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1 Il paradosso del demos (tra legittimità democratica e legittimazione storica) di Edoardo Greblo Fin dalla sua nascita la teoria democratica si è confrontata con un grave paradosso: la democrazia non riesce a permeare di sé il processo stesso della sua costituzione. Tuttavia, solo recentemente, in connessione con l'emergere della globalizzazione e l'esplosione del fenomeno migratorio, tale paradosso si è venuto ponendo come una questione cruciale per la riflessione normativa. La sovranità democratica implica un demos unificato che agisce per governare se stesso su un territorio delimitato. E “l’autogoverno implica l’autocostituzione”. 1 Ma in che modo il demos si è autocostituito e in base a quale autorità? Si tratta di un paradosso che la teoria democratica ha riconosciuto sin dai tempi di Rousseau: infatti, affinché il popolo sia legittimo, “bisognerebbe che l’effetto potesse divenire causa, che lo spirito sociale che deve essere il frutto dell’i stituzione, presiedesse all’istituzione stessa e che gli uomini fossero prima delle leggi ciò che devono diventare per opera loro”. 2 Eppure, abbastanza sorprendentemente, la teoria democratica mainstream vi ha prestato ben poca attenzione. Come ha scritto Robert Dahl, il problema di decidere su “chi legittimamente costituisce ‘il popolo’ […] e ha perciò il diritto di governare se stesso […] è stato quasi totalmente trascurato da tutti i grandi filosofi politici che hanno scritto sulla democrazia”. 3 L’avvento dell’“era delle migrazioni” 4 ha però contribuito a modificare in modo sostanziale i termini della questione e a rendere il problema al quale sono state attribuite diverse denominazioni: il problema dell’unità, 5 il problema dei fondatori, 6 il paradosso democratico, 7 il paradosso della sovranità popolare, 8 il paradosso della legittimità democratica, 9 il paradosso della politica, 10 il problema della costituzione del demos 11 quanto mai attuale. 1 S. Benhabib, I diritti degli altri. Stranieri, residenti, cittadini (2004), Milano, Raffaello Cortina, 2006, p. 15. 2 J.-J. Rousseau, Il contratto sociale (1762), Roma-Bari, Laterza, 1997, p. 61. 3 R. Dahl, After the Revolution? Authority in a Good Society (1970), New Haven, Yale University Press, 1990, pp. 60-66. 4 S. Castles e M.-J. Miller, L’era delle migrazioni (2009), Bologna, Odoya, 2012. 5 R. Dahl, La democrazia e i suoi critici, Roma, Editori Riuniti, 1997 2 . 6 H. Arendt, Sulla rivoluzione (1963), Milano, Edizioni di Comunità, 1983, pp. 162-163; W. Connolly, The Ethos of Pluralization, Minneapolis, Minnesota University Press, 1995, pp. 138-39; H. Agné, “Democratic founding: We the people and the others, International Journal of Constitutional Law, 3, 2012, pp. 836-861. 7 Ch. Mouffe, The Democratic Paradox, London, Verso, 2000. 8 B. Yack, “Popular Sovereignty and Nationalism”, Political Theory, 4, 2001, pp. 517-536.

Il paradosso del demos (tra legittimità democratica e ... · nella prospettiva cosmopolitica di un demos universale sia nella prospettiva nazionalistica di un demos coincidente con

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Il paradosso del demos (tra legittimità democratica

e legittimazione storica)

di Edoardo Greblo

Fin dalla sua nascita la teoria democratica si è confrontata con un grave paradosso: la democrazia

non riesce a permeare di sé il processo stesso della sua costituzione. Tuttavia, solo recentemente, in

connessione con l'emergere della globalizzazione e l'esplosione del fenomeno migratorio, tale

paradosso si è venuto ponendo come una questione cruciale per la riflessione normativa.

La sovranità democratica implica un demos unificato che agisce per governare se stesso su un

territorio delimitato. E “l’autogoverno implica l’autocostituzione”.1 Ma in che modo il demos si è

autocostituito e in base a quale autorità? Si tratta di un paradosso che la teoria democratica ha

riconosciuto sin dai tempi di Rousseau: infatti, affinché il popolo sia legittimo, “bisognerebbe che

l’effetto potesse divenire causa, che lo spirito sociale che deve essere il frutto dell’istituzione,

presiedesse all’istituzione stessa e che gli uomini fossero prima delle leggi ciò che devono diventare

per opera loro”.2 Eppure, abbastanza sorprendentemente, la teoria democratica mainstream vi ha

prestato ben poca attenzione. Come ha scritto Robert Dahl, il problema di decidere su “chi

legittimamente costituisce ‘il popolo’ […] e ha perciò il diritto di governare se stesso […] è stato

quasi totalmente trascurato da tutti i grandi filosofi politici che hanno scritto sulla democrazia”.3

L’avvento dell’“era delle migrazioni”4 ha però contribuito a modificare in modo sostanziale i

termini della questione e a rendere il problema – al quale sono state attribuite diverse

denominazioni: il problema dell’unità,5 il problema dei fondatori,

6 il paradosso democratico,

7 il

paradosso della sovranità popolare,8 il paradosso della legittimità democratica,

9 il paradosso della

politica,10

il problema della costituzione del demos11

– quanto mai attuale.

1 S. Benhabib, I diritti degli altri. Stranieri, residenti, cittadini (2004), Milano, Raffaello Cortina, 2006, p. 15.

2 J.-J. Rousseau, Il contratto sociale (1762), Roma-Bari, Laterza, 1997, p. 61.

3 R. Dahl, After the Revolution? Authority in a Good Society (1970), New Haven, Yale University Press, 1990,

pp. 60-66.

4 S. Castles e M.-J. Miller, L’era delle migrazioni (2009), Bologna, Odoya, 2012.

5 R. Dahl, La democrazia e i suoi critici, Roma, Editori Riuniti, 1997

2.

6 H. Arendt, Sulla rivoluzione (1963), Milano, Edizioni di Comunità, 1983, pp. 162-163; W. Connolly, The

Ethos of Pluralization, Minneapolis, Minnesota University Press, 1995, pp. 138-39; H. Agné, “Democratic founding:

We the people and the others”, International Journal of Constitutional Law, 3, 2012, pp. 836-861.

7 Ch. Mouffe, The Democratic Paradox, London, Verso, 2000.

8 B. Yack, “Popular Sovereignty and Nationalism”, Political Theory, 4, 2001, pp. 517-536.

2

La soluzione più lineare del paradosso è stata proposta da Michael Walzer. Quando parliamo di

appartenenza e di immigrazione, scrive Walzer, “pensiamo a un gruppo già consolidato e a una

popolazione stabile, e così non vediamo la prima e la più importante delle questioni distributive:

come si costituisce questo gruppo?”. La domanda sembra suggerire una apertura problematica,

smentita però dalla conclusione: “non sto domandando come si è costituito; non m’interessano le

origini storiche dei vari gruppi ma le decisioni che prendono, ora su quello che è e sarà il loro

gruppo”.12

Nel momento stesso in cui demanda alla fattualità degli eventi la questione di spiegare

come debba essere composta la totalità delle persone impegnate a regolare giuridicamente la loro

convivenza, Walzer coglie due risultati in un colpo solo. Da un lato sposta la questione della

costituzione del popolo al di là di ogni questione di legittimità, e dall’altro trasforma

l’immigrazione, piuttosto che il popolo, nel fenomeno politicamente controverso. Seyla Benhabib

procede nello stesso modo. Per appartenenza politica, scrive, “intendo i principi e le pratiche volte a

integrare stranieri e forestieri, immigranti e nuovi arrivati, rifugiati e richiedenti asilo, nei sistemi

politici esistenti”.13

Il risultato è che la discussione dell’appartenenza politica si afferma sullo

sfondo di un popolo la cui definizione non è passibile di controversia. L’immigrazione è il

problema, il popolo è il sé collettivo cui spetta il compito di affrontarlo sulla base della sua cultura

politica e dei suoi principi costituzionali.

Ma perché, sino a un passato molto recente, i teorici democratici hanno preferito evitare di discutere

“chi legittimamente costituisce ‘il popolo’ e ha perciò il diritto a governare se stesso”, e hanno così

rinunciato ad affrontare “il problema del confine”?14

La risposta è che questo problema mette in

luce una circostanza che “non è passibile di soluzione sino a quando si rimane nel quadro della

teoria democratica”. Il popolo che dovrebbe stabilire chi ne fa parte e chi ne va escluso si ritrova

catturato nel circolo infinito dell’auto-definizione: il demos non può infatti decidere esso stesso

della propria composizione.15

Si tratta di una tesi che riecheggia la critica rivolta da Ivor Jennings al

principio di autodeterminazione proposto a suo tempo da Woodrow Wilson per decidere dei confini

9 S. Benhabib, Another Cosmopolitanism: Hospitality, Sovereignty and Democratic Iterations, Oxford, Oxford

University Press, 2006.

10 B. Honig, “Between Decision and Deliberation: Political Paradox in Democratic Theory”, The American

Political Science Review, 1, 2007, pp. 1-18.

11 R. Goodin, “Enfranchising All Affected Interests and Its Alternatives”, Philosophy and Public Affairs, 1,

2007, pp. 40-68.

12 M. Walzer, Sfere di giustizia (1983), Milano, Feltrinelli, 1987, p. 41.

13 S. Benhabib, I diritti degli altri, cit., p. 1.

14 F. Whelan, “Prologue: Democratic Theory and the Boundary Problem”, in J.R. Pennock e J.W. Chapman,

Nomos 25: Liberal Democracy, New York, New York University Press, 1983, pp. 13-47. Robert Dahl (La democrazia e

i suoi critici, Editori Riuniti, Roma 19972, p. 168) definisce la questione come il problema di “chi includere nel demo”:

“quali persone possono legittimamente rivendicare l’inclusione nel demo?”.

15 F. G. Whelan, “Prologue: Democratic Theory and the Boundary Problem”, cit., p. 16. Cfr. anche R. Dahl, La

democrazia e i suoi critici, cit., p. 273; J. Habermas, “Lo stato democratico di diritto: nesso paradossale di principi

contraddittori?”, in Id., Tempo di passaggi (2001), Milano, Feltrinelli, 2004, p. 93; S. Benhabib, I diritti degli altri, cit.,

pp. 12-15; R. M. Smith, Stories of Peoplehood, Stories of Peoplehood, Cambridge, Cambridge University Press, 2003,

p. 154 e p. 158.

3

tra gli Stati europei. In apparenza sembrava ragionevole: lasciate che sia il popolo a decidere. In

realtà era assurdo, perché il popolo non può decidere se non vi è qualcuno che decida chi è il

popolo.16

E non a caso i teorici democratici hanno in genere dato per scontata “la legittimità del

popolo”, lasciando che la questione del confine venisse risolta dalle forze contingenti della storia.

La soluzione prevalente si è perciò generalmente ispirata a una sorta di nazionalismo metodologico:

è la nazione intesa in senso pre-politico a costituire il demos in senso proprio e i confini del popolo

dovrebbero coincidere con i confini della nazione.17

È l’ethnos a definire il demos. Altri teorici si

sono invece limitati a considerare l’esistenza di una comunità politica delimitata da uno Stato

territoriale come un dato fattuale che non abbisogna di giustificazione.18

Non può perciò destare sorpresa il fatto che i problemi di legittimazione riguardino unicamente la

sostanza normativa dei processi politici. Le norme coperte da sanzioni statali devono godere del

consenso dei governati. Ma in che modo stanno le cose per quanto riguarda il popolo? Ha senso

parlare di “legittimità” del popolo? Almeno a partire da Locke e Rousseau, ha finito per imporsi

non soltanto nella filosofia politica, ma anche nella realtà costituzionale degli Stati occidentali,

l’idea che la legittimità di un ordinamento si commisura con la corrispondenza tra direzione politica

e volontà popolare. Ma il fatto che sia il popolo a essere “sovrano”, a detenere il potere e a conferire

legittimità ai governi non serve a rendere il concetto di “popolo” meno equivoco. Per esempio, è

possibile parlare “a nome del popolo” per resistere alla forza dirompente della globalizzazione sia

nella prospettiva cosmopolitica di un demos universale sia nella prospettiva nazionalistica di un

demos coincidente con l’ethnos. Ma richiamare l’attenzione sul popolo quale fonte di legittimità è

una cosa, e interrogarsi sulla sua intrinseca legittimità un’altra.

La strategia più comune per eludere questa difficoltà consiste nell’introdurre una netta linea di

demarcazione tra la dimensione empirica della storia e la dimensione normativa della legittimità.

L’obiettivo è dimostrare che la questione è concettualmente male impostata e che un’entità come un

popolo “legittimo” semplicemente non esiste. Definire l’appartenenza a un demos non è una

questione di democrazia, ma di storia.

Il decidersi volontario per una prassi costituente è una finzione giusnaturalistica: nel mondo reale dipende sempre dalla

casualità storica e dalla fattualità degli eventi stabilire a chi tocca il potere di tracciare i confini della comunità politica.

In linea di massima ciò dipende dall’esito naturalistico di conflitti violenti, di guerre esterne e di guerre civili.19

Per comprendere le implicazioni di questa tesi può essere utile proporre una sintetica comparazione,

e sostituire la costituzione del popolo con la costituzione del potere politico. Il concetto di potere

16

I. Jennings, The Approach to Self-Governemnt, Cambridge, CambridgeUniversity Press, 1956, p. 56.

17 M. Walzer, Sfere di giustizia, cit.; D. Miller, On Nationality, Oxford, Clarendon Press, 1995, pp. 99-100.

18 J. Rawls, Una teoria della giustizia (1971), Milano, Feltrinelli, 1999.

19 J. Habermas, “Lo stato-nazione europeo. Passato e futuro della sovranità e della cittadinanza”, in Id.

L’inclusione dell’altro (1996), Milano, Feltrinelli, 1998, p. 129.

4

politico legittimo è un costrutto ideale sorto nella tradizione del contratto sociale. Ma il potere

politico non è solo, e neppure principalmente, una costruzione ideale, e i cittadini che vi sono

sottoposti sono assoggettati a un ordinamento gerarchico che si è istituzionalizzato al di sopra delle

loro teste. Tuttavia, sostenere che in proposito non si possa avanzare alcuna rivendicazione di

legittimità e lasciare che i depositari dell’autorità politica vengano plasmati dalle contingenze

storiche è un’idea semplicemente antidemocratica. Eppure si tratta proprio della prospettiva che

molti teorici democratici tendono a riproporre nel caso del popolo. Perché? Che cosa rende la

costituzione del popolo diversa dalla costituzione del potere politico? Perché il potere politico può

essere investito da una richiesta di legittimità dalla quale il demos può essere invece esonerato?

Lo scopo delle pagine seguenti è di valutare criticamente la logica che sta alla base di questa linea

di demarcazione prendendo in considerazione 1) la ratio che sostiene la necessità di imporre una

netta linea di demarcazione tra storia e legittimità collocando 2) la costituzione del popolo nel solco

della tradizione contrattualista e dell’idea di legittimità basata sul consenso. La tesi che si intende

suggerire è che questa tradizione può ospitare al proprio interno due diversi modelli di

legittimazione: uno relativo al potere politico, l’altro relativo al popolo – e che nessuno dei due è

privo di tensioni interne. Questa tesi può essere un’occasione per 3) rivisitare la strategia della linea

di demarcazione e proporre alcuni interrogativi. Se è infatti possibile sollevare la questione della

legittimità sia per il kratos sia per il demos, che cosa accade quando si ritiene che nel primo caso si

tratti di un problema essenziale e nel secondo di un problema trascurabile? E quale può essere il

significato della differenza tra legittimità democratica e legittimazione storica nel contesto degli

attuali dibattiti sulla globalizzazione e sulle migrazioni?

1. Nell’“era delle migrazioni” è diventato sempre più difficile nascondere il problema della

costituzione del demos sotto il tappeto del concetto di ethnos. La globalizzazione ha innescato un

dibattito sul campo di applicazione della democrazia e l’incremento dei flussi migratori ha imposto

l’esigenza di ripensare i criteri dell’appartenenza politica. Il dibattito investe proprio “i confini della

comunità politica” e la possibilità di trasformarli, negoziarli o renderli “porosi” di fronte alla

crescente interdipendenza dei popoli del pianeta e alle migrazioni transnazionali.20

Ciò nonostante,

si contano sulle dita di una mano i teorici politici che si sono spinti al di là di questa discussione per

elaborare l’idea di un popolo legittimo. Ma quali sono, se vi sono, i motivi che possono esentare il

demos dall’onere di dimostrare la propria legittimità?

In genere, sono due gli argomenti più diffusi e tutti e due sono radicati nell’idea di consenso.

Secondo il primo argomento, la domanda di legittimità, quando si rivolge al demos, si scontra con

una impossibilità pratica. L’idea che il popolo sia un’associazione volontaria di individui liberi ed

eguali è un ideale politico e non dovrebbe essere intesa in senso letterale.21

John Rawls è

probabilmente l’autore più esplicito in proposito. Già in Una teoria della giustizia traspare la

20

Cfr. S. Benhabib, I diritti degli altri, cit., pp. 75- 91-92, 95, 168, 177.

21 Cfr., per esempio, J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., pp. 25-26, e J. Habermas, “Lo stato-nazione

europeo. Passato e futuro della sovranità e della cittadinanza”, cit., p. 125.

5

convinzione che le questioni riguardanti la costituzione del demos debbano essere messe tra

parentesi. Poiché nessuna società può essere un sistema di cooperazione a cui gli uomini

partecipano volontariamente in senso letterale, la filosofia politica non può che considerare la sua

esistenza come un puro dato di fatto. Essa deve assumere la società come un “sistema chiuso”,22

nel

senso che “vi si entra solo per nascita e se ne esce solo alla morte”.23

In Il diritto dei popoli Rawls

va ancora oltre e difende questa ipotesi in riferimento alla stabilità politica. Egli sostiene che ogni

popolo ha l’interesse a esercitare “il giusto rispetto di sé […] nei confronti di se stesso come

popolo”,24

e per questo “ha quanto meno un diritto condizionato a limitare l’immigrazione sul

proprio territorio”.25

Come Michael Walzer, anche Rawls pensa che la volontarietà

dell’appartenenza al sé collettivo non sia un problema di cui la teoria normativa debba occuparsi. È

meglio rendere più equi i demoi esistenti, così da evitare che gli esseri umani si vedano costretti ad

abbandonare i loro paesi.

La tesi che si possano omettere le questioni di confine dall’ambito della legittimità si è attirata

molte critiche. Si è osservato, per esempio, che l’immagine della società come un “sistema chiuso”

si limita a riprodurre la dottrina tradizionale, che esige la lealtà degli individui al popolo di cui

fanno parte dal momento della nascita. Infatti, “più sottolineiamo che le persone non hanno altra

scelta effettiva se non quella di abbracciare la loro appartenenza ereditata, più miniamo la pretesa

che la loro adesione si basi su qualcosa di simile a una forma di autentico consenso”. Perciò, anche

se il consenso unanime può essere impossibile da realizzare nella pratica, questa non è una buona

ragione per escludere “i confini della comunità politica” dagli oneri della legittimazione. E anzi, “se

vogliamo difendere “qualcosa di simile a una forma di autentico consenso”, dovremmo fare in

modo che “l’appartenenza volontaria si avvicini il più possibile alla realtà”.26

Allo stesso modo,

Benhabib sostiene che tutti i membri di un demos dovrebbero avere il diritto di “autoascrizione

volontaria”, così da poter decidere se accettare o meno di protrarre l’adesione alla comunità di

origine. Nel caso in cui decidano di rinunciare, devono poter disporre del diritto di uscita ed entrata,

oppure l’idea stessa di autoascrizione sarebbe vana.27

Sia Smith sia Benhabib considerano ingiustificata la tesi di Rawls, ma nessuno dei due arriva a

suggerire l’idea che il popolo debba essere considerato come un’associazione volontaria. E né l’uno

né l’altra si spinge sino al punto di opporre alla “chiusura” di Rawls l’apertura indiscriminata dei

confini. Secondo Smith, ciò sottoporrebbe a insostenibili pressioni disgregative la tenuta già logora

dei legami sociali. È necessario perciò riconoscere che l’appartenenza a un popolo si deve a una

combinazione di forza coercitiva e narrazione persuasiva.28

Benhabib propone confini “porosi”

22

J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 25.

23 J. Rawls, Liberalismo politico (1993), Edizioni di Comunità, Milano, 1994, p. 51.

24 J. Rawls, Il diritto dei popoli (1999), Edizioni di Comunità, Torino, 2001, p. 45.

25 Ivi, p, 50, n. 48.

26 R.M. Smith, Stories of Peoplehood, cit., pp. 135-141.

27 S. Benhabib, La rivendicazione dell’identità culturale (2002), Bologna, Il Mulino, p. 41.

28 R.M. Smith, Stories of Peoplehood, cit., p. 43 e p. 137.

6

piuttosto che confini aperti, nella convinzione che il demos debba potersi costituire come sovrano su

un territorio delimitato da confini politici se si vuole che il sistema della rappresentanza possa

continuare a reggersi in piedi, perché è necessario sapere quale entità democratica è responsabile e

nei confronti di chi.29

L’orientamento di cui Smith e Benhabib sono autorevoli esponenti tende a esonerare il popolo

dall’onere della legittimazione in base a considerazioni di natura pratica. Ma per molti teorici

politici la nozione di popolo legittimo si scontra piuttosto con una impossibilità concettuale. Se si

vuole che gli individui siano membri di un’associazione volontaria, è necessario che tutti

acconsentano alla sua costituzione. Ma quali sono le persone il cui consenso è necessario? La tesi,

in sintesi, è la seguente: se il problema di chi includere nel demos è politicamente importante,

allora, in una democrazia, il popolo dovrebbe poter decidere in proposito esprimendosi liberamente

tramite libere votazioni. Se però è necessario sottoporre la delimitazione del demos al vaglio degli

elettori, è politicamente essenziale sapere in base a quale criterio ad alcuni si riconosce il diritto di

voto e ad altri no. Avremmo allora bisogno di lasciare che sia il popolo a decidere anche a questo

proposito. Ma questa decisione sarebbe essa stessa una decisione politica e così via, ad infinitum.30

Se il primo argomento si appella a circostanze di natura pratica per dispensare la costituzione del

popolo dall’onere della legittimità, il secondo si basa su un ragionamento logico. Se il popolo non

può dare il proprio consenso alla costituzione di se stesso, non vi è alcuna richiesta normativa cui

debba sottostare.

A complicare le cose vi è però il fatto che l’argomento può essere utilizzato anche a sostegno di un

potere politico di tipo autoritario, come in Carl Schmitt. La democrazia, sostiene Schmitt, comporta

“l’identità dei dominanti e dei dominati, dei governanti e dei governati, di quelli che comandano e

di quelli che ubbidiscono”;31

ciò che prende il nome di “democrazia” è “una forma di Stato che

corrisponde al principio di identità (cioè del popolo concretamente esistente con se stesso in quanto

unità politica)”.32

Dal momento però che questa forma di identificazione si basa su una divisione

preliminare, rimane pur sempre uno scarto tra i conflitti che attraversano la società, interpretati

come assenza di ordine, e il popolo come identità e omogeneità – scarto che può essere colmato

solo da chi è in grado di assumere su di sé l’onere della decisione, ossia di interpretare la volontà

politica del popolo e di darvi forma. Non è neppure necessario che il modo in cui i dominanti

prendono la decisione osservi la legalità, purché la prendano a nome di tutto il popolo, cioè nella

prospettiva della legittimità

In che modo è possibile evitare che il paradosso alla base del demos possa servire da pretesto per

una forma di decisionismo autoritario? È questo interrogativo a spingere molti teorici democratici a

lasciare che la risposta venga fornita dalla legittimazione storica. Piuttosto che riconoscere il

29

S. Benhabib, I diritti degli altri, p. 2.

30 A. Abizadeh, “On the Demos and Its Kin: Nationalism, Democracy, and the Boundary Problem”, American

Political Science Review, 4, 2012, p. 874.

31 C. Schmitt, Dottrina della costituzione (1928), Milano, Giuffrè, 1984, p. 307.

32 Ivi, p. 293.

7

paradosso preferiscono esternalizzarlo. L’argomento consiste nel portare l’impossibilità dell’auto-

costituzione alla sua logica conseguenza. Se il demos non può decidere della propria composizione,

non resta che piegarsi alle forze contingenti della storia. Per Habermas, la costituzione del demos

non è volontaria, ma è determinata dalla casualità storica. Nel corso del tempo, però, la democrazia

“si incontra” con la storia. Ciò trasforma retroattivamente la società in una democrazia legittima e

costituzionale. Una Costituzione che voglia qualificarsi come democratica “oltre che per la

legittimità dei suoi contenuti anche per la legittimità della sua fonte” andrà “intesa come quel

progetto che fonda una tradizione a partire da una certa data storica e temporale.” La circolarità dei

presupposti legittimanti esprime il carattere orientato al futuro, ovvero l’apertura, della costituzione

democratica. Ciò significa che “tutte le generazioni successive devono affrontare il compito di

attualizzare l’inesauribile sostanza normativa del ‘sistema dei diritti’ enunciato nel testo

costituzionale originario.33

Ora, frapporre una rigida linea di demarcazione tra storia e legittimità significa, paradossalmente,

rendere la teoria del consenso indistinguibile dalla sua critica conservatrice. In assenza di una

legittima soluzione alla costituzione del demos, anche i teorici conservatori liquidano la volontarietà

come una finzione, sebbene per motivi diametralmente opposti a quelli dei teorici democratici. Se

Schmitt affronta il problema della costituzione per affermare la potenza costituente della dittatura

sovrana, i teorici democratici cercano di ridimensionarne il significato escludendolo

preventivamente dal contesto normativo della legittimazione. In che modo il popolo si è venuto

storicamente a costituire è una cosa, in che modo procedere “a partire da una certa data storica e

temporale” è un’altra. I problemi di legittimazione sono come la civetta di Minerva: spiccano il volo

quando la polvere della battaglia si è depositata al suolo.

Il tentativo di ridurre la costituzione del demos a un dato storicamente contingente dà tuttavia luogo

a tesi contraddittorie. Da un lato, si dovrebbe riconoscere che l’argomento sembra effettivamente

corrispondere al modo in cui i popoli si sono storicamente costituiti. Dall’altro lato, tuttavia,

nell’“era delle migrazioni” il riferimento alla storia non sembra più sufficiente a esaurire il

fabbisogno di legittimazione, e non solo perché le evidenze empiriche non si lasciano facilmente

convertire in argomenti normativi. Dovremmo forse accettare la comunità in cui viviamo soltanto

perché la lotteria della nascita ha deciso così?34

E cosa ci impedisce di pensare che i confini che

delimitano attualmente un popolo dagli altri privilegino alcuni a scapito di altri? Non si ha allora il

diritto, proprio in quanto individui liberi e uguali, di interrogarsi sulla loro legittimità? E questo

tanto più se si condivide l’idea che i confini dell’appartenenza politica non siano un semplice dato

di fatto, ma una realtà per certi aspetti arbitraria e casuale. Ora, come considerare prospettive così

divergenti riguardo alla costituzione del demos? Per affrontare il problema è opportuno gettare uno

sguardo più ravvicinato ai principi teorici che stanno alla base della richiesta di legittimazione.

Potrà così emergere che il problema della costituzione del popolo, che molti teorici democratici

33

J. Habermas, Tempo di passaggi, cit., p. 93. Cfr. anche Id., “Perché l’Europa ha bisogno di una

Costituzione?”, in Tempo di passaggi, cit., pp. 70-71.

34 A. Shachar, The Birthright Lottery: Citizenship and Global Inequality, Cambridge, Mass., Harvard University

Press, 2009.

8

considerano insolubile e che li spinge ad arrendersi alla logica violenta e casuale della storia, è parte

integrante della teoria stessa della legittimazione.

2. Nella sua versione canonica, la teoria risale alla tradizione del contratto sociale. La società è un

artefatto umano e deve rispondere a una esigenza di legittimazione. Nell’autorappresentazione

pattizia della modernità proposta dal contrattualismo giusnaturalistico gli individui si mobilitano per

istituire un potere politico legittimo. Si tratta di un aspetto che vale la pena di sottolineare, perché

ciò significa che all’accordo virtuale cui si aderisce per legittimare le istituzioni dotate di potere

coercitivo non vi sono estranei che partecipino – e gli estranei non possono neppure stipulare un

contratto con un potere politico pre-esistente, dal momento che un popolo in grado di agire da

controparte non esiste ancora. Il potere politico può essere istituito solo dagli stessi individui che si

impegnano nel contratto. Come afferma Rousseau, “solo a coloro che si associano spetta di stabilire

le condizioni della società”.35

Ora, in questa prospettiva traspare la possibilità che la dinamica associativa destinata a concludersi

con la costituzione della società possa essere avviata per dare risposta non a uno, ma a due differenti

modelli di legittimazione: il primo per affrontare la costituzione del demos, l’altro per rispondere

alla costituzione del potere legittimo razionale. Se il modello associato al potere è stato al centro

della moderna tradizione del consenso, il modello associato al demos è rimasto sostanzialmente

invisibile all’indagine teorica, perché è stato occultato dall’ipotesi del demos quale datità

precostituita. Ma è anche possibile intravedere come ciascun modello comporti una tensione

fondamentale al proprio interno, senza la quale non potrebbe sorgere alcuna pretesa di legittimità.

Nella versione più familiare, quella che fa riferimento al potere politico, è prassi comune

distinguere fra tre diversi momenti: la postulazione dello stato di natura, i criteri del potere politico

legittimo e la forma di governo corrispondente a questi criteri. La nostra attenzione si concentrerà

sul secondo momento o, più precisamente, sul passaggio dal carattere illimitato dello stato di natura

alla costituzione del potere politico. A quali condizioni gli individui sarebbero disposti a

riconoscere legittimità al potere politico? Ovvero: in che modo, a partire da una moltitudine di

volontà libere ed eguali e quindi reciprocamente conflittuali, è possibile istituire un potere politico

legittimo?

Questa domanda dà luogo al modello di legittimità che si applica alla costituzione del potere

politico. La tesi è che se si vuole che il potere sia legittimo, l’autorità politica deve essere al di sopra

dei cittadini e identica ai cittadini nello stesso tempo. Da un lato il disaccordo verosimilmente

endemico tra gli individui richiede che vi sia al di sopra delle loro teste un’autorità forte e neutrale,

in grado di risolvere le controversie e di intervenire nei conflitti senza prendervi parte, oppure la sua

legittimità ne sarebbe compromessa. Dall’altro non si può ricorrere a una autorità qualsiasi: se gli

individui decidono di instaurare un potere comune, la sua autorità non può essere separata dagli

35

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, cit., p. 55.

9

individui vi sono soggetti. Deve essere identica agli individui che si sono contrattualmente

impegnati, altrimenti ne minerebbe la libertà e l’eguaglianza. Stando così le cose, la costituzione di

un potere politico legittimo si presenta come un’impresa sostanzialmente irrealizzabile. “Ci

vorrebbero” infatti, come osserva Rousseau, “degli dèi per dare delle leggi agli uomini”.36

Non a

caso il pensiero politico conservatore ha ritenuto che questa fosse una buona ragione per rinunciare

a ogni criterio di legittimazione. Non si tratta, ovviamente, di una conclusione obbligata, a

condizione però di riconoscere che la legittimità non può che dipendere da questo rapporto di

tensione, poiché senza l’esistenza di un’autorità politica che si innalza al sopra dei cittadini, ma che

al contempo non è da essi separati poiché rappresenta l’espressione istituzionalizzata della loro

volontà, non sarebbe possibile alcun potere politico legittimo.

Nel Leviatano, per fare riferimento a un modello autorevole, Hobbes si propone di dimostrare che la

creazione del Commonwealth risolve ogni potenziale elemento di tensione. Egli cerca di dimostrare

che, sebbene la persona artificiale del Leviatano possiede una autorità assoluta nei confronti dei

propri sudditi, continua a rimanere tutt’uno con essi. La ragione è che tutti gli individui “designano

un uomo o un’assemblea di uomini a sostenere la parte della loro persona”,37

per cui, anche se il

Leviatano si colloca al sopra dei singoli contraenti, non ne compromette la libertà e l’eguaglianza.

Gli individui sono essi stessi gli autori di tutto ciò che il Leviatano decide o impone. Egli è

“un’unità reale di tutti loro in una sola e medesima persona fatta con il patto di ogni uomo con ogni

altro”. 38

Nell’obbedire al Leviatano, sostiene Hobbes, gli individui non obbediscono che alla loro

stessa volontà.

Questa interpretazione della legittimità non è certo rimasta incontrastata. Sostenendo che gli

individui designano una persona a rappresentarli tutti, Hobbes sposta il Leviatano al di fuori dello

spazio politico creato dal contratto tra gli individui. Secondo Locke, non si può invece esonerare

una persona dal contratto sociale poiché ciò significa lasciarla in quello stesso stato di natura nel

quale si trova, e chi avrebbe il coraggio di riporre la propria fiducia in qualcuno che rimane giudice

del suo stesso caso? Questa intuizione porta Locke a immaginare un diverso percorso nella

costituzione di un potere legittimo. Invece di designare “un uomo o un’assemblea di uomini a

sostenere la parte della loro persona”, Locke definisce il profilo di un potere politico che può essere

considerato legittimo anche quando non è basato sul consenso unanime, ma soltanto su quello della

maggioranza.39

Ma se nessuno può essere sottoposto al potere politico esercitato da un altro senza il suo consenso, a

quale titolo la maggioranza può essere autorizzata a parlare a nome di tutti? “Il grande problema

della politica”, scrive Rousseau nella famosa lettera del 26 luglio 1767 al Marchese di Mirabeau, è

“trovare una forma di governo che ponga la legge al di sopra dell’uomo”. Diversamente dai suoi

predecessori, egli però rifiuta di trasferire l’autorità nelle mani di un rappresentante o di una

36

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, cit., p. 57.

37 Th. Hobbes, Leviatano (1652), Firenze, La Nuova Italia, 1976, p. 167.

38 Ibid.

39 J. Locke, Il secondo trattato sul governo (1690), Milano, Rizzoli, 1998, p. 191 (§ 97).

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maggioranza, poiché ciò sarebbe in contrasto con la sua ipotesi, secondo la quale chiunque entri in

società debba rimanere “libero come prima”. Allo stesso tempo, Rousseau non è disponibile a

rendere l’autorità coincidente con gli individui stessi. In che modo, infatti, “una moltitudine cieca,

spesso ignara di ciò che vuole, perché di rado sa cosa le giova, potrà attuare da sé un’impresa tanto

grande e difficile come un sistema di legislazione?”40

La sua risposta è che occorra distinguere tra la

volontà di tutti e la volontà generale. Perché mentre la prima può sbagliare, cadendo in balia dei

propri interessi egoistici, la volontà generale non sbaglia mai. Essa “è sempre retta e tende sempre

all'utilità pubblica.41

Ciò che Hobbes, Locke e Rousseau hanno in comune è che essi cercano di trovare uno strumento –

la persona rappresentativa del Leviatano, il principio della regola di maggioranza e la volontà

generale – tramite il quale rendere l’autorità politica superiore e identica al tempo stesso agli

individui contraenti. Ovviamente, non sono qui in discussione i vantaggi e gli svantaggi delle

rispettive proposte. A interessare in questa sede è piuttosto il fatto nessuna sembra in grado di far

quadrare il cerchio dell’autorità legittima. Il campo di tensione presente nella costituzione del potere

politico lascia trasparire il fatto che la ricerca del consenso non è meramente ipotetica (qualcosa su

cui dovremmo essere d’accordo) o reale (qualcosa su cui siamo d’accordo), ma dispone altresì di

una forza produttiva e creativa. In ogni caso, suggerisce l’esigenza di cercare nuove risposte alla

domanda relativa a ciò che costituisce un potere legittimo, e in questo modo rende la costituzione di

“noi, il popolo” un processo molto più fluido, dinamico e contestabile.

Eppure, se i criteri associati al modello del potere politico rispondono all’esigenza di definire che

cosa sia un’autorità legittima, sembrano invece di scarso aiuto nella definizione di che cosa sia un

demos legittimo. Quando si discute di questioni controverse come le migrazioni,

l’autodeterminazione nazionale o il principio della pertinenza degli interessi occorre sapere qual è il

popolo legittimo di cui si sta parlando.42

Non si tratta solo di prendere in considerazione le forme o i

processi che portano gli individui a dare avvio alla costituzione del potere politico, ma anche alla

stessa costituzione del demos. Quali sono le persone che, in accordo l’una con l’altra, decidono di

procedere alla creazione di un’autorità politica legittima? Perché questa “moltitudine” di individui e

non un’altra?

È interessante osservare che, sebbene sia Hobbes sia Locke provvedano a indicare quali siano le

ragioni che spingono le persone che vivono nello stato di natura ad associarsi, né l’uno né l’altro si

preoccupa di sottoporre l’unità che ne deriva a una domanda di legittimazione. Per questo Hobbes

può passare direttamente dallo stato di natura, che non conosce confini, all’idea di una particolare

moltitudine senza preoccuparsi più di tanto della delimitazione di una moltitudine da un’altra. La

40

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, cit., p. 55.

41 Ivi, p. 39.

42 Cfr., tra gli altri, D. Held, “Democratic Accountability and Political Effectiveness from a Cosmopolitan

Perspective,” in D. Held e M. Koenig-Archibugi (a cura di), Global Governance and Public Accountability, Oxford,

Blackwell, 2005, pp. 249-50; N. Fraser, “Reframing Justice in a Globalizing World,” New Left Review, 36, 2005, pp.

69-88, e R. Goodin, “Enfranchising All Affected Interests, and Its Alternatives,” Philosophy and Public Affairs, 1,

2007, pp. 40-468.

11

sua prima preoccupazione è di mostrare come una moltitudine di individui liberi e uguali può

autorizzare il Leviatano a “sostenere la parte della loro persona”. Chi costituisce legittimamente la

moltitudine non rientra nella sua indagine, poiché la sua composizione viene considerata come

qualcosa che dipende da altri fattori. Come afferma Hobbes, “la moltitudine sufficiente in cui

confidare per la nostra sicurezza” non è determinato dal consenso, ma “dal paragone con il nemico

che temiamo”.43

Si tratta di una tesi ripresa da Schmitt, il quale tende a rendere l’identità del popolo

(noi) dipendente dal potere del nemico (loro).44

Lo stesso vale per Locke, anche se la sua interpretazione è diversa da quella di Hobbes. La

composizione degli individui che si accordano mutuamente i diritti in uno stato di natura privo di

confini non viene derivata dal nemico che temiamo, ma dal dato di fatto del contratto stesso.

Secondo Locke, l’associarsi che dà origine a una comunità “può essere fatto da un gruppo di uomini

poiché non viola la libertà di tutti gli altri, i quali sono lasciati tali e quali nella libertà dello stato di

natura”.45

Il disinteresse di Hobbes e Locke per la questione della legittimità del popolo è largamente

comprensibile, dal momento che all’epoca si trattava di sostituire il potere arbitrario e

incontrollabile dei re con un governo basato sul consenso. La rivoluzione spaziale in corso nell’età

globale comporta invece il superamento dei confinamenti sovrani dell’autorità nello spazio chiuso

degli Stati-nazione, per cui la tesi che gli individui possano creare una nuova comunità senza

incidere sulla “libertà di tutti gli altri” è, a dir poco, irrealistica. Le sfide a cui la teoria politica deve

oggi rispondere sono ben diverse da quelle con le quali si misuravano Hobbes e Locke. A essere in

questione non è la legittimità del governo, ma del popolo stesso. Ciò nonostante, il linguaggio della

legittimazione è rimasto sostanzialmente immutato. Proprio come i loro predecessori, gran parte dei

teorici democratici ritiene inutile, superflua o impraticabile ogni richiesta di legittimazione rivolta al

demos. Ma è proprio così scontato che la legittimità sia un principio normativo predeterminato in

funzione del solo potere politico?

Se si affronta la questione in questa prospettiva si può cominciare a intravedere un modello di

legittimità che nella moderna tradizione del consenso è spesso rimasto in ombra e che potrebbe

gettare una diversa luce sul problema individuato da Rousseau. Si tratta, in buona sostanza, di

applicare al demos il modello di legittimità tradizionalmente applicato al kratos. Lo schema di

legittimazione rimane immutato: a mutare è l’oggetto cui si applica. La tesi è che, affinché il popolo

sia legittimo, l’autorità politica deve essere, nello stesso tempo, preesistente e simultanea ai

cittadini. Da una parte, il disaccordo sulla costituzione appropriata del popolo richiede un’autorità

che preesista ai cittadini stessi. Al fine di evitare rivendicazioni conflittuali sull’interpretazione del

popolo, è necessario che l’autorità sia potente e indipendente abbastanza da indurre una pluralità di

individui a unirsi e a costituire un popolo comune. D’altra parte, questa autorità non può preesistere

agli individui che si uniscono per costituire il popolo. Per essere legittima, deve essere simultanea ai

43

Th. Hobbes, Leviatano, cit. p. 164.

44 Cfr. Ch. Mouffe, The Return of the Political, cit., e, per una diversa prospettiva, J. Derrida, Politiche

dell’amicizia (1994), Milano, Raffaello Cortina, 1995.

45 J. Locke, Il secondo tratato sul governo, cit., p. 189 (§ 95).

12

cittadini stessi. Tutti gli individui devono essere d’accordo – ciascuno con ogni altro – per costituire

un popolo comune. Se non hanno avuto modo di esplicitare il loro consenso, non sono più liberi ed

eguali, e vanno assimilati a un demos che non abbia riconosciuto legittimità alla propria

costituzione.

Questa prospettiva riarticola la questione della legittimità in due diversi modi. In primo luogo sfida

l’idea canonica del popolo quale comunità politica territorialmente delimitata e quale fonte di

legittimazione. Non è possibile definire preventivamente i confini di chi rientra nel demos

organizzato in forma statale e procedere successivamente a ridefinirne le forme di appartenenza in

chiave democratica. È invece l’autodefinizione e la composizione del demos a dover soddisfare gli

oneri della legittimazione. Inoltre, e di conseguenza, sfida anche l’interpretazione storica del

concetto di popolo. Tra i teorici contemporanei prevale la tendenza a considerare il demos come una

sorta di datità della quale si tratta semplicemente di prendere atto. Se si concepisce il popolo in

questo modo, è inevitabile che prima o poi ci si debba misurare con il vuoto di legittimità che si

apre tra gli individui che hanno originariamente costituito il popolo e coloro ai quali è

successivamente capitato di farne parte. La ragione è che la costituzione del popolo muta ogni

qualvolta la nascita di un essere umano interrompe la catena di avvenimenti introducendo un nuovo

inizio nel mondo, oppure qualcuno viene a mancare.46

E muta, inoltre, per effetto delle migrazioni.

Così, anche se si può dare per scontato che la generazione che costituisce il popolo ne faccia parte

volontariamente, non si può dire lo stesso anche per le generazioni successive. Esse appartengono a

un demos senza avere dato il loro consenso. I teorici politici hanno cercato di disfarsi di questo

problema in modi diversi. Secondo Rawls e Habermas, per esempio, si tratta unicamente di mettersi

al passo ex post con il momento costituzionale per attualizzarlo e modificarlo in base alle

circostanze del momento.

Se però si accettano i criteri cui si è accennato, i termini del problema mutano. Il campo di tensione

nella costituzione di un popolo legittimo non può essere colmato con il semplice scorrere del tempo,

né si può sostenere che, a tempo debito, il popolo potrà sempre recuperare se stesso. Perché, a

differenza di quanto accade con il campo di tensione che può aprirsi tra le diverse generazioni, il

campo di tensione che opera nella costituzione di un popolo legittimo non viene risolto dal fatto che

la generazione successiva cui spetterà il compito inevitabile di ri-costituire il popolo deciderà per se

stessa. Risiede nell’atto stesso dell’autocostituzione. Il punto è che se gli individui trovano modo di

dare concordemente avvio alla costituzione del popolo, l’autorità che costituisce il popolo deve

essere sia antecedente ai cittadini sia loro contemporanea. È per questo che la fondazione di un

popolo legittimo è un evento ricorrente, e non solo perché, grazie alla natalità, i nuovi venuti

vengono al mondo come (se fossero) stranieri oppure perché sono migranti. È piuttosto perché gli

esseri umani si ritengono liberi ed eguali che la costituzione della popolo ha forza produttiva.

L’uomo è nato libero, ma ovunque è in catene, scriveva Rousseau, ed è questo, potremmo

aggiungere, a spingerlo a superare i confini che delimitano un demos a cui non appartiene.

46

“Natalità” è il termine scelto da Hannah Arendt per indicare quell’aspetto della condizione umana grazie al

quale siamo capaci di introdurre il nuovo, ossia di agire, o meglio ancora di agire in modo differente da quanto previsto.

Cfr. H. Arendt, Vita activa. La condizione umana (1958), Milano, Bompiani, p. 164. Si veda anche Ead., “La

disobbedienza civile”, in Politica e menzogna, Milano, Sugarco, 1985, pp. 142-143.

13

3. La principale conseguenza della strategia che fissa una netta linea di demarcazione tra storia e

legittimità è che il campo di tensione nella costituzione del popolo finisce per apparire come una

sorta di punto cieco. E ciò ridà ironicamente fiato alla critica che i pensatori conservatori avevano a

suo tempo sollevato contro l’idea stessa di governo legittimo. È possibile illustrare questo aspetto

paradossale attraverso un confronto con le obiezioni rivolte dal pensiero conservatore alla sola

possibilità di sottoporre il potere politico all’onere della legittimità. L’idea che il potere politico

debba poggiare sul consenso dei governati suona oggi banale, ma in passato i difensori del potere

regio hanno fatto del loro meglio per confutarla, teorizzandone sia l’impossibilità pratica sia

l’impossibilità concettuale.

Le critiche di stampo conservatore presentano aspetti che non si ritrovano nei filosofi politici

contemporanei, nessuno dei quali mette in dubbio l’idea che gli ordinamenti in cui l’organizzazione

del potere passa attraverso lo Stato abbiano sempre bisogno di essere legittimati. Ma ciò che vale

per il kratos non vale per il demos. In questo caso, molti teorici democratici finiscono per assumere

la stessa posizione intransigente adottata dai conservatori nei confronti del governo. Come in

passato ci si aspettava che il trasferimento di sovranità dal re al popolo minasse la stabilità sociale,

così oggi si è riluttanti a sottoporre anche il popolo a una analoga richiesta di legittimazione.

L’ipotesi è che se gli individui fossero egualmente liberi rispetto alle delimitazioni confinarie che

dividono i popoli l’uno dall’altro, ciò metterebbe in moto un flusso migratorio incontrollabile e tale

da minare la stabilità anche delle democrazie più consolidate. Inoltre, l’idea di popolo legittimo

viene respinta per ragioni logiche. La tesi è che, poiché il popolo non può decidere da sé della

propria composizione – ciò comporta un ragionamento circolare – la nozione di popolo “legittimo”

è concettualmente insolubile.

In effetti, la riluttanza a concepire il popolo in termini di legittimità non è poi così incomprensibile.

Vi è, dopo tutto, una differenza essenziale tra le condizioni politiche che fanno da sfondo alle

riserve degli uni (nei confronti della legittimità del demos) e alle critiche degli altri (nei confronti

della legittimità del kratos). La richiesta di legittimità rivolta all’ordinamento del potere politico si

misurava con la realtà del governo monarchico e intendeva promuovere istanze profonde di

rinnovamento, in quanto richiedeva il consenso degli individui al governo della società. Oggi la

situazione è diversa, poiché in democrazia ognuno può (virtualmente) considerare se stesso come il

co-autore delle leggi di cui è il destinatario. Detto in estrema sintesi: se i conservatori di ieri

rifiutavano l’idea di governo legittimo allo scopo di difendere la monarchia, i teorici odierni

respingono l’idea di popolo legittimo allo scopo di difendere la democrazia. Un popolo democratico

deve potersi costituire come sovrano su un territorio delimitato da confini politici, dal momento che

la rappresentanza deve essere responsabile nei confronti di un demos specifico.

E tuttavia, sottoporre il demos all’onere della legittimazione non sembra affatto mettere in

discussione la democrazia: evidenziare il paradosso che impedisce al popolo la possibilità di

attribuire a se stesso la legittimità indispensabile per qualificarsi come tale significa piuttosto

valorizzarne il significato democratico. Un popolo pienamente legittimo è in effetti un telos da

raggiungere piuttosto che una realtà precostituita, e proprio in ciò risiede la sua energia politica:

mentre il popolo quale realtà istituita è un’entità omogenea nella quale sono assenti le differenze

14

sociali, culturali e di genere, nel popolo quale realtà in via di costituzione sono proprio le differenze

ad assicurarne la vitalità e il dinamismo. Il “popolo” non è una realtà ontologicamente precostituita:

il “popolo” è piuttosto un “universale vuoto” che viene occupato e risignificato nella lotta per

l’egemonia tra i diversi “populismi”.47

Se questo punto di vista è abbastanza scontato nel caso del

governo, è invece estremamente controverso nel caso del popolo. Assumendo la strategia della linea

di demarcazione tra storia e legittimità, i teorici democratici considerano il paradosso implicito nella

costituzione del popolo come un aspetto estraneo alla teoria e alla pratica della democrazia, e

sostituiscono la legittimità democratica con la legittimazione storica. La differenza non è banale.

Infatti, mentre il paradosso della costituzione del popolo può essere, come scrive Laclau,

risignificato nella lotta per l’egemonia tra i diversi “populismi”, la resa alla legittimazione storica

serve a escludere la natura contingente, produttiva e soprattutto politica, ovvero “antagonistica”, del

popolo. Oltretutto, un’idea di popolo resa subalterna alla forze arbitrarie della storia appare

problematica per almeno due motivi.

Per cominciare, ha significative implicazioni sul modo di interpretare le sfide che la globalizzazione

impone alla democrazia. Vi è oggi scarso consenso riguardo a quale sia la costituzione del popolo

più adeguata. Il popolo va pensato su scala locale, nazionale, regionale o cosmopolita? Ignorare la

legittimità democratica nella costituzione del popolo porta a ritenere che la sola scelta da compiere

consista nel lasciare che la storia segua il suo corso – ponendo fine al conflitto con la forza, il potere

o la violenza – cosicché la domanda di legittimità “possa essere sollevata là dove la storia si

conclude”.48

Ma quando si può stabilire che la storia si è conclusa e che la costituzione storica del

popolo si è finalmente realizzata? Il problema non è di porre fine alla controversia sulla costituzione

del demos, il che è semplicemente impossibile, ma di trovare un meccanismo democratico adeguato

attraverso il quale promuovere quella intrinseca apertura al futuro che dovrebbe caratterizzare, oltre

che gli Stati, anche i demoi democratici.

Ora, è verosimile che la maggior parte dei teorici discussi in queste pagine non avrebbe particolari

obiezioni in proposito, né sul fatto che rendere il concetto di demos permeabile alle contingenze

della storia equivalga ad aprirlo al futuro. Oltretutto, sostenere che il popolo è il risultato delle forze

storiche – di un accordo che risale al passato, di un processo “retroattivo” di legittimazione oppure

di “iterazioni democratiche” – rende possibile liberare la democrazia dal suo rapporto sinora

esclusivo con lo Stato-nazione e favorire un’idea di democrazia quale processo di

democratizzazione, perpetuamente in corso e necessariamente inconcluso. Ci si potrebbe perciò

chiedere: qual è in realtà la differenza tra legittimità democratica e legittimazione storica? Le due

prospettive non finiscono in fondo per dire la stessa cosa, che la democrazia è un progetto

incompiuto? E questo ci porta al secondo problema, ossia alla presunta fattualità della contingenza

storica e al ruolo che rischia giocare nel dibattito in corso sulla democrazia.

47

E. Laclau, “La struttura, la storia, il politico”, in J. Butler, E. Laclau e S. Žižek, Dialoghi sulla Sinistra.

Contingenza, egemonia, universalità, a cura e con una Prefazione all’edizione italiana di L. Bazzicalupo, Roma-Bari,

Laterza 2010, p. 209.

48 R. Dahl, After the Revolution, cit., p. 62.

15

Secondo la maggior parte dei teorici democratici, la costituzione del popolo non può che essere

subordinata alla storia. Ma questo argomento è esso stesso contingente riguardo al principio di

legittimità. È sufficiente richiamarsi alla ratio che sostiene la necessità di imporre una netta linea di

demarcazione tra storia e legittimità per illustrarlo. La tesi – ricordata più volte – è che, siccome il

popolo non può decidere della propria composizione, non può essere esso stesso parte di una teoria

della legittimità. La sua composizione deve essere determinata da altri fattori, come le forze

arbitrarie della storia. L’appello alla storia è subordinato all’ordine di legittimità cui cerca di

sottrarsi. O, per dirla con altre parole, non è nonostante, ma è proprio perché mantengono i

presupposti normativi del consenso che questi teorici sottomettono la costituzione del popolo alle

forze arbitrarie della storia. Il fatto di tracciare la linea di demarcazione non può perciò essere

considerato come una registrazione neutrale di un fatto storico. È parte esso stesso della

contestazione democratica implicata nella costituzione del popolo.

Questa intuizione getta una nuova luce sulla tesi sostenuta dai teorici democratici. Se il demos non è

un’entità definita e autosufficiente ma un processo controverso e dinamico e quindi la costituzione

di “noi, il popolo” rientra nell’ambito delle realtà politiche da sottoporre all’onere della

legittimazione, che cosa significa demandare la costituzione del popolo alle vicende contingenti

della storia? Sostanzialmente, a ostacolare l’accesso di nuovi soggetti alla sua costituzione e a

rendere complicato e difficile il loro accesso all’area della cittadinanza. I fenomeni migratori

possono così essere considerati quali aspetti marginali nella vita dei popoli e nella valutazione della

natura delle società liberaldemocratiche, e possono essere giudicati nella prospettiva dei criteri pre-

costituiti dell’appartenenza politica. Se invece si sposta l’attenzione dalla dimensione di

contingenza della storia alla dimensione di contingenza del demos, il popolo può diventare anche

l’oggetto, e non più soltanto la fonte della legittimità. Come la costituzione del potere politico,

anche la costituzione del popolo deve accollarsi l’onere di giustificare la propria legittimità. Questo

ci aiuta a comprendere un dato spesso trascurato: quando Walzer, Habermas e molti altri teorici

democratici rendono il popolo subordinato alla storia – riconoscendo così ai demoi esistenti il

privilegio di formulare i criteri dell’appartenenza politica –, non si limitano a prendere atto di un

fatto storico. Stanno altresì formulando una tesi normativa relativamente al presente – che però,

come ogni altra tesi normativa, può essere falsificata e fatta rientrare nell’ambito critico delle

possibili problematizzazioni.

Edoardo Greblo (1954) redattore di “aut aut” dal 1987, è stato docente a contratto presso le Facoltà

di lettere e filosofia, Scienze della formazione e Giurisprudenza. Oltre a diverse traduzioni e saggi,

ha pubblicato: A misura del mondo (2004), Democrazia (2000), La tradizione del futuro (1989). Ha

collaborato alla Enciclopedia del pensiero politico (a cura di R. Esposito e C. Galli, 2000) e al

Manuale di storia del pensiero politico (a cura di C. Galli, Bologna 2001). È inoltre coautore,

insieme a C. Galli e S. Mezzadra, di Il pensiero politico del Novecento (2005). Collabora con la

pagina culturale del quotidiano “Il Piccolo”.