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IL PARTITO D’ AZIONE E LA QUESTIONE ISTITUZIONALE (*) I Durante gli ultimi mesi della partecipazione Italiana alla guerra contro gli Alleati la latente resistenza antifascista, per quanto infor- me e nebulosa fosse stata in passato, si cristallizzò gradualmente in una coalizione di partiti, la quale, nel settembre del 1943, si pro- clamò Comitato di Liberazione Nazionale. I sei partiti costituenti tale Comitato erano, da destra a sinistra, il partito Liberale, il partito Democratico del Lavoro, il partito Democratico Cristiano, il partito d’Azione, il partito Socialista e il partito Comunista. I primi tre com- prendevano nelle proprie file sia monarchici che repubblicani, men- tre i partiti alla loro sinistra erano decisamente repubblicani. La controversia sulla posizione di Casa Savoia nella vita Italiana fu de- nominata Questione Istituzionale. Quanto segue riguarda l’interes- sante, sebbene piccolo, partito d’Azione, il suo ruolo nella disputa Istituzionale e le sue lotte interne. Non s’intende qui presentare un quadro ampio e generale della Questione Istituzionale in relazione alla politica degli altri partiti o del governo Alleato. Con l’estensione delle operazioni militari all’Italia meridionale nell’autunno del 1943, l’Alto Comando Alleato dovette prendere delle disposizioni politiche d’ordine pratico per poter meglio governare le zone liberate (1). Col trattare un armistizio aveva già riconosciuto il re Vittorio Emanuele III e il primo ministro maresciallo Pietro Ba- doglio come il legittimo governo dell’Italia. Fu deciso di mantenere le condizioni di armistizio sottoscritte dal rappresentante del re, ge- nerale Castellano (2), il 3 settembre 1943 e di continuare a ricono- scere quel governo, anziché tener conto della coalizione non ufficiale che sosteneva di parlare in nome del popolo Italiano. L’Italia sareb- be stata riconosciuta come cobelligerante nella guerra contro la Ger- (*) Dalla rivista « The Western Political Quarterly », Voi. VI, N. 2, giugno 1953, pp. 275-295. (Trad, del dott. Cesare Moscone). (1) DalTottobre del 1943 furono nelle mani degli Alleati la Campania, la Puglia, la Basilicata, la Calabria, la Sicilia e la Sardegna. (2) Le condizioni del « breve armistizio » possono leggersi in: U. S. De- partment of State, Armistice with Italy, 1943, « Treaties and Other International Acts », Series 1604, Washington, U. S. Government Printing Office, 1947 pp. 1-2.

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IL PARTITO D’ AZIONE E LA QUESTIONE ISTITUZIONALE (*)

I

Durante gli ultimi mesi della partecipazione Italiana alla guerra contro gli Alleati la latente resistenza antifascista, per quanto infor­me e nebulosa fosse stata in passato, si cristallizzò gradualmente in una coalizione di partiti, la quale, nel settembre del 1943, si pro­clamò Comitato di Liberazione Nazionale. I sei partiti costituenti tale Comitato erano, da destra a sinistra, il partito Liberale, il partito Democratico del Lavoro, il partito Democratico Cristiano, il partito d’Azione, il partito Socialista e il partito Comunista. I primi tre com­prendevano nelle proprie file sia monarchici che repubblicani, men­tre i partiti alla loro sinistra erano decisamente repubblicani. La controversia sulla posizione di Casa Savoia nella vita Italiana fu de­nominata Questione Istituzionale. Quanto segue riguarda l ’interes­sante, sebbene piccolo, partito d’Azione, il suo ruolo nella disputa Istituzionale e le sue lotte interne. Non s’intende qui presentare un quadro ampio e generale della Questione Istituzionale in relazione alla politica degli altri partiti o del governo Alleato.

Con l’estensione delle operazioni militari all’Italia meridionale nell’autunno del 1943, l ’Alto Comando Alleato dovette prendere delle disposizioni politiche d’ordine pratico per poter meglio governare le zone liberate (1). Col trattare un armistizio aveva già riconosciuto il re Vittorio Emanuele III e il primo ministro maresciallo Pietro Ba­doglio come il legittimo governo dell’Italia. Fu deciso di mantenere le condizioni di armistizio sottoscritte dal rappresentante del re, ge­nerale Castellano (2), il 3 settembre 1943 e di continuare a ricono­scere quel governo, anziché tener conto della coalizione non ufficiale che sosteneva di parlare in nome del popolo Italiano. L ’Italia sareb­be stata riconosciuta come cobelligerante nella guerra contro la Ger­

(*) Dalla rivista « The Western Political Quarterly », Voi. VI, N. 2, giugno 1953, pp. 275-295. (Trad, del dott. Cesare Moscone).

(1) DalTottobre del 1943 furono nelle mani degli Alleati la Campania, la Puglia, la Basilicata, la Calabria, la Sicilia e la Sardegna.

(2) Le condizioni del « breve armistizio » possono leggersi in: U. S. De­partment of State, Armistice with Italy, 1943, « Treaties and Other International Acts », Series 1604, Washington, U. S. Government Printing Office, 1947 pp. 1-2.

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mania; ma, su insistenza del presidente Roosevelt, dei rappresentanti dei partiti antifascisti Italiani avrebbero dovuto essere immessi nel governo del re. Inoltre gli Alleati insistettero che, al termine della guerra, il popolo Italiano potesse scegliere la forma di governo che desiderava (3). Queste richieste furono presentate a Malta, dove Ba­doglio si era recato per sottoscrivere le condizioni del « lungo armi­stizio » il 29 settembre 1943.

L'insistenza degli Alleati urtò contro ima duplice intransigenza. Il re era contrario albani missione degli esponenti antifascisti; egli aveva rifiutato di collaborare con i rappresentanti romani dei partiti prima della resa e della fuga nel sud (4). Sotto la pressione degli Al­leati, tuttavia, cedette con riluttanza e, contemporaneamente alla di­chiarazione di guerra alla Germania del 13 ottobre 1943, Badoglio annunziò che Vittorio Emanuele acconsentiva ad accettare nel suo governo i rappresentanti meridionali dei partiti (5). La dichiarazione relativa al futuro era però equivoca. Nella traduzione inglese si leg­geva: « La presente decisione non pregiudicherà in alcun modo l’im­prescindibile diritto del popolo Italiano di scegliere la propria forma di governo democratico quando sarà ristabilita la pace » (6). L ’ori­ginale di Badoglio, in italiano, non diceva che il popolo avrebbe po­tuto scegliere la propria forma di governo. Dichiarava che il popolo Italiano sarebbe stato libero di scegliere il proprio governo: «Finita la guerra, il popolo Italiano sarà libero di scegliere in elezioni il governo che più gli è gradito ». In italiano la parola « governo » è usata come sinonimo della parola « ministero ». La dichiarazione di Badoglio poteva indicare semplicemente che il popolo, attraverso il parlamento, avrebbe potuto scegliere il ministero, tanto un ministero De Gasperi quanto un ministero Togliatti, sempre nell’ambito della forma monarchica. Non si trattava necessariamente di una scelta tra monarchia e repubblica. Inoltre era un impegno preso dal mare­sciallo Badoglio, non dal re. Badoglio avrebbe potuto dare le dimis­sioni o essere revocato. Il re non sarebbe stato legato dall’impegno di un precedente primo ministro.

Era importante che quest’ultimo problema fosse chiarito. Il re battè in ritirata e il 21 ottobre scrisse al generale MacFarlane della Missione Militare Alleata una lettera contenente i seguenti impegni:

(3) Le condizioni degli Alleati sono riportate in: Pietro Badoglio, L ’Italia nella seconda guerra mondiale, Milano, Migliaresi, 1946, p. 134.

(4) Ivanoe Bonomi, Diario di un anno, Milano, Garzanti, 1947. All’annunzio dell’armistizio, 1 8 settembre 1943, i Tedeschi occuparono Roma. Il re, Badoglio e i ministri militari fuggirono nel sud verso le linee degli Alleati, lasciando l’e- sercito Italiano senza ordini, i ministri civili senza notizie e i dirigenti dei par­titi antifascisti in trappola dietro le linee Tedesche.

(5) Testo in: U. S. Department of State, « Bulletin », 16 ottobre 1943, p. 254.(6) Ivi.

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1) L ’attuale ministero [di tecnici] rimarrà in carica fino a che il governo Italiano rientrerà nella capitale. [Non ostante la dichiarazione di Badoglio, il re era ancora contrario all’al­largamento del ministero per includervi dei rappresentanti dei partiti politici],

2) Non appena Roma sarà liberata dai Tedeschi, il ministero sarà costituito su una base larga, comprendente tutti i partiti, e non includerà uomini comunque compromessi con il fa­scismo.

3) Entro quattro mesi dalla pace sarà eletta una camera di deputati.

4) Il parlamento potrà liberamente discutere le istituzioni e ri­formarle integralmente. [In sostanza il parlamento avrebbe potuto comportarsi come un’assemblea costituente].

5) Il paese, liberamente consultato, sarà arbitro dei propri destini.

6) La corona seguirà fedelmente il volere del paese, manifestato dai rappresentanti della nazione liberamente eletti (7).

I dirigenti antifascisti di Napoli, dopo essersi inizialmente di­chiarati pronti ad entrare nel governo del re, mutarono parere, sotto la spinta di uomini come Benedetto Croce e il conte Carlo Sforza (8). Guidati da Sforza, proposero un’altra soluzione: Vittorio Emanuele avrebbe abdicato. L ’erede del trono, Umberto principe di Piemonte, avrebbe rinunziato alla successione lasciando che diventasse re suo figlio, il seienne principe di Napoli, sotto la reggenza di Badoglio. La reggenza sarebbe durata fino a che i Tedeschi fossero cacciati dal­l’Italia; il popolo avrebbe allora deciso se l ’Italia dovesse divenire una repubblica o continuare ad essere un regno. Con la costituzione della reggenza il Comitato di Liberazione Nazionale sarebbe stato disposto a formare un governo (9). Tale soluzione rappresentava un compromesso tra i monarchici, come Croce, che speravano di sal­vare la monarchia, e i repubblicani i quali speravano che la reggen­za, la cui esistenza avrebbe costituito un’ammissione di colpevolezza

(7) La lettera fu resa pubblica nel marzo del 1944 da Vito Reale, allora mi­nistro degli interni. Fu ristampata dal giornale « Il Corriere », Salerno, del 28 marzo 1944.

(8) L’accettazione del Comitato di Liberazione Nazionale di Napoli di en­trare nel governo fu resa pubblica il 19 ottobre 1943. Testo in: « Il Risorgimen­to », Napoli, del 20 ottobre 1943. Il 31 ottobre 1943 il Comitato informò Badoglio che non sarebbe entrato nel ministero: Agostino degli Espinosa, Il regno del sud, Roma, Migliaresi, 1946, pp. 173^74.

(9) Vedi l ’annunzio di Badoglio in data 13 novembre 1943. Testo in: « New York Times » del 15 novembre 1943.

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da parte del re, avrebbe screditato e indebolito l’istituto monarchico.Qtiesto voltafaccia da parte degli antifascisti Napoletani non era

così irragionevole come potrebbe sembrare. Tutti i partiti, sia mo­narchici che repubblicani, giudicavano severamente Vittorio Ema­nuele e, in minor misura, Umberto. Il re veniva associato ai lunghi anni di dominazione fascista e alla rovina dell’Italia: lo si accusava di aver sopportato e appoggiato il regime di Mussolini. Diceva il mo­narchico Benedetto Croce: « ...fintanto che rimane a capo dello Sta­to la persona del presente re, noi sentiamo che il fascismo non è fini­to, che esso ci rimane attaccato addosso, che continua a corroderci e a infiacchirci, che risorgerà più o meno camuffato, e insomma che così non possiamo respirare e vivere » (10).

Inoltre, gli antifascisti intendevano porre una distinzione tra l’ordinamento fascista e il popolo Italiano, nella speranza di mode­rare la durezza di un futuro trattato di pace. Se a capo dello stato si fosse trovata una persona compromessa per molti anni con il regi­me sconfitto, la distinzione non sarebbe stata chiara. Diceva il conte Sforza: « ...l’eliminazione dei colpevoli supremi ci permetterà an­che di andare a fronte alta ai negoziati della pace... Se... noi potremo presentarci senza il peso morto di un passato orribile ai negoziati della pace, noi avremo, ve lo assicuro, delle forti possibilità di uscir­ne con onore » (11).

Un altro freno furono le notizie provenienti dal nord, dall’altra parte delle linee Tedesche. Dalla sua sede clandestina in Roma il Comitato di Liberazione Nazionale Centrale, di cui facevano parte i principali dirigenti dei partiti, venne a conoscenza dei negoziati del sud e inviò a Napoli una violenta protesta. Essa diceva che l ’unità nazionale non si sarebbe potuta raggiungere sotto la direzione del re e di Badoglio. Richiedeva la costituzione di un governo straordina­rio composto esclusivamente dei sei partiti, il quale avrebbe dovuto assumere tutti i poteri costituzionali dello stato, condurre la guerra a fianco delle Nazioni Unite e, alla conclusione delle ostilità, convo­care il popolo per decidere la forma istituzionale dello stato (12). Quantunque non richiedesse formalmente l’abdicazione del re, quella soluzione era maggiormente pericolosa per il sistema monarchico, perchè così si sarebbe spogliato il re, qualunque egli fosse, Vittorio Emanuele o il suo successore, delle sue prerogative reali.

Un ulteriore elemento fu l’ignoranza, da parte dei dirigenti del sud dei sei partiti, della lettera del re agli Alleati, la quale non di-

(10) Discorso tenuto a Bari il 28 gennaio 1944. Gli atti del Congresso di Bari, Bari, Edizioni Messaggerie Meridionali, 1944, p. 2'1.

(11) Ivi, p. 80.(12) Testo in: Bonomi, op. cit., pp,. 122-24.

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venne pubblica se non più tardi. Tutto ciò su cui essi dovevano con­tinuare a basarsi era l ’equivoca dichiarazione ufficiale di Badoglio a proposito di un governo per il dopoguerra.

Il re rifiutò di abdicare. I rappresentanti antifascisti, incerti quanto al futuro e adirati con ¡Vittorio Emanuele, rifiutarono di en­trare nel governo finché egli non avesse abdicato. Tutti si rendevano conto che la forma del regime provvisorio avrebbe grandemente in­fluenzato la decisione per la forma di governo definitiva. Questo vi­colo cieco diede origine alla questione istituzionale.

II

Dei sei gruppi antifascisti il più repubblicano, il più deciso a non collaborare con il re era il partito d’Azione. Le sue origini si riallacciano in parte al liberalismo europeo del secolo decimonono, in parte al repubblicanesimo mazziniano e in parte alle critiche alla dottrina socialista ortodossa, specialmente a quelle mosse da Gaetano Salvemini nel periodo prefascista. Il nome del partito derivò dal motto di Mazzini « pensiero e azione ». Il gruppo sorse dalla crisi seguita alla prima guerra mondiale che culminò nel fascismo, e in esso confluirono correnti derivanti dai vecchi movimenti Italiani li­berale, democratico e socialista. Influenza sulla sua formazione ebbe a quel tempo Gobetti, la cui opera « Rivoluzione Liberale » era una critica del liberalismo. Una funzione di guida esercitò su di esso il giovane pensatore e uomo d’azione italiano Carlo Rosselli, il quale era il prodotto da un lato del liberalismo idealista di Benedetto Cro­ce e dall’altro del socialismo riformista di Turati e Salvemini. Il li­bro di Rosselli « Socialismo Liberale » costituiva un attacco sia al liberalismo Italiano prefascista, sia al socialismo classico. Il consoli­darsi della dittatura costrinse Rosselli all’esilio e nel 1929, a Parigi, egli fondò il movimento cc Giustizia e Libertà » come centro di rac- colta per i fuorusciti antifascisti. Il periodico del movimento, « Qua­derni di Giustizia e Libertà », tentò di compiere una sintesi tra libe­ralismo e socialismo.

In Italia il movimento incominciò a prendere forma nel 1936, durante e dopo l’avventura etiopica. I professori Aldo Capitini e Guido Calogero, anch’essi studiosi del problema del liberalismo e del socialismo, non erano formalmente collegati con l’organizzazione all’estero, ma diffondevano le proprie idee tra gli amici. Fuori d’Ita­lia, il movimento « Giustizia e Libertà » si diede da fare perchè l’Ita­lia fosse condannata come aggressore dalla Società delle Nazioni. Du­rante la guerra civile Spagnola, Rosselli guidò una colonna cc Giusti­zia e Libertà » di fuorusciti italiani antifascisti, facente parte della Brigata Internazionale. Ritornato convalescente in Francia, fu assas­sinato il 9 giugno 1937 dai cagoulards francesi.

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Dopo che l’Italia fu entrata in guerra nel 1940, gli uomini del movimento d’Azione all’interno del paese si diedero a varie forme di sabotaggio. Nel luglio del 1942 in una riunione a Roma fu stabi­lito un programma in sette punti, intorno al quale potessero unifi­carsi le varie tendenze. Fu a quest’epoca che fu costituito ufficial­mente il « Movimento Italiano di Rinnovamento Politico e Sociale », immediato predecessore del partito d’Azione. Nel gennaio del 1943 apparve clandestinamente il primo numero del giornale del partito « L ’Italia Libera ». Un congresso svoltosi in segreto a Firenze tra il 5 e il 7 settembre 1943 diede vita all’organizzazione formale del par­tito, costituendo un comitato centrale e un comitato esecutivo cen­trale presieduto da Riccardo Bauer.

L ’importanza del partito d’Azione sta non nell’influenza eser­citata sulla politica concreta, perchè, essendo un partito d’intellet­tuali, non aveva masse su cui appoggiarsi. Il suo maggior numero di aderenti si trovava nell’Italia centrale e settentrionale, zone al di là delle linee tedesche. La sua importanza sta nel campo del pensiero, perchè esso fece un supremo sforzo intellettuale per superare il con­flitto dottrinario dell’Europa continentale tra « liberalismo » e « col­lettivismo », per far rivivere lo spirito vitale del liberalismo (non il vecchio stato liberale) in un nuovo corpo socialista.

Il partito d’Azione ripudiava i concetti dogmatici del Marxismo, quale il determinismo economico. Considerava le risorse economiche soltanto come strumenti di liberazione del popolo dalla schiavitù so­ciale, non come determinanti della storia. Respingeva la mentalità classista dei Marxisti, perchè concepiva quale meta dell’attività poli­tica non l ’eliminazione di tutte le classi tranne il proletariato, ma piuttosto l’impedire una cristallizzazione delle classi e l ’acquisto di privilegi da parte di qualunque classe. Negava la concezione dello stato come strumento di una classe dominante, destinato ad essere sostituito dalla temporanea dittatura del proletariato e finalmente a sparire. Negava che la libertà dovesse in definitiva dipendere dal­l’eliminazione dello stato.

Come si opponeva a una dittatura proletaria, così si opponeva a una dittatura borghese. Respingeva l’idea del predominio della classe media nel campo politico e la concezione liberale dell’Europa continentale dell’individuo in astratto e della libertà in astratto. Tendeva a uno stato democratico, progressivo, federalista e laico, in cui tutte le classi potessero avere fiducia e a cui tutte potessero offrire la propria fedeltà, perchè sarebbe stato il « loro » stato. Pro­clamava l’indistruttibile unità della libertà politica e della giustizia sociale.

Il suo programma economico concreto postulava la creazione di una economia a due settori, liberale e socialista. Si sarebbe dovuta

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avere la nazionalizzazione dei grandi complessi industriali, commer­ciali, finanziari e assicurativi, fianco a fianco con un settore econo­mico libero e basato sulla concorrenza, composto da piccole imprese, cooperative e individuali, sottoposte ai risebi e operanti secondo la propria iniziativa. La linea di divisione tra imprese controllate dallo stato e imprese libere avrebbe dovuto essere elastica e dipendere da condizioni particolari e considerazioni tecniche. Consigli di fabbrica con una rappresentanza dei lavoratori avrebbero dovuto partecipare alla direzione delle imprese in ambedue i settori dell’economia. La riforma agraria era essenziale; i latifondi avrebbero dovuto essere espropriati, senza indennità ai precedenti proprietari. Si sarebbe do­vuta promuovere, dove fosse tecnicamente possibile, la costituzione di cooperative agricole.

L ’elasticità nelle questioni economiche era accompagnata da un atteggiamento dogmatico riguardo- alle istituzioni politiche. Una vera democrazia era possibile soltanto se esistessero degli istituti parla­mentari liberamente eletti. La separazione della chiesa dallo stato era considerata essenziale; la politica e l ’ingerenza nell’istruzione primaria e secondaria dovevano essere sottratte al Vaticano e al clero. La monarchia doveva essere eliminata in base alle critiche di Mozzi­ni e a causa delle sue responsabilità nella vittoria del fascismo. Era necessario, inoltre, abbattere le classi e gli ambienti legati ad essa. L ’atteggiamento nei confronti della monarchia era di carattere mo­rale e ciò rendeva difficile un compromesso in materia (13).

Come suole avvenire fra intellettuali, all’interno del partito vi erano delle divisioni, perchè i membri non riuscivano a comporre le proprie differenze programmatiche. Alcuni restavano fondamental­mente liberali, altri fondamentalmente socialisti, sebbene non rigi­damente marxisti. Vi era anche disaccordo tra coloro che avrebbero preferito detronizzare Casa Savoia il giorno stesso della caduta di Mussolini e altri i quali, per ragioni tattiche e realistiche, erano di­sposti a collaborare con i monarchici per sbarazzarsi del fascismo e tirare avanti con un governo durante la guerra contro la Germania. Prima della resa, i dirigenti del partito d’Azione si erano lasciati per­suadere, con grande riluttanza, dagli altri partiti del Comitato di Liberazione Nazionale di Roma a un tentativo di collaborare con il re (14).

Nell’Italia liberata gli uomini più in vista del partito d’Azione erano gli ex-fuorusciti Alberto Cianca e Alberto Tarchiani (attuale

(13) Sulle basi e il programma del partito d’Azione vedi: Rodolfo Somma- ruga, Che cosa vogliono i partiti?, Roma, Editoriale Romana, 1944, pp. 127 e sgg.; Michele Dipiero, Storia crìtica dei partiti italiani, Roma, Azienda Editrice Internazionale, 1946, pp. 207 e sgg.

(14) Bonomi, op, cit., pp. 54-56.

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ambasciatore d’Italia a Washington). Fra coloro che erano rimasti in Italia occupavano posizioni importanti nel partito Vincenzo Calace, dirigente della zona di Bari, Adolfo Omodeo, rettore delFUniversità di Napoli e il principe Filippo Caracciolo. Il conte Sforza, quantun­que indipendente, aveva stretti legami con i principali esponenti del partito; Tarchiani, in particolare, agiva come consigliere ufficioso del conte. La proposta di una reggenza, come soluzione provvisoria della questione istituzionale, in un certo senso può dirsi un prodotto del partito d’Azione o di taluni elementi di esso. Si sperava che la monarchia sarebbe rimasta screditata da una condanna formale di Vittorio Emanuele e di Umberto per i loro passati legami con il fa­scismo. Le possibilità di una definitiva vittoria repubblicana sareb­bero così aumentate e al tempo stesso i monarchici sarebbero stati ostacolati nei tentativi di servirsi del governo per sostenere la propria causa. Altri elementi temevano che la reggenza potesse offrire alla monarchia nuove prospettive di sopravvivenza. Dagli Stati Uniti il professor Salvemini, specie di padrino spirituale del partito d’Azio­ne, accettava la reggenza, ma voleva un reggente civile e non Bado­glio, che appariva sommamente inopportuno (15). Alla fine il parti­to, nell’Italia meridionale, appoggiò la proposta di Sforza allorché divenne evidente che su di essa si sarebbe avuta l’acquiescenza degli altri partiti.

III

La situazione senza via d’uscita tra il re e i partiti si protrasse per il novembre e il dicembre del 1943. Alla fine di dicembre Enri­co De Nicola, un indipendente che era stato l’ultimo presidente della camera dei deputati prefascista, sottopose a Sforza e a Croce, capo dei liberali, un progetto di luogotenenza. De Nicola pensava che il re avrebbe potuto essere disposto a delegare permanentemente i suoi poteri a Umberto come luogotenente generale del regno e sperava che i dirigenti antifascisti si sarebbero sentiti pronti a entrare nel go­verno in tale situazione. Croce e Sforza, pur senza impegnarsi, auto­rizzarono De Nicola a comunicare questa soluzione al re. Al tempo stesso essi tennero nascosta la manovra ai loro alleati (16). In tal modo si sarebbe potuto togliere il potere al re senza che egli abdi­casse. Le concessioni di Croce e di Sforza costituirono la prima frat-

(15) Le vedute del professor Salvemini furono manifestate all’autore in con­versazioni personali.

(16) La luogotenenza aveva una tradizione in Italia. Lo stesso Vittorio Ema­nuele aveva nominato un luogotenente mentre era al fronte durante la prima guerra mondiale. Finora la luogotenenza era stata una cessione temporanea di potere. Il progetto di De Nicola prevedeva una cessione permanente. Vedi il diario di Croce, Quando l ’Italia era tagliata in due, Bari, Laterza, 1943,.pp. 51-54.

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tura nel fronte antifascista. Il re, tuttavia, respinse le proposte di De Nicola.

Qualche settimana più tardi, in un congresso antifascista a Bari, il partito d’Azione si unì ai Comunisti e ai Socialisti per richiedere la creazione di un governo straordinario dei sei partiti, che avesse pieni poteri, inclusi tutti i poteri reali, per amministrare l ’Italia del re, cioè la parte d’Italia non sottoposta al controllo dei Tedeschi o del Governo Militare Alleato (17). Il Partito d’Azione aveva' formu­lato questa proposta rivoluzionaria che avrebbe distrutto i poteri della corona, ma i partiti conservatori non furono assolutamente fa­vorevoli a una misura così drastica. Valendosi del principio dell’u­nanimità, vigente nel congresso, i partiti conservatori respinsero que­sta soluzione e fu approvata una mozione democristiana richiedente l’immediata abdicazione del re (18). Questa, presumibilmente, avreb­be dovuto essere fatta in favore del principe ereditario o del piccolo principe di Napoli. Allora i partiti sarebbero stati pronti a formare un governo sotto la corona, evitando così la soluzione rivoluzionaria implicita nella proposta dell’ala sinistra.

Fu creata una Giunta esecutiva, composta di un membro per ciascuno dei sei partiti, per giungere all’attuazione di questa deci­sione. A quel tempo la posizione del re era estremamente debole. Gli osservatori Alleati sul luogo stavano convincendosi che il gover­no reale non aveva alcun appoggio fra il popolo e che costituiva mi netto ostacolo al risanamento dell’economia (19). Il 16 febbraio 1944 i funzionari politici Alleati in Italia (Samuel Reber e Harold Caccia, appartenenti rispettivamente al Department of State degli Stati Uniti e al Foreign Office Britannico) fecero capire ufficiosamente a parecchi membri della Giunta che gli Alleati erano pronti ad accogliere dagli antifascisti un piano concreto con l’enunciazione delle loro condi­zioni e la definizione delle loro intenzioni (20). Calace, rappresen­tante del partito d’Azione, elaborò uno schema di proposta che fu accettato dagli altri membri della Giunta con modifiche di poco ri­lievo. La proposta, consegnata agli Alleati il 18 febbraio 1944, ri­chiedeva l’abdicazione del re Vittorio Emanuele III. Il nuovo re, Umberto II, doveva cedere immediatamente i suoi poteri ad una

(17) Testo in: Gli atti del Congresso di Bari, op. cit., p. 54. Questa delibe­razione era simile a una seconda deliberazione presa al di là delle linee Tedesche, a Roma, dal Comitato di Liberazione Nazionale Centrale, che era stata inviata al Congresso di Bari per mezzo di Italiani passati attraverso le linee. La delibe­razione Romana richiedeva il rovesciamento del re.

(18) Testo della deliberazione adottata: ivi, pp. 56-57.(19) U. S. Foreign Economie Administration, Reporl of thè FEA Survey Mis-

sion to Italy, rev. ed., 1° marzo 1944, pag. X (ciclostilato).(20) Comitato di Liberazione Nazionale, « Verbali della Giunta esecutiva »,

16 febbraio 1944 (dattiloscritti, citati d’ora innanzi come « Verbali »).

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luogotenenza collegiale composta di civili. I sei partiti antifascisti avrebbero allora formato un governo con pieni poteri fino alle ele­zioni generali da tenersi dopo che tutta l ’Italia fosse stata libera­ta (21). Il progetto fu approvato dalla Commissione di Controllo Al­leata in Italia e dal Quartier generale delle Forze Alleate ad Algeri. Fu quindi inviato ai capi di stato maggiore riuniti. Il governo Ame­ricano ne consigliò l ’immediata approvazione (22). Churchill invece lo respinse recisamente e cosi bloccò l’intera soluzione. In un di­scorso del 22 febbraio avanti il parlamento, egli diede l’assicurazione di un appoggio completo e cordiale al re e al maresciallo Bado­glio (23).

L ’appoggio di Churchill aveva fornito a Vittorio Emanuele una nuova prospettiva sulla vita politica. Il giorno prima, nell’appren- dere l’approvazione da parte del Quartier Generale Alleato del pro­getto della Giunta, aveva aderito alla vecchia proposta di De Nicola di nominare Umberto permanentemente Luogotenente Generale del regno. Ora sembrava che egli non tenesse conto di tale impegno (24). L’incidente giova a rivelare l ’incrinatura tra gli antifascisti. Mentre Calace stava redigendo ima domanda diretta all’abdicazione di Vit­torio Emanuele e alla creazione da parte di Umberto di una luogo- tenenza collegiale di civili, Sforza e Croce avevano già accettato il semplice conferimento della luogotenenza a Umberto e il manteni­mento di Vittorio Emanuele sul trono.

Il partito d’Azione continuò la lotta. Esso sollecitò la Giunta a passare all’azione diretta: invitare il popolo ad impadronirsi dei co­muni dell’Italia liberata, attribuire a ciascun comitato di Liberazio­ne locale la qualità di consiglio comunale. Se il governo Italiano si fosse opposto a questa azione, esso sollecitava il ricorso, se necessa­rio, alla forza popolare. Alle insistenze del rappresentante liberale, Arangio-Ruiz, di non abbandonare il piano della legalità, Calace ri­battè che le leggi erano leggi fasciste, a cui i partiti non erano tenuti ad obbedire. Gli antifascisti avevano non soltanto il diritto ma il dovere di sollevarsi contro tali leggi (25). Il partito d’Azione non riuscì nel suo intento, perchè i gruppi conservatori si opposero asso­lutamente a queste proposte. Invece fu deciso un plebiscito, da farsi esclusivamente nella provincia di Napoli, allo scopo di mostrare l’at-

(21) Ivi. 18 febbraio 1944, allegato III. \)n. d. r. Trattasi evidentemente della seduta del 17 febbraio, nonché delTall. I del suo verbale, come da p. 70 del n>s. fascicolo n. 28-29].

(22) Cordell Hull, The memoirs of Cordell Hull, New York, The Macmillan Co., 1948, voi. II, p. 1554.

(23) Hansard, Parliamentary Debates, 1943-44, 22 febbraio 1944, coll. 690-692.(24) Croce, op. oil., p. 114.(25) « Verbali », op. cit., 28 febbraio 1944.

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teggiamento popolare nei confronti del re. Quantunque fosse stato ottenuto il permesso degli Alleati (26), questo plebiscito non ebbe mai luogo, perché altri eventi mutarono i piani degli antifascisti italiani.

Il 13 marzo 1944 il governo Sovietico annunziò il proprio rico­noscimento del governo Italiano con il re e il maresciallo Badoalio. Il partito d’Azione propose alla Giunta d’inviare un telegramma di protesta al maresciallo Stalin. Gli Azionisti rimasero soli in questa proposta, perchè i Comunisti e i Socialisti (legati con i Comunisti da un patto di unione) si unirono all’opposizione. Fino a quel mo­mento questi due partiti dell’ala sinistra avevano vigorosamente ap­poggiato le proposte degli Azionisti. Ora gli intransigenti Azionisti sembravano isolati (27).

Alla fine di marzo Paimiro Togliatti, capo del partito Comuni­sta Italiano, ritornò da Mosca dopo anni di esilio. In una conferenza- stampa del Io aprile egli annunziò che i Comunisti non avevano nulla da obbiettare alla continuazione del regno di Vittorio Emanuele III fino a che la questione istituzionale non fosse decisa dal popolo dopo la guerra (28).

L ’unità dei sei partiti era ormai distrutta. In una riunione della Giunta del 3 aprile, Togliatti disse a Calace che gli Alleati non avreb­bero mai permesso un’azione diretta dietro le loro linee. I rappre­sentanti degli altri partiti furono d’accordo non ostante le proteste di Calace (29).

Tre giorni dopo il partito d’Azione fu costretto a capitolare al­lorché Togliatti consentì ad accettare la luogotenenza di Umberto. Calace si sottomise, muovendo obbiezioni, tuttavia, alla presenza di Badoglio in un nuovo governo antifascista. Ma Badoglio era forte­mente sostenuto dagli Inglesi (30). I partiti concordarono che il re dovesse ritirarsi a vita privata immediatamente (31). Nell’accettare la luogotenenza di Umberto, tuttavia, il partito d’Azione precisò che questo era un espediente d’emergenza, poiché soltanto una decisione di tutto il popolo Italiano dopo la guerra avrebbe potuto risolvere definitivamente la questione istituzionale.

Il 12 aprile V ittorio Emanuele annunziò di accettare il proprio

(26) Ivi.(27) « Verbali», 16-21 marzo 1944. Il telegramma respinto dice testualmente:

« Governo U.R.S.S. ha convenuto stabilire rapporti diretti, senza indugi, con Regio Governo Italiano, mentre la lotta del popolo contro neo-fascismo per ri­conquistare dignità e libertà è in pieno sviluppo. La Giunta Esecutiva riconferma condanna regime e uomini responsabili sciagure nostro paese e tragedia mondiale».

(28) « Il Risorgimento », 2 aprile 1944.(29) « Verbali », op. cit., 3 aprile 1944.(30) Croce, op. cit., p. 129.(31) « Verbali », op. cit., 6 aprile 1944.

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figlio Umberto come Luogotenente Generale del regno. Egli dichiarò, tuttavia, che il passaggio dei poteri non avrebbe avuto luogo fino a che gli Alleati non avessero conquistato Roma. Gli Azionisti esige­vano un passaggio immediato, ma gli altri partiti erano disposti ad accettare la promessa del re. Gli Azionisti fecero pressioni su Croce perchè accettasse la presidenza del Consiglio dei Ministri, ma il filo­sofo rifiutò insistendo che un ministero Badoglio era l ’unica solu­zione possibile.

Il 21 aprile fu evidente che gli altri partiti avrebbero formato un governo con o senza gli Azionisti. Quella sera fu convocata in fretta un’assemblea dal Centro-Meridionale (32). Con la maggioranza di un voto, dai presenti fu deciso di entrare nel governo. Tarchiani, Omo- deo e Caracciolo accettarono delle cariche nel nuovo ministero for­mato dal maresciallo Badoglio. Il giorno successivo giunse un ordine dal comitato esecutivo centrale del partito oltre le linee Tedesche a Roma, che proibiva ai rappresentanti meridionali di entrare nel mi­nistero. Era giunto troppo tardi.

IV

Il 5 giugno gli Alleati finalmente occuparono Roma. Il governo Americano costrinse Vittorio Emanuele a cedere i suoi poteri a Um­berto prima di rientrare nella capitale (33). Il ministero presentò le dimissioni al nuovo Luogotenente Generale, il quale affidò a Ba­doglio l ’incarico di formarne un altro. Quindi il maresciallo Bado­glio si recò a Roma, ma soltanto per scoprire che il Comitato di Li­berazione Nazionale Centrale (C.L.N.), composto dai principali di­rigenti dei sei partiti (ad eccezione di Togliatti), non avrebbe in al­cun modo collaborato con lui. Di sua propria iniziativa il comitato romano aveva creato un governo straordinario composto esclusiva- mente di dirigenti politici e aveva scelto il proprio presidente, Iva- noe Bonomi, come primo ministro. Togliatti si battè per l’inclusione di Badoglio nel ministero, anche se non come presidente del consi­glio, ma non vi riuscì. Badoglio fu costretto a ritornare a riferire al Luogotenente Generale la propria sconfitta e a consigliargli di accet­tare la lista del C. L. N. Allora Umberto diede a Bonomi l’incarico di formare un governo (34).

A Roma i sei partiti avevano tutti approvato la richiesta di un go­verno straordinario. Essi erano d’accordo che il ministero dovesse

(32) Il Centro-Meridionale (Comitato Esecutivo per l’Italia Centro-Meridio­nale) era il principale organo del partito nell’Italia liberata.

(33) Hull, op. cit., voi. II, p. 1563.(34) Bonomi, op. cit., p. 198.

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essere esclusivamente politico, composto soltanto di membri dei sei partiti; che dovesse avere tutti i poteri esecutivi e legislativi normal­mente posseduti da un governo e da un parlamento in una democrazia parlamentare; e che avrebbe dovuto prestare giuramento di fedeltà al popolo, anziché al re. Non concordavano invece sul da farsi per quanto riguardava i poteri regi. I partiti di sinistra pretendevano che il governo avesse anche tutti i poteri del re. I partiti di destra pretendevano che la corona cedesse al governo soltanto i poteri oc­correnti per la condotta della guerra. I Comunisti erano i più mode­rati tra i partiti di sinistra ed erano disposti a consentire che la co­rona compisse Tatto d’investitura formale del nuovo ministero (35).

Al momento della liberazione di Roma, il partito d’Azione, spalleggiato dal partito Socialista, aveva formulato le condizioni mi­nime alle quali entrambi avrebbero partecipato a un governo. Erano essi ad insistere su un ministero esclusivamente politico, sull’incom- patibilità di Badoglio e sulla modifica del giuramento di fedeltà. Erano essi ad insistere che il governo dovesse essere creato dal C.L.N., non dalla corona (36), sottraendple così il più importante potere proprio di un monarca costituzionale, la scelta dell’uomo destinato a costituire e dirigere il governo. Essi volevano che il C.L.N. romano sostituisse il proprio placet a quello del Luogotenente Generale. Essi volevano che il ministero italiano fosse responsabile di fronte al Comitato di Liberazione Nazionale Centrale fino a che non esistesse di nuovo un parlamento.

Alla base di questa presa di posizione stava imo sforzo per dar vita a forme democratiche di governo. Fino a che delle elezioni, dopo la guerra, avessero deciso la questione istituzionale e costituito un parlamento e delle forme di governo locale basate sul volere del po­polo liberamente manifestato, la tesi del partito d’Azione era che il Comitato di Liberazione Nazionale Centrale rappresentasse meglio della monarchia l ’opinione pubblica. Conseguentemente, se si voleva instaurare la democrazia, gli organi amministrativi dalla sommità alla base avrebbero dovuto essere responsabili di fronte a funzionari del governo, i quali avrebbero dovuto essere dei politici presi fra i partiti componenti il C.L.N., ma non avrebbero dovuto essere no­minati, direttamente nè indirettamente, dalla corona. Nel sottrarre alla corona gli atti di governo, si riteneva che le probabilità di una definitiva vittoria della repubblica sarebbero aumentate.

Il generale MacFarlane aveva comunicato la sua approvazione al nuovo ministero quando Churchill a Londra respinse la decisione

(35) Bonomi, op. cit., pp. 156-58.(36) Pietro Nonni, The Rebirth of Italy, « The Nation » del 23 settembre

1944, p. 352.

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del Capo della Commissione Alleata di Controllo. Churchill lottò per ristabilire Badoglio e il vecchio giuramento di fedeltà. Questa volta non riuscì. Badoglio si ritirò dalla vita pubblica. Bonomi personal­mente prestò il vecchio giuramento di fedeltà per addolcire gli In­glesi, ma gli altri membri del ministero no. Dopo un indugio di due settimane, Churchill riconobbe il nuovo governo (37).

U partito d’Azione ritenne di aver condotto una rivoluzione che avesse trasferito l ’effettiva autorità dello stato dalla corona al Co­mitato di Liberazione Nazionale Centrale. Questa interpretazione può essere discussa. Il Luogotenente Generale firmava ancora i de­creti e formalmente investiva ancora il ministero della sua autorità. Il primo ministro continuava a prestare il giuramento di fedeltà alla corona e, secondo le leggi fasciste che teoricamente continuavano a restare in vigore, il « Capo del governo » era l ’unico ad avere una responsabilità politica e l ’aveva di fronte alla corona. Il potere poli­tico, tuttavia, risiedeva nel C.L.N.

V,

Nell’Italia centrale, la pressione del partito d’Azione fu ora diretta a ottenere per i comitati locali ciò che esso sentiva che era stato conquistato per il Comitato di Liberazione Nazionale Centrale. Di nuovo lo spalleggiarono i Socialisti. Quando le forze Alleate si spostarono verso nord attraverso l ’Umbria e la Toscana, incontrarono forti comitati locali che pretendevano di controllare le amministra­zioni locali. Quindi essi venivano in conflitto con i prefetti delle province e i funzionari dei comuni, che erano stati nominati secondo il tuttora vigente sistema amministrativo italiano, sommamente cen­tralizzato. Alla fine dell’autunno del 1944, i conflitti si cristallizza­rono in una richiesta formale, da parte dei dirigenti toscani, del di­ritto per i comitati provinciali di nominare i prefetti e per i comi­tati comunali di nominare i consigli comunali, i capi deBa polizia e gli altri funzionari locali. La crisi precipitò nel novembre del 1944, allorché alcuni membri del C.L.N. della Toscana, guidati da un pre­sidente che era del partito d’Azione, si recarono a Roma a chiedere che fosse definita la loro autorità.

A Roma queste richieste furono appoggiate dai dirigenti Azioni­sti e Socialisti, seguiti dai Comunisti. I partiti di destra erano dub­biosi (38), temendo le tendenze generalmente verso sinistra dei co-

(37) Altra concessione fu il mantenimento come ministro della marina deh l ’ammiraglio De Courten, unico uomo non di partito in tutto il ministero.

(38) Per comodità, i Liberali, i Democratici del Lavoro e i Democratici Cri­stiani sono qui denominati congiuntamente Destra, gli Azionisti, i Socialisti e i Comunisti, Sinistra.

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mitati di liberazione nazionale locali dell’Italia centrale. Cosa più importante, essi temevano che ciò divenisse una minaccia per la struttura sociale dello Stato italiano. In ispecie i Liberali si preoccu­pavano del mantenimento dell’autorità dello « Stato » (39), e resi­stevano alla spinta Azionista per una maggiore autorità al C.L.N. Bonomi, che era stato nominato primo ministro dal Comitato di Roma, cominciò a mutare atteggiamento quanto al riconoscere la fonte del proprio potere. Egli affacciò l ’opinione che, dal momento che il governo Italiano stendeva la propria autorità sulla maggior parte dell’Italia liberata, il C.L.N. aveva cessato di svolgere una funzione utile. Quantunque originariamente nominato dai sei partiti, Bonomi sosteneva che egli ora rappresentava la nazione, non i par­titi, e che poteva essere deposto soltanto dal capo dello stato, non dal C.L.N. (40).

Le tesi opposte si scontrarono producendo una crisi ministeria­le (41) il 25 novembre 1944, allorché Bonomi, senza darne comuni­cazione al proprio ministero o al C.L.N., diede le dimissioni nelle mani di Umberto, « restituendo », secondo le parole del dirigente del partito d’Azione Riccardo Bauer, « al Luogotenente Generale l ’ini­ziativa che era stata da lui perduta in giugno » (42).

Il giorno seguente il Comitato di Liberazione Nazionale Centra­le si riunì per cercare una formula che potesse servire come base per il nuovo ministero. I Liberali erano favorevoli alla dizione che il ministero dovesse « avere l’appoggio del C.L.N. ». I partiti d’Azione, Socialista e Comunista insistevano che il ministero dovesse « essere emanazione del C.L.N. ». La deliberazione finale adottò la dizione della Sinistra (43). Fu inviata a Bonomi, che l’accettò.

(39) Dove la minaccia potesse condurre fu rivelato da un discorso di Pietro Nenni, capo dei Socialisti, in un comizio che celebrava il ventisettesimo anniver­sario della rivoluzione Russa. Nenni esclamò: «Tutto il potere ai C .L .N .», rie­cheggiando il motto bolscevico: «Tutto il potere ai Soviet». New York, « Herald Tribune » del 13 novembre 1944.

(40) Politicai Reconstruction in ltaly, « The W orld Today », agosto 1945, ipp. 69-70.

(41) Altri elementi della crisi furono un contrasto a proposito dell’epurazione della burocrazia e un’intervista di Umberto, che invocò per la definitiva solu­zione della questione istituzionale un plebiscito, piuttosto che la rimessione a un’assemblea costituente.

(42) Riccardo Bauer, Bilancio di una crisi, « Domenica », Roma, 24 dicem­bre 1944.

(43) Testo della deliberazione finale in: OWi « Italian News Bulletin », 2'7 novembre 1944. La decisione della Sinistra fu rafforzata da un messaggio del Comitato di Liberazione Nazionale deR’Alta Italia, il quale insisteva per l’espres­sione « emanazione del C.L.N. », che era appoggiata dai Liberali e Democratici Cristiani del nord. Testo di questo messaggio in: « Libera Stampa », Lugano, 18 gennaio 1945.

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Gli Azionisti e i Socialisti richiedevano che Bonomi presentasse formalmente le dimissioni al C.L.N. e ricevesse da questo l ’incarico di formare un nuovo ministero. Bonomi rifiutò, insistendo che ac­cettava i principi del C.L.N., ma che l’incarico di costituire un mi­nistero gli era già stato conferito dal Luogotenente Generale (44). La Destra e i Comunisti erano disposti a formare un ministero su questa base. Gli Azionisti e i Socialisti rifiutarono, e un nuovo mini­stero fu costituito il 12 dicembre senza alcun rappresentante di que­sti due partiti.

Quantunque il C.L.N. mantenesse de facto il suo potere, Bono­mi riuscì a conservare le prerogative formali della monarchia. Il ten­tativo della Sinistra di ottenere poteri di governo per i comitati lo­cali dell’Italia liberata fallì. Il 27 dicembre 1944, tuttavia, si ebbe un certo compenso allorché il governo Italiano autorizzò il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia ad esercitare poteri di go­verno al di là delle linee Tedesche. Il Comitato nominò dei prefetti clandestini e dei consigli regionali e comunali. Il Governo Militare Alleato acconsentì a confermare tutte queste nomine dopo che il nord fosse stato liberato. I comitati del nord, tuttavia, erano tenuti a ri­conoscere che tutto il potere legittimo risiedeva nel Governo Militare Alleato. Al tempo stesso il Comitato di Liberazione Nazionale del­l’Alta Italia acconsentì:

« ...ad agire come delegato del Governo Italiano, il quale è rico­nosciuto e considerato dai Governi Alleati come il solo successore del governo che sottoscrisse le condizioni d’armistizio ed è l ’unica auto­rità legittima in quella parte dell’Italia che è già stata, o sarà in futuro, restituita al Governo Italiano dal Governo Militare Allea­to » (45).

Non ostante questo impegno, la porzione del partito d’Azione del nord, la più importante quanto a numero di membri e ad ele­menti direttivi, elaborò il progetto di costituire al momento della liberazione del nord una repubblica democratica rivoluzionaria che contemplava la proclamazione della repubblica dopo la liberazione di Milano dall’occupazione nazifascista. Il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia era destinato a diventare il governo prov­visorio, e si sarebbe dovuto convocare un congresso di rappresen­tanti dei comitati locali, che avrebbe funzionato da parlamento prov­visorio e da assemblea consultiva fino a che non fosse eletta un’as-

(44) Testo della risposta di Bonomi in: OWI « llnlian News Bulletin », 5 di­cembre 1944.

(45) Testi resi pubblici dalPufflcio stampa della Presidenza del Consiglio dopo la fine delle ostilità. Riportati in: OWI « Italian News Bulletin », 4 mag­gio 1945.

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semblea costituente. Le formazioni partigiane (Corpo dei Volontari della Libertà) sarebbero divenute l’esercito della repubblica. Si spe­rava che il prestigio del Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia e l ’elemento della sorpresa avrebbero fatto riuscire questo pro­getto e, inoltre, che gli Alleati e il governo riconosciuto di Roma non avrebbero reagito con la forza di fronte a questo fatto compiuto, per timore di scatenare una guerra civile contro il movimento Ita­liano di liberazione (46).

I Liberali e i Democratici Cristiani del Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia erano riluttanti, perchè il programma pro­gettato era chiaramente repubblicano e socialista nei suoi scopi. Se il progetto fosse riuscito, una coalizione della Sinistra, composta dei partiti d’Azione, Socialista e Comunista, avrebbe preso il sopravven­to (47). Tuttavia i dirigenti del partito d’Azione s’illudevano suì- l ’unità democratica della Sinistra (48), poiché i Comunisti e i loro alleati Socialisti respinsero in pieno il progetto proposto. I dirigenti di questi due partiti vedevano scarse possibilità di successo per una simile impresa. Un esempio catastrofico di ciò che sarebbe potuto ac­cadere si ricavava dalla Grecia, dove soltanto pochi mesi prima gli Inglesi avevano soffocato il tentativo di un colpo di mano da parte dei Comunisti Greci. Per giunta i Comunisti si rendevano conto che la burocrazia Italiana e le campagne erano favorevoli, rispettivamen­te, alla monarchia e alla Democrazia Cristiana. L ’Italia settentrionale sarebbe stata occupata dagli Alleati. Soltanto se le condizioni fossero state simili a quelle dell’Europa orientale, dove sussisteva la possi­bilità dell’intervento dell’Armata Rossa, la Sinistra avrebbe potuto fare un serio tentativo di assicurarsi il potere in modo rivoluzionario. Conseguentemente i Comunisti preferirono la via della legalità e del­la partecipazione a un governo nazionale basato sul C.L.N. (49). I Comunisti desideravano un radicale rinnovamento del paese, ma di-

(46j Un'illustrazione di questo progetto si trova nel giornale del partito « Italia Libera», Milano, del 26 aprile 1945; inoltre: Leo Valiani, L ’avvento di De Gasperi, Torino, De Silva, 1949, pp. 12-13. A Firenze il dirigente del par­tito d’Azione Piero Calamandrei invocava un governo rivoluzionario basato sul Comitato di Liberazione per condurre a termine la liberazione dell’Italia dal fa­scismo. Egli sosteneva che le forze democratiche rivoluzionarie, per quanto in minoranza, dovevano dar vita alla nuova società a cui lutti avrebbero potuto partecipare. Piero Calamandrei, Rassegna della resistenza europea: funzione ri­voluzionaria dei comitati eli liberazione, « Il Fonte », voi. I, N. 2 ,maggio 1945. pp. 138-40.

(47) Leo Valiani, Tutte le strade conducono a Roma: diario di un popolo nella guerra di un popolo, Firenze, La Nuova Italia, 1947, p. 323.

(48) Francesco Compagna, La lotta politica italiana nel secondo dopoguerra e il mezzogiorno, Bari, Laterza, 1950, p. 40.

(49) Discorso di Togliatti a Milano il 21 maggio 1945, « L’Unità ». Milano, 22 maggio 1945.

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cevano che questo doveva verificarsi in maniera democratica, attra­verso l’assemblea costituente (50). L ’argomento principale fu più tardi succintamente riassunto da Pietro Nenni, il capo dei Socialisti:

« Quando il Nord cadde, fu impossibile svolgere un’azione di­retta per l ’instaurazione della repubblica con gli Alleati in Italia. Ciò avrebbe significato il rischio di un conflitto con gli eserciti di oc­cupazione Alleati, che avrebbe potuto terminare soltanto con una sconfitta. Qtiindi fu diretta ogni energia verso l’Assemblea Costi­tuente » (51).

La proposta del partito d’Azione finì quindi nel nulla.Quando la guerra terminò, il secondo ministero Bonomi diede

le dimissioni per essere sostituito da un governo dei sei partiti diret­to da Ferruccio Parri, il rappresentante Azionista nel comando dei partigiani. La sua nomina non era un segno della forza del partito d’Azione; era semplicemente un compromesso tra i Socialisti che non acconsentivano ad affidare la presidenza a De Gasperi e i Demo­cratici Cristiani che non potevano accettare Nenni. Questa volta gli Azionisti del Nord fecero il tentativo di ottenere i poteri per i co­mitati locali dell’« Italia del Re », ma anch’essi fallirono (52). Al­lora Parri si diede a preparare la soluzione definitiva della questione istituzionale.

VI

Gli Alleati, la monarchia e i partiti erano d’accordo che la deci­sione finale doveva verificarsi al termine delle ostilità. I partiti re- pubblicani pretendevano che si decidesse al più presto possibile do­po quel momento, allo scopo di avvantaggiarsi dell’« umore repub­blicano » del paese, che trovava le sue radici nella grande insurre­zione partigiana del Nord. I monarchici, guidati dai Liberali, deside­ravano procrastinare la decisione nella speranza che, col tempo, il paese sarebbe ritornato alle idee tradizionali e avrebbe accettato le istituzioni abituali.

Durante l’estate e l’autunno del 1945, Parri cercò di fissare una data per l’elezione di un’assemblea costituente, mentre i Liberali e

(50) Direttive dell'Esecutivo del Partito Comunista del 3 luglio 1945. Pub­blicate in: Partilo Comunista d’Italia, IL parlilo comunista italiano emiro la guer­ra, contro il fascismo, per la libertà, per la democrazia, per V indi pendenza d’Ita­lia, Roma, Società editrice dell’Unità, 1945, pp. 285-87.

(51) Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, 24° Congresso, « Rendicon­to per la stampa », Firenze, aprile 1946, (ciclostilato).

(52) Giulio Andreotti, Concerto a sei voci, Roma, Della Bussola, 1945, pp. 54-57, 63-64. 70-71. Il Nord rimase sotto il Governo Militare Alleato fino al 1° gennaio 1946.

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i Democratici Cristiani si servivano di ogni possibile tattica dilatoria. Essi sostenevano che dovessero tenersi prima elezioni per le ammini­strazioni locali, onde abituare il popolo ai procedimenti democratici da tempo dimenticati (53). La risoluzione di Parri alla fine indusse i Liberali a provocare una crisi ministeriale nel novembre del 1945. Il pretesto fu che una legge finanziaria di carattere repressivo presen­tata da Parri fosse « diretta contro un’unica classe. Ciò mira alla sop­pressione, o se questa parola è troppo forte, alla sostituzione della classe dirigente Italiana... » (54). Il governo Parri cadde, le elezioni per l ’assemblea costituente furono rimandate e l ’epurazione finanzia­ria fu resa inefficace. Un nuovo governo dei sei partiti sostituì il mi­nistero Parri: presieduto da De Gasperi, la sua tendenza era verso destra.

Il nuovo governo dispose delle elezioni amministrative locali per la primavera del 1946 e rinviò al 2 giugno 1946 le elezioni politiche aventi maggiore importanza. I dirigenti Democratici Cristiani vole­vano che si decidesse mediante un plebiscito o referendum, come aveva sostenuto il Luogotenente Generale nella sua intervista del no­vembre 1944. Essi speravano che molti Italiani, i quali avrebbero votato per qualche partito repubblicano di sinistra, avrebbero anche potuto votare per la monarchia per tradizione o sentimento. Un de­putato Azionista o Socialista all’assemblea costituente non avrebbe mai votato per la monarchia. Precisamente per questa ragione i par­titi di Sinistra volevano che la decisione fosse presa dall’assemblea.

Per giunta, gli Azionisti miravano a un’assemblea costituente che fosse un organo sovrano investito di tutti i poteri, secondo la tradi­zione dell’assemblea della rivoluzione francese. Ossia, essa avrebbe deciso la questione istituzionale, redatto una costituzione e agito co­me organo parlamentare legislativo, eleggendo e sostenendo un go­verno. Ciò avrebbe permesso aH’assemblea, con voti di maggioranza, di approvare le riforme legislative a cui tendevano i partiti della Si­nistra. La Destra voleva che il compito dell’assemblea fosse unica­mente quello di redigere una costituzione. Nel frattempo il paese avrebbe continuato ad essere governato da un ministero del C.L.N., competente ad emettere decreti. Dato che nel ministero si seguiva il principio dell’unanimità, cosicché nessun partito poteva pretendere d’imporsi prima che fossero tenute le elezioni, i conservatori avreb­bero potuto porre il veto alle leggi e procrastinare le riforme.

Il partito d’Azione e i suoi sostenitori perdettero. Un nuovo decreto emanato nel febbraio del 1946 dispose un referendum per

(53) Vedi dichiarazione di De Gasperi riportata in: a l l Progresso Italo-Ame- ricano », 6 settembre 1945.

(54) « Risorgimento Liberale », 6 novembre 1945.

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la decisione del destino della monarchia. L ’assemblea costituente, eletta contemporaneamente, doveva limitarsi a redigere una nuova costituzione (55). Il ministero avrebbe governato mediante decreti fino a che la nuova costituzione non fosse entrata in vigore e non fossero stati eletti in base ad essa degli organi legislativi (56).

Prima del referendum il paese si diede alla campagna elettorale. In questa occasione si rivelò chiaramente la vera natura della que­stione istituzionale, come una lotta per il mantenimento della strut­tura sociale dell’Italia. I Liberali l’avevano dimostrato con la loro reazione alla legge finanziaria repressiva. Le forze raggruppate in­torno alla monarchia non erano veramente legittimiste, diceva uno scrittore del partito d’Azione, perchè il senso del legittimismo era scomparso (57). Una scrittrice inglese osservava: «Tutti i politici conservatori, qualunque etichetta di partito abbiano, nella loro per­plessità circa la saggezza delle progettate riforme si trovano respinti a sostenere la monarchia per la sua qualità di istituzione che ha un passato, anche se infido... » (58). Era per questo che il partito d’A­zione aveva posto in prima linea la questione istituzionale. La mo­narchia costituiva il punto di raccolta intorno al quale si sarebbero radunate tutte le forze favorevoli alla conservazione dell’ordinamen­to sociale. Come la Chiesa Cattolica Romana, essa era il simbolo del­la tradizione, dell’ordine, della stabilità. Attaccare la monarchia, screditarla mettendo in risalto i suoi legami con il fascismo, indebo­lirla togliendole l ’attività di governo, tutto ciò avrebbe indebolito l ’ordinamento sociale esistente. Altri procedimenti propugnati dagli Azionisti erano l’epurazione della burocrazia e dell’« alta finanza », esse pure istituzioni chiave per l ’ordinamento sociale, e la sottrazio­ne, richiesta insistentemente, della politica all’iniluenza della chiesa. Il partito d’Azione sperava in tal modo di sostituire a quella esistente un’altra struttura sociale più democratica. Alcuni elementi del par­tito erano pronti, se necessario, a servirsi dell’azione diretta per rag­giungere questo risultato; a costituire una repubblica dominata da una coalizione dei partiti della Sinistra, la quale avrebbe provveduto alle riforme.

L ’attacco alla monarchia, pertanto, era più che un attacco a una istituzione pobtica: era una via per il mutamento sociale. Gli Azio­nisti erano fra coloro che riconoscevano la doppia natura del risul-

(55) Le era affidato un solo potere legislativo: la ratifica del trattalo di pace.(56) Testo della legge elettorale in: « II Mondo », aprile 1946, p. 7.(57) Carlo Innamorati, Le nuove correnti politiche italiane, G. Fenoaltea e

al., Verso una nuova democrazia, Firenze, Barbera, 1945, p. 64.(58) Elizabeth Wiskemann, Italy, Londra, Oxford University Press, 1947,

pp. 124-25.

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lato. Molti Italiani, non rendendosi conto di questa correlazione, votarono per la repubblica per un senso di disgusto del passato e, contemporaneamente, votarono per quei partiti che garantivano la vecchia struttura sociale. Risultato di ciò fu ima vittoria della repub­blica con un margine ristretto nel referendum del 2 giugno 1946 e insieme una vittoria delle forze conservatrici, dalle quali la monar­chia era stata considerata un elemento chiave.

VII

La questione istituzionale comprendeva tre punti di contro­versia : le persone, la posizione dei partiti contro la monarchia e la lotta circa la struttura sociale. Tutti e tre gli elementi furono pre­senti fin dall’inizio, ma in genere uno solo ebbe maggiore rilievo in un determinato periodo. Al Sud, prima della conquista di Roma, la questione delle persone fu in prima linea e la lotta infuriò a propo­sito delle persone di Vittorio Emanuele, Umberto e Badoglio. Dopio l’occupazione di Roma, l ’accento fu posto sulla questione della posi­zione dei Comitati di Liberazione Nazionale Centrale e locali in rap­porto con gli organi tradizionali dell’ordinamento dello stato. Allor­ché l’epurazione amministrativa e finanziaria divenne la questione fondamentale, la controversia principale relativa alla struttura sociale oscurò le altre.

Su due dei tre punti il partito d’Azione prese una posizione estrema. Esso era il meno disposto a un compromesso sulla questione delle persone ed era il più deciso a pretendere che comitati dei par­titi assumessero le funzioni degli organi tradizionali dell’organizza­zione statale. Sulla questione della struttura sociale i Socialisti e i Comunisti erano rigorosi tanto quanto gli Azionisti. La proposizione rivoluzionaria che la vecchia classe dirigente dovesse essere abbattuta e sostituita era fondamentale per i partiti della Sinistra. Le mete de­gli Azionisti, tuttavia, erano differenti da quelle degli altri due par­titi della Sinistra: essi volevano per l’Italia una rivoluzione democra­tica, mentre gli altri volevano una rivoluzione proletaria destinata a culminare in una dittatura del proletariato (59).

La strategia del partito d’Azione mostra che esso non comprese la definizione di Bismark della politica come arte del possibile. Que­sta poca abilità a rendersi conto di ciò che era possibile afflisse co-

(59) La maggior parte dei Socialisti Italiani miravano a questo scopo. Una minoranza, che si staccò nel 1947, seguiva le concezioni della democrazia parla­mentare accettate dai socialisti riformisti dell’Europa occidentale e accettabili per gli Azionisti.

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stantemente i dirigenti Azionisti. Essa potè condurre a proposte as­surde, come quella fatta da Calace nei mesi di marzo e aprile del 1944 di suscitare una rivoluzione nell’Italia meridionale dietro le linee Alleate mentre si stava combattendo una guèrra contro i Tedeschi. Ciò rese necessario che il rivoluzionario di professione Paimiro To­gliatti dicesse a Calace che gli Alleati non avrebbero mai tollerato tale mossa. Nella primavera del 1945, i Comunisti dovettero far pre­sente ancora una volta agli Azionisti che non sussistevano le condi­zioni per un’azione rivoluzionaria favorevole. E ancora, nel dicem­bre del 1944, gli Azionisti, questa volta accompagnati dai Socialisti, rifiutarono di partecipare a mi ministero, perchè Bonomi non volle ricevere un incarico formale dal C.L.N., pur riconoscendolo come fonte del proprio potere.

Scopo del partito d’Azione era la creazione della repubblica. E ’ dubbio, tuttavia, se il rifiuto di collaborare con gli altri partiti in quel momento abbia comunque condotto più vicino al raggiungi­mento di questo scopo. Il partito non era abbastanza forte, anche in­sieme ai Socialisti, per impedire la formazione di un ministero. Quantunque il passare all’opposizione in un’Italia ancora in guerra potesse indicare fedeltà a una purezza ideologica, ciò significò anche incapacità d’influenzare il corso degli eventi. Il governo e gli Alleati controllavano tutti i mezzi di comunicazione e di trasporto. L ’abban­dono del ministero significava una seria riduzione delle possibilità di far propaganda e di mobilitare la pubblica opinione. Nel dicembre del 1944 i Socialisti non erano lungi dal comprendere il proprio er­rore. Un mese più tardi cercavano un modo per rientrare nel mini­stero. Il Comunista Mauro Scoccimarro divenne ministro per i ter­ritori occupati. Mediante questa carica egli potè rinforzare la posi­zione dei Comunisti nel Nord a spese dei Socialisti e degli Azionisti. Comprendendo ciò, i Comunisti, in tutta l ’Europa e ogni volta che fu possibile, entrarono nei ministeri Europei, e resistettero vigoro­samente allorché ne furono espulsi in Francia e in Italia nel 1947. Il partito Repubblicano Italiano, un piccolo gruppo, seguì la tecnica opposta rifiutando di partecipare a qualsiasi ministero fin dopo la vittoria della repubblica nel giugno del 1946. Questo partito è rima­sto oggi altrettanto piccolo. Se il partito d’Azione fosse ugualmente rimasto fuori del governo, non ne avrebbe potuto trarre un vantag­gio in quanto partito, nè avrebbe dato alcun contributo agli sforzi Italiani nella guerra contro la Germania, sforzi che dovevano essere compiuti anche se furono tenuti in poca considerazione dalla mag­gior parte dei governi Alleati alle conferenze per la pace del 1946-47. Sembra assai improbabile che l’astensione avrebbe reso più sicura l ’eventuale vittoria della repubblica. Certo è difficile tracciare una

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linea di divisione tra il compromesso, così necessario nelle politiche di coalizione, e l ’opportunismo, ma la poca abilità degli Azionisti a giungere a dei compromessi quand’era necessario, a rendersi conto dei limiti di ciò che era possibile date le circostanze, fu una delle ragioni della loro definitiva disgregazione.

Sulla questione dell’autorità rappresentante lo Stato, il partito d’Azione mantenne una posizione coerente e utile. Il capo dello Stato in un governo parlamentare è abitualmente considerato come il sim­bolo della nazione, come l’elemento unificatore che differenzia il tutto dalle parti, l ’insieme del popolo al di sopra degli individui di­visi dai loro vari interessi politici e d’altro genere. In una monarchia costituzionale la corona è la fonte tradizionale della sovranità e della legge, che impersona la volontà del popolo, anche se le sue funzioni sono esercitate da parlamenti e governi espressi da una maggioranza popolare. Il partito d’Azione sostenne costantemente la tesi che la corona Italiana non potesse adempiere questo compito tradizionale. Il discredito in cui la monarchia era tenuta da ampi settori della popolazione l’aveva resa inidonea a rappresentare il popolo Italiano nel suo insieme, sopra e al di là dei partiti e delle fazioni : invero essa costituiva una delle fazioni nella lotta politica. Poiché il senso del legittimismo era distrutto, Carlo Sforza (rovesciando una famosa frase pronunziata da Crispi, un repubblicano del diciannovesimo se­colo divenuto monarcbico) poteva dire: « La repubblica ci unisce, la monarchia ci divide » (60).

Al posto della corona il partito d’Azione poneva, come fonte della legge e simbolo dell’unità della nazione, il Comitato di Libe­razione Nazionale Centrale. Esso respingeva la terminologia del par­tito Liberale che il ministero dovesse « avere l ’appoggio del C.L.N. » ed insisteva che il governo dovesse « essere emanazione del C.L.N. ». Questa arrogazione del diritto di simboleggiare la volontà collettiva costituiva un’asserzione rivoluzionaria. Nessuna elezione popolare aveva autorizzato il C.L.N. a parlare in nome del popolo, a costi­tuire dei ministeri aventi l ’autorità di emanare dei decreti. Ma, di fatto, il C.L.N. faceva esattamente questo, quantunque fosse conser­vato l’atto formale dell’investitura regia. Quando furono tenute le prime elezioni politiche, i partiti del C.L.N. ottennero circa il 90 per cento dei voti (61). Nel referendum la monarchia ne ottenne il 46 per cento. La pretesa del C.L.N. di rappresentare esso tutto il po­polo Italiano era certo assai più valida di quella della monarchia.

(60) Carlo Sforza, Monarchia o repubblica, Milano, Mondadori, 1946.(61) Mario Einaudi, Constitutional Government: France and Italy, in |F. Mor-

stein-Marx, Foreign Governments, New York, Prentice-Hall, Ine., 1949, p. 233.

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Fu il partito (l’Azione ad insistere su un altro punto importante il governo da parte di politici appartenenti a partiti. La corona ita liana preferiva governare per mezzo di tecnici. Vittorio Emanuele aveva rifiutato di ammettere nel ministero degli esponenti dei partiti dopo il colpo di stato del 25 luglio 1943 che aveva abbattuto Musso lini. Egli, nel Sud, resistette finché potè alle pressioni per un aliar gamento del ministero mediante dei sottosegretari. Quando finalmen te il C.L.N. entrò nel ministero nell’aprile del 1944 e di nuovo nel giugno del 1944, il partito d’Azione insistette con la massima fer mezza che il potere di prendere delle decisioni politiche fosse riser vato agli uomini dei partiti. Esso lottò con successo perchè il princi pio democratico del governo da parte di politici rappresentanti set tori di popolazione trionfasse sul principio fascista del governo di « esperti » o tecnici (62). Esso contribuì a restaurare la direzione dei partiti democratici nella politica italiana dopo venti anni di fascismo

Il più importante elemento della questione istituzionale riguar dava la conservazione della struttura sociale italiana, la lotta per mantenere quella che il partito Liberale chiamava « la classe diri gente italiana ». Il partito d’Azione avanzò la proposizione che al l’Italia occorresse la rivoluzione democratica che non aveva mai avu ta (63). Gli si può rimproverare di non avere scorto dove questa teoria avrebbe potuto condurre. Il partito d’Azione era piccolo, men tre altre forze che sollecitavano una rivoluzione democratica erano deboli; quelle che miravano a una rivoluzione proletaria erano assai più forti. Nel perseguire la concezione di una rivoluzione democra tica, gli Azionisti avrebbero potuto consegnare l’Italia nelle mani di una dittatura, che avrebbe preteso di parlare in nome del prole tariato. Invero la « coalizione di sinistra » propugnata nella prima vera del 1945 assomigliava moltissimo alle « democrazie popolari » che sorsero nel periodo postbellico nell’Europa Orientale, dalle quali i Comunisti e i loro alleati espulsero in pòchi anni gli elementi de­mocratici.

Da un altro' punto di vista questa posizione Azionista può essere vigorosamente difesa. Si può obbiettare chi; l ’unico modo per l’Italia di evitare una dittatura consisteva in una rivoluzione democratica,

(62) Einaudi, op. cit., pp. 264-65. Naturalmente, i dirigènti fascisti erano in realtà dei politici.

(63) Nel settembre del 1945 il Presidente del alla Consulta e, in presenza di tre primi ministr Nitti, disse che l’Italia prefascista non era stati realmente democratica. Allied Commission, « Weekly Bulletin », 29 settembre

Consiglio Farri fece un discorso prefascisti, Orlando, Bonomi e

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e che l ’insuccesso nel compierla significa che l’Italia rimane sotto­posta alla minaccia di una dittatura, neofascista o comunista, o forse di entrambe nell’ordine anzidetto. L ’evidente tattica di polarizza­zione dei Comunisti può essere l’indice di una loro credenza che il co­munismo trovi più facile, a lungo andare, debellare il fascismo che non la democrazia (64).

La monarchia fu sconfitta, ma la vecchia classe dirigente rimase intatta. Il fallimento delle epurazioni amministrativa e finanziaria e l ’avanzare lento, come quello di un ghiacciaio, delle riforme sociali mostrano che la vecchia struttura sociale sussiste ancora. L’incre­mento della Democrazia Cristiana, sostenuta dai ricchi e strettamente legata al Vaticano (65), pone il problema della natura del governo democratico nell’Italia d’oggi. Formalmente, vi è un governo parla­mentare: la coalizione ministeriale di politici di partito è sostenuta da una maggioranza in un parlamento eletto liberamente. Ma taluni lamentano che il Vaticano diriga virtualmente l ’Italia con la sua in­fluenza sul governo, il suo controllo dell’istruzione e la sua influenza economica (66). Sono forse di fatto i Democratici Cristiani dei tecni­ci che governano per conto di un potere non eletto, non sottoposto alla sovranità popolare?

Il sorgere del neofascismo e la sua alleanza con i monarchici nelle elezioni, amministrative dell’Italia meridionale nel maggio del 1952 mettono in risalto un’altra minaccia per il governo democratico. In tali gruppi si ritrova la teoria del governo ad opera di esperti, i quali dovrebbero sostituire, alle discordie di partito, alle lotte dei partiti e alle manovre dei partiti per procurarsi vantaggi, il lavoro nell’interesse di « tutti ». La loro vittoria, ancora lontana dall’essere certa, o una vittoria comunista significherebbero la fine in Italia della politica democratica, per instaurare la quale il partito d’Azio- ne lottò così valorosamente. Le elezioni del giugno 1953 forniranno qualche indizio sulla direzione da prendere, specialmente conside­rato lo sforzo con cui fu approvata una nuova legge elettorale, che è espressione del desiderio da parte della vecchia classe dirigente di una più solida maggioranza parlamentare. Si potrebbe ricordare che

(64) Giorgio Borsa, Again the Mussolini Way in Italy, « New York Tintesi), Magazine Section, 8 giugno 1952.

(65) I Comitati civici dell’Azione Cattolica e il clero sono gli effettivi propa­gandisti del partito della Democrazia Cristiana.

(66) Ninetta S. Jucker, Italy : East or West, « The Political Quarterly a, apri- le-giugno' 1951, p. 179.

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un’analoga legge, approvata durante i primi tempi del fascismo, for­nì a Mussolini e ai suoi sostenitori i ineazi costituzionali per impa­dronirsi dello stato (67).

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(67) La legge elettorale Acerbo, così denominala dal deputato fascista Acerbo, fu presentata al parlamento nel luglio del 1923. La legge stabiliva che il partito, il quale avesse riportato almeno un quarto dei voti effettivi, avrtebbe ottenuto due terzi dei seggi della camera dei deputati. Le elezioni del 6 aprile 1924 diedero ai seguaci di Mussolini la desiderata maggioranza di due terzi.

Mentre il presente articolo era in corso di stampa, le elezioni del 7 giugno 1953 rivelarono un ulteriore incremento, a sinistra, delle forze proletarie rivolu­zionarie e, a destra, delle forze neofasciste e monarchiche. I parliti rappresen­tanti di una politica democratica, specialmente i piccoli gruppi di centro Repub­blicani e Socialdemocratici, rimasero notevolmente indeboliti, mentre i Democra­tici Cristiani e i Liberali subirono un considerevole regresso. Questi quattro par­titi, costituenti la coalizione di centro, non riuscirono per un margine ri­stretto a raccogliere oltre il cinquanta per cento dei voti, che occorreva loro per conquistare i due terzi dei seggi della camera dei deputati. L’aumento di forza dei partiti di destra, specialmente dei Monarchici, fu sorprendente in senso rela­tivo ed assoluto, e tale aumento si verificò in tutta l’Italia e non soltanto in quella meridionale. (Per un’analisi dei risultati delle elezioni vedi la corrispon­denza di Arnaldo Cortesi nel « New York Times » del 14 giugno 1953, Sezione E).

Come conseguenza, può darsi che l ’Italia attraversi un periodo di governo parlamentare instabile. In ogni caso un ministero democratico' cristiano avrà bi­sogno, per sopravvivere, di altri appoggi oltre quelli dei piccoli partiti democra­tici di centro. 1 Socialdemocratici hanno auspicato l’ingresso nel governo dei Socialisti di sinistra di Pietro Nenni. Ciò è poco probabile, specialmente in con­siderazione dell’attacco contro tale partilo dell’organo vaticano « L ’Osservatore Romano », che l’ha qualificato con esattezza come un partito puramente marxista ed anche più anticlericale di quello comunista. («New York Tim es», 14 giugno 1953, Sezione A). Più probabilmente il governo tenterà di ottenere l’appoggio dei Monarchici, correndo il rischio di spingere i Socialdemocratici all’opposizione. In tal caso, in loro assenza, non c’è da attendersi ulteriori notevoli riforme sociali. Un simile ritorno alle precedenti posizioni mostrerà ancor più chiaramente il pre­dominio nella politica italiana della vecchia classe dirigente. Mostrerà che per­mane la vecchia struttura sociale non ostante che il re non sieda più sul trono.