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Il mio principe è una lei

Il mio principe è una lei - booksprintedizioni.it · carica di forza, quasi come se si stesse inalando rab-bia pura. Non quella rabbia amara che distrugge ogni cosa senza riflettere

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Il mio principe è una lei

Martina Paroli

IL MIO PRINCIPE È UNA LEI

romanzo

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Copyright © 2013 Martina Paroli

Tutti i diritti riservati

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Adoro i temporali. Adoro i minuti che li precedono.

Basterebbe fermarsi un attimo e respirare profon-damente per prevederli. L’aria che entra nei polmoni è carica di forza, quasi come se si stesse inalando rab-bia pura. Non quella rabbia amara che distrugge ogni cosa senza riflettere un istante su ciò che resterà, ma quella impetuosa, inarrestabile, che precede ogni sin-golo atto di ribellione, di rivoluzione, di follia, di di-struzione e che lascia spazio ad un nuovo inizio.

Poi arriva. Un lampo: il cuore sobbalza e accelera, in frenetica attesa, creando un’atmosfera di tangibile tensione. Eccolo: il tuono scoppia fragoroso come un ruggito.

Torna il buio. Inizia a piangere...no, a piovere. La pioggia è prima fine e delicata, come se fosse ancora indecisa e temesse di disturbare la terra, in seguito prende coraggio e scroscia, allaga la mente, svuotan-dola da tutti i pensieri.

E ancora una volta la luce. Il silenzio. Il buio. Il boato.

L’incessante grido del vento entra nelle orecchie e ti possiede. Il cielo sembra sul punto di rompersi in mil-le pezzi, preda della violenza della natura che si sca-tena e avvolge tutto e tutti.

Non c’è via di fuga. Certo, preferisco essere colta da un temporale

quando mi trovo in un luogo sicuro, dove i miei capel-li rimangono asciutti, così anche i miei vestiti ed il mio viso. Niente polmonite. Niente raffreddore. Nien-te fulmini in testa.

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No. Quel pomeriggio non l’avevo previsto. L’aria era carica già dal mattino, ma non vi avevo prestato abba-stanza attenzione. Il suo respiro affannoso aveva riempito i miei polmoni, mischiandosi al suo dolcis-simo profumo. Il primo lampo mi aveva fatta saltare, non perché non me lo aspettassi, ma perché la luce aveva illuminato i suoi occhi. Quei maledettissimi oc-chi neri, profondi, troppo profondi, tanto da affogarci dentro…

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1 – A che ora esci stasera?

– Non lo so mamma. – Jessica, rispondi a tua madre. – Ho detto che non lo so ancora. – È sempre così quando esci. Non sappiamo mai

niente! Dove vai, con chi, quando, a fare cosa! – Dio mio! Sono maggiorenne, sono sempre torna-

ta a casa viva, che io sappia non faccio uso di droghe, non fumo roba strana, non guido se bevo e…

– Jessica…! – La voce ferma di mio padre mi para-lizzò, come al solito.

Sbuffai e mi calmai. Non volevo che mi proibissero di uscire. Era finito il quarto anno di liceo da pochi giorni, mi ero impegnata tanto: volevo solo godermi l’estate.

– Tra poco Tommy viene a prendermi. Andremo al cinema con gli altri.

– Gli altri chi? – borbottò mio padre. – Anna, Alessia e qualche nuovo amico di Tommy. – Alessia non è la ragazza che fa sempre la civetta

col tuo fidanzato? – Sì mamma… diciamo che non l’adoro, ma è sua

amica. La... sopporto. – E i nuovi amici chi sarebbero? – aggiunse mio

padre.

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– Non lo so, so solo che verrà un ragazzo che gioca nella sua squadra di pallacanestro.

– Va bene... ma non tornate tardi. Annuii. Finita la cena sparecchiai la tavola e andai

in camera a prepararmi. All’improvviso mi resi conto di non avere la ben che

minima voglia di uscire. Inoltre Alessia rendeva ama-ra ogni serata, non solo perché fossi in parte gelosa, ma anche per la sua pungente antipatia. Era la tipica ragazza acida con le donne e facile con i ragazzi. Avrebbe fatto di tutto per attirare su di sé l’attenzione di un ragazzo. E dire che inizialmente mi era anche sembrata simpatica, una persona forse un po’ ossessi-vamente sicura di sé e decisa. C’era voluto poco tempo affinché cambiassi opinione su di lei, notando che quella che avevo dapprima osservato era solamente una maschera, seguita da molte altre facciate, inci-priate di acidità, arroganza e per finire ritoccate con una pesante leggerezza e superficialità.

Dopo qualche minuto sentii Tommy arrivare nel vialetto di casa. Scesi di corsa le scale per evitare altre domande e uscii fuori. Quando mi vide scese dalla macchina, sorrise, mi baciò, aprì la portiera e mi fece salire. Era dolce. A volte mi sembrava di conoscerlo da una vita anche se stavamo insieme solo da 4 mesi. Quando eravamo soli le cose andavano abbastanza bene, ma appena eravamo con gli amici si trasforma-va nel tipico ragazzo idiota e arrogante che vuole es-sere al centro dell’attenzione.

– Tutto ok? – Sì. Tu? – la macchina sfrecciava nel buio della se-

ra. Dal finestrino un’aria frizzante arrivava alla mia pelle, accarezzandola.

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– Tutto bene. – Finalmente vacanze eh? – Mi sorrideva. Guardava la strada, poi me, poi di nuovo la strada. I

suoi capelli castani scendevano fino agli occhi, da do-ve continuava a cercare di spostarli.

– Già – appoggiai il gomito al finestrino e immersi ogni pensiero nella vegetazione che riempiva il pae-saggio. I prati scuri affollati dalle alte sagome degli alberi scorrevano veloci così come l’asfalto.

Non sapevo il motivo ma non mi riusciva altro che essere fredda e distaccata con tutti. Questa cosa anda-va avanti da mesi. Non capivo come mai le persone a me vicine ancora non mi avessero abbandonata. Chi vuole stare in compagnia di qualcuno che allontana tutti? Cercare di avvicinarsi era come sfondare porte aperte che conducevano a stanze vuote. Tuttavia non riuscivo ad odiarmi per il mio comportamento, perché ero già troppo impegnata a odiare ogni altra parte di me. Volevo apparire decisa, sicura di ciò che deside-ravo dalla vita, ma più per me che per gli altri. Non avevo mai sopportato l’indecisione. Un giorno avevo pescato un libro di argomento psicologico, tra i vari nella libreria personale di mia madre. Quel mese, o meglio, quel paio di settimane, si era dedicata alla sua temporanea fissazione per la psicologia. Leggendo pa-ragrafi a caso trovai uno che sembrava fatto apposta per me: trattava del prendere le decisioni e di come, posti di fronte ad una scelta, il nostro cervello avverta uno stato di tensione dato da una percezione di disso-nanza. Al momento non compresi il significato della frase, in seguito notai che vivevo in quella condizione da mesi ormai.

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Tommy sbuffò. Era abituato al mio atteggiamento. O forse si era semplicemente rassegnato. D’altronde quando aveva bisogno di me c’ero, e nei momenti di intimità ci sentivamo anche abbastanza vicini, anche se non eravamo mai andati oltre determinati limiti. Diciamo che riuscivamo ad arrivare al legame che può unire due persone in due stanze diverse ma con una parete in comune: se una di loro si lancia contro il muro, l’altra sente il tonfo, a volte anche il gemito di dolore.

– Eccoli. Il parcheggio del cinema era già pieno. Thomas

parcheggiò vicino a una decappottabile blu metalliz-zato, che rifletteva una luna panciuta. Appoggiata all’automobile vidi una figura esile, dai capelli biondi e lisci. Guardava verso di noi in attesa, poi mi vide, ci fissammo per qualche secondo e la riconobbi.

– Anna! Corsi verso di lei e l’abbracciai. Era l’unica che an-

cora mi faceva sentire come a casa, nonostante il mio periodo scuro. Ci conoscevamo dalle elementari: era a tutti palese, in città, la solidità del nostro legame, il quale ci faceva sembrare sorelle.

– Jessie! Come va? Sorrisi, ma il sorriso si spense appena la vidi. Ap-

poggiata alla macchina sfoggiava un nuovo e poco co-prente vestito rosso sul quale cadevano folti boccoli color oro. Ai piedi i tacchi più alti ideati al mondo, la cui funzione mi rifiutavo di credere fosse quella di camminare. Alessia mi squadrò, poi voltò lo sguardo altrove, con l’espressione di sfida più acida che avessi mai visto.

– Loro sono Rob e Sam – disse Tommy.

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Solo allora mi accorsi di un ragazzo alto, muscoloso e biondo dagli occhi azzurri e con un sorriso stampa-to in faccia che ancora sedeva in macchina. Accennò ad un saluto con il viso mostrando tutti i denti in quello che sembrava il dolce sorriso di un bambino, poi disse

– Piacere, Roberto. Anche la sua voce ispirava simpatia. Sul sedile del

passeggero, vicino a lui, sedeva una ragazza slanciata dai capelli neri più dei miei. Gli occhi erano scuri, forse anche più di quelli di Tommy. Sembravano quel-li di una lince a caccia. Le labbra rosse erano piene e stregavano chiunque le ammirasse. L’espressione era seria e composta, forse modellata dalla tensione dei muscoli che apparivano contratti e solidi alla luce del-la luna. Scendendo sul collo con lo sguardo mi sof-fermai sulla sua pelle, liscia e leggermente abbronza-ta.

– Piacere, Samantha – mi allungò la mano. Sentii una scossa quando la strinsi e subito pensai che do-vesse essere una persona eccentrica e particolare.

– Bene, entriamo? Altrimenti ci perderemo il film – si affrettò a dire Tommy.

– Ha ragione, muoviamoci – civettò Alessia, poi gli si avvicinò, sorrise e lo prese a braccetto.

– Lascia stare. È un’oca – disse Anna, notando la mia reazione, poi mi prese per mano e iniziammo a chiacchierare fino all’inizio del film. Questo racconta-va di una banale storia d’amore, con una banale tra-ma, banali personaggi e banali scene romantiche. Un banale ragazzo donava banalmente il suo cuore ad una banale ragazza. Banale, no?

Usciti dal cinema Rob propose di andare in un loca-le a bere qualcosa. Il cielo era sereno ma in lontanan-

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za potevo vedere delle nuvole arrivare dalle montagne che circondavano la valle, le quali avevano già oscura-to la luna. Appena entrammo nel pub l’odore dell’alcol invase i miei polmoni. Ci immergemmo nella musica assordante che coi suoi bassi faceva vibrare ogni parte del corpo. Ci sedemmo ad un tavolo dove Alessia e Tommy rimasero attaccati tutta la sera a ordinare da bere, ridere e parlare delle canzoni che il dj sceglieva. Lei si stava comportando come una gomma da masti-care, una di quelle che calpesti e non riesci più a stac-care dalla suola. Alla fine gli chiese di ballare e Tom-my accettò, non badando molto a me. Era strano, mi sentivo bizzarra a pensarci, ma effettivamente la cosa non mi turbava.

Rimasi dieci minuti a fissare lo smalto rosso di An-na, mentre mi raccontava alcuni pettegolezzi acidi in merito ad Alessia e le sue mezze storie avute con mez-za città. Non ero molto interessata a ciò che mi dice-va, tuttavia, sapendo come era fatta, comprendevo il suo intento: pensava che stessi soffrendo per la situa-zione quindi cercava di farmi sentire meglio degra-dando ulteriormente l’immagine di Alessia, più di quanto lei stessa, in prima persona, già non facesse. Ad un tratto mi voltai verso la pista da ballo, cercando di dissimulare la noia per non far rimanere male An-na, e li vidi. Lei aveva le braccia al collo di lui. All’improvviso si avvicinò e lo baciò. Anna, Rob e Sam assistettero alla medesima scena, poi mi guardarono, probabilmente aspettandosi chissà quale reazione. Forse credevano che improvvisamente mi sarei alzata, sarei andata da loro, avrei dato uno schiaffo a Tho-mas e preso a pugni lei. Oppure pensavano che sarei scoppiata in un pianto disperato, rossa in faccia e col trucco che colava.