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Il nipote di Monsignore

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Maria Rocco, sentimentale

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Maria Rocco

IL NIPOTE DI MONSIGNORE

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IL NIPOTE DI MONSIGNORE Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2011 Maria Rocco ISBN: 978-88-6307-381-2

In copertina: Immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Settembre 2011 da Logo srl

Borgoricco - Padova

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Per te, papà

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Scrivere è trascrivere. Anche quando inventa, uno scrittore trascrive storie e cose di cui la vita lo ha reso partecipe: senza certi volti, certi eventi grandi o minimi, certi personaggi, certe luci, certe ombre, certi paesaggi, certi momenti di felicità e disperazione, tante pagine non sa-rebbero nate. (C. Magris)

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PREFAZIONE Un paese del profondo sud, sperso tra le montagne dell’Appennino, con radicate tradizioni religiose e cultura contadina dominante: un posto dove il tempo sembra essersi fermato, dove vigono leggi non scritte ma che nessuno osa mettere in discussione. Un tormentato Monsignore, di nobili origini e di cultura superiore, che, benché costretto ad entrare in seminario dall’ambizione materna senza nessuna vocazione, cerca di svolgere al meglio la sua figura di pastore. Una passione che sembra essere scritta nel libro del destino tra due ra-gazzi appartenenti a caste diverse. Tre famiglie vengono sconvolte dallo scandalo. E sopra tutti aleggia una fatalità determinata e testarda che conduce i protagonisti verso l’inevitabile.

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PROLOGO MAGGIO 2000 - IL RITORNO A CASA

Il taxi aveva abbandonato la fondovalle che, dai confini con la Campa-nia, arriva fino al Mar Jonio attraversando tutta la Lucania, e avanzava lentamente lungo la strada curvosa e ripida, costeggiata da boschi e pa-scoli. Seduti dietro, un ragazzo poco più che ventenne ed un vecchio signore con un cappello da cow-boy ben calcato in testa e piegato quasi a co-prirgli il viso, come se volesse guardarsi intorno senza essere ricono-sciuto, ammiravano il panorama. Tra una curva e l’altra, attraverso le chiome degli alberi, a tratti, si in-travedeva l’inconfondibile profilo del paese di montagna che il vecchio signore aveva lasciato tanti anni prima, per andare incontro ad un desti-no che era stato molto diverso da come lo aveva immaginato. Esattamente cinquant’anni erano passati dall’ultima volta che Giovanni aveva percorso, in senso contrario, quella strada; tanti, troppi ricordi, faticosamente tenuti a bada per troppo tempo, stavano riemergendo e straripavano dall’animo in tumulto. Il giovane, incuriosito soprattutto dall’aspetto turistico del viaggio, si rivolse al nonno in inglese ma Giovanni, perso nei suoi pensieri, non lo ascoltava; il ragazzo lo capì, preferì non insistere e, per comunicare al nonno la sua vicinanza emotiva, si limitò a stringergli forte le mani. Le mani del nonno, grandi, protettive, callose, abituate alla fatica, anche a quella più dura. John non lo aveva mai visto fragile come gli appariva in quei momenti; aveva sempre pensato a lui come ad una quercia capace di affrontare qualsiasi situazione senza perdersi d’animo, ma ora gli si rivelava di-verso e lo osservava con stupore. Conosceva la sua storia, almeno in parte, ma solo in quell’occasione John comprendeva quanta sofferenza si era portato dentro quell’uomo per tutti quegli anni. Giovanni ricambiò la stretta del nipote senza voltarsi; continuò a guar-dare al di là dal finestrino e a lottare con il groppo in gola. Finite le curve, la macchina imboccò un lungo viale fiancheggiato da una doppia fila di tigli dall’inconfondibile profumo.

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Il vecchio signore ebbe un sussulto e, con la voce rotta da una emozio-ne ormai incontenibile, disse: «Guarda John, sono gli stessi alberi di quando ero un ragazzo.» Entrarono in paese. La fisionomia del posto non era cambiata; in perife-ria erano sorte numerose villette e alcuni nuovi condomini ma le case del centro erano le stesse, Giovanni le riconobbe, quelle di cin-quant’anni prima, ora completamente rinnovate, ben tenute e ben cura-te, forse, pensò, ricostruite dopo il terremoto dell’ottanta. «Chissà se ci abitano le stesse famiglie», si chiese. Ecco la casa del notaio, don Peppino, che non era sposato e ci viveva con le due sorelle zitelle che lo coccolavano come un bambino; la casa del farmacista, don Roberto, che, ai suoi occhi di ragazzino, appariva una specie di mago, continuamente alle prese con le sue pozioni magi-che; il bar in piazza; la villa comunale, sempre lì, con le sue due fonta-ne, quella con le rane e quella con il cigno, e con al centro il busto di Giuseppe Verdi, ancora più grande e più bella di quella dei suoi ricor-di. Davanti ai giardini, file di vecchietti con la coppola e il bastone seduti sui muretti a chiacchierare e a riscaldare le ossa al sole. Giovanni, per un attimo, ebbe l’impressione di essere tornato indietro nel tempo, ma poi realizzò, con un sorriso amaro, che quegli anziani erano probabil-mente suoi coetanei, o forse anche più giovani; ne scrutò i volti, alla ri-cerca di qualche traccia di fisionomia familiare. Il taxi raggiunse la piazza principale del paese e si fermò. L’autista si girò verso i due passeggeri e chiese: «Dove andiamo?» Giovanni prese fiato e, dopo un lungo sospiro, rispose: «Al cimitero.»

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PRIMA PARTE

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LA PROCESSIONE – 4 MAGGIO 1952 La processione procedeva rapidamente al suono delle ciaramelle e degli organetti. La maestosa statua dorata della Madonna Nera, di origini medievali, chiusa nella sua gabbia di cristallo, circondata da una raggiera dorata e portata a spalle da una ventina di uomini forzuti, si muoveva veloce-mente lungo il sentiero aspro che, dal paese, portava verso la montagna, sulla cui cima una chiesetta, ossequiando un’antichissima tradizione, ospitava la Madonna dalla prima domenica di maggio fino alla prima domenica di settembre, quando, con una grande festa, la statua sarebbe stata riportata in paese. Due volte all’anno, sempre uguale da secoli, si svolgeva questo rito tan-to caro a tutti i valligiani. Il prete, inciampando nella tonaca, precedeva la statua insieme ai chie-richetti e ai carabinieri che, con la divisa d’ordinanza ed il cappello dal pennacchio rosso e blu, davano un tocco di ufficialità al rito; seguivano la banda, le autorità, gli stendardi dei comuni della valle, le cinte, e poi una folla variopinta di gente, uomini, donne, bambini, quasi tutto il pa-ese. Le donne cantavano: Bella tu sei qual sole, bianca più della luna, e le stelle, le più belle, non son belle al par di Te. Alcune di esse camminavano scalze: con quel sacrificio chiedevano una grazia o ringraziavano la Madonna per averla già ottenuta. Molte erano vestite di nero, segno esteriore di lutto; sul volto, dall’età indefinibile, portavano stampata la pazienza millenaria della terra di montagna, negli occhi scolpita la sofferenza. Lo sguardo vitreo della Vergine, oscillante a causa del procedere incer-to dei suoi trasportatori sulla strada dissestata, sembrava indifferente a tanta devozione.

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La processione era ormai arrivata alla torretta e il bosco di faggi comin-ciava a diradarsi e a cedere il posto agli arbusti; da lì iniziava la salita, dura, a tratti durissima, priva anche del sollievo dell’ombra, che culmi-nava nei cosiddetti “girelli”; così era chiamato l’ultimo ripidissimo trat-to di strada che, come un serpente, si arrampicava lungo il fianco della montagna, dalla piana di Boncore, che concedeva un ultimo e inaspetta-to sollievo al cammino dei pellegrini, fino alla cima. Lola, con la sua bambina per mano, non aveva l’animo né la forza di cantare. In mente sua ripeteva: “Madonna mia… Madonna mia… aiutami tu, ti prego”. Ma, nello stesso tempo, si chiedeva perché la Madonna avreb-be dovuto ascoltarla, e perché avrebbe dovuto aiutare una peccatrice come lei se non aveva ascoltato le implorazioni di chi certamente meri-tava di più? Pensava a Concetta, che aveva supplicato giorno e notte la Vergine al capezzale del suo bambino malato di leucemia, fino a quando, stremata, aveva gridato: «Se hai deciso di prendertelo, prenditelo, ma non lo far soffrire più.» Pensava a Caterina, che aveva tanto pregato fino a consumare un Rosa-rio, perché suo figlio Mario tornasse sano e salvo dalla guerra; invece era tornato, sì, ma dentro una bara avvolta dalla bandiera. Lola non si sentiva degna di aiuto dal cielo, né se lo aspettava, ma non poteva fare a meno di chiederlo. “Madonna mia, lo so, ho sbagliato… è colpa mia, è solo colpa mia”, continuava a ripetere nella sua mente. “Non farlo per me, ma per questa bambina… Fammi morire, Vergine Santa, ma aiuta questa creatura che non tiene colpa, falle tu da Mamma”. Lola… un nome tanto inusuale in quella terra di Marie, di Terese, di Vincenze, di Carmele. Il suo destino, forse, era stato segnato da esso, oltre che da un paio di occhi neri, da una chioma riccia e voluminosa, da una carnagione scura, quasi ambrata, e da un corpo che sembrava uscito dalle mani di uno scultore. Lola non aveva amiche. Le Marie, le Terese, le Vincenze, le Carmele la guardavano con rabbia, perché i ragazzi del paese, e i rari forestieri che passavano da lì, non a-vevano occhi che per Lola, davanti alla quale le altre diventavano quasi trasparenti. Quando Lola si sposò, furono felici anche quelle che avevano già trova-to marito.

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Quel nome era stato fortemente voluto da suo padre, che, dopo aver o-norato la tradizione dando alle prime due figlie i nomi delle nonne, a-veva scelto, per la sua terza bambina, un nome non appartenuto a nes-sun’altra donna delle famiglia. Il padre di Lola, Antonio, detto Tonino, un contadino che a malapena sapeva leggere ma che era dotato di una sensibilità fuori dal comune, in vita sua non aveva fatto altro che coltivare la terra, verso la quale pro-vava profondo rispetto e gratitudine. Ne conosceva i profumi, gli umori, i sapori. Tonino zappava, seminava, potava sotto al sole e sotto la pioggia, col caldo e col freddo, senza la-mentarsi mai del suo destino, anzi, ne era felice, tanto da sentirsi quasi un privilegiato. Quando sentiva venir meno le forze, si sedeva dieci mi-nuti e suonava una piccola arpa, dono di suo nonno al quale doveva la sua grande passione per la musica; con la musica Tonino si ricaricava per poi riprendere a lavorare con più energia. Con la sua mano allenata e il suo orecchio ben sviluppato, suonava le principali arie delle opere liriche, italiane e straniere. Ai tempi del nonno di Tonino in paese po-chissimi sapevano leggere e scrivere, ma tutti suonavano l’arpa o il vio-lino, come testimoniato dai bassorilievi posti sui portoni delle case più antiche. «L’arpa muta in casa ogni tugurio», si diceva quando la famiglia, maga-ri con la pancia vuota, si riuniva la sera attorno al fuoco e si suonava e si cantava in allegria. In realtà la terra che Tonino tanto amava non era di sua proprietà ma apparteneva alla Chiesa, come gran parte dei terreni intorno al paese. Monsignore, il reggente del Santuario, era tanto buono e non lesinava sulla quantità di olio o di grano che Tonino teneva per sé, come aveva fatto il vecchio parroco. Per questo Tonino nutriva, nei confronti di Monsignore, un enorme ri-spetto ed una immensa gratitudine, e faceva di tutto per essere degno della fiducia che Monsignore gli accordava. Una sola volta nella vita Tonino aveva messo piede fuori dal paese: era stato a Napoli a trovare suo cugino Luigi, il girovago della famiglia che, dopo aver viaggiato per mezzo mondo con la sua inseparabile fi-sarmonica, quando tutti pensavano che non avrebbe mai trovato pace, aveva conosciuto su una nave una simpatica napoletana e, detto fatto, l’aveva sposata, aveva finalmente messo radici e, insieme a sua moglie, aveva aperto un negozio di scarpe.

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Per una settimana Tonino aveva passeggiato per la città quasi in estasi: via Toledo, piazza Plebiscito, il lungomare, Mergellina, gli chalet… Non aveva dove far riposare gli occhi dalla meraviglia! E poi, quell’aria dolce, tanto diversa dal freddo della sua terra tra le montagne che entrava dentro e induriva anche l’animo della gente. Tra tutte le cose meravigliose che vide durante quel viaggio ciò che lo lasciò letteralmente senza parole fu il San Carlo. Suo cugino, che cono-sceva e condivideva l’amore di Tonino per la musica, lo accompagnò ad assistere alla rappresentazione de La cavalleria rusticana. Tonino, nel momento in cui mise piede nel teatro e si trovò di fronte le scale maestose, e tutti quei fregi dorati, e il palco reale sormontato dall’enorme corona, provò un’emozione indescrivibile: non credeva nemmeno che una simile meraviglia potesse esistere. All’apertura del sipario, le note di Mascagni gli perforarono l’animo: ascoltò in religioso silenzio, completamente rapito, con la paura persi-no di respirare, e la storia di Lola e di Santuzza, di Alfio e di Turiddu, che avrebbe raccontato per anni a tutti i suoi compaesani, gli restò den-tro per sempre. Tornò a casa con la sensazione di essere un uomo ricco. A parte quell’unico viaggio, Tonino aveva trascorso tutta la vita tra i suoi campi e la sua casa, ma si sentiva appagato, pensando di non aver più niente da vedere, confortato in questa sua convinzione dal detto ve-di Napoli e poi muori. Quando nacque la sua terza figlia volle a tutti i costi chiamarla Lola, e Lola diventò per lui la prova vivente di quel viaggio che aveva così magnificamente arricchito la sua vita. Lola proseguiva dietro la processione; la salita era ormai ripida ma lei non avvertiva nessuna stanchezza, tanto era assorta nei suoi pensieri. Ormai non poteva più ignorare quella verità che aveva cercato dispera-tamente di non vedere; i segni che il suo corpo le inviava erano inequi-vocabili… era incinta. E suo marito era in America da due anni! Se non fosse stato per Angela, la sua bambina innocente che non poteva pagare una tale colpa, non avrebbe esitato a fare un salto giù dal fianco di quella montagna, prima che la vergogna la travolgesse. La mano di quella bambina, stretta nella sua, la teneva aggrappata alla vita.

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«Lola, che hai? Non ti senti bene? Sei bianca », le chiese sua madre guardandola con preoccupazione. «Niente, mamma, è solo stanchezza», le rispose Lola nel tentativo di tranquillizzarla, ma continuò a lungo ad avvertire lo sguardo perplesso di sua madre su di sé, e se ne sentì trafitta. La processione, con il suo seguito umano di speranza e di disperazione, aveva ormai raggiunto la vetta della montagna. I portatori, stanchi e sfiniti, grondanti di sudore, posarono la statua della Madonna sull’ultimo “poggio”, un grande masso di forma quadrangola-re chiamato così proprio per il suo scopo, quello di poggiare la statua per permettere agli uomini di riposare e riprendere fiato. Il parroco, don Francesco, celebrò la messa sul piazzale antistante alla chiesetta, troppo piccola per accogliere tutta quella gente, e declamò la sua predica, sem-pre uguale da anni: «La Vergine Maria da quassù ci guarderà e ci assi-sterà e noi, nelle vicissitudini della vita. Alzeremo gli occhi a questo Sacro Monte per chiedere la Sua benevolenza materna.» Con un ultimo sforzo i volontari sollevarono la statua e percorsero gli ultimi metri fino piccolo tempio, situato proprio sulla cima della mon-tagna, mentre i ragazzi più giovani facevano a gara a chi suonava con più vigore le campane poste di fianco alla chiesa. La processione, secondo la tradizione, percorse i tre giri rituali intorno alla cappella, come per allontanare il distacco da Maria:

Tre vote giro attorno a ‘sta cappella. Vergine bella vienim’aprì

Infine la statua fu deposta sul piccolo trono in quella che sarebbe stata la sua dimora per tutta l’estate. La commozione aleggiava nell’aria. La gente si strinse attorno alla Vergine, come per rassicurarla che non sarebbe stata abbandonata:

O che dolore mi sento c’aggia lascià Maria. Ti prego, Maronna mia fammi restà co te

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Ultimi canti, ultime lacrime, ultime preghiere, ultimi saluti alla Madon-na e, pian piano la gente, a gruppi, si avviò in discesa verso il paese, verso una quotidianità fatta spesso di affanni e tribolazioni, ma rassicu-rata dalla sensazione di aver lasciato su quel monte, affidate alla Vergi-ne, le proprie speranze.

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MONSIGNORE La casa di Monsignore si trovava nel posto più panoramico del paese. Da lì si dominava la valle dell’Agri, una verdissima valle circondata dai monti e attraversata dal fiume, sulla quale si affacciano numerosi paesi arroccati sui loro cocuzzoli; il monte Raparo, con la sua cima innevata fino a primavera inoltrata, ne sembra il guardiano. Il vecchio Monsignore, con gli occhi chiusi, si muoveva lentamente sull’antica sedia a dondolo, nel suo bel giardino pieno di fiori che cura-va personalmente; si godeva quel cielo terso, quel sole primaverile, quel benedetto tepore, raro da quelle parti, che sentiva arrivare fin den-tro le ossa. Il paese era deserto e il silenzio surreale. Tutti, uomini donne e bambini, erano saliti sulla montagna in proces-sione per accompagnare la Madonna fino alla sua dimora estiva. Oltre dieci chilometri di strada sterrata, tutta in salita; un vero sacrificio al quale nessun parrocchiano si sarebbe sottratto, per nessun motivo al mondo. Per tanti anni Monsignore era stato in prima linea, come in tutte le oc-casioni ufficiali; negli ultimi tempi, aveva finito col cedere completa-mente le redini della parrocchia al giovane parroco, così diverso la lui e pieno di entusiasmo, tanto da sembrare veramente credere a quello che diceva e che faceva. La fede di quel giovane prete lo incuriosiva e lo affascinava. A volte il giovane don Francesco si recava a casa di Monsignore per parlargli delle innovazioni che intendeva apportare alla vita della par-rocchia; gli raccontava delle nuove statue di Santi che aveva ordinato per arricchire la chiesa, del nuovo fonte battesimale tutto in marmo al posto di quello di pietra, del confessionale dotato di cuscini per le pove-re ginocchia artritiche delle vecchiette: gli occhi gli ridevano, sembrava davvero felice; quanto era diverso da lui che, a quell’età, era divorato dalla rabbia! Era stato messo in seminario a sette anni. «Tu sei nato per servire Dio», gli aveva ripetuto sua madre da quando era stato in grado di capire. «Dio vuole che tu diventi un suo ministro,

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ma non un semplice prete… no, tu diventerai un monsignore, un vesco-vo, un cardinale.» All’inizio ne era stato quasi orgoglioso, tanto da ripeterlo spesso agli altri bambini: «Io devo servire Dio, devo diventare un cardinale.» Gli sguardi indifferenti dei suoi coetanei, che sembravano insensibili a un tale privilegio e che, spesso, alle sue affermazioni facevano spalluc-ce, lo colpivano, ma iniziò a preoccuparsi seriamente quando gli diven-ne chiaro che, per servire Dio, avrebbe dovuto lasciare la sua casa, i suoi fratelli, i suoi genitori per andare a studiare a Potenza. Dopo tanti anni ricordava ancora con lucidità il primo viaggio verso il seminario: la testa gli girava, la nausea lo assaliva ad ogni curva e in petto gli ribolliva una sensazione sconosciuta che, solo parecchi anni dopo, avrebbe definito una terribile l’ansia. Ricordava un cortile pieno di bambini e di ragazzi più grandi che gio-cavano a pallone mantenendo la tonaca sollevata per non inciampare; quella vista lo rincuorò un pochino, ma mentre cercava di capire, guar-dandoli negli occhi, se fossero felici di servire Dio, si accorse con terro-re che sua madre respingeva la mano che lui cercava di stringerle. Ricordava quelle persone, vestite di nero fino ai piedi, che gli parlavano e gli sorridevano mentre lui aveva un unico pensiero: seguire con lo sguardo i suoi genitori per non perderli di vista; non avrebbero certa-mente avuto il cuore di lasciarlo lì se lui non avesse voluto rimanerci! Ricordava gli occhi lucidi e il mento tremolante di suo padre. Ricordava sua madre che, quando venne il momento di andare via, sen-za una lacrima, si liberò con fermezza dalle sue braccine avvolte attorno al collo e lo baciò freddamente e frettolosamente sulla guancia, quasi con un senso di liberazione. Ricordava due braccia possenti che lo tenevano stretto con forza per impedirgli di correre dietro alla macchina che si allontanava. Ricordava le sua grida disperate: «Mammaaaaa… mammaaaaa!» E poi: la prima notte passata in seminario, il senso di tradimento, il pianto disperato, i singhiozzi che gli avevano tolto il fiato fino a quando si era addormentato sfinito. I giorni successivi furono un’unica implorazione: «Voglio andare a ca-sa… Voglio andare a casa!» ma gli sembrava di trovarsi in mezzo ai sordi; nessuno capiva quella sua richiesta così legittima e tutti conti-nuavano a ribadirgli: «Tu sei stato scelto, sei stato chiamato per servire Dio. Devi essere orgoglioso perché Dio ha scelto proprio te tra tanti», parole incomprensibili e senza senso per un bambino che non capiva il

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motivo per cui non poteva stare a casa sua, con la sua famiglia, come tutti i bambini del mondo. Ce la mise tutta per non impazzire ma iniziò a odiare quel Dio che aveva chiamato proprio lui; per dispetto, mentre gli altri recitavano le preghiere, ripeteva a bassa voce e a fior di labbra: «Lasciami andare… lasciami andare», ma, in breve, capì che non fun-zionava nemmeno quello. Ogni volta che i suoi genitori andavano a trovarlo si ripeteva lo stesso strazio. Finì col rassegnarsi, ma l’odio e la rabbia crebbero insieme a lui. Aveva visto tanti compagni uscire dal seminario e riprendere in mano le proprie vite; li aveva ammirati e invidiati con tutta l’anima, ma non a-veva mai trovato il coraggio di sfidare il proprio destino. Ricordava la cerimonia della sua ordinazione sacerdotale: l’espressione tronfia di sua madre, quella dubbiosa dei suoi fratelli, il solito mento tremolante di suo padre. Si rivedeva steso per terra bocconi, con le ma-ni sulla fronte, umiliato e ancora incredulo per essere arrivato fino a quel punto; riviveva il contrasto tra quello che passava per la sua mente in quei momenti e la musica sacra dell’organo, tra la rabbia che aveva in corpo e la commozione che gli aleggiava intorno. Gli venne quasi da ridere quando il vescovo, alla fine della cerimonia, abbracciandolo gli mormorò: «La Pace sia con te.» Non aveva mai perdonato sua madre. Spesso, anche da adulto, quella scena si riaffacciava nei suoi incubi… Mammaaaaaaa… ma sua madre si allontanava sempre di più… Mam-maaaaaa… ma lei continuava ad allontanarsi, e infine, prima di scom-parire, girava per un attimo la testa… ma… non era lei, era una scono-sciuta dall’espressione indecifrabile. Don Carlo si svegliava inzuppato di sudore. Era stato lui, molti anni dopo, a chiuderle gli occhi sul letto di morte e, prima che morisse, quando già non parlava più, fu lui a ritirare le mani che lei cercava di stringere, e a rivolgerle uno sguardo che sperò l’accompagnasse nel suo inferno. Lui, il suo, lo aveva conosciuto a sette anni! Nella camera da pranzo, sopra la consolle, troneggiavano i due ritratti fotografici dei suoi genitori, incorniciati da una spessa decorazione do-rata con fregi floreali. Don Carlo indugiava spesso con lo sguardo su quello di suo padre, un uomo mite, dall’animo nobile, al quale rimproverava solo la debolezza per non essersi opposto ai desideri ostinati della moglie, ma distoglieva

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immediatamente lo sguardo se gli capitava, per caso, di incontrare quel-lo di sua madre, severo, quasi arcigno, che sembrava dirgli: «Alla fine ti ho piegato al mio volere.» La vecchia perpetua si affacciò sul giardino dalla porta della cucina e lo distolse dai suoi pensieri. «Monsignò, che volete mangiare?» «Niente Annì, fammi solo un poco di pastina in bianco.» «Ma non doveva venire vostro nipote da Roma?» «No, mio nipote per adesso non viene, tiene da fare, e comunque non sono fatti tuoi.» Annina rientrò in cucina; era abituata ai modi bruschi di Monsignore e sapeva bene quando era il momento di tacere. Viveva e lavorava in quella casa da quando era una bambina, scelta fra tante “figlie della Madonna”, nell’orfanotrofio di Pompei. Era stata selezionata per il suo aspetto: era una brutta bambina e sembrò adatta a convivere con dei giovanotti senza costituire una tentazione, ma mai calcolo si rivelò così sbagliato. Col passare del tempo Annina sbocciò: i suoi capelli crespi diventarono soffici ricci, i lineamenti spigolosi si ammorbidirono e i ragazzi di casa iniziarono a guardarla in tutt’altro modo. La signora Leonilde, alla qua-le non sfuggiva nulla, figurarsi le occhiate furtive dei figli alla serva, tentò di correre ai ripari: le fece fare dalla sarta delle vesti più lunghe e più accollate, in modo che quando si piegava il seno generoso non si intravedesse e le belle gambe non sbucassero, ma, qualsiasi cosa indos-sasse, la ragazza, dotata di un carattere solare e di un’allegria innata e coinvolgente, con gran disappunto della padrona di casa, trasudava sen-sualità. Donna Leonilde tirò un sospiro di sollievo quando, uno dopo l’altro, i suoi figli maschi andarono via da casa per studiare all’università Fede-rico II di Napoli. Quando Carlo, finiti gli studi in seminario, fu nominato parroco del suo paese natale e ritornò a casa, donna Leonilde si trovò di fronte ad una dura scelta; certo non poteva abbandonare la ragazza e allontanarla da quella casa dove era cresciuta, cosa avrebbe detto la gente? E allora si limitò ad aumentare i suoi controlli. I suoi occhi vigili non la perdevano di vista un momento ma, soprattut-to, non perdevano di vista il figlio prete. Fino a quando si rese conto che Annina poteva essere il mezzo con cui il Signore avrebbe fatto accettare al futuro Monsignore il suo destino; si

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accordò con se stessa e fece in modo di non vedere e di non percepire nulla che potesse, in qualche modo, turbare l’equilibrio della famiglia. Nessuno scandalo l’avrebbe travolta. Il suo compito di madre e di cristiana lo aveva svolto bene: tre figli ma-schi, uno medico, un altro avvocato e il terzo quasi monsignore; due fi-glie femmine ben maritate; ora poteva anche riposare! Donna Leonilde non ebbe torto. Grazie ad Annina il rapporto di don Carlo con Dio si trasformò dalla rabbia al rancore, passando per l’indifferenza, e arrivò persino a sfiora-re la gratitudine. Annina era stata sempre un mistero per Monsignore. Non avevano mai comunicato con le parole, ma tra loro si era creata un’alchimia segreta, una realtà fatta di occhiate furtive ma eloquenti, di gestualità rapida ma intensa, quasi telepatica. Nessuno dei due aveva cercato di sfuggire l’altro e, con una naturalezza che aveva sconcertato entrambi, si erano ritrovati a letto insieme, unico e naturale sbocco di tanta tensione giovanile repressa. Non si fecero domande, semplicemente si accettarono come un dono reciproco. Don Carlo non aveva mai capito se Annina lo aveva amato veramente o se gli era stata accanto solo perché non aveva altra casa e per la prote-zione che lui le offriva; ma lui sì che l’aveva amata, a modo suo, certo, ma l’aveva amata, e anche molto. Sempre docile, sempre disponibile, che consolazione era stato quel cor-po morbido e caldo che, quando voleva, dormiva accanto a lui e che gli aveva riscaldato soprattutto l’anima. Annina lo aveva sempre chiamato Monsignore e lui non aveva mai trovato il coraggio di dirle: «Chiamami Carlo.» Il legame che li univa era fortissimo; quando Monsignore celebrava la messa, lei era sempre lì, nel primo banco. In quei momenti, quando An-nina apriva la bocca per prendere l’ostia, i loro sguardi si incrociavano e Monsignore provava un brivido; quella espressione era indecifrabile, don Carlo non capiva se manifestava rimprovero o complicità. Ma mai si pentì di quel sentimento o provò rimorso. Odiava quella zimarra che era costretto a portare in pubblico; a casa, con Annina, portava i pantaloni e si sentiva un uomo normale. Don Carlo non aveva dimenticato le notti passate a piangere e a dispe-rarsi in seminario, e aveva accolto Annina come il dono con il quale quel Dio al quale aveva sacrificato la sua vita lo aveva ricompensato

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per aver accettato, attraverso la caparbietà di sua madre, di essere Suo servo e ministro. «Monsignò, venite a tavola, è pronto.» Don Carlo, lentamente, si alzò dalla sua sedia a dondolo e raggiunse la compagna della sua vita in cucina.

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LOLA Lola, dal letto, guardava le travi di legno del soffitto con gli occhi sbar-rati, persa nei suoi pensieri. Conosceva a memoria, ormai, ogni striatu-ra, ogni piccola crepetta, ogni sporgenza di quelle travi; le apparivano anche quando chiudeva gli occhi, incubo nell’incubo. Da quando suo marito era partito per l’America, aveva lasciato la minu-scola casetta che aveva condiviso con lui ed era tornata a vivere nella casa dei suoi genitori con la sua bambina. Le due sorelle, anch’esse maritate, vivevano e lavoravano in Germania e, con le loro famiglie, tornavano in paese una volta all’anno, d’estate. «Mammaaaaaa, è pronto, vieni giù a mangiare», gridò la piccola affac-ciandosi dall’imbocco della scala. «No, Angela, cominciate voi, non mi sento bene, ho mal di testa», ri-spose Lola senza muoversi dal letto. Dio, per quanto tempo ancora avrebbe potuto continuare così! Che non stesse bene era sotto gli occhi di tutti; nelle ultime settimane era dimagrita, non solo per la nausea che non le dava tregua, ma soprat-tutto per l’ansia e l’angoscia che avvinghiavano la sua anima in una morsa mortale. Ancora nessuno sospettava nulla: ma quando il suo stato sarebbe stato palese? Cosa sarebbe successo? Come avrebbe potuto affrontare questa situazione con la sua famiglia, con quella di Giovanni, con il paese inte-ro? Andare via… ma dove? E con quali soldi? E come portarsi dietro una bambina di cinque anni? Non le dava pace il pensiero di dare un simile dolore ai suoi genitori e di marchiare sua figlia che sarebbe diventata, agli occhi di tutto il pae-se, una figlia di puttana. Il paese, lo stesso dal quale, fino a quando era stata una bambina, si era sentita protetta, ora la atterriva. Già aveva avuto modo di avere gli occhi di tutti puntati addosso; già aveva sentito sulla pelle il giudizio dei suoi compaesani benpensanti che, a seconda delle situazioni, diventavano vittime o carnefici dello stesso gioco perverso. In un ambiente ristretto, dove nessuno aveva se-

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greti per nessuno, tutti si erano accorti che Alberto, uno dei nipoti di Monsignore, era innamorato di Lola. Alberto non era un semplice nipote di Monsignore, ma era considerato il nipote di Monsignore, perché figlio unico di una sorella rimasta ve-dova ancora giovane. La poveretta, dopo la morte del marito, era caduta in uno stato di de-pressione dal quale, nonostante la presenza del bambino, non si era mai più risollevata. Passava le giornate chiusa nella sua stanza a recitare il Rosario, affermando di riuscire così a sentire accanto a sé la presenza del suo sposo. Monsignore aveva trovato in Alberto il figlio che non avrebbe mai po-tuto avere (anche se Annina più volte era partita per “fare le cure per l’asma” in una discreta clinica di Roma) e Alberto aveva goduto di un affetto paterno. Alberto e Lola si conoscevano da sempre, come tutti i ragazzi del paese, e, come tutti, avevano frequentato l’unica scuola, l’unica parrocchia, l’unica strada del “passeggio”, ma li separava una immensità. Lei, figlia di contadini, destinata al massimo a fare la sarta; lui, rampol-lo di una delle pochissime famiglie di notabili della valle, liceale, desti-nato a diventare medico e a sposare una figlia di buona famiglia. Praticamente due specie diverse. Alberto e Lola lo sapevano bene e si comportarono di conseguenza. Ignorarono il batticuore che si scatenava in entrambi quando si incon-travano per caso; ignorarono il rossore che imporporava i loro visi quando si rivolgevano la parola; ignorarono il tremore che li prendeva quando, raramente e casualmente, si sfioravano. Alberto e Lola ignorarono, ma il paese no! «Vuoi vedere che quella ha messo gli occhi addosso al nipote di Mon-signore?» «Eh già, lui è così scemo che si fa accalappiare da una che non tiene neanche gli occhi per piangere!» «Sai Monsignore dove li fa correre!» Di bocca in bocca, di casa in casa, per un po’ questo fu uno dei più ghiotti pettegolezzi in circolazione, nonostante fra i due ragazzi non ci fosse mai stato niente più di un sentimento platonico tenacemente tenu-to a bada. Finito il liceo, Alberto partì per Roma per studiare medicina. Lola andò ad imparare il mestiere presso una sarta.

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Giovanni, il figlio della sarta, un ragazzone gran lavoratore, se ne in-namorò follemente e, ben presto, le chiese di sposarlo. Un lavoratore, cosa desiderare di meglio? Questo dissero a Lola la mamma, le sorelle, le amiche. Un lavoratore con la testa sul collo e le mani d’oro, che non perdeva tempo davanti ai bar; un bravo ragazzo come Giovanni è così difficile da trovare. Lola gli disse di sì. Il paese si tranquillizzò e, finalmente, poté tirare un sospiro di sollievo: nessun ordine sociale era stato violato, nessuna legge era stata infranta; era ora di voltare pagina e pensare ad altre cose che non fossero i fatti propri. Il giorno del matrimonio di Lola, nel clima dei preparativi della festa, Tonino non era felice come quando aveva accompagnato all’altare le altre due figlie; c’era qualcosa che non quadrava: Lola evitava il suo sguardo. Tonino ricordò all’improvviso le raccomandazioni della maestra Violet-ta: «Tonì, falla studiare questa figlia. A costo di qualsiasi sacrificio, Lo-la deve studiare perché è molto intelligente e volenterosa e vi potrà dare grandi soddisfazioni.» «Signora Violetta, vi prometto che farò il possibile, a costo di togliermi il pane dalla bocca.» Ma Tonino non era riuscito a mantenere la promessa, e la signora Vio-letta aveva visto con grande rammarico un’altra delle sue alunne, una delle più intelligenti e capaci, lasciare a scuola a tredici anni. Ogni tanto la maestra la portava a casa sua e le prestava un libro della sua biblioteca e Lola, quando tornava a casa la sera, dopo aver cucito tutta la giornata, leggeva fino a tardi saziando così la sua curiosità e la sua voglia di apprendere. «Lola, continua così», le diceva la signora Violetta, «appena arrivi all’età giusta te lo faccio prendere io il diploma da maestra.» Ma poi la guerra, la fame, le privazioni, si portarono via i desideri di tanta gente, compresi quelli di Lola, che finì col non pensare più alla possibilità di studiare per diventare una maestra. Tonino, il giorno del matrimonio di Lola e Giovanni, ebbe l’impressione di portare sotto al braccio una ragazza che rinunciava de-finitivamente ai suoi sogni, e non una sposa che vi correva incontro fe-lice, e temette che non fosse l’emozione a rendere lucidi gli occhi di Lola, come tutti pensavano.

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Dopo la cerimonia in chiesa ci fu, secondo l’usanza locale, una bella festa: uomini, donne e bambini, col vestito delle occasioni speciali, mangiarono, bevettero e ballarono fino a notte fonda. Zio Luigi, a cui qualche bicchierino di troppo aveva dato una marcia in più, fece volare la sua fisarmonica; Totonno lo scarparo e Mimì il fab-bro non furono da meno con l’organetto e il tamburello. Nell’euforia generale, al ritmo di tarantelle, polke e mazurche, non mancarono canzoni ammiccanti, palesi doppi sensi, balli insinuanti: an-che la gente più timorata di Dio si lasciava andare in quelle occasioni. Tutti si divertivano, tranne Lola: stranita, con un sorriso stampato sulla bocca che non aveva niente a che fare con il cuore, stringeva le mani agli invitati, elargiva baci sulle guance ai bambini che le si affollavano intorno per avere i confetti, ripeteva: “Grazie… grazie” ai parenti e agli amici accorsi per festeggiare insieme, riceveva piccoli regali dalle mani degli invitati. Lo sposo, invece, al colmo della felicità, era tutto un sorriso. «Giovà, ce l’hai fatta!» gli ripetevano i suoi amici, con malcelata invi-dia, battendogli le mani sulla spalla. «Beato a te!» Giovanni annuiva e rideva, ancora incredulo che tanta fortuna fosse toccata proprio a lui. Il contrasto, quasi stridente, tra gli stati d’animo dei due ragazzi, non sfuggiva a Tonino che, ogni tanto, guardava sua figlia di sott’occhio e avvertiva una stretta al cuore; ma poi l’allegria generale riprendeva il sopravvento e scacciava i cattivi pensieri. Nata Angela, Lola si concentrò sul suo ruolo di mamma: la nascita della bambina le riempì il cuore d’amore, e iniziò a provare un po’ di tene-rezza anche per Giovanni che le sembrava lui stesso un bambino quan-do giocava con sua figlia. La sua vita era quella: un marito di poche parole, ma gran lavoratore, una figlia, un lavoro, una casa da portare avanti insieme. La lettura era la sua sola evasione e il suo rifugio: a volte Giovanni la sorprendeva con il libro in mano e gli occhi lucidi e non capiva che cosa la emozio-nasse tanto, né Lola avrebbe mai potuto spiegarglielo. Il suo amore, perduto in fondo all’anima, riviveva e si rinvigoriva attra-verso quello di Jane Eyre e Rochester, attraverso la passione di Jurij e Lara ne Il dottor Zivago, quella di Elizabeth e Darcy in Orgoglio e pre-giudizio, attraverso la determinazione e la sfrontatezza di Rossella O’Hara.

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Lola si girò verso la finestra. La tenda era la stessa di sempre, quella bianca tutta ricami che sua mamma aveva avuto in regalo da una cugina che viveva a Boston. Guardandola bene, ci si poteva vedere di tutto. Lei e le sue sorelle ci avevano giocato per anni; in quei ricami si diver-tivano a trovare fiori, animali, persone, persino somiglianze. Dio, quanto avevano riso quando nella tenda era comparso il viso di zì Salvatore, un vecchio del paese famoso per il suo nasone. A quel ricor-do Lola abbozzò un sorriso, ma fu un attimo, poi l’angoscia la riabbrac-ciò. Ora nella tenda non vedeva che simboli di dolore e di morte; eppure, fino a qualche settimana prima, era stato tutto diverso.

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ALBERTO Alberto contemplava Roma dal terrazzo dell’appartamento di via Me-rulana che divideva con Antonio, uno studente all’ultimo anno di medi-cina. Era laureato già da un paio d’anni e aveva appena conseguito la specia-lizzazione in pediatria. Aveva scelto questa branca perché aveva visto molti bambini, troppi, soffrire e addirittura morire nei duri anni della guerra. Aveva persino perso qualche compagno di giochi a causa di in-fluenze non curate o curate male e ne era rimasto molto toccato. Gli piaceva vivere nella capitale anche se, all’inizio, aveva faticato non poco ad adattarsi ai ritmi di una grande città, ma, ormai, Roma era casa sua. Quella tiepida mattina di maggio, seduto su una panchina di legno, guardava i tetti della città eterna, ma il suo pensiero era altrove. Quella giornata era una giornata di festa al suo paese. «Chissà se Lola è andata alla processione», si chiese, «sì, c’è andata si-curamente.» La immaginò camminare lungo la strada che si arrampicava su per la montagna, bella, con quei capelli neri e ricci che le arrivavano sulla spalla, con la sua bambina per mano, una piccola Lola in miniatura, tan-to era simile alla mamma. Quanto avrebbe voluto essere il padre di Angela! Chiuse gli occhi: Lola… Lola…! L’aveva notata per la prima volta il primo giorno di scuola della quarta elementare. Era stato colpito dagli occhi, grandi, scuri e terrorizzati. Lola si guardava intorno preoccupata; per lei era il primo impatto con la scuola, il primo giorno della prima elementare, e cercava rassicura-zione stringendo con forza la mano di suo padre. Alberto riconobbe il colono dello zio e gli venne spontaneo avvicinarsi. «Perché hai paura? È bello andare a scuola. I maestri sono buoni e ti in-segnano tante cose.» Lei gli sorrise sollevata. Tutto ebbe inizio in quel preciso istante. Alberto ricordava con una chiarezza impressionante quei momenti. Come quegli sguardi che, incrociandosi, lasciano nell’animo una traccia

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indelebile e apparentemente inspiegabile, il cui senso si può capire an-che dopo anni, tale fu quel primo incontro tra Alberto e Lola. Quella bambina dai grandi occhi neri, tanto diversa da tutte le altre, gli faceva un’enorme tenerezza. Lola si sentiva protetta dal suo amichetto. Ogni mattina, nell’atrio della scuola, lo cercava fra tutti; lui le si avvi-cinava, le sorrideva e, quando suonava la campanella, si avviavano in-sieme lungo il corridoio della scuola. Alberto cominciò a parlare di Lola come della sua “fidanzata”, cosa che inizialmente divertì molto Monsignore e gli altri parenti, ma poi, intor-no ai dieci - undici anni la caparbietà con la quale Alberto continuava a ribadirlo iniziò a suscitare qualche preoccupazione. Monsignore decise di affrontare il toro per le corna. Meglio, si disse, mettere subito le cose in chiaro oggi che trovarsi a do-ver affrontare un domani qualche situazione poco piacevole. Un giorno tranquillamente, come se fosse la cosa più naturale del mondo, si rivol-se ad Alberto dicendogli: «Da grande, quando sarai dottore e sposerai la figlia del farmacista Di Cicco, questa casa sarà tua e ne farai quel che vorrai.» Alberto alzò gli occhi dal libro che stava leggendo e guardò lo zio stu-pito: «La figlia del farmacista Di Cicco? Zio, ma che dici? Io da grande voglio diventare dottore e voglio sposare Lola.» «Lola?! Lola non la puoi sposare.» «E perché?» chiese Alberto stupito. «Lola è figlia di un contadino e deve sposare un figlio di contadini. Tu sei figlio di un laureato, nipote di un Monsignore, e devi sposare la fi-glia di un laureato. Questa è la legge.» «Io la figlia del farmacista Di Cicco non me la sposerò mai. Lola è la mia fidanzata», ribadì Alberto con determinazione. «Vedremo», disse Monsignore alzandosi e troncando bruscamente la conversazione. Alberto avvertì un brivido perché sapeva per esperienza che “vedremo” in bocca allo zio quasi sempre era un categorico “no”. Cercò di non pensare alla figlia del farmacista che, tra l’altro, gli era stata sempre antipatica e, da quel momento, evitò anche di salutarla, ma ormai un pensiero gli si era insinuato dentro… la legge! Alberto, affacciato sui tetti di Roma, pensava, con un peso sull’anima, che, in nome di una legge non scritta, eppure più forte e più rispettata di tante altre, aveva rinunciato al suo sogno di bambino e poi di ragazzo. Aveva visto Lola farsi sempre più bella e sempre più irraggiungibile.

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Qualche anno dopo, conseguita la maturità, era andato a vivere a Roma per studiare medicina; Lola ormai chiusa in un recesso profondo dell’anima, ma mai dimenticata.

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GIOVANNI Giovanni si svegliò all’improvviso nel cuore della notte. Si guardò intorno senza accendere la luce, per non disturbare l’amico che dormiva in un lettino accanto al suo. Dalla finestra che dava sulla strada filtrava un po’ del chiarore dei lumi. Prese la sveglia dalla sedia che faceva da comodino e strizzò gli occhi: le tre. Fece un rapido calcolo: in Italia erano le nove. Riappoggiò il capo sul cuscino cercando di non fare rumore. Pensò, come sempre, a Lola, ad Angela, alla sua casa. Era la prima domenica di maggio, un giorno particolare per il suo pae-se: immaginò Lola, sua mamma, sua suocera dietro alla processione, come ogni anno. Avrebbe dato chissà cosa per essere lì con loro! L’immagine di Lola era sempre davanti a lui: bella, con quella massa di capelli ricci e quegli occhi neri: che tormento saperla lontana! Era partito per New York due anni prima, a soli venticinque anni, per garantire un futuro alla sua famiglia ma, a volte, pensava di non farcela. Era tentato di tornare indietro ma lottava con tutte le sue forze per trat-tenersi perché voleva, al di sopra di qualunque altra cosa, che Lola fos-se orgogliosa di lui. Lola abitava vicino casa sua; era la più bella ragazza del paese e, per questo, Giovanni l’aveva sempre ritenuta irraggiungibile. Quando sua madre l’aveva presa come apprendista non gli era sembrato vero di vederla girare per casa. E proprio sua madre lo aveva spinto a dichiararsi: «Giovà, non vedi Lola che bella ragazza che è, è pure una ragazza seria e lavoratrice co-me a te, perché non…» «Mamma, figurati se Lola vuole a me.» «E perché no, tu sei nu bello uaglione e sei pure nu faticatore, che può volere di meglio?» Giovanni prese coraggio e si dichiarò. Che gioia quando Lola gli disse di sì; una gioia che lo aveva ricompen-sato di tutte le umiliazioni e le amarezze della sua vita.

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Giovanni non aveva praticamente mai conosciuto suo padre, partito per l’Argentina quando era troppo piccolo per ricordarsene e mai più ritor-nato. Dopo un paio d’anni dalla partenza, una lettera, la prima di una lunga serie, tornò indietro con la desolante scritta “destino desconocido”. Da allora, mai più nulla! Era cresciuto senza un padre e ne portava ancora tutte le ferite ma, gra-zie a Dio, aveva avuto una madre che aveva saputo relegare il suo dolo-re di notte, quando nessuno la vedeva, e che, di notte, aveva sfogato tut-to il suo dolore e la sua rabbia fino ad addormentarsi sfinita, per essere pronta, al mattino, ad una nuova giornata di fatica. Del padre Giovanni aveva una sola fotografia, unica superstite della collera di sua madre che le aveva strappate tutte in un momento di rab-biosa follia. Più che una fotografia sembrava un pezzo di carta ingiallito dal tempo, attraversata da mille striature che rendevano irriconoscibili i volti ma, nonostante questo, custodita come una reliquia. Sin da piccolo, Giovanni aveva scavato nella sua memoria senza sosta, fino a trovare un ricordo, uno solo, chissà come, sopravvissuto agli an-ni: era in braccio al padre, in mezzo a tanta gente, mentre suonava una banda. Non era nemmeno tanto sicuro che si trattasse di vero ricordo e non di un parto della sua fantasia. Lo aveva tanto odiato, ma, col tempo, Giovanni aveva imparato ad incanalare il suo dolore e la sua rabbia in una giusta direzione, lavorando con serietà e senza risparmiarsi. Rimproverava sua madre quando la vedeva cucire la sera tardi, china sulla sua Singer. «Mamma, mo basta! Vatti a coricare e riposati nu poco gli occhi.» «Giovà, domani assolutamente devo consegnare questo vestito alla si-gnora Attolico, tu lo sai come è scocciante quella.» Ora aveva esattamente la stessa età di suo padre quando era partito e, in qualche modo, quella esperienza lo aveva avvicinato a lui. Anche suo padre aveva conosciuto la desolante sensazione di trovarsi in una terra straniera, di non capire la lingua, di ammazzarsi di fatica ogni giorno per trovarsi la sera solo e stanco morto in una casa vuota e senza affet-to! Sì, ora Giovanni capiva quello che suo padre aveva vissuto, e la rabbia che ancora covava sotto la cenere dell’anima cominciava a dissolversi; pensava spesso a lui, a quello che aveva passato, a come aveva vissuto, a qual era la sua vita in quel momento, visto che avrebbe dovuto avere

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circa cinquant’anni, a come era la sua nuova famiglia, se ne aveva una, e ai suoi eventuali fratelli e sorelle che non avrebbe mai conosciuto. La rabbia che aveva nutrito in corpo per anni si era attenuata, ma di una cosa era sicuro: lui non si sarebbe mai comportato come suo padre. Come si fa, pensava, ad abbandonare un figlio e a non sapere più niente di lui? Come ci si può addormentare la sera senza sapere se sta bene, come è cresciuto, se è diventato un bravo ragazzo o se ha preso una cat-tiva strada? Da padre non trovava risposte a queste domande; ora che era padre, il solo fatto di non veder crescere la sua bambina, che sapeva ben accudita e circondata d’amore, era una tortura ma, proprio perché era un padre responsabile, aveva deciso di partire. Lavorava come mu-ratore, imbianchino, idraulico; si era fatto apprezzare per la serietà e per la precisione con la quale portava a termine ogni lavoro nei tempi pre-visti. Divideva una stanza con un altro italiano scappato come lui da un Paese in ginocchio, appena uscito da una guerra devastante. Non c’erano soldi, non c’era futuro. Aveva deciso di partire per l’America, e non per la Svizzera o per il Belgio come tanti suoi amici, perché voleva il massimo per lui e per Lola , per la loro piccola Angela e per i figli che sarebbero arrivati. Risparmiava ogni singolo centesimo e riusciva a mandare a casa un bel gruzzoletto ogni mese, sicuro che Lola avrebbe custodito quel denaro meglio di lui e che, una volta rien-trato, avrebbe potuto mettere a frutto tutta quell’esperienza, mettersi in proprio e magari prendere dei lavoranti con lui. Questo aveva promesso a Lola quando era partito e questo avrebbe rea-lizzato. La voleva vedere raggiante come non l’aveva mai vista. Anche nei momenti gioiosi Lola rideva con la bocca ma gli occhi; quei grandi occhi neri, non li aveva mai visti veramente felici, nemmeno il giorno del loro matrimonio, quando, bellissima nel semplice vestito bianco che aveva cucito insieme alla futura suocera, gli era andata in-contro, al braccio del padre, lungo la navata della chiesa. Ci sarebbe riuscito, si sarebbe spaccato la schiena dal gran lavorare e avrebbe guadagnato tanto da costruire per loro la più bella casa del pae-se: con il giardino, con i mobili lucidi come quelli dei signori, con la macchina per lavare i panni e anche quella per lavare i piatti, come c’erano in America e che al paese suo nemmeno se la sognavano. Lola avrebbe fatto la signora, non avrebbe più cucito fino a sera tardi, come aveva visto fare a sua madre e, al suo ritorno in Italia, sarebbe comin-

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ciata una nuova vita per loro: gli occhi di Lola, finalmente, avrebbero riso! Giovanni si era portato dentro, come scolpito nell’animo, l’ultimo sguardo di sua moglie, quando si erano salutati al porto di Napoli, uno sguardo che gli aveva lasciato dentro una tremenda inquietudine. E infatti fu proprio quel giorno, anche se Giovanni non lo avrebbe mai saputo, che il loro destino cambiò per sempre. FINE ANTEPRIMA CONTINUA…

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