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Il Mosè di Michelangelo (J.P. Hernández SJ) Il “Mosè” di Michelangelo è nel nostro immaginario collettivo “Il Mosè” per eccellenza, il Mosè tout court. La statua fu commissionata da Giulio II a Michelangelo nel 1505, dopo il successo del suo David a Firenze.

Il Mosè di Michelangelo · Periò soppia la sua ira. Oppure, in un’altra possiile interpretazione, allontana lo sguardo proprio dall’idolo. In ogni aso ha visto l’idolo colui

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Page 1: Il Mosè di Michelangelo · Periò soppia la sua ira. Oppure, in un’altra possiile interpretazione, allontana lo sguardo proprio dall’idolo. In ogni aso ha visto l’idolo colui

Il Mosè di Michelangelo

(J.P. Hernández SJ)

Il “Mosè” di Michelangelo è nel nostro immaginario collettivo “Il Mosè” per eccellenza, il Mosè tout court.

La statua fu commissionata da Giulio II a Michelangelo nel 1505, dopo il successo del suo David a Firenze.

Page 2: Il Mosè di Michelangelo · Periò soppia la sua ira. Oppure, in un’altra possiile interpretazione, allontana lo sguardo proprio dall’idolo. In ogni aso ha visto l’idolo colui

Doveva essere una delle 40 sculture del mausoleo del

pontefice, - progetto molto ridimensionato dopo la sua morte.

Michelangelo ha potuto lavorarci concretamente solo a partire

dal 1513. Anni vicini alla realizzazione delle cosiddette

“sculture dipinte” della volta della Sistina. Inoltre, nel 2001, le

ricerche di Frommel hanno evidenziato un probabile ritocco

importante che lo stesso artista avrebbe apportato nel 1542. Si

può dire dunque che quest’opera ha accompagnato Michelangelo per una parte eminente della sua carriera

artistica. La sua forza espressiva ipnotizza ancora chi la contempla. In essa probabilmente Michelangelo ci

ha detto molto di sé, dicendoci anche molto di Mosè.

L’episodio “fotografato” dalla statua corrisponde a un momento ben preciso della storia dell’esodo. Il

popolo si è accampato ai piedi del monte Sinai, mentre Mosè è salito al cospetto di Dio per ricevere le

tavole dell’alleanza, le tavole delle “dieci parole”. Impaziente nell’attesa, il popolo costruisce “il vitello

d’oro”, un idolo. Avvertito da Dio, Mosè scende dal monte e

vedendo il “vitello di metallo fuso” si accende di ira e spezza

le tavole della legge. La statua di Michelangelo coglie

l’istante drammatico in cui Mosè ha appena visto il vitello

d’oro o è stato appena avvertito da Dio e sta per esplodere

in ira. Le tavole sono in effetti ancora intere sotto il suo

braccio, ma in situazione già molto instabile, se il nostro

“gigante” dovesse alzarsi. Forse il versetto 15 del cap. 32

dell’esodo è uno dei punti che ha ispirato l’artista. Nel testo

leggiamo infatti: “Mosè si voltò e scese dal monte”.

In realtà, nel racconto biblico questo episodio è intrecciato

(negli stessi capitoli) con una interessante riflessione su

l’arte che non poteva lasciar indifferente lo stesso

Michelangelo. Ai piedi del Sinai, il popolo aveva ricevuto da

Dio l’abilità tecnica dell’artista, in ebraico la “hokmah”, che

noi traduciamo anche con “sapienza”. Dio dà all’uomo la

“hokhmah” con lo scopo preciso di costruire il “santuario”,

cioè un luogo per fare memoria dell’alleanza. Invece, il

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popolo impaziente e “smemorato”, usa proprio questa hokhmah, quest’arte, per fabbricare un idolo: il

vitello d’oro. L’idolo è l’anti-santuario. Con le sue corna e la sua muscolatura, il vitello simboleggia i culti

pagani, il culto della forza bruta e dell’affermazione di sé, dove non c’è spazio per la fiducia in Dio. Costruire

il santuario o costruire un idolo, ricordare Dio o esserne il concorrente, l’arte è sempre stato in bilico fra

queste due opzioni, perché l’arte è creazione. E l’artista è quel creatore che può dimenticare facilmente il

Creatore. Lo stesso Michelangelo ne è consapevole quando alla fine dei suoi giorni si pente di aver fatto

dell’arte il suo “idol e monarca”.

Oltre a questa contestualizzazione biblica, chi osserva oggi il “Mosé” di Michelangelo, nel transetto destro

della chiesa di San Pietro in Vincoli, percepisce istintivamente al meno tre linee di tensione che

attraversano l’opera e intorno alle quali possiamo organizzare la

descrizione teologica della figura di Mosè.

La prima tensione è che si tratta di una figura seduta ma le cui gambe

sembrano camminare, o sembrano iniziare un movimento di alzata.

Questa tensione corrisponde esattamente all’interesse di

Michelangelo per il corpo maschile in pose difficili, sotto pressione,

in lotta. In questo l’artista rispecchia la spiritualità dell’inno “Urbs

Jerusalem beata” usato durante la dedicazione delle chiese e che

parla delle “pietre vive” plasmate dalla sofferenza e dalla lotta. Ma

soprattutto

Michelangelo è

influenzato da

modelli

dell’antichità come

il “Torso del

Belvedere” o il “gruppo di Laocoonte” rinvenuto pochi

anni prima. Proprio questa tensione del corpo che

sembra trattenere l’ira prima di esplodere è ciò che colpì

Siegmund Freud nella sua prima visita a Roma nel 1901. Il

padre della psicanalisi si identificò con il Mosè di

Michelangelo

facendone un

esempio di lettura

psicoanalitica

dell’arte. Freud

leggeva nella statua la

stessa tensione di ira trattenuta che lui stesso sperimentò nella grande

delusione dell’allontanamento del suo discepolo Karl Gustav Jung.

Ma ritorniamo alla scultura. Un “seduto che cammina” mette insieme

come paradosso due tratti teologici di Mosè. Il primo è quello del

maestro. Il secondo è quello della guida nel deserto.

Mosè in effetti è il “Rav” per eccellenza, colui che insegna, il maestro

della legge. E’ a lui che sono attribuiti i cinque libri della Torah. Perciò è

rappresentato seduto, come lo sono i maestri antichi già nei bassorilievi

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romani. Con il libro in mano. Come il Giovanni evangelista di Donatello che è stato probabilmente modello

per la nostra statua. O come il profeta Isaia dipinto da Raffaello pochi anni prima del Mosè, nel 1511, e

lodato dallo stesso Michelangelo.

Ma questo maestro seduto è anche colui che ha fatto

camminare il popolo attraverso il deserto. Come a dire: è

maestro ma non di una dottrina astratta. E’ maestro di una via

da seguire. E’ maestro come sarà maestro quel Rabbi

itinerante di Galilea che come chiave del suo insegnamento

dice: vieni e seguimi. Mosè è l’uomo della Pasqua, cioè del

Passaggio. L’uomo che ha fatto attraversare il mar rosso. Il

camminatore per eccellenza. Colui che ha capito il cammino

come metafora della fede e della vita, perché camminare è

accettare di perdere l’equilibrio, di perdere le sicurezze, di

lasciare l’orizzonte passato per scoprirne di nuovi. Ogni passo

in effetti è uno sbilanciarsi. Un portare il baricentro della

propria vita al di fuori della superficie formata dai piedi. La

fede, l’esodo, la liberazione è fare sì che il proprio baricentro

sia “un altro”, Dio.

La seconda tensione che questa statua trasmette

istintivamente è la tensione fra il vedere e il voltare lo sguardo.

Cioè tra il vedere e il non vedere. O forse tra il vedere e

l’ascoltare. Mosè è l’uomo della visione per eccellenza. Si dice

di lui che parlava con Dio “panim el panim”, faccia a faccia. E’

lui che per primo incontra Dio nello “spettacolo” del roveto ardente. Ma proprio al roveto ardente avviene

un passaggio importantissimo nel suo modo di rapportarsi con Dio. Esso è espresso e sintetizzato nel

versetto 4 del capitolo 3 dell’esodo. “Dio vide che si era

avvicinato per vedere questo spettacolo e lo chiamo dal roveto

dicendo: Mosè, Mosè”. Il versetto inizia con una serie di verbi

del vedere e conclude con l’ascolto e la parola. E’ il cambio di

codice di comunicazione: dal vedere all’ascoltare. La vista è

nell’Antico Testamento l’organo del possesso. L’ascolto invece

accetta già di essere secondo a chi parla. Perciò non si può

vedere Dio ma solo ascoltarlo. Mosè è colui che ha imparato

ad ascoltare Dio, accettando di non possederlo con lo sguardo.

Eppure in questa statua Mosè sta fissando lo sguardo. Su che

cosa? Sul vitello d’oro probabilmente. Perciò scoppia la sua ira.

Oppure, in un’altra possibile interpretazione, allontana lo

sguardo proprio dall’idolo. In ogni caso ha visto l’idolo colui

che ha imparato ad ascoltare Dio. E lì discerne la differenza: un

idolo non lo si può ascoltare perché è morto. Parla solo un Dio

vivente.

La terza tensione riguarda proprio il volto di Mosè. Il testo di Es 34,29 racconta che la seconda volta che

Mosè scende dal monte ha un viso “raggiante”. Cioè con dei “raggi di luce”. La parola “raggi”, in ebraico

KRN, ammette anche una vocalizzazione che gli dà il significato di corna. Ed è così che Girolamo traduce

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nella Volgata.

Michelangelo si attiene a

questa comprensione di

Girolamo e compone un

volto ibrido: un umano

con delle corna. Questa

terza tensione è dunque

la tensione interna

all’identità stessa di

Mosè. In lui si combinano

un volto umano, con quel

elemento di bestialità

pagana e idolatra che

Israele ha espresso con il

vitello d’oro, ma che fa

parte anche della sua

stessa vita. Lui e Israele

fanno tutt’uno. Inoltre

Mosè ha una doppia

appartenenza fin dalla

sua nascita. E’ ebreo ma

da subito cresciuto alla

corte del faraone e

dunque per educazione è

soprattutto un “principe d’Egitto”, un pagano. Alcuni anche dicono, un sacerdote di certi culti di animali che

portavano proprio le corna. In effetti il nome stesso Mosè ha due etimologie. Quella ebraica da “masha”,

tirare fuori dalle acque. Quella egiziana che significa semplicemente il “figlio”, presente anche in nomi di

faraoni come Ra-M(o)ses (il famoso Ramses II, per esempio), figlio di Ra.

Così Michelangelo esprime a diversi livelli una pietra a cui dà vita attraverso queste tensioni. Forse per

questo la legenda racconta che Michelangelo colpì al ginocchio la statua dicendo: “perché non parli?”. Di

fatto essa ci parla ancora.