevedibile.
La nostra capacità di leggere gli stati mentali altrui, la reciproca
intersoggettività che ci contraddistingue come specie umana è generata,
secondo Bruner, proprio dalla consuetudine di organizzare e comunicare
l’esperienza in forma di racconto. Dipende, quindi, dalla condivisione di un
comune fondo di miti e racconti.
“E dato che la narrativa popolare, come la narrativa in genere, è
organizzata sulla dialettica fra norme che sostengono l’attesa e
trasgressioni di tali norme evocanti la possibilità, come la stessa
cultura, non stupisce che il racconto sia la moneta corrente della
cultura.”12
C’è da chiedersi come si coniuga questa duplice e reciproca costruzione
del sé e costruzione di cultura attraverso la narrazione con l’avvento della
società globalizzata. Come condividere nella contemporaneità il comune
fondo di miti e di racconti nella sovrabbondante e immediata disponibilità
di credenze e narrazioni, che caratterizza la cosiddetta società della
conoscenza? La fine delle “grandi narrazioni” implica una rinuncia nella
ricerca di integrare la propria identità in un contesto riconosciuto, proprio
in quanto delimitato, oppure offre nuove possibilità di coevoluzione tra
identità e sfondo, entrambi non riducibili ed in continua trasformazione? Si
avverte il bisogno di maggior “riflessività”, proprio quando appare
incrementarsi sempre più il rapporto tra la previsione degli eventi e
l’influenza che essa ha sul loro verificarsi, a causa della velocità di
diffusione di informazioni e credenze. Questo effetto di schiacciamento sul
12 Bruner J. S., La fabbrica delle storie, op. cit., p. 19.
19
presente che ci impedisce di mediare i propri desideri, di dilazionarli nel
tempo, confondendoli con bisogni immediati, ci induce a scegliere più sulla
base di fattori esterni e secondari, che sulle motivazioni più profonde del
nostro agire. Il rischio è di ridurre a nulla tutto il resto, nella sensazione
dell’impossibilità di poter considerare i molteplici e frammentari contenuti
esistenziali da selezionare, rielaborare, re-integrare.13
Proprio per collocarci come registi e non solo come attori negli scenari
della contemporaneità, con la miriade di sollecitazioni, a cui siamo
sottoposti, nel tentativo di dirigere le proprie esperienze e dar senso alle
nostre esistenze, la narrazione diventa un valido strumento. Infatti, la
narrazione, non solo crea modelli di mondi possibili, ma modifica anche i
modelli del narratore e le menti di coloro che nel racconto ricercano i suoi
significati. Come ci ricorda ancora Bruner
“… narrare deriva sia dal latino narrare, sia da gnarus, che è ‘chi
sa in un particolare modo’ - il che ci fa pensare che il raccontare
implichi sia un modo di conoscere, sia un modo di narrare, in una
mescolanza inestricabile.”14
Aggiungerei, un particolare modo di conoscere, riferito agli elementi
emergenti delle routine quotidiane, quelli che riteniamo significativi pur
nella consuetudine delle esperienze, ed il cui riconoscimento ci permette di
trattare gli esiti incerti delle nostre aspettative. Allora, quella distorsione
nel rapporto tra la previsione degli eventi e l’influenza che essa ha sul loro
verificarsi, può essere riequilibrata proprio dal racconto, che dilata lo
spazio tra le resistenze del presente e l’attesa del futuro, connettendoci di
volta in volta con i ricordi del passato. La nostra capacità di progettare
non deriva solo da cosa sappiamo di noi stessi, delle nostre relazioni, da
cosa conosciamo riguardo ciò che ci accade e ci è accaduto, ma anche dal
13 Cfr. Batini F., Del Sarto G., Narrazioni di narrazioni, Erickson, Trento 2005. 14 Bruner J. S., La fabbrica delle storie, op. cit., p. 31.
20
modo in cui conosciamo le cose, da come siamo abituati a prevederle,
dalle nostre reazioni di fronte agli eventi inaspettati.
Se da una parte siamo specializzati nell’adattarci all’ordinarietà del
quotidiano, dall’altra siamo altrettanto specializzati a mantenerci vigili di
fronte alle deviazioni dalla routine. Con riferimento alle scoperte
neurofisiologiche di Giuseppe Moruzzi e Horace Winchell Magoun, Bruner
ci ricorda come
“… i messaggi sensoriali inviati alla corteccia cerebrale vengono
trasmessi non solo per i consueti tramiti sensori, ma sono portati
al cervello anche per un’altra via, il sistema reticolare
ascendente, la cui principale funzione è quella di risvegliare la
corteccia, di sgombrarla dal monotono tipo di onde in cui l’Es si
adagia quando siamo confortevolmente annoiati.” 15
A questo proposito azzardo una considerazione riguardo la nostra attuale
capacità di narrare, riferendomi in particolare ai giovani ed alla loro
frequentazione dei videogiochi. Il problema del loro uso continuo non
riguarda tanto il pericolo di confondere il virtuale con il reale, trasferendo
nella realtà la violenza che molti di essi contengono, quanto piuttosto il
rischio di compromettere la funzione narrativa del pensiero. Infatti, nei
videogiochi l’elemento narrativo è rappresentato esclusivamente da una
sorta di ricompensa al giocatore degli sforzi accumulati nelle fasi giocate.
La stessa pratica interattiva non porta ad una più ampia conoscenza del
racconto in cui si sviluppa il gioco, ma solo ad un aumento dell’abilità del
giocatore, che si basa essenzialmente sulla prontezza dei riflessi. Secondo
Miguel Benasayag e Gérard Schmit ciò provoca uno “stato di coscienza
alterato”, che si mantiene grazie al meccanismo del “feed-back”: per non
perdere il filo della partita, l’attenzione viene costantemente sollecitata.
15 Bruner J. S., La fabbrica delle storie, op. cit., p. 35.
21
“In questo modo i giocatori si abituano ad un livello di tensione
nervosa più elevato del normale. Ciò significa che gli adepti di
questi giochi avranno la tendenza ad annoiarsi di fronte a
qualunque situazione che non esiga una soglia elevata di
attenzione – eccitazione nervosa (il sintomo tipico dello zapping:
è necessario che accada costantemente qualcosa). Diventa
quindi difficile per loro seguire una trama, interessarsi a una
storia se l’attenzione richiesta non raggiunge la soglia di
eccitazione delle sinapsi da cui sono ormai dipendenti.” 16
Si potrebbe, a questo punto, azzardare un confronto tra videogioco e
narrazione, senza per questo demonizzare le nuove tecnologie, il cui
corretto utilizzo in particolare da parte dei cosiddetti “nativi digitali”, apre
ampie e indubbie possibilità di conoscenza e di comunicazione.
Comunque, nonostante le numerose ricerche per sviluppare videogiochi in
cui il giocatore sia messo in grado di influenzarne la trama, le reazioni
cognitive si riducono sempre al puro riflesso. Tale abilità si dimostra
affatto vantaggiosa nel gestire la prevedibilità e governare l’imprevedibilità
degli eventi nelle nostre esistenze. Al contrario, i racconti e la narrativa in
genere continuano a offrire modi assai più indicativi e significativi per
riflettere sulle proprie aspettative e per elaborare le proprie prospettive
personali.
Ci deve far riflettere, per rimanere in ambito educativo, il fatto che, ancor
prima di sviluppare le proprie abilità linguistiche, già da piccoli
comprendiamo e interagiamo con soddisfazione a quei “muti drammi
dell’inaspettato” 17 che gli adulti mettono in scena per noi come nel gioco
del “bubusettete”. Ciò che Bruner considera una precoce sensibilità
narrativa radicata nell’interesse per lo sconvolgimento di attese
consolidate è una predisposizione, che andrebbe tutelata e sviluppata
16 Benasayag M., Schmit G., L’epoca delle passioni tristi, op. cit., p. 96. 17 Bruner J. S., La fabbrica delle storie, op. cit., p. 36
22
nell’ambito delle relazioni educative dove si genera, divenendo nel tempo
fondamentale per le future interazioni sociali.
Altro aspetto fondamentale della narrazione e della narrativa in genere è
quella che Bruner chiama “la ‘spinta metaforica’ delle storie”. 18 Se la
cosiddetta “grammatica dei casi”, tipica delle lingue naturali, offre uno
strumento privilegiato quando rappresentiamo le cose in forma di
racconto, la sua conoscenza non giustifica da sola la capacità di narrare.
“Chi ha fatto che cosa a chi, a che scopo, con quale risultato, dove,
quando e con che mezzi” è un dispositivo essenziale, ma occorre un altro
livello di “grammatica” per spiegare la raccontabilità delle storie. Ci viene
in aiuto, secondo Bruner, la “pentade scenica” di Kenneth Burke.19 Per lo
studioso, una storia reale o fantastica richiede un attore, un’azione, un
fine, dei mezzi e un contesto riconoscibile. A motivare una storia è una
qualche discordanza tra gli elementi fondamentali della pentade. Si tratta
sempre di situazioni particolari, che a causa della loro emblematicità,
finiscono per assumere la funzione di cliché narrativi per l’esperienza
umana. È il caso, di cui ci occuperemo nel prossimo capitolo, del
“Bildungroman”: i romanzi appartenenti a questo genere sono un
paradigma fondamentale dell’attività dell’individuo nel suo processo
formativo. Le vicende dei giovani protagonisti, che attraverso una serie di
prove, sofferenze e interrogativi, subiscono un processo di maturazione
interiore alla scoperta della loro vocazione e della loro collocazione in
rapporto con la società, sono uniche e particolari ma, al tempo stesso,
metafore potenti della formazione e costruzione del sé. Costruzione del sé,
che Bruner indica, quindi, come una vera e propria arte narrativa.
1.3 La costruzione narrativa del sé
Per l’autore non conosciamo intuitivamente un sé, piuttosto lo costruiamo
e ricostruiamo continuamente in base alle esigenze delle situazioni che
incontriamo, orientati sia dai nostri ricordi, sia dalle nostre paure e
18 Ivi, p. 38 19 Cfr. Burke K., Grammar of motives, University of California press, 1969.
23
speranze. Memoria, sentimenti, idee e credenze costituirebbero il suo lato
interiore, parte del quale innato (il nostro senso di continuità nel tempo e
nello spazio, il sentimento posturale di noi stessi…); le fonti esterne
deriverebbero dall’apparente stima degli altri e dalle innumerevoli attese,
anche inconsapevoli, provenienti dalla cultura in cui siamo immersi. Il dato
più significativo della tesi dell’autore sta nell’aspetto relazionale della
creazione del sé, veicolato proprio dalla narrazione e dalla cultura in
genere, dai modelli che fornisce, quali presupposti e prospettive
sull’identità, che ci permettono di parlare di noi a noi stessi e agli altri.
Dall’ampia documentazione del capitolo dedicato specificatamente al
tema, val la pena di riportare il brillante confronto di Bruner, che fa
corrispondere una serie di “definizioni – lampo” psicologiche dell’identità
del Sé con altrettante regole utili per la narrazione di un buon racconto
(vedi lo schema della pagina seguente).20
20 Liberamente tratto da Bruner J. S., La Fabbrica delle storie, op. cit., pp. 80 – 81.
24
1. Il Sé è teleologico, pieno di desideri, intenzioni, aspirazioni, sempre intento a perseguire degli scopi.
1. Un racconto vuole una trama.
2. Di conseguenza, è sensibile agli ostacoli: risponde al successo o al fallimento, è vacillante nell'affrontare esiti incerti.
2. Alle trame servono ostacoli al conseguimento di un fine.
3. Risponde a quelli che sono giudicati i suoi successi o fallimenti modificando le sue aspirazioni e ambizioni e cambiando i suoi gruppi di riferimento.
3. Gli ostacoli fanno riflettere le persone.
4. Ricorre alla memoria selettiva per adattare il passato alle esigenze del presente e alle attese future.
4. Esponi soltanto il passato che ha rilevanza per il racconto.
5. È orientato su ‘gruppi di riferimento’ e su ‘altre persone importanti’ che forniscono i criteri culturali mediante i quali giudica se stesso.
5. Fornisci i tuoi personaggi di alleati e relazioni.
6. È possessivo ed estensibile, in quanto adotta credenze, valori, devozioni, perfino oggetti come aspetti della propria identità.
6. Fa' sviluppare i tuoi personaggi.
7. Tuttavia, sembra capace di spogliarsi di questi valori e acquisizioni a seconda delle circostanze, senza perdere la propria continuità.
7. Ma lascia intatta la loro identità.
8. È continuo nelle sue esperienze al di là del tempo e delle circostanze, malgrado sorprendenti trasformazioni dei suoi contenuti e delle sue attività.
8. E mantieni anche evidente la loro continuità.
9. È sensibile a dove e con chi si trova a essere nel mondo.
9. Colloca i tuoi personaggi nel mondo della gente.
Può rendere ragione e assumersi la responsabilità delle parole con cui formula se stesso e prova fastidio se non trova le parole.
Fa' che i tuoi personaggi si spieghino per quanto necessario.
È capriccioso, emotivo, labile e sensibile alle situazioni.
Fa' che i tuoi personaggi abbiano cambiamenti di umore.
Ricerca e difende la coerenza, evitando la dissonanza e la contraddizione mediante procedure psichiche altamente evolute.
I personaggi debbono preoccuparsi quando appaiono assurdi.
25
Da questo confronto si potrebbe supporre che il nostro senso d’identità sia
all’origine della narrativa, come anche l’inverso, e cioè, che sia la nostra
capacità di narrare a conferire all’identità la sua forma. In realtà, non è
possibile verbalizzare l’esperienza senza assumere una prospettiva
attraverso l’impiego del linguaggio, né tutto il nostro pensiero è formato al
fine esclusivo della parola. In questo senso, nessuna autobiografia può
dirsi completa, ma è solo una versione, un modo di dare un senso
coerente alla propria esistenza. Possiamo affermare, in termini
psicanalitici, che sulla scena della nostra identità recita un “cast di
personaggi”, ai quali ogni costruzione narrativa del Sé tenta di dar voce,
ma nessun racconto riuscirà mai a parlare a nome di tutti, né a tener
conto della complessità delle nostre relazioni.
Secondo Bruner, una narrazione creatrice del Sé è una specie di atto di
bilanciamento tra istanze di autonomia e impegno verso gli altri. Il
carattere profondamente relazionale dell’identità è indissolubilmente
legato alla capacità di narrare. Infatti, quando tale capacità viene meno,
come in quelle patologie neurologiche, citate dall’autore, che prendono il
nome di “dysnarrativie”, le persone che ne sono affette sembrano aver
perduto il senso del sé, ma anche il senso dell’altro.21 La narrazione
connette la nostra singolarità alla molteplicità che ci abita e ci spinge a
creare legami con la molteplicità delle nostre relazioni: così si produce la
nostra identità, sullo sfondo di un rapporto dialettico più ampio con la
cultura di cui siamo espressione, che si riflette nelle nostre storie. Il rischio
della nostra epoca delle “passioni tristi”, 22 segnata dall’incertezza del
presente, da un passato, le cui promesse appaiono irrimediabilmente
smentite e da un futuro percepito come una minaccia, è quello di smarrire
il senso di questo processo in una crisi che ci sprofonda sempre più nella
nostra fragilità. Dovremmo, altresì, accettare tale condizione come
connaturata all’esperienza umana, leggerla come apertura al mondo e ai
suoi possibili cambiamenti. Sono i nostri vissuti a rivelarci che non siamo
21 Cfr. Bruner J. S., La Fabbrica delle storie, op. cit., pp. 98 – 99. 22 Cfr. Benasayag M., Schmit G., op. cit.
26
individui isolati, separati gli uni dagli altri, ma “persone”, 23 la cui
molteplicità non ci permette di conoscere i propri limiti; la nostra etica
consiste nell’accettare tale incompletezza come una certa forma di
“neotenia”,24 così da favorire il processo formativo della costruzione di sé.
È in questa ricerca di prospettive e di metodo che la narrazione può
aiutarci a ricostruire, perfino a reinventare il nostro passato per meglio
coltivare attese e progetti futuri.
23 Mi riferisco alla distinzione tra individuo e persona formulata da Benasayag M. e Schmit G.. “L’individuo […] è il prodotto di quell’ordine sociale che pensa che l’umanità sia composta da una serie di esseri separati gli uni dagli altri, che stabiliscono contratti con il loro ambiente e con gli altri. […] La persona è l’alternativa all’individuo. Etimologicamente, ‘persona’ viene dal latino persona, che significa maschera. Una maschera che non nasconde un vero volto, ma una molteplicità di volti. […] Le persone, al contrario degli individui-contratti, hanno un rapporto di apertura con il mondo.” Da Benasayag M., Schmit G., op. cit., p. 107. 24 “Viene definito neotenia il fenomeno evolutivo per cui negli individui adulti di una specie permangono le caratteristiche morfologiche e fisiologiche tipiche delle forme giovanili. Essa può essere importante per fornire un più ampio spettro di adattabilità ambientale rispetto alla specie ancestrale più specializzata.” La definizione è tratta da Wikipedia, <http://it.wikipedia.org/wiki/Neotenia>, 2013, p. 1.
27
2 La creazione del sé nel romanzo di formazione
L’altro motivo per studiare la narrativa consiste nel
comprenderla per meglio coltivare le sue illusioni di
realtà, nel ‘congiuntivizzare’ gli ovvi indicativi della
vita di tutti i giorni.
(Bruner J., La fabbrica delle storie)
2.1 La metafora formativa del Bildungroman
Per comprendere il rapporto dialettico che esiste tra la creazione del sé e
la cultura di cui siamo espressione, ci affidiamo all’analisi di quel genere
letterario che va sotto il nome di “romanzo di formazione”, a partire dal
cosiddetto “Bildungroman”.
Il termine stesso che caratterizza questo genere di romanzo, vale a dire la
“Bildung”, indica tanto il processo di formazione che il suo risultato, la
forma e la cultura, le conoscenze e i modi in cui sono acquisite. È sul finire
del ‘700 che il termine acquista il suo attuale significato sullo sfondo di un
rinnovato umanesimo, che promuove il progetto di una formazione
armonica di tutte le forze fisiche e spirituali dell’uomo.25
Nell’ambito di questa tesi assume particolare interesse l’esame di tale
forma di romanzo, che ha come capostipite il Wilhelm Meister di Goethe,26
sia perché istituisce un nuovo paradigma nella concezione della
formazione dell’individuo fin allora prevalente nella cultura occidentale, sia
perché seleziona e sviluppa una serie di temi narrativi, la cui influenza si
estende ben al di là della letteratura in genere, giungendo fino ai giorni
nostri. Franco Moretti li ha descritti e ben argomentati in un saggio, che
25 Nel 1820 il critico tedesco Karl von Morgenstern in una sua opera, Über das Wesendes Bildungsromans, introduce per la prima volta la definizione di Bildungsroman con riferimento al Wilhelm Meister di Goethe. È interessante come lo studioso non si limiti a definire il genere letterario in base al contenuto, che deve rappresentare un processo di formazione del protagonista, ma vede rappresentata in questo tipo di romanzo anche un’evoluzione interiore dell’autore, che promuove attraverso la sua opera una Bildung del lettore. Cfr. http://www.cinziatani.it/2011/01/10/romanzo-di-formazione>, 2013, p. 1. 26 Cfr. Goethe J. W., Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato, Adelphi, Milano 2006.
28
ripercorre la parabola del romanzo di formazione, letto come “forma
simbolica della modernità”.27
Innanzitutto, la nascita del Bildungroman segna uno spostamento
simbolico nella gerarchia dei valori generazionali, rappresentando la
“gioventù” come la fase più significativa dell’esistenza. È il riflesso del
crollo della società di stato, con l’esodo dalle campagne e la crescita delle
città, la rapida trasformazione del mondo del lavoro, il formarsi di nuove
classi sociali, tutti fattori che comportano un crescente spaesamento degli
individui di fronte ad una realtà in continuo movimento.
Se nelle società tradizionali l’essere giovane si realizzava solo nella
differenziazione biologica e nell’introduzione a ruoli preesistenti, con
l’avvento della rivoluzione industriale l’apprendistato non comporta più un
lento e prevedibile cammino verso il lavoro del padre, ma spinge verso
un’incerta quanto necessaria esplorazione del nuovo spazio sociale. Ciò
avviene in uno sfondo d’inquietudine, ansia e incertezza generando, al
tempo stesso, desideri, aspettative e nuove speranze.
Di sicuro, come indica Moretti, la gioventù che sale alla ribalta della nuova
scena sociale non si esaurisce in questo quadro, ma la finzione letteraria
nel fornire un senso alla realtà, la connota privilegiando alcuni aspetti a
scapito di altri, ispirando particolari referenze alla vita reale.28
Due sono i motivi privilegiati del romanzo di formazione: “mobilità” e
“interiorità”. Tali motivi, visti come attributi giovanili caratterizzanti le
nuove generazioni nell’epoca della rivoluzione industriale, in una visione
più ampia dei processi sociali, finirono per racchiudere il senso della
“modernità”. Potremmo dire, senza timore di essere smentiti, che questi
due temi si sono fissati nell’immaginario collettivo e hanno continuato a
influenzare le idee sull’identità e la costruzione del sé, assumendo
contenuti via via differenti secondo i diversi periodi e vicende storiche, fino
ai giorni nostri. 27 Cfr. Moretti F., Il romanzo di formazione, Garzanti, Milano 1999. 28 L’autore indica tra gli altri “la crescente influenza della scuola, il rinsaldarsi dei legami interni di generazione, un rapporto interamente nuovo con la natura, la ‘spiritualizzazione’ della gioventù: ecco alcune caratteristiche altrettanto salienti della sua storia ‘reale’”. Moretti F., op. cit., p. 5.
29
Abbiamo visto nel capitolo precedente come il tema dell’interiorità si
declini nell’incertezza dell’attuale crisi sociale, nella mancanza di
prospettive di un futuro vissuto come minaccia; in un rapporto più diretto
e complesso rispetto al passato, lo stesso tema si coniuga oggi con quello
della mobilità. Secondo il sociologo Appadurai,29 la convergenza di mobilità
fisiche, relazioni interpersonali mediate e comunicazione di massa
esercitano un effetto combinato sull’immaginazione, che diventa un fatto
sociale, fino al punto di determinare la realtà attraverso la nostra capacità
di immaginarla.
Con lo scopo di rappresentare, di dare una forma alla natura sconfinata e
inarrestabile della modernità, nel romanzo di formazione emerge un'altra
caratteristica della gioventù: il fatto che “non dura in eterno”. Questo
tentativo di esorcizzare la modernità, trova espressione sul piano tematico
nel cammino verso la socializzazione dell’eroe – protagonista.
È un processo dialettico di socializzazione nel quale il giovane
protagonista, partito da un’iniziale opposizione alle norme del vivere
associati, in particolare dell’etica borghese, passando attraverso alterne
vicende, finisce o per sposare tali norme (spesso è proprio un matrimonio
a rappresentare l’avvenuta integrazione), oppure per rifiutarle
definitivamente. Così il giovane si forma attraverso le sue esperienze e
acquista la propria maturità o, quantomeno, scopre il senso del suo essere
al mondo. Lo script narrativo del Bildungsroman racchiude così la storia
della formazione di un uomo, incarnandosi nello sviluppo naturale del
romanzo stesso, come fosse una sua espressione quasi fisiologica. Viene
spontaneo affermare che la vita di ogni uomo è, in un certo senso, un
romanzo, con un protagonista che deve affrontare delle prove, subendo
talvolta lo smacco di qualche sconfitta ed è spesso chiamato a scendere a
compromessi con la realtà circostante. Tale visione, tuttavia, non
esaurisce né la complessità del processo di costruzione dell’identità, né
tantomeno la rappresentazione che ne offre il romanzo di formazione, le
29 Cfr. Appadurai A., Modernità in polvere, Raffaello Cortina Editore, Milano 2012.
30
cui caratteristiche vanno ben al di là di una prospettiva che si affidi
esclusivamente al buon senso.
2.2 Principio di classificazione e principio di trasformazione
Lo studio di Moretti si basa sulle “differenze di intreccio”, e più
esattamente sul modo in cui l’intreccio perviene all’istituzione del senso nei
diversi tipi di romanzo di formazione. Seguendo la distinzione classica di
Lotman tra “principio di classificazione” e “principio di trasformazione”,30 lo
studioso rivela come, pur essendo entrambi presenti nelle opere del
genere, il prevalere dell’uno o dell’altro comporta opzioni di valore molto
diverse, che si traducono in differenti strategie narrative e indicano
atteggiamenti opposti nei confronti della modernità.
Quando prevale il principio di classificazione l’intreccio narrativo si risolve
in un finale particolarmente marcato, in cui il significato degli eventi, come
nel pensiero hegeliano, conduce ad un unico scopo; la storia acquista
senso quanto più riesce a sopprimersi come racconto. Esempi di questo
tipo sono il classico Wilhelm Meister di Goethe, e il “romanzo familiare”
della tradizione inglese, come Orgoglio e Pregiudizio di Jane Austen.31
Quando, invece, a predominare è il principio di trasformazione, a conferire
senso al racconto è la sua “narratività”, che si declina in un processo
aperto, instabile e mai definitivo; come nel pensiero di Darwin, prevale
una logica narrativa, secondo la quale il senso della storia consiste proprio
nell’impossibilità di poterlo fissare. Romanzi di questo tipo sono il Rosso e
Nero di Stendhal e l’Onegin di Puškin.32
I due modelli del romanzo di formazione rappresentano visioni opposte
della gioventù e di conseguenza, identificando quest’ultima con l’avvento
della nuova epoca, incarnano idee contrapposte nei confronti della
modernità.
30 Cfr. Lotman J., La struttura del testo poetico, Mursia, Milano 1990. 31 Cfr. Austen J., Orgoglio e pregiudizio, Einaudi, Torino 2010. 32 Cfr. Stendhal, Il Rosso e il Nero, Einaudi, Torino 2005 e Puškin A. S., Eugenio Onegin, Rizzoli, Milano 1985.
31
Il contrasto rivela un vero e proprio sdoppiamento dell’immagine della
gioventù. Sotto il segno del principio di classificazione la gioventù, vista
come fase della vita che deve inevitabilmente finire, è subordinata all’idea
di “maturità”. Come il racconto ha un senso perché si conclude con un
finale determinato, così la gioventù acquista il suo significato come
tirocinio verso la vita adulta, verso un’identità stabile ed integrata.
Al contrario, all’insegna del principio di trasformazione la gioventù appare
in tutta la sua irrequietezza e inquietudine; è una gioventù incapace di
tradursi in maturità, perché vede tale conclusione come un tradimento,
che la priverebbe di senso.
Proseguendo nell’analisi, c’è da rilevare come fu proprio il carattere
contraddittorio del romanzo di formazione a decretarne il successo e,
potremmo dire, ad affermare la sua influenza sull’idea di creazione del sé.
“Giacché la contraddizione tra opposte valutazioni della
modernità e della gioventù, o tra opposti valori e rapporti
simbolici, non è un difetto – o magari è anche un difetto – ma è
soprattutto il paradossale principio di funzionamento di larga
parte della cultura moderna.” 33
In questo genere di narrativa i contrasti tra libertà e felicità, tra identità e
cambiamento, tra sicurezza e metamorfosi, tipici della mentalità
occidentale moderna, pur sviluppandosi in una dialettica conflittuale nella
relazione con se stessi e con l’altro, tendono a risolversi in una logica di
“compromesso”. Da questo punto di vista, il romanzo di formazione non
produce alcuna formalizzazione concettuale, come nel caso del Faust
goethiano, il cui ideale di sintesi si riflette nella filosofia di Hegel.34 È più
affine, invece, alla sfera del quotidiano, agli eventi ordinari della nostra 33 Moretti F., Il romanzo di formazione, op. cit. p. 10 34 Attraverso la figura simbolo del Faust goethiano, Hegel afferma che l’unione con l’universale è l’aspirazione massima della coscienza. Tale unione è possibile se e quando l’individuo scopre che la sua felicità è concepibile unicamente nella vita Etica, all’interno di un tessuto sociale, dove poter realizzare la propria essenza e le proprie autentiche finalità. Non è possibile quindi rimanere allo stato di pura individualità perché lo Spirito è universalità concreta.
32
esistenza, nella quale, attraverso diverse forme di compromesso,
proviamo a convivere con le contraddizioni che ci abitano.
Non solo la filosofia, ma nemmeno la psicanalisi, al contrario delle
interpretazioni in cui s’è spinta nei confronti del mito, della tragedia, della
fiaba e della commedia, ha tentato simili analisi riguardo al romanzo di
formazione. Il motivo di questa mancata riflessione è da individuare,
secondo Moretti, nel diverso approccio di psicanalisi e romanzo nei
confronti dell’individuo. La prima tende a scomporre la psiche tra le sue
opposte forze, guardando sempre e dovunque oltre l’Io; il romanzo si
pone invece il compito di amalgamare e far coesistere gli aspetti
contraddittori della personalità, per costruire l’Io, ponendolo al centro della
propria struttura. Abbiamo visto come il “plot narrativo” del romanzo di
formazione sviluppi sempre, attraverso la molteplicità degli intrecci e delle
trame, il tema della socializzazione
“… che consiste, in larga misura, nel ‘buon funzionamento’ dell’Io
grazie a quel compromesso particolarmente ben riuscito che è
per Freud il ‘principio di realtà’”.35
Questa continua tensione verso l’integrazione sociale del protagonista, sia
nelle circostanze in cui si realizza, sia nei casi di rifiuto o di impossibilità ad
attuarla, ci porta a interrogarci su un’idea terribilmente imbarazzante per
la nostra cultura, come quella di “normalità”. È una normalità letta
dall’interno, anti – eroica e prosaica, che rende i personaggi più unici che
tipici, e al tempo stesso familiari al nostro senso della vita, alle narrazioni
che accompagnano la costruzione del sé nell’esperienza quotidiana.
Proprio l’affinità delle caratteristiche dei romanzi di formazione con quelle
intrinseche ai modi delle nostre esistenze quotidiane, ci invita a indagare
nei primi quei fattori utili per comprendere ed elaborare i secondi. Non si
tratta di ricercare modelli, ai quali ispirare le proprie vite, ma di analizzare
quegli elementi narrativi “sporgenti”, la cui scelta da parte degli scrittori
35 Moretti F., Il romanzo di formazione, op. cit., p. 12 - 13.
33
del genere ha contribuito a rendere esemplari le loro storie. Tale analisi ci
aiuta a riflettere sulle strategie che mettiamo in atto nella costruzione
delle nostre identità, e può contribuire a un’elaborazione più consapevole
di quei dispositivi narrativi che applichiamo in modo spesso irriflesso e
inconscio quando ci affidiamo alle esperienze passate per affrontare
situazioni nuove: previste e impreviste, prevedibili e imprevedibili.
L’opera di Franco Moretti si rivela una preziosa “banca dati”, da cui
ricavare quella tipologia di elementi sopra indicati. La sua indagine del
romanzo di formazione, che spazia dalla letteratura alla filosofia, dalla
psicanalisi alla sociologia, dall’antropologia alla storia, offre anche utili
indicatori di metodo per l’analisi di altre opere del genere.
Per Moretti, il Bildungroman, nella sua originaria e originale composizione
presenta la più equilibrata soluzione a uno dei dilemmi della nascente
civiltà borghese moderna: il conflitto tra l’ideale dell’”autodeterminazione”
dell’individuo e le esigenze, altrettanto imperiose, della sua
“socializzazione”. La tensione verso l’”individualità” e il desiderio di
“normalità” si presentano nelle diverse opere non come coestensive e
isomorfe ma complementari e governate da meccanismi narrativi diversi. I
valori e le esperienze che soddisfano il senso dell’individualità, ostentati e
continuamente in primo piano, formano l’”intreccio”, l’aspetto più
affascinante e prevalente delle opere; sullo sfondo, l’anelito
all’integrazione, l’accettazione o il rifiuto delle convenzioni sociali,
rappresenta la “fabula”, come ristretta logica compiuta in se stessa degli
eventi narrati. Si afferma così la visione dominante del pensiero borghese,
quella dello “scambio”: la realizzazione dei propri valori passa
inevitabilmente per l’accettazione di quelli sociali.
2.3 La Bildung goethiana
Goethe per primo affronterà la questione, adottando per il suo secondo
romanzo una trama “ad anello”. Mentre nella “Missione teatrale”, la trama
si svolgeva con un andamento più drammatico e sorprendente, negli “Anni
di apprendistato” autosviluppo e integrazione assumono la forma di
34
percorsi complementari, che convergono verso un punto di equilibrio in cui
si colloca il raggiungimento della piena maturità del protagonista. È
interessante notare come tale conquista non avviene per Wilhelm
attraverso rinunce o sacrifici della propria individualità, e solo
all’apparenza attraverso l’assunzione di un lavoro e la creazione di una
famiglia. La maturità si realizza attraverso una continua costruzione di
senso, apprendendo di volta in volta a costruire “legami” tra sé e gli
eventi vissuti,
“… a indirizzare la trama della propria vita in modo che ogni
momento rinsaldi il proprio senso di appartenenza ad una più
vasta comunità”.36
Nel chiarire tale costruzione, Moretti fa riferimento al termine
“Zusammenhang”, indicato da Dilthey, secondo il quale, l’opera poetica,
evidenziando la concatenazione interna delle vicende narrate mette in luce
i valori di un avvenimento connettendoli alla trama di tutta la vita;
l’avvenimento, sollevato così al suo significato, rivela e illumina il rapporto
tra la vita e il suo senso.37
Ciò traduce bene l’ideale di Goethe, secondo il quale, come sostiene
Cambi:
”l’uomo è quello che si viene formando e vale in quanto si
forma, e la formazione […] è un bagno nel pluralismo
dell’esperienza, nella sua varietà e contraddittorietà, per
distillarvi una sintesi vissuta, originale, etica e estetica insieme,
ma guidata dalla luce della razionalità (= universalità e
necessità)”.38
36 Ivi, p. 21. 37 Cfr. Wilhelm Dilthey, Esperienza vissuta e poesia, Istituto Editoriale Italiano, Milano 1947. 38 Cambi F., I Grandi modelli della formazione, in Cambi F. e Orefice P. (a cura di), Fondamenti teorici del processo formativo, Liguori, Napoli 1996, p. 64.
35
La trama del romanzo ci rivela come Wilhelm realizza la propria
personalità accettando la tutela della Società della Torre, la cui istituzione
si giustifica, d’altra parte, unicamente per permettere la sua felicità.
L’ineluttabilità di tale destino è confermata, nel finale, dalla scoperta del
protagonista nella Sala del Passato, il luogo più segreto della Torre, di una
pergamena che racconta, appunto, “Gli anni di apprendistato di Wilhelm
Meister”. Così, l’intreccio confuso degli eventi si risolve nella logica di una
fabula da cui traspare il senso del tutto. La Società della Torre plasma
Wilhelm, che d’altra parte si mostra desideroso di fare ciò che comunque
avrebbe dovuto fare. Questo ideale di “Bildung”, che prevede il definitivo
assestamento dell’individuo e del suo rapporto con la società, sarebbe
possibile solo all’interno di un mondo pre – capitalistico, una visione che
Goethe aspira ancora a salvaguardare.39 La società dinamica moderna,
come anche quella contemporanea, rendendo sempre più casuali,
mutevoli e mobili i rapporti dell’individuo col suo ambiente, lo costringe a
mettere alla prova le sue capacità per tutta la vita. Come afferma Agnes
Heller, l’appropriazione del mondo, dei suoi sistemi ed istituzioni, non può
dirsi conclusa col raggiungimento di un’ipotetica maturità.40 Affronteremo
in seguito questo tema in rapporto all’attuale “società formativa”.
È importante sottolineare come la trama ad “anello” influenza tutt’ora la
visione della costruzione del sé. Pensare alla gioventù come fase
transitoria della vita, in vista del raggiungimento di una maturità finale,
rappresenta ancora un modello narrativo capace di condizionare
l’immagine della propria esistenza quotidiana, così come l’idea di una
reciprocità, in base alla quale la società plasma l’individuo, che a sua volta
si adatta ad essa allo scopo di conseguire la sua socializzazione.
Ritengo utile soffermarmi su entrambe le questioni, anche alla luce di una
lettura più consapevole e di un’analisi più approfondita del romanzo di
39 Sarà l’autore stesso, appena dieci anni dopo, con “Le affinità elettive” e ancor più col “Faust” a confutare l’idea che la maturità possa definitivamente essere raggiunta e concludersi in una duratura felicità per l’uomo moderno. 40 Cfr. Heller A., Sociologia della vita quotidiana, Editori Riuniti, Roma, 1975.
36
Goethe.41 Se è vero, come afferma Heller, che più una società è sviluppata
e complessa, meno può dirsi conclusa per l’adulto la sua formazione, il
raggiungimento di diversi livelli di “integrazione sociale” 42 sono conquiste
che ci accompagnano durante tutto il corso dell’esistenza. Proprio la
funzione narrativa del nostro pensiero ci permette, a fronte di esperienze
particolarmente significative, di tenere il filo del processo che si dipana
davanti a noi, delineando l’”intreccio” delle rappresentazioni dei propri
vissuti in una “fabula” rinnovata. In tal modo, costruiamo nuove
prospettive di senso che modificano la propria identità in rapporto col
mondo. Per rimanere nella metafora, potremmo dire che la trama
narrativa attraverso la quale costruiamo le nostre identità si compone di
diversi anelli, che formano una spirale. Una spirale aperta, che evolve e si
rinnova in un processo, nel corso del quale il “pensiero sull’esperienza”
provoca il “cambiamento”. Se l’agire è pratica, il poter pensare a ciò che si
è fatto diventa esperienza. Il fare esperienza del mondo significa
rielaborare soggettivamente gli eventi esterni, ricercando i “nessi” col
proprio mondo interno. La narrazione permette agli avvenimenti di
dialogare con i vissuti, le emozioni e i sentimenti che ci abitano.
“All’inizio come alla fine del romanzo, il problema di Wilhelm è
sempre lo stesso: non riesce a costruire un ‘nesso’, a dare alla
sua vita la forma di un ‘anello’, e saldarlo. E se ciò non avviene,
41 Il saggio di Moretti F., come già affermato in precedenza, propone un’analisi molto complessa e variegata del Bildungroman, offre molteplici spunti di riflessione e si presta a diverse interpretazioni, al di là di una visione stereotipata del genere letterario. 42 Utilizzerò, quando necessario, il termine “integrazione sociale” che amplia e ingloba quello di “socializzazione”, anche se spesso i due termini sono utilizzati come sinonimi. Per integrazione “s’intende il processo attraverso il quale un sistema acquista e conserva un'unità strutturale e funzionale, pur mantenendo la differenziazione degli elementi. L'integrazione è anche il prodotto di tale processo, in termini di mantenimento dell'equilibrio interno del sistema, della cooperazione sociale, del coordinamento tra i ruoli e le istituzioni”. La socializzazione è, altresì, “quel processo sociale di trasmissione e di interiorizzazione delle informazioni sulla realtà e sull'immaginario sociale (l'insieme di valori, ruoli, norme, aspettative e credenze) attraverso pratiche e istituzioni dell'organismo sociale”. Entrambe le definizioni sono tratte dal Glossario di Tesionline, <http://sociologia.tesionline.it/sociologia/glossario>, 2013, p. 4907, 3385.
37
la sua esistenza rischia di restare incompiuta – anzi, peggio:
insensata”.43
Tale condizione è comune anche a noi; per questo, probabilmente, risulta
facile identificarci nel protagonista del romanzo, anche se ci separano più
di due secoli e le problematiche del nostro vivere sociale sono alquanto
mutate. In un mondo che ci pone di fronte ad un sapere mai definitivo,
siamo sempre attraversati dal dubbio, ma, come per Wilhelm, ci sostiene
la nostra capacità d’interrogarsi. È quest’atteggiamento mentale che ci
permette di attivare un pensiero vivo, vitale, trasformativo e non
cumulativo; un pensiero che rifugge da astrazioni e valutazioni, capace di
generare pensieri nuovi. Proiettare i nostri timori e le nostre inquietudini
sul protagonista del romanzo44 aiuta ad accettare e tollerare un certo
livello d’ansia, che comporta la perdita degli stereotipi, ossia dei punti di
riferimento sicuri e fissi. Solo così saremo capaci di cogliere sia gli indizi,
sia le tracce più labili che gli eventi lasciano sul cammino della nostra vita.
Il pensiero narrativo che sostiene il processo si evolve e sviluppa nella
continuità. Si fa progetto, giacché connette quello che è avvenuto con ciò
che ci si propone di raggiungere. La maturità può essere allora
interpretata come una crescita nel “cambiamento” che consolida, di volta
in volta, il sentimento di sé in rapporto al mondo.
Riguardo alla formazione di Wilhelm, sappiamo che si compie perché gli è
stato concesso di accedere alla trama che la Società della Torre aveva
intessuto per lui, che accetta, così, di essere determinato dall’esterno; ma
si può anche affermare che, reciprocamente, La Torre esiste solo in
funzione di Wilhelm. È un’istituzione, la cui legittimità si giustifica nel porsi
come mediazione tra l’allievo e il suo apprendimento. Le trame che la
Società della Torre imbastisce orientano le scelte di Wilhelm, le cui azioni,
a loro volta, modificano l’intreccio della storia. Il ritrovamento del
manoscritto, che egli scopre essere il romanzo stesso, più che rivelare la
43 Moretti F., Il romanzo di formazione, op. cit., p. 20 44 Da leggersi come un invito o una proposta di metodo valida anche per molti altri romanzi di formazione, che rappresentano “metafore potenti” della costruzione del sé.
38
predeterminazione del suo destino, può essere letto come un elegante
espediente narrativo, col quale l’autore esalta l’armonia di un’ideale
Bildung, sciogliendo ogni equivoco e restituendo, così, al lettore il senso
del caotico succedersi degli eventi.45
Ciò che traspare nella complessa trama del romanzo, va ben al di là di un
lineare e univoco processo di influenzamento di Wilhelm da parte della
Società della Torre. Riprendendo la lezione di Bateson, 46 sarebbe più
valido affermare che l’individuo (nel nostro caso il protagonista del
romanzo) non è separato dal contesto (rappresentato dalla Società della
Torre), ma forma con esso una totalità ecosistemica, una coevoluzione di
elementi in iterazione. Sarebbe unilaterale considerare la socializzazione di
Wilhelm come il risultato del cambiamento del contesto (scoperta della
Società della Torre). Piuttosto, la Società della Torre può essere intesa
come la risposta evolutiva del contesto al mutato atteggiamento di
Wilhelm.
Ciò che qui interessa rilevare è che l’identità personale è una
“coevoluzione” di elementi diversi, la costruzione di una “trama”
complessa, che possiamo comprendere affinando le nostre capacità
narrative e riflessive.
Per tornare alla storia, il matrimonio finale di Wilhelm sugella e, in qualche
modo, stabilizza questo patto tra individuo e mondo. Natalie, infatti, per
via dei suoi legami con la Torre, è la degna rappresentante del sistema
sociale che il Bildungroman intende rappresentare. Un sistema in cui il
contrasto tra nobili e borghesi si risolve nell’aspirazione comune a un agire
sociale in cui regni una sostanziale concordia. Come la “felicità” non va
ricercata a prezzo di guerre e rivoluzioni (che proprio in quegli anni
imperversavano in Europa), così la “famiglia” non rappresenta per Goethe
un rifugio dalla violenza del mondo (come lo sarà nei romanzi del secolo 45 La grandezza di Goethe sta proprio nel suo giocare con le forme narrative per dare agli eventi quel significato che altrimenti sfuggirebbe in una mera riproduzione della realtà dei fatti. La sua modellizzazione analogica del mondo offre una riproduzione del reale che risulta tale non per fedeltà riproduttiva superficiale, per mimesi o rispecchiamento, ma per una affinità di struttura parziale tanto significativa da toccare l'essenza della realtà da riprodurre. 46 Cfr. Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1980.
39
successivo), ma un luogo d’elezione sociale dal quale diffondere verso il
mondo esterno armonia e serenità.
2.4 Bildungroman e identità professionale
Da questa prospettiva, l’idea di famiglia acquista specifiche connotazioni
sociali, come accade anche per l’idea di lavoro. Pur essendo l’attività
economica collocata ostentatamente al di fuori del processo di formazione
e di socializzazione, ciò non significa che i personaggi del Meister siano
degli oziosi. Come ci fa notare Moretti, l’elogio del commercio pronunciato
da Werner, l’alter ego di Wilhelm, più che celebrare i meriti economici del
“mercato”, ne afferma la funzione di connettere in una trama di senso le
più disparate attività umane, rendendo visibili i rapporti sociali e indicando
all’individuo quale posizione occuparvi.
Per la sua dinamicità, per l’inquietudine connessa allo sforzo continuo di
accumulare ricchezze, per la costante conflittualità dovuta alla concorrenza
cui è soggetto, il viaggio del mercante non potrà, comunque, mai
concludersi in un luogo ideale come la tenuta della Torre, dove tutto è
benessere, trasparenza e finitezza. A un’idea di lavoro finalizzato
all’”avere”, se ne contrappone ed esalta un’altra finalizzata all’”essere”. Al
lavoro che produce merci, oggetti che acquistano valore solo nello
scambio, che li allontana dal loro produttore, si oppone un lavoro - più
simile all’arte che all’attività economica - capace di realizzare “cose
armoniose”:
“oggetti che ‘tornino’ a chi li ha creati permettendogli di
riappropriarsi interamente della propria attività”.47
Il lavoro del Meister non aderisce a una logica propriamente economica,
ma acquista una forte impronta pedagogica, e in alcuni casi addirittura
terapeutica: riesce, infatti, almeno provvisoriamente, a sanare la follia
dell’Arpista. L’aspetto soggettivo, associato al sentimento di sé,
47 Moretti F., Il romanzo di formazione, op. cit., p. 32
40
all’inventiva personale, all’opportunità che offre di coltivare le proprie
facoltà intellettuali, prevale sull’aspetto oggettivo, strumentale e, in
quanto tale, alienante del lavoro. In questo senso, il Bildungroman
esplicita in forma narrativa la concezione estetica schilleriana.
Per Schiller,48 l’uomo moderno ha acquisito progressi enormi nel campo
del sapere e dell’intelletto, ma questo suo incessante maturare e crescere
intellettualmente, l’ha allontanato da un rapporto armonico con la natura e
con il tutto, caratteristico dell’uomo greco. Mentre questi ha ricevuto la
sua forma dalla natura, “che tutto unifica”, l’uomo moderno l’ha ricevuta
dall’intelletto “che tutto distingue”. L’unilateralità nell’esercizio delle facoltà
umane si rivela vantaggiosa per la specie, ma crea alienazione
nell’individuo. La maggiore specializzazione da una parte, il “meccanismo
più complesso degli stati”, dall’altra, ha quindi compromesso l’intima
armonia dell’anima umana.
È interessante notare come Schiller, descrivendo la relazione tra umanità e
progresso, segue sempre un duplice piano: quello istituzionale e quello
dell’interiorità dell’uomo: ciò che ha il potere di cambiare la società è
l’uomo nella sua interiorità, ma contemporaneamente questo stesso uomo
viene trasformato dal contesto sociale in cui si forma.
L’uomo, allora, deve potersi sviluppare partendo da una relazione
rinnovata e armoniosa tra sensibilità e intelletto. Ciò può avvenire solo in
un contesto di libertà, dove siano rispettate le particolarità e le
caratteristiche uniche degli individui. L’ideale di Schiller, risposta agli echi
che giungevano dalla rivoluzione francese, è quello di una “società
socievole”, spontaneamente coesa, priva di lacerazioni e conflitti. Una
società in grado di attenuare e rielaborare l’alienazione che deriva dal
lavoro capitalistico finalizzato all’utile, attraverso un’educazione estetica
fondata sulla “bellezza” e l’”arte”, più in sintonia con l’anelito dell’uomo
all’armonia e alla felicità.
48 Cfr. Schiller F., Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, La Nuova Italia, Firenze 1970.
41
L’idea di lavoro che emerge dalla lettura del Bildungroman e che
riecheggia nella cultura tedesca del tempo di Goethe, di cui l’autore si fa
interprete e narratore, assume un particolare rilievo se letta alla luce
dell’attualità. La cultura occidentale è sempre stata pervasa da una
dialettica tra opposte analisi sulla visione del lavoro, che ha inoltre
generato ideologie contrastanti nel tempo. Senza volersi addentrare in
approfondite analisi politiche e sociologiche, possiamo affermare che
“modelli narrativi del lavoro” hanno influenzato e influenzano la nostra
formazione personale e la costruzione della propria identità. L’opposizione
si presenta ancor oggi, in un’epoca di tardo capitalismo e di
globalizzazione, e corre tra la visione di un lavoro che degrada l’umanità,
perché non serve l’uomo, bensì il dio dell’utile, come diranno Schiller e
l’abate del Meister, e quella di un lavoro che, altresì, nobiliti la persona
impegnandola a perfezionarsi, a raffinare il suo carattere coltivando le
proprie facoltà intellettuali in un rapporto di reciproca cooperazione con gli
altri, in vista del raggiungimento di fini comuni.
Dagli albori della modernità, fondata sulla promessa messianica di un
progresso costante e inalterabile, alla sua fine, venuta meno la speranza
di poter articolare le conoscenze acquisite con la necessità di migliorare il
mondo, l’utilitarismo pare ancora costituire l’ideologia dominante. Per
l’utilitarismo il valore dell’individuo si basa su criteri meramente
quantitativi, determinati dalla sua funzione produttiva nel contesto
dell’economia di mercato.
Come ci ricordano Benasayag e Schmit,49 l’affermazione del neoliberismo
ha imposto al mondo l’economicismo come una sua seconda natura e,
potremmo aggiungere, declina le narrazioni della nostra formazione
personale e professionale in senso individualistico e in modo
unidimensionale, eludendo sia le aspirazioni soggettive della persona, sia
la possibilità che queste si accordino con l’aspetto pubblico dell’esistenza.
49 Cfr. M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, op. cit.
42
“Egli deve rendersi utile, sviluppare alcune attitudini, ed è inteso
che nel suo essere non ci sia né possa esserci armonia; poiché
per rendersi utile in un modo, deve trascurare tutto il
rimanente”. (Wilhelm Meister, V, 3)”50
La reazione a tale rinuncia sta nell’idea di un lavoro più prossimo all’arte e
alla socievolezza estetica. Un lavoro che, anziché scindere una
oggettivazione alienata e un’interiorità incapace di esprimersi, crei una
continuità tra interno ed esterno, tra la formazione personale dell’individuo
e la sua socializzazione.
Tale visione del lavoro appare in tutta la sua attualità e ci induce ancor
oggi a riflettere e a rielaborare la costruzione della nostra identità in
rapporto con la propria formazione professionale.
2.5 Bildulgroman e vita quotidiana
Il fascino del Meister, comunque, non nasce solo dal rimpianto di un
mondo precapitalistico destinato a scomparire, perché l’organicità estetica
e l’aspirazione alla felicità e all’armonia sono sempre atturali
“Ma si spostano per dir così a lato delle nuove istituzioni
collettive, con cui ingaggiano una tacita e interminabile guerra
di frontiera”.51
L’autore individua questo mondo parallelo nell’area della “vita quotidiana”
che, secondo l’analisi di Henri Lefebvre,52 costituisce il legame e il luogo
d’incontro di tutte le attività, inglobandole con le loro differenze e conflitti.
Qui l’analisi di Moretti si fa più serrata e complessa. Vale la pena di
sintetizzarla, perché rappresenta un’importante chiave d’interpretazione
delle modalità narrative, attraverso le quali il Bildungroman tratta la
50 Moretti F., Il romanzo di formazione, op. cit., p. 36 - 37 51 Ivi, p. 54 52 Cfr. Lefebvre H., Critica della vita quotidiana, 1947, tr. it. Delalo, Bari 1977
43
costruzione del rapporto della persona con il proprio contesto materiale e
culturale.
Per Moretti, la vita quotidiana rappresenta quel “mondo proprio” alla cui
costruzione l’individuo singolo subordina le sue attività. “Singolo” che
Agnes Heller53 definisce, con impostazione lukacsiana, “particolarità”, da
contrapporre all’”individualità”, legata alla nozione hegeliana di “individuo
storico – universale”. A quest’ultima categoria appartengono i grandi
uomini, capaci di seguire solo le loro passioni, rappresentativi delle grandi
svolte e acquisizioni storiche; sono quelli che Schiller nelle “Lettere”
afferma essere “vantaggiosi per la specie”, ma non sono “uomini felici e
perfetti”. La fatica, la lotta e il lavoro speso per raggiungere il loro scopo,
non li rende felici ma, come afferma Hegel,54 involucri vuoti che cadono,
una volta raggiunto il proprio fine, realizzata la loro opera, ed è questa ciò
che sono. Li troveremo in un altro tipo di romanzo di formazione, quello di
Stendhal, i cui eroi, infatti, s’identificano nel modello storico universale di
Napoleone.
Tali individui straordinari, non sono, invece, rappresentativi di quei tempi
da normale amministrazione, che costituiscono lo sfondo del romanzo. In
particolare il Bildungroman si propone come “cultura della vita
quotidiana”, e attraverso le vicende dei suoi personaggi, che
accompagnano la formazione del protagonista, lungi dallo svalutarla, la
rende sempre più viva e interessante.
È proprio nella sfera della vita quotidiana, infatti, che le contraddizioni e i
conflitti causati dall’eterogeneità delle sue occupazioni e delle relazioni
pubbliche e private possono raccordarsi e acquistare senso, contribuendo
a sviluppare la propria personalità.
Personalità che, pur essendo un tratto distintivo, che rende ogni individuo
diverso dagli altri, non è mai affidata a un’unica caratteristica, né sarà mai
definita attraverso la pura e semplice occupazione professionale. Si
esprime piuttosto
53 Cfr. Heller A., Sociologia della vita quotidiana, op. cit. 54 Cfr. Hegel G. W. F., Lezioni sulla filosofia della storia, La Nuova Italia, Firenze 1947.
44
“… in una peculiare disposizione d’animo: che s’infiltra via via in
ogni occupazione, e la rimugina, la valuta, la osteggia, si sforza
di renderla consona allo sviluppo individuale come unità
dispiegata. In questo senso si può davvero dire, con
Baudrillard, che ‘la vita quotidiana è un sistema
d’interpretazione’”.55
Come tale trova nel Bildungroman la sua narrazione, che non si risolve in
un unico ambito di vita del protagonista. Wilhelm, infatti, a differenza degli
altri personaggi del romanzo non è definito in un “ruolo”, ma acquista la
figura di un “personaggio poli-paradigmatico”, secondo la definizione che
Moretti riprende da Hamon.56
Nessun particolare appellativo contraddistingue il protagonista, il cui
nome, Wilhelm, lo rende agli occhi del lettore una conoscenza familiare,
aperta a ogni possibile identificazione e proiezione. Così, sul piano
narrativo, ogni evento viene attratto nell’orbita della sua personalità.
La trama stessa ha il suo centro nello sviluppo multilaterale del
protagonista. L’aspetto più interessante di tale configurazione sta nei modi
in cui la prospettiva narrativa rivela certi aspetti della sua vicenda
esistenziale come più significativi di altri, nello sfondo di una vita
quotidiana, in cui nulla appare come pura ripetizione, né come pura
novità. Perché, come ci ricorda Kosik,
“la vita di ogni giorno ha la propria esperienza, la propria
saggezza, il proprio orizzonte, le proprie previsioni, le
ripetizioni, ma anche le eccezioni, i giorni comuni, ma anche le
festività”.57
55 Moretti F., Il romanzo di formazione, op. cit., p. 45 56 Cfr. Hamon P., Per uno statuto semiologico del personaggio, in Semiologia lessico leggibilità del testo narrativo, Pratiche, Parma 1977. 57 KosiK K., Metafisica della vita quotidiana, 1963, in Dialettica del concreto, Bompiani, Milano 1965, p. 85.
45
Pensarla come banale ripetizione in opposizione all’eccezionalità della
Storia risulta per l’autore mistificante.
2.6 Il rapporto figura/sfondo nel Bildungroman
La proprietà della trama romanzesca di restituirci in un qualsiasi momento
prosaico della narrazione il senso di un evento, di una situazione, di una
sensazione, che si rivelerà avvincente e denso di significato, ci riporta al
meccanismo della “peripéteia” descritto nel primo capitolo. Tale
meccanismo acquista in Goethe un significato particolare nel rapporto tra
il passato, gli eventi presenti del racconto e la prospettiva del suo futuro.
Emblematico, a questo riguardo, è l’episodio in cui Wilhelm, prendendo
con sé Felix, il bimbo lasciatogli da Mariane, arriva nel cortile di un grande
palazzo sconosciuto (il castello di Lothario). Con in braccio il figlio
addormentato, egli entra nel luogo “più severo e più sacro” in cui mai
avesse posto piede. L’apparizione di Nathalie (l’Amazzone) avviene in
questo ambiente avvolto di stupore e di interrogativi ansiosi. Ogni dubbio
tuttavia scompare, quando Wilhelm riconosce alcune opere d’arte
appartenute un tempo alla collezione del nonno e, primo fra tutte, un
quadro che aveva affascinato la sua infanzia (il ritratto di una principessa
somigliante a Nathalie). E’ il segno di un ritorno alle origini quale culmine
perfetto e circolare della strada percorsa alla ricerca del proprio io.
Riecheggiano, come rileva lo stesso Moretti, i due atteggiamenti che
dominano la “Teoria del romanzo” di Lukács.58 L’uomo non può tornare
indietro nel tempo, ma attraverso il ricordo si riappropria del suo passato,
mentre la speranza lo distoglie dalla paura del futuro. Questa condizione,
tipica nei personaggi del romanzo, è propria anche dell’uomo. Moretti, in
qualche modo va oltre l’analisi della temporalità romanzesca lukácsiana,
affermando che passato e futuro convergono di continuo sul presente, in
cui, ciò che è trascorso, si riorganizza in vista di una progettazione futura.
Cosa avvenga in tale riorganizzazione, lo si comprende dalla trama del
romanzo, che annuncia sempre un cambiamento nella vita del
58 Cfr. Lukács G., Teoria del romanzo, SE, Milano 2004.
46
protagonista. Come ciò avvenga nella costruzione del sé, è motivo del
nostro interesse, per questo ritengo vada approfondito e in tal senso
avanzo un’ipotesi interpretativa.
Con riferimento alla Teoria della Gestalt, 59 la “vita quotidiana” del
romanzo, “metafora in grande” della nostra esistenza, appare come lo
“sfondo” dal quale emerge la “figura” del protagonista. Come lui, anche
noi, siamo sempre la figura, finché siamo consapevoli, nello sfondo della
nostra esperienza. A riguardo Mc Luhan60 afferma che l’interazione tra la
figura e il suo sfondo ci mette in grado di cogliere il significato, cioè il
rapporto tra se stessi e il contesto di riferimento. L’apparente normalità
della vita quotidiana fa sì che ci percepiamo di solito come figure integrate
nel suo sfondo. L’integrazione personale viene, invece, messa in crisi ogni
qualvolta avviene un mutamento tale da rendere inutilizzabili i valori, i
riferimenti abituali e le competenze, che prima erano sufficienti a rendere
possibile e significativa l’esistenza. A quel punto, la modalità che ci
permette di superare lo sconvolgimento dei rapporti “figura/sfondo”, è una
ristrutturazione globale della propria personalità. Si tratta di porsi dal
punto di vista di una “Gestalt” più ampia di quella disfunzionale che ha
provocato la disgregazione. In tal modo sarà possibile raggiungere un
livello più evoluto d’integrazione.
Nel romanzo, il meccanismo letterario della peripéteia, genera, appunto,
quegli accadimenti improvvisi che cambiano l’esperienza del protagonista.
Però, come ci avverte Moretti, a differenza di quanto avviene nel dramma
e nella tragedia, tali eventi non modificano in modo univoco e irrevocabile
la sua personalità. Wilhelm non cerca mai l’azione risolutiva, perché ha
adottato un atteggiamento più duttile verso lo scorrere del tempo, a
differenza degli altri personaggi del romanzo come Mariane, Aurelie,
l’Arpista e soprattutto Mignon. La morte di quest’ultima, infatti, appare la 59 “La Psicologia della Gestalt parte dalla constatazione che l’esperienza si presenta in forma di strutture organizzate di fenomeni tra loro così connessi che la modificazione di uno comporta necessariamente la modificazione degli altri. Così, al concetto di ‘elementi psichici’ la psicologia della forma sostituisce quello di ‘forma’ (‘Gestalt’ in tedesco) o ‘tutto organizzato’ in cui le proprietà delle parti o dei processi parziali dipendono dal tutto”. Tratto da Bertolini P., Dizionario di psico-socio-pedagogia, Mondadori, Milano 1980, p. 25. 60 Cfr. Mc Luhan M., Hutchon K., Mc. Luhan E., La città come aula, Armando, Roma 1980.
47
conseguenza di un desiderio prematuro e appassionato destinato a restare
insoddisfatto, un sentimento che la personalità irrequieta del personaggio
non riesce a rielaborare, a decantare nel tempo della propria esperienza
interiore. All’opposto, per Wilhelm, gli eventi più suggestivi e avvincenti,
stemperati e diluiti nella trama del romanzo, acquistano il loro significato
nell’intreccio di ciascun “episodio”, a piccoli passi, un po’ alla volta, dando
alle esperienze dell’eroe un senso di esperimento provvisorio, di apertura
al mondo.
“Questa dialettica di significato ed episodio è alla base del
capitolo romanzesco. Meccanismo straordinario di
autosegmentazione del testo, il capitolo instaura un equilibrio
tra la soddisfazione per ciò che abbiamo appreso (il significato
che è stato attribuito a un evento) e la curiosità per ciò che
ancora ignoriamo (quel significato è di norma sempre
incompleto)”.61
È messo così in luce l’atteggiamento più riflessivo del Wilhelm degli “Anni
di apprendistato”, rispetto a quello della “Missione teatrale” che,
prigioniero della sua passionalità non riuscirà a portare a termine la sua
ricerca di senso.
Negli “Anni di apprendistato”, infatti, il protagonista sembra aver acquisito
una maggiore capacità di leggere le tracce sul proprio cammino, di
interpretare gli eventi senza lasciarsene travolgere.
In questo senso, possiamo leggere l’espressione “cogliere le occasioni”,
che riecheggia spesso nel corso del romanzo, in base all’analisi del
rapporto “figura/sfondo” citato in precedenza.
L’introduzione di nuovi elementi a livello di trama narrativa permette di
riorganizzare in senso evolutivo le situazioni problematiche. Keeney parla,
in proposito, di “rumore significativo”,62 per intendere come un elemento,
61 Moretti F., Il romanzo di formazione, op. cit., nota n. 42 di p. 51. 62 Cfr. Keeney B. P., Ross J. M., La mente nella terapia, Astrolabio, Roma 1986.
48
che acquista significato sullo sfondo di una trama narrativa, perturbi gli
equilibri raggiunti, costringendo ad una nuova riorganizzazione. Per
elaborare una diversa configurazione del rapporto “figura/sfondo” è
necessaria una relativizzazione dei propri contesti di apprendimento e un
decentramento che ci permettano di interpretare in modo nuovo la realtà.
A questo riguardo, Bateson distingue diversi livelli di apprendimento.63 Un
livello particolarmente importante è quello che chiama
“deuteroapprendimento” (o apprendimento 2). Consiste
nell’apprendimento di contesti di apprendimento, cioè di modalità
determinate di segmentare gli eventi, di operare distinzioni. Ciascuno di
noi impara, come esito dell’educazione, delle modalità specifiche di fare
distinzioni. Apprendere modalità alternative di segmentare i medesimi
eventi ci fa muovere, comunque, ancora a livello di
deuteroapprendimento. Per Bateson esiste anche la possibilità di un
apprendimento di livello superiore (apprendimento 3), che consiste nel
cambiamento delle premesse sottese all’intero sistema di abitudini di
punteggiatura. Si tratta a questo livello di un vero e proprio cambio di
epistemologia. In qualche modo, il mutamento finale dell’eroe prodotto
proprio dalla sua capacità di “saper cogliere le occasioni” si muove nella
direzione di questi due tipi di apprendimento: La maturità di Wilhelm
deriva dal suo modo nuovo di punteggiare gli eventi, che lo porta a
compiere scelte sempre più consapevoli, come quella di dedicarsi
all’attività teatrale.
C’è da dire che l’integrazione sociale di Wilhelm avviene in un contesto di
“vita quotidiana” di sostanziale equilibrio ed armonia, sullo sfondo, cioè, di
una visone sociale tenuta salda dalla cultura organicistica di Goethe.
L’autore tende a ricomporre l’opposizione fra la libertà dell’individuo e le
costrizioni del mondo moderno, e a eludere il conflitto di classe tra
l’aristocrazia e la borghesia, nel nome di una Bildung ideale, quanto
utopica. Resta il fatto che, nel costruire tale progetto, ci offre l’opportunità
di riflettere a fondo sulle modalità attraverso le quali nel processo di
63 Cfr. Bateson G., Verso un’ecologia della mente, op. cit.
49
formazione della persona è possibile raggiungere livelli di integrazione più
evoluti, evitando di soccombere alla realtà sociale o di isolarsi dalla stessa,
di adattarvisi in modo passivo o di esserne iniziati attraverso prove che
qualcun altro ha deciso per noi.
Come rileva Moretti, infatti, quelle che a Wilhelm si presentano come
occasioni sono alquanto differenti, ad esempio, dalle “prove” che in
un’altra opera di ispirazione massonica come il “Flauto Magico” di Mozart
– Schickaneder consentono al protagonista Tamino di raggiungere la
maturità. L’antitesi tra iniziazione e formazione si manifesta in modo assai
chiaro nell’opposta funzione che vi svolge il linguaggio. Il confronto è
particolarmente interessante per comprendere quali modalità possono
favorire quei cambiamenti di paradigma personale necessari per operare
una più attiva e consapevole integrazione del sé. Mentre Tamino nel
“Flauto” deve essenzialmente tacere, nel Meister il linguaggio, attraverso
la conversazione, si fa strumento di formazione.
“Una svolta decisiva della Bildung di Wilhelm si ha quando egli
abbandona la retorica teatrale del monologo infiammato per
volgersi all’assai più prosaica arte del dialogo”.64
Imparare a parlarsi con fiducia nella socievolezza della vita quotidiana
favorisce sia l’espressione di sé, sia la comprensione degli altri, che passa
attraverso l’ascolto. Per cambiare il proprio punto di vista su ciò che
accade intorno a noi, occorre in qualche modo abbracciare quello
dell’altro.
2.7 L’integrazione tra socialità, orgoglio e pregiudizio
Il linguaggio della “conversazione”, della “socievolezza mondana”, che
accompagna le pagine del “Meister” e riempie gran parte di quelle di
“Orgoglio e Pregiudizio” di Jane Austen, si pone all’opposto di
quell’”argomentazione pubblica razionale” che Habermas pone a
64 Moretti F., Il romanzo di formazione, op. cit., p. 54 – 55.
50
fondamento dell’opinione pubblica.65 In realtà, infatti, la conversazione
romanzesca, non si oppone tanto al silenzio, quanto all’orazione
rivoluzionaria.
“È un’antitesi che ne porta con sé molte altre: alla corposità
frenante della concretezza si oppone il freddo e audace
universalismo dei principi; alla convertibilità dialogica dell’’io’ in
‘tu’, la rigida demarcazione di oratore e pubblico; all’attenzione
per la tessitura paziente di una trama, il gusto dello strappo, la
passione del ‘ricominciamento’”.66
Tali contrasti ci dicono che la vita quotidiana è incompatibile con la
rivoluzione, come lo è la stessa narrativa romanzesca con la grande storia,
destinata, quando appare, a rimanere sullo sfondo. All’esemplarità tragica
o epica dei grandi personaggi storici, il romanzo predilige l’unicità di
personaggi più “comuni”, che appaiono sempre in qualche modo
sovradeterminati e complicati da altre caratteristiche, in una parola
“personalizzati”. Ciò permette al lettore di identificarsi con loro, in quanto
la lettura stessa si propone come un percorso formativo. Anche se, proprio
per questo fine, occorre che il lettore si liberi del punto di vista parziale e
troppo spesso erroneo del protagonista, per poter vedere oltre.
L’errore del protagonista del Bildungroman è ben sintetizzato dal titolo del
romanzo di Jane Austen: “Orgoglio e pregiudizio”. Morettti individua due
significati del pregiudizio che caratterizzano sia l’eroina del romanzo di
Austen, sia il Wilhelm di Goethe. Sono entrambi indicativi di atteggiamenti
che impediscono proprio quel cambio di paradigma necessario
all’integrazione sociale della persona. Il primo coincide con la propensione
a giudicare frettolosamente ciò che ci accade, senza darsi un tempo per
lasciar decantare gli eventi che ci colpiscono, riflettere e rielaborare i
65 Cfr. Habermas J., Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Bari 1971. 66 Moretti F., Il romanzo di formazione, op. cit., p. 58.
51
propri vissuti.67 Il secondo significato riguarda la parzialità del proprio
punto di vista che, se non riconosciuta, sfocia in partigianeria, unilateralità
del proprio pensiero, che rende impossibile una socializzazione imperniata
sul modello della totalità organica. Da questo punto di vista Elizabeth
Bennet, nel voler dimostrare soprattutto a se stessa un’intelligenza fuori
del comune, non pecca per difetto, ma per “eccesso di critica”.
“Il superamento del pregiudizio è il meccanismo narrativo in cui
prende corpo la critica della società civile borghese nella sua
massima espressione culturale: la sfera dell’opinione pubblica.
Dominata per l’appunto da quella passione illuministica per la
critica e la confutazione che ancora echeggia nei protagonisti
del Meister e di Orgoglio e pregiudizio” 68
Però, come ci avverte Hegel,
“Restare abbarbicato al sistema dell’opinione e del pregiudizio
per autorità altrui o per convinzione propria, differisce soltanto
per la vanità che si annida nella seconda maniera”.69
I protagonisti del Bildungroman partecipano di entrambe le esperienze,
descrivendo, così, un processo, che dal cammino dell’individualità conduce
all’integrazione sociale, evitando il rischio che l’irresoluto vagabondare
porti alla propria autodistruzione. Infatti, in termini narrativi, a Wilhelm ed
Elizabeth, è affidato l’intreccio della storia, che non potrebbe mai giungere
a conclusione senza la Torre e Darcy, che ne rappresentano la fabula
finale. Gli errori di Wilhelm e Meister, derivano, a detta di Moretti, dal loro
porsi “senza motivo”, in alterità al mondo dato; ma questo esercizio
critico, che dovrebbe essere un legittimo atto d’interpretazione, base di
67 Non a caso il titolo del manoscritto di J. Austen era “First Impressions”, “Prime Impressioni”. 68 Moretti F., Il romanzo di formazione, op. cit., p. 65 69 Hegel G. W. F., Fenomenologia dello spirito, La Nuova italia, Firenze 1976, p. 97.
52
ogni processo conoscitivo, rischierebbe, se prolungato, di compromettere
quell’acquisizione di senso, che è la proposta fondamentale del
Bildungroman. Così, all’esercizio critico si sostituirà la pratica
dell’”ascolto”, attraverso il quale il significato della realtà potrà
manifestarsi nella sua essenza e verità. Solo così, per Goethe e Austen,
sarà possibile ricomporre la frattura tra soggetto e oggetto e permettere il
“superamento dell’alienazione”. Sul piano della visione storica, possiamo
qui leggere la riformulazione di un’ideale riconciliazione tra le principali
classi dell’epoca, l’aristocrazia e la borghesia, attraverso un cammino di
emancipazione e promozione sociale.
“Nel Meister e in Orgoglio e pregiudizio i rappresentanti dei due
opposti poli sociali – Wilhelm ed Elizabeth da un lato; Lothario,
Jarno e Darcy dall’altro – si modificano appunto in modo tale da
smussare e rendere inoffensive le rispetive caratteristiche di
classe. I ‘borghesi’ guariscono dall’intossicazione mentale del
‘pregiudizio’ – gli aristocratici riescono a svelenire la noncuranza
umiliante del loro ‘orgoglio’.”70
In questo senso, il Bildungroman intende narrare come si sarebbe potuta
evitare la rivoluzione francese o, quantomeno, i suoi effetti irreversibili.
Tale proposta è rivolta specificatamente al lettore borghese, al quale
s’intende dimostrare l’assurdità di una cultura ispirata all’autonomia critica
individuale e il vantaggio che comporta la conciliazione sociale. Entra qui
in gioco la dialettica della libertà borghese, che nel Bildungroman si risolve
in uno scambio: l’accettare di appartenere a un sistema di coesione sociale
simbolicamente compatto e armonioso, in cambio della possibilità di poter
disporre della vita a proprio rischio e pericolo. La cultura dell’individuo
moderno si declina fin dall’inizio in una combinazione di questi due
estremi. Moretti la paragona ad un pendolo, nel cui il moto, che conduce
70 Moretti F., Il romanzo di formazione, op. cit., p. 71.
53
da un polo all’altro, possiamo leggere la miriade di posizioni intermedie
che il movimento crea.
Si tratta, quindi, di un processo tuttora attivo, reso ancor più complesso
nella nostra società del disincanto, in cui la frontiera tra ciò che è possibile
per l’individuo e ciò che è pensabile per la società è quanto mai aperta e
confusa. Come ci avvertono Benasayag e Schmit, 71 una società che
estende continuamente il campo del “possibile” rischia di sprofondare in
un mondo in cui il virtuale sovrasta il reale, un mondo dell’impotenza,
regno dell’individuo psicotico, governato dal “posso tutto”. Nell’ambito
della costruzione del sé, l’esperienza della “non – onnipotenza” diventa
fondamentale per la persona, la cui formazione è indissolubilmente legata
a una lunga e profonda ricerca di ciò che i limiti delineati dal contesto
sociale e culturale di appartenenza rendono possibile. Possiamo essere
d’accordo o meno con l’ideale Bildung dei romanzi di Goethe e Jane
Austen, e chiederci, come Moretti, la ragione per la quale una civiltà
abbia di fatto scartato un congegno narrativo così perfetto. Al di là
dell’auspicio di entrambi di evitare la rivoluzione francese, il carattere
totalizzante del finale, il prevalere della necessità sulle possibilità, che
caratterizza la fabula del Bildungroman, rappresenta ancor oggi una
metafora in grande del processo formativo. Come si è cercato di delineare
in queste pagine, proprio il congegno narrativo creato per rappresentarlo è
ricco di spunti di riflessione, di motivi e di temi di rielaborazione utili per
pensare alla propria formazione personale e professionale.
2.8 Il romanzo di formazione nella modernità
Il conflitto tra individuo e società, tra desiderio di libertà e aspirazione alla
felicità, trova più articolate modalità narrative in quei romanzi dove a
prevalere è il principio di trasformazione. A trent’anni dal Meister, all’idea
71 Per Benasayag e Schmit, “Il pensabile […] è l’insieme degli atti che ogni membro di una cultura, di una società o di una religione accetta in quanto rispettosi dei suoi fondamenti, come conformi o adatti alla vita. […]. Il possibile è un insieme molto più vasto […]. Le frontiere tra il possibile e ciò che lo limita (il pensabile) si spostano in funzione delle situazioni e dei periodi storici.”. Benasayag M., Schmit G., L’epoca della passioni tristi, op. cit., p. 92.
54
di formazione come sintesi di varietà e armonia, subentra, la
problematicità, l’inquietudine e l’incertezza nell’appassionata ricerca di vie
nuove e tortuose della formazione individuale.
L’analisi morettiana di questo nuovo modello romanzesco, i cui massimi
interpreti sono Stendhal e Puškin, ci offre l’opportunità di riflettere
sull’origine e lo sviluppo di alcuni paradigmi della costruzione del sé nella
modernità, che tuttora influenzano la formazione dell’identità personale. Li
possiamo raccogliere e sintetizzare in alcuni “nuclei tematici”
fondamentali.
Il primo riguarda l’”ambivalenza” dei protagonisti. Essa appare un riflesso
di quella del contesto storico e sociale, nel quale, sulla scorta del modello
francese, la legittimità dell’esistente non è più affidata alla tradizione, ma
a principi la cui astrazione ne inficia di per sé la loro stessa realizzazione. I
valori rivoluzionari di libertà e di eguaglianza generano contraddizioni e
compromessi, come nel caso della carriera di Napoleone e della rivoluzione
industriale inglese, quando non sono addirittura sconfitti, come nel
periodo della restaurazione. Julien Sorel e Fabrizio del Dongo, protagonisti
rispettivamente del “Rosso e Nero” e de “La Certosa di Parma” di
Stendhal, entrambi ancora profondamente legati a quei valori appartenenti
una fase storica ormai conclusa, non si sottrarranno alla tentazione di
tradirli per conquistare una più soddisfacente collocazione sociale. Si
tratta, comunque, secondo Moretti, di un tradimento che si compie solo a
metà. Il ritratto che Julien tiene nascosto sotto il suo letto, dimostra che
gli ideali rivoluzionari non sono stati per nulla dimenticati; così come i falsi
passaporti di Fabrizio, ne rivelano la sua doppia e ambigua identità.
Questa duplicità che caratterizza gli eroi stendhaliani rappresenta, secondo
Moretti, un modo d’essere della personalità moderna, che lo studioso
interpreta alla luce di tre fenomeni tra loro interrelati. Il primo è il
“bovarismo” che, secondo la concezione di Jules de Gaultier,72 opera su
una scissione tra l’immaginario e il reale, e costituisce il tentativo,
destinato comunque a fallire, di riformare la realtà collettiva secondo le
72Cfr. De Gaultier J. Il bovarismo, S.E., Milano 1992.
55
esigenze di un sogno individuale. Il secondo fenomeno si richiama alla
Verleugnung freudiana e consiste, secondo l’analisi di Mannoni, 73 al
disconoscimento dei propri ideali che, relegati nella vita immaginaria, pur
essendo di continuo sconfessati sul piano dell’esistenza reale, vanno a
costituire la struttura intima della personalità. L’ultimo fenomeno descritto
da Moretti riprende l’analisi della “malafede” contenuta nella prima parte
di “L’essere e il nulla” di Sartre. Secondo la concezione di quest’autore, la
malafede è
“l’arte di formare concetti contraddittori, che riuniscono cioè in
sé un’idea e la negazione di quest’idea”.74
Tale modo d’essere ritrae
“una persona che compie una certa azione e simultaneamente,
parlando, presenta a sé e all’altro l’immagine opposta di sé”.75
I fenomeni indicati da Moretti per descrivere il comportamento
ambivalente degli eroi stendhaliani e, di riflesso, tratti caratteristici della
personalità moderna, richiamano la teoria del “doppio legame” di
Bateson.76 Ai fini di questa tesi, è importante soffermarsi a riflettere su di
essa, per le sue implicazioni con la narrazione che ciascuno fa di se stesso
nelle situazioni in cui l’adattamento del sé a determinati contesti relazionali
risulta problematico. Si tratta, infatti, di un insieme di interazioni che non
permettono di formulare una narrazione coerente o di creare connessioni
possibili tra azioni ed emozioni, perché il soggetto stesso è preso in una
relazione paradossale. Lo stesso accade nei romanzi di Puškin e Stendhal,
nei quali la trama si trasforma in una lunga sequenza di atti d’arbitrio
compiuti dai protagonisti senza alcuna coerente connessione causale tra
73 Cfr. Mannoni G., La funzione dell’immaginario, Laterza, Bari 1972. 74 Sartre J. P., L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1965, pp. 97 – 98. 75 Moretti F., Il romanzo di formazione, op. cit., p. 99. 76 Cfr. Bateson G., Verso un’ecologia della mente, op. cit..
56
l’azione e il suo contesto. Se le connessioni tra le diverse azioni e le
proprie narrazioni costituiscono la base della costruzione del sé, nelle
situazioni a doppio vincolo il soggetto fatica a costruirsi un “Io” capace di
narrare una storia coerente di sé. Ciò che risulta compromesso è il
rapporto tra l’identità e lo sfondo delle relazioni vissute passate e future,
tra l’immagine di sé e la cultura di riferimento del proprio contesto sociale.
2.9 Realismo narrativo e relativismo sociale
Tale paradosso ci porta all’analisi di un altro nucleo tematico, quello della
“maturità”. L’impossibilità di conciliare la fede nei valori rivoluzionari di
libertà e di eguaglianza con il desiderio di dominio e la ricerca di privilegi,
che contraddistinguono il funzionamento sociale del contesto borghese,
costringe i primi ad esser relegati nella breve stagione della gioventù. La
gioventù, proprio per la sua breve durata, viene così presentata come l’età
degli ideali da contrapporre alla maturità. Quest’ultima non consiste più
nell’acquisire delle qualità, ma al contrario nel perderle, nel rinunciare
proprio a quei valori, a quelli stessi principi sui quali si legittima l’ordine
democratico della società borghese.
“Non si diventa più adulti divenendo adulti, ma cessando di
essere giovani: è un processo che si riassume in una perdita, una
rinuncia. [...] volendo esprimersi in termini freudiani, la
socializzazione che ha luogo durante la gioventù non esige il
sacrificio dell’Es, ma quello simbolicamente più inquietante del
Super-io”77
Se per Julien, Fabrizio e Onegin questo passaggio dalle illusioni della
gioventù al disinganno dell’età matura non si compirà mai, perché
impossibile per i loro autori immaginarli adulti, il paradigma della maturità
come rinuncia s’imporrà d’ora in avanti nella concezione moderna
dell’esistenza. Viene così svalutata l’idea stessa di esperienza come
77 Moretti F., Il romanzo di formazione, op. cit., p. 100 - 101
57
incontro formativo con la realtà, rielaborazione continua della personalità
in sviluppo, tipica del Bildungroman. La narrazione della costruzione del sé
pare interrompersi davanti alla reificazione di un’esistenza che resiste al
mutamento, alla possibilità di trasformare e ancor più di migliorare la
condizione umana. Dal piano del racconto si passa così a quello del
discorso e del commento, che accompagna le vicende degli eroi tra il
cinismo “delle fredde osservazioni della ragione” e la nostalgia “delle note
dolorose del cuore”.78
Veniamo così ad esplorare un altro nucleo tematico fondamentale che
riguarda la costruzione del sé nella modernità, quello del “realismo”.
Secondo Moretti, il realismo dei romanzi di Puškin e Stendhal non è
assimilabile al principio di realtà freudiano, che guida l’opera equilibratrice
dell’Io, consentendogli di sentirsi a suo agio nel mondo. È, invece, proprio
da questi romanzi che prende le mosse quella teoria del realismo narrativo
formulata da Bachtin e ripresa da Lotman,79 secondo la quale ciò che
rende un romanzo come l’Onegin realistico è la molteplicità dei punti di
vista, che invece di esser ricondotti ad una sintesi equilibratrice si
risolvono nella “discontinuità”, caratteristica fondamentale della realtà
quotidiana. L’irreversibile moltiplicarsi delle prospettive e il conseguente
relativismo portano al sorgere dell’ironia, che gioca un ruolo vitale nel
romanzo moderno e si configura come un atteggiamento essenziale della
cultura e della coscienza moderna.
È importante, in questo senso, la riflessione di Moretti riguardo
l’atteggiamento del lettore, perché implica il modo in cui il romanzo
moderno ha condizionato e influenza tuttora le rappresentazioni del sé, e
come, dal punto di vista di questa tesi, può, altresì, orientare le nostre
narrazioni, fornirci valide indicazioni di metodo per la formazione
personale.
Lo studioso si mostra alquanto scettico sulla possibilità che la molteplicità
dei punti di vista, tipica del romanzo moderno, possa stimolare
78 Puškin A. S., Eugenio Onegin, Rizzoli, Milano 1985, p. 33. 79 Cfr. Lotman J. M., La struttura del testo poetico, Mursia, Milano 1990.
58
“una forma mentis ‘dialogica’ e ‘sperimentale’, un
atteggiamento verso il mondo che è curioso e duttile, aperto,
empirico, responsabile. In una parola: ‘maturo’”.80
D’altra parte, questo cosiddetto “lettore implicito” di Lotman è proprio
quello cui dovremmo ispirarci, nella misura in cui intendiamo valersi del
romanzo per riflettere sulla nostra condizione umana, ricavare significati e
temi di vita per acquisire consapevolezza di se stessi, elaborare strategie
d’azione e di relazione, scoprire chiavi di lettura utili a costruire e
ricostruire le proprie esistenze.
Occorre, però, tener conto, come la pluralità dei punti di vista possa
condurre allo scetticismo e all’indecisione, piuttosto che a una elastica e
problematica maturità.
Gli opposti piani del racconto, inevitabilmente melodrammatico, e del
discorso fin troppo ironico, su cui si fondano i romanzi di Puškin e
Stendhal e buona parte del romanzo moderno, descrivono una visione
amara e cinica della realtà, “così va il mondo”, e al tempo stesso
l’inquietudine della personalità moderna, il cui processo di formazione è
sempre più complesso e problematico di quel che ciascuno potrebbe
immaginare.
80 Moretti F., op. cit., p. 109
59
3 Autoformazione tra riflessività e narrazione
“Nella storia della vita, l’ascesa e la caduta di tratti
e funzioni dipende da quanto essi contribuiscono al
successo degli esseri viventi. Il modo più diretto
per spiegare coma mai la coscienza si sia
affermata nell’evoluzione consiste nel dire che essa
ha contribuito significativamente alla
sopravvivenza delle specie che ne erano dotate. La
coscienza venne, vide e vinse. Poi fiorì rigogliosa e
adesso sembra sia qui per restare.”
(Antonio Damasio, Il sé viene alla mente)
3.1 Aspetti dell’autoformazione
La costruzione del sé si declina in una più funzionale ricerca di metodo
attraverso le forme, i modelli e le pratiche dell’autoformazione. Secondo
Margiotta, nella nostra società globale e della conoscenza
“l’autoformazione si è, infatti, imposta come via metodica alla
ricomposizione unitaria (mente/corpo; intelligenza/emozione;
io/altri; finito/infinito) del soggetto”.81
Si tratta della sfida a guardare il percorso della propria vita come un
disegno che abbia senso. Pur riconoscendo che ogni storia di vita si svolge
“senza un disegno previsto, progettato e controllato”, anzi “il
disegno non è ciò che guida fin dall’inizio il percorso di una vita,
bensì ciò che tale vita si lascia dietro, senza poterlo mai
prevedere e neanche immaginare”.82
81 Margiotta U., Autoformazione. Oltre le colonne d’Ercole per riconquistare il gusto e la disciplina dell’ignoto, in Padoan I., Forme e figure dell’autoformazione, Pensa Multimedia Editore, Lecce 2008, p. 9. 82 Cavarero A., Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Feltrinelli, Milano 2003, p. 8.
60
Seguendo le indicazioni di Margiotta, 83 nello schema seguente sono
sintetizzati gli aspetti fondamentali dell’autoformazione e il suo rapporto
con la narrazione.
AUTOFORMAZIONE & NARRAZIONE
Percorso autobiografico
Ricostruire la memoria della propria storia, attraverso un procedere maieutico che fa emergere temi significativi del percorso personale nei contesti sociali di relazione e di lavoro professionali.
Metodo fondato sul riconoscimento del principio di intersoggettività
Produrre storia ripercorrendo le proprie storie di vita, attraverso un atteggiamento di autoriflessività, che permette di imparare dall’esperienza.
Ricostruzione delle trame vitali della mente e delle sue forme espressive
Potenziare identità e autostima e trovare nella connessione tra passato, presente e futuro possibili, il senso della propria unicità esistenziale.
Riflessione attraverso i testi
Esercitare il pensiero narrativo come un dispositivo cognitivo che permette di ricostruire esperienze, fatti, relazioni tra eventi, cause e possibili conseguenze in modo da sviluppare prospettive di interpretazione da cui nascono nuove chiavi di lettura.
Istruzione & Educazione
Processo di apprendimento di contenuti, che soddisfa ad una domanda esterna alla persona, allo scopo di collocarsi professionalmente. Processo di conoscenza di sé e delle proprie dinamiche, per rispondere ad una domanda interna di crescita della consapevolezza di sé.
Meditazione
Educazione interiore, lavoro intellettuale, autodisciplina mentale, formazione del carattere; prendersi cura di sé in una ricerca di senso e di speranza.
Se è vero che l’autoformazione oggi gode di larga attenzione, e che di
conseguenza la cultura assegna grande rilievo al pensiero narrativo, è
necessario chiedersi da una parte chi siano i soggetti destinatari di tali
83 Liberamente tratto da Margiotta U., Autoformazione. Oltre le colonne d’Ercole per riconquistare il gusto e la disciplina dell’ignoto, op. cit., p. 9 – 10.
61
pratiche, e dall’altra come declinare il proprio progetto di costruzione del
sé nella prospettiva dell’attuale società della conoscenza.
L’analisi di Bauman 84 offre un interessante spaccato sulla condizione
contemporanea dell’identità individuale e su ciò che la caratterizza in
rapporto alle dinamiche sociali.
L’autore riconosce una stretta connessione tra la paura dell’inadeguatezza
e la frenesia del consumismo. Mentre nelle società moderne il timore della
devianza aveva sostituito la paura dell’incertezza, spingendo gli individui
ad uniformarsi ai principali modelli istituzionali, la deregolamentazione
postmoderna genera identità sempre meno definite, frammentate e
destrutturate, proprio perché i meccanismi di ristrutturazione stanno
perdendo la loro funzione normativa. L’incertezza, che caratterizza la
società postmoderna, spinge gli individui a un continuo e frenetico sforzo
di autoaffermazione. La mancanza di criteri definiti cui uniformarsi rende
più difficile acquisire forme e immagini desiderate; una volta che la paura
dell’incertezza si è trasformata nell’ansia dell’inadeguatezza personale, le
proposte del mercato diventano irresistibili, perché offrono l’illusione di
scelte spontanee fuori da ogni coercizione e obblighi. La ricompensa delle
moderne società regolamentate e coercitive era il conformismo che
liberava gli individui dalla responsabilità e dalla scelta. L’attuale
ricompensa che offre il mercato è invece l’illusoria libertà di non dover
pensare alla responsabilità delle conseguenze future delle proprie scelte,
in un mondo dove i continui e frenetici cambiamenti sospendono le nostre
esistenze in un presente senza tempo. Per l’autore, tale irresponsabilità,
che svincola dagli obblighi sociali e dalla schiavitù dei destini personali
genera, in realtà, nuove dipendenze, nonostante sia sentita come
un’emancipazione e vissuta come una forma di liberazione.
L’autoformazione rischia allora di trasformarsi in un’autoaffermazione di sé
attraverso uno spasmodico consumo di merci, invece di evolvere in nuove
produzioni di senso e di significato, che potrebbero più facilmente essere
veicolate dalle opportunità che una società più libera da ideologie,
84 Cfr. Bauman Z., La società dell’incertezza, Il Mulino, Firenze 1999.
62
strumenti e modelli istituzionali coercitivi potrebbe offrire in termini di
costruzione di sé, di nuove forme di legame e di relazione con gli altri.
I legami sociali tendono, invece, a dissiparsi, a disgregarsi, addirittura a
liquefarsi, secondo un’altra felice, seppur inquietante, definizione di
Bauman.85 Tale “processo di liquefazione”, che riguarda i diversi ambiti
della vita (il lavoro, la comunità, le strutture sociali etc.) produce a sua
volta individui solitari, smarriti e disorientati di fronte alla miriade di stimoli
e informazioni che li bombardano ogni giorno. Lo stesso incontro con gli
altri è un incontro fra estranei. Rapporti che si consumano in “non–luoghi”
atti al consumo, tra persone che non si conoscono e non si
conosceranno, perché il consumo è un atto individuale che isola i corpi
nelle proprie sensazioni e li distoglie dalla percezione dell’altro, invece di
aprirli all’espressione di sé e alla comprensione delle emozioni altrui.
L’autoformazione come “cura di sé”, orientata ad un percorso costruttivo
esistenziale su chi e come si intenda essere, presuppone allora, un
parallelo e concomitante processo di decostruzione di sé, rivolto ad una
continua pratica di reinterpretazione dei propri presupposti e delle proprie
credenze, di riadattamento delle proprie condotte esistenziali, di
rielaborazione delle proprie esperienze, di verifica delle proprie
aspettative, insomma, di una ricorrente narrazione del proprio romanzo di
vita.
Altrimenti, correremo sempre il rischio di eludere sia la problematicità sia
la ricchezza delle nostre identità, in una “cura per sé” che espone i nostri
corpi ad assorbire e assimilare esperienze al di fuori di qualsiasi orizzonte
di senso, preoccupati unicamente che le proprie sensazioni siano
equiparabili a quelle degli altri, le cui esperienze, non potendo
comprenderle, potrebbero essere sempre più elevate delle nostre. Ciò è
quanto la pubblicità nei diversi media dà continuamente ad intendere,
provocando, così, una costante insoddisfazione e precludendoci l’accesso
alla possibilità del piacere stesso.
85 Cfr. Bauman Z., Modernità liquida, Laterza, Bari 2006.
63
Diversa è la modalità del “prendersi in cura”,86 narrando le nostre storie
individuali e relazionali, a partire proprio dalla centralità del corpo, come
tessuto di sensi e di significati che svelano a noi stessi e agli altri le nostre
identità e alterità.
3.2 Autoformazione e identità sociale
L’aspetto che qui più ci interessa, è proprio la pratica della “cura di sé”,
come metodo formativo che implica un ruolo fondamentale per coloro che
per professione devono “prendersi cura” di altri soggetti. A educatori,
insegnanti, assistenti sociali, animatori, formatori e alle altre figure
professionali, che esercitano l’aiuto alla persona, per stare in quella cura
degli altri, intesa a promuovere emancipazione e autonomia, è richiesto di
liberarsi il più possibile da pregiudizi, condizionamenti e false credenze che
nelle proprie esperienze operano spesso come “impensati”. Anche e
soprattutto per loro è necessario confrontarsi con quei nuovi processi di
formazione adulta legati alla riflessività interiore, all’orientamento e
all’auto-direzione di sé.
In una società fluida, dove il sistema sociale non è più stabile e
determinato nelle sue articolazioni, ma in continua trasformazione, la
realtà che viviamo è sempre quella del momento, è la relazione di senso
che occorre ricercare in ogni istante; è una realtà implicativa, nella quale
osservatore ed osservato si compenetrano; è una realtà interna ed
esterna, per la quale il soggetto creando legami con gli altri si fa coscienza
del mondo; è una realtà dinamica e costruttiva, dove l’azione della
persona è perturbazione per l’altro che, per mantenere l’equilibrio, sarà
costretto a mutare.
Maturana e Varela87 ci aiutano a chiarire questa prospettiva, proponendo
come modello in grado di render conto dello sviluppo delle singole identità
quello di un “accoppiamento strutturale” fra realtà che si sviluppano
mantenendo la propria organizzazione. La costruzione di sé va intesa, per
86 Cfr. Cambi F., L’autobiografia come metodo formativo, Laterza, Bari 2002. 87 Cfr. Maturana H, Varela F., L’albero della conoscenza, Garzanti, Milano, 1990.
64
questi autori, come una complessa e dinamica forma di adattamento,
come una “deriva di cambiamenti strutturali”, che permettono alla persona
e all’ambiente di coevolvere, mantenendo, ciascuna, la propria autonoma
organizzazione. In questo senso le due realtà, soggetto e contesto,
costruiscono un mondo condiviso, cioè una storia.
L’identità personale, quindi, come una coevoluzione di elementi diversi, un
equilibrio originale di diversità: diverse linee di crescita che si intrecciano e
si sovrappongono.
È quanto già risalta dalla lettura dei romanzi di formazione che abbiamo
analizzato nel capitolo precedente. Un ulteriore e calzante riferimento
letterario può aiutarci a comprendere come la diversità degli elementi
concorra alla definizione della propria identità. È il caso di “Narciso e
Boccadoro” di Hesse.88
Questa storia di amicizia, di amori, di passioni e di arte, è anch’essa una
lunga metafora formativa.
“Boccadoro, all’inizio del racconto è un ragazzo, dai riccioli
biondi e dal sorriso ingenuo, che giunge in un convento per
ricevere un’istruzione. Qui incontra Narciso, un giovane
maestro, di poco più grande di lui, col quale l’affinità è
immediata. Boccadoro ammira le doti intellettuali e spirituali del
maestro, e desidera ardentemente conquistarsene la simpatia.
Narciso, a sua volta, è affascinato dall’indole inquieta del
ragazzo, dalla sua curiosità, dal suo bisogno di sperimentare. È
un’inquietudine che gli deriva dall’amore per una madre il cui
ricordo gli è stato offuscato dal padre. Questi ha sempre
descritto a Boccadoro la madre come una donna selvaggia e
vagabonda, che lo aveva abbandonato quando era ancora
molto piccolo. Proprio per espiare le colpe materne, il padre lo
convince a dedicare la sua vita a Dio.
88 Cfr. Hesse H., Narciso e Boccadoro, Mondadori, Milano, 2012.
65
Narciso, da gran conoscitore della psiche umana, comprende
come le ansie del giovane sono legate alla scomparsa della
madre, da cui Boccadoro ha ereditato lo spirito inquieto e
gitano. Decide, allora, di aprirgli gli occhi, e per aiutarlo a
trovare la sua strada, lo avverte:
‘Io ti prendo sul serio quando sei Boccadoro. Ma tu non sei
sempre Boccadoro. Io non mi auguro altro se non che tu
divenga Boccadoro in tutto e per tutto. Tu non sei un erudito,
tu non sei un monaco … per far un erudito ed un monaco basta
una stoffa meno preziosa della tua’.
L’invito di Narciso, che non risparmia all’amico parole di fuoco,
è un’esortazione affinché Boccadoro possa realizzare se stesso
nel modo giusto, non in quello impostogli dal padre.
Il ragazzo decide, così, di intraprendere un viaggio, un
vagabondaggio senza mèta, passando da un’avventura all’altra,
alla ricerca della figura materna, del senso pieno della vita.
Boccadoro attraverserà la propria esistenza, combatterà le sue
paure, conoscerà la bestialità dell’uomo, l’effimera durata del
dolore come del piacere. Infine, approderà sulla sponda sicura
dell’arte con la quale s’illuderà di poter sconfiggere la stessa
morte. Intagliando sculture nel legno presso un anziano
scultore, crede di rivedere nel volto della Madonna quello di sua
madre; si svelerà, altresì, l’immagine di una Madre Primigenia,
che riunisce in sé i visi di tutte le donne che ha amato e da cui
è stato amato. È la coscienza del mondo che si coniuga con
l’esperienza di sé.
Solo al termine di una vita errabonda, Boccadoro ritorna al
convento, dove ritrova Narciso, il suo grande amico. In fondo a
ciascuno dei due è rimasta la convinzione di essere
complementari, due anime opposte che si completano, in cui
ciascuna si arricchisce dell’altra. Narciso è una parte di sé che
non può essere eliminata, pena una riduzione delle proprie
66
potenzialità; questo è il senso delle ultime parole di Boccadoro
prima di morire: ‘Anch’io ti ho sempre voluto bene, Narciso: la
metà della mia vita è stata uno sforzo continuo per
guadagnarmi l’animo tuo.’”
L’esito della ricerca sarà proprio la scoperta della complessità dell’essere
umano. La stessa complessità si ripropone a livello cognitivo, perché
l’intelligenza non funziona secondo un’unica modalità. Wallon89 ha per
primo posto in risalto la complementarietà fra due diversi tipi di
intelligenza. Da una parte l’intelligenza spaziale (o consecutiva), di tipo
pratico, che si organizza a partire dall’azione e dai suoi effetti. Dall’altra
l’intelligenza concettuale, che si organizza intorno alle operazioni mentali.
Entrambe coevolvono; ciò che varia è la calibrazione delle reciproche
relazioni e influenze.
In questo modo, fin da bambini, costruiamo il “reale”, appropriandocene
in modo originale; produciamo ipotesi e teorie e attraverso queste diamo
senso al mondo e alle nostre esperienze. È un procedere per continue
organizzazioni, disorganizzazioni e riorganizzazioni di quadri mentali. Se la
molla di questo processo è, in termini piagetiani, lo “squilibrio”, non si
tratta però unicamente di uno squilibrio cognitivo: non mutiamo le nostre
teorie solo perché i fatti le smentiscono, ma perché quelle stese teorie,
che contribuiamo a costruire, non sono più in grado di mantenere
quell’accoppiamento strutturale all’ambiente che garantisce il permanere
della propria identità.90
3.3 Identità complesse e complessità sociale
La complessità del reale si rispecchia nella complessità delle nostre menti
incarnate, capaci di coniugare, secondo Gardner, una molteplicità di
intelligenze.91 Lo psicologo statunitense definisce “correnti, onde e canali
89 Cfr. Wallon H., De l’acte à la pensèe, Flammarion, Paris 1970. 90 Cfr. Maturana H, Varela F.,L’albero della conoscenza, op. cit.. 91 Cfr. Gardner H., Formae mentis: saggio sulla pluralità dell'intelligenza, Feltrinelli, Milano 1987.
67
di simbolizzazione” quei fattori che contribuiscono all’acquisizione delle
nostre funzioni simboliche. Per ognuna delle intelligenze compresenti nella
nostra mente esisterebbe una “corrente”, provvisoriamente separata dalle
altre, ma destinata a intrecciarsi con esse attraverso l’attività delle “onde
di simbolizzazione”. Lo studioso ne indica quattro:
- “l’onda della strutturazione di ruoli o di eventi”, che presiede all’uso
della parola o nella finzione del gioco;
- “l’onda della rappresentazione analogica o topologica”, che si
esprime nell’attitudine a cogliere dimensioni, forze o valenze
relative, come nel linguaggio, nel disegno, nella manipolazione e
nella musica;
- “l’onda di rappresentazione numerica o quantitativa”, che presiede
alla nascita del numero;
- “l’onda della simbolizzazione notazionale”, che concorre allo
sviluppo dei sistemi di simboli correlati ad altri sistemi di simboli,
come il linguaggio scritto si riferisce all’oralità, il sistema numerico
ai numeri pronunciati, i sistemi di notazione per la musica, e via via
i vari codici culturali.
L’onda di simbolizzazione notazionale immerge le nostre intelligenze nella
cultura di appartenenza. Si sviluppa, così, il rapporto tra la nostra identità
e l’ambiente, con i limiti e le potenzialità che tale processo implica, perché,
ci avverte Gardner
“una volta che si trovi avviluppato in un mondo di notazioni, il
bambino si sforza di padroneggiare nuovi sistemi e di usarli in un
modo preciso e nel rispetto delle norme. Egli è ora seriamente
impegnato a conquistare le abilità simboliche della sua cultura; e,
in un certo senso, il divertimento è finito.” 92
92 Ivi, p. 331
68
Ciò è vero per il bambino come per l’adulto, in una dimensione educativa
che privilegia la trasmissione delle conoscenze, anziché valorizzare
l’autorialità del soggetto che apprende. Così, il divertimento di costruire la
propria intelligenza, di sperimentare l’efficacia delle onde di
simbolizzazione, rischia paradossalmente di finire proprio con l’inizio dei
processi d’istruzione, che ci inducono ad aderire ai principali canali
notazionali. Non è, comunque, del tutto scontato che apprendere a
padroneggiare i canali notazionali egemoni nella propria cultura
d’appartenenza, ci precluda l’opportunità di sviluppare gli altri potenziali
simbolici, presenti nelle intelligenze pure. Lo stesso Gardner, del resto, ci
avverte che le sette intelligenze da lui segnalate, che si organizzano
secondo i sistemi simbolici, non sono rintracciabili allo stato naturale,
bensì, sono tra loro intrecciate e compresenti. La teoria di Gardner appare,
allora, del tutto accettabile, proprio alla luce delle proposizioni illuminanti
di Wallon sulla comunicazione attraverso sistemi simbolici non verbali,
sguardo, gesto, sorriso, contatto corporeo, che originano dal “dialogo
tonico” con la madre. In questo senso, le emozioni appaiono come
conoscenze primitive, olistiche e arcaiche, il cui sviluppo si confonde con
l’attività cognitiva. Così, grazie ai processi di scambio comunicativo, la
mente si va costruendo in termini di intelligenza linguistica, di intelligenza
musicale, di intelligenza logico-matematica, di intelligenza visivo-spaziale,
di intelligenza corporea-cinestetica, di intelligenza intrapersonale, di
intelligenza interpersonale. La disponibilità di sistemi simbolici differenti
implica l’esistenza di un soggetto, neonato, bambino, adolescente, adulto,
protagonista attivo e costruttivo del suo apprendimento.
La questione dell’autoformazione si pone, allora, sia come una necessità
attuale per orientare le persone nella nostra società della conoscenza, sia
come una forma necessaria per declinare una concezione
dell’apprendimento come costruzione attiva e consapevole dei propri
saperi e delle proprie competenze, alla luce delle ricerche psicologiche,
pedagogiche, di educazione degli adulti, e dei rinnovati studi sulle
potenzialità della mente.
69
Come afferma Ivana Padoan,93 si tratta di un vero e proprio cambio di
paradigma del processo formativo, che ci sollecita a diventare autori della
propria formazione.
Questo passaggio trasformativo comporta una serie di condizioni, che
sono correlate con l’acquisizione di metodi “riflessivo-narrativi” da parte
dei soggetti coinvolti nei processi di autoformazione.
3.4 Autoformazione e riflessività nell’azione
In questa prospettiva, è necessario un rapporto con il sapere in termini di
problematica interrogativa, di personalizzazione delle competenze e di
costruzione delle stesse attraverso la riflessività. Occorre, per dirla con
Schön, 94 superare il modello della “razionalità tecnica” fondato sulla
separazione tra ricerca e pratica professionale.
Per l'epistemologia positivistica la pratica è una applicazione a problemi
strumentali di teorie e tecniche basate sulla ricerca, la cui obiettività deriva
dal metodo della sperimentazione controllata. E' una particolare visione
del sapere che elude la competenza pratica, la creatività e le abilità
artistiche del professionista.
La razionalità tecnica è una eredità del Positivismo, al fine di applicare le
conquiste della scienza e della tecnologia al benessere del genere umano.
Questa ambizione dalla rivoluzione industriale ad oggi ha influenzato tutte
le professioni.
Secondo tale modello esiste un mondo conoscibile in modo oggettivo, il
controllo tecnico su di esso si esercita osservandolo e mantenendosene a
distanza; perciò gli esperimenti controllati, necessari alla produzione delle
teorie scientifiche, possono essere condotti solo dalla ricerca. Non possono
essere condotti in modo rigoroso dalla pratica, dove le variabili sono
legate assieme, e difficilmente possono essere separate per essere
analizzate. 93 Cfr. Padoan I., L’avvento dell’autoformazione, in Padoan I., Forme e figure dell’autoformazione, op. cit.. 94 Cfr. Schön D., Il Professionista Riflessivo. Per una epistemologia della Pratica Professionale, Dedalo, Bari, 1993.
70
Secondo la razionalità tecnica la pratica appare come una sconcertante
anomalia, perché non è possibile trattarla come forma descrittiva del
mondo, né ridurla a schemi analitici matematici. Occorre, allora,
trasformarla in una tecnica basata sulla scienza che servirebbe per
scegliere i mezzi migliori. Negli ultimi decenni, però, quest’approccio è
stato delegittimato da una serie di insuccessi e danni provocati dai
cosiddetti “professionisti-esperti” che vi si ispiravano: vedi i danni
ambientali, i disastri sociali, le crisi economiche, etc.
Questo paradigma, quindi, mostra tutti i suoi limiti davanti alle sfide della
complessità postmoderna, nei contesti contrassegnati da incertezza, dove
le situazioni problematiche non sono descrivibili in modo lineare, né
solvibili in modo univoco; quando i fini non sono chiari, quando, almeno
all’apparenza, non c'è nemmeno il problema davanti e bisogna in qualche
modo immaginarlo.
Dal punto di vista della razionalità tecnica la pratica professionale è un
processo di soluzione dei problemi, ma non dice nulla sulla qualità del
problema. Quest’attenzione esclusiva all'aspetto della “soluzione” ignora
quello dell’”impostazione del problema”, che è il processo attraverso cui
selezioniamo le scelte e definiamo le decisioni da prendere. L'impostazione
del problema è un processo, attraverso il quale, in modo interattivo,
designiamo gli oggetti, di cui ci occupiamo nell'indagine. Nella pratica
quotidiana, infatti, i problemi non si presentano quasi mai come dati,
devono essere pensati, costruiti, elaborati.
In tal senso, il modello della razionalità tecnica appare incompleto, perché
non sa spiegare la competenza pratica, se non come un’applicazione della
conoscenza, ma non c'è nulla che ci induca a pensare che il conoscere
consista in regole definite che abbiamo nella mente prima dell'azione.
L'azione intelligente, secondo Schön è guidata da due fattori fondamentali:
la "conoscenza-nell'azione" e la "riflessione-nell'azione". La prima si
manifesta in quelle azioni intelligenti che richiedono una certa abilità,
come ad esempio condurre un veicolo. In casi come questo la conoscenza
è intrinseca all'azione, è incorporata in essa. Si rivela tramite l'esecuzione
71
spontanea e sapiente di un atto, ed è difficile da verbalizzare. Si tratta di
schemi d'azione, cosiddetti “script” che guidano i nostri gesti intelligenti.
Accade anche, però, che la routine produca risultati imprevisti, causando
errori che resistono alle correzioni, oppure, più semplicemente, capita di
osservare in modo diverso le proprie azioni. Di fronte a queste esperienze
uniche, che contengono elementi di sorpresa, il professionista può
ignorare gli elementi perturbatori e proseguire sulla propria strada, oppure
può riflettere su quanto sta accadendo.
Egli può, cioè, “fermarsi e pensare”, separando l'azione dalla riflessione,
oppure “riflettere nel corso dell'azione”, determinando un cambiamento di
quest'ultima durante l’esecuzione. A questo proposito, Schön propone
un’epistemologia della pratica, centrata sull’idea di riflessione nel corso
dell’azione, che pone lo scambio immediato, la non-separazione, tra
ricerca e pratica.
“[…] Sia la gente comune sia i professionisti spesso riflettono su
ciò che fanno, spesso perfino mentre lo fanno. Stimolati dalla
sorpresa, tornano a riflettere sull’azione e sul conoscere
implicito nell’azione. […] C’è qualche fenomeno enigmatico,
problematico o interessante che l’individuo sta cercando di
affrontare. Quando egli cerca di coglierne il senso, riflette
anche sulle comprensioni implicite nella sua azione, che fa
emergere, critica, ristruttura, e incorpora nell’azione
successiva.”95
La prestazione del professionista si presenta alla stregua di una
performance artistica, in quanto opera una gestione selettiva e creativa di
una grande quantità di informazioni, è capace di costruire lunghe
sequenze di deduzioni, impiega diversi modi di osservare e di immaginare
le cose simultaneamente senza interrompere il flusso dell'indagine.
Schön paragona questa condotta all’improvvisazione dei musicisti jazz.
95 Ivi, p. 76.
72
Questi, mescolando abilmente strutture acquisite con riflessioni
nell’azione, rispondono in tempo reale alle sorprese lanciate dagli altri
musicisti fino a comporre nuovi brani musicali.
La riflessione nel corso dell’azione assume la forma di una “conversazione
riflessiva” con la situazione, nel corso della quale il professionista opera
alternando di continuo pensiero e azione.
“Egli modella la situazione in conformità con il proprio iniziale
apprezzamento di essa, la situazione ‘replica’, ed egli risponde
alla replica impertinente della situazione. In un valido processo
progettuale, tale conversazione con la situazione è riflessiva. In
risposta alla replica della situazione il progettista riflette nel
corso dell’azione sulla costruzione del problema, sulle strategie
d’azione, o sul modello dei fenomeni impliciti nelle sue azioni.”96
Lo strumento principale che il professionista utilizza in questa
conversazione con la realtà è la “metafora generativa”, il “vedere come”.
La strategia consiste nel vedere la situazione come qualcosa che è già
presente nel suo repertorio di conoscenze e di esperienze, senza per
questo includerla in una categoria già nota. Anzi, è proprio la capacità di
“vedere come” che permette di trattare quei casi unici, che mal si
adattano a regole predefinite. Si tratta, in qualche modo di una funzione
narrativa che permette di connettere l’esperienza passata alla situazione
presente per progettare il futuro. Non è una relazione rigida,
deterministica; per la sua natura fluida, ha più a che vedere con
l’intuizione, con esiti di riflessioni su similarità percepite. Ad esempio, per
capire perché le setole naturali dipingono meglio delle artificiali, i
ricercatori hanno cominciato a pensare al funzionamento di una pompa.
Un altro aspetto chiave del modello di Schön è l’importanza che assegna
alla componente soggettiva che interviene nella costruzione dei problemi,
96 Ivi, p. 103
73
che devono essere solubili prima nelle scelte in fase di progettazione e poi
nella realizzazione delle decisioni assunte.
Spesso, l’attenzione esclusiva all'aspetto della "soluzione" porta ad
ignorare l'aspetto della "impostazione del problema", che è il processo
attraverso cui definiamo la decisione da prendere. Nella pratica i problemi
non si presentano come dati, devono essere costruiti. Un professionista
per trasformare una situazione problematica in un problema compie un
lavoro riflessivo.
Quando i fini sono definiti e chiari può bastare la concezione della pratica
secondo la razionalità tecnica, che suggerisce di scegliere i fini più
adeguati; spesso, invece, i fini non sono chiari, oppure non c'è nemmeno il
problema davanti e bisogna costruirlo.
Inoltre, il filosofo mette in luce l’aspetto politico delle scelte, che non
possono essere legittimate dalla razionalità tecnica. Occorre, altresì,
riconoscere che, sebbene la soluzione del problema sia tecnica, la sua
impostazione non è della tecnica ma di altra natura, al di fuori dal modello
della razionalità tecnica. È mistificante, infatti, invocare motivazioni
tecniche per decisioni che sono di natura politica. In questo senso, il
professionista non dovrebbe restare ai margini delle scelte sociali, né
essere costretto a usare il proprio sapere per sostenere determinate scelte
politiche, che spesso si rivelano incongruenti con la realtà dei fatti. Al
contrario, la partecipazione al confronto politico in termini di co-
progettazione può favorire l’assunzione delle proprie responsabilità,
consentendo ai professionisti di agire come attori autonomi nel contesto
sociale. Si pensi alla necessità di tali prerogative da parte di chi opera
nelle aree educative e sociali, in cui le decisioni che vengono prese nelle
situazioni problematiche incidono profondamente sulla vita di vasti gruppi
di persone. Ad esempio, negli interventi rivolti a prevenire la dispersione
scolastica, nell’accoglienza degli stranieri, nel sostegno famigliare nei casi
di grave disagio, nelle politiche sull’affido, etc.. Tutte quelle situazioni,
insomma, nelle quali le modalità di partecipazione al confronto sono assai
diverse nei casi in cui prevalga il modello della razionalità tecnica, oppure
74
la riflessione nell’azione.
“Nel primo modello il mondo comportamentale - quello
dell'interazione interpersonale sperimentata - tende ad essere
tale che o si vince o si perde. I partecipanti agiscono in modo
difensivo [...] Le attribuzioni ad altri tendono ad essere
verificate in privato [...] le attribuzioni tendono a divenire
impenetrabili - l'individuo non può disporre dei dati che le
confuterebbero e gli individui tendono ad adottare strategie
basate sul mistero e la maestria, cercando di dominare la
situazione mantenendo misteriosi i propri pensieri e sentimenti.
Nel secondo modello le parti [...] sono assai poco difensive e
[sono] aperte all'apprendimento. [...] Le discussioni tendono
allora a essere aperte all'esplorazione reciproca di idee che
comportano dei rischi, ed è probabile che le assunzioni siano
sottoposte a controllo pubblico. [...] Tendono a essere messi in
moto dei cicli di apprendimento, non solo con riferimento ai
mezzi necessari per raggiungere gli obiettivi ma anche con
riferimento alla desiderabilità degli obiettivi.”97
La “conversazione riflessiva” con la situazione, la “metafora generativa” e
la “partecipazione al confronto” si possono annoverare come tecniche
all’interno di un metodo riflessivo – narrativo, la cui efficacia nell’ambito
dell’autoformazione risiede, anche e soprattutto, in un rigore che risulta al
tempo stesso simile e differente al rigore della ricerca accademica.
I valori di controllo e obiettività centrali nel modello della razionalità
tecnica assumono nuovi significati all'interno del modello della riflessione
durante l'azione: la conoscenza è rigorosa nel senso che può scoprire di
essere smentita perché non ha realizzato cambiamenti soddisfacenti. In
questa prospettiva il professionista mira a trasformare la situazione, ma
non deve ignorare la resistenza al cambiamento che oppone la situazione
97 Ivi, p. 239 – 240.
75
stessa, altrimenti tutto si riduce ad essere l'autorealizzazione di una
profezia. Egli sperimenta in modo rigoroso quando si sforza di rendere la
situazione conforme alla propria visione di essa, allo stesso tempo
rimanendo aperto alla dimostrazione del fallimento del proprio tentativo.
L'abilità di costruire mondi virtuali è componente cruciale per sperimentare
in modo rigoroso, perché qui il professionista può gestire alcuni dei vincoli
relativi all'esperimento di verifica delle ipotesi, dando, però la priorità
all'interesse per la trasformazione, quindi all'affermazione dell'ipotesi,
piuttosto che alla sua negazione.
La modalità di costruire e decostruire la situazione, di leggerla attingendo
anche dal proprio repertorio di casi simili, di usare un rigore metodologico
pur nella fluidità della riflessione nell’azione, richiama quanto afferma
Bruner riguardo il racconto giudiziario e ci riporta inevitabilmente
nell’ambito della narrazione.98
Come le situazioni problematiche che il professionista riflessivo di Schön
affronta, anche i racconti giudiziari comportano un confronto fra ciò che ci
si attende di norma e quanto è effettivamente accaduto. La difformità fra i
due elementi viene poi giudicata tramite criteri che si riferiscono agli
statuti e ai precedenti casi. Nel proporre un’interpretazione, chi narra un
racconto giudiziario si richiama principalmente alla somiglianza fra la sua
interpretazione dei fatti nel caso presente e le interpretazioni in casi del
passato che secondo lui si assomigliano. Attinge, quindi, dal proprio
repertorio di conoscenze.
Il rapporto col sapere in termini di problematica interrogativa implica,
quindi, la capacità di incrementare il proprio repertorio di esperienze
professionali anche attraverso la narrazione. Perché, per rievocare i casi di
cui ci siamo occupati nel passato occorre che in qualche modo siano stati
raccontati i fatti rilevanti che ne hanno determinato la loro unicità, e
rielaborati per coglierne le affinità con le situazioni presenti. Come già
affermato nel primo capitolo dedicato alla lezione di Bruner, nel momento
stesso in cui la raccontiamo, noi interpretiamo la realtà e la organizziamo
98 Cfr. Bruner J. S., La fabbrica delle storie, op. cit..
76
per dare senso e significato al rapporto col mondo attraverso la
costruzione di continue “metafore generatrici”. La stessa “partecipazione
al confronto” può dar luogo a un processo di scambio di significati, che ci
consente di aderire ad una comunità attraverso l’esplorazione reciproca di
idee e di innescare “cicli di apprendimento” virtuosi per mezzo della co-
progettazione.
3.5 L’importanza del contesto nell’autoformazione
Altra condizione indispensabile per declinare il paradigma
dell’autoformazione è la centralità che assume il “contesto” nei processi di
apprendimento.
Abbiamo visto come l’apprendimento “adulto” si realizza in prevalenza
come pratica cognitiva di tipo riflessivo e non come mera acquisizione di
conoscenze, e come sia determinante l’integrazione tra dimensione
individuale, collettiva e sociale dell’apprendere. L’epistemologia della
conoscenza centrata sull’individuo, sul rapporto mente-corpo, lascia il
campo ad una epistemologia data dalla relazione della persona con il
mondo, spostando così l’attenzione verso le conoscenze relazionali come
forme di apprendimento situato.
Le conoscenze si acquisiscono sia in modo intenzionale ed esplicito sia in
modo tacito e implicito, e influenzano non solo i criteri e la capacità di
apprendere, ma anche le rappresentazioni interne e i propri sistemi di
credenze. Ci torna ancora utile, a questo riguardo, la lezione di Bruner,
secondo il quale
“[…] la conoscenza di una persona non ha sede esclusivamente
nella sua mente, bensì anche negli appunti che prendiamo e
consultiamo sui nostri notes, nei libri con brani sottolineati che
sono nei nostri scaffali, nei manuali che abbiamo imparato a
consultare nelle fonti di informazione che abbiamo caricato sul
computer, negli amici che si possono rintracciare per chiedere
un riferimento o un’informazione, e così via all’infinito [...]
77
Giungere a conoscere qualcosa in questo senso è un’azione sia
situata sia distribuita. Trascurare questa natura situazionale e
distribuita della conoscenza e del conoscere significa perdere di
vista non soltanto la natura culturale della conoscenza, ma
anche la natura culturale del processo di acquisizione della
conoscenza.” 99
Un altro fondamentale apporto a questo approccio socioculturale viene da
Lev Vygotsky, 100 per il quale l’apprendimento ha una natura
specificamente sociale, in quanto l’interazione avviene attraverso
strumenti e segni, prodotti di una cultura, che mediano l’azione del
soggetto sulla realtà. La modalità attraverso la quale l’interazione sociale
determina lo sviluppo agisce su quella che lo psicologo russo definisce
“zona di sviluppo prossimale”: la distanza, cioè, tra il livello effettivo di
sviluppo e il livello di sviluppo potenziale che può essere raggiunto con
l’aiuto di altri, adulti, esperti o pari grado con un livello di competenza
maggiore. Il contesto della relazione assume anche qui una fondamentale
rilevanza.
Pur avendo già altre volte intercettato il concetto di contesto nel corso
della tesi, è importante soffermarsi a riflettere sull’origine e lo sviluppo del
suo significato per comprenderne meglio il ruolo nel processo formativo.
Solitamente s’intende per “contesto” l’insieme degli elementi che
concorrono alla definizione del significato di una parola o di un enunciato.
Il significato di una parola, sostiene Frege, 101 non va considerato
spiegando quella parola, ma considerandola nel contesto di un enunciato.
In seguito Searle, con la sua “teoria degli atti linguistici”,102 ci avverte che
99 Bruner J.S., La ricerca del significato. Per una psicologia culturale, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 104-105. 100 Cfr. Vygotsky L., Pensiero e linguaggio, Giunti, Firenze, 2002. 101 Cfr. Frege G., Logica ed aritmetica, Boringhieri, Torino, 1965. 102 Tale teoria è basata sul presupposto che con un enunciato non solo si descrive un contenuto, ma si compiono delle vere e proprie azioni in ambito comunicativo. L’autore, a riguardo, presenta 5 tipi di illocuzioni (atti linguistici): assertive, direttive, commissive, espressive e dichiarative. Cfr. Searle J., Atti linguistici. Saggio di filosofia del linguaggio, Boringhieri, Torino 1976.
78
l’effetto di un enunciato è diverso a seconda del contesto in cui viene
espresso.
Si tratta, quindi, di un concetto linguistico, ma che ha assunto man mano
significati anche psicologici e culturali, che hanno in comune il rilievo dato
all’esperienza socio-relazionale dell’individuo. Il significato di “contesto” si
allarga ad una visione sistemica della realtà con le proposizioni di
Maturana e Varela,103 e di Bateson.104 Con i primi, la definizione di sistema
vivente come autopoietico ci permette di superare la dicotomia sistema
aperto - sistema chiuso e l’illusione del controllo. Per i due autori, infatti, i
sistemi autopoietici sono chiusi, autonomi, e con una propria identità dal
punto di vista dell’organizzazione, in quanto si autoproducono e non sono
caratterizzati da rapporti ‘input-output’; e sono anche sistemi aperti,
dipendenti dall’esterno, in quanto il loro comportamento è influenzato
dalle perturbazioni dell’ambiente, che non determina, però, la loro
identità. La chiusura organizzazionale del sistema, che corrisponde al suo
dominio cognitivo, stabilisce l’ambito delle interazioni possibili e determina
il significato da attribuire agli stimoli esterni rispetto alla sua evoluzione.
Bateson, a sua volta, rovescia la prospettiva del modello di interpretazione
tradizionale di tipo lineare e deterministico, e propone una visione
altrettanto sistemica, che non separa gli effetti dei sistemi nella loro
interazione, ma ne coglie le connessioni degli elementi presenti in un
contesto: la “struttura che connette” è, per l’autore, la condizione che
determina il significato dei fenomeni.
Da questo punto di vista, possiamo affermare che ogni elemento
denotativo del processo d’apprendimento acquista senso all’interno degli
scambi relazionali, che concorrono a dare significato ai contesti di vita.
L’autoformazione si presenta, quindi, come un tessuto di relazioni
dinamiche che riveste l’esperienza di vita della persona, e gli
apprendimenti formali e informali ne rappresentano il filo doppio della
trama. Acquista, inoltre, connotazioni più ampie e fluide la stessa relazione 103 Maturana H.R., Varela F.J., L’albero della conoscenza, op. cit.. 104 Bateson G., Verso un’ecologia della mente, op. cit..
79
tra chi educa e chi apprende, in quanto appartenenti alla stessa storia, alla
stessa “struttura che connette” e dà significato a parole e cose, a gesti e
azioni.
In questa prospettiva, è interessante analizzare due proposte
metodologiche che possiamo considerare affini all’ambito
dell’autoformazione, in cui il contesto assume quelle connotazioni
sistemiche, che fin qui abbiamo analizzato, e la narrazione si rivela una
dimensione determinante della relazione educativa e dei processi di
apprendimento.
3.6 Prima proposta metodologica: l’apprendimento situato e le
comunità di pratica
La prima proposta si riferisce alle cosiddette “comunità di pratica”. Si
tratta di un costrutto sviluppato intorno agli anni Novanta negli Stati Uniti
da Jean Lave e Etienne Wenger.105 I due antropologi sostengono che
l’apprendimento non deve essere considerato come indotto
dall’insegnamento, mera acquisizione passiva di nozioni, quanto, piuttosto,
come un processo di natura attiva, contraddistinto dalla partecipazione e
dal coinvolgimento dei soggetti all’interno di un determinato contesto
sociale d’azione.
L’apprendimento, quindi, non è una costruzione esclusivamente
individuale e mentale ma una pratica sociale e collettiva, in cui le
dinamiche cognitive sono strettamente connesse a quelle sociali.
È importante porre l’accento sulla forte correlazione che questa
concezione implica tra apprendimento e identità, in quanto
l’apprendimento consiste, in buona sostanza, nell’imparare ad essere e ad
agire come membro della comunità. Acquisire nuove capacità di operare
nel mondo coincide con il modificare la propria identità e i propri modelli di
comportamento.
Tale approccio, nato dall’intenzione di recuperare il concetto di
105 Cfr. Lave J., Wenger E., L’apprendimento situato. Dall'osservazione alla partecipazione attiva nei contesti sociali, Erickson, Milano 2006.
80
“apprendistato” per definirlo in modo più rigoroso, fa riferimento alla
cosiddetta teoria dell’“apprendimento situato”. Tale modello enfatizza
la “dimensione tacita, narrativa e situata” dei processi relazionali, che
danno vita all’apprendimento organizzativo come processo costruttivo,
sociale e contestualizzato.
La pratica, ossia il fare in un determinato contesto che struttura e dà
senso all’agire stesso, e la comunità, come la dimensione sociale e
relazionale che determina quel contesto di apprendimento situato,
connettono l’esperienza della persona alla cultura storica, materiale e
sociale di appartenenza.
Tre sono gli elementi che vincolano una comunità di pratica:
- “l’impegno reciproco” tra i membri, legati tra loro da una identità comune
e da rapporti di fiducia all’interno di una determinata struttura sociale;
- “l’intrapresa comune”, che implica la responsabilità condivisa e negoziata
nei suoi diversi aspetti;
- “il repertorio condiviso” di artefatti, strumenti, routine, storie, linguaggi,
credenze e valori che costituiscono la memoria storica della comunità.
L’insieme di relazioni in evoluzione e la continua negoziazione del
significato danno luogo ad una co-produzione di senso in perenne
trasformazione, che influenza e contribuisce ad un’integrazione delle
competenze tra i membri della comunità.
La negoziazione avviene attraverso due processi complementari e
convergenti:
- “la partecipazione”, che comporta un coinvolgimento attivo e
un’appartenenza come identificazione;
- “la reificazione” dei significati negoziati in artefatti, attorno ai quali viene
pianificata la rinegoziazione in vista della produzione di nuovi significati ed
il coordinamento delle azioni future.
Possiamo interpretare tali pratiche come ”storie di apprendimento
condivise”, giacché la concreta realizzazione delle attività implica una
continua rimodulazione delle conoscenze codificate attraverso uno
scambio e un confronto reciproco tra i membri.
81
Una comunità di pratiche si presenta come un sistema autopoietico
aperto-chiuso, essendo il processo di apprendimento connesso anche ai
confini che la delimitano, attraverso i quali si stabiliscono i contatti con
altre comunità e con la complessità dell’ambiente esterno. Non sono
confini di tipo istituzionale, sono piuttosto tracciati in base al grado di
appartenenza dei membri a determinate pratiche. Proprio la loro flessibilità
e permeabilità garantiscono sviluppo e condivisione in sinergia con altre
comunità, sia per le connessioni attuate attraverso gli artefatti, le
tecnologie, i documenti, sia per le connessioni stabilite tramite la
partecipazione di persone che ricoprono il ruolo di intermediari, il cui
compito è quello di trasferire elementi di una pratica da una comunità ad
un’altra.
All’interno della comunità, l’apprendimento è un’attività situata,
caratterizzata da un processo che gli autori denominano “legitimate
peripheral partecipation” (LPP), per mezzo del quale i nuovi arrivati
possono acquisire quel repertorio condiviso di conoscenze e competenze
necessarie per raggiungere una partecipazione piena alle pratiche
socioculturali della comunità e integrarsi gradualmente in essa. Con la LLP
si definisce il “curriculum di apprendimento”, l’insieme delle opportunità
situate per lo sviluppo di una nuova pratica, complementare al curriculum
di insegnamento, organizzato per l’istruzione dei nuovi membri.
La partecipazione a una comunità significa anche imparare il suo
linguaggio, per mezzo del quale apprendere la pratica nelle conversazioni
e nel racconto di storie riguardanti casi particolari o emblematici della
pratica quotidiana. Secondo gli autori, infatti, apprendere una pratica solo
attraverso l’osservazione e l’imitazione comporta il rischio di
un’associazione troppo stretta tra processi lavorativi e di apprendimento,
che limita l’acquisizione di competenze.
Una delle chiavi della LLP è imparare il “parlare della comunità”, che gli
autori intendono in due sensi: il parlare di storie, racconti di casi, tradizioni
della comunità e il parlare all’interno di una pratica per scambiare
informazioni utili per la pratica in corso. Da una parte, quindi, la
82
narrazione, dall’altra ancora, una riflessività nell’azione: due modalità
complementari che insieme contribuiscono al cambiamento dell’identità dei
soggetti attraverso la relazione, e concorrono allo sviluppo ed alla
riproduzione sociale di una comunità.
3.7 Seconda proposta metodologica: lo sfondo integratore
La seconda proposta metodologica è quella dello “sfondo integratore”,106
formalizzata all’inizio degli anni ’80, all’interno de gruppo di ricerca legato
alla cattedra di Pedagogia speciale dell’Università di Bologna. Si colloca
nell’ambito della Pedagogia istituzionale, così com’è stata interpretata in
Italia da Andrea Canevaro. Accanto ad altri strumenti organizzatori del
lavoro educativo-didattico, lo “sfondo integratore” costituisce la possibilità
di porre in atto un “sistema di mediatori” in grado di favorire un contesto
complesso di apprendimento coevolutivo. Si tratta di una metodologia
pensata per favorire un reale processo d’integrazione dei soggetti disabili,
a partire dalla valorizzazione della diversità.
L'ipotesi si è, poi, ampliata in una progettualità più ampia di integrazione
di competenze diverse, di professionalità, di linguaggi, di strumenti e di
percorsi.
Attraverso lo strumento dello “sfondo integratore” s’intende favorire
l'integrazione dell’evento casuale, dell’imprevisto, dell’emergente non
preventivabile in anticipo, trasformandolo in nuovi “nuclei progettuali”
connessi in modo organico, proprio attraverso lo sfondo, ai percorsi
originariamente progettati. In quest’ottica, si ritiene possibile e
vantaggiosa un’interpretazione che ne configuri l’attualità anche oltre
l’approccio educativo previsto per l’età evolutiva. Lo “sfondo integratore”
agisce, in primo luogo, a livello di meta-apprendimenti, sostenendo lo
sviluppo di “strategie di apprendimento costruttive”, in cui i diversi
elementi vengono utilizzati per costruire un'immagine complessa,
scomponibile e ricomponibile secondo il soggetto, il contesto e gli scopi.
106 Cfr. Canevaro A., Lippi G., Zanelli P., Una scuola uno sfondo. Sfondo integratore, organizzazione didattica e complessità, Nicola Milano Editore, Bologna 1988.
83
È sulla dialettica “figura/sfondo” che si fonda la strategia formativa di
questa metodologia. Il riferimento proviene dalla Psicologia della
Gestalt. 107 La riflessione di Paolo Zanelli ci aiuta a comprenderne il
significato.
“L’integrazione personale viene messa in crisi ogni qualvolta si
ha un mutamento così radicale e improvviso dello sfondo tale
da rendere inutilizzabili i valori e le abilità che prima erano
sufficienti a rendere possibile e significativa l’esistenza.
L’unica modalità veramente produttiva di superare la ‘situazione
estrema’, cioè, nei termini da me usati, lo sconvolgimento dei
rapporti figura/sfondo, è una ristrutturazione globale della
propria personalità. Ciò è possibile ponendosi dal punto di
visata di una ‘Gestalt’ più ampia di quella disfunzionale, che ha
provocato la disgregazione. In questo senso, le ‘situazioni
estreme’, i mutamenti improvvisi e sostanziali dello sfondo,
possono costituire una provocazione verso gradi di integrazione
maggiore”.108
Quindi, avvalersi anche nei processi formativi della dialettica
“figura/sfondo” significa riconoscere che il senso delle nostre azioni è
sempre riferito ad un contesto, e adoperarsi per la costruzione di quella
particolare organizzazione contestuale, lo sfondo, appunto, che consenta
la percezione di una “connessione evolutiva” fra i vari momenti della
nostra esperienza.
Lo sfondo, come afferma Paolo Zanelli, si rifà anche al concetto di
“holding”, “contenimento”, proposto da Winnicott per descrivere l’offerta
di risorse ambientali che, a partire dal rapporto con la madre, sono
indispensabili allo sviluppo emotivo del bambino.109
107 Cfr. nota n. 59 p. 46 108 Zanelli P., Uno ‘Sfondo’ per integrare, Cappelli Editore, Bologna 1986, p. 26. 109 Cfr. Winnicott D. W., Sviluppo affettivo e ambiente, Armando, Roma 1970.
84
In seguito, assumerà le forme e i modi dell’intervento educativo, in quanto
favorisce le tendenze che sono all’opera nell’individuo stesso,
conducendolo verso il suo sviluppo.
Canevaro propone una doppia accezione di sfondo, utile riferimento per la
progettazione dei contesti di apprendimento, per l’attenzione che viene
posta sia agli elementi denotativi, sia agli elementi connotativi.
Lo sfondo integratore, infatti, è da intendersi, da una parte, come una
struttura di connessione istituzionale, cioè una particolare organizzazione
di tempi, spazi, mediazioni, regole e comunicazioni, che devono favorire
l'autonoma organizzazione dei soggetti coinvolti; dall'altra, come una
struttura di connessione narrativa, corrispondente all'insieme di
connotazioni, di significati, di pratiche condivise; una vera e propria
narrazione, ideata nel corso dell’azione, che connette nel tempo elementi
diversi delle esperienze vissute dal gruppo.
“Sfondo istituzionale” e “struttura di connessione narrativa” non sono
tipologie diverse di sfondo, al contrario, è necessario che entrambi
coesistano per garantire un sempre maggior livello d’integrazione, di
abilità e di competenze.
L’azione educativa richiede, allora, una continua opera di progettazione
che miri a costituire le condizioni istituzionali perché sia possibile
un'effettiva coevoluzione delle diverse identità del gruppo. È, inoltre, un
impegno attivo di co-costruzione, secondo modalità rigorose e una
costante verifica del feed-back.
All’interno delle attività, imparare e sbagliare sono condizioni
dell’apprendere, in quanto la sospensione del giudizio, il valore dato alla
sperimentazione e alla ricerca, l’aiuto reciproco e il tutoring consentono di
scegliere, sperimentare e scambiare modalità e stili cognitivi diversi. Ciò si
traduce in una maggiore capacità di percorsi non lineari, che facilitano
l'acquisizione di strategie costruttive di apprendimento. In particolare, le
connessioni e gli intrecci che si creano tra e nelle diverse situazioni
consentono il coordinamento fra le singole abilità e lo sviluppo di meta-
apprendimenti.
85
Giampietro Lippi propone tre diverse definizioni dello “sfondo integratore”,
utili da analizzare per l’attualità dei riferimenti a modelli cognitivi e
autoformativi.
Nel primo tentativo di definire lo “sfondo”, Lippi parte dalla differenza
sostanziale tra condizionamento ed educazione. Il condizionamento, che si
rifà al modello comportamentista, tende a produrre un addestramento che
impedisce al soggetto di discriminare in modo intenzionale e consapevole
tra gli elementi dell’ambiente. Al contrario, educare significa che ciascuno
sia in grado di compiere delle scelte, rapportarsi in modo attivo con il
reale, così da poter acquisire una propria identità. Lo stesso Alberto
Bandura,110 studioso neo-comportamentista che ha rivisitato il modello
classico del comportamentismo, sostiene che non si può considerare
l’ambiente come una forza autonoma che forma e controlla
automaticamente il comportamento. È vero, altresì, che il comportamento
produce in parte l’ambiente naturale e, di ritorno, l’ambiente naturale
influenza il comportamento. La sua teoria dell’”apprendimento sociale”
interpreta i progressi regolatori in termini di reciproco determinismo. Nella
vita di tutti i giorni, infatti, lo stesso evento può essere considerato uno
stimolo, una risposta o un rinforzo proveniente dall’ambiente, secondo il
posto nella sequenza da cui si fa cominciare l’analisi. Secondo tale teoria,
l’apprendimento è determinato da reciproche relazioni tra processi
regolatori dell’individuo, i suoi comportamenti e il suo ambiente di vita.
A partire da questi assunti Lippi fornisce una prima definizione di
“sfondo”:
“Lo sfondo è in una situazione pedagogico-didattica, uno
strumento mediatore fra il bambino e il suo apprendimento;
esso, cioè, è uno degli strumenti che un’agenzia educativa
formale di tipo democratico mette a disposizione del bambino
perché egli – senza eccessivi condizionamenti e/o
addestramenti – possa pervenire ad un apprendimento formale
110 Cfr. Bandura A., L’apprentissage social, P. Mardaga, Bruxelles 1980.
86
in un modo il più possibile autonomo e cooperativo, tramite un
sistematico processo evolutivo che lo aiuti a conseguire la
propria identità”.111
Se sostituiamo il termine bambino con quello di persona, possiamo
assegnare tale definizione anche all’ambito formativo, in quanto,
attualmente, nessuna professionalità si sviluppa unicamente in termini di
addestramento. Inoltre, tale definizione si avvicina a quella concezione
prevalente in autori sia europei che nordamericani, i quali, ispirandosi alle
tesi di Gramsci e di Freire, tendono ad identificare la formazione con
l’“educazione contro-egemonica”, cioè con un tipo di azione che, al tempo
stesso, produce cambiamenti strutturali e crea negli stessi soggetti valori
nuovi, aspettative diverse, identità significative e propensione alla
solidarietà. L’attenzione verso la dimensione interattiva e trasformativa dei
processi formativi dà risalto alla dimensione collettiva delle dinamiche. In
tal senso, la formazione, intesa soprattutto come permanente e continua,
è parte integrante dell’azione dei movimenti sociali che aspirano
all’emancipazione e al cambiamento in senso democratico.
Nel concepire una seconda definizione di sfondo, Lippi s’ispira alla
cosiddetta “Pedagogia Istituzionale”, che parte da una critica delle
istituzioni sociali, in quanto costruttive e immodificabili. La ricerca
pedagogica, ci avverte Lapassade, 112 distingue le “istituzioni esterne” alla
classe, di cui si occupa la sociologia dell’educazione, dalle “istituzioni
interne” che, nella classe, rispecchiano l’ambiente esterno: orari,
programmi, regole di lavoro. Così, mentre nella pedagogia tradizionale le
istituzioni si impongono come un sistema che non può essere messo in
discussione, nella Pedagogia Istituzionale, come afferma lo studioso, le
“istituzioni” sono considerate semplicemente dei “pezzi” la cui struttura
può essere modificata. L’insieme delle tecniche istituzionali che si possono
111 Canevaro A., Lippi G., Zanelli P., Una scuola uno sfondo. Sfondo integratore, organizzazione didattica e complessità, op. cit., p. 69. 112 Cfr. Lapassade G., L’autogestione pedagogica / Ricerche istituzionali, Angeli Editore, Milano 1977.
87
utilizzare in una classe, come il lavoro in gruppi, la cooperativa, i
laboratori, e le “istituzioni interne” diventano strumenti, forme
dell’organizzazione del lavoro e degli scambi pedagogici, la cui struttura
può essere modificata. In tal senso, è dimostrato che i cambiamenti sono
accettati e realizzati meglio quando sono decisi dagli stessi interessati.
Assumere la prospettiva della dimensione istituzionale in campo formativo
chiarisce i significati di ciò che accade nell’esperienza di classi e gruppi. È
indicativo, dal punto di vista della riflessione, della ricerca di nuovi
paradigmi e della contaminazione tra saperi, il fatto che esistono profondi
legami fra tre “pratiche istituzionali”: la terapia, la pedagogia e l’analisi.
Tale ricerca partecipata, che assume i contributi di discipline diverse,
favorisce congruenza e specularità fra rapporti degli adulti e quelli dei
bambini. Entrambi, infatti, giocano un ruolo attivo all’interno dei processi
di apprendimento.
Per chi è chiamato a condurre percorsi orientati all’auto-formazione, ciò
significa assumere un punto di vista particolare su due fondamentali
questioni concernenti i processi di insegnamento/apprendimento:
l’”oggetto del controllo” e il “feedback”. Riguardo il primo, Lev N. Landa,113
psicopedagogista americano di origine sovietica, sostiene che, nonostante
il sistema di controllo sia l’insegnante e il sistema controllato lo studente,
quest’ultimo è simultaneamente un “soggetto” capace di agire di propria
iniziativa, di accettare o respingere gli obbiettivi dell’insegnante e di
svilupparne di propri. Chi apprende, insomma, è contemporaneamente un
soggetto controllato e autocontrollato, con una grande capacità di
“autoorganizzazione”. Posta in questi termini, la questione del controllo
porta con sé la necessità di un “feedback” continuo. Per questo motivo,
l’adulto educatore in rapporto ai bambini, come il formatore in rapporto al
gruppo è posizionato all’interno degli eventi, come osservatore
partecipante e non freddo.
113 Cfr. Landa L. N., Regolazione e controllo nell'istruzione. Cibernetica, algoritmizzazione ed euristica nell'educazione, Giunti, Firenze 1985.
88
La disponibilità a modificarsi rappresenta una delle caratteristiche
fondamentali dello sfondo, la cui funzionalità è garantita dalla funzionalità
delle relazioni.
Nell’ultima definizione lo sfondo viene rapportato ed inserito nella
prospettiva della “Ricerca-Azione”. L’analisi dell’autore rivela, come
abbiamo in precedenza constatato per il modello di Schön, la necessità per
i ricercatori di attrezzarsi di metodologie di ricerca congruenti con una
società in continua trasformazione, sempre meno centrata e caratterizzata
da sistemi di valori divergenti. In particolare, la questione riguarda il come
si possa declinare la Ricerca-Azione, che nasce e si sviluppa in ambito
sociologico, nel campo dell’educazione. Anche la Ricerca-Azione mette in
campo capacità riflessivo-narrative indispensabili per una sua realizzazione
significativa ed efficace. Ciò si comprende dal fatto che il suo fondamento
procedurale consiste nella “discussione” tra i membri di un gruppo o di
un’istituzione. I suoi principali dispositivi, infatti, sono:
- la “chiarificazione” delle posizioni sia mediante l’utilizzazione critica
dei metodi di ricerca, degli strumenti di decodificazione e di
creatività, sia l’uso ottimale di informazioni esterne al gruppo;
- il “confronto” delle posizioni e “l’azione collettiva”.
La Ricerca-Azione si realizza, così, in tre momenti:
- il “lavoro preliminare”, in cui si definisce la base della collaborazione
in modo chiaro e preciso, e si identificano e definiscono i problemi
reali;
- la messa in atto dell’analisi”, in cui si individuano altri problemi oltre
a quelli considerati;
- l’”analisi” e la “strategia d’azione”, attraverso le quali si passa
dall’esperienza vissuta alla comprensione di tutto ciò che riguarda
l’azione sociale; ciò permette di raggiungere una specie di “verità
sociale provvisoria”, punto di partenza per elaborare nuove
strategie.
In questa prospettiva lo sfondo istituzionale è attuato da tutte le persone
coinvolte, che cercano di instaurare tra loro una “comunicazione
89
simmetrica”, in modo da abolire la relazione “soggetti/oggetti”, che
solitamente si instaura tra chi insegna e chi apprende. Chi conduce
l’esperienza non persegue lo scopo che gli allievi producano dei risultati
riguardo determinate questioni, ma intende ottenere dei risultati insieme
agli allievi stessi.
Parlare di sfondo significa parlare di “struttura di connessione”, di quella
concezione batesoniana, alla quale ci siamo riferiti nel corso di questa tesi
anche per una particolare lettura del romanzo di formazione. Si tratta di
una struttura di connessione che si realizza sia a livello istituzionale, sia a
livello narrativo. Per gli ideatori della metodologia dello sfondo integratore
è attraverso l’uso del “fantastico” che si costruisce una trama narrativa,
intesa come insieme di significati condivisi e trasformabili che permettono
a più soggetti di riconoscersi parte di una storia comune.
3.8 La funzione del fantastico nell’autoformazione
Appartiene ad una delle ipotesi forti di questa tesi approfondire la
dimensione del “fantastico” e dell’”immaginario”, scoprire quale ruolo
giochi o possa giocare nella costruzione della propria identità, verificarne
le potenzialità per tentare di formulare significative ed efficaci proposte di
metodo. Utilizzeremo il significato dei termini “fantastico”, “immaginario”,
“magia” e “sacro” non come sinonimi, ma come appartenenti tutti a quella
dimensione psichica, che Winnicott definisce lo “spazio potenziale” tra
individuo e ambiente.
“Quando si considerano le vite degli esseri umani ci sono quelli
a cui piace di pensare superficialmente in termini di
comportamento ed in termini di riflessi condizionati e di
condizionamento; ciò porta a quella che viene chiamata terapia
del comportamento. Ma la maggior parte di noi si stanca di
limitarsi al comportamento o alla osservabile vita estrovertita
delle persone che, piaccia loro o no, sono motivate
dall'inconscio. Per contrasto, vi sono quelli che pongono
90
l'accento sulla vita ‘interiore’, che pensano che gli effetti
dell'economia ed anche della stessa indigenza hanno ben poca
importanza in confronto con l'esperienza mistica. L'infinito per
quelli della seconda categoria è al centro del sé, mentre per i
behavioristi che pensano in termini di realtà esterna, infinito è il
raggiungere al di là della luna le stelle ed il principio e la fine
del tempo, tempo che non ha né una fine né un principio.
Io sto cercando di muovermi in mezzo a questi due estremi. Se
noi guardiamo alle nostre vite probabilmente scopriamo che noi
passiamo la maggior parte del nostro tempo né nell'agire né in
contemplazione, ma in qualche altro posto. Io chiedo: dove? E
cerco di suggerire una risposta.”114
Winnicott localizza questa importante area dell’esperienza, appunto, nello
spazio potenziale, che all’inizio unisce e separa al contempo il bambino e
la madre, allorché l’amore materno offre al bambino un senso di fiducia
verso l’ambiente esterno. Infatti, il bambino che ha potuto fare sufficiente
esperienza dell’attendibilità delle cure materne riempirà lo spazio fra sé e
la mamma attraverso un insieme di fenomeni transizionali, che gli
apriranno la via al simbolico e alla cultura. Perché questo spazio potenziale
si crei è necessario che il bambino subisca un processo di disillusione sulla
propria onnipotenza, cioè un progressivo riconoscimento della realtà
esterna nella sua oggettività. Ciò è reso possibile, secondo Winnicott,
dall’aver in precedenza sperimentato l’illusione dell’esistenza di una realtà
esterna corrispondente alla propria capacità di creare.
“Io ho introdotto i termini ‘oggetti transizionali’ e ‘fenomeni
transizionali’ per designare l’area intermedia di esperienza, tra il
dito e l’orsacchiotto, tra l’erotismo orale e il vero rapporto
114 Winnicott D. W., Gioco e realtà, Armando Editore, Roma 1974, p. 180.
91
oggettuale [...] tra l’incapacità e la crescente capacità del
bambino di riconoscere e di accettare la realtà”115
“Quest’area intermedia di esperienza, di cui non ci si deve
chiedere se appartenga alla realtà interna o esterna (condivisa),
costituisce la maggior parte dell’esperienza del bambino, e per
tutta la vita viene mantenuta nella intensa esperienza che
appartiene alle arti, alla religione, al vivere immaginativo e al
lavoro creativo scientifico”.116
Quindi, con il termine “fantastico” possiamo intendere proprio quei
fenomeni che, con il loro carattere di ambiguità, si collocano al confine tra
il piano storico della realtà oggettiva e il piano astorico e temporale della
realtà interna. È necessario che tra questi due piani si instauri una
comunicazione dinamica, altrimenti l’annullamento della realtà esterna
condurrebbe la persona all’autismo, mentre la riduzione della realtà
psichica interna comporterebbe una completa oggettivazione dell’uomo.
Un esempio rappresentativo di questo rapporto è offerto ancora una volta
dalla narrativa. Nel romanzo La “Storia infinita” di Ende,117 l’incapacità di
venire a contatto con il mondo interno degli archetipi, rappresentato dal
mondo dei nomi di Fantàsia, dove ciò che è pronunciato è da sempre, è
causa di un impoverimento di senso per la vita dell’uomo privato delle sue
facoltà fantastiche. La morte della madre di Bastian, il protagonista della
storia, corrisponde alla malattia dell’Infanta imperatrice e al conseguente
rischio di distruzione del suo regno da parte del Nulla. Dall’altra parte, il
perdere contatto con la realtà conduce inevitabilmente all’autismo,
rappresentato dalla città degli imperatori, dove gli uomini si perdono per
sempre in una condizione senza storia e senza memoria. Bastian, offrendo
alla principessa il nome della madre scomparsa riuscirà alla fine a
ricongiungere il mondo della fantasia con quello reale, accettando, così, di
115 Ivi, p. 24 – 26. 116 Ivi, p. 43. 117 Cfr. Ende M., La storia infinita, Salani, Firenze 2013, ed. or. 1979.
92
affrontare la sua nuova esistenza ad un diverso livello di integrazione con
la realtà.
Secondo Bettelheim,118 l’uso del fantastico gioca un ruolo importante a
livello educativo, in quanto permette al bambino di rielaborare il proprio
mondo interno e di rassicurarsi sulla propria consistenza, e favorisce lo
sviluppo di un’intelligenza flessibile. In ogni età della vita dovremmo
essere capaci di cercare e trovare una pur modica quantità di significato
adeguata al modo in cui il nostro intelletto si è già sviluppato, perché il
significato della propria vita non viene raggiunto ad una particolare età,
nemmeno con la maturità. Al contrario, è l’acquisizione di una sicura
comprensione di ciò in cui potrebbe consistere tale significato a costituire
il raggiungimento della maturità psicologica. Per questo sono necessarie
molte esperienze di crescita.
Tra le esperienze più adatte a promuovere la capacità di trovare un
significato nella propria vita, Bettelheim annovera le fiabe. Queste, per lo
psicanalista austriaco, trasmettendo nello stesso tempo significati palesi e
velati, riescono a parlare simultaneamente a tutti i livelli della personalità
umana, comunicando in modo tale da raggiungere sia la mente ineducata
del bambino sia quella del sofisticato adulto. Le loro trame rivelano le
pressioni dell’Es, e suggeriscono indirettamente dei modi per soddisfare
quelle che sono in accordo con le richieste dell’Io e del Super-io.
“Per poter risolvere i problemi psicologici del processo di
crescita – superando delusioni narcisistiche, dilemmi edipici,
rivalità fraterne, riuscendo ad abbandonare dipendenze infantili,
conseguendo il senso della propria individualità e del proprio
valore e quello di dovere morale – un b. deve comprendere
quanto avviene nella sua individualità cosciente in modo da
poter affrontare anche quanto accade nel suo inconscio. Egli
può giungere a questa conoscenza, e con essa alla capacità di
118 Cfr. Bettelheim B., Il mondo incantato, Feltrinelli, Milano 1977.
93
affrontare se stesso, non attraverso una comprensione
razionale della natura e del contenuto del suo inconscio, ma
familiarizzandosi con esso, intessendo sogni ad occhi aperti:
meditando, rielaborando e fantasticando intorno ad adeguati
elementi narrativi in risposta a pressioni inconsce. Così facendo,
il b. adegua un contenuto inconscio a fantasie consce, che poi
gli permettono di prendere in considerazione tale contenuto. Le
fiabe offrono nuove dimensioni all’immaginazione del b.,
dimensioni che egli sarebbe nell’impossibilità di scoprire se
fosse lasciato completamente a se stesso. La forma e la
struttura delle fiabe suggeriscono al b. immagini per mezzo
delle quali egli può strutturare i propri sogni ad occhi aperti e
con essi dare una migliore direzione alla propria vita.”119
Tale processo vale, ad altri livelli, anche per l’adulto. Lo stesso Bettelheim
descrive come nella medicina indù tradizionale si assegna ad una persona
psichicamente disorientata una fiaba che interpreta il suo particolare
problema. Meditando su di essa il paziente riesce a visualizzare la natura
delle sue difficoltà e la possibilità di superarle. Il contenuto della fiaba non
riguarda direttamente la vita del paziente, che, in tal caso, sarebbe indotto
a seguire un tipo di comportamento imposto. Proprio la natura non
realistica di questi racconti è l’espediente che permette di chiarire i
processi interiori della persona, in modo che il paziente, meditando sulle
implicazioni della storia nei suoi riguardi, trova da solo le proprie soluzioni.
Il fantastico, quindi, come ci suggeriscono Fonzi e Negro Sancipriano,120
può essere interpretato come uno strumento di “riassorbimento del
negativo”, che permette di rassicurarsi sulla propria consistenza per
tornare alla realtà con una maggior fiducia nelle proprie capacità di poterla
affrontare. Le autrici rilevano due leggi fondamentali del pensiero magico:
119 Ivi, p. 12 – 13. 120 Cfr. Fonzi A., Negro Sancipriano E., Il mondo magico nel bambino, Einaudi, Torino 1979.
94
- la “commutabilità dei termini” dell’operazione magica, per cui tra i
medesimi non esiste un rapporto “significante-significato”. L’efficacia
magica consiste, appunto, nel commutare i due piani, cosicché operare
sull’uno implica operare sull’altro.
- la “giustapposizione dei termini”, per la quale non esiste alcuna
relazione obiettiva o causale tra due fenomeni presi in considerazione.
Il loro accostamento, determina delle nuove unità, che sono regolate
all’interno, non da rapporti spazio-temporali, bensì “partecipazionistici”.
È un criterio di concettualizzazione del reale che non si esaurisce con il
superamento dell’infanzia, ma costituisce una modalità di interazione con il
mondo propria anche dell’adulto.
Nell’ambito etnologico, Ernesto De Martino121 ha interpreto la permanenza
del magico nel mondo adulto come un elemento che permette di
“destorificare” la realtà, consentendo il passaggio dal “così” al “così come”,
dal piano storico, al piano metastorico, che riattualizza quella che lo
studioso definisce la “presenza al mondo”, in particolare per coloro che si
trovano sempre al di fuori della storia.
Per Gilbert Durand,122 allievo di Bachelard, l'immaginario è instauratore
della vita psichica nel suo insieme, partecipa dunque della conoscenza e
del sapere, siano formali o meno. Riprendendo la definizione di “mitema”,
coniata da Lévi Strauss, Durand propone una vasta e ambiziosa
cartografia dei fondamentali simboli che caratterizzano le culture
dell’umanità. Secondo questo studioso, i mitemi sono alla base non solo
delle creazioni artistiche e dell’elaborazione dei diversi stili, ma anche della
produzione di oggetti di uso corrente. I miti, infatti, grazie al loro
metalinguaggio, integrano e rendono presenti nella vita di tutti i giorni gli
elementi fondanti, eterni, sacri, gli archetipi dell’esistenza. Durand ha
ordinato i simboli fondamentali dell’umanità secondo due categorie:
121 Cfr. De Martino E., Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Bollati Boringhieri, Torino 2007. 122 Cfr. Durand G., Le strutture antropologiche dell’immaginario, Edizioni Dedalo, Bari 1983.
95
- la “distinzione” che riguarda il “regime diurno”, che ha come schema le
antitesi e i cui archetipi sono puro/impuro, chiaro/scuro;
- l’”unione” o la “confusione” che riguardano il “regime notturno” fondato
sullo schema della discesa e della penetrazione, i cui archetipi sono
profondità e intimità.
La “fantastica trascendentale” di Durand appare come una rifondazione
del metodo delle scienze sulla base del repertorio archetipo che ha da
sempre presieduto alla costruzione di ogni sapere, anche di quello
scientifico.
Nel corso degli anni Durand ha sviluppato una vera e propria
“epistemologia dell’immaginario”,123 secondo la quale, l’immaginario non è
un’oscura dimora di credenze illogiche o folli, ma una vera e propria
matrice delle rappresentazioni di una società. Alla luce della sua analisi, i
miti prometeici e faustiani di lotta contro le tenebre, di conquista e di
progresso della storia, che hanno caratterizzato il XX secolo, sono
tramontati. La nostra società postmoderna, dell’incertezza e del disincanto
è contraddistinta da un suo regime dell’immaginario, più “notturno”,
legato alla soggettività, all’intimità che, però, non deve per forza spingerci
a rifugiarsi in sé stessi. Un rapporto più dinamico tra gli aspetti
esperienziali e soggettivi con quelli più razionali e istituiti può consentirci,
altresì, di affrontare la pluralità e la molteplicità dell’esistente come nuove
opportunità, e ispirare la ricerca di equilibri diversi, tenendo in
considerazione gli impensati della coscienza, le dinamiche
dell’inconsapevolezza e del tacito.
Non ci deve, quindi, scoraggiare la sensazione di precarietà, né il timore
della mancanza di approdi sicuri. Può aiutarci a meglio comprendere
l’attuale condizione, e a rilanciare le nostre prospettive future, la metafora
che Bateson trae dalla ballata del Vecchio Marinaio di Coleridge, attraverso
123 Durand G., L'immaginario: scienza e filosofia dell'immagine, Edizioni Red, Como 1996.
96
la quale lo studioso illustra e chiarisce le sue ultime tesi riferite in
particolare all’idea di “sacro”.124
“Il poemetto narra di un vecchio Marinaio che intrattiene un
invitato ad una festa di nozze per raccontargli una sua
avventura. Il marinaio racconta di come la nave sulla quale
viaggiava, dopo aver attraversato l’Equatore, fu spinta da una
tempesta verso i ghiacci del Polo Sud. All’improvviso apparve
un albatro, accolto dall’equipaggio come presagio di buona
fortuna. Tuttavia, il marinaio uccide l’uccello senza motivo. Da
quel momento un maleficio viene gettato sulla nave che dopo
esser stata spinta da un vento favorevole verso l’Equatore, di
colpo si arresta in una calma mortale. I marinai a bordo stanno
morendo di sete, quando appare una nave fantasma con a
bordo la Morte e la Vita-nella Morte. I due si giocano ai dadi la
vita dell’equipaggio, la Morte vince i compagni del Marinaio, che
muoiono uno dopo l’altro. Lui sopravvive ma ossessionato dalla
visione dei marinai morti, si ritrova naufrago con l’albatro
appeso al collo. Ad un tratto scorge dei serpenti marini dai
colori splendenti che si agitano in mare. Mosso da un
improvviso sentimento d'amore, benedice le creature marine,
che sono segno di vita. Dio, impietosito dal gesto del marinaio,
stacca dal suo collo l’uccello che si inabissa, le stelle
ricominciano a muoversi e il vento a spirare. Durante la notte
un gruppo di spiriti angelici penetra nei corpi morti dei marinai,
che tornano a svolgere le proprie mansioni sulla nave. Mentre
questa procede sulla rotta, lo ‘spirito del polo sud’
improvvisamente cambia rotta facendo cadere il marinaio, che
perde i sensi, per ritrovarsi nel suo paese natale. L'uomo è
soccorso da un battello, in cui si trova un eremita, verso il quale
124 Cfr. Bateson G., Bateson M.C., Dove gli angeli esitano. Verso un’epistemologia del sacro, Adelphi, Milano 2002.
97
il marinaio prova un forte desiderio di raccontare la sua
avventura. Una volta rivelato il suo vissuto, l'uomo si sente
sollevato dall'angoscia cui le vicende l'avevano condotto. Di
tanto in tanto però viene colto dallo sgomento e deve andare a
raccontare ad altri la sua storia, affinché tutti imparino, grazie
al suo esempio, ad amare e a rispettare ogni creatura di Dio”.
Bateson fa notare come la “salvezza”, di cui tratta il poemetto, nasce dal
fatto che la benedizione del marinaio agli esseri viventi sia sorta
improvvisamente, senza alcuna finalità; “senza sapere”, dice, infatti, il
marinaio.
“Oltre l'ombra della nave
Io spiavo i serpenti marini
[...]
Felici cose viventi! Lingua non c'è
Che possa dichiararne la bellezza!
Un'acqua d'amore mi fiottò nel cuore
E senza sapere le benedissi:
Certo il mio santo ebbe pietà di me,
Ed io le benedissi, senza sapere”125
È così che Bateson tenta di definire la sua idea di sacro, rapportandola
all’esperienza conoscitiva dell’uomo. Egli ritiene, infatti, che la “fede” sia
una precondizione del conoscere.126
“Se guardo attraverso i miei occhi corporei e vedo un’immagine
del sole che sorge, la validità delle proposizioni ‘guardo’ e ‘vedo’
è di genere diverso di quella di qualunque conclusione sul
125 Coleridge S. T., La ballata del vecchio marinaio, Editore Clinamen, Firenze 2010. 126 La fede che intende Bateson non ha nulla a che fare con la fede religiosa. Si tratta, piuttosto, di una fede nel nostro processo mentale, e proprio per questo deve essere difesa. Tale fede in una mente sana, è involontaria e inconsapevole.
98
mondo esterno alla mia pelle. ‘Vedo un sole che sorge’ è una
proposizione che in effetti, come sottolinea Cartesio, non può
essere messa in dubbio, ma l’estrapolazione da qui al mondo
esterno (‘C’è un sole’) non è mai certa e deve essere sostenuta
dalla fede”.127
Bateson ascrive il sacro a quell’aspetto metaforico che lo caratterizza e
connette con la danza delle parti interagenti. Il sacro acquista, così, un
significato ecologico, in quanto non cerca di consegnarci alcuna verità, al
contrario, amplia le possibilità della ricerca, fornendo una struttura e un
metodo alle domande.
“Si tratta di una ‘religione ecologica’, coerente con i principi
della cibernetica, della teoria dei sistemi, dell’ecologia e della
storia naturale”.128
Questa forma di religione richiede, due condizioni: non mettere limiti alla
propria hybris nel porre le domande e l’accettare con umiltà le risposte. Al
contrario, gran parte delle religioni dimostrano scarsa umiltà nell'accettare
le risposte, ma grande timore nel porre le domande. Accanto al “sacro
ecologico”, ci ricorda Manghi, 129 Bateson rivendica l'esistenza di
un'”ecologia del sacro”, che riguarda l'essere-in-relazione, in quanto il
punto di vista soggettivo non coinciderà mai con la totalità e mai riuscirà a
cogliere la Verità del Tutto.
Con la ballata del Vecchio Marinaio Bateson ci avverte che il processo di
guarigione, lo scampato naufragio, rischia di essere intralciato da ogni
conoscenza certa e previsione sicura dei possibili effetti. D'altronde,
afferma Bateson, se avessimo coscienza di tutti i nostri processi percettivi,
saremmo incapaci di reagire alle nostre stesse sensazioni. Nella nostra 127 Bateson G., Bateson M. C., Dove gli angeli esitano. Verso un’epistemologia del sacro,, op. cit., p. 148. 128 Ivi, p. 203 129 Cfr. Manghi S., Il gatto con le ali. Tre saggi per un'ecologia delle pratiche sociali, Asterios, Trieste 2000.
99
ricerca di significati è, allora, auspicabile mantenersi flessibili e aperti
anche agli effetti imprevedibili, perché limitare le nostre conoscenze e
abilità a ciò che abbiamo previsto non ci difende dagli imprevisti
dell’esistenza.
3.9 Identità, immaginazione e immaginario sociale
Solo sviluppando la nostra capacità d’immaginazione sarà possibile, allora,
fronteggiare l’incertezza degli scenari futuri delle nostre esistenze.
Un’immaginazione che, proprio perché appartenente alla nostra
costituzione neurobiologica, si alimenta di un immaginario potente,
specchio delle nostre emozioni, di ciò che suscita in noi piacere o
dispiacere. In questo senso, corriamo sempre il rischio che la forza delle
immagini trasformi i sentimenti in passioni fino ad annullare lo spirito
critico. L’immaginario, si sa, suscita un fascino irresistibile, che può
trascinare anche verso l’idolatria, il delirio politico o religioso.
Quelle che si definiscono rappresentazioni sociali derivano da diversi
ambiti: da immagini e ricordi personali così come da memorie collettive.
Originando da diversi contesti, pur implicandosi tra loro, assumono
differenti funzioni: a livello dell’individuo operano come immagini di
vissuti, di fantasmi; sul piano collettivo rispondono al nostro bisogno di
racconti e di miti, ma producono anche credenze, pregiudizi e stereotipi.
Sviluppandosi come costrutti mentali e contenuti dei pensieri nel rapporto
della coscienza con l’inconscio, rappresentano, quindi, l’interfaccia
dell’individuale con il sociale. Per questo motivo, determinate
rappresentazioni appaiono in un certo momento storico e in una data
società, nell’ambito di specifici contesti politici e culturali. Come
rappresentazioni sintetiche della scena sociale contribuiscono a modellare
le figure che in essa svolgono ruoli, a definirne le funzioni, a delinearne i
personaggi, coi quali ci identifichiamo e sui quali proiettiamo i nostri
atteggiamenti. In questo senso, regolano i processi cognitivi e gli stessi
prodotti della conoscenza. Infatti, è proprio mediante le rappresentazioni
100
sociali che cogliamo i criteri di comprensione del mondo e il ruolo che in
esso vi svolgiamo.
L’immaginario nella società globalizzata è senz’altro amplificato dalle
nuove tecnologie informatiche con la loro capacità di generare esperienze
che travalicano il limite oggettivo tra gli eventi e i loro racconti. Secondo
Arjun Appadurai,130 la globalizzazione postmoderna più che omogeneizzare
le differenze, ingloba contesti locali in sfere sempre più ampie.
In questa prospettiva, l’immaginario attraverso la “transfrontalierità” delle
comunicazioni, genera flussi che si integrano nell’esperienza e nell’identità
degli individui.
A sostegno di questa tesi, lo studioso porta, tra gli altri, l’esempio dei
filippini, che ascoltano e imparano a memoria la musica pop americana
meglio degli americani stessi, nonostante la loro vita sia sganciata da ogni
referenzialità alla vita degli americani.
Sono le stesse dinamiche sociali che producono una “deterritorializzazione”
del locale, consentendo a migranti e rifugiati di reiventarlo nelle sfere
pubbliche e diasporiche in altre parti del mondo. Accade, così, che la
polverizzazione degli stati nazionali, unita ai flussi globali, genera
panorami caratterizzati da una “disgiunzione” tra immaginario e luogo di
vita, diventato un “deposito sincronico di scenari culturali”. Appadurai
definisce questo continuo processo di reinvenzione “nostalgia senza
memoria”. In questa formula efficace e assai evocativa, il sociologo
indiano include tutte quelle forme con le quali i media di massa e la
pubblicità inducono i consumatori a sentire la mancanza di cose che, in
realtà, non hanno mai perduto. Sono sensazioni di durata, passaggio e
perdita che riscrivono le storie di vita di persone, famiglie, gruppi etnici e
classi sociali attraverso, appunto, una nostalgia immaginata per cose ed
eventi mai accadute loro. In tal modo, s’inverte quella logica temporale
dell’immaginazione, mediante la quale immaginiamo quel che potrebbe
accaderci in futuro,
130 Cfr. Arjun Appadurai, Modernità in polvere, Raffaello Cortina Editore, Milano 2012.
101
“creando desideri più profondi di quelli che potrebbero suscitare
la semplice invidia, l’imitazione o la cupidigia”.131
Tale sentimento fa il paio con quella “nostalgia per il presente”, che lo
rappresenta in forme di maniera come un passato che ritorna da un
immaginario futuro.
“Virgolettando il presente in questo modo particolare,
rendendolo così già oggetto di attenzione per la sua dimensione
storica, queste immagini collocano il consumatore in un
presente già periodizzato, preda quindi ancor più disponibile per
la rapidità della moda. Comprate oggi, non perché altrimenti
sarete fuori moda, ma perché presto lo sarà l’epoca in cui
vivete.”132
L’immaginazione, per Appadurai, non si può più considerare né come pura
fantasia, né come via di fuga dalla realtà, né come esclusivo passatempo
per èlites, né pura contemplazione. Essa è entrata a pieno diritto nella
logica del lavoro mentale quotidiano. È diventata un campo organizzato di
pratiche sociali, una forma di costruzione socio-culturale e in questo senso
anche e soprattutto di continua decostruzione.
3.10 Identità e individualizzazione nella postmodernità
Quella che possiamo considerare una virtualità incarnata dell’immaginario
sociale ci spinge ad accettare credenze e valori indotti, ad assumere ruoli
e comportamenti che rispondono più alla domanda di consenso, che al
bisogno di relazioni significative. Inoltre, ci avverte Lasch, 133 proprio
l’eccessiva liberalizzazione dei modelli culturali dominanti condiziona un
individualismo esasperato, un edonismo diffuso il cui primato è
l’ossessione per l’autorealizzazione. Quest’ultima, come risposta alla
131 Ivi, p. 103 132 Ivi, p. 103 - 104 133 Cfr. Lasch C, La cultura del narcisismo, Bompiani, Milano 1995.
102
perdita di un’identità collettiva, trasforma gli stili e i comportamenti della
vita quotidiana, anteponendo all’esigenza di dare senso e significato alle
nostre esistenze valori come il culto del corpo, il consumismo omologante
e la deresponsabilizzazione sociale.
Così Ehrenberg, in un testo dal titolo emblematico, “La fatica di essere se
stessi”, 134 descrive un individuo che, pur caratterizzato dalla propria
fragilità, è obbligato ad essere performativo, in una società che lascia a
ciascuno il compito di definire la propria vita. In un contesto in cui
l’individuo si ritrova schiacciato dalla necessità di mostrarsi sempre
all’altezza, la depressione diffusa si rivela come la contropartita che
ciascuno di noi è costretto a spendere per diventare se stesso. L’inibizione,
legata a quest’esperienza soggettiva di scacco nella realizzazione
personale e sociale, si costituisce come una modalità di vivere
incompatibile con l’immagine che la società richiede a ciascuno di noi.
Il nuovo orientamento verso il privato e l’intimità non ha nulla a che
vedere con quell’individualismo che abbiamo descritto analizzando i
romanzi di formazione dell’ottocento. Quel “privato” aveva perso la sua
identità soggettiva per diventare oggetto condizionato del mercato e delle
istituzioni sociali. Attualmente, l’attenzione al privato si presenta, al
contrario, da un lato nel rifiuto di una socializzazione programmata,
dall’altro come pretesa di essere soggetto. L’impossibilità per il singolo
individuo di contrastare il “macro” sociale, lo costringe a difendersi nel
“micro”, nel tentativo di riconfigurare un nuovo approccio al mondo.
Questo nuovo cammino della “soggettività” si compie in un mondo
segnato da una dimensione di eccessi e di de-simbolizzazione.
La “società ipermoderna”, come la descrive M. Augé,135 caratterizzata da
una sovrabbondanza di eventi reali e virtuali, ci induce a consumare i
molteplici segni, messaggi e oggetti che circolano ogni giorno nel mondo.
Questa stessa sovrabbondanza potrebbe ispirarci nuovi significati,
134 Cfr. Ehrenberg A., La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Einaudi, Torino, 1999. 135 Cfr. Augé M., Non luoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano 2005.
103
suggerirci associazioni differenti da quelle imposte dal mercato, dalle
mode, dai media. Da questo punto di vista l’”iper” può essere letto come
un dato che segnala un eccesso, ma anche come una prospettiva che va
al di là di norme e quadri di riferimento definiti.
Secondo Beck136 l’individualizzazione è la conseguenza di un processo di
abbandono delle grandi strutture della modernità, di
“detradizionalizzazione”. L’ipermodernità ci presenta un nuovo tipo di
individuo, che è sì più libero e autonomo, ma anche più solo, proprio
perché libero da quei vincoli di appartenenza famigliare, comunitaria, di
classe, tramite i quali declinava le sue scelte, ricavava e incrementava le
proprie risorse, costruiva la sua storia e la sua identità. Una volta sciolto
da tali legami, la sua vita dipende sempre più dalle proprie scelte e
decisioni, in un contesto dove prevedere diventa sempre più difficile. Ma
proprio la grande complessità delle interazioni sociali, della
frammentazione delle responsabilità e delle situazioni, gli impedisce di
essere realmente protagonista della scena sociale, di valutare l’efficacia, il
valore e le conseguenze delle sue azioni.
L’individualizzazione può essere interpretata secondo diversi orientamenti.
Come ci suggeriscono Benasayag e Schmit:
“La questione è sapere se, considerando l’insieme delle persone
che compongono una società, la somma delle loro singole
‘risultanti’ determini, come pretende l’ideologia utilitarista, una
serie di esseri isolati gli uni dagli altri che intrecciano tra loro
relazioni di tipo contrattuale e utilitaristico. O se invece tale
insieme risulti costituito da individui che, come isole nel mare,
sono sicuramente irrimediabilmente isolati, anche se a ben
vedere queste ‘isole’ sono in effetti le pieghe del mare”.137
136 Cfr. Beck U., La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2013. 137 Benasayag M., Schmit G., L’epoca delle passioni tristi, op. cit., p. 55.
104
La separazione tra gli individui consente a ciascuno di avere un’identità e
una storia unica e singolare, ma al tempo stesso si fonda su una base
comune, che costituisce il fondamento di ogni differenza. Secondo gli
autori, le strutture dell’organizzazione sociale sono forme
“sufficientemente buone” in senso winnicottiano, corrispondenti ad una
visione del mondo, ad un insieme di determinanti culturali, geografiche,
storiche, biologiche, che ci portano a vivere e ad organizzarci secondo
determinate forme e strutture. Nello stesso tempo tale ordine è vissuto da
ciascun individuo come qualcosa di molto intimo e segreto. In questo
senso, il mondo non comincia sulla soglia di casa, ma al suo interno; il
privato e l’intimo hanno una corrispondenza con l’ordine storico sociale di
quel determinato momento del divenire umano di una civiltà.
“Di conseguenza, credere troppo alla ‘separatezza’ del privato
significa confondere la griglia di lettura con ciò che consente di
leggere o, ancora, la mappa con il territorio”.138
Per Benasayag e Schmit l’identità e l’autentica autonomia della persona si
realizzano con la consapevolezza della propria molteplicità e si alimentano
attraverso la costruzione di legami significativi con gli altri, al di là di ogni
utilitarismo e lotta per il dominio. Similmente per Serres,139 la questione
dell’identità non va confusa con le molteplici “appartenenze” dei soggetti.
Le scienze logiche e razionali hanno per lungo tempo identificato l’identità
come “stato in luogo”, separando l’unità personale dalle particolarità
funzionali dell’esistenza come la professione, il genere, la razza. La loro
separatezza era funzionale al controllo e al dominio economico, sociale e
istituzionale. L’identità personale è in realtà un processo evolutivo aperto,
una “ominescenza”, come la definisce il filosofo. Ciò che ci caratterizza è
proprio la pluralità e la complessità di appartenenze simultanee e
successive, che possono essere più o meno integrate o dissonanti. Tale 138 Ivi, p. 56 139 Cfr. Serres M., Non è un mondo per vecchi. Come i giovani rivoluzionano il sapere, Bollati Boringhieri, Torino 2013.
105
identità plurale, nutrendosi di diverse confluenze e di diversi rapporti, ci
permette di condividere esperienze, di partecipare a differenti gruppi e
culture. Il rischio è di ripiegarsi su di un’unica appartenenza, di costringere
la propria identità ad una sola dimensione personale, sociale, etnica.
3.11 Per un apprendimento trasformativo
Di fronte a quella che alcuni definiscono una mutazione antropologica,
appare urgente comprendere le direzioni di senso dell’individuo nella
società contemporanea, e riflettere sulla necessità di reinterpretare il
rapporto tra microcosmo individuale e macrocosmo sociale. Dal punto di
vista di questa tesi si tratta di ricercare modalità efficaci per produrre
“altre narrazioni”, tramite le quali analizzare, leggere e comprendere le
dinamiche sociali attuali, a patto che si ricerchino “nuovi narratori” e
diverse “forme narrative”.
Ciò è tanto più urgente per chi opera negli ambiti dell’educazione,
dell’aiuto alla crescita, della prevenzione, dell’assistenza sociale. Per
costoro è importante chiedersi se le narrazioni sulle quali si è costituita la
propria formazione, e con le quali si costruiscono le proprie prassi
professionali sono tuttora “sufficientemente buone” per aiutare altri nella
formazione della propria identità plurale e molteplice, ed efficaci per
leggere, comprendere e intervenire nelle svariate forme e modi in cui si
presenta il disagio, la frammentazione dell’identità nella società del rischio
e dell’incertezza.
L’illusione che si possa diventare più intensamente se stessi al di fuori
della relazione con gli altri è l’inganno di un esasperato individualismo. È,
altresì, più attendibile l’idea che la formazione della persona implichi lo
sviluppo della coscienza civile e della partecipazione alla vita sociale e
politica in una dimensione più ampia di qualsiasi sbandierato localismo.
Ciò comporta l’assunzione di forme di responsabilità riguardo le
conseguenze derivanti dalle nostre azioni e dalle nostre scelte, anche al di
là di quanto sia possibile verificare direttamente. L’azione formativa
rivendica, quindi, una dimensione ecologica e progettuale, lontana dal
106
proposito di un mero consumo culturale, verso cui il carattere
prevalentemente consumistico dei nostri sistemi sociali rischia di
orientarla. Infatti, più o meno esplicitamente, gli individui vengono formati
o riformati per svolgere il ruolo di consumatori. Ciò determina, come
afferma Bauman,140 una pericolosa conseguenza antropologica, in quanto,
come le merci, anche gli individui devono rendersi attraenti e desiderabili
per potersi sentire parte della società in cui vivono. Sempre secondo il
sociologo, assumere lo statuto delle merci significa per gli individui
assumere anche quell'irreversibile tendenza verso l'obsolescenza che
caratterizza le merci stesse. Così, gli individui sono costretti a essere
sempre flessibili e disponibili come consumatori ma anche come merci.
Pensare a se stessi come a merci implica il percepire come simili alle merci
anche gli altri, i quali, se non corrispondono a ciò che si desidera, se
smettono di essere soddisfacenti sono passibili di essere rapidamente
sostituiti, esattamente come avviene per un prodotto difettoso oppure
obsoleto.
In questo quadro sociale, l’azione formativa da dispiegare si configura
come una vera e propria decostruzione dei modelli dominanti; e si
caratterizza per la dimensione partecipativa e la valorizzazione della
persona intesa nella sua molteplicità e nella sua capacità di costruire
legami, alternativa all’idea di individuo frammentato e separato dagli
altri.141
In una prospettiva di autoformazione occorrerà, allora, riesaminare i propri
“quadri di riferimento”, in quanto spesso non è sufficiente interpretare le
situazioni e gli eventi osservandoli da prospettive diverse e riflettendo su
di essi; occorre modificare gli stessi paradigmi che modellano le nostre
visioni della realtà.
A questo proposito, Mezirow 142 pone l’accento sull’individuazione,
attraverso l’analisi dell’apprendimento pregresso, dei cosiddetti “schemi di
significato”. Questi, il più delle volte taciti e inconsapevoli, vengono
140 Cfr.: Bauman Z., Consumo, dunque sono, Laterza Bari 2008. 141 vedi nota n 28 di p. 142 Cfr. Mezirow J., Apprendimento e trasformazione, Raffaello Cortina, Milano 2003.
107
interiorizzati nel tempo e sostengono l'intelaiatura della conoscenza, così
come l’abbiamo organizzata, agendo, potremmo dire, come degli
impensati. È necessario che tali schemi siano scoperti e disambiguati per
innestare una trasformazione intenzionale di quelle “prospettive di
significato” connesse agli schemi stessi, per poter realizzare
un apprendimento di tipo trasformativo.
Ciò che interessa Mezirow è proprio approfondire la dimensione del
“significato dell’apprendimento” degli adulti; sviscerare il modo in cui tale
significato viene costruito, validato e riformulato; individuare le condizioni
sociali che influenzano i processi di elaborazione critica delle esperienze.
Essendo prigionieri della nostra storia personale, per quanto possiamo
essere abili a dare un significato alle nostre esperienze, tutti noi operiamo
entro gli orizzonti fissati dal modo di vedere e di capire, che abbiamo
acquisito attraverso il nostro “apprendimento pregresso”.
Il significato che diamo a ciò che apprendiamo è sempre il frutto di
un’interpretazione dell’esperienza, e ne ricerchiamo la coerenza tramite la
relazione e la comunicazione con gli altri. Rendiamo, così, accettabili le
nostre interpretazioni utilizzando quegli schemi impliciti di significato che
hanno funzionato fino ad allora. Il problema si pone nel momento in cui
nuovi apprendimenti richiedono l’elaborazione di nuovi schemi, in quanto
quelli che usiamo automaticamente per leggere le nuove conoscenze non
sono consapevoli. Quindi, non riusciamo a decidere di cambiarli per
adattarli al nuovo apprendimento, perché questi schemi sono funzionali
alle nostre prospettive di significato.
Gli “schemi di significato” sono costituiti, secondo l’autore, dalle
conoscenze, dalle credenze, dai giudizi di valore e dai sentimenti che si
rivelano nell’interpretazione e consistono nelle manifestazioni concrete dei
nostri orientamenti abituali. Essi sono alla base delle nostre attese, che
costituiscono la molla su cui poggiano le “prospettive di significato”.143
143 Le prospettive di significato sono paragonabili ai paradigmi o schemi di riferimento personale, con le quali Thomas Kuhn descrive le trasformazioni paradigmatiche che intervengono nelle conoscenze scientifiche.
108
La focalizzazione delle nostre aspettative ordina selettivamente ciò che
apprendiamo e il modo in cui apprendiamo.
Per trasformare le proprie prospettive di significato in vista di nuovi
apprendimenti, occorre attivare una riflessività intenzionale, sistematica e
aperta al cambiamento, che non eluda l’incertezza che ci coglie di fronte a
nuove esperienze conoscitive. Più spesso, purtroppo, siamo portati ad
evitare la fatica di pensare, soprattutto quando la riflessione implica la
necessità di affrontare la concezione che abbiamo di noi stessi; allora, per
evitare di mettere in crisi la nostra identità preferiamo ricorrere
all’autoinganno.
Le prospettive sono condizionate, limitate o distorte da diversi tipi di
fattori. L’autore identifica tre tipi di prospettive di significato al cui interno
formiamo l’esperienza:
- la “prospettiva epistemica” riguarda quelle immagini, teorie e
rappresentazioni che ogni soggetto ha costruito sulla conoscenza e
sul proprio processo conoscitivo. All’interno di tale prospettiva si
costruiscono esperienze di attribuzione di senso e significato di tipo
epistemico, cioè quell’insieme di schemi di significato e di presupposti
che vincolano l’attività del soggetto nel conoscere e produrre
conoscenza e nella rappresentazione del processo conoscitivo;
- La “prospettiva psicologica” determina quegli schemi di significato
per mezzo dei quali percepiamo noi stessi all’interno di un contesto o
in riferimento ad un compito. È interessante notare che secondo
Mezirow questa prospettiva origina dalle proibizioni e vincoli imposti
durante l’infanzia dai genitori. Per questo motivo può generare stati
emotivamente rilevanti ogni qual volta la persona sperimenta
l’incapacità di uscire dagli schemi di significato posseduti, e si trova
nella condizione di accettare un’incongruenza di senso o tentare di
risolverla;
- la “prospettiva sociolinguistica” concerne quelle premesse
sociolinguistiche, che condizionano i modi di interpretare
l’esperienza. Tali premesse si sviluppano nel corso del processo di
109
socializzazione in cui siamo immersi fin dalla nascita. In questa
prospettiva, ritroviamo i segni dell’interiorizzazione di tutta una serie
di schemi linguistici-interpretativi definiti sul piano sociale e culturale.
La loro rielaborazione implica la possibilità di tramutarli in oggetto di
conoscenza e di riflessione-critica.
Sono queste le variabili che influenzano buona parte delle persone poste
di fronte al mutamento di paradigma culturale che caratterizza la nostra
epoca. Le reazioni al passaggio dalla cultura della “linearità” alla cultura
della “complessità” sono spesso improntate a meccanismi di difesa, quali
la negazione, o l’evitamento delle nuove problematicità, oppure la loro
rapida assimilazione ai vecchi schemi di significato, in modo che tutto
rimanga immutato e non divenga minaccioso per il sé personale e
professionale.
Secondo Mezirow, un apprendimento di tipo trasformativo è il solo in
grado di consentire l’evoluzione dell’adulto verso una dinamica di
cambiamento; ma non tutto l’apprendimento è trasformativo. Solitamente
impariamo semplicemente aggiungendo altre conoscenze ai nostri schemi
di significato, attraverso i quali interpretiamo le nostre esperienze.
L’autore individua quattro forme di apprendimento adulto:
- la prima forma riguarda l’apprendere attraverso gli schemi
interpretativi già in nostro possesso, che possono essere rielaborati per
adattarsi alla nuova situazione, oppure impiegati subito senza bisogno
di alcun adattamento. In tal caso, a cambiare è solo la particolare
risposta;
- la seconda forma d’apprendimento comporta la formazione di un
nuovo schema interpretativo, cioè la creazione di nuovi significati, che
siano sufficientemente compatibili con le prospettive di senso già
possedute, per integrarle e in questo modo ampliarne le finalità;
- la terza forma d’apprendimento avviene attraverso la trasformazione di
schemi di significato. Questo tipo d’apprendimento implica una
riflessione attenta circa la qualità delle assunzioni, sulle quali essi si
basano. Avviene quando i nostri particolari punti di vista e convinzioni
110
si rivelano poco funzionali o del tutto inadeguati di fronte a una nuova
situazione. Di conseguenza avvertiamo un crescente senso
d’inadeguatezza delle nostre vecchie abitudini di vedere e di
comprendere;
- la quarta forma si ha quando la trasformazione riguarda la stessa
prospettiva di significato. In tali contesti, si diventa consapevoli,
attraverso la riflessione, della falsa natura dei presupposti sui quali si
basava una distorta o parziale prospettiva di significato. È a partire da
questa cognizione che è possibile impegnarsi per trasformare tale
prospettiva per mezzo di una riorganizzazione dei significati.
Tutte le forme di apprendimento prevedono un’attività particolare di
“problem solving”. L’Autore utilizza la distinzione di Habermas tra
razionalità e interesse tecnico, o strumentale, e razionalità e interesse
pratico, o comunicativo.
Nel caso dell’”apprendimento strumentale”, il procedimento risolutivo si
basa su processi di pensiero di natura ipotetico-deduttiva: formulazione
d’ipotetici percorsi d’azione, anticipazione degli effetti, messa in atto di
quelli più plausibili e, infine, verifica dei risultati raggiunti. Nel caso
dell’”apprendimento comunicativo”, sono coinvolti processi che si fondano
in prevalenza sul consenso: giudizi provvisori aperti a nuove
argomentazioni e a nuovi paradigmi di comprensione. La finalità
dell’apprendimento comunicativo consiste nell’imparare a comprendere gli
altri e a farci capire da loro quando cerchiamo di condividere le nostre
idee attraverso il discorso, la parola scritta, l’arte, e il racconto. Riguarda,
quindi, la comprensione, la descrizione e il chiarimento delle intenzioni, dei
valori, degli ideali, così come delle concezioni sociali, politiche, filosofiche,
educative, nonché dei sentimenti e delle ragioni.
Come le “ipotesi” sono gli strumenti di ragionamento dell’apprendimento
strumentale, le “metafore” sono gli strumenti dell’apprendimento
comunicativo.
L’”apprendimento trasformativo” implica tutte le condizioni previste per un
efficace e significativo apprendimento comunicativo. Vi associa
111
specificamente un importante focus sulla critica delle premesse. Sono
queste che richiedono un riesame per correggere quelle
concezioni inadeguatamente sviluppate o distorte, di natura
epistemologica, sociolinguistica o psicologica.
Possiamo considerare come uno dei fondamentali scopi e orientamenti
dell’autoformazione aiutare a individuare e rendere più consapevoli le
prospettive di significato, i sistemi di aspettative, come anche gli schemi di
azione, che vincolano il nostro modo di apprendere e di affrontare le
esperienze personali e professionali.
In tale prospettiva, si ritengono assai utili le narrazioni delle proprie
esperienze, in quanto attraverso il racconto è possibile oggettivare i
modelli impliciti dei nostri modi di affrontare le situazioni problematiche e
decodificare le teorie tacite che stanno alla base delle proprie modalità di
conoscenza. Ma se s’intende avviare un autentico processo di
trasformazione di tali paradigmi è necessario che la narrazione si
accompagni ad una continua riflessione critica, così da allenare la mente
ad un pensiero razionale ed interpretativo non separato
dall’immaginazione, aperto al dubbio e all’incertezza; un pensiero in grado
di aprirsi anche al conflitto con se stessi, per rinnovarsi e rinnovare
costantemente la ricerca del significato della propria molteplice identità.
Numerose sono, in tal senso, le ricerche e le metodologie che utilizzano un
approccio di tipo narrativo. Nell’ultimo capitolo di questa tesi ne
descriveremo alcune che si ritengono più significative e funzionali;
tenteremo anche di elaborare alcuni nuclei progettuali, all’interno dei quali
individuare una serie di strumenti, tecniche e attività coerenti con quanto
finora esposto.
112
4 Formazione Narrativa e Narrazione Formativa
“Innanzi tutto, consideriamo la penna con cui
scriviamo. Dovrebbe essere una penna capace di
scrivere in fretta, perché i pensieri vanno sempre
molto più in fretta della mano”
(Natalie Goldberg, Scrivere Zen)
4.1 Verso una Formazione Narrativa
Con il gioco di parole che dà il titolo al capitolo, si intende rilevare come
ricorrere alla pratica della narrazione consente un doppio livello educativo:
la conoscenza del soggetto e l’educabilità, anzi, per meglio dire, la sua
auto-educabilità.
Ogni individuo, ogni evento, ma anche ogni fenomeno sociale, è portatore
di una propria storia, i cui elementi sono connessi tra loro in base ad un
criterio di pertinenza e di relazione.
Secondo Bateson, 144 anche una conchiglia è né più né meno che una
raccolta di storie diverse, il prodotto di milioni di passi, di un numero
sconosciuto di modulazioni successive. La conchiglia è e al tempo stesso
ha una storia, perché la sua formazione è un’evoluzione attraverso una
serie di passi, di riformulazioni nel tempo.
Possiamo affermare, come ci indica l’autore, che tutti gli organismi e i
fenomeni sono soggettività, e in quanto tali “menti”, cioè sistemi formati
da parti interagenti, che partecipano all’organizzazione del mondo, a cui
portano il proprio contributo attraverso la trama delle proprie storie.
È, allora, auspicabile progettare dei dispositivi, tramite i quali riuscire a
prestare ascolto, all'interno dei più diversi contesti, ai milioni di passi e di
connessioni che caratterizzano le esperienze degli individui; soprattutto, in
una società come quella attuale, che molto spesso tende a soffocare le
voci che cercano di farsi largo all’interno della storia di ogni persona, di
144 Cfr. Bateson G., Bateson M.C., Dove gli angeli esitano. Verso un’epistemologia del sacro, op. cit..
113
ogni soggettività, di ogni mente.
Perché la formazione riguarda, tra l’altro, proprio la possibilità di leggere le
forme della mente dei soggetti. Abbiamo già in precedenza rilevato come il
contesto, in quanto “ambiente” vivente, esistenziale, in cui si situano i
processi reali e personali delle relazioni, sia un elemento dinamico che
muove, smuove, svela spazi e tempi, relazioni, vissuti, immaginari,
competenze, interpretazioni di situazioni e di fenomeni.
Se l’azione pedagogica si assume il compito di concepire nell’ambiente la
struttura nella quale si situa l’agire degli individui, “pensare in termini di
storie” significa riconoscere nelle azioni le relazioni tra le forme interne e
le forme esterne dei soggetti.
La comprensione delle forme interne è resa possibile dall’osservazione
dell’agire, del verbale e del non verbale attraverso le azioni e i progetti
personali dei soggetti. La cognizione delle forme esterne avviene
prevalentemente nel rapporto con l’azione organizzata e razionale
dell’azione educativa e formativa.
Le storie generative di percorsi, trame, incontri e complessità,
perturbazione e conflitti sono un fondamentale strumento formativo ed
educativo capace di dare consapevolezza al processo mentale, in quanto
partecipe e “creatore di contesti”, secondo quel modello costruttivista e
relazionale, che più volte abbiamo intercettato nel corso di questo lavoro.
Le conoscenze, le teorie esplicite e implicite, le prassi di ciascun soggetto,
inteso come contesto unico e irripetibile, sono abitate da una forte
soggettività individuale e collettiva. Esse rappresentano le forme
dell’esistenza esperite attraverso il discorso, l’espressione corporea,
l’azione e il comportamento.
Il più delle volte si rivelano e vengono rilevate nelle situazioni emotive e
affettive. Per questo motivo è importante non sottovalutare, bensì tenere
in considerazione tutte quelle relazioni dalle quali è possibile ricavare
elementi del disegno mentale dei soggetti: l’agire quotidiano, l’agire
progettuale, l’agire a specchio. In particolare, riguardo quest’ultimo recenti
studi hanno confermato l’incidenza dei fattori socio-relazionali
114
dell’apprendimento, superando la storica dicotomia tra pensiero e azione,
secondo la quale le funzioni sensoriali, percettive e motorie sarebbero
prerogativa di aree cerebrali distinte e separate tra loro. La scoperta dei
“neuroni specchio”, infatti, ha rivoluzionato il modo di intendere il cervello
e i rapporti sociali. Si tratta di una particolare tipologia di neuroni con la
funzione di attivare nel cervello di un soggetto, che osserva una
determinata azione compiuta da un altro, una serie di reazioni speculari a
quelle che si attivano nel cervello del soggetto che sta compiendo l'azione
stessa.
Ciò comporta che a neuroni definiti motori sono attribuite proprietà
connesse a dimensioni cognitive, come la previsione o l'anticipazione di un
intento, considerate da sempre superiori rispetto a quelle motorie. Si è
così cominciata a consolidare l'idea che il sistema motorio possieda
molteplici funzioni, non meramente esecutive e strettamente connesse in
modo non gerarchico ma simultaneo con i sistemi sensoriali. Come
affermano il neuroscienziato Giacomo Rizzolatti e il filosofo Corrado
Sinigaglia, 145 “il cervello che agisce è innanzitutto un cervello che
comprende”. Infatti, probabilmente noi comprendiamo un'azione ed il suo
fine, proprio perché nel nostro cervello si attivano gli stessi neuroni che si
attiverebbero se stessimo compiendo noi stessi quell'azione. Non c'è
nessuna partecipazione cosciente del soggetto in questo meccanismo, è
qualcosa che ci precede e ci permette di comprendere e di conoscere
immediatamente, in una dimensione prelinguistica, le intenzioni degli altri
individui, rendendo così possibile una previsione del loro comportamento
futuro. Uno degli aspetti più affascinanti di tale scoperta è la conferma
della strettissima relazione tra azione e linguaggio: la famosa “Area di
Broca”, da sempre definita sede anatomica del linguaggio, sarebbe in
realtà un’area composta in prevalenza da cellule motorie. Inoltre, i neuroni
specchio, in particolare quelli della corteccia pre-motoria, entrano in gioco
nella comprensione delle emozioni degli altri.
145 Cfr. Rizzolati G., Sinigaglia C., So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Raffaello Cortina, Milano 2006.
115
Un’altra conferma, quindi, del fatto che l’empatia è lo sfondo della nostra
intelligenza, perché l’imitazione degli stati d’animo altrui ci consente di
dedurre l’ordine delle relazioni affettive e sociali, i complessi di valori che
le organizzano, gli schemi di comportamento individuali e collettivi, l’agio e
il disagio delle persone che incontriamo, le possibili alternative al mondo in
cui viviamo, così come i simboli che mediano il nostro rapporto con le
culture di appartenenza. D’altra parte, però, l’empatia è anche la base
delle nostre nevrosi, perché l’imitazione implica l’interiorizzazione, il
portare, cioè, dentro di sé identità, valori e schemi che possono essere
disfunzionali, produrre sentimenti di delusione e rabbia, fino a condurci
contro sé stessi, proprio a causa di quei sistemi di valori che fin
dall’infanzia abbiamo dedotto per identificazione. Un motivo in più, quindi,
per affidare alla narrazione la possibilità di modificare gli eventi delle
nostre storie personali. È quanto, implicitamente, ci suggerisce Peter
Brook, noto regista teatrale, citato nella premessa al testo dei due autori.
“con la scoperta dei neuroni specchio le neuroscienze avevano cominciato
a capire quello che il teatro sapeva da sempre. [...] Il lavoro dell'attore
sarebbe vano se egli non potesse condividere, [...] i suoni e i movimenti
del proprio corpo con gli spettatori, rendendoli parte di un evento che loro
stessi debbono contribuire a creare”.146
Possiamo, quindi, affermare che proprio l’attivazione dei neuroni specchio
ci consente di creare un mondo possibile e di possibilità, evocando su di
noi il richiamo della condizione umana nel linguaggio della
rappresentazione metaforizzata, come nel teatro di Peter Brook. Si realizza
così un doppio sentire, un “doppio pàtos”: quello del personaggio sulla
scena, o in altro luogo, in un'altra storia e quello del proprio vissuto. Il
personaggio nel quale ci identifichiamo, sul quale proiettiamo emozioni e
sentimenti, può anche coincidere con il sé, o meglio, con la molteplicità
dei nostri sé, come nel caso dell’autobiografia.
146 Ivi, p. 7.
116
In tal senso, la formazione si declina come una cura del sé, che favorisce
da una parte una lettura dell’identità soggettiva e intersoggettiva, dall’altra
e parallelamente il recupero delle dimensioni di tipo processuale
caratteristiche dei percorsi di evoluzione e crescita, di interpretazione e
cambiamento. L’esplorazione di metodologie, tecniche e strumenti utili alla
realizzazione di tali processi, è lo scopo di quest’ultimo capitolo di tesi.
4.2 La Narrazione Formativa come “cura sui”
L’intento di rivolgere l’attenzione a coloro che operano in campo educativo
e sociale ci porta a far propria la prospettiva formativa di Franco Cambi.147
Secondo quest’autore il processo formativo si declina intorno alla nozione
di “cura”, che si presenta come il “volto tecnico” di tutte le scienze umane,
dalla psicologia alla sociologia, dalla medicina all’economia,
dall’antropologia culturale alla politologia, dalla filosofia alla pedagogia,
che ne rappresenta l’ambito privilegiato.
“In pedagogia, da Socrate in poi, seguendo il profilo dei grandi educatori
(da Comenio a Pestalozzi, a Makarenko) e poi anche dei teorici della
‘relazione educativa’ (da Seneca a Montaigne, a Rousseau, a Ferrière,
etc.), la cura si è imposta come dispositivo chiave”.148
Riprendendo le tesi di Vanna Boffo,149 Cambi distingue due piani sui quali
si articola la cura in pedagogia:
- un piano di metariflessione incentrato sul paradigma foucaultiano
della “cura sui”, intesa come arte dell’esistenza. Per Foucault, 150
l’occuparsi di se stessi è un antichissimo tema che origina nella
cultura greca dal Socrate educatore e formatore dei giovani ateniesi.
Prosegue con Platone e continua la tradizione con gli stoici e gli
epicurei. Per il filosofo francese la dimensione autentica della cura sui 147 Cfr. Cambi F., La cura di sé come processo formativo. Tra adultità e scuola, Editori Laterza, Bari, 2010. 148 Ivi, p. 7. 149 Cfr. Boffo V. (a cura di), La cura in pedagogia, Clueb, Bologna 2006. 150 Cfr. Foucault M., La cura di sé. Storia della sessualità 3, Feltrinelli, Milano 2004.
117
non è quella interiore e individuale, bensì quella sociale, che si
realizza nelle scuole, in comunità, in famiglia, e riguarda anche
l’esercizio professionale; in questo senso, non elude la relazione, al
contrario si manifesta come un’intensificazione dei rapporti sociali. Si
tratta di un occuparsi di sé per occuparsi dell’altro, per occuparsi del
mondo;
- un piano di “forme della cura”, che si declinano come “cura della
mente”, “cura del cuore”, “cura di sé”. Da una parte, quindi, orienta
verso un percorso comunicativo interpersonale, che va dalla famiglia
alla comunità, alle stesse istituzioni; dall’altra parte prevede un vero
e proprio “progetto esistenziale” da parte della persona.
Per Cambi, la “cura sui”, intesa come dispositivo-chiave della formazione,
include molteplici prospettive e campi d’esperienza. È senz’altro affine
all’”ecologia della mente” di Bateson,151 e alla sua visione integrata del
soggetto tra natura e cultura. La ritroviamo nella visione di Bettelheim152
della genitorialità come affiancamento vigile, guida non direttiva e
sostegno mediato all’esperienza autonoma dei figli. In Morin,153 inoltre, la
cura sui si fa principio regolativo di una formazione aperta, critica e
flessibile, che si colloca tra cognizione e metacognizione con un costante
riferimento all’etica sociale.
Un settore particolarmente interessante nell’ambito di questa tesi, è quello
connesso alla prevenzione del disagio e alla cura dei soggetti a rischio,
laddove la cura consiste nel sostenere soggetti e gruppi in vista del
raggiungimento dell’integrazione sociale. Riguarda, cioè, interventi di
“risveglio del sé”, intesi a rafforzare l’identità dei soggetti e a promuoverne
la capacità di costruire propri progetti esistenziali.
La cura in pedagogia si presenta per Cambi come “aver cura della
formazione”, attraverso un processo socratico che si sviluppa, nel suo
insieme, come “risveglio”, come “dialettica”, come “ascesa” e come
“maieutica”. In questa prospettiva entra in gioco l’autoformazione come
151 Cfr. Bateson G., Verso un’ecologia della mente, op. cit. 152 Cfr. Bettelheim, Un genitore quasi perfetto, Feltrinelli, Milano, 1987. 153 Cfr. Morin E., La testa ben fatta, Cortina, Milano, 2001.
118
“cura sui”, in quanto è il soggetto che guida e sostiene se stesso tramite la
mediazione di una serie di pratiche riflessive, interpretative, riorientative,
ma anche de-costruttive e ricostruttive. Sono pratiche che s’ispirano a
quelle “tecnologie del sé”, a quegli esercizi spirituali proposti da Foucault
in una delle sue ultime opere.154
Tali pratiche, per attivare un dialogo costante tra coscienza e
autocoscienza e disporsi come esercizio che accompagni tutta la vita,
necessitano di formalizzarsi, nel senso di darsi delle forme operative.
“Leggere, scriversi, meditare, sono vie per coltivare la propria
interiorità; che è poi proprio questo sguardo duplicante attivato
su se stessi, colti nella complessità aggrovigliata del proprio
vivere. Per dipanarsi, sottoporsi a scandaglio, operare radiografie
mentali, fissare ‘itinera’ di trasformazione [...]”.155
Per Cambi, una delle vie maestre della cura sui è senz’altro la narrazione.
L’autore la considera un’”attività primaria, fondamentale e permanente” da
presidiare e coltivare come un paradigma formativo della mente e collante
culturale in tutte le civiltà di ieri e di oggi.
La narrazione, quale prima forma di spiegazione introduce e avvia il
processo razionale; nutre l’attività simbolica della mente, fissando simboli,
miti e figure, che agiscono come depositi e orientatori di senso. Così il
possibile attraverso il virtuale, l’immaginario, entra a far parte della mente
e della cultura, delineandosi come frontiera interiore dell’esperienza, in
potenza. Ci immette, infine, in un tessuto connettivo storico-sociale,
contribuendo così, attraverso il linguaggio, a determinare la nostra identità
culturale.
Cambi dà particolare rilievo all’istanza etica, a cui la narrazione da voce e
corpo orientando la formazione personale. Tale percorso di tipo etico si
realizza tramite la letteratura e l’immaginazione.
154 Cfr. Focault M.,Tecnologie del sé, Bollati Boringhieri, Torino, 1992. 155 Cambi F., La cura di sé come processo formativo. Tra adultità e scuola, op. cit., p. 39.
119
I diversi generi del narrativo declinano la formazione verso differenti
contenuti e temi, tutti fondamentali nella costruzione del sé. L’epica, che
attraverso le gesta degli eroi tesse paradigmi di vita e modelli di
comportamento. Il romanzo moderno, con la sua centratura nel nesso
io/società. La commedia, che tramite la descrizione dei “mores” induce a
riflettere criticamente, a “castigare” o a irridere, suscitando, appunto, il
riso che ha una funzione decostruttiva e al tempo stesso catartica.
Il narrativo, inoltre, sviluppando l’immaginazione evoca esperienze virtuali
che si legano a bisogni e attese che emergono dall’inconscio della
persona. La narrazione proiettandoli nell’immaginario definisce e colloca
nel pensiero come “possibili” e nella coscienza come “degni” altri mondi e
forme di vita, producendo due effetti etici:
- l’esperienza del possibile, imponendosi al pensare a e all’agire,
induce il reale a perdere il connotato di dura e invalicabile necessità,
aprendolo all’”ulteriorità”, al cambiamento;
- il legame tra narrazione e utopia, implica il dissenso e spinge a
prender distanza in modo critico e a guardare oltre la necessità del
reale. Si impara, così, a porsi in una dimensione di libertà e di
proiezione nel futuro del proprio bisogno di liberazione.
L’invito pedagogico di Cambi è di guardare alla narrazione come a una
risorsa e a un principio, custodendone gli effetti formativi, significativi e
nutrienti, lungo il corso dell’esistenza, in tutto quel processo di “lifelong
learning”, che è sempre più il paradigma costitutivo di ogni persona.
La lettura per formarsi e conoscere il mondo, la scrittura per il piacere
formativo e per pensare i propri pensieri, e l’autobiografia come cura di sé
sono le tre “tecniche di vita”, che Cambi descrive introducendoci ad un
metodo narrativo incentrato sull’autoformazione come processo continuo,
il cui sviluppo richiede anche rigore e disciplina da parte del soggetto che
guida se stesso tramite quelli che l’autore definisce dei veri e propri
“esercizi spirituali”.
120
4.3 La lettura per formarsi: una questione di metodi
Riguardo la prima tecnica di vita, alla luce delle numerose analisi, ma
anche riflettendo sulla nostra esperienza di lettori l’autore definisce la
lettura come:
- un “atto di spaesamento”, che crea una condizione diversa, sospesa
e raccolta in se stessa;
- un “atto di apertura al virtuale”, perché leggere ci introduce in un
mondo che sta oltre, che ci affascina per la sua diversità e dilata il
nostro io disponendolo in direzione di un sé più ricco, dinamico e
dialettico;
- un “atto di potenziamento dell’immaginario”, attivato dalla potenza
evocatrice della parola, che si sottrae al mero ruolo
comunicativo/informativo per porsi come scoperta, costruzione e
ricostruzione del mondo;
- un “atto di crescita/sviluppo”, nel momento in cui si entra in una
storia che rispecchiandoci, ci amplia, ci sfida nel nostro vissuto
inducendoci a ripensarlo e a ripensarci.
In tal senso leggere si rivela un’avventura formativa, una via aurea della
cura di sé.
“Solo (o prevalentemente) la lettura ci porta nel presente il
passato, l’altrove, il virtuale. Dilatando così i confini del nostro io
e del suo mondo-di-esperienze che dal presente va verso il
passato e verso il futuro, per rileggere il presente più
criticamente (attraverso i condizionamenti dell’ieri e le possibilità
del domani). E tutto ciò allarga l’esperienza stessa che stiamo
facendo. Si dà come patrimonio di sviluppo dell’io/sé”.156
Tre sono secondo Cambi le strategie da attivare per rendere la lettura
un’esperienza efficace di coltivazione dell’io etico, cognitivo ed estetico:
- “isolarsi”, operando una sospensione tra il sé e il quotidiano, una
156 Cambi F., La cura di sé come processo formativo. Tra adultità e scuola, op. cit., p. 58.
121
concentrazione che predispone all’intensità della lettura;
- “leggere secondo libertà”, in sequenza, a salti, a ritroso, cambiando
libro, etc., secondo l’invito di Pennac;157
- “darsi la lettura come pratica consolidata”, come via di riscatto e di
formazione non più rinunciabile anche nel tempo ossessivo dei Media
che tendono a incasellare il nostro tempo libero per gestirlo al posto
nostro.
La lettura, che Foucault annovera tra le “tecnologie del sé”, è quindi un
mezzo potente di “vita interiore”, proprio perché, implicando
raccoglimento e sospensione del vivere immediato e pragmatico, attiva
quella “coscienza di sé”, che è la dimensione più intima dell’individuo, il
suo luogo più segreto e lo specchio diffrattivo della realtà. La lettura,
alimentando la vita interiore, struttura e articola la coscienza,
connettendola e incrociandola con le pulsioni e le tensioni dell’inconscio.
La proiezione in altre esperienze di vita, verso cui la narrazione conduce,
permette alla nostra interiorità di dilatarsi e crescere in modo intenso e
dinamico, evitando di rattrappirsi nel quotidiano. L’identità può così
svilupparsi sia in senso emotivo, affinando e allargando la gamma dei
propri sentimenti, sia in senso razionale, potenziano le forme del pensiero
e affinandone il rigore, sia infine nell’intreccio dialettico di entrambi,
ragione e sentimento.
Cambi individua principalmente nella scuola, uno dei luoghi dove
l’iniziativa personale del leggere può essere sollecitata e potenziata
secondo pratiche esemplari orientate a quella formazione centrata sulla
“cura sui”, attraverso pratiche di lettura animata, gare, ludi letterari etc..
Ma per far sì che il libro assuma un ruolo di sostegno e di guida dell’io che
ci accompagni per tutta la vita, è necessario organizzare cicli, conferenze,
gare di lettura, etc., anche nelle biblioteche, e realizzare altre e diverse
occasioni di formazione per un risveglio della lettura come pratica
personale, che rischia di essere insidiata dalle tecnologie informatiche e
dai loro approcci metacognitivi sempre più formali, oggettivi e astratti.
157 Cfr. Pennac D., Come un romanzo, Feltrinelli, Milano, 1993.
122
A questo proposito, per passare dalle riflessioni sul metodo alle proposte
di metodo sono descritti di seguito due laboratori, che partono dalla
lettura per ritornare ad essa e su di essa tramite vissuti condivisi e
partecipati in gruppo. La valenza formativa di tali esperienze sta proprio
nella rielaborazione di una pratica personale e intima in un’attività di
relazione e di scambio che implica un dirsi all’altro e per l’altro, un ascolto
reciproco ed una restituzione, intesa sia come impressione personale sia
come espressione di reciprocità, per giungere in uno dei casi anche ad una
vera e propria produzione espressiva e creativa.
Le due pratiche proposte si differenziano, oltre che per le tecniche e le
attività, anche per le situazioni: la prima è caratterizzata da aspetti non
formali e informali; nella seconda invece prevale l’aspetto formale, in
quanto è stata realizzata all’interno dell’Università. Ciò non preclude la loro
realizzazione in contesti differenti, istituzionali nel caso della prima
proposta, più informali per la seconda. In un certo senso, trattarne
nell’ambito di questa tesi è un’opportunità per definirle in chiave di
riproducibilità all’interno di pratiche formative consolidate.
4.4 “Dimmi cosa leggi...” : la lettura come comunità di pratica
Il primo dispositivo, che denomineremo “Dimmi cosa leggi...”, trae spunto
da incontri serali organizzati nel corso di soggiorni estivi dall’Associazione
“Amici Bagni Froy”,158 nell’omonima residenza situata in Val di Funes, nelle
vicinanze di Chiusa in provincia di Bolzano.
Si ritiene importante soffermarsi sulla descrizione del contesto e sulle
finalità che l’Associazione persegue con le sue iniziative, perché le stesse
richiamano molto da vicino l’idea di “tempo libero” proposta da
Dumazedier. 159 Il valore formativo della sua concezione invita ad una
digressione necessaria nell’ambito di questa tesi. Il sociologo francese
sintetizza gli obiettivi del tempo libero in tre termini:
- “délassement”, cioè distensione o riposo dopo la fatica psicofisica del
158 Informazioni sull’Associazione e sulle loro iniziative sono reperibili sul sito dedicato <www.bagnifroy.it>. 159 Cfr. J. Dumazedier J., Sociologia del tempo libero, F. Angeli, Milano 1978.
123
tempo di lavoro;
- “divertissement”, inteso come distrazione dalle normali attività
quotidiane;
- “développement”, vale a dire opportunità di sviluppo personale
attraverso iniziative culturali, artistiche, sociali, sportive, ricreative di
proprio gradimento.
Secondo Dumazedier, il tempo libero non deve essere solo una
“liberazione” dai tempi sociali e istituzionali, ma soprattutto una possibilità
di sviluppo delle qualità umane più autentiche,
“contro le aggressioni della società industriale ed urbana, sempre meno
naturale e sempre più organizzata e dominata dall'assillo del tempo”.160
Per questi motivi, egli auspica l’avvento di una società in cui il tempo
libero ispiri e diffonda uno stile culturale e personale che anteponga il
“loisir” al lavoro, in funzione di una civiltà opposta al mondo arido,
conflittuale ed alienante della produzione e del mercato. Un mondo nuovo
in cui predomini la libera espressione della personalità, le relazioni
affettive con gli altri, il gioco, la contemplazione, il godimento, e un
atteggiamento critico-estetico, per cui l'”homo ludens” e l'”homo socius”
prevalgano sull'”homo sapiens” e sull'”homo faber”.
Ritroviamo tali valori nelle finalità che l’Associazione “Amici Bagni Froy”
persegue nel corso dei soggiorni estivi aperti a gruppi, famiglie e
singoli:161
- educare al rispetto e all’accettazione degli altri sia come persone che
come portatori di idee, esperienze, conoscenze;
- privilegiare il servizio con l’autogestione dei lavori per realizzare
un’atmosfera di collaborazione e bene reciproco;
- promuovere attività culturali, creative ed espressive, di educazione
ambientale e che favoriscano il benessere della persona e la sua
160 Ivi, p. 103. 161 Associazione Amici Bagni Froy, in <www.bagnifroy.it>.
124
crescita psicofisica.
Proprio nell’ambito di queste ultime attività, si inseriscono gli incontri serali
“Dimmi cosa leggi...”, ideati e condotti da Mario Bertasa.162 I partecipanti,
senza distinzione d’età, sono invitati a portare con sé un libro scelto tra
quelli che stanno leggendo, di qualsiasi genere si tratti. A turno, ciascuno
lo presenta al gruppo, attraverso una propria sintetica recensione. Ciò che
viene richiesto, in particolare, è di esprimere le ragioni o raccontare le
eventuali circostanze che lo hanno condotto a leggere quel libro, e
indicare le motivazioni per le quali se ne raccomanderebbe la lettura agli
altri. È anche possibile e auspicabile la lettura di qualche brano ad alta
voce. Il gruppo, a sua volta, può porre domande, esprimere pareri,
comunicare suggestioni, riferire riflessioni, sospendendo, però, qualsiasi
giudizio sulla scelta. Indirettamente, chi presenta e descrive il libro agli
altri, presenta e descrive se stesso, o almeno un’immagine di sé che lo
rappresenta. Parafrasando Foerster,163 si può dire che ogni recensione
dice più cose della persona che recensisce che del libro recensito. Siccome
non si tratta di un compito, non c’è alcun obbligo a intervenire, non ci
sono riferimenti, né indicatori, né parametri da rispettare, tranne il limite
di tempo (max 10/15 minuti). Ogni partecipante nel presentare il suo libro
si basa sulle proprie conoscenze, e soprattutto sulle emozioni che la
lettura gli ha suscitato, entrambe influenzate dal vissuto del momento, da
scopi personali, da ricordi, cultura d’appartenenza, grado d’istruzione,
visioni del mondo più o meno esplicite, e dalla propria storia personale. In
questo senso, ogni presentazione si rivela anche come una ricognizione
del sé, in quanto prodotto dell’esplorazione di un atto intimo e privato,
qual è la lettura personale. Per quanto possa essere possibile, soprattutto
in situazioni non formali come quella qui descritta, si può chiedere di
evitare nelle presentazioni e nei commenti espressioni del tipo “mi
piace/non mi piace” o “bello/brutto”, cercando di sostituire tali dicotomie o
162 Mario Bertasa è un attore e regista, promotore dell’Associazione “ArtEventualeTeatro”, i cui interventi si ispirano alla ricerca sul teatro degli affetti di Giulio Nava. Vedi <www.arteventualeteatro.it>. 163 Cfr. Foerster H. V., Sistemi che osservano, Astrolabio Ubaldini, Roma, 1987.
125
banali giudizi estetici con descrizioni più accurate delle proprie percezioni,
sensazioni, emozioni, sorprese, pensieri fino a dare un nome ai sentimenti,
alle conoscenze e alle idee che la lettura ha ispirato, attraverso il racconto
di particolari episodi, la descrizione dei personaggi, ma anche,
l’esposizione di concetti e teorie nel caso di testi di genere saggistico.
Anche chi ascolta è indotto a identificare il libro con il suo recensore. Lo
rivelano le domande rivolte più all’interlocutore che al testo; le impressioni
e le suggestioni espresse dal gruppo sono spesso stimolate da letture e
autori condivisi, così come le diverse interpretazioni che scaturiscono
dall’insieme delle proposte presentate.
Un fattore interessante, anche se non sempre riproducibile in contesti
istituzionali con gruppi omogenei, è quello dell’intergenerazionalità, data
dalla partecipazione dei diversi componenti famigliari all’esperienza. Da
questo punto di vista “Dimmi cosa leggi...” è uno stimolo alla ricostruzione
di una nuova etica nei rapporti tra le generazioni, in quanto individua
obiettivi comuni a bambini, adulti, giovani e anziani, che possono
supportarsi a vicenda con i loro diversi bagagli d’esperienza. È una
concreta occasione di verifica dell’infondatezza degli stereotipi che
connotano le diverse immagini dei cicli di vita, in particolare quelli della
“gioventù” e della “vecchiaia”. Ispira il confronto generazionale al criterio
di reciprocità, giacché è bisogno vitale di tutte le generazioni creare
legami e condividere esperienze con persone di età diverse, anche per una
più ricca conoscenza dei cicli di vita.
Il valore formativo del laboratorio non sta solo nella riflessione su quanto
si esperisce tramite il libro, anche se il rendere esplicita quella dialettica
interiore di idee e sentimenti, che la lettura personale implica, consente di
rivelare a se stessi ciò che l’immaginazione può aver creato: un io più
profondo e sofisticato, più aperto al possibile, più ricco di aspettative e
intraprese. La disponibilità ad attivare realmente le proprie potenzialità, a
sperimentare le nuove competenze cognitive ed affettive che la lettura del
libro ha fatto emergere viene, in qualche modo, esplicitata e compresa per
se stessi nella propria “recensione” e verificata attraverso i rimandi del
126
gruppo, eludendo il rischio che rimanga solo in-potenza.
Il confronto che avviene in laboratorio tramite la mediazione del libro ha la
natura del dono in senso maussiano come triplice vincolo di dare, ricevere
e ricambiare.164 Spesso i libri recensiti vengono prestati tra i partecipanti e
le “conversazioni” proseguono anche fuori del laboratorio. È, quindi, un
confronto formativo, che favorisce la costruzione di legami, al cui interno
le dinamiche di tipo relazionale sono privilegiate, rispetto ad esigenze di
tipo utilitaristico. Ciò che l’esperienza realizza è una sorta di comunità
letteraria che, però, a differenza di quella descritta nel libro di Bradbury
“Fahrehneit 451”,165 non è formata da libri trasformati in uomini, quanto
da persone che sono state trasformate dalla lettura di libri e che, non
hanno la necessità di conservare la memoria letteraria dell’umanità,
quanto di contribuire all’arricchimento della propria e altrui umanità, anche
attraverso la letteratura.
A chi conduce il laboratorio è richiesto di operare nel senso di una regia
educativa, diversa per ogni contesto e gruppo, al quale l’attività è rivolta.
Si tratta di organizzare un setting accogliente ed aperto, una sorta di
“caffè letterario”, in cui ciascuno possa sentirsi sufficientemente a proprio
agio e disponibile a presentare agli altri la sua particolare recensione,
senza timore di essere giudicato o valutato. Al conduttore spetta il compito
di avviare la conversazione, delineare la cornice dell’incontro, rammentare
le regole e i vincoli di tempo per consentire a tutti di intervenire. Se è
necessario definire lo scopo per dare un senso all’iniziativa, gli obiettivi
possono rimanere impliciti, in modo da privilegiare l’attività rispetto ad
essi, per evitare che i partecipanti si sentano vincolati a compiti specifici.
Gli obiettivi saranno esposti in un’eventuale discussione finale, nel corso
della quale potranno essere segnalati dagli stessi componenti del gruppo,
164 Cfr. Mauss M., Saggio sul dono, Einaudi, Torino, 2002, ed. or. 1925. 165 Ci si riferisce alla trama del famoso libro di Bradbury “Fahrehneit 451, nel cui finale il protagonista Montag incontra un gruppo di uomini fuggiti dalla società che, insieme ad altri loro compagni, costituiscono la memoria letteraria dell'umanità, perché conoscono a memoria, e in questo modo custodiscono, numerosi testi letterari andati ormai perduti. Vedi Bradbury R., Fahrehneit 451, Mondadori, Milano, 1999, ed. or. 1953.
127
che ne potrebbero indicare anche di non previsti. Può essere importante
costruire una memoria dell’esperienza, annotando su un cartellone, nel
corso delle presentazioni, il titolo dei libri, l’autore, il recensore, e
disponendo altri spazi per eventuali annotazioni del conduttore e/o dei
partecipanti. Al termine si rende, così, disponibile una “bibliografia
comune” per ulteriori riflessioni e possibili interpretazioni sull’identità
molteplice del gruppo.
4.5 Un laboratorio di lettura performativa
La seconda proposta operativa si riferisce specificamente ai seminari
condotti dal prof. Paolo Puppa nell’ambito del “Master in Comunicazione e
Linguaggi Non Verbali: Psicomotricità, Musicoterapia e Performance”,
presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Siamo nel contesto della
“performance”, che Puppa pratica come regista, drammaturgo e
performer, appunto, ma anche come autore di testi destinati alla scena, e
come studioso, in quanto docente di Storia del Teatro. La partecipazione
ai suoi seminari, in qualità di tutor dei gruppi di allievi del Master, mi
consente di descrivere la metodologia di Puppa, e di presentarla nella tesi,
in quanto connessa ad un interessante modello di narrazione formativa,
nel quale la lettura è stimolo iniziale, sfondo tematico ed espressione
corporea attraverso la voce.
Prima di descrivere il quadro delle tecniche utilizzate nel seminario, è
necessario delineare la cornice entro la quale si realizza l’attività. Si tratta
di un laboratorio di performance, che si presenta come luogo dell’extra
ordinario, dove si ha a che fare con l’interiorità, l’energia, le potenzialità, la
creatività e l’immaginario.
Nel laboratorio, si lavora su ciò che accade qui ed ora a contatto con uno
spazio e un tempo al tempo stesso personali e condivisi nella relazione. È
composto da un gruppo di persone variabili, nel caso in questione si tratta
di allievi ed allieve che frequentano un Master post-lauream. Non importa
che si abbia a che fare con attori o con non professionisti, ciò che si
richiede è la disponibilità a “mettersi in gioco” per sperimentare
128
l’espressività corporea attraverso il movimento creativo, il gesto, la voce.
È, quindi, un luogo di condivisione con l’altro e per l’altro, di ricerca che va
oltre il vivere quotidiano, di apertura all’immaginazione e al simbolico, di
riconoscimento del valore della propria esistenza, e dei propri atti. Da
questo punto di vista, è un’occasione per liberare il corpo dalle sue
abitudini quotidiane e acquisire una più mirata efficacia espressiva, per
sviluppare l’intelligenza emotiva, la conoscenza e il controllo delle proprie
emozioni, il riconoscimento di quelle altrui, per sperimentare nuove
dinamiche relazionali e conseguire una consapevolezza del vissuto che nel
corpo s’incarna.
Si realizza, così, un percorso che inizia con la conoscenza, l’accettazione di
sé e l’incontro con gli altri, per sviluppare attraverso l’improvvisazione un
processo trasformativo, condurre una rielaborazione creativa di quel
processo per giungere ad una sua restituzione sotto forma artistica, la
“performance”, appunto. L’improvvisazione si declina su una ricerca di
naturalezza e di autenticità attraverso un training intenso, che guida
l’allievo a scegliere dal proprio repertorio personale ed affinarlo per
costruire una composizione che ne rilevi i momenti e i passaggi più
significativi. Nella costruzione della performance ogni allievo è orientato a
diventare autore, regista, attore e primo spettatore di ciò che fa; ma ciò
che fa non è la semplice esecuzione di una volontà, bensì
un’improvvisazione in “condizioni preparate”, che mobilita tutta la persona
e la cui partitura, dunque, non ha nulla a che vedere con l’immagine che
se ne può fissare a posteriori. È piuttosto un percorso di dislocazione degli
stimoli, anche tematici e di continua decisione circa i ritmi con cui
rispondere.
Puppa tende a privilegiare da una parte la dimensione performativa della
narrazione, dall’altra la funzione narrativa della performance. In base a ciò
il suo performer è anche, come lui stesso si definisce, “dramaturg”. Infatti,
molti dei suoi testi teatrali sono dei “copioni”, frutto di rielaborazioni di
una “scrittura orale” che non attende di essere recitata ma rivissuta e ogni
volta reinterpretata.
129
"[...] la scrittura oralizzante e la resa performativa svincolata dal modello
recitativo accademico sono talmente connaturati che l’assolo di narrazione
si colloca sia nell’emancipazione estrema dell’attore, rispetto ai freni di una
drammaturgia vincolante e di una regia costrittiva, tipica della scena
istituzionale, sia nella polemica e gioiosa deprofessionalizzazione
dell’interprete”.166
Una delle sue più recenti performance, ad esempio, tratta dalla sua
raccolta di monologhi,167 presenta casi clinici che rimandano a miti antichi,
calati nel Nord Est di oggi, tra disagio, disperazione e paura di vivere.
Personaggi appartenenti a mondi classici lontani, tra Omero e la tragedia
greca o la Bibbia, rivivono, così, in una veste laicizzata e prosaica.
Per il “dramaturg” Puppa, legato com’è al “qui e ora” della performance
narrativa, diventa più complicato introdurre personaggi in un testo
contemporaneo, perché occorre trovare un sistema per raccontare il loro
passato, la loro situazione. Al contrario prendere dei personaggi celebri,
evita tutto un lavoro di “flashback”, in quanto c’è una condivisione di
conoscenza con lo spettatore. Ciò valeva anche per il teatro antico, dove
la tragedia rappresentava sempre dei personaggi che erano già conosciuti.
Inoltre, l’autore segue l’intuizione junghiana, secondo cui i miti muoiono
nel moderno per rinascere sotto forma di patologie: nevrosi, depressione,
solitudine etc.
In questa prospettiva, Puppa inizia il suo seminario invitando ogni allievo
alla lettura personale di uno dei suoi testi, per lo più monologhi, appunto,
o “scritture dialogiche”, nelle quali ogni personaggio racconta dal suo
punto di vista la trama degli eventi, come in una singolare autobiografia
letteraria.
166 Cfr. Puppa P., La voce solitaria, Bulzoni Editore, Roma, 2010. 167 Cfr. Puppa P., Cronache venete, Titivillus, Pisa, 2012.
130
Ogni seminario è legato ad un tema, ad una particolare visione della
condizione umana. Ad esempio, nell’affrontare il tema del carcere e del
disagio Puppa ha proposto la lettura del suo monologo “Minotauro”.168
Per indagare il tema del viaggio e dell’esilio è stata proposta al gruppo la
lettura del “Centauro”, 169 un monologo ispirato dal secondo Canto
dell’Eneide, rivisitando alcuni motivi dell’epos classico: la fuga di Enea da
Troia in fiamme, l’incontro con la madre Venere, l’odio di Giunone, fino al
celebre episodio del racconto sulla fine della città fatto a Didone. Gli
eventi sono interpretati come vissuti da tre diversi personaggi: un
adolescente, un mafioso siciliano, un esule palestinese.
Mentre “Parole di Giuda”170 è un copione teatrale che traduce sulla scena
le nuove verità emerse intorno ad una creatura tanto vilipesa ed è
incentrato sul tema del tradimento.
La lettura personale e intima dell’opera scelta è una “precondizione” del
seminario, utile a creare un background comune, una “predisposizione” al
training laboratoriale, il cui inizio vero e proprio consiste in una lettura
collettiva, nella quale gli allievi si alternano al leggio per recitare ad alta
voce l’intero copione.
La lettura individuale del testo stimola una dimensione di concentrazione e
di silenzio individuale, un pensiero interno che assorbe e colloquia
incessantemente con i contenuti del testo. Essa stimola soprattutto la
vista, crea un atteggiamento di valutazione soggettiva, implica un
processo di identificazione nei personaggi e di proiezione in essi delle
proprie emozioni e dei propri sentimenti, facilitato dal carattere
monologante della scrittura di Puppa. Tale valenza autoformativa della
lettura s’arricchisce e si trasforma nel contempo attraverso la lettura ad
alta voce che, rievocando quella collettiva dell’antichità, stimola
soprattutto l’udito e crea un forte senso di gruppo e di affidamento alle
suggestioni di colui che legge. Puppa orienta ogni allievo verso la
168 Cfr. Puppa P., Il Minotauro, in Famiglie di notte, Sellerio, Palermo 2000. 169 Cfr. Puppa P., Il Centauro. Dal canto II dell’Eneide, in Culture Teatrali. Studi, interventi e scritture sullo spettacolo, n. 9, 2003. 170 Cfr. Puppa P., Parole di Giuda, Metauro Edizioni, Pesaro 2007.
131
drammaticità del testo, tramite la ricerca di un uso attento e sofisticato
della voce: le pause, i silenzi, le interruzioni del flusso verbale, la
sillabazione frantumata, l’alterazione dei toni, etc.. Parafrasando la
metafora biblica, possiamo dire che la lettura ad alta voce trasforma il
verbo in carne, la parola in corpo, consentendo a ciascuno di esplorare
quel “comportamento ritrovato”, che agisce all'interno di frammentazioni
comportamentali, e di entrare non soltanto in un'altra personalità, ma di
agire a metà tra le due identità: quella del sé e quella del personaggio.171
Tale rito collettivo introduce l’intervento di codici diversi, che annunciano
l’apporto di tradizioni e traduzioni in un incessante gioco di fedeltà e
tradimenti del testo tra campi semantici e linguaggi espressivi.
Infatti, la seconda fase del laboratorio prevede una reinterpretazione
scenica della vicenda attraverso improvvisazioni verbali e fisico-ritmiche
adeguate alle capacità e alle motivazioni degli allievi, alle loro storie
personali e professionali. Costoro, da soli, a coppie o in piccoli gruppi,
sono chiamati a costruire “performance” sulle “topiche” del copione.
Questa ricerca-azione corporea, psichica ed espressiva richiede un training
rigoroso che Puppa conduce come mediatore della relazione intra e
interpersonale, come “Teacher of Performer” in senso grotowskiano,172
che “impedisce d’impedire”, per favorire lo sviluppo di emozioni e la presa
in carico di responsabilità del sé e della scelta dei propri atti, e come
regista assumendosi il compito di connettere i diversi prodotti delle
improvvisazioni in un “ensamble di gruppo”. Per realizzare quest’ultima
fase del laboratorio, quella che Puppa definisce la “performance
collettiva”, occorre una continua messa a punto e ripetizione di atti, gesti,
suoni e voci, non per memorizzarli in vista della ripresa scenica, ma per
apprenderli e interiorizzarli automaticamente come sequenze di un rito.
L’aspetto rituale, infatti, riveste una straordinaria importanza nel percorso
del training formativo.
171 Cfr. Schechner R., La teoria della performance: 1970-1983, Bulzoni, Roma 1984. 172 Cfr. Richards T., Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche, Ubulibri, Milano, 1993.
132
Il rito in questo caso, come per Turner, 173 ha una funzione di
riconferma e di cambiamento, serve a codificare e celebrare. Nel rituale il
gruppo può individuare e sentire un rinnovato senso di appartenenza.
Assume, così, un valore contenitivo molto forte e una notevole pregnanza
emotiva. Non è una sovrastruttura di forme rigide, ma un insieme
connesso di strutture in co-evoluzione per mantenere quei legami che
permettono al flusso narrativo di essere riconoscibile all’interno e
comprensibile all’esterno, pur nei suoi diversi significati e differenti
interpretazioni.
Come si può ben comprendere, si tratta di un’intrapresa complessa che
parte dal testo, non tanto come “pre-testo” da tradurre o reinterpretare,
quanto piuttosto come “con-testo”, in cui esperire la problematicità
dell’esistenza umana nei suoi aspetti tragici e drammatici, ma anche ironici
e caricaturali. Ci troviamo, così, nuovamente in presenza di uno sfondo
narrativo che, più che raccontare, evoca vissuti fantasmatici, nel tentativo
di esorcizzare i piccoli mostri che s’annidano nei nostri mondi interiori, e di
riconciliare la molteplicità dell’individuo attraverso i personaggi creati, tra
l’umano di volti e corpi e il “superumano” delle maschere interpretate.
Forse sono attribuzioni eccessive, o forse no, se si considera come questa
metodologia d’intervento recupera una dimensione autoformativa, che si
gioca in una dinamica di de-costruzione dell’identità e assume una valenza
che va oltre l’educativo verso la terapia, intesa come come “cura sui”.
4.6 Le scritture-di-sé: verso una definizione di metodi
La seconda tecnica di vita che Cambi individua per la cura sui è la
scrittura, 174 il cui mondo, a detta dell’autore, si è specializzato e
frantumato, sottoponendosi a un processo di disseminazione. In
particolare, il macro-ambito delle “scritture-di-sé” presenta una
molteplicità di forme espressivo-comunicative che vanno dall’epistola al
blog, e un pluralismo delle regole sintattiche e semantiche nel passaggio
173 Cfr. Turner V., Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna 1986. 174 Cfr. Cambi F., La cura di sé come processo formativo. Tra adultità e scuola, op. cit..
133
dalla scrittura tradizionale alla multimedialità.
Con riferimento alle scritture dell’io più tradizionali, nel solco di quella
cultura greco-ellenistica da cui proveniamo, possiamo considerare scrittura
di sé la “poesia lirica”, in quanto espressione del sentire del soggetto, della
sua sensibilità e creatività personale, del suo linguaggio. Anche il
“romanzo”, come abbiamo analizzato nel primo capitolo di questa tesi, è
scrittura di sé, in quanto per molti aspetti, gli altri io che vi compaiono
sono una proiezione dell’autore. Inoltre, sono scritture di sé, in modo più
diretto, tutte quelle forme espressive che vanno dal diario alle memorie e,
in modo particolare, l’autobiografia.
“Alle scritture-di-sé il soggetto affida il ruolo di farsi eco, vettore e forcipe
del proprio vissuto, sia come esperienze fatte sia come stile di far-
esperienza, come modo di disporsi rispetto agli eventi del vissuto, e
privato e pubblico, e intimo e storico a un tempo. Tali scritture sono
sempre, ‘specchio’ e ‘amplificazione’ dell’io-vissuto/vivente, momenti di
‘filtro’, di ‘deposito’, di ‘analisi’ e di ‘decifrazione’ più pacata, più riflessiva,
ormai fatta ‘ex post’”.175
L’autobiografia è, secondo Cambi, un “cammino per” un’identità, un “gioco
di interpretazione”, una “conquista di senso”, ma anche di non-senso, in
quanto predispone ad un conflitto in se stessi e con se stessi in vista di un
rimodellamento dell’io nel sé e un ricollocamento del sé nell’io. È in questa
prospettiva che la scrittura è “prendersi in cura” e “prendersi cura”, per
proteggersi dalla frammentarietà dell’esperienza, salvarsi dalla dispersione
e dalla perdita del vissuto.
L’autore individua nella Recherche di Marcel Proust176 l’esempio più alto e
complesso di scrittura autobiografica. Proprio attraversando quella sua
“cattedrale gotica” possiamo ritrovare i nuclei fondanti della scrittura di sé:
la “ricerca” come ricerca del passato e via d’accesso ai ricordi (la
175 Ivi, pp. 69 – 70. 176 Cfr. Proust M., Alla ricerca del tempo perduto, 4 voll., Mondadori, Milano, 1983-1993.
134
madeleine); il “percorso di eventi”, segni da interpretare per dare senso e
ordine alla propria identità (gli affetti famigliari, la vita di società, l’amore,
la stessa omosessualità dello scrittore); il “conflitto con se stessi” che si
gioca nella problematicità dei molti “io” presenti nel romanzo (Proust
insieme narratore, attore del vissuto e protagonista della Recherche).
Il modello proustiano ci presenta la scrittura autobiografica come la
realizzazione di un processo mentale articolato, complesso e asimmetrico,
rivolto al tempo stesso a riprodurre l’idea del sé e a tratteggiare un
ulteriore e possibile destino. In questa prospettiva, l’autobiografia è un
paradigma esemplare della cura di sé, in quanto attiva un percorso di
cambiamento del soggetto. Ciò che cambia tramite l’autobiografia non è
solo l’identità, che disvelandosi con la riflessione si dispone in un nuovo
ordine di senso; ma lo stesso prendersi cura di sé, in uno spazio interiore
dilatato e privilegiato, nel quale è possibile assumere un diverso
atteggiamento di comprensione e di tutela.
“Essa dà all’io identità e interiorità e riflessività a un tempo. E in questo
triangolo c’è il senso e il cammino del processo formativo”.177
La scrittura autobiografica, connettendo l’atto complesso di ideazione di sé
e del proprio mondo a quello costruttivo della composizione di un testo,
traccia “confini” e “strutture” del “progetto di sé”. Confini di tempo e di
luogo, come anche di età e di esperienze, fissando il processo stesso che
ha prodotto quell’io che oggi è la persona. Ripensare e comprendere i
propri confini è prender cura di sé, nel senso di farsi carico. È Il gioco
complesso dei confini a far emergere le strutture storiche e sociali,
psicologiche e ideologiche che consentono al soggetto di assumere
identità e senso, quel suo “habitus”, che una volta acquisito non può
essere dismesso, che permane come una risorsa e una potenzialità, fino
ad un ulteriore svolta della propria esistenza.
Questa è l’autobiografia contemporanea, che ha abbandonato l’intento
177 Cambi F., La cura di sé come processo formativo. Tra adultità e scuola, op. cit., p. 72.
135
celebrativo e giustificatorio, per assumerne uno problematico di
ripensamento dell’io e di ricerca di sé. Un esempio a noi vicino di tale
mutazione è “La coscienza di Zeno” di Svevo,178 che, nonostante l’uso
della terza persona, che tende a separare soggetto e scrittura, è la
proiezione dell’autore stesso, il riconoscimento della sua stessa indecisione
di vivere, della sua problematicità, che viene assunta alla fine come
destino. In questo senso, l’acquisire consapevolezza di sé attraverso la
scrittura produce identità, e al tempo stesso ci trasforma e ci induce ad
impegnarsi nel mondo.
La scrittura di sé implica un’attenzione al testo e alle sue tecniche di
costruzione. A questo proposito Cambi si chiede cosa accade alla scrittura
nel tempo della comunicazione informatica. C’è il timore che venga
sottratta a quell’atto privato che sta dentro l’esperienza di coscienza
interiorizzata per affermarsi come tecnica di tecniche per un uso
immediato e totale. Per dirla con Benjamin,179 c’è il rischio che la scrittura
perda l’”aura”, si desublimi per farsi mezzo, e come tale merce. “Blog” e
“forum”, insieme alle altre forme di multimedialità, pur con le loro evidenti
potenzialità creative e articolazioni comunicative, si consumano
nell’immediatezza della loro funzionalità, mettendo a repentaglio il ruolo
cognitivo-espressivo, problematico e interpretativo, che sta alla base della
testualità complessa della nostra cultura occidentale. Quella di Cambi può
sembrare una preoccupazione eccessiva, soprattutto per le prime
generazioni di “nativi digitali”, ormai giovani adulti; ma possiamo dire che
tutti, liberando la mano dall'impegno del segno grafico, abbiamo
potenziato e reso più dinamico e immediato il rapporto tra elaborazione
mentale e testo scritto. In questo senso la scrittura digitale è un
prolungamento dei nostri pensieri, che possono scorrere direttamente
sullo schermo senza bisogno di essere pre-costruiti col loro pieno senso.
Anzi, lo schermo del computer fungendo da specchio della nostra mente in
modo più rapido e diretto rispetto al foglio di carta, ci invita a pensare e
178 Cfr. Svevo I., La coscienza di Zeno, Garzanti, Milano 2007. 179 Cfr. Benjamin W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1966.
136
ripensare continuamente i propri pensieri, senza dover per forza rispettare
una sequenzialità lineare. Di contro, la possibilità che ci viene offerta di
poter stare contemporaneamente nell’intimità dei nostri pensieri e nella
rete pubblica dei pensieri e delle informazioni che arrivano dall’esterno, e
di poter ottenere rapidamente un riscontro delle nostre scritture private
con quelle degli altri, rischia di compromettere e frammentare quel
delicato processo di riflessività, interpretazione ed espressività che
caratterizza il testo scritto.
S’impone, allora, una riflessione critica sulla comunicazione informatica nel
tempo della “post-scrittura”, che non demonizzi le nuove tecnologie, ma le
collochi nel solco di un rinnovato impegno a riconoscere la complessità
strutturale del testo e il suo prezioso valore semantico e comunicativo.
Cambi a riguardo, riattualizzando le tesi di Barthes,180 pone in risalto il
“piacere della scrittura”, da coltivare proprio nella sua qualità di testo,
come esperimento sempre “in fieri”, interpretazione di significato e di
senso, dialogo con la corrente libidica del proprio inconscio, ed
espressione di forme estetiche.
La scrittura di sé va, quindi coltivata, sia per la sua funzione di piacere, sia
per quella di resistenza rispetto a quelle forme immediate, che riducono il
testo a comunicazione/informazione, eludendone la costruzione e le sue
complesse articolazioni.
In questa prospettiva, l’autobiografia si presenta come uno degli “esercizi
spirituali” privilegiati per la costruzione della propria identità, per la cura di
sé. Il riferimento al mondo classico-ellenistico, in cui la scrittura di sé
rivestiva un ruolo fondamentale, è utile a Cambi per sottolineare che
autocontrollo e umanità, come afferma la Nussbaum,181 e un’educazione
alla libertà del soggetto orientano una nuova educazione liberale, che
rinvia al tempo stesso all’antica lezione di Seneca, da cui discendono le
prime opere del genere, come il “Manuale” di Epitteto, i “Ricordi” di Marco
Aurelio, etc.. Ciò significa, quindi, che esiste una tradizione con cui
180 Cfr. Barthes R., Variazioni sulla scrittura seguite da Il piacere del testo, Einaudi, Torino, 1999. 181 Cfr. Nussbaum M., Coltivare l’umanità, Carocci, Roma, 1999.
137
confrontarsi e a cui ispirarsi. Nella Modernità, il modello è senz’altro
sant’Agostino, con il quale l’autobiografia diventa un dialogo tra se stessi,
la coscienza e Dio, un iter pedagogico che attraverso l’esercizio della
memoria, condurrà alla Redenzione. Anche Rousseau, sulle orme di
Agostino, si sdoppia, ma in forma laica, tra l’io e la coscienza; il terzo non
è più Dio, ma la società, che non salva, ma al contrario fa degenerare. È
proprio contro di essa che Rousseau scrive le Confessiones, per andare
alla ricerca del vero sé. Per entrambi, come del resto anche per Proust,
seppur in modo più complesso, la memoria seleziona i segni delle
esperienze, e l’interpretazione orienta nella ricerca di sé e nella
costruzione del senso dell’esistenza.
Secondo Cambi, quindi, è lungo la traiettoria di tale tradizione di cultura
che possiamo articolare un metodo autobiografico come via di cura, intesa
come diagnosi, terapia e farmaco. L’autobiografia è infatti, per lo studioso
tutte e tre le cose insieme. È “diagnosi”, in quanto disseziona il vissuto del
soggetto, osservandolo dal punto di vista della coscienza. È “terapia”,
perché attraverso la produzione di senso salva la persona restituendogli
un’identità nuova. Ed è un “farmaco” che dalla malattia dell’io produce i
suoi stessi anticorpi e antidoti.
Inoltre, l’autobiografia racchiude in sé anche un significato più pedagogico
di cura che sta nel “prendersi-in-cura”. Qui sta la sua attualità, ed il
motivo della proposta formativa che si cerca di articolare in questa tesi.
Nella nostra società del disincanto l’individuo necessita di strumenti e modi
per rivelarsi a se stesso, collocarsi nei suoi molteplici ruoli e decidere di sé
riunificando ragione e sentimento. Per tali scopi il paradigma del
“prendersi-in-cura” va assunto all’interno delle istituzioni formative e delle
agenzie educative, così come dei servizi sociali per formare la coscienza
professionale di coloro che vi operano, e applicarlo alle esperienze
educative e alle relazioni di aiuto.
“L’autobiografia come pratica formativa anche professionale ha questa
precisa valenza: di abituare il soggetto ad ascoltare se stesso (e da lì
138
l’altro), di delineare attraverso gli eventi un senso, di gestire quel senso in
modo consapevole, critico, aperto e responsabile, di dare al processo
formativo un traguardo personale e vissuto intenzionale. Ma, pertanto,
sempre problematico e aperto (= libero)”.182
L’autobiografia in ambito educativo e sociale è stata utilizzata da diversi
autori e da loro descritta in modelli, che hanno assunto in tempi recenti e
contemporanei una particolare efficacia e valenza autoformativa.
Nell’ambito di questa tesi ne presentiamo alcuni ritenuti più pertinenti con
quanto finora esposto, e tra i più significativi per le indicazioni di metodo
che se ne possono ricavare nelle prassi professionali e nei relativi
dispositivi d’intervento.
4.7 Le scritture-di-sé: l’approccio esistenzialista di Pineau
Nel panorama dei modelli e delle pratiche dell’autoformazione, Ivana
Padoan183 individua Pineau come erede di un approccio esistenzialista, in
quanto centrato sull’individuo, sul suo sviluppo personale, come presa in
carico dell'esistenza concreta, in tutte le dimensioni dell'essere: dal
conoscere, al fare, all'agire, all'esistere. Per quest’autore l'autoformazione
implica una doppia appropriazione: assumere su di sé il potere di
autoformazione, diventando, così, oggetto di formazione di se stessi per
se stessi.
Per Pineau il processo autoformativo si sviluppa in ritardo sia per la
nozione di incompiutezza dell'essere umano, sia per le forme
deterministiche ed evolutive di inculcamento nel corso della vita, e la
conseguente dipendenza educativa che ne deriva. La concezione
occidentale pedagogico-positivistica dell'educazione, e la concezione
psicologica, secondo la quale tutto accade nell'infanzia e nell'adolescenza,
hanno portato a privilegiare l’eteroformazione, ponendo l'accento quasi
esclusivamente sugli apprendimenti realizzati nel periodo della crescita 182 Cambi F., La cura di sé come processo formativo. Tra adultità e scuola, op. cit., p. 91. 183 Cfr. Padoan I., Modelli e pratiche dell’autoformazione, in Padoan I., Forme e figure dell’autoformazione, op. cit..
139
biologica. Ciò ha creato un effetto alone di misconoscimento del potere
dell’individuo su di sé.
Solo gli “esploratori di eccezione”, come sono definiti da Pineau,
cominciano a scoprire l'importanza dell'autoformazione, quando realizzano
lo scarto tra gli apprendimenti scolastici e quelli richiesti dalla pratica
professionale, e il valore e i vincoli della formazione sul lavoro.
È tramite le “biografie di vita” dei propri allievi che Pineau intuisce il valore
e l'importanza del sistema relazionale del contesto nella costruzione del
sé. La coscienza auto formativa e la necessità di rimettersi in discussione
con un'altra forma, implicano una rottura dello spazio vissuto e una
ricostruzione del senso e del significato delle relazioni personali e sociali.
Un primo indicatore di metodo, quindi, riguarda l’analisi delle “transazioni”
che avvengono negli spazi di vita dei soggetti. Si tratta di porre attenzione
ai significati di senso, che condensano sistemi interni con sistemi esterni e
alle forme trasversali transduttive, che operano nelle relazioni, occupando
tempi e spazi differenti. In questo senso autoformarsi consiste
nell’acquisire la capacità di gestire i rapporti transazionali dagli spazi di vita
quotidiana ai più estesi contesti sociali; il lavoro sulle transazioni permette,
così, alla persona di cogliere il proprio itinerario di vita, diventando
soggetto di formazione a se stesso.
Per Pineau, l’”autoformazione” si trova al vertice di un triangolo, alla cui
base si collocano l’”eteroformazione” fornita dall’istruzione e
l’”ecoformazione”, che si matura con l’esperienza. Si descrive, in tal modo,
un processo interattivo tra organismo e ambiente, che richiama il pensiero
sistemico di Bateson.184 L’autoriflessione, quale strategia autoformativa
che garantisce tale processo, si interiorizza e si personalizza come
emergente dal sociale attraverso la tecnica dell’”autobiografia”.
“Attraverso l'autobiografia il soggetto può ricostruire i frammenti
della sua vita e cercare di dare senso alle transazioni che gli
hanno permesso di modificare e di cambiare. Frammenti che
184 Cfr. Bateson G., Verso un’ecologia della mente, op. cit..
140
possono essere stati vincoli o risorse, ma che comunque lo
hanno indirizzato verso un senso o verso l'altro. La
riappropriazione dei frammenti prelude al costituirsi di alcune
comprensioni, di alcune padronanze di azione, ovvero di azione
di sé”.185
Pineau riprende, così, la lezione della “bildung” goethiana, di cui abbiamo
ampiamente trattato nel primo capito di questa tesi. Infatti,
l’autoformazione, attraverso le storie di vita, privilegia il paradigma
dell’esperienza vissuta a quello dell’apprendimento formalizzato. È
l’autobiografia ad innescare e favorire la riflessività della persona alla
ricerca del senso della propria esistenza, verso un diverso e nuovo livello
d’integrazione delle sue molteplici identità. Le storie di vita, in tal senso,
possono provocare quella che Mezirow indica come la trasformazione delle
proprie premesse, di cui s’è trattato nel precedente capitolo della tesi,
inducendo una trasformazione del soggetto, della sua storia e del suo
rapporto col mondo.
Per concludere la descrizione del modello autoformativo di Pineau, basato
sull’autobiografia, si riporta di seguito uno schema che illustra i campi
dialettici dell’uso delle storie di vita.
3 linguaggio
5 disapprovazione
4 distanziazione
2 passato
interlocutore 1
locutore 2
futuro
4 implicazione 5
approvazione
3 vita
185 Padoan I., Modelli e pratiche dell’autoformazione, in Padoan I., Forme e figure dell’autoformazione, op. cit., p. 142.
141
- “l'asse uno mette in relazione il soggetto e il gruppo dei pari come
partecipanti del percorso, la presenza di feedback o di counselor è
assicurata solo su richiesta;
- l'asse due riguarda la dimensione storica che prende radici nel passato
ma si proietta sull'avvenire, la ricostruzione svela piste per le azioni
future;
- l'asse tre si situa al cuore dell'azione. Consiste nel trovare le parole per
raccontare la propria storia, parole che, come dice Pineau, possono
fare violenza alla vita;
- l'asse quattro è il lavoro sull'implicazione e la distanziazione. La
distanza di sé verso il testo, anche attraverso lo sguardo dell'altro
verso il proprio testo, innescano l'emergere dello sfondo epistemico
della propria storia. La dinamica della tensione è la dinamica tra il
diurno e il notturno della propria esistenza;
- l'asse cinque riguarda l'appropriazione o la disappropriazione
complementare al lavoro intrapreso. In questa tensione emergono gli
obiettivi, nuovi interessi che prendono spunto sull'esperienza, ma
parlano già dell'avvenire.”186
Come si vede, il processo di transazione messo in risalto dalla doppia
valenza degli assi è il principio che orienta l’autobiografia verso uno
scambio reciproco. La riformulazione da parte del gruppo di ascolto
permette di svelare la trama sottostante (il tacito e l’impensato) alla
comprensione del soggetto, in quanto troppo implicato nel proprio
racconto. Il lavoro autobiografico coinvolge un gruppo di pari, in cui le
regole e i vincoli valgono per tutti:
- ciascun partecipante comunica in quali condizioni desidera socializzare
la sua autobiografia;
186Ivi, p. 145.
142
- vale la regola del segreto, per cui nessuna allusione può esser espressa
al di fuori dell’attività;
- si ha diritto a non rispondere a domande che possono apparire
inopportune;
- la narrazione condivisa è preparata precedentemente all’attività di
gruppo.
Scrivere e raccontare la propria storia è, quindi, un modo per rielaborare
la propria esistenza e, nel contempo, aiutare altri adulti a comprendere se
stessi. Realizzarlo nel gruppo consente di raggiungere un ventaglio di
obiettivi significativi:
- “metacognitivi”: pensare come pensiamo, ed esplicitare le cause che ci
hanno portato a pensare in tal modo;
- “formativi”: decostruire/costruire la propria identità e una progettualità
che la guidi;
- “motivazionali”: cogliere e apprezzare il potere che si acquisisce su di
sé;
- “euristici”: dare un senso alla propria vita passata per comprendere il
presente attraverso il ricorso a teorie esplicative, così da progettare un
futuro in modo sempre più consapevole.
4.8 Le scritture-di-sé: l’approccio fenomenologico di Demetrio
Un altro autore-chiave, che può aprirci le porte verso l’acquisizione di un
metodo autobiografico è senz’altro Duccio Demetrio. Secondo la lettura
che ne propone Ivana Padoan, Demetrio contestualizza la forma auto-
educativa in una rilettura “originale/originaria” della condizione
fenomenologico esistenziale del soggetto, includendo in essa l’insieme dei
paradigmi della vita e della morte, del lavoro e del gioco. Viene, così, a
configurarsi una concezione unitaria della complessità vitale della persona.
Vita personale, professionale, simbolica e immaginaria non sono da
considerarsi ambiti separati dell’esistenza, bensì interagenti. Perché ciò si
realizzi, la formazione è chiamata a includere le logiche del formale, non
143
formale e informale, in una prospettiva trasformativa e non gerarchica,
connessa alle necessità e possibilità del soggetto, dando qualità e valore
alle diverse forme della propria realizzazione esistenziale.
In questa complessità esistenziale, le pratiche di formazione che ogni
soggetto utilizza autonomamente nel corso della sua vita sono altrettanto
varie e complesse. Come per Cambi, sono pratiche di cura del sé,
finalizzate alla costruzione di quella forma comunicativa e conoscitiva di
cambiamento dell'esistenza. Più che di tecniche, si tratta di vere e proprie
pratiche tecnologiche dotate di una loro scienza, storia ed epistemologia.
L'autore le suddivide in “tecnologie rappresentazionali”, “conversazionali”
e “autoistruttive”. Vedi lo schema della pagina seguente.187
187 Demetrio D., Manuale di educazione degli adulti, Laterza, Bari-Roma 2000, p. 184.
144
Forme della scienza Tipologia Linguaggi e simboli Tecnologie rappresentazionali
drammaturgica e spettacolare
Teatro, danza, riti collettivi, pellegrinaggio, musica, festa, circo, psicodramma, melodramma.
iconica Scultura, ceramica, pittura, grafica, mosaico, miniatura, affresco, ex voto.
Tecnologie conversazionali e discorsive
narrativa Scrittura parietale, manoscritti, lettere, storie cantate, mimate, illustrate, fiabe, fumetti.
predicatoria Orazioni, comizi, sermoni, letture esegetiche, proclami, catechismi, esorcismi
Interattiva Dai dialoghi interpersonali e di gruppo, alle teleconferenze e alle reti informatizzate, per giungere alla realtà virtuale.
Tecnologie autoistruttive
Veicolare Libri, giornali cartacei e murali, almanacchi, enciclopedie, dissertazioni, dispense, manuali, raccolte iconografiche, floppy disk, chiave usb-audiovideo, cassette, dispense di autoistruzione.
meditativa Preghiere, esercizi spirituali mandala, mantra, koan.
L’insieme di queste tecnologie riguarda quelle che Demetrio considera le
due forme dell’autoformazione: quella esterna e indipendente dalle nostre
volontà, e l’altra che ciascuno costruisce consapevolmente per il desiderio
di inseguire nella più totale libertà e indipendenza i suoi richiami. Quanto
più la prima sa dare risposte individualizzate, ma non per questo meno
condivise a livello relazionale, più essa è in grado di alimentare la seconda.
È attraverso l’autoformazione che il soggetto si riconosce tale, con una
vita propria e indipendente, seppur connessa con quelle altrui. Per lo
studioso, l’autoformazione si estende oltre la scuola o la professione, verso
145
la costruzione di una “formae mentis” che metta la persona in grado di
attingere in autonomia per rielaborare il patrimonio acquisito. È un
progetto personale, un percorso di apprendimento e di perfezionamento
che va al di là delle conoscenze funzionali.
Tale educazione interiore che privilegia il dubbio alle certezze, ricerca le
domande e tollera l’incompletezza del conoscere, si svolge sia in luoghi
pedagogici in cui vi sia un programma che tende ad indurre eventi
riflessivi, ma anche e soprattutto in situazioni di esperienze umane: l'a-
more, la morte, il lavoro, il tempo libero, la conquista di uno spazio
sociale.
La cura dell’interiorità richiede un lavoro di “autopedagogia”, capace di
rinforzare l’io autoriflessivo, intorno ad una serie di intenzionalità
profonde, che Demetrio definisce “meditazioni”. Lo schema seguente ne
riporta la configurazione:
auto esclusione
auto prospezione auto
retrospezione
auto agnizione Ego
narrativo auto patia
auto cura auto
ispezione
auto esclusione
Secondo la Padoan i concetti evidenziati pongono alcune problematiche e
interrogazioni all'auto-pedagogia:
- “la problematica dell'autoesclusione: l'assunzione di una
consapevolezza, di una ricerca di un isolamento volontario, cercato e
senza voler esser disturbato;
- la problematica dell'autoretrospezione come ricerca di ciò che si pensa
di essere stati nel passato, un'attenzione traducibile con pratiche
autobiografiche;
- la problematica dell'autopatia, l'emozione di sentirsi vivo, come
capacità di un dialogo positivo con la propria interiorità;
146
- la problematica dell'autoispezione pone l'esercizio di analisi applicato al
proprio agire e pensare: pensiero costante volto al dominio del proprio
agire;
- la problematica dell’autoinclusione, la consapevolezza di appartenere a
un gruppo, capacità di distinzione di disponibilità nei limiti della
relazione;
- la problematica dell'autocura, volontà di occuparsi di sé, all'insegna
dell'autonomia e dell'indipendenza nel pensiero e negli affetti;
- la problematica dell'autocognizione come scoperta di chi si pensa di
essere nel presente. Una tensione continua nel decifrare sé stessi nel
vissuto, nelle circostanze diverse e nelle attività di prova della propria
capacità;
- la problematica dell'autoprospezione, capacità di immaginarsi in una
proiezione di sé nel futuro, in un continuum del passato.”188
È interessante rilevare come Demetrio si ponga in antitesi ad una
pedagogia del dover essere e del dover fare, e come, nel riconoscere il
diritto all’autopedagogia, nel proporre un progetto di educarsi in prima
persona, la narrazione sia da lui ritenuta una via d’accesso privilegiata
verso, appunto, l’autoformazione. L’autobiografia,189 in particolare, suscita
in chi la esercita una sorta di riaffezione a se stessi e al proprio passato, e
al tempo stesso un’attività di carattere metacognitivo – autoriflessiva,
coscienziale, introspettiva – sempre più raffinata ed educabile. Da una
parte si tratta di raccontare quei passaggi esistenziali che hanno
contrassegnato la propria formazione, dall’altra, porre attenzione al lavoro
mentale che si compie per raccontarsi, spiegare chi siamo, che cosa ci
aspettiamo dalla vita. Occorre allora acquisire una “competenza
autobiografica”, alla quale si è tenuti a corrispondere se si vuole
padroneggiare un metodo spendibile anche socialmente. Tale prospettiva,
188 Padoan I., Modelli e pratiche dell’autoformazione, in Padoan I., Forme e figure dell’autoformazione, op. cit., p. 160. 189 Cfr. Demetrio D., Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, R. Cortina, Milano, 1996.
147
che riflette quella di questa tesi, intende l’autobiografia non come un
genere narrativo solipsistico, bensì come metodo di testimonianza civile e
sociale per sé e per gli altri. Possiamo pensare la stessa storia come
all’intreccio di una moltitudine di storie individuali.
Secondo l’autore, per acquisire una competenza autobiografica occorre
mettere a fuoco due questioni fondamentali:
- l’importanza di considerare la vita come fonte conoscitiva privilegiata
riguardo l’apprendere dall’esperienza, l’incontro con i maestri, quegli
eventi apicali amorosi o dolorosi che ci rendono adulti, etc.;
- l’attività mentale indispensabile alla sua rappresentazione giorno dopo
giorno, in quei momenti di bilancio esistenziale, che stimolano la
narrazione di sé.
Perché entrambi questi momenti possano essere espressi e rielaborati, dal
punto di vista metodologico, che è quello che più ci interessa, si rendono
necessarie due prassi:
- sperimentare diverse strategie cognitive, creative e introspettive per
lasciare testimonianze e tracce esistenziali della propria storia
individuale, e anche per “dire di sé”, per presentarsi agli altri;
- circoscrivere durante o al termine delle attività di scrittura quei temi
individuati come possibili generatori di cambiamento, dedicando ad
essi una riflessione sempre più approfondita riguardo origine, ruolo e
ricorsività nella propria vita privata e pubblica.
In tal modo la memoria rivisitata dalla scrittura dà luogo a qualcosa che
l’oltrepassa. Ritrovare i propri ricordi, ritrascriverli suscita emozioni, altri
racconti e riflessioni, per il cui tramite è possibile prefigurarsi ciò che si
intende essere e fare.
In ciò consiste l’aiuto che educatori, assistenti sociali, docenti e formatori
possono offrire il più precocemente possibile a coloro di cui si occupano.
L’autobiografia come cura di sé risponde, perciò, da un lato alla conquista
di una sempre maggior consapevolezza del proprio stato esistenziale;
dall’altro alla scoperta, sempre più evidente, che scrivendo, si pensa di
più, in altro modo, si cresce in intelligenza. Potremmo affermare che la
148
scrittura di sé, in particolare, consente, su un piano metacognitivo, di
pensare i propri pensieri.
4.9 Le scritture-di-sé: l’approccio costruttivo-relazionale di Le
Bohec
Nel tentativo di esplorare in modo più mirato l’ambito delle tecniche
relative alle “scritture-di-sé”, ci affidiamo a un particolare autore, Paul Le
Bohec, allievo e seguace di Celestine Freinet ed esponente di rilievo della
F.I.N.E.M. (Fédération Internationale des Mouvements d’Ecole
Moderne).190 Il movimento degli insegnanti Freinet è rappresentato anche
in Italia,191 dove fra l’altro Paul Le Boech ha condotto numerosi seminari,
ad alcuni dei quali ho avuto l’opportunità di partecipare, traendone un
significativo bagaglio di abilità e competenze sul piano personale e
professionale.
Paul Le Bohec sviluppa e arricchisce la sperimentazione delle tecniche
freinetiane, definendo “ricerche-invenzioni” le proposte di attività che
elabora. A partire dall’interesse per le motivazioni che sostengono il suo
forte investimento in ambito pedagogico, si trova ad analizzare la propria
traiettoria di vita e quella degli allievi alla Facoltà di Scienze della
Formazione di Rennes.
Avverte allora come alcuni di questi studenti, che aveva ritenuto carenti,
fossero in realtà bloccati nel loro apprendimento, perché “ingombri” dai
propri condizionamenti.
190 “La Federazione è stata fondata dal pedagogista e Maestro francese Celestin Freinet nel 1957. Il suo scopo, ora come allora, è di realizzare nei diversi paesi del mondo le condizioni per il diritto di tutti all’istruizione secondo i principi dell’educazione attiva, e di dotare le istituzioni scolastiche di risorse tali da consentire un’educazione dinamica e una reale alfabetizziazione culturale.” Vedi <www.fimem-freinet.org> 191 “Il Movimento di Cooperazione Educativa (Mce) è nato in Italia nel 1951 sulla scia del pensiero pedagogico e sociale di Célestin ed Elise Freinet. All’indomani della guerra, nel momento di pensare alla ricostruzione, alcuni maestri quali G. Tamagnini, A. Fantini, A. Pettini, E. Codignola e più tardi B. Ciari, M. Lodi e tanti altri, si unirono attorno all’idea di una cooperazione solidale che diviene crescita e integrazione sociale. Non si è trattato solo della introduzione e utilizzazione di alcune tecniche di base, ma di dare vita a un movimento di ricerca che ponga al centro del processo educativo i soggetti, per costruire le condizioni di un’educazione popolare, in quanto garanzia di rinnovamento civile e democratico.” Vedi: <http://www.mce-fimem.it>
149
Trova nella pedagogia freinetiana dell’”espressione-creazione” un modo
per aiutarli a fare “pulizia interiore”, così da renderli più disponibili
all’apprendimento e capaci di acquisire nuove conoscenze.
Citando Pierre Boulez, Le Bohec afferma che “l’espressione presuppone un
detonatore. Occorrono un esplosivo e una miccia, e un detonatore per
accenderla”;192 L’esplosivo, afferma l’autore, esiste in ognuno di noi fin
dalla nascita e si costituisce attraverso gli eventi della nostra esistenza. In
tal senso, ogni creazione di una nuova tecnica pedagogica costituisce
un’ulteriore possibile miccia.
In questa prospettiva Le Bohec sviluppa il metodo delle “co-biografie
professionali” nella formazione:193 l’elaborazione, la raccolta e il confronto
in gruppo di biografie personali, attraverso le quali si cerca di individuare i
debiti familiari e il progetto di vita di ognuno quale fonte della propria e
dell’altrui formazione.
Descrivere il metodo delle co-biografie di Le Bohec significa avventurarsi
nel racconto di un racconto, anzi di molteplici racconti, che il maestro
stimola a narrare attraverso spunti di riflessione che inducono ciascun
“biografo” ad uno scavo profondo della propria storia e della propria
“psico-storia”. La condivisione dell’esperienza che si svolge nel gruppo
consente di eludere la dimensione solipsistica della scrittura, ma è proprio
lo specchio degli atteggiamenti e dei comportamenti degli altri ad aiutare
ciascuno a concentrarsi sul proprio racconto. Il formatore legge le
dinamiche del gruppo, sopporta i silenzi e tollera le pagine bianche degli
allievi, li invita discretamente a superare i timori, le ritrosie, le ansie che si
addensano intorno al compito di indagare se stessi a partire dalle proprie
origini. Orienta e chiarisce le dimensioni emotive ed affettive, che la
scrittura di sé implica; fino a comunicare concretamente i propri pensieri a
margine dei testi e, come risultato delle reazioni dell’allievo biografo,
proporre nuove vie di ricerca. In seguito, quando il gruppo si è attivato,
192 Le Bohec P., L’école, réparatrice de destins? Sur le pas de la méthode Freinet, Ed. L’Harmattan, Paris, 2007. 193 Cfr. Le Bohec P., Les co-biografies dans la formation, in Documents de l’Educateur P.E.M.F., Cannes, 1985. Vedi < http://www.icem-pedagogie-freinet.org/node/20976>.
150
stimola l’espressione di sé per se stessi e per gli altri, salvaguardando
l’intimità, ma anche esponendo ciascuno agli altri attraverso forme di
protagonismo protetto. In tal modo favorisce le intese e la creazione di
coppie o sottogruppi ristretti in vista del lavoro sulle corrispondenze
biografiche. Si tratta di passare da un pensiero lineare centrato sul sé e
sulla propria visione del mondo e degli altri, ad un pensiero più complesso
e aperto alla problematicità del reale e delle relazioni; da un pensiero
dicotomico in base al quale ci identifichiamo sempre e solo con una parte
del sé, ad un pensiero complementare che ingloba le parti, anche quelle
che di solito restano nell’ombra o che tendiamo a proiettare al di fuori di
noi, negli altri e che invece, tramite il confronto e lo scambio possiamo
ritrovare e riconoscere in noi stessi, per tollerarle e rielaborarle in vista di
futuri cambiamenti. Così, il lavoro sulle co-biografie realizza un
movimento, un trascorrere dal riflettere come identità singolare ad un
riflettere come identità plurale. Lo schema nella pagina seguente delinea
in sintesi gli indicatori di questo passaggio che è continuo e reciproco.194
194 Liberamente tratto da: Movimento di Cooperazione Educativa in <http://www.mce-fimem.it/archivio/down/2003/scuola/down/aiutarsi.rtf>.
151
IDENTITÀ SINGOLARE IDENTITÀ PLURALE
Rapporti caratterizzati dalla logica lineare, del tutto o niente (o ci capiamo o non ci capiamo)
Rapporti caratterizzati dalla logica costruttiva, in cui diversi elementi possono rapportarsi in una molteplicità di modi (non ci capiamo molto nella discussione, ma ci capiamo bene nel cercare di divertirci, nel cibo,...)
L'individuo viene considerato in assoluto; ogni informazione, evento, conoscenza è in rapporto con l'individuo soltanto.
Importanza dei contesti. Ogni evento può collocarsi in diversi contesti.
Il soggetto, in rapporto alla conoscenza, è egocentrico: ritiene esista un solo modo di conoscere, il proprio.
Il soggetto, in rapporto alla conoscenza, è epistemico e sociocentrico: è capace di una pluralità di modi possibili di conoscere e tiene conto dei modi altrui.
Il linguaggio è impiegato per trasmettere un sapere con caratteristiche statiche e con un'organizzazione di tipo gerarchico, con un registro formale
II linguaggio è strumento regolatore del rapporto tra individuo e individuo, individuo e contesto, ed è flessibile e connettivo
L'identità in rapporto all'apprendimento procede attraverso l'omogeneità dei soggetti che apprendono: ogni elemento che determina una diminuzione dell'omogeneità è considerato ostacolo all'apprendimento
L'identità in rapporto all'apprendimento procede attraverso la comparazione delle pluralità di richieste e di modalità e stili. L'eterogeneità del gruppo di soggetti (diversità) è un dato di realtà e determina la stessa possibilità di conoscere.
Sarebbe riduttivo parlare di un metodo delle co-biografie. Dalle
considerazioni che Le Bohec trae dai suoi resoconti, emerge piuttosto
l’intenzione di favorire la ricerca da parte di ciascun allievo di un proprio
metodo auto-biografico, che si traduce nel rigore di una “tecnica di vita”
personale attraverso la scrittura-di sé.
“Chi segue le tracce di Freinet si sforza sempre di partire
dall’esperienza reale, dalla vita stessa. E’ a partire dai fatti, dagli
avvenimenti e dagli interrogativi che essi suscitano negli individui
- e dalle ipotesi che non mancano di scaturire nei gruppi di
152
ricerca di cui essi fanno parte - che possono realizzarsi le
acquisizioni più solide, le migliori integrazioni di un sapere”.195
Punto di partenza è una vera e propria anamnesi familiare, una raccolta di
fonti, di dati personali e dei propri famigliari (genitori, fratelli, sorelle,
nonni, zii...), di tutte quelle informazioni, notizie, sensazioni, eventi apicali,
aneddoti, etc., che orientano ciascuno a delineare una sorta di diagnosi
personale, in base alla quale esplorare le proprie traiettorie di vita; fare un
bilancio esistenziale, attraverso il quale riconsiderare i debiti e i crediti
dovuti o ricevuti dal proprio ambiente famigliare, dai vissuti infantili, dai
primi inserimenti nella vita sociale: la scuola, le amicizie, gli amori, gli
adulti di riferimento, etc. Si tratta, in qualche modo, di riconciliarsi con il
proprio passato, con i conflitti, le fughe, i rifiuti, le rinunce per
comprendere quanto sia dovuto alle proprie scelte e non sempre
imputabile a un destino giudicato avverso. Al tempo stesso dal proprio
bilancio emerge quanto ciascuno ha acquisito nel corso del proprio
sviluppo in termini di conoscenze, di abilità (cosa ho imparato e da chi),
come anche in termini di intelligenza emotiva, di capacità relazionali e
sociali, i propri sogni, le proprie aspettative, etc.. Ciascun allievo nello
scambio biografico acquista da una parte la capacità di far testimonianza
di sé, dall’altra di proporsi quale ascoltatore attento, interessato e mai
giudicante della testimonianza altrui.
“È a partire da se stessi e dagli elementi della propria vita che si
può consolidare la propria comprensione del mondo. La vita degli
altri può costituire un utile specchio per riflettercisi. Bisogna che
esploriamo i contesti del nostro passato per situarci meglio nel
nostro presente. Ci occorre uno sguardo approfondito per
discernere meglio elementi che non sono immediatamente
coglibili. In molte professioni, l’adulto è uno ‘strumento’ di
fondamentale importanza. Bisogna quindi perfezionare tale
195 Le Bohec P., Les co-biografies dans la formation, in Documents de l’Educateur, op. cit.
153
strumento cercando di chiarire il massimo possibile su di noi.
Saremo, così, molto più disponibili”.196
Per comprendere come iniziare un’autobiografia che implica la propria
genealogia, riportiamo di seguito una griglia che serve, appunto, da
traccia per scrivere di se stessi.
Racconta un episodio significativo personale......................................................
Scolastico........................................................................................................
Familiare.........................................................................................................
Un ricordo del contesto ambientale....................................................................
Come si trascorreva una festività.......................................................................
Vacanze durante l’infanzia.................................................................................
Quali richieste facevano i genitori rispetto al successo scolastico?........................
Che previsioni venivano fatte (o vengono fatte) rispetto all’investimento nella vita
professionale futura?........................................................................................
Una persona che ha lasciato una traccia in te o nella tua famiglia........................
Un cambiamento nel regime di vita familiare che ha inciso significativamente.......
Momenti “ascendenti” o “discendenti” sul piano economico, sociale,................
del regime di vita familiare...............................................................................
Qual è stato o è il tuo posto in famiglia nella ‘serie’ familiare (genealogia
genitori/figli; rapporti con fratelli/sorelle e collocazione nella ‘fratria’:
maggiore/minore, mediano,...; altri eventuali parenti;...)....................................
Come avrebbe potuto essere la tua vita se... (ad es.: se avessi avuto o non
avessi avuto fratelli/sorelle,...)...........................................................................
Cosa attribuisco ai miei genitori rispetto alla mia evoluzione successiva alla vita in
famiglia (‘debiti’ o ‘crediti’)
- in positivo...............................................................................................
- in negativo..............................................................................................
A coppie. Tentate un’analisi comparata di ‘casi’ familiari......................................
È qui implicito un presupposto etico che comporta un principio di
assertività della propria testimonianza, per cui, rivolgendosi a se stesso e
196 Ivi
154
agli altri, ciascuno dovrebbe poter affermare: “So solo ciò che tu mi dici”.
In tal senso, la funzione di chi conduce tale percorso auto-formativo,
tramite la scrittura-di sé, è anche quella di indurre l’allievo-biografo a
mettersi veramente in gioco, eludendo il compiacimento narcisistico e/o
superando la paura del giudizio. Per questo motivo, potremmo dire,
parafrasando Foucault,197 che la ricerca della propria “parresia”, nel senso
della verità più intima, significa indagare i modi di parlare a un individuo,
all’anima di un individuo: un atto che riguarda la maniera in cui
quest’anima verrà formata.
197 Cfr. Foucault M., Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), Feltrinelli, Milano 2009.
155
Conclusioni
Giunto al termine di questo lavoro, sento l’urgenza di scrivere in prima
persona e di esporre le mie conclusioni in quella forma narrativa che ho
tentato di analizzare nel corso della tesi. I motivi di tale scelta sono diversi
e proverò a raccontarli in questa riflessione finale.
Prima di tutto, una volta sgravato dal compito di elaborare un testo
congruente con il tema trattato e coerente con le finalità che avevo
prefigurato, avverto un senso di maggior consapevolezza su quanto sono
andato acquisendo nel corso del lavoro di tesi, e un sentimento di libertà
che mi invoglia a sciogliere i pensieri dai vincoli della ricerca teorica per
approcciarmi ad un’euristica più affine alla mia professionalità.
Durante la ricerca delle fonti, che ha preceduto e accompagnato il lavoro
di tesi, mi sono reso conto che nell’universo della formazione la
dimensione narrativa occupa una galassia assai ampia. Da qui la scelta di
iniziare la mia esplorazione da quei pianeti che ho ritenuto più ospitabili. E
da lì partire per scoprirne altri meno noti o del tutto sconosciuti. Per
indugiare ancora un po’ nella metafora spaziale, è mia intenzione nel
prossimo futuro rientrare a bordo della navicella per proseguire il mio
viaggio, perché gli autori studiati hanno lasciato in me suggestioni
profonde: le loro concezioni e i loro modelli mi suggeriscono di
sperimentare nuovi approcci empirici nel mio lavoro d’insegnante e di
formatore.
Ad esempio, l’analisi del romanzo di formazione di Moretti, che spazia dalla
critica letteraria, alla psicologia, alla psicanalisi, alla sociologia, alla
antropologia, etc., implica, secondo me, la formazione di un nuovo lettore
postmoderno, che non si lasci attrarre dalle lusinghe di una lettura
immediata, rapida, discontinua e frammentaria, tipica della nostra società
della conoscenza, in cui la disponibilità di testi e scritture varie è
decuplicata dalla virtualità dell’online; dovrebbe, altresì, essere aiutato a
riflettere sulle implicazioni delle sue scelte letterarie, sulle preferenze di
autori e di genere, su come le stesse hanno influito sulle proprie visioni del
156
mondo e possono orientare in un senso o nell’altro le esperienze della
quotidianità, fino a modificare la propria identità.
Quella che per Bruner è una attitudine o predisposizione a organizzare
l’esperienza in forma narrativa, 198 ci permette, al tempo stesso, di
ricostruire la realtà dandogli un significato specifico, definendoci come
soggettività, e di negoziare significati comuni, di veicolarli e scambiarli,
definendoci anche come relazionalità. È, secondo me, su questa
reciprocità che devono iscriversi le pratiche narrative che ho cercato di
delineare nella tesi: auto-formative sul piano personale e formative su
quello sociale. In questa prospettiva la cura di sé è anche e soprattutto
cura delle relazioni. La lettura può trovare, quindi, anche modalità di
condivisione, l’auto-biografia può declinarsi in co-biografie. Insieme ad
altre forme narrative, alle quali ho solo accennato, come il teatro, la
performance e le arti plastiche, costituiscono mediatori d’eccellenza che
favoriscono la coesione di un gruppo e l’integrazione delle differenti
identità.
Seguendo l’archetipologia di Gilbert Durand è possibile ritrovare i regimi
diurno e notturno dell’immaginario nelle scritture di sé: 199 coglierli e
rielaborarli per se stessi, interpretarli agli altri e per gli altri, è un percorso
attraverso il quale strutturare processi di auto-analisi, di
decostruzione/costruzione del sé, di quelle dimensioni della propria
identità che ci appaiono più conflittuali e, a volte, persecutorie; ma anche
di quelle dimensioni più ideali e utopistiche, eludendo le quali spesso
bruciamo molti dei nostri sogni.
La riflessività è, quindi, il perno che permette alla narrazione di sé un
continuo dialogo con i propri contesti di vita e di lavoro, perché non si
limita a ripensare ex-post l’azione, ma al suo interno ne esplora le diverse
opportunità e potenzialità. Solo così è possibile modificare quelle risposte
routinarie ai problemi, per le quali, in modo spesso irriflesso, riproponiamo
198 Cfr. Bruner J. La ricerca del significato, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, ed. or. 1990. 199 Cfr. G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, op. cit..
157
soluzioni già sperimentate anche se insoddisfacenti. Sviluppare la propria
capacità riflessiva significa estendere la riflessione includendovi anche il
soggetto. Significa, come ci avverte, Schön,200 interrogarsi non solo su ciò
che si presenta nel nostro campo operativo, ma anche su se stessi, sul
grado di apertura con cui riusciamo ad osservare la realtà e ad affrontarla.
In questa tesi ho cercato di affermare che la riflessività non è solo
un’azione meditata, di quelle che inneschiamo quando identifichiamo una
relazione, riconosciamo una teoria o diamo un giudizio. È, piuttosto un
processo complesso, attraverso il quale valutare criticamente sia il
contenuto sia il processo delle nostre azioni.
Diventa allora utile, se non necessario dedicarsi a una narrazione declinata
attraverso una scrittura-di-sé, che implica quel rigore della testualità, cui
fa riferimento Cambi. 201 Mi riferisco, in particolare, all’atto
dell’interpretazione, che coinvolge la propria personalità globalmente e, in
tal senso, può favorire la rielaborazione e il cambiamento delle
premesse202 con le quali interpretiamo le nostre esperienze, dando alle
stesse un significato nuovo, rendendole, cioè più comprensibili, e al
contempo modificando noi stessi. In ciò, probabilmente sta quel piacere
del testo, di cui ci parla Barthes,203 e cioè nel produrre un soggetto nuovo,
attraverso il testo, ma già potenzialmente altro nella sua traiettoria di vita.
Queste sono alcune delle suggestioni, che condizioneranno l’analisi, la
progettazione e l’azione futura riguardo le mie prassi professionali.
Dall’altra parte, penso di aver compiuto anche un viaggio nel passato, utile
a riconoscere le mie attuali competenze, a calcolare e valutare debiti e
crediti formativi personali. Un viaggio a ritroso che mi ha dato
l’opportunità di chiarire meglio i rapporti tra la dimensione operativa del
mio lavoro e i modelli di riferimento, i cui apporti, mi auguro, arricchiranno
l’esperienza. Da questo punto di vista mi riconosco in un processo di
longlife learning, non solo mirato all’acquisizione di competenze, quanto 200 Cfr. Schön D., Il Professionista Riflessivo. Per una epistemologia della Pratica Professionale, op. cit.. 201 Cfr. Cambi F., La cura di sé come processo formativo. Tra adultità e scuola, op. cit.. 202 Cfr. Mezirow J., Apprendimento e trasformazione, op. cit.. 203 Cfr. Barthes R., Variazioni sulla scrittura seguite da Il piacere del testo, op. cit..
158
piuttosto a coniugare in modo aperto e flessibile un insieme articolato di
saperi, con la complessità di un percorso, che si sviluppa in una spirale,
attraverso fasi di apprezzamento – azione - nuovo apprezzamento. In tale
percorso convergono anche dinamiche incerte, rapporti ambigui, modelli
compositi e pratiche multiformi.
Allora, questa tesi può essere letta a margine come una specie di
autobiografia professionale, tappa fondamentale di un cammino, compiuto
in compagnia di alunni, studenti e colleghi, guidato da maestri e mentori,
in un rete di relazioni, che hanno contribuito a dare senso e significato alla
mia formazione.
Proprio in segno di riconoscenza e di riconoscimento reciproco, ho inserito
in appendice il resoconto redatto da un gruppo di studenti tirocinanti
dell’Università di Padova – Facoltà di Scienze della Formazione, i quali,
accompagnati dal prof. Senofonte Nicolli, hanno partecipato a una
giornata di formazione condotta dal sottoscritto e da Nerina Vretenar. In
questo pur breve seminario, occasione per gli studenti di incontro con i
maestri del Movimento di Cooperazione Educativa, sono rintracciabili
alcune delle proposte sul metodo narrativo nell’ambito della formazione,
esposte nella tesi. La dimensione narrativa è rilevabile a più livelli. Dal
gioco iniziale all’invito a raccontare di sé; dall’uso di una storia di vita
come esempio educativo di integrazione scolastica alla sua rielaborazione;
e poi, la presentazione del documentario nel quale Mario Lodi racconta le
tecniche didattiche della scuola attiva. Infine, è da notare la precisione e
la cura con la quale gli studenti tirocinanti hanno documentato
l’esperienza, restituendo, così, a se stessi e ad altri indicatori utili per la
progettazione di dispositivi in ambito educativo e formativo. Ciò è il
prodotto di un intenso lavoro di osservazione, studio e riflessività, durante
il quale gli allievi del corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria,
guidati dal prof. Senofonte, si sono esercitati a lungo con la scrittura nei
loro Diari di Bordo e nella documentazione delle esperienze formative
realizzate.
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Appendice
A PARTIRE DAI BAMBINI E DALLE BAMBINE204
Nerina Vretenar, insegnante scuola primaria, MCE Venezia-Mestre205
Tiziano Battaggia, insegnante scuola primaria, MCE Venezia-Mestre206
L'ACCOGLIENZA
Nerina Vretenar. Una delle pubblicazioni più significative del Movimento di
Cooperazione Educativa è un piccolo libro (purtroppo quasi introvabile ma
speriamo di ripubblicarlo presto, aggiornato, perché è molto richiesto) che
ha un titolo che è quasi uno slogan: "A scuola con il corpo".207 Contiene
esperienze e riflessioni di insegnanti, animatori, ricercatori e artisti attorno
a un tema fondamentale: la necessità di partire dal corpo come strumento
di relazione, di conoscenza, di espressione; l'importanza di acquisire
consapevolezza, come insegnanti, del fatto che l'apprendimento e la
costruzione dell'identità passano necessariamente attraverso la
conoscenza e la messa in gioco del sé corporeo.
Tutto ciò non era affatto scontato nel 1974, quando, generalmente, del
bambino a scuola si prendeva in considerazione solo la mente.
204 Il 14 maggio 2012 Nerina Vretenar e Tiziano Battaggia, maestri del Movimento di Cooperazione Educativa, hanno suggerito un approccio all'insegnare e all'apprendere proponendo, con una metodologia laboratoriale, alcune esperienze formative a un gruppo di studenti tirocinanti del terzo anno di Scienze della Formazione Primaria dell'Università di Padova. Ne documentiamo attività e pensieri. 2 Quaderno di Cooperazione Educativa n. 8, La Nuova Italia, Firenze 1974 205 Nerina Vretenar. Insegnante di scuola primaria a tempo pieno. In MCE ha partecipato ai gruppi di ricerca sulla Formazione Linguistica e sull'educazione alla Cooperazione e ha fatto parte della Redazione della rivista Cooperazione Educativa. Si occupa delle iniziative di formazione del gruppo MCE di Venezia-Mestre. Fa parte della Redazione dei "Quaderni MCE". 206 Tiziano Battaggia. Insegnante di scuola primaria. In MCE ha partecipato al Gruppo Nazionale Informatica. Svolge attività di formazione alla relazione educativa e conduce seminari di animazione e laboratori di attività espressive per insegnanti, genitori e educatori. È tutor organizzativo e didattico all'Università Ca' Foscari di Venezia nell'ambito del Master in Comunicazione e Linguaggi Non Verbali (Psicomotricità, Musicoterapia e Performance) presso il Dipartimento di Filosofia e Beni culturali. 207 Quaderno di Cooprazione Educativa n. 8, La Nuova Italia, Firenze 1974
160
Per questo questa mattina abbiamo iniziato il nostro incontro con alcune
attività motorie "giocose" di rilassamento, di saluto, di conoscenza
reciproca proposte da Tiziano. Il gioco è un'attività importantissima
proprio perché coinvolge tutto il corpo: facilita quindi la conoscenza di sé e
degli altri e la comunicazione, consente un uso creativo e cooperativo
dello spazio, crea un clima positivo di benessere e fiducia reciproca
favorevole alla concentrazione e all'apprendimento. Ho colto molti sorrisi
di benessere nel corso dei giochi e mi sono molto compiaciuta perché nei
percorsi di formazione con adulti queste esperienze riescono
bene soprattutto con i giovani che mostrano di avere una marcia in più nel
riuscire al mettersi in sintonia con molti linguaggi e diversi modi di
comunicare.
SCRITTURE AUTOBIOGRAFICHE
Nella prossima attività che vi proponiamo useremo invece la parola e la
scrittura. Vi sarà proposto di scrivere un breve testo su un'esperienza
personale, un'esperienza vissuta in ambito scolastico, cioè il territorio
su cui vi giocherete nella vostra professione futura.
Ricordiamo per inciso che ci sono esperienze interessanti di formazione di
operatori nell'ambito di professioni che implicano la relazione
(l'insegnamento è tra queste) basate sul confronto e la riflessione
sull'esperienza personale, soprattutto sulle emozioni vissute come
operatori o come utenti nella relazione. Si tratta di una pratica conosciuta
come autobiografia professionale, che parte dall'idea che ogni volta che
noi svolgiamo un'attività che implica una relazione, vi siamo coinvolti con
le nostre emozioni ed è importante che ne siamo consapevoli per
costruire relazioni più rispettose e positive.
Vi chiediamo, allora, una scrittura, breve e veloce. Il contenuto è questo:
raccontare un'esperienza positiva vissuta a scuola, come scolari e scolare,
studenti e studentesse nella scuola primaria o anche nella scuola
secondaria o superiore; qualcosa che vi è rimasto nella memoria e che
ricordate con piacere.
161
LETTURA DELLE SCRITTURE E RIFLESSIONI
Vi ho chiesto di scrivere perché la scrittura aiuta a selezionare, da spazio e
tempo al pensiero e permette a chi scrive di rivederlo e migliorarlo prima
di offrirlo agli altri. La scrittura può essere conservata e raggiungere
altre persone anche lontane nello spazio e nel tempo.
La scrittura (come la parola) va curata e valorizzata anche a scuola come
momento importante di comunicazione e di condivisione, ma non ci può
essere motivazione (e quindi miglioramento della competenza) se
le scritture vengono lette solo dall'insegnante e solo per essere
valutate. La scrittura può essere importante anche per gli altri: per questo
ora che avete scritto i vostri ricordi, vi chiedo di leggerli e di dare un titolo
ad ogni storia.
Giovanna. Una dolce infanzia
Alla scuola dell'infanzia mi piaceva molto preparare la merenda per i miei
compagni. Era un momento in cui mi sentivo già grande ed era un grande
privilegio poter aiutare le maestre in questo lavoro.
Lo ricordo ancora adesso con piacere perché per me non era un lavoro,
ma un gioco divertentissimo durante il quale, quando chiacchieravo
troppo, la maestra mi infilava in bocca un pezzetta di mela per farmi
tacere.
Che dolce punizione!
Ilenia. Un amore di maestra
Alla "vecchia" scuola media ho passato dei momenti positivi grazie ad
un'insegnante di lettere. Questa persona è sempre stata fiduciosa nelle
mie capacità e nelle mie possibilità di migliorarmi sempre. Ancora oggi, a
distanza di un po' di anni da quando ero sua allieva, si preoccupa di come
vado a scuola. E sempre per me un piacere incontrarla per caso per
strada.
Giulia. Il mio primo riassunto
162
Ricordo con piacere (e un pizzico di orgoglio) quel momento in cui la
maestra di italiano ci assegnò un compito ben preciso: fare il riassunto di
un racconto del sussidiario. Era la prima volta, non avevamo mai fatto un
riassunto prima di allora!
Io, munita di penna e buona volontà, mi misi subito all'opera. Sapevo di
aver fatto un buon lavoro, ma dovevo aspettare la conferma della
maestra. Con un po' di timore le porsi il mio quaderno e dopo che ebbe
finito di leggere il mio lavoro, mi guardò con faccia stupita: "Ottimo
lavoro! Ti metto un bel Bravissima!". Che soddisfazione!!
Elisa Sartori. Curiosità
Ricordo con piacere le lezioni di italiano alle scuole medie perché la
professoressa sapeva stimolare la mia curiosità anche se la materia non mi
è mai piaciuta molto.
Roberto Biasin. L'asceso
Durante la scuola media, dopo aver preso alcuni brutti voti in matematica,
finalmente capisco dove sbagliavo. Da quel momento il mio approccio alla
materia cambia radicalmente e inizio a fare gli esercizi, che prima non
comprendevo, con piacere e i brutti voti si trasformano in bei voti. Quel
periodo scolastico mi rimarrà sempre impresso, perché ha segnato una
svolta positiva nella mia carriera scolastica e nella considerazione di me
stessa.
Luca. Io filosofo
Ricordo in quarta superiore, quando l'insegnante di storia e filosofia mi
interrogò in filosofia, materia che amavo. Stavamo studiando Hegel, e
venni interrogato per mezz'ora sulla sua filosofia. Avevo studiato
parecchio, perché volevo entrare dentro alla filosofia, alla sua filosofia.
Ricordo i primi giorni di studio: sconsolato. Sconsolato perché non trovavo
il senso, il mio senso, non vi ero dentro. Poi mi sono sbloccato
mentalmente e l'ho capito [Hegel]. E mi ero appassionato. Fu
163
un'interrogazione "epica", probabilmente la migliore della mia camera
scolastica. Ricordo che non risposi a domanda, ma costruii un discorso. E,
alla fine, la prof. mi chiese un parere personale, mi chiese cosa pensavo
della filosofia di Hegel, la mia idea e le mie riflessioni al riguardo.
Sembrerà una stupidaggine, ma l'ho vissuta., "con onore". Mi sono sentito
considerato adulto, chiamato a confrontare i miei pensieri con quelli di un
"alto filosofo". E la mia idea interessava a qualcuno.
Gloria: Che fatica la fisica
In quarta superiore abbiamo studiato Fisica con un'insegnante molto
rigida che pretendeva tanto da noi studenti. In questa materia, però, non
ero brava e per quanto mi impegnassi arrivavo a malapena alla
sufficienza. Quanti pianti quell'anno!
Ricordo con piacere che alla fine dell'anno in pagella non avevo cinque,
come mi aspettavo, ma sei. Per me è ancora un ricordo positivo perché il
mio impegno era stato premiato.
Quella volta mi sono sentita bene.
Il lavoro
Federica. di gruppo
Mi ricordo di quando alle scuole superiori lavoravamo in gruppi per
tradurre le versioni di latino. C'era sempre chi lavorava di più e chi meno,
ma tutti erano disponibili a suggerire interpretazioni e significati.
Succedeva sempre che venissero fuori frasi strane o senza senso, motivo
per noi di grandi risate e ironia nei confronti di quei grandi vecchi autori.
Elisa Santolin. Soddisfazione
Ripensando ai momenti positivi vissuti a scuola, la prima cosa che mi
viene in mente riguarda la consegna di una verifica di matematica corretta
alla scuola primaria. L'insegnante prima di farcela vedere ha chiesto
chi, secondo noi, avesse preso "ottimo", e tutti abbiamo esclamato in
coro: "Francesco", la più brava della classe. Invece no, non era lei quella
volta. Ero io!
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Penso di essere diventata bordeaux in volto, ma ero felice! Per la prima
volta mi era andata bene la verifica di matematica e da quel giorno è
diventata la mia materia preferita.
Sara. Lezione all'aperto
Mi ricordo che, con l'inizio della primavera, alla nostra maestra di Scienze
(la maestra! Michela) piaceva portarci a fare lezione in giardino. Era bello,
ci piaceva fare lezione] stando seduti con il quaderno sull'erba. Ricordo
che ci mandava in "esplorazione" ini giardino, ci faceva cercare quello di
cui parlava, rendeva le lezioni quasi come un] gioco. Era bello che la
maestra ci lasciasse "giocare".
Angela. I segni della scrittura
Quando ero in quinta superiore, il mio Professore di pedagogia ha invitato
un'esperta che ha interpretato i segni della nostra scrittura (grafologia).
Questo ha fatto nascere in me un grande interesse per l'argomento. Il
fatto che il mio Professore fosse una persona culturalmente attiva è // mio
bel ricordo della scuola.
Giulia. La vita
Ricordo con piacere un'esperienza fatta alla scuola elementare con il mio
maestro di Scienze. Abbiamo piantato tante piantine di fagiolo dentro dei
vasetti e le abbiamo messe una alla luce e una al buio, una al caldo e una
al freddo, una all'aria ed una coperta da un sacchetto di nylon, una
l'abbiamo innaffiata ed una no. In piccoli gruppi abbiamo osservato cosa
succedeva dopo qualche giorno ad ogni piantina. Così abbiamo scoperto
quali sono le condizioni affinché si sviluppi e cresca la vita. Ho vissuto
questa esperienza con entusiasmo e stupore.
Stefania. Un rapporto speciale. (Orgogliosa di averti conosciuto prof.)
Il ricordo che conservo con piò affetto della scuola risale a qualche anno
fa, di preciso al 2008, cioè al quinto anno del liceo. Si riferisce ad un
165
professore in particolare, con il quale avevo instaurato un rapporto
speciale di fiducia e confidenza. Con questa persona riuscivo a farmi
capire al volo e mi sentivo apprezzata. Avevamo interessi molto simili: ad
entrambi piacevano il teatro e la musica, in particolare quella classica, ma
soprattutto condividevamo il piacere per la conoscenza, quella
incondizionata voglia di sapere senza un fine preciso, per il semplice gusto
di comprendere il mondo.
Proprio per queste affinità è stata una delle figure maggiormente
significative nella mia vita e per questo tenevo particolarmente al suo
parere. Ricordo con enorme piacere il modo in cui mi sono sentita quando,
consegnandomi un compito poco prima dei tanto temuti esami di maturità,
mi ha detto sottovoce: "Brava! Sono fiero di te".
Roberto Zen. La mia piccola pagnotta di pane
L'esperienza scolastica che ricordo con più piacere è stata in prima
elementare, quando la maestra di italiano ci portò in aula di Immagine e ci
fece fare il pane. Ricordo, come se fosse ieri, la grandissima soddisfazione
che provai portando a casa la mia piccola pagnotta. Prima della
realizzazione del pane avevamo fatto visita al panificio del paese, mentre
dopo l'esperienza realizzammo un libro con le nostre foto mentre
impastavamo che ancora conservo e riguardo con piacere di tanto in
tanto.
Claudio. // sorriso di Vienna
II primo ricordo che mi è tornato alla mente di un'esperienza positiva
vissuta come studentessa è legato all'ultima gita scolastica di piò giorni.
Era la quinta superiore e siamo andati per una settimana a Vienna.
Mi sono tanto divertita in quei giorni con le mie compagne e amiche,
mi sono innamorata di quella città e ho trascorso momenti piacevoli e
divertenti. Quando ci ripenso, mi toma sempre il sorriso sulla bocca.
Sicuramente è uno dei momenti che ricordo più piacevolmente della mia
esperienza scolastica.
166
Nerina Vretenar. Trovo che ci sia una grande ricchezza in quello che avete
scritto. Vi chiedo ora di rilevare se c'è qualcosa di comune che ritorna nelle
esperienze che avete letto e se c'è qualcosa in particolare che possiamo
sottolineare. La domanda potrebbe essere: che cosa rende positivo lo
stare a scuola e favorisce l'apprendimento?
Luca. La gratificazione. Data dall'insegnante.
Nerina Vretenar. Insomma: un riconoscimento positivo al tuo essere o al
tuo fare.
Ilenia. lo dire che quello che conta è la fiducia reciproca fra insegnanti e
alunni.
Gloria. La differenza la fanno degli insegnanti di qualità.
Nerina Vretenar. Che nomi daresti alla parola "qualità"?
Gloria. Saper stimolare interesse e curiosità, saper proporre esperienze
significative.
Nerina Vretenar. Cioè persone che non propongono percorsi banali.
Roberto. A me viene in mente la parola crescita, perché servono
momenti che facciano crescere.
Nerina Vretenar. Potremmo dire, quindi, che a scuola c'è un momento
significativo quando la persona si accorge che ha fatto un passo avanti,
che ha conquistato qualcosa, che ha capito che sa fare una cosa nuova.
167
Roberto. Penso anche alle opportunità di crescita offerta dal fare
esperienze significative in gruppo.
Giovanna. lo penso che a scuola serva soprattutto entusiasmo. L'ho
ritrovato in tutti i ricordi che ho ascoltato. L'entusiasmo lo vedo legato alla
scoperta, lo porta l'insegnante e i bambini lo sentono, lo raccolgono e lo
aumentano.
Nerina Vretenar. È una cosa importante l'entusiasmo; proviamo ad
esplicitarlo, come lo potremmo chiamare? Lo chiedo perché mi pongo il
problema del significato delle parole da ritrovare a distanza di tempo,
quando non avremo più così preciso il ricordo delle esperienze ascoltate.
Giovanna. Direi coinvolgimento; cognitivo ma anche emotivo.
Nerina Vretenar. Potremmo dire: coinvolgimento emotivo dell'adulto?
Giovanna. Sì, proprio così.
Elisa Sartori, lo metterei responsabilità, perché i momenti positivi a scuola
sono stati certamente occasione di crescita, tutti noi ci siamo sentiti più
responsabili, un po' più adulti. Anche la gratificazione è collegata al
sentirsi più autonomi, capaci di prendere in mano la propria vita.
Nerina Vretenar. Ti va bene se diciamo: assunzione di responsabilità da
parte degli alunni?
Elisa Sartori. Sì, certo.
Nerina Vretenar. Mi sembra che in tutti i racconti venga sottolineata la
presenza di una positiva relazione educativa, di un coinvolgimento emotivo
che mette insieme l'adulto e il bambino. Si tratta di ricordare che a scuola
si va anche con le emozioni e che perché le cose funzionino serve un
168
insegnante attento, autenticamente appassionato e costantemente
disponibile a mettersi in gioco anche nella relazione; ovvero che creda
nell'alunno, nella possibilità per tutte le persone di fare dei passi avanti,
nella possibilità di costruire situazioni di benessere e di crescita per tutti.
Allora un altro slogan potrebbe essere: "Stare bene a scuola". In tutte le
situazioni che avete ricordato, innanzitutto, siete stati bene in una
relazione: perché qualcuno aveva fiducia in voi, perché qualcuno vi
confermava, perché potevate rilevare un passo avanti che vi veniva
riconosciuto, perché c'era una situazione di comunicazione efficace.
Perché l'adulto e il bambino, alla pari nella relazione pur con ruoli diversi,
nella scuola si sono ritrovati entrambi coinvolti e parte di uno stesso
progetto.
Tiziano Battaggia. I vostri racconti mi rimandano a Karl Rogers, secondo il
quale l'apprendimento comporta sempre una partecipazione globale della
persona sia sul piano affettivo — emotivo, sia su quello cognitivo.
Esperienze positive, come quelle che avete rievocato, stampandosi nella
memoria corporea, vi hanno reso più disponibili ad apprendere. È come se
noi, attraverso la nostra esperienza scolastica, aggiungessimo dei segni
positivi [+] nella nostra memoria corporea che ci portano ad aver fiducia,
ad essere coinvolti emotivamente.
Naturalmente l'esperienza scolastica non è fatta soltanto di segni positivi
[+], ma anche di segni negativi [-], di resistenze, di rifiuti, di conflitti. Però
la possibilità di crescita è legata al fatto che in questa memoria corporea i
segni positivi [+] siano in maggioranza.
Poi c'è una memoria razionale, che è l'insieme delle conoscenze che si
hanno di sei stessi: riguarda la capacità del soggetto di avere una
consapevolezza del proprio] saper fare, dell'essere autonomo e
responsabile. La memoria razionale ha bisogno di strumenti, che a scuola
non possono essere' soltanto le verifiche o i voti; si costruisce, piuttosto,
attraverso un lavoro sull'identità, sulla consapevolezza di saper fare, sui
processi che sviluppano competenza (il saper fare la differenza tra ciò che
169
sapevo fare prima e cosa e come ho imparato a fare dopo). La scuola
dovrebbe essere il luogo preposto a creare questo tipo di consapevolezze.
Nerina Vretenar. In tutte le situazioni positive raccontate è evidenziato un
contesto particolarmente significativo: un contesto di forte relazione con
un'insegnante, fatta di stima e fiducia reciproca, di condivisione di
interessi, di affinità, di ascolto attento da parte dell'adulto, che segue con
partecipazione la crescita dei piccoli, che apprezza gli sforzi e festeggia
"con faccia stupita" e con gioia sincera le loro conquiste; un contesto di
forte relazione tra compagni, in cui c'è il piacere della condivisione e
dell'aiuto reciproco vissuto come "un privilegio" che fa sentire "già grandi";
un contesto in cui vengono proposte attività concrete, significative, un fare
reale (fare il pane o accompagnare la crescita di una pianta o visitare una
città) che costruisce conoscenza.
Perché nella scuola è così importante predisporre e curare i contesti?
Perché sono i contesti che con-tengono la situazione, l'esperienza,
determinandone il valore. Don Lorenzo Milani in Lettera a una
professoressa aveva indicato il problema principale della scuola: "La
scuola ha un solo problema:..." Ma non voglio completare la frase
di don Milani; la scopriremo alla fine della mattinata. Voi oggi ci avete
portato le vostre esperienze; noi vi portiamo il racconto di Hakim, un
bambino di nove anni. È importante nella scuola ascoltare le esperienze di
vita, accoglierle, tenerne conto, partire da queste. E quella che vi
racconterò ora è un'esperienza drammatica.
L'ATTESA E IL SILENZIO: A PARTIRE DA UNA STORIA Dl VITA208
Hakim ha potuto stare con i suoi compagni, sentirsi come loro, sentirsi
parte del suo gruppo, quando ha potuto rientrare in classe portando la
propria storia.
La maestra che l'ha seguito per un anno aveva il compito, non facile, di
aiutare lui e gli altri bambini che arrivavano da lontano, dopo lunghi viaggi
208 Carnio E., Il racconto di Hakim, in Cooperazione Educativa, n. 3, 2004
170
che spesso erano stati tragiche fughe, a "diventare soggetti nella vita
sociale della scuola". D'accordo con i colleghi aveva rifiutato, fin dall'inizio,
la soluzione facile e uguale per tutti di limitarsi a insegnare l'italiano per
mettere i bambini ''stranieri" in grado di comunicare e di seguire il
lavoro della classe. Illusorio. In nessun caso l'accanimento didattico, da
solo, avrebbe dato buoni risultati.
La strada dell'integrazione, invece, secondo la maestra, doveva essere
diversa per ciascuno: poteva essere il lavoro sul gruppo classe
particolarmente competitivo e in difficoltà rispetto all'accoglienza di una
nuova presenza. Poteva essere un percorso sulla cultura di provenienza
del bambino straniero che desse a lui una diversa e più fiduciosa
consapevolezza e agli altri una capacità di decentrarsi non meno utile alla
loro crescita. Poteva essere un percorso sui ricordi di persone e luoghi
amati e lasciati, che accumunava nel rimpianto l'ugandese e l'immigrato
meridionale, il figlio di genitori separati e il figlio di lavoratori trasferiti a
poche centinaia di chilometri. Poteva essere un viaggio nelle storie e nelle
leggende di luoghi lontani nel mondo. Poteva essere, come per Hakim,
l'attesa e il silenzio... Ho scelto di lavorare su due versanti: con tutta la
classe inventando un percorso sull'amicizia, la conoscenza di sé, la
relazione, la cooperazione; con Hakim da solo una volta alla settimana. Ed
è iniziata l'attesa.
A un certo punto, eravamo già verso la fine dell'autunno, Hakim ha
cominciato a raccontare...
Un mese è durato il racconto, tra ricordi offerti generosamente,
trascrizioni mi puntigliose messe a punto di Hakim... Alla fine ha deciso
che il racconto era pronto.
"La mia vita, in Kosovo, trascorreva tranquilla, tra i giochi con i miei
fratelli specialmente con il piò piccolo e l'aiuto che cercavo di dare in
famiglia, aspettando di avere l'età per andare a scuola. In Kossovo la
scuola comincia a sette anni.
La mamma lavorava in campagna, aiutata in questo lavoro dai miei fratelli
maggiori e dai nostri vicini di casa che venivano quando c'era bisogno di
171
dare una mano, ad esempio per la vendemmia, per la raccolta delle
pannocchie, per seminare.
Un giorno, mentre la mamma mi stava facendo il bagno e
contemporaneamente stava attenta che il pane messo a cuocere nel forno
non bruciasse, sentimmo bussare forte in maniera agitata alla porta di
casa. Era un nostro vicino, amico di mio papa che ci urlava:
"La guerra! La guerra! Dovete andare via tutti, scappate, perché è
diventato pericoloso rimanere ancora".
Alla mamma dispiaceva lasciare il pane nel forno, ma la vita è più
importante del pane!
Non capivo cosa stava succedendo, però erano giorni che si sentivano
strani scoppi sempre più vicini, vedevo gli aerei e gli elicotteri volare quasi
sopra le nostre case e la mia mamma spaventata ci copriva la testa, si
copriva anche lei le orecchie perché il rumore era troppo forte e tante
volte ci svegliava anche di notte.
Sempre urlando e agitato, il nostro vicino ci diceva di fare presto, di
lasciare tutto, che non c'era più tempo. Allora la mamma ci prese delle
cose da mangiare che aveva in casa, i soldi e, come eravamo, siamo usciti
dalla nostra casa di corsa, con quel signore che ci guidava in un posto
dove c'erano tante altre persone che lo aspettavano.
Dopo aver camminato tanto, siamo arrivati a una grotta, si sentivano delle
voci anche di bambini, era piena di persone. Siamo rimasti lì per un po',
tutti vicini. Alcuni uomini a turno facevano la guardia fuori e noi dentro
cercavamo di non far rumore.
Le mamme e gli uomini discutevano sempre, qualcuno piangeva.
Non mi ricordo bene quando siamo usciti di lì e perché, so che abbiamo
dovuto camminare ancora tanti giorni tutti insieme e in silenzio. Abbiamo
attraversato delle colline: faceva tanto freddo e c'era molta neve. Noi ci
siamo riparati con delle coperte, ma io e anche gli altri avevamo freddo lo
stesso. A un certo punto gli adulti hanno deciso di dare ognuno un po' di
soldi per pagare degli autisti che ci avrebbero portato con le macchine in
172
un paese vicino al mare. In questo posto ci siamo divisi, alcune famiglie da
una parte, altre da un'altra.
Noi eravamo ospiti in una casa un po' isolata dalle altre, mia mamma però
conosceva quelle persone, così potevamo rimanere. Dalle finestre si
vedeva il mare, io non l'avevo mai visto, mi sembrava tutto così strano,
non capivo più niente, vedevo i grandi parlare a bassa voce, tristi, con
certe facce strane, non capivo perché.
Un giorno ho visto mia madre dare dei soldi ad un signore che le disse di
tenersi pronta per quella notte.
Siamo partiti di notte, in una barca con altre persone, eravamo tutti vicini
in silenzio. Il signore della barca non era gentile, ci trattava male. A un
certo punto, quando credevamo di essere ormai arrivati, si mise ad urlare
a voce alta, diceva tante parolacce, girò la barca e tornammo indietro.
Era davvero molto cattivo con tutti, ci scaricò a terra e se ne andò.
Restammo in quel posto per altro tempo poi la mamma diede dei soldi ad
un altro signore, più gentile. Con il suo motoscafo veloce ci trasportò in
Italia. Ora sono qui con la mamma, i miei fratelli e la nonna. A volte mi
viene in mente la mia casa nel Kossovo.
lo ho capito bene cos'è la guerra quando ho visto un missile colpire un
autobus pieno di persone (tra loro c'erano anche i miei vicini di casa),
quelle che si sono salvate scappavano da tutte le parti.
Se ci penso, sento qualcosa in gola che non mi fa mandare giù la saliva,
divento triste e mi viene da piangere; ma sento il rumore degli aerei
fortissimi e ho ancora paura. Allora penso che sto meglio qui."
Inutile dire che la lettura del racconto in classe (era stato preannunciato
perché fosse l'attesa, lo spazio era stato preparato con cura, era stato
scelto il momento più opportuno) fu seguita con un'attenzione e
un'emozione straordinarie. Alla fine un applauso aveva sciolto il silenzio,
ma non subito, dopo un momento interminabile in cui il tempo sembrava
sospeso.
Solo da lì è cominciata, per Hakim, una nuova vita in cui ha sentito di fare
parte del suo gruppo.
173
Tiziano Battaggia. Dopo avere ascoltato il racconto di Hakim, vi chiederei
di dividervi in piccoli gruppi e di provare a rielaborare questo racconto per
ripresentarlo, insieme alle suggestioni e alle emozioni che ha evocato,
attraverso una performance: un testo scritto, un'azione drammaturgica,
un'azione grafica.
Nerina Vretenar. E importante il contesto in cui un racconto o una scrittura
nascono, insieme e in cui vengono utilizzati. Per far nascere il piacere e il
desiderio di raccontare è necessaria una dimensione "pubblica" in cui sia
prevista la comunicazione.
Così ora il racconto di Hakim può essere lo stimolo per un altro racconto,
da offrire agli altri: il vostro racconto.
PERFORMANCE DI GRUPPO.
Sara. Il mio gruppo ha immaginato le cose assolutamente importanti che
metterebbe in una valigia se dovesse scappare di casa come Hakim:
soldi perché senza non si può vivere;
un album con le foto delle persone care;
il gatto;
un telefono: poter continuare a comunicare, è importante;
un peluche che mi rassicuri;
il computer, archivio e mezzo per restare in contatto con il mondo;
libri: restano un riferimento indispensabile;
la scatola dei ricordi per conservare memoria del mio passato;
un mattone, per "ripartire e ricostruire" una nuova vita.
Tiziano Battaggia. Dal punto di vista della performance educativa, l'evento
che voi avete creato avrebbe necessità di una ulteriore rielaborazione. Ad
esempio nella valigia si potrebbero distinguere i bisogni dai desideri.
174
Roberta. Il mio gruppo ha pensato di scegliere, fra i tanti, due colori e di
associarli alla storia di Hakim.
Roberta. Il colore blu lo collego alla traversata sulla barca, il nero
pensando al buio della grotta.
Elisa Santolin. Associo il grigio alla grotta, l'arancio al momento in cui a
scuola Hakim ha detto di sentirsi bene.
Martina. Il rosso lo associo alla guerra; il verde al momento in cui è Hakim
arriva in Italia con la speranza di poter ricominciare una nuova vita.
Claudio Telatin: il colore giallo è per l'inizio della storia, quando Hakim
ancora gioca con i suoi fratelli; il grigio è associato al suo disorientamento
iniziale dopo l'inizio della guerra; il blu rappresenta il momento della fuga,
il rosso la delusione dell'attesa e la rabbia dopo il primo tentativo di fuga
con la barca, il nero riporta alla guerra; il verde, infine, lo utilizzerei per
descrivere l'inizio di una nuova vita in Italia.
Tiziano Battaggia. La possibilità di esprimersi attraverso il colore è sempre
stimolante. Con i bambini possiamo creare una sequenza di colori e
utilizzarla per creare una storia che racconti una situazione di benessere o
di disagio. Il colore, come il suono, agisce sul nostro organismo al di là
della nostra volontà. Ambedue ci determinano sensazioni di benessere o
malessere in rapporto alla nostra storia personale.
Stefania. Il mio gruppo vorrebbe ripresentare, attraverso una breve
scenetta narrata mimata, la storia di Hakim.
Sono Hakim e le giornate scorrevano tranquille nella mia casa.
Ma un giorno qualcuno bussò alla porta.
Dovevamo scappare, di corsa, senza sapere dove, lasciando tutte le nostre
cose.
Faceva freddo.
175
Arrivammo al mare e dopo un lungo viaggio quando speravamo di essere
arrivati in Italia quell'uomo cattivo ci riportò a casa, ma il secondo
tentativo andò meglio.
Ora sono qui in Italia e vado a scuola; mi mancano il mio paese e la mia
casa, sono vivo sto bene e sono lontano dalla guerra; ho una nuova vita.
Drinnnnn (suona il campanello di casa).
Akim, forza vieni a giocare!
Sì arrivo!
Per noi la scuola dovrebbe essere un luogo in cui rielaborare le proprie
esperienze personali (prima parte della scenetta) però anche un luogo in
cui crearsi una vita nuova e serena, con l'aiuto dei compagni (seconda
parte della scenetta). Una buona scuola è quella che aiuta a elaborare
quello che si è e quello che si diventerà.
Tiziano Battaggia. È sicuramente complesso rendere espressivo il gesto,
richiede un lavoro sulla nostra espressività psicomotoria, però è stato
interessante osservare in questa performance il tentativo di trasformare la
mimica in un gesto drammatico. C'è un gioco che propongo ai miei
bambini: ognuno pensa a una emozione particolare e poi si dispone
davanti ad un grande foglio bianco attaccato al muro, provando a
rappresentarla con una posizione del corpo; infine si contorna con un
colore la sagoma del corpo e si chiede agli altri bambini di mettersi in
quella stessa posizione e provare ad esprimere quello che sente.
Lavorare sull'espressività dei gesti significa anche entrare nelle emozioni
degli altri e permettere agli altri di sentire le proprie.
Luca. Noi abbiamo provato a fare un brainstorming registrando le nostre
sensazioni suscitate dal brano; poi abbiamo scelto alcune parole-chiave
per comporre una poesia. Le parole uscite dal brainstorming sono:
vertigine, vuoto, fumo, nero, cadere, nausea, paura, bum, allerta, senza
respiro, ansia, fame, calore, sapone, sudore, missile, bomba, angoscia,
silenzio, fuga, grida. Tutte le parole hanno un loro significato; "vuoto" e
176
"vita" sono le uniche parole che stanno da sole i.el verso, sono le parole
centrali della poesia che abbiamo composto:
Dal pane caldo,
alla vertigine del
vuoto
angoscia e fuga,
in un silenzio che nemmeno il sapone può lavare
quanto amaro e quanto mare
per una nuova vita.
Nerina Vretenar. Offrire emozioni è sempre un dono; io mi sono
emozionata davanti alle vostre performance e di questo vi ringrazio perché
c'è stato passaggio di comunicazione. Ci tenevamo che passasse il
messaggio che le situazioni (in questo caso una narrazione) possono
essere utilizzate come stimoli e rielaborate, filtrandole attraverso le
esperienze personali e le personali intenzioni di comunicazione. Siamo per
una scuola degli stimoli e non per una scuola dei modelli; non si tratta di
riprodurre ma di rielaborare, utilizzando il filtro delle proprie conoscenze e
sensibilità; trasformando le emozioni in espressione e quindi in
comunicazione. Abbiamo a disposizione linguaggi diversi per comunicare
ed esprimere; se più linguaggi vengono messi a disposizione dei bambini,
maggiori sono le possibilità di un loro coinvolgimento. Nei processi di
apprendimento si intrecciano così un percorso collettivo (cooperativo) e il
percorso particolare di ciascun bambino.
MARIO LODI, UN MAESTRO MCE
Mario Lodi è stato un insegnante elementare del Movimento di
Cooperazione Educativa dagli anni '50 agli anni '80; oggi continua a offrire
il suo contributo! pensiero e di proposte educative nella "Casa delle arti
e del gioco" a Drizzona (Cremona), dove si occupa del potenziale creativo
dei bambini e delle bambine e raccoglie, in collaborazione con le scuole,
le loro produzioni grafiche, pittoriche, scritte (poesie e racconti). Perché lui
177
e il suo gruppo restano fedeli all'idea che tutti hanno delle potenzialità e
qualcosa da dire, soprattutto i bambini; e che la creatività infantile è una
grande risorsa che non dobbiamo disperdere. Il Movimento di
Cooperazione Educativa, di cui Mario Lodi è uno dei maestri più noti,
nasce in Italia negli anni '50 sull'onda della ricerca e dell'esperienza di un
maestro francese, Célestin Freinet, che proponeva e soprattutto
"praticava" una scuola basata sulla cooperazione e la condivisione delle
responsabilità, sull'esperienza, sullo studio del proprio ambiente, sulla
libera espressione corporea, in ambito figurativo e linguistico (la pittura, il
teatro, il testo libero), sulla comunicazione (la corrispondenza e il
giornale scolastico), sul "calcolo vivente", su un "metodo naturale” di
apprendimento che sostituisse l'insegnamento autoritario e trasmissivo
allora in voga. Di Mario Lodi abbiamo pensato di farvi vedere uno
spezzone tratto dal documentario "A partire dal bambino". Si tratta di una
selezione da molte ore di ripresa fatte dal regista Vittorio De Seta (il
regista del film per la TV "Diario di un maestro" che negli anni '70 ebbe un
ruolo importante nel far conoscere le pratiche dei maestri MCE). Il
documentario ci mostra "in diretta" molti momenti della vita in classe,
aggiungendo sequenze in cui il maestro commenta e chiarisce il senso
delle attività proposte ai bambini.
Ascoltiamo insieme le sue parole.
La cooperativa scolastica.
Per realizzare un giornale di scuola che riporti le notizie della classe e del
paese e che vada venduto, c'era bisogno di fare i conti e tenere la
contabilità. Così ci siamo costituiti come cooperativa, cioè i bambini hanno
costituito una cooperativa; perciò abbiamo bisogno continuamente di
discutere, di prendere decisioni: cosa fare con i soldi che abbiamo, quali
problemi affrontare, che cosa realizzare. Tutti i giorni abbiamo spese,
entrate da segnare; è chiaro che questo implica una quantità di problemi
matematici e di calcolo di percentuali. Ma non è solo questo; è soprattutto
una visione della vita che continua, che si progetta, che si porta avanti
178
insieme, prendendo degli impegni. Questo mettere il bambino in rapporto
con un impegno, con una decisione e soprattutto con il rendere conto
(una cosa che oggi in Italia si dovrebbe imparare fin dai banchi della
scuola) al gruppo-comunità, mi pare una cosa importante, un valore.
Dialogo con i bambini
Maestro. Dopo tre mesi che teniamo una cassa è ora di fare il bilancio,
cioè di vedere tutto quello che abbiamo speso e il valore che abbiamo e le
cose che abbiamo affidato ad altri e che devono essere pagate. Quando
avremo fatto il bilancio sapremo esattamente se noi siamo in attivo o in
passivo, cioè se abbiamo debiti o crediti, se andiamo bene o se andiamo
male. Sapete cos'è un bilancio? Qualcuno l’ha visto fare?
Bambino. Mio zio fa l'ambulante e quando ha finito di vendere guarda
quanti soldi ha preso e quanti soldi ha speso.
Maestro. E tu, come lo sai?
Bambino. Perché quando ero in seconda ci andavo sempre insieme.
Bambino. lo ho visto mio papa fare un bilancio, quello dell'azienda, perché
comprano e vendono e allora prendono soldi.
Il calcolo vivente
Noi studiamo la vita, l'ambiente e non c'è niente che non sia in relazione
con la matematica. Raccogliamo i dati della meteorologia per farne poi la
carta del tempo della nostra zona che rientrerà nello studio del paese e
troviamo anche lì la matematica con le percentuali e le quantificazioni. La
troviamo nella storia dei nostri contadini, come ci ha raccontato la mamma
di Umberto quando ci ha detto che il granoturco veniva ripartito a quarti
(un sacco al contadino, tre socchi a quello che ci mettevo la terra),
scoprendo nella matematica anche le ingiustizie sociali. La troviamo nella
storia dello mongolfiera che stiamo costruendo: calcolo dei venti per potei
spostarsi da una zona all'altra, calcolo delle distanze tra una zona e l'altra,
uso delle carte geografiche. Tutto quello che l'uomo fa, ha in qualche
modo rapporto con matematica.
179
L'espressione orale
Dialogo con i bambini
Maestro. Ci sono dei bambini che hanno qualche testo orale da
raccontare?
Bambino. Mio zio quando era venuto fuori dal lavoro, è andato sopra la
macchina e ha visto mio papa seduto lì che era già morto e l'ha visto lì
trasparente e ci è restato due ore. Dopo è spanto e poi è venuto a casa e
me l'ha detto.
Bambino. Un giorno ero andato al cimitero ho visto la foto di un morto
sulla tomba e mi sembrava di avere visto lui; non sapevo se era vero o
immaginazione.
Maestro. Da quando è morto il papa di Gianbattista, avete questi pensieri
piuttosto tristi.
I testi che generalmente si ascoltano al mattino sono scambi di idee e di
esperienze, sono momenti della vita di ognuno; non è che si
programmino. Vengono naturalmente quando si scopre che c'è un
rapporto di amicizia tra di noi e sono importanti per l'educatore per capire
il bambino giorno per giorno nei suoi problemi, nei suoi momenti di
felicità e di tristezza, per andare a fondo nella sua vita: senza la
conoscenza del bombino non possiamo illuderci di educare, di formare, di
intervenire positivamente; non c'è processo educativo che non sia
inserito sulla realtà del bambino.
Oggi abbiamo sentito alcuni di questi testi. C'è chi obietta che sono cose
banali, che sono cose minime, che il bambino a scuola deve imparare cose
importanti. E vero che deve imparare cose importanti e che ci si deve
arrivare, ma la vita del bambino non può essere buttata a mare. A noi
sembra una banalità, per lui è importante: sono importanti i suoi rapporti
famigliari, i rapporti che ha con l'ambiente che lo circonda. Per questo è
importante fare emergere questi momenti, analizzarli in maniera non
troppo scolastica, partire dalle esperienze che colpiscono il bambino,
sviluppare alcuni temi.
180
Noi ci troviamo sempre collegati con i problemi generali e con la realtà più
ampia: i testi che possono sembrare banali, invece, hanno incredibili
sviluppi perché sono legati agli interessi veri dei bambini. Ne è un esempio
il testo di una bambina, mentre eravamo a scuola un mattino, che ha
dato origine alla storia della mongolfiera.
Un foglio che era sopra la stufa a tratti si alzava e volava come un
aquilone.
Casetta lo osserva e i bambini che mettono le mani sulla stufa si
accorgono che quando coprono il flusso dell’aria calda il foglio si abbassa,
quando tolgono le mani, il foglio si mette a volare. Nasce così la scoperta
che l'aria calda che esce dalla stufa va verso l'alto, con una forza.
Illuminazione: ma allora nel mondo, oltre la forza di gravità, c'è una forza
che può sollevarci da terra!
"Allora noi potremmo usare questa forza per salire, per volare", dicono i
bambini, lo dico loro che l'uomo l'aveva già fatto con i fratelli Mongolfier
tanto tempo fa. "Allora si può fare", dicono loro.
"Il mio papa", dice Carolina, "può portare i teloni per fare la mongolfiera".
Marta dice: "Mio papa potrebbe portare il legno". Per i bambini sembrava
una cosa molto semplice; io gli dissi che sarebbe stato bello ma molto
difficile costruire una mongolfiera che ci portasse tutti insieme a volare.
Cadde l'idea come possibilità concreta, ma non cadde l'idea come sogno.
Così mi sono buttato con i miei bambini in un'avventura di tipo fantastico,
di evasione.
Poi mi sono accorto che questo non è vero: la fantasia, l'immaginazione
del bambino non è altro che l'utilizzazione dei materiali accumulati
nell'esperienza, non è altro che la realtà che ci portiamo dietro e
utilizziamo per creare delle situazioni nuove; ma siamo sempre noi, noi
con le nostre esperienze, con la nostra cultura, con i nostri difetti, con le
nostre capacità.
181
CONCLUSIONI... PROVVISORIE
Stefania. È confortante vedere che i concetti alla base di questo filmato,
sono sta da noi esplorati all'Università: l'attenzione ai linguaggi espressivi
dei bambini; quotidianizzazione della matematica; ho rivisto delle proposte
che spero un po'j volta di riuscire a mettere insieme nella mia pratica.
Federica. Sono stata colpita dalla frasi "Le narrazioni sono importanti per
l'educatore per conoscere il bambino giorno per giorno, perché la sua
vita non può essere ignorata per imparare cose più importanti". Mi sembra
significativa perché a volte si è presi dalla preoccupazione di voler
insegnare tutto. Andrebbe sottolineata, dunque, l'importanza di lasciare ai
bambini il tempo perché si esprimano e raccontino le che per loro sono
importanti.
Nerina Vretenar. Mi sento confortata da queste riflessioni. Vi giro perciò
una domanda: perché le cose che ci siamo dette oggi e che configurano
un modo di scuola che parta dal bambino non sono percentualmente
molto diffuse nella scuola reale?
Stefania. La risposta che mi sono data io è che per un insegnante sia più
semplice e rassicurante svolgere un percorso già fatto da altri. lo stessa mi
chiedo se le tante proposte che mi sono state presentate potrei metterle
in atto seriamente o se sentirei in difficoltà.
Luca. lo penso che negli insegnanti ci sia un'ansia da prestazione nei
confronti di se stessi, degli altri docenti, del dirigente scolastico, delle
famiglie. Il contesto nel quale oggi l'insegnante lavora non lo fa sentire
protetto e questo gli impedisce di avere la serenità necessaria, di essere
più "fluido", di lavorare in maniera diversa con bambini. Penso anche
a Don Lorenzo Milani: non dico che fosse semplice o scontato quello che
ha fatto, però ha potuto fare quella scuola perché poteva contare in un
contesto favorevole e aveva bambini molto motivati; non avendo, inoltre,
182
un programma da seguire, poteva soffermarsi con i suoi ragazzi a fare
ragionamenti e scoperte. Oggi nelle Indicazioni nazionali non ci sono più
prescrizioni rigide, ma penso non ci sia ancora la consapevolezza da parte
degli insegnanti di poter lavorare in maniera diversa; restano singoli
maestri che provano a portare avanti con i bambini esperienze nuove e
significative.
Nerina Vretenar. Trovo molto importante la sottolineatura del sentirsi soli,
del non avere intorno un contesto che sostenga dei percorsi significativi.
Questo pensiero ci riporta all'importanza di mettersi insieme, di trovare dei
collegamenti con altri insegnanti; il confronto e lo scambio di esperienze
restano fondamentali.
Tiziano Battaggia. Quando sono andato a visitare a Barbiana la scuola di
Don Milani, quello che mi ha fatto riflettere maggiormente è stata
l'attenzione scrupolosa al contesto fisico, agli strumenti, ai materiali
utilizzati, al fare oltre che al sapere. lo penso che questo valga per
qualsiasi approccio educativo. Parlo di attenzione al contesto, a quello che
Andrea Canevaro definisce lo sfondo istituzionale della relazione educativa.
Nerina Vretenar. Una scuola come quella di don Milani non è riproducibile
in una situazione diversa, ma se anche fosse possibile, sarebbe del tutto
sbagliato farlo. Ognuno deve trovare risposte adeguate alle specifiche
situazioni e ai bisogni dei bambini con i quali vive l'avventura del
conoscere.
Tiziano Battaggia. Il maestro francese Paul Le Bohec, nel libro "Quando la
scuola ti salva”, 209 presenta la sua autobiografia professionale e fa
emergere continuamente l'importanza dell'osservazione delle diverse
209 Le Bohec P., Quando la scuola ti salva. Sulle tracce della pedagogia Freinet, Junior,
Bergamo 2011
183
situazioni educative che impongono scelte sempre differenti e
personalizzate; esigenze diverse richiedono risposte diverse. Tenendo
conto che l'adulto che osserva fa parte della situazione: ciò che si osserva
non sono gli altri, ma le relazioni che vi intercorrono. Le proposte
dell'insegnante, frutto di un continuo feed-back con le reazioni del
bambino e del gruppo, possono favorire lo sviluppo dei singoli, solo se
incidono in senso evolutivo nell'insieme del contesto. All'interno del quale
adulto e bambino imparano se possono reciprocamente dirsi: "Qui accade
qualcosa che mi riguarda".
Nerina Vretenar. È arrivato il momento di completare la dichiarazione-
denuncia fatta quarantacinque anni fa da don Lorenzo Milani: "La scuola
ha un solo problema: quello dei ragazzi che perde."
Qual è allora la strada giusta da percorrere nella scuola? Quella che può
essere percorsa da un numero maggiore di bambini e bambine, la strada
per ciascuno/a più adatta ai bisogni e alle capacità. Per questo abbiamo
parlato della necessità di utilizzare linguaggi diversi, di promuovere la
cooperazione, di partire dall'esperienza dei bambini, di costruire un
contesto accogliente che garantisca al bambino il diritto di parola e di
espressione, della necessità di salvaguardare la creatività. Una scuola
trasmissiva e incapace di reinventarsi di continuo per rispondere alle
situazioni riuscirebbe a "tener dentro" ben poche persone, perderebbe
certamente i vari Hakim che sempre più numerosi aspettano di essere
accolti. Il problema posto da don Milani è ancora aperto, ma si configura
in modo diverso in ogni situazione. Per questo le strade da percorrere
vanno cercate via via.210
210 la documentazione presentata in appendice è tratta da: Senofonte Nicolli (a cura di), A partire dai bambini e dalle bambine. Incontri con i maestri del Movimento di Cooperazione Educativa. Quaderno di Tirocinio, Università degli Studi di Padova – Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata – Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria, Padova, 2012, p. 9 – 32.
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