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Di Vittorio Tucci
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VITTORIO TUCCI
IL PESO DELL’OMBRA
Racconto a sfondo culturale ambientato su quel ramo…
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Introduzione dell’autore
Un succinto commento sulla mia nuova esperienza cui mi è stato
gradito dedicarmi. Intendo con ciò rispondere anticipatamente
a chi avrà la disponibilità e la pazienza di leggermi ancora ed al
presumibile giudizio che potrebbe venirmi addebitato, nel senso di
aver troppo spaziato nel campo della fantasia sì da rendere credibili
situazioni assurde.
Ma non è vero, perché questa è spesso superata dalla realtà.
Si consideri infatti che la mente umana è al tal punto peculiare ed
imprevedibile da far rientrare nella più logica e razionale delle cose
tutto ciò che invece potrebbe apparire come incredibile.
Aggiungo inoltre che mi sono un po’ adeguato allo schema orientativo
proprio dei romanzi gialli, nei quali la riuscita consiste nel tenere
in suspense il lettore nell’attesa della rivelazione dell’assassino,
che però deve avvenire solo in occasione della fine ed in ciò mi è
di conforto Agatha Christie, e per essa Poirot, da sempre interprete
magistrale delle trame che hanno coinvolto i suoi personaggi.
Per la verifica infine di tutto quanto ho cercato di mettere in atto e
quindi nella sperata riuscita anche per me, un solo invito, leggetemi,
anzi rileggetemi e poi, se del caso, consideratemi.
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Capitolo I
Una mattina all’Ufficio delle Entrate
Quell’inverno dell’Anno Domini 20.. era stato alquanto rigido talchè
a memoria d’uomo non se ne ricordava uno uguale. Se è vero che
la neve, come ci hanno insegnato sui banchi di scuola, è preordinata
dalla natura provvida per proteggere come coltre il seme che riposa
nelle zolle, ove è stato sparso dalla mano piena di speranza affinché
vivifichi più rigoglioso ai primi calori della primavera, l’avvento del
manto bianco toccò allora vertici inusitati ad alimentare la prospettiva
di un proficuo raccolto. Ed infatti sotto la neve pane, come arguiva il
saggio contadino.
Troppe stagioni erano passate con le avvisaglie di semplici spruzzatine
per cui in fondo del fenomeno, particolarmente gradito specie dai
più piccoli, se ne avvertiva la nostalgia.
Ritornando al clima nella situazione anomala che ho presentato,
quell’anno però aveva fatto da contraltare l’aumento smisurato
del costo del carburante provocato da manovre speculative dovute
all’avidità dei petrolieri, il che non poteva non indurre ad una certa
austerità a discapito in particolare del calore domestico.
I termosifoni non potevano quindi che venire accesi ad orario
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ridotto e con turni intermittenti e l’imperativo categorico, fra l’altro
imposto, era che non si doveva superare una certa gradazione tanto
che all’emergenza si ovviava coprendosi molto.
Quella mattina del 2 maggio del medesimo anno nell’interno
dei locali dell’Ufficio delle Entrate di Lecco la temperatura era
pertanto alquanto frizzante per le direttive impartite dalla Pubblica
Amministrazione costretta a limitare i propri disavanzi economici, ma
del tutta diversa invece l’atmosfera che ivi trapelava e si respirava.
A causa infatti del pregresso giorno di festività le pratiche si
erano accumulate in modo anomalo ed era tutto un brulichio di
contribuenti affannati dai loro problemi ma non lo era di meno se
la situazione veniva riguardata dalla parte del personale, costretto
a dare chiarificazioni sul perché di ogni convocazione o peggio
a fronteggiare proteste esasperate tanto che ciascuno di loro
veniva ridotto alla stregua di veri accumulatori in senso tecnico.
A verificazione introduciamoci nell’ufficio del dr. Luigi Perillo e
registriamo il dialogo: “Buongiorno, direttore, sono venuta perché
intendo avere finalmente evasione in merito al mio ricorso, di cui da
tanto non ho notizie”.
“Ma, signora Agostoni, lei sta abusando qui del mio prezioso tempo.
Non sa forse che l’accertamento è ormai definitivamente passato a
ruolo e che la sua posizione giace quindi nell’archivio?”
E’ appena il caso di ricordare che l’introdotta, lecchese verace, era
assai conosciuta nell’ambito locale per una certa ragguardevole
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posizione economica, tanto che occupava un attico sito in un lussuoso
condominio, abitato da quelli che contano ed ubicato nel rione di
Acquate, non lontano dalla salitella che porta alla mistica chiesetta
dedicata alla Madonna di Lourdes.
“Mi scusi, dr. Perillo, le posso provare di aver adempiuto tramite
il mio commercialista ad ogni valido atto interruttivo e dato che a
tutt’oggi non mi è stata notificata decisione alcuna in proposito, devo
concludere che la pratica è stata insabbiata per incuria e disservizio
da parte di codesta amministrazione.”
“Badi a come parla, altrimenti l’accompagno alla porta.”
“Lo faccia pure direttore, ma come esco da qui segnalo il tutto al
suo diretto superiore ed intendo all’Ufficio Provinciale o, se del caso
anche al Ministero, e vedremo come se la sua scranna non abbia a
vacillare.”
“Andiamoci piano con le provocazioni e le minacce e si calmi i
nervi.”
Qui viene premuto un pulsante dell’apparecchio telefonico e poco
dopo entra un individuo di bassa statura, un po’ pingue, occhiali a
stringinaso, capelli lisci e di color bruno, curatamente tirati sul capo
per celare una calvizie avanzata, baffetti alla Umberto, giacchetta
che evidenziava un annoso uso ma rigorosamente salvaguardata dai
coprimaniche, in una parola il classico lacchè.
Dobbiamo nel frattempo far presente che il dr. Perillo subito dopo
la segnalazione telefonica aveva lanciato uno sguardo per certo non
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disinteressato alla propria interlocutrice in quanto, trattandosi anche
di donna assai avvenente e piccante, aveva notato che teneva le gambe
accavallate in modo malizioso ed a suo giudizio provocatorio.
Il nuovo entrato invece si limitò a lanciarle uno sguardo furtivo,
subito però distolto come se la cosa non facesse per lui, donde in tal
modo venne ripreso il dialogo: “Policarpo, scenda nell’archivio e mi
porti la pratica Agostoni. Il numero è il 1987 del 2003”.
“Provvedo subito” rispose l’incaricato.
Trascorse qualche minuto ed il latore porse il fascicolo nelle mani
del suo direttore che sbottò immantinente in uno scatto d’ira:
“Policarpo, usciere dei miei stivali, pardon signora, ma lei il decoro
ce l’ha proprio sotto la suola delle scarpe? Qui c’è tanta polvere da
provocare un attacco di tosse.”
“Chiedo venia, dottore, ma è quella che fa da sempre velo alla
lampadina dell’archivio”.
“La pulisca allora!”
“Non mi pare sia di mia incombenza.”
Accomiatato il malcapitato, che sgusciò via un po’ imbronciato,
eccoci alle ultime battute.
“Povero Policarpo, cosa aspetta ad entrare nella normalità, in fondo
è un buon uomo e tutti gli vogliono bene, avrebbe però bisogno tanto
di aiuto. D’altronde è troppo solo, anche se è lui che l’ha voluto. Vai
comunque a distoglierlo da quelle che sono le sue manie. Mi scusi,
signora Agostoni, per queste mie considerazioni, ma mi tolga una
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curiosità. E’ lei forse che si diletta a cavallo, perché mi sembra di
averla vista di recente al concorso ippico di Camerlata.”
“Si, ero proprio io e ciò fu in occasione ed a seguito della mia
separazione grazie ai consigli degli amici di sempre. Posso oggi
affermare che non esiste sport più affascinante perché, stando all’aria
aperta, ti diverti, ti rilassi, ma soprattutto ti completi in ogni senso.
Non è forse vero che chiodo scaccia chiodo?“
“Si consideri perciò sin d’ora invitata nel mio maneggio di Molteno,
ove possiedo una quota di compartecipazione e così avrò il privilegio
di farle cavalcare il mio Delphinus. E’ un puro sangue della razza
Dormello Olgiata ed è soprattutto docile ed ubbidiente.”
“Con immenso piacere allora.”
“Stia pur certa, gentil signora Giovanna, che la contatterò al più
presto. Nel contempo le assicuro che assumerò personalmente la sua
pratica ed abbia fiducia. Arrivederci.”
“Arrivederci e resto in attesa sig. Luigi.”
Per quanto riguarda il dr. Perillo, fra l’altro a tutt’oggi scapolo
impenitente, segnalo che proveniente da Varese, venne qui trasferito
appunto al locale Ufficio delle Entrate e che scelse la propria dimora
in quel della Giazzera.
Rimasto poi solo dopo tale colloquio, si concentrò per un momento
nei suoi pensieri e ripensando all’incontro la sua considerazione fu
che non è vero che il cattivo tempo si vede subito dal mattino, dopo
di che avanti… un altro.
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Volgendo in seguito la fine della giornata lavorativa, Policarpo
riordinò con cura tutte le pratiche che si erano accatastate sulle
varie scrivanie riponendole negli scaffali a loro destinati, si alzò,
diede con la mano una spolverata al proprio cappotto foderato col
bavero in finta pelle, appeso fra l’altro con cura ed al quale prestava
il massimo delle attenzioni, perché era il capo più pregiato che si era
potuto permettere.
Indossatolo, si avviò a passi lenti e tardi alla volta della propria
abitazione sotto una pioggerella fastidiosa ed una leggera
nebbiolina, percorrendo quella stradicciola che costeggia la riva
sinistra dell’Adda fiancheggiata da quel masso ove sta inciso
“… Addio monti sorgenti dall’acque ed elevati al cielo…” ed
avendo alle spalle proprio il Resegone. Ma cosa è la nebbia? In
fondo è una nube che ha scelto di appiccicarsi al suolo.
L’umore non era certo dei più rosei perché sentiva il peso del
rimprovero proprio da parte di colui che stava al vertice ed in siffatto
stato d’animo guadagnò l’uscio del suo modesto appartamento.
La maggior parte avrà capito che la sua abitazione si trovava nel
modesto e pure caratteristico borgo di Pescarenico e più precisamente
in via Maggiore, al giorno d’oggi però tanto apprezzato.
Qui entrato si tolse il cappotto che appese sempre con cura su un
attaccapanni, riempì d’acqua una pentola che collocò sul fuoco
per farvi bollire quel cavolo che aveva acquistato al mercato la
mattina durante la pausa del lavoro, suo unico pasto frugale, e
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nell’attesa si sedette al desco, mentre nel frattempo il buio stava
sopraggiungendo.
Si guardò bene dall’accendere il riscaldamento, benché il termometro
non superasse i 15 gradi ed infatti faceva ancora molto freddo, per
cui il precedente richiamo alla frugalità era tutt’altro che casuale e
pletorico.
Mentre era in attesa di consumare il pasto, accese il televisore
rigorosamente in bianco e nero in quanto veniva trasmesso un
documentario di contenuto archeologico di Piero Angela, terminato
il quale, pose la protesi dentaria nella bacinella colma d’acqua, in cui
era stata messa a sciogliere una pasticca disinfettante ed ingerita la
solita mezza pastiglia di Tavor si coricò sprofondando in un sonno in
questo caso un po’ agitato.
Ma allora a questo punto un interrogativo sorge spontaneo e cioè
perché tale individuo dovesse masochisticamente ed oltre ogni
logica razionale privarsi di qualsiasi conforto benché usufruisse di
uno stipendio più che decoroso?
A ciò va aggiunto, il che è tutt’altro da sottovalutare, che nulla pagava
di affitto in quanto l’appartamento l’aveva ereditato dai suoi genitori
e che nell’arco di tutta la sua esistenza si era sempre guardato bene
dallo sbilanciarsi con donne e figli.
Fra l’altro poi la gente andava insinuando che pare possedesse in
banca depositi cospicui.
Giunti a questo punto sarebbe troppo facile concludere che il nostro
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Policarpo fosse afflitto dal riprovevole tarlo dell’avarizia, ma le cose
non stavano per nulla così ed infatti nel proseguo il tutto avrà la sua
logica giustificazione.
Acquate: Santuario di Lourdes
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Acquate: Santuario di Lourdes
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L’Adda… quella terricciola e sullo sfondo il Resegone
1�
Capitolo II
Le alterne vicissitudini di Policarpo
Per sollecitare ora la curiosità del lettore ci pare il caso di tratteggiare,
se pure a grandi linee, gli eventi che hanno caratterizzato il nostro
personaggio.
Il padre, che lo ebbe come figlio unico, rimasto fra l’altro vedovo
precocemente, era un semplice maestro elementare, ma dotato oltre
che di personalità, di buon gusto tanto da coltivare come unico hobby
quello della cultura, cui dedicò la maggior parte delle attenzioni
oltre che delle sue disponibilità economiche. Ogni suo risparmio fu
pertanto profuso per arricchire ed impreziosire la propria biblioteca
e cospicuo fu il patrimonio di cui verrà a beneficiare il figlio.
L’elenco comprendeva fra l’altro pregevoli edizioni di opere assai
note e mi limito a citare a caso La critica della ragion pura di Kant,
Il discorso sul metodo di Cartesio, La città di Dio di Sant’Agostino,
L’elogio della pazzia di Erasmo da Rotterdam, un’interessante
pubblicazione sulle Vite dei Papi, con dotti richiami pittorici,
ovviamente la Divina Commedia artisticamente illustrata dal Doré,
in conclusione parecchi volumi, alcuni di grande valore in quanto
rari.
1�
Ma in particolare degne di attenzione raccolte varie sulle antiche
civiltà, fra cui quelle degli Assiri e Babilonesi, degli Egizi, degli
Etruschi e delle Precolombiane.
Ed infine, assai considerevole, una rara edizione de I Sepolcri di Ugo
Foscolo, di cui devo far menzione perché avrà un peso determinante
sulle vicende di Policarpo.
Diciamo pure che questi della biblioteca ereditata ogni tanto attingeva
qua e là, anche se di tempo dopo il lavoro ne disponeva parecchio,
non certo comunque con passione spasmodica.
Sarà quindi il caso di individuarlo nei suoi lati ed aspetti caratteriali
e nella sua, si fa per dire, personalità.
Diciamo subito che crebbe giocoforza privo del calore materno e
quindi sotto l’egida esclusiva di un padre non molto espansivo e non
certo maestro di affabilità, il che ha sicuramente influito sulla sua
formazione col risultato poi tale da far disattendere la nota diceria:
“talis pater, qualis filius.”
Infatti sin dalla più tenera età il soggetto aveva manifestato
comportamenti assai strani che lo esponevano al ludibrio dei suoi
compagni di scuola, e sappiamo che i bambini sono i più crudeli
giudici nei confronti dei più deboli, talchè pure i suoi stessi
insegnanti sul giudizio di classe che lo riguardava avevano espresso
una valutazione che non avrebbe certo fatto felice qualsiasi genitore
e cioè che… aveva il senso del ridicolo.
In questo caso quale miglior difesa nel far sentire nei confronti di
1�
coloro che ti fanno passare per zimbello il peso dei propri pugni,
perché allora sei sicuro con tale reazione di assicurarti almeno il
rispetto?
Purtroppo però il nostro perseguitato era stato penalizzato dalla natura
con un fisico alquanto gracile, nel senso che era assai mingherlino,
per cui alla fine tutti i coetanei si accanivano contro di lui, tanto che
l’indifeso subiva e… come subiva!
Conseguito comunque e con qualche difficoltà il diploma di scuola
media inferiore, era stato avviato dal padre agli studi di ragioneria,
ma con risultati non certo incoraggianti anche per una certa indolenza
connaturata, tanto che non li completò.
Quindi un revisore dei conti in meno, il che tornò a tutto lustro della
categoria, anche se però per la legge dei contrasti questi i propri
conti in fondo li sapeva fare, ma a modo suo, come constateremo,
alla stregua degli avari e dei prodighi, come concepiti da Dante, i
quali appunto: “con misura nullo spendìo ferci” (non fecero nessuna
spesa con misura).
In siffatta situazione e cioè senz’arte né parte, solo grazie alle influenze
del padre e alla stima che questi godeva incondizionatamente nel
contesto sociale, tanto che aveva fra l’altro sdegnosamente escluso
che trovasse impiego nei ruoli comunali, essendosi reso vacante il
posto di accalappiacani, in quanto troppo esposto all’ironia della
gente, l’aspirante potè almeno venire assunto presso il locale Ufficio
delle Imposte Dirette, oggi delle Entrate, con la semplice mansione
1�
di commesso, nella sostanza di fattorino, fino poi, grazie ancora a
compiacenti raccomandazioni, a maturare quella di usciere.
Per completarne la descrizione aggiungo che, benchè non fosse certo
dotato di spiccata levatura intellettuale, qualche idea sua l’aveva almeno
nel campo della politica ove orientava le sue simpatie verso la sinistra.
A fronte invece del problema di Dio manifestava il più radicale
agnosticismo nel senso che rifiutava deliberatamente di prenderne
posizione, a verifica della pigrizia propria del suo carattere, prova
ne è che le sue frequenze nelle funzioni religiose avvenivano solo in
occasione di funerali o di matrimoni.
D’altronde non mi pare del tutto avventata l’opinione che la fede sia
un po’ come il coraggio manzoniano, nel senso che chi non ce l’ha,
non se la può dare.
Tale è infatti una illuminazione normalmente spontanea, quasi
una dotazione naturale che però in qualche caso può pervenirti ed
in proposito cito come esempio quello del beato Jacopone da Todi
che appunto, dopo una vita prettamente mondana e gaudente, venne
folgorato a seguito del ritrovamento di un rude cilicio sulle carni
della moglie, deceduta a seguito del crollo del pavimento durante
una festa da ballo.
Anche se di conversioni vere e proprie ne abbiamo molti altri eclatanti
esempi, e cito in particolare quella di San Paolo, dello stesso San
Francesco, che fu indotto a spogliarsi di ogni bene e, perché no,
anche quella dell’Innominato.
1�
Sempre infine a proposito del beato frate e del citato cilicio, da
lui scoperto con meraviglia, mi si consenta appunto una maliziosa
insinuazione e cioè che mi pare strano che questi ben noto, lo ripeto,
per le sue esuberanze giovanili ed intemperanze secolari, non avesse
mai gettato alla moglie nei momenti intimi almeno uno sguardo,
visto poi che, come riferiscono le cronache, pare che questa fosse
alquanto bella ed avvenente.
A questo punto per esaurire l’argomento a riguardo della fede non mi
posso esimere dall’esprimere un mio personale punto di vista.
Sono infatti dell’avviso che non vada riconosciuto merito alcuno
nei confronti di coloro che si vantano di essere credenti, come pure
indignazione e spregiudicatezza verso coloro che invece non sono
corredati da tale prerogativa, quasi fossero in colpa, perché basta
che il comportamento in vita di questi ultimi sia del tutto conforme
ai dettami del diritto naturale, che ha come principio fondamentale
quello del “neminem ledere” e come contrapposto l’ingiuria secondo
la concezione aristotelica.
Pacifico inoltre che il dono della fede non è per certo in noi
connaturato, anche perché non fa parte del nostro bagaglio originale,
come il cosìdetto peccato che il credo cristiano ha inteso addossare
all’umanità fin dalla nascita, in quanto la nostra mente nasce in
proposito invece come “tabula rasa”.
Sarà infatti poi solo compito dei nostri genitori od educatori il dovere di
inculcarcela, iniziandoci ai Sacramenti, salvo che nel corso dell’esistenza
1�
essere in certi casi gli eventi a farcela perdere o la tua potenziale
maturazione che ti permette di valutare sotto altra luce, e cioè quella
delle leggi della scienza, la natura delle cose ed i misteri dell’universo.
Aggiungo poi che vi è un’altra categoria a sconfessare il motto
“tertium non datum” secondo il quale nella logica della dialettica a
fronte delle due alternative ne sarebbe esclusa una terza.
E’ il caso di coloro che non sono per nulla osservanti in quanto non
alberga in loro valore morale e spirituale alcuno e il cui costume
di vita è un misto di epicureismo ed ignavia, nella sostanza anche
perché privi di qualsiasi valido interesse.
Spiego meglio dicendo che per “osservanza” si intende fra l’altro
l’accostarsi, se pure ogni tanto, ai Sacramenti oppure l’assistere alla
S. Messa in occasione delle festività religiose o per lo meno recitare
le preghiere.
Orbene costoro, tanto per portare alcuni esempi, la domenica mattina
invece di assistere alla troppa uggiosa Messa, preferiscono neghittare
oziando nella piazza con conoscenti in chiacchiere futili e banali.
Li vedi sì presenziare con aria di circostanza ai funerali d’obbligo
e solo col fine di essere notati, ma senza partecipare alla funzione
religiosa perché a loro proprio non gliene importa nulla, preferendo
stare fuori dal tempio intenti magari a parlare di interessi.
A Natale poi cosa c’è di più suggestivo della Messa di mezzanotte?
No, dato che quale migliore occasione per frequentare coi loro simili
le trattorie allo scopo di gustare la tradizionale busecca!
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Visto infine che il recitare le preghiere della sera è da loro considerato
una penitenza, allora pare più che giusto, appena si coricano sul letto,
tormentare invece il telecomando in ossequio alla insensata usanza
di sprecare i sonni per visioni già assaporate o per farsi grattare la
schiena dalla “nuda consorte a lato”, ma rassegnata. E qui appare il
caso di commentare… non ragioniam di lor, ma guarda e passa.
Avevo infine dimenticato di annoverare che vi sono troppi pseudo
Farinata (Il noto personaggio storico, al secolo degli Uberti, è
considerato da Dante l’eretico per antonomasia tanto che lo
evidenzia nell’Inferno nel cerchio riservato a tali peccatori.
Aggiungo che questi si è poi guardato bene dal ravvedersi anche
dopo la dannazione, almeno come ivi è rappresentato) finchè vi è
il conforto della salute, perché dopo un trascorso di vita del tutto
improntato all’altezzosità, si avvicinano invece alla fede diventando
scrupolosamente osservanti solo, come ho potuto constatare in troppi
casi, alle vere avvisaglie della vecchiaia e a fronte della paura della
morte e se questa non è ipocrisia!!!
Spiego a questo punto che il motivo di tale digressione in punto
fede è stato occasionato in quanto riguardante ancora il discorso sul
nostro Policarpo.
Avevamo già evidenziato come questi fosse del tutto indifferente al
problema di Dio, quindi nella sostanza pare ravvisarglisi un certo
ateismo.
Ma ecco contrapporsi in lui un atteggiamento che suona a mio avviso
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contradditorio visto che aveva concepito un convincimento del tutto
in contrasto con la dottrina degli atomisti e ne spiegherò il perché.
Orbene, secondo Leucippo e Democrito d’Abdera, che capeggiano
gli esponenti di tale filosofia, cui aderirono anche gli epicurei, tutte
le cose sono costituite dal vario aggregarsi di particelle individuali,
denominate appunto atomi, che si muovono nel vuoto.
Approfondendo il relativo pensiero anche l’anima veniva considerava
costituita da atomi, se pure più sottili, che però erano ritenuti pur
sempre materia, per cui la conclusione che questa muore col corpo.
Policarpo era invece fermamente convinto del contrario, quindi che
vi fosse un aldilà e vedremo come abbia maturato siffatta credenza,
donde le reazioni che ha poi via via concepito ed attuato.
La prima avvisaglia fu determinata da un viaggio in Egitto di cui
grazie al padre potè beneficiare quando era ancora studente nelle
medie e che ebbe come prima tappa la città de Il Cairo.
Interessanti furono le visite alle moschee e ai monumenti che
attestano il succedersi dei vari stadi dell’arte mussulmana, ma più in
particolare quella al noto museo ove vengono conservati le vestigia
e i reperti archeologici dei vari periodi di tale civiltà.
Ma ancora più affascinante fu la visita organizzata per raggiungere
la zona di El Giza in cui troneggiano le più celebri fra le piramidi.
Quale fu allora la meraviglia per il piccolo turista nel constatare
quali opere immense vennero innalzate per onorare e custodire un
corpo senza vita!!!
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Il San Martino domina Lecco da nord con le sue pareti strapiombanti e con i suoi costoni dirupati. Antonio Stoppani
riteneva questa montagna “la più bella del mondo”
2�
Capitolo III
La gita in Umbria
All’inizio di giugno era finalmente sopraggiunta l’estate che aveva
mitigato gli eccessi invernali protrattisi durante tutto il corso della
primavera, beneficiando finalmente l’umanità degli appetiti calori.
La neve infatti, che aveva imbiancato in modo inusitato anche le
pianure, andava via via sciogliendosi, ingrossando i torrenti e quindi
i fiumi che scorrono a valle.
Con l’avvento del settembre invece, normalmente dolce e temperato,
ecco però le prime avvisaglie dell’autunno che già preannunciava
il ritorno delle piogge e forse un’anticipata accensione del
riscaldamento, prospettiva questa che comunque lasciava del tutto
indifferente, come abbiamo rilevato, l’economo Policarpo, tutto
indirizzato al risparmio più assoluto.
Fu in tale frangente che per iniziativa dell’allora direttore e precisamente
del dr. Giuseppe Tucci, detto Beppe, venne organizzato un viaggio fra
i colleghi nella verde Umbria, cui tutti aderirono incondizionatamente
con entusiasmo, sia perché attratti dal fascino dei luoghi e delle opere
d’arte che avrebbero potuto ammirare, sia anche perché la quota di
partecipazione individuale era veramente irrisoria. Al finanziamento
2�
infatti avrebbe provveduto in prevalenza un fondo in giacenza in
dotazione del personale, destinato appunto a scopi ricreativi.
Uno solo però, ed è superfluo menzionare il peccatore, era del
tutto recalcitrante, trincerandosi dietro ad un diniego irremovibile
nonostante le insistenze, perché tutti in fondo gli volevano bene ed
avrebbero voluto che uscisse dalla sua vita monotona e si prendesse
finalmente qualche svago. Ma la Provvidenza, come ben si sa, non
ha limiti ed in questo caso sotto la personificazione del buon Beppe
che nella sua consueta ed apprezzata generosità si offrì di coprire
non solo la quota del renitente ma anche tutti ed ogni extra.
A proposito di tale beneamato direttore colgo l’occasione per
informare che, qui giunto, e cioè su quel ramo, dal lontano meridione,
aveva dimorato all’inizio nei pressi di via allo Zucco, ove è stato
collocato il palazzotto di Don Rodrigo, per trasferirsi in seguito più
in centro e cioè in fondo a viale Turati, in quella zona denominata
Santo Stefano, più nota perché vi furono sepolti i morti di una delle
tante pestilenze.
La comitiva partì pare il 25 settembre 1997 su di un pulmino
gentilmente sponsorizzato da un noto contribuente locale e cioè da
quel bizzoso ristoratore in quella località sotto lo scossone del San
Martino, la rupe tanto cara all’abate Stoppani.
Cosa non si fa per ingraziarsi i poteri forti!
La prima tappa fu alla volta del lago Trasimeno, con trasferimento in
giornata sui traghetti locali all’isola Maggiore, ove venne consumata
2�
la prima colazione, e dove, dopo l’acquisto di ricami, peculiarità
dell’artigianato locale, vennero visitate le varie chiese, veri gioielli
dell’architettura, con proseguimento infine sulla sponda in quel
luogo in cui sarebbero rimaste le tracce lasciate dal passaggio di San
Francesco.
Avevo però dimenticato di riferire che fra i partecipanti del gruppo si
era aggregata anche Ancilla, sorella di uno dei funzionari, visto che
l’invito poteva essere esteso anche a parenti stretti.
Aggiungo infine, a conferma del richiamo iniziale, che il tempo
incominciò subito a fare le bizze perché fu tutto un alternarsi di
precipitazioni e di schiarite, ma l’allegria era tanta.
Ovviamente il programma toccò via via i centri più importanti e
rinomati a cominciare da Perugia per far tappa in seguito a Todi, indi
alla volta di Gubbio, per finire, ciliegina sulla torta, ad Assisi.
Per chi non avesse fatto visita alle località appena citate, il che
ritengo una grave ed imperdonabile lacuna, segnalo subito che tutte
sono graziosamente ed armonicamente adagiate in zone collinari,
per cui il turista viene sottoposto a continui e faticosi saliscendi
che metterebbero a dura prova anche i garretti più collaudati, come
direbbe Alfredo Binda, ma andateci, andateci, perché ne vale proprio
la pena in quanto i tesori da scoprire sono tanti, proprio tanti!!
Quale miglior soluzione alternativa allora del ricorrere ai servizi dei
car-rouge che ti permettono di scorrazzare nei punti più prestigiosi
stando comodamente seduti e di ascoltare le spiegazioni ed i
2�
commenti diffusi nelle varie lingue tramite gli auricolari, installati
su ogni sedile?
A questo punto e solo a scopo accademicamente illustrativo
consentitemi di celebrare, seppure in modo sintetico, tali centri per
segnalare le bellezze più salienti.
Iniziando da Perugia, come passare sotto silenzio quel gioiello
maestoso che è la rinascimentale Piazza IV Novembre e che ospita
fra l’altro la Cattedrale dedicata a San Lorenzo, la Fontana Maggiore
opera di Nicola Pisano ed il Palazzo dei Priori, in cui ha sede la
Galleria Nazionale dell’Umbria ove sono esposte fra l’altro celebri
tele del Perugino, del Pinturicchio e di Piero Della Francesca?
Ma da ultimo ecco i contrafforti della Rocca Paolina, voluta da Paolo
III per tenere a freno quel gregge perugino troppo inquieto, abbattuta
poi a furor di popolo, come abbiamo appreso dal Carducci in quella
che a me pare la più lirica fra le sue composizioni e cioè Il canto
dell’amore, tratto dalla raccolta Giambi ed Epodi.
Benvenuti poi a Gubbio, la città più medioevale d’Italia, come si
autodefinisce per il turista che transita nei paraggi e come già si
intravede da chi ha il primo approccio e qui sì che il pendio si fa erto
e faticoso, solo addolcito da scale mobili.
Ma infine a tanta fatica la giusta remunerazione perché come non
restare impressa nella memoria Piazza della Signoria col Palazzo dei
Consoli, splendido esempio di architettura trecentesca ove ha sede la
pinacoteca che raccoglie dipinti di artisti umbri del quattrocento!
2�
E proseguendo ma nella parte bassa della cittadina, si possono
ammirare i resti archeologici appunto dell’età romana, fra cui il
suggestivo teatro costruito nel primo secolo d.c. che ricorda un po’,
fra le rovine romane, quello di Albenga.
Una visitina poi, il che non poteva mancare, a Todi, rimarchevole per
la Piazza del Popolo, ove hanno sede appunto i Palazzi del Popolo,
del Capitano e dei Priori, ma il tutto suggestivo perché qui è nato frà
Jacopone il cui monumento sepolcrale, che custodisce le sue spoglie,
è stato realizzato nella cripta del tempio di San Fortunato, protettore
della città e qui mi è gradita l’occasione per rievocare ancora tale
personaggio.
In proposito fra i componimenti poetici di argomento religioso il
focoso e perseguitato frate ha per certo ricoperto una veste di rilievo
ed in particolare con la più celebre e popolare fra sue laude e cioè
il Pianto della Madonna, che rappresenta una perfetta simbiosi fra
l’afflato religioso, che permea in tutti i suoi personaggi, e l’asciuttezza
del ritmo narrativo, che parrebbe anticipare il neorealismo italiano.
Non dobbiamo dimenticare infatti che la lauda, che è sorta in
concomitanza del moto dei flagellanti nella seconda metà del 1200,
era destinata alla rappresentazione teatrale tanto che fra i protagonisti
era pure inserito il coro ereditato dalle tragedie greche, che appunto
inneggiava tra un dialogo e l’altro: “crucifige, crucifige. Homo che
se fa rege, secondo nostra lege, contraddice al senato”, per cui non
poteva mancare l’elemento drammatico.
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E qui troppo irresistibile ed affascinante mi pervade il paragone con
l’altra sublime lauda e cioè Il cantico di Frate Sole, che rappresenta
da parte del nostro Santo Patrono il più ascetico esempio di lode a
Dio creatore, senza però assumere toni inquieti e di crudo realismo.
Ma ora, come avevo già preannunciato, la visita ad Assisi, ultima
meta del viaggio, che dovrebbe senza ombra di dubbio costituire la
tappa più carismatica e che più di ogni altra parrebbe elevare alla
devozione ogni visitatore, quale che sia il suo credo religioso.
Il giorno dell’arrivo fu esattamente il 26 settembre 1997 e l’intera
giornata venne dedicata ai monumenti più celebri della città fra cui spicca
il tempio pagano di Minerva, ora Santa Maria, in Piazza del Comune,
il Duomo di stile romanico e gotico dedicato al patrono San Rufino e la
chiesa di Santa Chiara, ove è appunto sepolta la Santa e dalla cui piazza
si può ammirare un panorama dell’Umbria a perdita d’occhio.
Il giorno successivo invece, e cioè il 27 settembre 1997, e insisto su tale data,
venne riservato interamente alla visita della Basilica di San Francesco. Come
noto tale complesso monumentale consta di due chiese sovrapposte ad unica
navata, alla cui decorazione concorsero i più grandi artisti del ‘200 e del ‘300.
In particolare nella Basilica Superiore rilevanti sono gli affreschi di Giotto
raffiguranti la vita del Santo, ma ancora di più nella Basilica Inferiore
quelli sempre di Giotto, poi di Pietro Lorenzetti e Simone Martini, oltre
a quello raffigurante la Madonna in trono col Bambino tra Angeli e San
Francesco, molto suggestiva perché il colore si è offuscato assumendo
un tono languido e giallo rosato, opera questa del Cimabue. Va infine
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messo in evidenza che nella cripta sottostante la chiesa inferiore si trova
la tomba in cui riposano i resti mortali del Santo, luogo questo per certo
il più mistico di tutta l’Umbria e meta fervente di fedeli provenienti da
ogni parte del mondo, ove la mente umana s’inchina.
Riprendendo la nostra narrazione ad un certo punto per pura
combinazione Ancilla e Policarpo si ritrovarono soli ed isolati dal
resto della comitiva e fu allora che questi, quasi coinvolto da un
richiamo inconscio ed irresistibile, tale da trovare giustificazione
solo da chi presta fede ai fenomeni paranormali, evitò di entrare
nella chiesa superiore per accedere direttamente nella sacra cripta.
Dopo la dovuta pausa di meditazione, Ancilla ordinò una messa per i
propri genitori ad un frate a ciò preposto e fu qui che si avvertì dalle
pareti un scricchiolio che però non allarmò più di tanto i presenti.
Istintivamente i due guadagnarono comunque l’uscita e lo spettacolo
che subito gli si prospettò fu dei più terrificanti possibili perché le
case alla loro vista apparvero quasi tutte “spezzate, smozzicate,
sgretolate”, tanto che in un istinto solidale ed in uno slancio protettivo
si trovarono abbracciati l’uno all’altra e parve balenarsi l’eventualità
che la cosa avrebbe potuto avere in futuro degli sviluppi.
Avevo comunque insistito sulla data del 27 settembre 1997 proprio
perché tale giorno fu funestato dal terremoto che distrusse numerosi
comuni umbri e marchigiani e che per quanto riguarda Assisi provocò
il crollo parziale della Basilica Superiore, uccidendo due frati e due
tecnici della Sovrintendenza.
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Per fortuna però tutti i membri del gruppo riuscirono indenni,
cavandosela ovviamente con tanto spavento, salvo un funzionario,
certo dott. Gigi M. Riva, che si beccò sul capo un comune travicello,
per nulla di nobile lignaggio, riportando però, in quanto zoccolo
duro, solo una semplice contusione.
Salvo però, causidico com’era, pretendere al ritorno di rivendicare
ad ogni costo i danni al Ministero della Protezione Civile in quanto
non avrebbe allertato la popolazione sull’imminente rischio sismico,
affidandosi al suo amico avvocato, di cui tralascio il nominativo, che
naturalmente perse la causa.
Assisi: Basilica di S. Francesco
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Capitolo IV
Ancilla ed il benefattore
Al ritorno della comitiva dall’Umbria la vita ovviamente riprese
per tutti il suo tram tram usuale, ma non fu così per Ancilla ed in
proposito ecco l’occasione per presentarla.
Originaria di Rivalba paesino appena sopra Bellano, quel piccolo
centro sito sulla sponda orientale del Lario, più noto per l’Orrido,
formato dal torrente Pioverna al suo sbalzo dalla Valsassina, ove
la corrente si getta in profonde grotte, che per aver dato i natali a
Tommaso Grossi ed Andrea Vitali, terminati gli studi inferiori
aveva maturato il primo impiego presso l’economato dell’Ospedale
Umberto I per poi, essendosi specializzata in informatica e ricerche di
mercato, trasferirsi nel capoluogo in quanto assunta come segretaria
del direttore generale in una nota azienda dolciaria, mansione questa
di particolare prestigio.
Non molto avvenente, anche se belloccia, tanto che non sarebbe
stata nel numero delle venti, se alludiamo alla classificazione che
Dante aveva concepito coi colleghi stilnovistici circa le più belle
donne di Firenze, era comunque di sani ed onesti principi oltre che
scrupolosamente osservante.
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Nel completarne il quadro, aggiungo che era reduce da una
delusione amorosa, da cui non si era ancora ripresa, quando ebbe a
scoprire che il suo Lui, coetaneo e compagno sin dall’infanzia, era
irrimediabilmente gay.
Da allora infatti non ne volle più sapere di implicazioni amorose,
tanto che si conservò “parthenos admes” che tradotto dal greco
significa “vergine intatta”, cosa assai inconsueta di questi tempi.
Aveva optato quindi di buon grado di vivere insieme al fratello pure
lui scapolo, con la compagnia poi di Fifi, una gatta bianca molto
affettuosa e prodiga di fusa.
Ma giunti a questo punto tutto sembra mutare ed un nuovo orizzonte
pare dischiudersi in lei per effetto della galeotta gita in Umbria.
Religiosa infatti com’era, visti gli imprevedibili e fausti sviluppi, si
considerava un po’ come miracolata e vedeva quindi in Policarpo
l’inviato della Provvidenza, per cui bisognava però trovare l’occasione
per manifestargli ed esprimergli la gratitudine.
Questa venne grazie al compleanno del dr. Perillo, che aveva deciso
di festeggiarsi a casa sua con un rinfresco ed al festino non poteva
mancare Policarpo, mentre l’invito fu esteso al fratello di Ancilla
unitamente a lei.
Verso la fine del trattenimento venne organizzato il ballo con la scopa,
che da un lato ha lo scopo di variare la composizione delle coppie,
mentre d’altro lato, come tutti ben sanno, di sottoporre ad una penitenza
chi si troverà con la scopa in mano alla fine del brano musicale.
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Al gioco aveva partecipato anche Policarpo, piuttosto maldestro
nell’arte della danza tanto da venir tacciato come lo schiaccianoci,
ed era quasi sempre lui il perseguitato cui veniva scaricato l’attrezzo
che però nell’occasione riuscì in estremis ad appioppare al suo
direttore, che in quel momento concitato stava proprio ballando con
Ancilla, così da prenderne il posto.
Da qui ebbe inizio uno scambio di parole che via via assunse toni
sempre più frequenti e confidenziali, donde il ricercato spunto da
parte di Ancilla per manifestare quanto sentiva nel proprio intimo, il
che non dispiacque affatto al suo interlocutore. E da allora, se pure in
modo assai riservato, i due rinnovarono i loro colloqui.
I rapporti ovviamente erano esclusivamente platonici, visti anche i
complessi e la connaturata timidezza di Policarpo in quanto del tutto
digiuno e sprovveduto nei riguardi del mondo femminile, ma poi
certi sviluppi possono sempre venire da soli anche perché, se son
rose, prima o poi potrebbero fiorire.
Ecco però a questo punto assurgere a ruolo di protagonista la fama, quella
divinità malefica che ci viene raffigurata da Virgilio nell’Eneide come un
uccello che “quante ha penne per il corpo, tanti ha vigili occhi, lingue e
bocche, tanti dirizza orecchi”, dato anche che il suo spaziare non ha tregue.
Donde la loro discreta vicenda finì per divenire, come spesso accade,
l’oggetto e l’argomento di conversazione di ogni circolo a loro
connesso e quindi lo sfogo per morbose curiosità, con l’effetto di
petulanti ed oziose invasioni nell’altrui sfera privata.
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Tutto sommato sembrava che più per volontà degli altri questo
matrimonio s’aveva da fare, quale lo pensassero i protagonisti e
cioè la tiepida Ancilla ed il pigro Policarpo, per il quale comunque
l’evento non sarebbe stato il peggiore dei mali, come trascinato da
qualcosa più forte di lui.
Ma a questo punto le prime avvisaglie negative, meglio gli screzi
insormontabili.
A celebrazione avvenuta sarebbe stata Ancilla a doversi trasferire
nell’abitazione dello sposo quale domicilio coniugale ma, visto
che lo stato di manutenzione dell’appartamento era tutt’altro che
impeccabile per la usuale economia esasperata, si rendeva necessaria,
a parte una ristrutturazione, almeno la tinteggiatura dei locali, a
prescindere poi dall’arredamento che andava modernizzato, fra cui
anche il telefono in coerenza coi tempi di Carlo Codega e non certo
a tastiera.
Ma il redivivo Arpagone, proprio perché certi eccessi avrebbero
messo in minoranza addirittura il noto protagonista molieriano, non
se la sentiva ovviamente di cacciare una lira per le spese necessarie
a tali scopi, visto appunto che allora non era stato introdotto ancora
l’euro.
Figuriamoci poi per quanto riguarda l’abbigliamento nuziale, l’offerta
alla chiesa, la spesa degli anelli, il contributo per il più sobrio dei
rinfreschi, dato che di viaggetto di nozze anche fuori porta non era
assolutamente il caso di parlare!!!
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Tralasciamo quindi di riferire al lettore come le cose sarebbero
inevitabilmente andate a finire, il che avvalora e conferma l’opinione
manifestata dal dr. Perillo nel colloquio avuto con la sig.ra Agostoni
quando a proposito del proprio usciere, nel disapprovarne certe
manie, aveva aggiunto che se era troppo solo, era lui che in fondo lo
aveva voluto.
Ma Ancilla?
Forse non se la prese più di tanto al cospetto di questa nuova, almeno
così la qualificherei, disavventura e donde la rottura definitiva, salvo
la riflessione che dal tuo prossimo puoi spesso aspettarti qualsiasi
risvolto.
Chiuso questo capitolo, inevitabili però nuovi risvolti.
Il Ministero del Lavoro aveva appena bandito un concorso per i
pubblici dipendenti che avrebbe loro consentito sulla base dei punteggi
maturati un favorevole avanzamento sia sotto il profilo normativo
che economico, fra cui la possibilità per coloro che non erano addetti
a mansioni di concetto del passaggio ai ruoli impiegatizi.
Poteva essere l’occasione buona per Policarpo salvo che la condizione
necessaria per il concorso era il possesso di un diploma di scuola
media superiore, quale ad esempio quello di ragioniere o geometra,
cosa di cui questi era sprovvisto.
Ma a tutto vi è sempre un rimedio ed infatti l’ostacolo poteva essere
facilmente raggirato dato che in un noto capoluogo dell’Italia
meridionale il titolo poteva facilmente essere conseguito, perché
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bastava ungere un po’ le ruote dei membri della commissione
d’esame, quindi nella sostanza comprarli.
Ed in proposito ne sanno qualcosa tanti professionisti locali che
hanno usufruito di siffatti marchingegni per superare certi esami di
stato e pertanto per potersi iscrivere ai relativi albi professionali.
Bisognava pertanto entrare nell’ordine di idee di sottoporsi a qualche
sacrificio economico, fra cui non ultimo quello per il trasferimento
e la permanenza nella località ove avevano sede gli esami e cioè al
sud.
Ecco però la solita sinfonia che così si può musicalmente intonare
parafrasando Albano e cioè “nostalgia, nostalgia canaglia”, salvo
che nostalgia va sostituita con parsimonia!!!
E qui purtroppo neanche la generosità del buon Beppe Tucci avrebbe
potuto sopperirvi, a parte il fatto che non era più in attività essendo
intervenuto per lui il trattamento di quiescenza, in quanto mai avrebbe
approvato siffatti compromessi troppo contrari ai principi della sua
integrità morale.
In conclusione anche in questo caso non se ne fece nulla e sappiamo
bene a che cosa vada imputato.
Ma ecco cambiare ora lo scenario in quanto ci trasferiamo nella
dimora dalle gelide pareti dell’irriducibile usciere intento prima a
stirare i propri capi di abbigliamento naturalmente con le mani e cioè
senza l’ausilio del ferro per risparmiare sulla corrente e in seguito a
consumare la sua frugale cena costituita da patate lesse condite con
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un raro sgocciolio di olio, come ci aveva imposto il Duce all’epoca
delle sanzioni, il tutto annaffiato con acqua di rubinetto, quando
qualcuno suonò alla porta. Chi sarà mai?
All’invito avanti, compare alla soglia chiedendo discretamente
permesso, un signore alquanto pingue ma dall’aspetto assai distinto,
che così si presenta: “Buonasera sig. Policarpo, sono Giacomo De
Santis e mi scuso dell’invadenza in un orario così inopportuno, ma
penso che la ragione della mia visita potrebbe farmi assolvere”.
“A sua disposizione e per riverirla ragioniere.”
Tale era stata la risposta di Policarpo in quanto l’inaspettato ospite
non era per nulla a lui persona sconosciuta e così poi proseguì il
dialogo: “Anzitutto mi pregio di aver avuto come insegnante suo
padre in IV e V elementare. Quanta rettitudine ed umanità in lui
tanto che è una persona che non dimenticherò mai!”
“Pure io e non penso proprio di meritarmelo,” approvò il nostro
alzandosi discretamente dopo di aver posto la forchetta sul piatto.
“Vengo ora al dunque. Ho la fortuna di possedere una discreta
biblioteca, frutto della cultura avita. Il mio desiderio massimo, tanto
che ne ho fatta una ragione di vita, sarebbe di poterla arricchire con
i preziosi volumi, e ben più pregiati, di cui lei ha il privilegio di
disporre, come ormai a conoscenza di tutti.
“Intendo, la sto ascoltando con attenzione e curiosità, ma continui
pure.”
Tale fu la risposta di Policarpo.
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“Orbene, vorrei costituire con detta fusione, anche se penso
esagerato definirla missione, una fondazione intestata ovviamente al
nominativo del suo beneamato genitore, per farne dono alla nostra
collettività, augurandomi che torni a benefico impulso della cultura
locale, tanto trascurata ai giorni nostri”.
“Più che lodevole ed interessante iniziativa, il che farebbe onore al
riconoscimento che qui le viene attribuito e cioè di benefattore, ma a
questo punto pendo solo dalla sua bocca”, commentò Policarpo.
“Le posso subito anticipare che la mia offerta è quella a cui non si
può dir di no, tanto più che mi pare che da un po’ di tempo lei non se
la passi molto bene”, concluse il De Santis. E qui venne sparata una
cifra a molti zeri, che lascio al lettore indovinare.
“Mi scusi, ma da dove le sarebbe pervenuta siffatta notizia?” Così
reagì il supposto male in arnese.
“Chiedo umilmente venia per tale mia inopportunità, ma il nostro è un
piccolo centro e la gente dice molte sciocchezze frutto dell’ignoranza
che la conforma, anzi della malignità propria di chi non è avvezzo ai
valori morali”.
Ora una pausa di silenzio, perché Policarpo appare tutto assorto nel
fare chissà quali calcoli, e quindi la risposta che potrebbe stare scritta
in un francobollo e cioè… accetto e ringrazio!
Venne quindi stilato e sottoscritto un compromesso che prevedeva
che il pagamento sarebbe avvenuto tramite bonifico sulla Banca del
Vaticano.
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Più capiente di quella?!
Per l’effetto tutto il detto materiale sarebbe quindi passato nella
disponibilità dell’acquirente eccetto però la rara edizione de I
Sepolcri di Foscolo che, non si sa come, era finita dimenticata in un
ripiano del comodino.
L’incontro venne poi solennizzato con una stretta di mano e fu in
tale occasione che Policarpo potè sbilanciarsi offrendo un caffè al
generoso filantropo.
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Bellano: Orrido
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Bellano: Orrido
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Capitolo V
Il culto dei morti
Non erano ancora passate ventiquattro ore dall’imprevisto quanto
proficuo colloquio quando Policarpo nel chiuso delle sue per nulla
radiose pareti si soffermò prima a meditare sul patrimonio di cui
poteva al momento disporre, poi per valutarne la consistenza,
essendosi premunito della calcolatrice in dotazione del suo ufficio
della quale per l’occasione si era impadronito.
Da un lato il primo calcolo aveva riguardato i risparmi, e che risparmi,
accumulati nel corso di una vita, il che richiama alla memoria
il protagonista di “La roba”, maggiorati degli utili conseguiti per
effetto di costanti proficui e fortunati investimenti, grazie all’addetto
all’ufficio titoli della sua banca, cui aveva dato in gestione ogni sua
attività.
Alla resa dei conti, anche per l’effetto della costante capitalizzazione
degli interessi attuata con puntualità svizzera, il portafoglio maturato
veniva a soverchiare anche la più rosea delle aspettative.
Se a ciò poi si aggiunge il notevole incremento dovuto alla generosa
elargizione del benefattore, si arrivava ad una cifra che avrebbe
appagato persino Paperon de Paperoni.
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A tale constatazione il nostro ormai Creso sbottò in un’esclamazione
gioiosa come se venisse inserito in un formicaio un amplificatore
a 1.000 Watt, che avrebbe comunque paradossalmente offuscato
il frastuono incessante di certi stadi mondiali, piagati da siffatte
ciaramelle di tradizione boera, lì denominate esoticamente wuwuzela
che richiamano quelle da noi venute dai monti oscuri.
Occorre a questo punto risalire al viaggio che Policarpo fece
ancora assai giovane in Egitto e l’impressione che ne ebbe dopo
di aver ammirato le piramidi e le numerose altre tracce di pregio
archeologico.
Pare all’uopo che furono proprio gli Egizi i primi a porre in uso le
tombe sotterranee e cioè le cosiddette necropoli, il che significa città
dei morti, in cui furono rinvenute le più belle mummie e i più antichi
papiri.
Scartabellando inoltre qua e là nella biblioteca paterna non passarono
inosservati gli ipogei degli Etruschi in cui vennero ricavate le tombe
a camera quadrata scavate nella roccia, dette anche cinerari, notevoli
per le sculture e le decorazioni dipinte sulle pareti e qui Tarquinia
costituisce l’esempio più eclatante.
Particolare curioso è che nelle urne cinerarie furono addirittura
rinvenuti i bicchieri dell’ultimo brindisi effettuato in occasione della
inumazione.
Ma quanto altre e diverse civiltà hanno dedicato al culto dei morti!
Merita considerazione oltre alle sopraddette, quello tributato dagli
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Assiri-Babilonesi, e cioè dalla cosiddetta civiltà accadica, per le
sculture in terracotta che pare raffigurassero l’effigie e la vita del
defunto.
Da qui poi l’occasione per spaziare oltremare e fare una trasvolata
nell’emisfero opposto ove è affascinante l’impatto con le civiltà
precolombiane ed in particolare quella dei Maya e degli Aztechi.
Ma in proposito ciò che lascia sbalorditi è la scoperta che civiltà
tanto agli antipodi paiano legate telepaticamente dal medesimo filo
conduttore, dato poi che non vi è traccia di missioni argonaute che ne
abbiano fatto da anello di congiunzione. Alludo alla constatazione che
a longitudini così distanti certi sviluppi creativi siano stati realizzati
secondo le medesime concezioni architettoniche e con tecniche del
tutto analoghe.
Perché anche qui si elevano gigantesche piramidi per lo più a gradini
e a pianta quadrangolare o rettangolare, sulla cui sommità spesso
sorge un edificio templare, con sempre però presenti nell’interno le
ricchissime tombe dei dignitari di allora.
Proseguendo nell’argomento relativo al culto su cui mi sto
soffermando, la nostra attenzione non può prescindere dai doni votivi
affidati nelle tombe e cioè dai tanti oggetti di valore inestimabile che
spiccano sia per il pregio dei metalli che li compongono sia per le loro
lavorazioni forgiate dai più validi artisti e l’eccellenza va attribuita
alla civiltà egizia, tanto che nella scia della dignità dei defunti fra gli
esempi più mirabili annovero quelli reperiti accanto al sarcofago del
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mitico Tutankhamon sepolto nella valle dei Re, su cui troneggia il
simulacro evidenziato in copertina.
Rilevo in particolare che siamo di fronte ad una delle poche tombe
trovate quasi intatte, tanto che gli oggetti rinvenuti e di primaria
importanza fanno tutti bella mostra di sé al museo del Cairo.
Sempre poi nel nostro itinerario alla ricerca delle reliquie proprie delle
più interessanti civiltà un più che degno riconoscimento va riservato
a Schliemann per le importanti scoperte archeologiche fra cui quella
che ha portato alla luce a Troia il cosiddetto tesoro di Priamo ed a
Micene il complesso delle tombe attribuite ad Agamennone anche
qui con tesori di straordinaria ricchezza.
Permettetemi però ora di fare un volo pindarico e di risalire, sempre in
tema di preziosi elargiti in camera de profundis, addirittura al Medio
Evo, richiamando una spassosa e sapida novella del Boccaccio che
ha come protagonista tale Andreuccio da Perugia, quel simpatico
personaggio vittima di incredibili disavventure.
Ed a proposito del celebre novelliere colgo l’occasione per mettere
in luce in modo particolare da un lato l’arguzia e la fertile vena
comica con cui ha saputo caratterizzare tutte le vicende e gli intrighi
in cui sono stati coinvolti i suoi protagonisti, ed infatti non per nulla
è stato coniato il termine “boccaccesco” a significare le situazioni più
piccanti, scabrose ed imbarazzanti, mentre dall’altro che il trecentesco
letterato è stato uno dei padri ed artefici del nostro idioma, tanto che fu
rimpianto dai contemporanei come l’ultimo nobile genio del secolo.
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Ragguagliando ora il lettore sulla novella che tanto è rimasta impressa
nella mia mente, ecco l’ingenuo Andreuccio che, venuto dalla città
umbra, giunge a Napoli a comperar cavalli, ma qui è costretto a
scampare da tre gravi accidenti che lo sorprendono in una sola notte.
Mentre infatti ostenta incautamente la sua borsa colma di fiorini
d’oro, viene adocchiato da una cortigiana che facendogli credere di
essere sua sorella, nata da una relazione del padre in Sicilia, riesce
con la scusa di ospitarlo a spogliarlo di tutto il peculio.
Nella maturazione della vicenda, dovendo poi “disporre il superfluo
peso del ventre precipitò da uno sconnesso gabinetto pensile cadendo
dall’alto”, … “ma tutto della bruttura della quale il luogo era pieno,
si imbrattò.”
Volendo a questo punto tornare in albergo, donde il richiamo
all’argomento dei doni votivi, viene costretto ad accompagnarsi
con dei malfattori se non si calerà nella tomba di un arcivescovo di
Napoli chiamato messer Filippo Minutolo, effettivamente esistito,
che “era stato quel dì sepolto con ricchi ornamenti e con un rubino al
dito, il quale valeva oltre 500 fiorini d’oro.”
Nel corso dell’operazione poi a seguito di contrasti insorti perché
Andreuccio, come fu disceso, “così di dito il trasse all’arcivescovo
e mise a sé…”, i complici del saccheggio che erano come lui
maliziosi, “tirarono via il puntello che il coperchio dell’arca sostiene
e fuggendo, lui dentro all’arca lasciaron rinchiuso”, senza alcuna
possibilità per il malcapitato di poter uscire.
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Ma qui l’improvviso ed imprevedibile lieto fine, per cui leggete
con me: “ed in così fatti pensieri e doloroso molto stando, sentì per
la chiesa andar genti e parlar molte persone, le quali, sì come egli
avvisava, quello andarono a fare che esso co’ suoi compagni avevan
già fatto; di che la paura gli crebbe forte. Ma poi che costoro ebbero
l’arca aperta e puntellata, in quistion caddero chi vi dovesse entrare,
e gnuno li voleva fare; pur lunga tencione un prete disse: - che paura
avete voi? Credete voi che egli vi manuchi? Li morti non mangiano
gli uomini; io v’entrerò dentro io. – E così detto, posto il petto sopra
l’orlo dell’arca, volse il capo in fuori e dentro mandò le gambe per
doversi giusto calare. Andreuccio questo vedendo, in piè levatosi,
prese il prete per l’una delle gambe e fè sentirgli di volerlo giù tirare.
La qual cosa sentendo il prete mise uno strido grandissimo e presto
dall’arca si gittò fuori; della qual cosa tutti gli altri spaventati, lasciata
l’arca aperta, non altrimenti a fuggir cominciarono che se centomila
diavoli fossero perseguitati.”
Per i curiosi che ne volessero sapere di più consiglio di consultare in
proposito il Decamerone ov’è appunto riportata questa novella.
Riprendendo a questo punto l’argomento interrotto dal gustoso
racconto quante altre attenzioni le ricerche archeologiche ci hanno
rivelato ciò che l’uomo ha dedicato ai propri defunti!
Quando tradussi ai tempi del liceo i Dialoghi dei Morti di Luciano di
Samosata si accennava, se ben ricordo, all’obolo che veniva lasciato
nelle tombe per pagare il Caronte di turno.
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Ma ciò che mi lascia più perplesso ed incredulo è la scoperta che
nelle stesse furono rinvenute tracce dei cibi più svariati, fra cui anatre
e birra, come è emerso anche da un ritrovamento di questi giorni, che
dovevano essere utilizzati dal defunto per affrontare il lungo viaggio
nell’oltretomba.
Ed infine a proposito sempre di Inferi, Ade, Orco, Dite, Parche,
richiamo a caso alcune citazioni dei più celebri poeti che hanno
inteso avallare la credenza dell’uomo nell’esistenza di un aldilà, ove
tutte le anime confluiscono dopo la morte.
Il primo esempio mi viene dall’Iliade a proposito dello spirare di
Patroclo, l’amico intimo di Achille, per mano di Ettore, perché così si
esprime Omero: “discinta dalle membra scese l’alma a Plutone, la sua
piangendo sorte infelice e la perduta insieme fortezza e gioventù.”
Nel proseguo del poema poi tale è il commento a seguito dell’infausta
fine di Ettore per opera di Achille: “scinta dal corpo, prese l’alma il
suo volo verso l’abisso, lamentando il suo fato ed il perduto fior della
forte gioventù.”
Del tutto originale è poi la successiva descrizione in cui viene
evidenziato l’accorrere d’ogni intorno dei nemici Achivi:
“contemplando d’Ettore meravigliati l’ammirande sembianze e la
statura”, immagine questa che mi riporta alla memoria “La quercia
caduta” del Pascoli.
Il richiamo anche all’Odissea non è tanto dissimile, perché anche
Ulisse scende all’Ade per parlare con le pallide ombre dei morti,
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fra cui la madre Anticlea, che riconosciutolo piangendo disse:
“come alle fosche tenebre scendesti pur essendo ancora vivo, o mio
figliolo?” Donde la risposta: “o madre mia, necessità mi trasse nelle
case dell’Ade a interrogare l’anima di Tiresia tebano.”
Medesimo evento capita poi anche ad Enea il quale, dopo essere
stato traghettato sulla palude Stigia dall’arcigno nocchiero Caronte,
riconosce fra le ombre Didone ancora fresca dalle ferite, cui si rivolge
piangendo: “infelice Didone, annunzio vero dunque mi giunse che eri
morta e corsa di tua mano alla fine! Ah fui cagione della tua morte”. Ma
quella per nulla intenerita, così reagì con atteggiamento estremamente
risentito :”A terra fissi gli occhi teneva in altra parte volta.”
E che dire poi dell’infelice leggenda di Orfeo ed Euridice, che tanto
interesse culturale ha suscitato nel corso dei secoli sia nel campo
letterario che in quello musicale, descritta in modo toccante anche
da Ovidio in una delle sue metamorfosi. Il poeta infatti con grande
calore intensivo narra che Euridice nel tentativo di sottrarsi con la
fuga al pastore Aristeo, che cercava di usarle violenza, si imbattè in
un serpente velenoso e ne ricevette un morso mortale. Per poterla
riavere Orfeo, inconsolabile nel suo dolore, scese agli Inferi e grazie
alla sua abilità di cantore ottenne di ricondurla sulla terra, ma alla
condizione imposta che non si volgesse a guardarla prima dell’uscita.
Quasi al termine però questi non seppe resistere al desiderio di sapere
se essa realmente lo seguiva voltandosi indietro, per cui l’amata si
dissolse alla sua vista e venne risucchiata nuovamente nell’Ade.
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Dopo i suddetti richiami taccio Dante perché al più comune dei
lettori nulla potrei aggiungere né più di tanto illuminare.
Giunti a questo punto sarebbe curioso indovinare quale sia
stata la reazione di Policarpo dopo di aver riconsiderato come in
un’immagine proiettata sullo schermo tutti questi diversi rilievi, da
lui tratti dalla biblioteca paterna, che hanno però una confluenza
comune e cioè l’incondizionata e naturale proiezione che l’uomo ha
sempre riservato in omaggio ai cari estinti.
Donde il ferreo convincimento che la vita non poteva affatto finire
con la morte del corpo, ma che qualcosa dovesse pure sopravvivere,
quindi che vi fosse un aldilà, il che parrebbe fra l’altro dare un senso
logico al culto su cui ho inteso soffermarmi, perché meritevole di
approfondimento in quanto fra l’altro fra i più inveterati.
Aggiungo infine che l’accennato convincimento, assunto per lui a
vera propria fede, gli venne forse rafforzato dalla constatazione che
era stato fatto proprio nel passato da troppi uomini di alta levatura
intellettuale per cui, se questi vi avevano creduto, altrettanto poteva
esserlo anche per lui.
Si trattava però evidentemente, visto che Policarpo, agnostico
com’era, non era confortato dalla credenza in Dio, di una concezione
del tutto anomala perché chi crede nell’immortalità dell’anima
non può prescindere dall’esistenza di Dio e tale è l’equazione
ineluttabile.
Si può invece credere nell’esistenza di Dio senza però dare per
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scontato che l’anima debba essere da Lui gratificata col dono
dell’immortalità, quasi questi si disinteressasse dell’uomo o quanto
meno del premio o della punizione a lui riservata, ma tale sarebbe il
Dio dei pagani nel cui culto predomina l’elemento materiale senza
alcuna illuminazione spirituale.
A proposito infine del nostro Dio mi sorge spontanea la considerazione
e cioè che, se nel suo disegno imperscrutabile Egli ha inteso
gratificare i più meritevoli col Paradiso, allora anche Lui ha bisogno
dell’uomo.
Eccoci quindi giunti finalmente al doveroso momento di tirare le fila
di tutto il costrutto, anche perché siamo in debito di una spiegazione
e con ciò alludiamo a quanto all’inizio del presente capitolo ci
eravamo proposti nei confronti del lettore.
Entrando nel cuore della reazione emotiva del nostro bizzarro
protagonista, conseguente fu per lui il vagheggiare, come folle l‘idea,
di riposare il sonno eterno all’interno di un’urna che però avrebbe
dovuto essere necessariamente di un metallo di particolare pregio e
si badi bene, non laminato ma massiccio.
Non meravigliamoci più di tanto visto che qualcuno chissà a quale
prezzo ha deciso di farsi ibernare nella speranza di un possibile
risveglio.
Quale infatti a giudizio di Policarpo maggior conforto e migliore
gratificazione nel corso appunto del sonno eterno, doni votivi od
alimenti per la sopravvivenza a prescindere?
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Nella soluzione venne subito scartato l’argento in quanto ritenuto
troppo vile nella dignità dei valori per cui la scelta, dato che la bara
è un rifugio, avrebbe dovuto ricadere sull’oro che è appunto il bene
rifugio per eccellenza.
La spuntò invece il platino, quel metallo splendente, di colore bianco
e di recente scoperta che si trova allo stato naturale nella sabbia,
spesso mischiato con l’oro, con cui entra in lega, insieme ad altri
metalli quali il rame in quanto soggetti a polverizzazione, essendo
entrambi relativamente teneri.
A causa della sua inalterabilità ai fattori ambientali esso viene
spesso utilizzato in oreficeria oltre che nei più svariati impieghi per
le sua notevoli proprietà.La preferenza comunque pare fosse stata
determinata anche dal particolare richiamo e fascino che tale metallo
prezioso suscita istintivamente nell’uomo, così da essere ambito
oltre ogni predilezione.
Per effetto della voluta decisione, fu subito richiesto un preventivo
del manufatto niente meno che a Tiffany in quanto nessuno era più
qualificato nell’ambito internazionale, mentre il costo fu di quelli che
fanno mozzare il fiato, anche se le dimensioni di tale follia non erano
per nulla a misura di corazziere, giustificato però dall’elevato prezzo
del metallo dato che nei confronti dell’oro esso è più raro in natura,
donde le quotazioni alle stelle, il che rientra in una delle leggi cardine
dell’economia, cifra che comunque non fece per nulla battere ciglio
al committente.
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Ecco poi infine la spiegazione circa la condotta di vita che Policarpo
si è visto costretto ad adottare per realizzare la massima delle sue
aspirazioni, ciò attraverso le varie fasi che hanno avuto come punto
di partenza la più scrupolosa delle parsimonie, seppure questa venga
considerata una virtù, per confluire in un costume di economia
all’osso e per sfociare da ultimo nella più sordida delle taccagnerie,
il tutto però alla luce e giustificato dal noto motto del Machiavelli.
In conclusione, se questa non è una sorpresa!
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Capitolo VI
Alla ricerca del tempo perduto
E’ d’uopo ora risalire all’introduzione del precedente argomento e alla
valutazione sul proprio patrimonio disponibile effettuata dal nostro
protagonista nel chiuso delle sue pareti domestiche, il tutto sfociato
nello sfogo festoso cui ho voluto conferire un colore particolare
col richiamo al frastuono di quei folkloristici pifferi denominati
nell’idioma autoctono vuvuzela.
Quando poi venne l’ora del consueto sonno, questo però nonostante
la mezza pastiglia di Tavor era ben lungi dal sopraggiungere e del
perché ve ne è ben donde.
Non appena infatti fu da lui manifestato il coronamento del proprio
motivo di appagamento, fino a questo momento però da me
scrupolosamente sottotaciuto, il tutto era dovuto al fatto che i calcoli
gli avevano assicurata come finalmente realizzata quella somma che
gli avrebbe consentito di far fronte al tanto agognato acquisto.
Trattavasi di attendere sino all’indomani per dare la conferma e
perfezionare l’ordine.
Ma in tale stato emotivo misto ad inquietudine ed euforia le ore
intanto passavano, per cui si profilava una lunga notte insonne.
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Sono quindi tentato a questo punto, dato che non sono all’altezza di
descriverla, di fare un paragone ed il richiamo che mi viene spontaneo
è dato dalla lunga notte dell’Innominato, quella che presagì la sua
conversione, e qui mi inchino a questo punto alla superiore penna di
Don Lisander.
Ben diversi però nel nostro racconto gli sviluppi, anche se in fondo
fra le reciproche ansie vi è stata una certa analogia, perché infatti
Policarpo, dopo di essersi più volte rivoltato alla ricerca della giusta
posizione, scelse come liberazione di accendere la luce, per poi
ghermire in uno scaffale del comodino con la mano a tentoni, quasi
guidato da un impulso inconscio, un volume la cui copertina così
riportava: “I Sepolcri” di Ugo Foscolo. Ma sì, proprio “I Sepolcri”
del Foscolo.
Se ora l’attento lettore ricorderà bene, tale era l’unico che per
circostanze del tutto impreviste non figurava nella collana acquistata
in blocco dal benefattore. La reazione istintiva fu di liberarsi
dell’oggetto intruso, per cui lo stesso finì sul pavimento, poi, quasi
toccato da un istinto di riparazione, ecco l’insonne riafferrarlo come
fosse una reliquia per abbandonarsi alla lettura.
La prima strofa, dopo la presa di cognizione, parve di primo
acchito fluida, piacevole e soprattutto alla comune portata di chi
non è provvisto di una profonda cultura e venne subito apprezzata,
anche perché impossibile ogni paragone cogli esasperati e contorti
ermetismi propri di un romanziere d’oltralpe, già fin troppo di moda,
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con effetto che le menti dei lettori venivano coinvolte sino alla…
nausea.
Ma ora l’opportuna occasione per me per far cadere qualche ciliegina
sulla torta ed esprimere la giusta e dovuta celebrazione al grande
vate, dal carattere inquieto e focoso e dalla vita sempre sofferta e
travagliata anche per le traversie economiche, in quanto negli ultimi
anni sommerso dai debiti, del quale ho tanto subito il fascino dal
venirne coinvolto.
Ed in proposito il suo itinerario spirituale culmina proprio nella
superiore perfezione artistica dei Sepolcri, prova ne è che lo
stesso Carducci giudicò che fosse il solo, vero, grande poeta lirico
italiano.
Ben so che la valutazione dei critici letterari è invece portata ad
anteporgli l’altro grande lirico suo contemporaneo, ma se vogliamo
nel suo pessimismo metterlo in competizione con quello leopardiano,
penso che sarebbe uno sprint dall’esito alquanto incerto.
Siamo quindi ora al momento di allacciarci alla lettura dei versi
iniziali del suo più arduo banco di prova ove spicca subito:
“All’ombra dei cipressi e dentro l’urne
confortate di pianto è forse il sonno
della morte men duro?”
Poi il ritmo incalzante così prosegue:
“Vero è ben Pindemonte. Anche la speme,
ultima Dea, fugge i sepolcri e investe
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tutte cose con l’oblio della sua notte.”
Ecco però ora la morale sortita:
“Sol chi non lascia eredità d’affetti
poca gioia ha dell’urna; e se pur mira
dopo le esequie errar vede il suo spirto
fra ‘l compianto de’ templi Acherontei…”
E di qui la lettura prosegue per preannunziare l’apoteosi tanto
celebrata:
“A egregie cose il forte animo accendono
l’urne de’ forti o Pindemonte; e bella
e santa fanno al peregrin la terra
che le ricetta.”
Fu a questo momento che l’assorto lettore ebbe una pausa di
perplessità che però trovò la sua ragione di essere e conferma dopo
di aver preso in considerazione la relativa nota di commento scritta
in calce, dal tenore sin troppo sconvolgente e però tale da incidere in
modo indelebile sulla sua psiche, sì da indurlo a nuove ed inaspettate
determinazioni.
Infatti il pensiero che il Foscolo si prefigge di esprimere nei suoi
Sepolcri è anzitutto che essi non portano conforto alcuno, anzi sono
del tutti inutili ai morti tanto che anche la speranza, ben nota come
l’ultima dea, da essi fugge e questo è il senso palese della prima
strofa sopra riportata.
Tali monumenti giovano invece ai vivi, perché da un lato destano
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effetti virtuosi lasciati dalle persone dabbene e d’altro alto consentono
a loro, anche se individualmente si muore, di sopravvivere nella
memoria di chi resta.
Per converso a tutti sarà capitato di imbattersi in tombe trascuratamente
disadorne e da cui è fuggita ogni pietà cristiana ed è troppo agevole
arguire il perché dell’ammonimento rivolto nei confronti di chi non
lascia eredità d’affetti.
Ma lo spunto più rilevante viene dato dai luoghi che ospitano “l’urne
de’ forti”, in quanto destano a nobili imprese, infiammano le menti
“de’ generosi”, ne ispirano l’emulazione ed infine nobilitano le città
che le raccolgono, e tale è l’illuminazione percepita dal poeta nella
chiesa di Santa Croce di Firenze in cui “l’ossa mie furon rese” del
piccolo cimitero Chiswick, presso Londra, dove i decaduti italiani
possono, alla luce di Machiavelli, di Michelangelo, del Galileo,
trarre gli auspici per la resurrezione della patria.
Sempre infine nella logica che ha orientato tutto il pensiero del
Foscolo sino ad esprimere le concezioni, che spero di essere riuscito
a comunicare in modo almeno sufficiente, l’elemento chiave pare a
me desumibile dal concetto da lui manifestato in uno dei suoi più
noti sonetti e cioè quello dedicato alla Sera ed in proposito riporto il
seguente passo:
“Vagar mi fai co’ miei pensieri su
l’orme che vanno al nulla eterno”
In sintesi il significato del richiamo al “nulla eterno” è troppo palese
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per essere equivocato in quanto è con detti accostamenti, e tale è
stato il pensiero costruttivo che ha informato in tutto e per tutto i suoi
Sepolcri, che si evidenzia che il poeta non era per nulla credente e di
conseguenza che tutto vien meno con la morte.
Se ed in quanto poi recepite le opinioni appena apprese, come a questo
punto descrivere le nuove e diverse emozioni sofferte da Policarpo al
vacillare di quella che ormai era divenuta la sua fede dominante?
In un recupero della realtà, o, se vogliamo, in un barlume di
rinsavimento, le valutazioni più conseguenti furono queste e cioè a
che gli sarebbe servito oziare nella preziosa urna, visto che questa
non avrebbe portato beneficio alcuno né al suo corpo, né alla sua
anima, destinata appunto a perire secondo le credenze del Foscolo?
Se però dovessi approfondire nei suoi più ascosi retaggi il suo stato
d’animo alla luce della nuova e del tutto inaspettata realtà che gli
veniva prospettata, potrei cavarmela descrivendo l’angoscia che ha
coinvolto l’Innominato nella interminabile notte della quale ho fatto
appena cenno.
Ma un lampo di illuminazione mi ha suggerito di non essere ripetitivo
e di richiamarmi allora come pietra di paragone al film “Via col vento”
che tutti avranno visto sugli schermi almeno una volta e che a mio
avviso ha rappresentato la più colossale produzione cinematografica
di tutti i tempi, ispirato in ciò dalla reazione che ha coinvolto nel
finale Rossella O’ Hara, la protagonista in senso assoluto del filmato,
magistralmente interpretata dall’attrice Vivian Leight.
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Orbene la vicenda, ambientata nel sud dell’America ai tempi della
guerra di secessione, nella realtà è tutta imperniata sulla morbosa
passione che Rossella da sempre nutre nei confronti del proprio
cognato sir Ashley, marito della sorella, la dolce Melania, del quale
è a tal punto coinvolta da anteporlo a tutto e a tutti, ammiratori
compresi, sì da crearne un mito, mentre la situazione è da questi
avvertita in modo imbarazzato, tanto che in ogni occasione per
rispetto nei confronti della moglie frena prudentemente ogni impulso
o tentativo di coinvolgimento,
Nell’avvicendarsi degli eventi purtroppo Melania si ammala
gravemente e, dopo atroci sofferenze, sopportate con cristiana
rassegnazione e con lo scrupolo di non recare disturbo agli altri,
viene a mancare, il che per Rossella appare come una liberazione, in
quanto pensa di avere finalmente il campo libero e di poter coronare
il suo sogno.
Quando però il cognato, privo di ogni reazione perché accasciato
dalla grave perdita subita, alle aspettative di Rossella resta
inerte ed inebetito come la cosa non lo riguardasse affatto, ecco
improvvisamente che appare a lei tutto nella sua normale dimensione,
con i difetti, le debolezze, le limitazioni e le mediocrità proprie di
ciascuno di noi, donde la delusione che traspare nei suoi occhi.
Ed è quindi la caduta del mito che tanto era stato elevato all’Olimpo,
ma ora la suggestiva scena finale perché è qui che Rossella dischiude
la finestra, e, con lo sguardo proiettato verso l’orizzonte e pieno della
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speranza di riaffacciarsi alla vita, pronuncia la fatidica frase ormai
diventata motto comune… domani è un altro giorno.
Di riflesso dunque anche per Policarpo un vero e proprio trauma, per
cui eccolo al momento delle decisioni irrevocabili, donde l’opzione
che era molto più assennato il dover sopportare il peso dell’ombra.
Ma l’ombra ha forse un peso?
Oh creature sciocche, quanta ignoranza è quella che vi offende!
Tutti in proposito ricorderanno che l’“anima viva” di Dante nel suo
itinerare nell’aldilà veniva riconosciuta come tale con grande stupore
dai trapassati proprio in quanto proiettava ombra, appurato che non
si è mai verificato che le cosìdette “ombre”, la proiettino.
Dunque l’ombra ha un peso, in un certo senso incommensurabile
e come, visto che il privilegio di tale dotazione è di far parte della
sfera e della dimensione dei vivi e venite a contraddirmi! Da questo
momento per quanto riguarda l’avvicendarsi dei fatti soccorre il
richiamo al pensiero di Brecht, secondo cui per dare soddisfazione
ad un desiderio, in luogo di una spiegazione, vale di più un’azione.
Ma quale azione?
All’indomani Policarpo infatti, nonostante fosse particolarmente
frastornato per l’inconsueta notte sofferta, si reca alla sua banca
giusto all’apertura chiedendo perentoriamente di conferire col
direttore il quale si mette subito a sua disposizione, data la notevole
fiducia di cui godeva, cosa tutt’altro che facile e scontata per i comuni
correntisti.
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Alla richiesta categorica di convertire in liquido tutto il capitale,
l’alto funzionario cerca di convincerlo a desistere perché alcuni titoli
risultano al momento deprezzati, ma deve arrendersi a fronte della
perentorietà dell’ordine.
Uscito quindi a testa alta dall’istituto di credito, eccolo da questo
momento ben determinato… alla ricerca del tempo perduto (Mi
scuso con chi di dovere se ho usurpato dal grande scrittore Marcel
Proust tale espressione che è il titolo della sua opera maggiore) e da
qui è tutta una sorpresa!
Preso infatti possesso con un certo ritardo della propria scrivania,
ad un collega che gli osservava scherzosamente… “alla buon’ora,
beatle”, tale era infatti il nomignolo che gli era stato affibbiato sul
lavoro, vista una certa somiglianza con la sagoma della repellente
blatta, in una sorta di revance che mi ricorda tanto il ritorno nei
luoghi del misfatto di Edmond Dantès, alias il conte di Montecristo,
per le dovute vendette, reagì con il gesto dell’ombrello, il che lasciò
di stucco tutti i presenti.
In seguito il primo sfizio che si concesse fu di ordinare l’ultimo
modello della Mercedes 5000 turbo cabrio ad iniezione, per essere poi
accompagnato ogni mattina sul posto di lavoro, profondamente sdraiato
sul sedile posteriore, da un autista appositamente ingaggiato, visto che
non aveva mai conseguito la patente di guida, fra l’estrema meraviglia
dei colleghi, mentre al primo ritorno, lo sguardo rivolto verso il monte
Barro, ebbe l’impressione che il sole per lui da lì ridea calando.
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In seguito il più che mai ravveduto Sùss l’ebreo devolse ogni
suo indumento usato alla Caritas, programmando che il suo
guardaroba futuro doveva essere di pregio assoluto e pertanto capi
di abbigliamento rigorosamente griffati Valentino, o Armani o Dolce
& Gabbana, calzature Valverde con tacchetti applicati posticci, in
ossequio al suo pilota prediletto Rubens Barrichello, orologio Omega
d’oro bianco, e qui almeno, di platino, profumo Cartier, occhiali non
più a stringinaso ma con montatura Gucci ecc. ecc…
Avreste dovuto vedere le commesse delle varie boutiques, tutte
emozionate e prodighe di inchini al suo apparire, pronte a soddisfare
Il Monte Barro - Paolo Dell’Oro
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ogni esigenza del munifico cliente, anche perché sempre pronto ad
elargire mance, senza mai discutere sul prezzo.
Passiamo però ora alle proiezioni più brillanti. Per le ferie di ferragosto
la preferenza cadde sul Grand Hotel Rimini ove gli venne riservata
tutta un’ala con ascensore direttamente sulla spiaggia, della quale
come ben noto può beneficiare esclusivamente la ricercata clientela con
preclusione per i comuni mortali nonostante il vincolo demaniale.
Qui ebbe l’avventura di imbattersi in un personaggio che
nell’abbigliamento e nell’espressione mussoliniana del viso ricordava
in tutto e per tutto Gheddafi, ma sì proprio lui, che era sopraggiunto
inaspettato con il suo seguito, mentre il tutto era esaurito e che
riuscì a rimediare l’accoglienza in quanto per gentile concessione di
Policarpo potè usufruire del notevole spazio a lui riservato, ristorante
e spiaggia compresi.
Assai riconoscente fu lo slancio del dittatore che gli mise a disposizione
come accompagnatrice la bellissima Nefer, la sua escort favorita, ma
questi, in quanto non ancora preparato ad avventure mondane, con
garbo e tatto, onde non urtarne la suscettibilità, declinò decisamente
l’offerta di tanto riguardo.
Per il ponte di Sant’Ambrogio la scelta cadde sul Grand Hotel
Miramonti di Cortina d’Ampezzo.
Appena raggiunta la località la prima intenzione fu di acquistare
l’attrezzatura da sci più elegante e sofisticata in quanto aveva
ambizione di esibirsi in tale sport da lui mai praticato, ma divenne
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subito l’incubo dei maestri della rinomata scuola locale, dato
che, anche per la scarsa muscolatura, non aveva il minimo senso
dell’equilibrio ed al primo accenno di discesa i ruzzoloni non
si contavano con rischio di gravi traumi. Pazienza per la perduta
occasione!
Dopo la cena a mo’ di consolazione eccolo assiso al bar intento a
sorseggiare Sauternes della produzione Chateau du Kemp, mentre
nota alla sua destra pure in fase di degustazione un terzetto che
dialoga in chissà quali fatali destini per l’economia mondiale e
non fatica a riconoscervi Luca di Montezemolo, Cesare Romiti e
Massimo D’Alema.
A questo punto dall’esterno entra proprio nel locale adibito a bar
una coppia raffinata e dai tratti aristocratici col capo opportunamente
protetto dal colbacco a causa del freddo pungente, che si siede alla
sua sinistra, alla quale ad un semplice cenno viene poi servito in
calici di cristallo vodka Viborowna del Don, riserva speciale.
Quello che però lo lascia attonito è che a brindisi ultimato i
due gettano alle loro spalle i calici che si frantumano frizzando
ed alla richiesta di spiegazioni il barman con atteggiamento
professionale accenna che si tratta di discendenti dello zar e che
il gesto doveva essere propiziatorio nel senso che da allora più
nessuno vi avrebbe bevuto.
Qui il misterioso ospite, mentre si limita ad uno svagato sguardo di
noncuranza nei confronti degli illustri personaggi a lui d’accanto,
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rivolge invece la sua attenzione compiaciuta verso la coppia, per cui
spontaneo è subito l’approccio.
Nel corso poi di un semplice scambio di vedute, mentre forse per la
prima volta in vita sua celia e peccando di immodestia si presenta
come il marchese Bubich di discendenza austro-ungarica, viene
quindi sommerso d’inviti nella loro dacia in occasione del prossimo
Capodanno ed è in tale frangente che al momento del consueto
scambio dei biglietti da visita lo stesso ovviamente vi si sottrae
accampando una scusa.
Siamo finalmente giunti a quella che potrebbe definirsi la quadratura
del cerchio, meglio l’apoteosi, anche se tutto va riguardato col metro
delle varie sfaccettature che possono contraddistinguere in un modo
o nell’altro ogni umana vicenda.
Qui la scena si trasferisce nella panoramica sala da pranzo del Grand
Hôtel Cipriani di Venezia, sito nell’isola della Giudecca, finemente
decorata da specchi di Murano, lampadari di Boemia, arazzi autentici
Gobelin, dipinti e affreschi d’autore, ove il nostro personaggio in
vena di follie è stato accompagnato dal Piazzale Roma attraverso il
Canal Grande col taxi dell’albergo.
Ad un tavolo addobbato con raro tocco professionale ha poi inizio per
lui la cena, allietato da una affascinante compagna dalla carnagione
olivastra e dai tratti vagamente orientaleggianti e nel cui raffinato
abbigliamento spicca una gonna dallo spacco vertiginoso.
Siamo al primo assaggio costituito da tartine spalmate di caviale
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iraniano, poi le prelibatezze si sprecano per passare dalla degustazione
di ostriche dell’Atlantico ad una vera e propria primizia e cioè
coscette di pernice bianca, di cacciagione garantita, delicatamente
rosolate allo spumante di Franciacorta, per proseguire poi con astice
dal delicato sapore col contorno di cannicchioli al sugo di rosmarino,
il tutto annaffiato da Compte du Champagne, particolarmente
apprezzato dall’ospite per il suo bouquet leggermente aromatizzato
e via via… nell’attesa del brindisi finale.
Ma in proposito una mia personale riflessione nel senso che ho
sempre intravisto nell’ansiosa ed ottimistica attesa dell’agognato
tocco di mezzanotte il medesimo stato d’animo che caratterizza il
sabato del villaggio.
Lo dico perché dopo il tripudio esplosivo, la gioia sfrenata, gli auguri
e gli scambi affettuosi, il tutti festeggiano tutti, col passare delle ore
ecco che adagio adagio l’allegria e gli entusiasmi si smorzano, si
ritorna alla normalità, le prime stanchezze affiorano… è l’alba della
domenica.
La vicenda ora qui riprende quando i cucchiai già attingono nelle calde
ciotole per la degustazione dell’assaggio di commiato e cioè della
ben augurante zuppa di lenticchie ed è allora che Policarpo intravede
nella parte opposta del salone, seduta ad un tavolo discretamente
appartato nella penombra, una coppia in atteggiamento affettuoso, le
cui somiglianze non gli sfuggono tanto che non è difficile riconoscere
in loro il dr. Perillo e la signora Agostoni.
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Quale migliore occasione allora per un secondo brindisi, in questo
caso ravvicinato, col che fra i due viene tacitamente scambiato un
maschio e solidale cenno d’intesa e di complicità.
E mentre l’anziano violinista dal viso pacioso, l’archetto vibrante
sulle corde, si avvicina discretamente verso i nostri festanti con
atteggiamento dal discreto sapore di galanteria, quella ninfa gentile
che tanto ci riporta al tempo dei grandi inchini, per dedicar loro il
toccante motivo di George Gershwin “ But not for me” , che nel
nostro idioma così recita “ma non per me”, fu in quel momento che
lo sguardo del piccoletto venne velato da un’ombra di tristezza ed un
diamantino uscito da una palpebra scivolò lentamente sulla gota, a
conferma che negli occhi specie della brava gente può esserci sempre
una pagliuzza di poesia.
FINE
Noi tutti chiunque siamo, abbiamo i nostri esseri respirabili. Se ci
mancano ci manca l’anima, soffochiamo. Allora si muore. Morire per
mancanza di ideali è orribile. L’asfissia dell’anima! (Victor Hugo).
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Venezia - Paolo Dell’Oro
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Sommario
Capitolo I 4
Una mattina all’Ufficio delle Entrate
Capitolo II 14
Le alterne vicissitudini di Policarpo
Capitolo III 23
La gita in Umbria
Capitolo IV 31
Ancilla ed il benefattore
Capitolo V 42
Il culto dei morti
Capitolo VI 54
Alla ricerca del tempo perduto