37
1 Carola Barbero IL PROBLEMA DELL’INFINITO NELLA FENOMENOLOGIA DI HUSSERL La fenomenologia di Husserl potrebbe essere interpretata come una serie discontinua di svolte e ripensamenti 1 : dallo psicologismo ancora di stampo brentaniano della Filosofia dell’aritmetica (1891), Husserl sarebbe passato in un secondo momento al realismo logicista delle Ricerche logiche (1900-1901), in seguito rovesciato dall’idealismo del primo libro delle Idee (1913) che sarebbe poi stato a sua volta definitivamente superato dalla riscoperta dell’intersoggettività e del mondo delle Meditazioni cartesiane (1929-31) e de La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1935-36). Allora Husserl dovrebbe essere considerato, a seconda delle occasioni, uno psicologista, un logicista, un idealista e un esistenzialista. Se questa linea interpretativa fosse corretta, Husserl non potrebbe essere definito altrimenti che come un filosofo del suo tempo, mero riflesso di quella confusione, tipica degli inizi del Novecento, inerente a molti campi del sapere. Nonostante questa interpretazione possa apparire abbastanza coerente e convincente, non sembra tuttavia sufficiente a spiegare il procedere di un pensiero per oltre quarant’anni. Perché Husserl non si è mai fermato con decisione a nessuno stadio della sua riflessione? Che cosa pensava di trovare cambiando ripetutamente campo d’indagine? Non si può seriamente pensare che egli avesse semplicemente mutato d’opinione, la ragione dei cambiamenti deve risiedere altrove. Dove? Forse nell’unità di senso di un cammino aperto alla realizzazione di un compito, che consiste nel tentare di realizzare la filosofia als strenge Wissenschaft. A ben guardare infatti, nella fenomenologia scorre l’unità di un problema, dalla Filosofia dell’aritmetica a L’origine della geometria, quello riguardante il rapporto tra ideale e reale, tra logica ed esperienza, tra trascendentale ed empirico, quindi un interrogativo concernente il nostro modo di conoscere il mondo e di attribuire ad esso un senso. Portando i termini in questione ad un più elevato livello di generalità, si potrebbe dire che la problematica husserliana si incentri sul rapporto sussistente tra l’ origine del senso e il senso dell’origine, sulla linea sottile che collega archeologia e teleologia, invocando la necessità di una comprensione unitaria. E’ infatti stata proprio la continua ricerca di un termine medio, di uno schema capace di porre in comunicazione sensibilità e intelletto, che ha guidato il procedere di Husserl dallo psicologismo degli anni giovanili sino alla fenomenologia trascendentale del pensiero maturo. Un idealismo o un empirismo rigidamente intesi, cioè non aventi reciproci rapporti di implicazione, non hanno infatti ai suoi occhi ragione di sussistere, la loro importanza risiede invece in ciò che essi possono avere in comune, quindi ciò che fa sì che il mondo possa avere un senso e che il senso sia a sua volta un senso del mondo. Come può l’ideale applicarsi all’empirico? O meglio, come può il mondo venire compreso dalle categorie dell’intelletto? Nella Critica della ragion pura, e precisamente nel capitolo sullo schematismo, Kant aveva già affrontato esattamente lo stesso problema, e la sua risposta era stata: «una applicazione della categoria ai fenomeni sarà possibile per mezzo della determinazione trascendentale del tempo, determinazione che, in quanto schema dei concetti dell’intelletto, fa da mediatrice nella sussunzione dei fenomeni sotto la categoria» (KrV, B 178/ A 139). L’elaborazione 1 Derrida sottolinea come, a tale proposito, si potrebbe pensare ad « una serie discontinua di colpi di Stato, a una successione di momenti assoluti in cui i momenti precedenti sarebbero superati e abbandonati» (1953-54: 68). Tuttavia lo stesso Derrida spiega, nel corso della trattazione, come una interpretazione di questo tipo della fenomenologia di Husserl non possa poi condurre ad una effettiva comprensione di essa, sfociando piuttosto in un frazionamento e in una giustapposizione costruttivista, secondo i quali le varie tappe, intelligibili in sé, si rivelerebbero nel complesso chiuse e opache, nascondendo così l’unità di un movimento di pensiero.

IL PROBLEMA DELL’INFINITO NELLA FENOMENOLOGIA DI … · un compito, che consiste nel tentare di realizzare la filosofia als strenge Wissenschaft. A ben guardare infatti, nella fenomenologia

  • Upload
    buidang

  • View
    213

  • Download
    0

Embed Size (px)

Citation preview

1

Carola Barbero IL PROBLEMA DELL’INFINITO NELLA FENOMENOLOGIA DI HUSSERL La fenomenologia di Husserl potrebbe essere interpretata come una serie discontinua di svolte e ripensamenti1: dallo psicologismo ancora di stampo brentaniano della Filosofia dell’aritmetica (1891), Husserl sarebbe passato in un secondo momento al realismo logicista delle Ricerche logiche (1900-1901), in seguito rovesciato dall’idealismo del primo libro delle Idee (1913) che sarebbe poi stato a sua volta definitivamente superato dalla riscoperta dell’intersoggettività e del mondo delle Meditazioni cartesiane (1929-31) e de La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1935-36). Allora Husserl dovrebbe essere considerato, a seconda delle occasioni, uno psicologista, un logicista, un idealista e un esistenzialista. Se questa linea interpretativa fosse corretta, Husserl non potrebbe essere definito altrimenti che come un filosofo del suo tempo, mero riflesso di quella confusione, tipica degli inizi del Novecento, inerente a molti campi del sapere. Nonostante questa interpretazione possa apparire abbastanza coerente e convincente, non sembra tuttavia sufficiente a spiegare il procedere di un pensiero per oltre quarant’anni. Perché Husserl non si è mai fermato con decisione a nessuno stadio della sua riflessione? Che cosa pensava di trovare cambiando ripetutamente campo d’indagine? Non si può seriamente pensare che egli avesse semplicemente mutato d’opinione, la ragione dei cambiamenti deve risiedere altrove. Dove? Forse nell’unità di senso di un cammino aperto alla realizzazione di un compito, che consiste nel tentare di realizzare la filosofia als strenge Wissenschaft. A ben guardare infatti, nella fenomenologia scorre l’unità di un problema, dalla Filosofia dell’aritmetica a L’origine della geometria, quello riguardante il rapporto tra ideale e reale, tra logica ed esperienza, tra trascendentale ed empirico, quindi un interrogativo concernente il nostro modo di conoscere il mondo e di attribuire ad esso un senso. Portando i termini in questione ad un più elevato livello di generalità, si potrebbe dire che la problematica husserliana si incentri sul rapporto sussistente tra l’origine del senso e il senso dell’origine, sulla linea sottile che collega archeologia e teleologia, invocando la necessità di una comprensione unitaria. E’ infatti stata proprio la continua ricerca di un termine medio, di uno schema capace di porre in comunicazione sensibilità e intelletto, che ha guidato il procedere di Husserl dallo psicologismo degli anni giovanili sino alla fenomenologia trascendentale del pensiero maturo. Un idealismo o un empirismo rigidamente intesi, cioè non aventi reciproci rapporti di implicazione, non hanno infatti ai suoi occhi ragione di sussistere, la loro importanza risiede invece in ciò che essi possono avere in comune, quindi ciò che fa sì che il mondo possa avere un senso e che il senso sia a sua volta un senso del mondo. Come può l’ideale applicarsi all’empirico? O meglio, come può il mondo venire compreso dalle categorie dell’intelletto? Nella Critica della ragion pura, e precisamente nel capitolo sullo schematismo, Kant aveva già affrontato esattamente lo stesso problema, e la sua risposta era stata: «una applicazione della categoria ai fenomeni sarà possibile per mezzo della determinazione trascendentale del tempo, determinazione che, in quanto schema dei concetti dell’intelletto, fa da mediatrice nella sussunzione dei fenomeni sotto la categoria» (KrV, B 178/ A 139). L’elaborazione

1 Derrida sottolinea come, a tale proposito, si potrebbe pensare ad « una serie discontinua di colpi di Stato, a una successione di momenti assoluti in cui i momenti precedenti sarebbero superati e abbandonati» (1953-54: 68). Tuttavia lo stesso Derrida spiega, nel corso della trattazione, come una interpretazione di questo tipo della fenomenologia di Husserl non possa poi condurre ad una effettiva comprensione di essa, sfociando piuttosto in un frazionamento e in una giustapposizione costruttivista, secondo i quali le varie tappe, intelligibili in sé, si rivelerebbero nel complesso chiuse e opache, nascondendo così l’unità di un movimento di pensiero.

2

dell’esperienza attraverso i concetti puri dell’intelletto era quindi resa possibile dalla funzione mediatrice dello schema (che, sottolineava esplicitamente Kant, doveva essere inteso non come immagine, bensì come regola): lo schema definiva infatti il modo di essere di una categoria nel tempo, rendendo così possibile la sintesi del fenomeno e del concetto. Husserl riprende a suo modo la problematica kantiana2 - che deve peraltro essere affrontata da qualsiasi filosofia che si proponga di prendere in esame il tema della conoscenza - dando però ad essa un risvolto complessivo del tutto differente. Al fine di mediare tra l’empirico e l’ideale, Husserl infatti non inserisce uno schema, bensì un’Idea3. Non si può fare a meno di avvertire in un primo momento qualche confusione: ma Kant non aveva forse rigorosamente distinto ragione ed intelletto, con le rispettive sfere di competenza? Le idee non si erano rivelate come un’esigenza inestirpabile soltanto della prima? Non era inoltre solo l’intelletto che aveva la possibilità di conoscere, assolutamente non attraverso le idee, bensì esclusivamente attraverso le categorie? Una prima risposta a tutti questi interrogativi, pur non eliminando la confusione, potrebbe essere: è perché Husserl non distingue tra ragione ed intelletto che può legittimamente introdurre le idee già ad un livello conoscitivo. Questa precisazione è chiaramente importante, tuttavia è doveroso osservare che il motivo per cui Husserl parla di idee è in realtà più profondo. Non è solo una questione di linguaggio. Husserl infatti non pensa che l’idea abbia le stesse caratteristiche dello schema, ma solo che essa abbia una funzione ad esso analoga. La funzione è ovviamente quella di porre in connessione due ambiti radicalmente distinti, ma è il modo in cui ciò avviene che muta radicalmente a seconda che si tratti dello schema o dell’idea. Infatti se lo schema stabilisce una perfetta corrispondenza tra le categorie e gli oggetti dell’esperienza, l’idea, pur istituendo una connessione tra i due ambiti, non si può dire assolutamente che fissi una corrispondenza completa. Ideale e reale sono per Husserl infinitamente (proprio come l’idea) lontani e mai nessuno schema potrà essere inserito affinché l’uno si specchi nell’altro. La fenomenologia può utilizzare il termine idea nell’ambito conoscitivo senza cadere in pesanti contraddizioni, proprio perché ne sfrutta l’essenziale duplicità: l’idea di infinito in senso kantiano può infatti implicare sia un progresso (oppure un regresso) all’infinito, sia un progresso indefinito (KrV, B 540-541/ A 512-513), a seconda che sia dato il tutto e debbano essere ricercati tutti i singoli elementi componenti (all’infinito), oppure che siano dati ogni volta alcuni elementi, e il tutto sia comunque sempre ancora a venire. Ebbene per Husserl, se l’ideale di per sé stesso considerato ha tutte le caratteristiche dell’idea intesa come tutto, l’ideale nei suoi rapporti con l’empirico deve essere considerato come un «indeterminato» (idea come indefinito), che sempre si arricchisce delle realizzazioni particolari, senza tuttavia mai concludersi una volta per tutte: la corrispondenza tra i due è in questo secondo caso una idea, mai compiuta, della perfetta coincidenza tra empirico e trascendentale, tra fatto ed essenza. Questa duplicità dell’idea in senso kantiano si riscontra in diversi luoghi della filosofia husserliana, ed ogni volta si ha l’impressione che essa venga introdotta per impedire una chiusura, un sistema che si pretenda definitivo, un cammino che non abbia più ragione di proseguire. L’idea nella sua accezione indefinita e indeterminata, viene tuttavia inserita da Husserl all’interno del sistema sempre «di nascosto», «di soppiatto», mai in maniera chiara ed evidente, con la specifica funzione di eliminare delle difficoltà altrimenti insormontabili e salvare così la fenomenologia. Infatti l’idea viene sempre inizialmente presentata 2 Il fatto che Husserl riprenda la problematica kantiana non implica che vi sia una continuità tra Kant, il neokantismo e Husserl, ma soltanto che vi sia una innegabile influenza di Kant sulla fenomenologia per quanto riguarda l’impostazione del problema conoscitivo: l’influenza esercitata non si risolve necessariamente in linea di continuità. 3 Tale idea, come si avrà modo di argomentare ampiamente più oltre, è da intendersi nell’accezione kantiana, esattamente quale è stata esposta in tutte le sue forme nella Dialettica trascendentale della Critica della ragion pura (KrV, B 366-369 e 670-732/ A 310-338 e 642-704).

3

esclusivamente nel suo risvolto infinito, come quel tutto al quale l’uomo può attingere per dare un senso al mondo e alla storia, ma che comunque non ha bisogno dell’uomo per essere vera o per essere reale. Un sistema di questo tipo però comincia poi (in un secondo momento) sempre e inevitabilmente a cedere, e l’idealità così considerata (Husserl parla a questo proposito di idealità dello specifico) a perdere la sua maestosità; al fine di risolvere una situazione di questo tipo, le soluzioni possibili sono allora soltanto due: da un lato si può dichiarare l’illusorietà dell’ideale stesso, cadendo così in una forma di fenomenismo senza leggi, dall’altro si può invece dichiarare la funzione regolativa di tale ideale che, pur non essendo mai dato come un tutto, ha tuttavia sempre il compito di stimolare il procedere delle nostre ricerche. E’ questa seconda possibilità che viene fatta propria da Husserl. Ogni volta, nel cuore di un sistema che si pretendeva fisso e determinato in tutti i suoi aspetti, si manifesta l’apertura indefinita dell’idea. L’idea definisce la fenomenologia come vera e propria scienza delle possibilità: infatti essa indica quell’indefinito oltrepassamento di un orizzonte, sempre approssimato, ma mai completamente raggiunto, che deve fungere da stimolo e da regola del nostro procedere, non potendosi comunque mai offrire come un tutto dato. L’orizzonticità dell’idea non può infatti venire intuita se non attraverso la sua negazione: è per una necessità essenziale che l’origine costitutiva di ogni oggetto non può mai definirsi essa stessa come un oggetto, lasciarsi fermare da una intuizione ad essa adeguata. L’importanza di questo concetto di orizzonte risiede infatti nel suo estendere all’infinito il lavoro dell’obiettivazione, nell’aprire la coscienza verso l’infinito, comunque e sempre indefinito, del suo oggetto. E’ proprio in questo senso che l’idea si caratterizza come un compito (Aufgabe): ogni singola e parzia le concretizzazione nel reale, contribuisce veramente alla costituzione dell’ideale, che pur non essendo mai raggiunto nella sua pienezza (anzi, proprio perché non viene mai raggiunto nella sua pienezza), si caratterizza tuttavia sempre come la mèta di ogni sforzo. Ciò nonostante, l’orizzonte si può propriamente definire come «dato» alla nostra intuizione: in maniera evidente, anche se inadeguata. Questa osservazione è di primaria importanza, perché implica una soddisfacente risposta (se non addirittura, soluzione) al classico problema riguardante la potenzialità o l’attualità dell’infinito: per Husserl l’infinito si dà, e quindi è attuale, però la sua attualità non è assolutamente assimilabile alla attualità del finito4. Un infinito di questo tipo, in relazione con il finito (poiché anch’esso si dà) pur mantenendosi da esso distinto (il suo modo di darsi non è infatti uguale al modo di darsi del finito), può quindi ben a ragione costituire quel trait d’union tra empirico e trascendentale del quale Husserl è stato alla ricerca sin dalle sue prime analisi. Il principio di tutti i princìpi della fenomenologia, secondo il quale ogni essere ha il suo particolare modo di essere (ogni Dasein ha il suo Sosein) conformemente alla sua essenza, permette di comprendere che cosa significhi affermare che l’infinito dell’idea si offre, secondo Husserl, in maniera evidente ma inadeguata: è la cosa stessa che determina i modi della sua manifestazione e l’infinito non si manifesta nel finito altrimenti che nella sua potenzialità (si manifesta: quindi è evidente, ma nella sua potenzialità: allora è inadeguato). Inserendo l’infinito nella propria trattazione quale momento implicito oscuramente presupposto da ogni datità, Husserl lo sottrae all’ambiguità, creando così le condizioni per valutarne la funzione e la portata operativa. Tuttavia occorre precisare che, se davvero ogni essere ha il suo specifico modo di essere, allora l’evidenza si dovrà caratterizzare necessariamente come relativa, non vi sarà quindi più un unico tipo di evidenza, come spesso si era sostenuto (basti anche solo pensare all’univocità

4 L’attualità del finito infatti oltre ad essere evidente, dovrebbe anche essere adeguata. Tuttavia le Lezioni sulla sintesi passiva (1920-26) argomenteranno come anche la percezione di un singolo oggetto comporti in realtà già una struttura ideale: questo ampliamento renderà ovviamente ancora più indeterminati i confini stessi della fenomenologia come scienza.

4

dell’essere di Brentano), quale l’evidenza apodittica, bensì una molteplicità di evidenze assertorie per le quali l’apoditticità non rappresenterà altro che un’idea, cioè il fine ultimo al quale esse costantemente tenderanno. Le conseguenze derivanti da questa nuova concezione sono chiaramente notevoli: ad esempio, la netta distinzione tra verità di ragione e verità di fatto, proposta da Husserl nei Prolegomeni ad una logica pura delle Ricerche logiche, non potrà più essere rigidamente mantenuta, ma dovrà piuttosto essere intesa come una reciproca implicazione: allora si potrà legittimamente dire che la verità di ragione abita il cuore della verità di fatto, come la mèta è già sempre presente nello sforzo che ad essa tende. L’idea in senso kantiano riesce molto bene ad esprimere il modo di datità proprio dell’infinito che, in quanto attualità del potenziale, si offre in realtà solo attraverso la sua negazione, ma tuttavia si dà e, soprattutto, solo così si può dare: pretendere un’attualità dell’infinito simile a quella del finito, sarebbe come voler quadrare un cerchio: è impossibile un infinito attuale come il finito, per l’ottima ragione che, se lo fosse, non si tratterebbe più di infinito, bensì di finito. L’idea intesa come inscindibile nesso tra infinito e indefinito, permette di cogliere il potenziale in quanto tale e dargli un senso che non sia illusorio. Husserl presenta tale idea in quattro forme differenti, al fine di riuscire a salvare la fenomenologia al tempo stesso da un vuoto idealismo formale e da uno schietto empirismo: nelle Ricerche logiche essa è introdotta quale idea di un divenire infinito della logica, in Idee I come idea della totalità infinita delle esperienze temporali, in Esperienza e giudizio essa è l’idea di un mondo come suolo infinito di tutte le esperienze possibili ed infine nelle Meditazioni cartesiane e ne La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, l’idea si caratterizza come teleologia intenzionale. Il ruolo preciso di tale idea all’interno della fenomenologia non è mai stato tematizzato da Husserl, e questo per una ragione essenziale: non è possibile tematizzare ciò che non è mai di per sé stesso un tema, ma è possibile descrivere soltanto il suo procedere, il suo divenire. L’idea di infinito è infatti un concetto operatore5, cioè ha un senso nella misura in cui svolge una funzione (in questo caso regolativa) e non di per sé stessa. Questo implica che la negatività dell’infinito husserliano inteso come infinito non-compimento (che è però sempre contemporaneamente un indefinito compimento) includa la positività di un compito: l’idea di infinito racchiude infatti una positività assiologica e teleologica che definisce i contorni di un’etica del pensiero6. L’idea affida all’uomo un compito da svolgere nella storia: esso consiste nel portare l’ideale nel reale, realizzando così l’unità del sensibile e dell’intelligibile, dando al mondo la forma del senso e al senso il contenuto del mondo. Vi è una notevole forza implicita in un idealismo di questo tipo, derivante dal fatto che esso non possa propriamente mai dirsi compiuto: esso è una tensione, uno slancio che non conoscerà mai di per sé stesso quel fine che già sempre lo guida. A tutto questo non servirebbe obiettare che l’idea nel mondo non ha mai avuto luogo nella sua interezza, e che quindi non si può propriamente mai parlare di realizzazione dell’ideale nel reale: così come si dice che sia «un controsenso (ex pumice aquam, come Kant citava), voler giustificare o refutare idee mediante fatti» (1911: 90), così è assurdo negare una realizzazione parziale dell’idea solo perché è parziale: l’idea infatti (proprio in quanto

5 Ci si richiama alla distinzione proposta da Fink in una conferenza del 1959 dal titolo «Les concepts opératoires dans la phénoménologie de Husserl». Secondo Fink all’interno della fenomenologia si possono distinguere due serie distinte di concetti: i concetti tematici, che sono autonomi ed hanno un significato loro proprio, e i concetti operatori, che hanno un senso solo nella misura in cui svolgono una funzione e non di per sé stessi; stabilire il ruolo giocato dai concetti operatori all’interno della fenomenologia è a suo avviso un compito molto difficile, dal momento che «Husserl non si è posto il problema di un “linguaggio trascendentale”» (1959: 229). 6 In questa direzione dovrebbe essere integrata la critica di Gurvitch (1930: 60) alla fenomenologia: se infatti è giusto insistere, come egli fa, sul carattere negativo dell’infinito husserliano, del tutto estraneo a qualsiasi forma di infinito assoluto, è del pari opportuno sottolineare la forte positività implicita in questa concezione, secondo la quale essendo per l’appunto l’infinito un compito per l’uomo, esso è fonte di norme e di valori, che sono elementi guida del procedere umano nell’ambito pratico e in quello conoscitivo.

5

infinita) non potrà mai darsi altrimenti che così, e la costante incompiutezza delle sue realizzazioni, anziché essere l’emblema di un fallimento, è segno di una manifestazione e di una conquista. Questa tensione verso un polo infinito è ciò che caratterizza propriamente la coscienza del filosofo 7. Ogni singolo risult ato, proprio nel suo essere particolare, costituirà un indice verso l’infinito: ecco che così è forse dato comprendere il significato della parte in rapporto a quel tutto verso il quale essa costantemente tende, senza che esso possa mai venire raggiunto, tuttavia come se (als ob) esso potesse esserlo. La filosofia come scienza rigorosa (1911: in particolare 85-113) è a questo riguardo illuminante: se l’idea di scienza di per sé medesima deve essere concepita come sovratemporale e come non limitata da alcuna relazione con lo spirito di un certo tempo, essa in rapporto a noi non è altro che una serie di Weltanschauungen sempre legate ad un individuo in un tempo e in un luogo ben precisi. Allora le realizzazioni delle filosofie della Weltanschauung, avvicinandosi asintoticamente all’infinito dell’idea della scienza, segneranno l’unità di un percorso8. La filosofia als strenge Wissenschaft è quel punto indefinitamente lontano che guida e sorregge i nostri sforzi. E’ questa quell’etica del pensiero alla quale si accennava più sopra: l’uomo (il filosofo) è responsabile della realizzazione dell’idea nel mondo. Contro ogni sorta di dogmatismo che si accontenta di risultati parziali giudicandoli definitivi, il filosofo deve dimostrarsi capace di quella che Kant definiva una fede problematica (cioè una fede razionale che riconosce la possibilità di quel tutto prospettato dall’idea, proprio perché essa rafforza e stimola il progredire pratico-conoscitivo dell’uomo), la fede derivante dall’entusiasmo per la grandezza di uno scopo e per nulla impaurita dall’entità degli sforzi richiesti per conseguirlo. «La scienza di ciò che è radicale, deve essere radicale anche nel suo modo di procedere, sotto ogni riguardo» (1911: 112). Questa può essere considerata una, fra le tante problematiche, che hanno guidato il cammino filosofico di Husserl per oltre quarant’anni: la fenomenologia come costante ricerca della possibilità di una realizzazione dell’idea (di una logica pura, di un unitario flusso temporale, di un mondo e di un telos della storia) nel mondo dei fatti. Prima di esplicitare i luoghi (le opere verranno esaminate in ordine cronologico) e le specifiche funzioni dell’idea di infinito all’interno dell’orizzonte fenomenologico, è fondamentale fare una precisazione. Tale idea compare per la prima volta, anche se non ancora nella sua accezione kantiana, in una fase della filosofia husserliana che non è ancora propriamente fenomenologica, cioè quella risalente alla Filosofia dell’aritmetica (1891). L’idea di infinito e le sue problematiche implicazioni possono infatti essere considerate il ragionevole motivo per il quale il secondo volume di tale opera, prospettato dal progetto iniziale, non venne mai compiuto. 1. L’infinito come momento figurale La Filosofia dell’aritmetica, scritta sotto la diretta influenza di Brentano, è esplicitamente volta ad una caratterizzazione psicologica del concetto di numero, come infatti già indica il

7 «Idealiter ogni uomo che tende a uno scopo (strebend) è “filosofo” in senso letterale» (1911: 98): è filosofo in quanto aspira all’infinito, tende all’infinito, ricerca l’infinito, ma soprattutto lo realizza: altrimenti questa tensione sarebbe sterile e il compito solo una illusione. Infatti non solo il reale ha bisogno dell’ideale per avere un senso e uno scopo, ma anche l’ideale ha bisogno del reale per venire alla luce: che cosa sarebbe l’idealità delle forme geometriche se non fosse stata creata (sì, «creata» e non semplicemente «scoperta», come poteva volere Kant) da Talete? L’ideale caratterizzandosi contemporaneamente come l’archeologia e la teleologia del reale, non può ovviamente avere un senso indipendentemente da esso. 8 La duplicità dell’idea in senso kantiano, se ben compresa, permette quindi di chiarire quelle ambiguità che in un primo momento potevano apparire insuperabili: per esempio, l’affermazione secondo la quale «Le Weltanschauungen possono lottare» ma che «solo la scienza può decidere e la sua decisione porta il marchio dell’eternità» (1911: 107), non significa altro che l’idea, di per sé vera ed eterna, è incompleta e temporale nelle sue realizzazioni particolari.

6

sottotitolo Psychologische und logische Untersuchungen, è un tentativo di fondare soggettivamente la matematica e in senso implicito anche la logica. Secondo una fondamentale teoria empiristica che Husserl riprende dal suo maestro (ma che si ritrova anche in altri autori, per esempio in J.S. Mill), l’origine del concetto di numero deve essere ricercata nei fenomeni concreti di molteplicità. Nel senso della Urteilslehre di Brentano, tutte le costruzioni logiche devono potersi spiegare con le operazioni della negazione e della congiunzione. Nel caso specifico della matematica alla negazione corrisponde l’astrazione, grazie alla quale non si tiene conto (si astrae, appunto) delle determinazioni particolari degli elementi costitutivi della molteplicità in esame. Se poi si spinge fino al limite la negazione delle particolarità che li caratterizzano come questo o quell’elemento specifico, allora si ottiene una serie di elementi completamente indeterminati: la serie degli Etwas überhaupt. Al carattere di insieme che gli elementi conservano nonostante l’astrazione corrisponde poi la congiunzione, che è l’operazione (soggettiva) esprimentesi con l’und. Quindi la formula più generale della molteplicità si può esprimere con «Etwas und Etwas und…». Quindi da un punto di vista strettamente empiristico, per spiegare l’origine del concetto di numero, sono sufficienti una sottrazione e un’addizione. Come già sosteneva Euclide, il numero è l’unità di una molteplicità, e qui la molteplicità viene determinata dal concorrere di due fattori che sono gli elementi (precedentemente sottoposti ad adeguata astrazione) e la relazione collettiva che riunisce questi elementi in un insieme. Secondo l’interpretazione empiristica è fondamentale concepire la relazione collettiva come esterna rispetto agli elementi stessi: ecco perché l’analisi del concetto di molteplicità rinvia all’atto psicologico della collezione (così il concetto di numero rimanda all’atto del numerare). Dal punto di vista oggettivo il concetto di molteplicità è quindi determinato numericamente dagli elementi, privati astrattivamente di ogni contenuto reale; dal punto di vista soggettivo invece, la molteplicità si caratterizza come numerica mediante l'atto della collezione intesa come enumerazione. Questa teoria ha chiaramente come modello le operazioni che è possibile fare, ad esempio, con un pallottoliere, secondo cui qualsiasi numero è il risultato derivante dalla somma delle unità che lo compongono (infatti secondo questa teoria risulta problematica la spiegazione dell’unità e dello zero). Anche il caso di molteplicità indefinite può essere spiegato con questo procedimento: basta aggiungere alla collezione degli elementi una reiterazione (o ecceterazione) uniforme e porre una regola fissa che ne segua il procedimento. Tale infinito sarebbe ovviamente meramente potenziale, poiché verrebbe calcolato e definito a partire dagli elementi dati e perciò finiti e non di per sé stesso. Fino a qui la posizione di Husserl pare concordare pienamente con le idee di Brentano. Tuttavia un distacco, anche se non radicale, dal maestro, era già avvenuto nel momento in cui egli aveva deciso, peraltro già nelle prime pagine della Filosofia dell’aritmetica, di distinguere il fenomeno dal significato, identificantisi senza residui nella teoria brentaniana. Secondo l’autore occorre distinguere il fenomeno dal significato, poiché il fenomeno è sì la base per il significato, ma non è identico ad esso. Questa distinzione diviene di fondamentale importanza proprio nel momento in cui l’analisi psicologica del concetto di numero comincia ad avere delle difficoltà nella risoluzione dei problemi. Per esempio la teoria di Brentano non è in grado di fornire una spiegazione esaustiva riguardo alle cosiddette «molteplicità momentanee»: come è possibile che una molteplicità indefinitamente numerosa si percepisca con un solo colpo d’occhio (per esempio il cielo stellato)? In questo caso il concetto di molteplicità non è stato raggiunto con l’atto del contare e con l’aggiunta della ecceterazione uniforme, di conseguenza il significato non può coincidere con il fenomeno: c’è una percezione, ma non c’è ancora il significato esatto ad essa corrispondente. Questo particolare caso delle molteplicità momentanee è ciò che Husserl chiama momento figurativo (figurales Moment): «momento» perché è una parte non indipendente di una

7

totalità, conseguibile solo per astrazione (come spiegherà poi ampiamente la terza Ricerca logica), e «figurativo» o «figurale» perché le relazioni possono costituire un contenuto descrivibile di per sé stesso. Con tale concezione Husserl nega fermamente l’ipotesi elementaristica di stampo brentaniano: la totalità si impone infatti come qualcosa di originario che non può legittimamente venire ridotto ai singoli elementi, ma che tuttavia non può neppure fare a meno di essi, non essendone indipendente. Husserl prende così contemporaneamente le distanze sia da autori quali Stumpf e Von Ehrenfehls - che, pur introducendo il concetto di fusione al fine di evidenziare la singolarità del tutto rispetto alle parti, non rinunciano definitivamente alla concezione elementaristica di stampo empiristico - sia da posizioni tipo quella gestaltista - secondo la quale la forma figurale può stare da sola accanto ad altri elementi, come un qualsiasi altro momento indipendente. Infatti il cielo stellato (l’esempio utilizzato da Husserl per spiegare le caratteristiche del momento figurale) non è né riducibile ai suoi elementi, né tantomeno separabile da essi: infatti esso è un momento quasi9-qualitativo (als ob qualitativ). Quindi l’associazionismo del pallottoliere non è più sufficiente e deve necessariamente ampliarsi a schemi di carattere più strutturalistico: anche la collezione numerica delle unità infatti contiene un momento unitario che si può apprendere per intuizione. «Fui alla fine costretto» scrive Husserl «a rinviare completamente le mie ricerche di filosofia della matematica, fino al momento in cui non fossi riuscito a penetrare con sicura chiarezza all’interno dei problemi fondamentali della teoria della conoscenza e nella comprensione critica della logica come scienza» (1900: 5). Husserl non compie così la stesura del secondo volume, contemplato dal programma iniziale, lasciando incompleta la sua Filosofia dell’aritmetica. 2. L’idea della logica pura Dopo sei anni di riflessione, Husserl decide di affrontare la questione rimasta irrisolta con lo psicologismo, pubblicando i Prolegomeni alla logica pura (che sono un’ampia introduzione alle successive sei Ricerche logiche), che si propongono di dimostrare l’assoluta irriducibilità delle oggettività logiche a qualsivoglia processo di tipo psicologico. A tal fine viene esaminata a fondo la controversia riguardante la questione se la logica, in quanto in qualche modo connessa con atti mentali, si debba o meno considerare come una parte della psicologia. Appoggiandosi alla distinzione leibniziana tra verità di ragione e verità di fatto, Husserl afferma che il regno dei fatti non può essere il terreno della verità, così come la psicologia non può fornire le leggi della logica. La netta distinzione tra ideale e reale quindi non va smussata, ma va riconosciuta e rispettata. Questa è precisamente la ragione per la quale l’interpretazione psicologistica non è attendibile: essa confonde la genesi psicologica dei giudizi logici con i fondamenti degli stessi, insomma non distingue tra inizio e origine. Husserl si schiera quindi dalla parte dei logicisti (tra i quali nomina Leibniz, Kant, Herbart e Lotze), nonostante anche le loro teorie necessitino ancora di molte modifiche. Una domanda che sorge spontanea a proposito di questo problema è: come può Husserl non ripetere Kant? Questa sembra una domanda del tutto legittima, soprattutto se si tiene conto del fatto che qui Husserl è molto preoccupato di salvare il soggetto nel suo essere e nel suo divenire empirico e al tempo stesso di mantenere l’assoluta obiettività e purezza delle essenze. Un problema analogo si era presentato a suo tempo a Kant che, per mediare tra una logica fissa e pura e il 9 Bisogna ricordare che il quasi tedesco di cui qui è questione (als ob), va inteso alla latina qua-si, come se: infatti piuttosto che di approssimazione, ha il significato di analogia. L’analogia va intesa come una relazione tra i piani diversi di due termini essenzialmente eterogenei. In questo caso, in particolare, Husserl definisce il momento figurale come quasi-qualitativo poiché vuole sottolineare come l’infinito da esso implicato non sia meramente potenziale come quello di stampo aristotelico, bensì attuale, come l’infinito qualitativo di Hegel, o meglio qua-si: l’infinito husserliano è attuale, però la sua attualità (da intendersi come attualità del potenziale) non è assolutamente assimilabile all’attualità riscontrabile nel finito.

8

mondo empirico degli oggetti, aveva inserito lo schema che, figlio dell’immaginazione trascendentale, la radice comune di sensibilità ed intelletto, riusciva a mediare tra i due contendenti senza far torto a nessuno e anzi soddisfacendoli entrambi: lo schema determinava la forma a priori dell’intuizione in generale, cioè il tempo, poi con questa determinazione si potevano applicare i princìpi dell’intelletto a qualsiasi oggetto d’esperienza. Husserl non inserisce nessuno schema per uscire dal dilemma10, bensì un’idea. Già nell’ampia introduzione alle Ricerche logiche, Husserl ha spiegato che la ragione per la quale egli vuole risalire alla logica pura è che essa si caratterizza come la custode della verità e il fondamento di tutte le scienze. Ma come è possibile raggiungere la logica nella sua purezza, non ancora intaccata da quella normatività che si caratterizza soltanto come sua vocazione? Occorre fare le opportune distinzioni e quindi togliere dal campo della logica tutto ciò che non le è strettamente essenziale. Proprio questa è la funzione delle «distinzioni essenziali» presentate in apertura della prima Ricerca logica (su Espressione e significato), volte a distinguere l’espressione dall’indice (la distinzione tra indice ed espressione riflette quella tra verità di ragione e verità di fatto dei Prolegomeni), quindi ciò che ha in sé stesso il proprio significato da ciò che invece rimanda costitutivamente ad altro e non ha valenza significativa di per sé stesso; per questo motivo vengono esclusi dall’espressione, in quanto elementi indicativi, i gesti, le espressioni dal punto di vista meramente fisico (come suoni o lettere), i vissuti psichici che possono venire comunicati a livello informativo e gli atti riempitivi (che possono riempire intuitivamente la pura forma significante). L’unica sfera di pura significazione non già implicata in una funzione indicativa, viene individuata da Husserl nella «sfera psichica isolata», dove nessun rimando ha più luogo e la purezza del significato regna incontaminata. Per assicurare l’assoluta idealità e quindi indipendenza dall’empirico, Husserl si premura di sottolineare che il significato non ha alcun nesso necessario con l’oggetto e che anzi, la totale mancanza dell’oggetto non è assolutamente in grado di precludere o limitare la comprensione del significato. Insomma non bisogna confondere Bedeutung con Gegenstand, la Gegenstandlosigkeit non è mai infatti al tempo stesso una Bedeutunglosigkeit: un nome come «montagna d’oro» ha un chiaro significato che comprendiamo nella sua interezza, pur non essendoci un oggetto ad esso corrispondente11. Il significato è ideale, infatti quando per esempio ci poniamo il problema di capire il giusto significato di una espressione, non intendiamo per espressione quello che abbiamo udito o letto qui e ora, ma l’espressione in sé, l’espressione «in specie»; se io chiedo il significato dell’espressione «le tre altezze di un triangolo si intersecano in un punto» (è questo l’esempio portato da Husserl) non voglio ovviamente sapere (perlomeno in una situazione normale, cioè se non penso che mi si stia ingannando o altro) che cosa intendesse il soggetto che lo ha detto e quali fossero i suoi vissuti psichici, invece mi interessa conoscere l’autentico significato di quell’enunciato, indipendentemente da tutto il resto, significato che rimane identico anche se io lo ripeto, lo scrivo e poi domani qualcun altro lo legge. Anche se quell’espressione è stata pronunciata da

10 «Il dilemma era soprattutto confusione», rileva Derrida 1953-54, insistendo molto sulla ossessione di Husserl per qualsivoglia tipo di genesi, ossessione che lo porta conseguentemente a considerare in maniera troppo limitata sia la logica che la psicologia e che non gli permette di uscire da un rigido formalismo logicista. La soluzione è secondo Derrida - come paiono d’altronde testimoniare le ultime opere di Husserl, che l’autore francese adotta come chiave di lettura - offerta dal concetto di genesi originaria , una genesi che si insinua nel campo puro della logica Questa genesi si può effettivamente trovare ne L’origine della geometria : gli oggetti geometrici non preesistono all’atto soggettivo che li inventa, la loro origine è storica e il loro statuto è ideale: il senso diviene e il divenire è già un senso. 11 E’ proprio basandosi su questa non-identificabilità che Husserl critica le posizioni di Sigwart e Erdmann, condividendo invece quella di Marty : «Se il significato viene identificato, come abbiamo visto or ora, con l’oggettualità dell’espressione, un nome come montagna d’oro sarebbe privo di significato. Ma qui si distingue generalmente l’assenza dell’oggetto dall’assenza di significato» (1901: 320).

9

un soggetto in un momento ben preciso, non è ad esso che rinvia il significato, nonostante non sia che per mezzo di esso che quel significato è venuto alla luce (1901: 310). Ovviamente i miei vissuti, che sono qui adesso, possono anche scomparire, ma non il significato, che rimane sempre identico a sé stesso. I giudizi possono essere molti, di persone diverse in tempi diversi, ma ciò che essi vogliono dire, ciò che significano è sempre lo stesso: «le tre altezze di un triangolo si intersecano in un punto». Il significato è quindi unità nella e nonostante la molteplicità. La distinzione tra contenuto espresso in senso soggettivo ed oggettivo si rivela inoltre di fondamentale importanza per comprendere la fluttuazione dei significati nel permanere dell’unità ideale di significato. Infatti le espressioni significative non sono secondo Husserl tutte di un medesimo tipo, ma si distinguono in obiettive, occasionali e plurivoche. Le espressioni obiettive, tutte le espressioni teoretiche ad esempio, sono quelle per le quali le circostanze del discorso e il soggetto sono irrilevanti e l’univocità non può venire compromessa; invece le espressioni plurivoche sono quelle che hanno più di un significato che viene però fissato convenzionalmente in tutte le sue accezioni; infine vi sono le espressioni occasionali, il cui significato varia a seconda della persona che parla e delle circostanze nelle quali si trova. L’esempio prescelto per chiarire quest’ultimo caso è la parola «io»: se per esempio si legge questa parola senza essere a conoscenza di chi l’ha scritta, non si può propriamente dire di avere capito il significato della parola in questione. Infatti questa parola, oltre ad avere una funzione indicativa (di rimando), nel senso che indica che il soggetto sta indicando sé medesimo, ebbene oltre a questo significato generale che vale ovviamente per tutti gli «io», ha anche un significato in senso più proprio, di che cosa si intende qui e ora con questa parola. Quindi «io», se viene letto o udito da solo, manca del suo più autentico significato e, a meno che non venga riempito intuitivamente, la comprensione di esso sarà solo generale. Come molto chiaramente sottolinea Derrida ne La voce e il fenomeno (1967: 134), con la definizione delle espressioni occasionali, l’indicazione prima scartata rientra potentemente nel cuore dell’espressione, dichiarando illusoria la pienezza prima raggiunta con le cosiddette distinzioni essenziali. Ma questa differenza sussistente tra le espressioni obiettive e quelle occasionali, come bisogna intenderla? Come se ci fossero dei significati ideali, fissi e perfetti che nessun soggetto potrà mai intaccare e dei significati che variano a seconda delle circostanze e delle persone? No, dice Husserl, «una simile concezione è priva di validità» (1901: 357). Idealmente infatti ogni espressione soggettiva si può sostituire con una espressione oggettiva, lasciando intatta l’intenzione che anima il suo significato più proprio. Tuttavia questa sostituibilità è solo ideale e forse non avrà propriamente mai luogo. Allora perché parlarne? «In realtà è chiaro che quando affermiamo che ogni espressione soggettiva potrebbe essere sostituita da una espressione oggettiva in fondo non vogliamo dire altro se non che la ragione oggettiva non ha limiti» (1901: 358). Questa è precisamente la funzione dell’idea in senso kantiano, che pur non delineando una totalità, ha il compito di non porre limiti e di spingere verso la ricerca di sempre nuovi elementi: l’idea indica verso un orizzonte indeterminatamente lontano che nessuno sforzo umano potrà mai comprendere nella sua interezza. E’ soltanto per non porre limiti alla ragione oggettiva che Husserl dice che questa sostituibilità è possibile. Questa argomentazione può risultare complicata, ma a ben guardare non lo è, basti tenere a mente che sono due i tavoli sui quali si gioca e non uno solo. Da un lato vi è un insieme di unità ideali fissamente determinate, rigide, e questi sono i significati considerati di per sé stessi, indipendentemente da quals iasi espressione che li porti alla luce e da qualsiasi soggetto che li porti nel mondo. Dall’altro lato c’è invece l’insieme dei significati obiettivi al quale noi cerchiamo costantemente di avvicinarci, ricadendo tuttavia di continuo nell’equivocità: qui tutte le espressioni o quasi sono occasionali e l’univocità è indefinitamente lontana. E’ proprio

10

facendo riferimento a questa duplicità che si può ritrovare all’interno della trattazione husserliana la distinzione tra infinito e indefinito sulla quale si era soffermato Kant: per la logica considerata nella sua pura idealità si può parlare infatti di progressus in infinitum, poiché essendo data la totalità dell’idea, l’unità ideale del significato, occorre solo trovare sempre nuovi significati, nuovi per no i, poiché tale idea è di per sé stessa un sistema fisso e rigido di significati; invece per la logica considerata nella seconda accezione si parla di progressus in indefinitum, perché è necessario cercare sempre e continuamente di sostituire le espressioni occasionali e soggettive con quelle obiettive, cercare di far sì che la logica pura funga per noi da regola, affinché la nostra ricerca continui a procedere, come se (als ob) esistesse un tutto fisso e ideale da raggiungere. Dal momento che la struttura pura della logica è in ogni caso - per noi - un’idea, anche tutti i risultati delle distinzioni essenziali non potranno essere considerati effettivi, tutto quel sistema non sarà quindi altro che una struttura teleologica, ancora a venire. Pare opportuno rilevare tuttavia che c’è un punto in cui questa duplicità dei piani non funziona, o perlomeno funziona male: è quello relativo alla extra-essenzialità degli atti riempienti rispetto alla idealità del significato. Infatti, posto che il significato basti a sé stesso per essere obiettivo e ideale, senza avere bisogno d’altro, come si potrà comprendere una frase quale: «Se manca la “possibilità” o la “verità”, l’intenzione dell’enunciato potrà essere realizzata “solo simbolicamente”; essa non può attingere la pienezza che costituisce il suo valore conoscitivo dall’intuizione e dalle funzioni categoriali che si esercitano alla sua base. Allora le manca, come si suol dire, un significato “vero”, “diretto”» (1901: 311)? In altri termini, le espressioni, per essere vere ed autentiche, devono almeno possedere l’apertura verso l’intuizione riempiente, non devono precludersi a priori la via verso gli oggetti. Il significato veicolato dall’espressione raggiunge la propria pienezza solo se è significato di qualche cosa che c’è, o che comunque potrà esserci in una possibile esperienza. Quindi anche l’idealità ha bisogno del rimando ad un esistente per essere veramente tale. Non si infrange forse così l’assoluta distinzione tra verità di fatto e verità di ragione che sin dai Prolegomeni ci si era proposti di chiarire nella loro assoluta eterogeneità? La significatività ideale dell’espressione non era forse quella caratterizzata dalla dimostrazione (Beweis), essendo propriamente solo dell’indicazione la struttura di rimando (Hinweis), inteso come rimando ad un esistente? Se l’evidenza della dimostrazione deriva dalla non-evidenza dell’indicazione 12, dal fatto che io possa poi indicare il significato ideale in un qui e ora almeno possibili, allora in che senso Hinweis e Beweis «debbono tuttavia essere tenuti ben distinti l’uno dall’altro» (1901: 293)? Il formalismo della logica husserliana viene ora alla luce in tutta la sua ambiguità: in fondo, ciò che regge la forma senza renderla vuota, è una specie di intuizionismo velato, secondo il quale la forma è sempre la forma di una espressione rivolta verso un oggetto13. Un altro aspetto sul quale è importante soffermarsi è quello riguardante l’apertura che Husserl considera come una caratteristica fondamentale del proprio sistema logico: da quale 12 Come sottolinea Ferraris, la rigida distinzione tra indice ed espressione non può che risultare problematica, infatti «se l’atto di indicare il questo è condizione così del tavolo come della tabula, è ben arduo rivendicare una priorità della espressione sulla indicazione (a meno che non se ne faccia una priorità di puro principio)» (1997: 300): proprio nella coscienza, che si caratterizza come l’origine pura del significato, non si può non rilevare il primato dell’indicazione che si era invano cercato di scartare nelle cosiddette distinzioni essenziali . Ferraris assimila quindi la condanna husserliana dell’indicazione, in quanto empirica e non apodittica, alla condanna platonica della scrittura: in entrambi i casi infatti «ciò che condanna o reprime (la coscienza contro la scrittura) è a sua volta scrittorio, ossia dello stesso ordine di ciò che viene condannato (la mente come tabula rasa)» (1997: 300-301). In quanto aggregato di tracce, cioè in quanto frutto di una scrittura interna, la coscienza non può propriamente dirsi distinta dall’indicazione, almeno non più di quanto essa si caratterizzi come realmente da essa costituita: insomma la coscienza che condanna l’indicazione è a sua volta di natura indicativa. 13 Questo argomento riceverà gli opportuni approfondimenti in Logica formale e trascendentale (1929) e in Esperienza e giudizio (1938).

11

prospettiva deve essere guardata la logica per non essere un sistema chiuso? Ovviamente non da quella della logica ideale, bensì da quella della logica normativa, che ammette un sistema, sì, formale, ma comunque aperto (qui si fonda la critica husserliana nei confronti della Logica di Kant). Infatti la logica pura è un tutto chiuso al quale sono indifferenti le espressioni individuali che possono eventualmente portarla alla luce; in questa accezione i significati sono unità ideali e rigide (1901: 357) e la novità rispetto alla tradizione è pressoché irrilevante. Invece secondo il punto di vista adottato da Husserl, la logica pura non è data, ma è la risorsa e il fine della logica normativa, per darci modo di credere che l’oggettività della ragione non ha limiti e che la nostra missione non è impossibile. Non dimentichiamo che l’essenza del linguaggio è nel carattere d’atto che dona il senso, l’aspetto essenziale è l’intenzionalità, come si sottolineerà nella quinta Ricerca logica; ad ogni diverso modo di rappresentare un oggetto corrisponde una diversa intenzione: non c’è significato che non sia significato intenzionato (1901: 173-175). Sono questi significati che mirano all’obiettività, che tendono a sostituire i significati soggettivi e occasionali in oggettivi e ideali. I singoli atti formano in questo caso il significato idealmente unitario, come se (l’als ob delle idee kantiane) fossero costitutivi, anche se la loro funzione è prettamente regolativa. Nella prima accezione invece, non si trattava tanto di «formare» il significato ideale, quanto piuttosto di «coglierlo». Questa distinzione, o meglio alternativa, tra cogliere e formare, si ritroverà ne L’origine della geometria, e sarà alla base della diversità della concezione di Husserl rispetto a quella di Kant: secondo quest’ultimo, come si legge nella Critica della ragion pura, il primo geometra ha sì scoperto delle oggettualità ideali, e il suo gesto è indubbiamente stato notevole, però ciò che egli ha svelato c’era già prima di lui, non c’è nessuna produzione degli oggetti geometrici, ma solo ricezione della loro precostituita idealità, e il gesto dello scopritore originario è solo servito affinché questa potesse entrare nel mondo e diventare disponibile per la collettività. Invece per Husserl, gli oggetti geometrici e la scienza conseguente non preesistono all’atto soggettivo, essi sorgono, vengono creati da atti assolutamente soggettivi e instaurativi: l’origine dell’idealità è perciò assolutamente storica (su questo, Derrida 1962). Quella che in questa tarda opera è l’alternativa tra «creare» e «svelare» o «scoprire», si può ritrovare nelle Ricerche logiche nella distinzione tra «formare» e «cogliere». Se la logica è un ideale in senso normativo, ogni mia singola espressione significante contribuirà, con i caratteri d’atto che la costituiscono, alla costituzione della logica pura dei significati: in questo senso la logica è un compito e la sua completezza sempre all’orizzonte. Se la logica è un ideale in senso specifico, tutto quello che si potrà fare sarà di trovare nuovi e molti significati, ma questo sarà in realtà indifferente al sistema che di per sé stesso è compiuto e ideale. Riguardo al rapporto sussistente tra logica pura e logica normativa14, la domanda che occorrerebbe porsi è forse quella relativa a quel «nulla» (ce rien) di cui parla Derrida in «Genesi e struttura» e la fenomenologia (1967: 213), nulla che impedendo alle parallele di ricongiungersi apre lo spazio di una questione trascendentale. 3. La corrente infinita dei vissuti Del 1913 sono le Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, che costituiscono un insieme positivo di considerazioni metodologiche e di analisi della struttura generale della coscienza pura, da considerarsi quali momenti preliminari ed essenziali di una ricerca propriamente fenomenologica. La prima sezione di questa imponente «introduzione generale alla fenomenologia» ripropone, anche se con termini lievemente mutati, quella differenza che si era rivelata di importanza

14 A questo riguardo, illuminanti le osservazioni di De Monticelli e Di Francesco in Lingua degli angeli e lingua dei bruti (Teoria, 1989), che analizzano parallelamente l’ideografia d i Frege, intesa come lingua totalmente priva di fattori di occasionalità, e il proposito di Russell di calare nella realtà il linguaggio puramente sintattico dei Principia Mathematica.

12

fondamentale nelle Ricerche logiche, cioè quella tra verità di fatto e verità di ragione, che qui compare nuovamente nella contrapposizione tra scienze di dati di fatto e scienze di essenze. Se le scienze di Tatsachen hanno per oggetto fenomeni e soggetti reali situati in un mondo spazio-temporale, le scienze del secondo tipo trattano di fenomeni irreali e di un soggetto trascendentale. Questa è precisamente la ragione per la quale non è più ammissibile confondere la psicologia e la fenomenologia: la fenomenologia è infatti «tanto poco psicologia, quanto la geometria è scienza naturale» (1913: 8). In maniera più generale si può dire che la scienza naturale si occupi dei dati di fatto, infatti essa sorge - ha inizio, non origine - con l’esperienza e nell’esperienza permane. Il mondo reale fa parte della nostra esistenza, senza che si debba fare nessuno sforzo. Noi ci possiamo mettere in relazione con degli altri mondi, per esempio con il mondo aritmetico: ma questo particolare tipo di mondo, per diventare un mondo «per noi», esige che ci si ponga da un punto di vista speciale, che è per l’appunto quello aritmetico, invece il mondo reale non richiede alcun mutamento della nostra posizione, e questo avviene perché esso è il mondo verso il quale si dirige naturalmente il nostro pensiero. Tale mondo naturale è composto di dati di fatto, che sono esseri individuali e, in quanto tali, casuali, cioè contingenti. Però il senso di questa contingenza tipica della fatticità viene limitato dal proprio riferirsi ad una necessità: ogni essere contingente ha infatti un’essenza, un quid, che è ciò che si trova nell’essere proprio di ogni individuo. Ebbene, se questo quid viene messo «in idea», si avrà, anziché una intuizione empirica, una intuizione d’essenza (o eidetica), che è una intuizione originalmente offerente in grado di afferrare, per così dire, l’essenza in carne ed ossa. Probabilmente Husserl è stato messo sulla via dell’intuizione eidetica proprio dalla scoperta di quei momenti figurali dei quali aveva trattato nella Filosofia dell’aritmetica. Che cos’è infatti il procedimento della Wesensschau, con la quale si coglie l’invariante delle infinite varianti, se non la generalizzazione e la formalizzazione del caso già visto in quel suo primo lavoro? Là si trattava di risolvere il problema aperto dalla apprensione istantanea di un insieme illimitatamente numeroso, e la risposta individuava nel momento sintetizzatore di ogni molteplice, un terzo elemento capace di mediare tra la semplice intuizione singolare e la rappresentazione simbolica del plurale. Anche l’essenza può venire colta descrittivamente in virtù del momento figurale e delle sue proprietà schematiche: infatti in Husserl l’essenza non è di per sé stessa un concetto descrittivo, bensì operativo, essa è ciò che permette di pensare il dato empirico sub specie universalis, cioè sussunto al concetto. L’essenza (Wesen) husserliana ha quindi la stessa funzione dello schema kantiano, con la sola differenza che pone nell’empirico, anziché nel formale, il punto di partenza: infatti anziché chiedersi «come può una categoria applicarsi al mondo dell’esperienza?», si domanda «come può il mondo empirico avere un senso?». L’intuizione eidetica, che nelle Ricerche logiche portava il nome di intuizione categoriale, è l’astrazione idealizzatrice che permette che, invece del momento non indipendente, si presenti alla coscienza l’idea di esso, l’universale. L’atto di intuizione15 eidetica deve infatti essere presupposto affinché possa esserci data una intuizione dell’universale, della specie in quanto tale (1913: 32-33). Ma attenzione, il fatto che le essenze non vengano colte nel mondo e con l’atteggiamento naturale, non autorizza a pensare che esse siano vuote fantasie: in quanto originalmente offerente, l’intuizione d’essenza è analoga alla percezione sensibile e non alla immaginazione. Infatti il «principio di tutti i princìpi» recita così: «ogni visione originalmente offerente è sorgente legittima di

15 La Wesensschau è in realtà una quasi (als ob)-intuizione e questo significa che essa non è né identica, né lontanamente paragonabile ad una intuizione vera e propria, ma solo analoga: cioè identica esclusivamente riguardo alla funzione. Come hanno già spiegato le Ricerche logiche, e come risulterà poi chiaro dal seguito della trattazione, l’intuizione dell’universale è di un tipo molto particolare, che non può mai dirsi propriamente «riempita», quanto piuttosto sempre «anelata». Occorre non dimenticare mai che per quanto riguarda la specie noi conosciamo solo il lato normativo, mai quello puro, che funge invece da regola.

13

conoscenza, tutto ciò che si dà originalmente nell’intuizione (per così dire in carne ed ossa) è da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà» (1913: 50-51). In questo principio fondamentale della fenomenologia si avverte innanzitutto il netto distacco di Husserl da Brentano, palesemente causato dall’ammissione dell’essenziale equivocità dell’essere. L’essere si dice in molti modi perché è sempre relativo al modo trascendentalmente soggettivo del suo darsi (ogni Dasein ha il suo Sosein). Solo un ingenuo pregiudizio naturalistico può portare a credere che la semplice intuizione sensibile sia l’unico modo di datità e che, correlativamente, gli unici esseri siano quelli reali. Anche il categoriale (cioè l’essere ideale, l’eidos) può dirsi dato, anche se in un suo modo proprio. Se quindi l’essere è essenzialmente equivoco, cioè relativo al modo del suo darsi, bisogna concludere che è impossibile indicare un ente privilegiato: in corrispondenza di diversi modi di datità avremo diversi tipi di evidenza. Ma come è possibile ottenere o avere tale intuizione eidetica? «Io sono consapevole di un mondo, che si estende infinitamente nello spazio e che è ed è stato soggetto ad un infinito divenire nel tempo. Esserne consapevole significa innanzitutto che io trovo il mondo immediatamente e visivamente davanti a me, che lo esperisco» (1913: 57). Questa è la tesi fondamentale dell’atteggiamento naturale. Ebbene, con l’epoché - che è propriamente ciò che rende possibile l’intuizione eidetica - anziché rimanere in questo atteggiamento, lo si muta radicalmente. Già Descartes con il dubbio radicale aveva a suo modo neutralizzato il mondo ma, dice Husserl, bisogna distinguere rigorosamente la posizione cartesiana da quella adottata dalla fenomenologia: infatti se Descartes dubita dell’obiettività della conoscenza al fine di riuscire in un secondo momento a giustificarla, la fenomenologia rinuncia a porre questo problema innanzitutto per potersi piazzare in una sfera che lo preceda. Quindi l’interesse prioritario di Husserl non va al dubbio di per sé stesso, quanto piuttosto al tentativo di dubitare. «Che cosa rimane se l’intero mondo, compresi noi uomini, viene escluso, neutralizzato?» (1913: 68). Il punto è proprio questo: che cosa rimane? Ciò che resta dopo l’epoché, che non può essere messo tra parentesi, è un «residuo fenomenologico»16 quale l’io puro, anche chiamato coscienza trascendentale. L’io puro si caratterizza secondo Husserl come una corrente di vissuti (Erlebnisstrom), che si estende oltre la sfera delle semplici cogitationes, poiché non può mai consistere di pure attualità. Occorre ancora precisare che ogni attuale cogito è caratterizzato da una dimensione intenzionale, esso è cioè coscienza «di» qualcosa; questo tuttavia non implica che tutti i vissuti siano intenzionali, basti pensare ai dati della sensazione, che sono vissuti reali ma non intenzionali17. Husserl porta quindi l’attenzione sulla distinzione, all’interno dell’insieme dei vissuti intenzionali, tra atti immanenti e atti trascendenti. Gli Erlebnisse intenzionali immanenti sono quelli che intenzionano oggetti che appartengono alla medesima corrente alla quale appartengono gli atti stessi, quelli trascendenti sono invece rivolti ad essenze o vissuti ad essi esterni. La caratteristica più rilevante che distingue l’essere fenomenico dall’essere immanente è una certa inadeguatezza: infatti per quanto si possano fare progressi nell’esperienza, essa rimarrà sempre per principio indeterminata, anche se sempre, ma mai completamente, determinabile. Quindi ogni esperienza si caratterizza come orizzonte e, in quanto tale, non può dirsi propriamente finita. Se il trascendente non può offrirsi che 16 Derrida osserva a questo proposito che la nozione stessa di residuo fenomenologico è indice del fatto che la fenomenologia non abbia «ancora superato radicalmente il dibattito dei filosofi classici, dell’empirismo e del criticismo» (1953-54: 168). Infatti o la coscienza è – in quanto residuo – assimilabile alle altre regioni ontologiche, e allora si resta intrappolati in un empirismo psicologista; oppure la coscienza è pura , quindi né concreta, né temporale: ma così l’io sarebbe esclusivamente formale e di conseguenza incapace di caratterizzarsi come l’origine del divenire delle rappresentazioni. 17 Invece, come si vedrà più oltre, il noema si caratterizzerà come un vissuto intenzionale e non reale: hyle e noema sono quelle «materie informi e forme senza materia» che Husserl si astiene qui dall’indagare perché non ancora in possesso degli strumenti metodologici necessari.

14

parzialmente e inadeguatamente, l’immanente è assoluto e privo di qualsiasi adombramento. Ovviamente anche un vissuto non è mai percepito nella sua interezza come una unità, infatti esso si caratterizza come un flusso e, in quanto tale, può essere percepito solo in quanto percorso, e percorrendo un tratto necessariamente si perdono quelli retrostanti. Ma questa specie di imperfezione (che non bisogna però mai concepire come tale) non è assolutamente assimilabile agli adombramenti infiniti della percezione trascendente. Gli Erlebnisse infatti sono percepibili grazie alla riflessione, tramite la quale il vissuto diventa oggetto di sé stesso, garantendo così la propria esistenza. Così la riduzione trascendentale mette tra parentesi ogni posizione di trascendenza: per poter scoprire il giusto significato della correlazione della coscienza con il mondo, occorre che il mondo presupposto venga destituito di valore. L’epoché sospende la urtante attualità del presente rendendola inattuale, cioè riducendola a mera possibilità; a pensarci bene è paradossale, ma non è contraddittorio 18 che la conoscenza dell’attuale sia in sé stessa un’esperienza inattuale: così come esiste un’attualità dell’inattuale (come datità dell’idea in senso kantiano o come attualità dell’infinito nel senso di Bolzano e Cantor), esiste anche una inattualità dell’attuale, che sarebbe una conoscenza intesa come discorso sull’esperienza. Inoltre la Urteilsenthaltung, non solo non toglie nulla a ciò che ha neutralizzato, ma vi aggiunge anche un nuovo senso19: dopo la riduzione infatti l’ente è posto solo come noema, cioè come puro correlato della noesi, come il «senso» dell’essere considerato nel «come» del suo modo di datità. L’epoché ha quindi trasformato in tematico ciò che prima non era che operativo, facendo sì che da una condizione anonima e passiva la neutralizzazione passasse ad una condizione esplicita e costitutiva: la riduzione trascendentale ha eliminato il mondo, riuscendo così a scoprire il senso, la struttura dell’esperienza. Quando tutto viene sospeso rimane l’io puro20, che si caratterizza come una trascendenza nell’immanenza, quindi diverso sia da una semplice forma, sia dalla coscienza empirica. L’unità dell’io puro che rimane identico nella e nonostante la molteplicità dei vissuti che lo costituiscono come flusso, è simile all’unità di una cascata: è vero che la cascata è sempre una, nonostante le gocce che la compongono siano tantissime; però sarebbe possibile, anche solo immaginare, la cascata senza l’acqua? No, perché la cascata senza l’acqua non sarebbe più nulla: ebbene, lo stesso vale per l’io puro: lo si definisce come uno ed identico, ma la molteplicità caotica degli Erlebnisse è già tutta presente. E’ indispensabile a questo punto fare una precisazione: la sfera degli Erlebnisse è caratterizzata da una sorta di duplicità, per la quale in ogni vissuto bisogna distinguere un lato orientato soggettivamente e un lato orientato oggettivamente: il primo si orienta verso la pura 18 Bolzano ne I paradossi dell’infinito del 1851, sostiene che il concetto di paradossalità va mantenuto distinto da quello di contraddittorietà: per esempio i paradossi dell’infinito non sono assolutamente contraddittori. Mentre infatti è assurdo e contraddittorio definire un numero finito come uguale alla sua metà, per quanto riguarda l’infinito, è paradossale, ma non contraddittorio, asserire che una totalità possa essere equipotente ad una parte di sé stessa. Lo stesso può dirsi del modo di datità dell’infinito: infatti l’infinito essendo attuale nella sua potenzialità, sarà chiaramente caratterizzato da un modo di datità diverso rispetto a quello del finito. 19 Mettere tra parentesi non per eliminare, ma per arricchire: come dimenticare le grandi scoperte rese possibili dalla «messa tra parentesi» dell’assioma delle parallele? La sospensione del V postulato di Euclide ha infatti arricchito notevolmente la geometria portando da un lato alla scoperta delle geometrie non-euclidee (così come la neutralizzazione del mondo nella fenomenologia non toglie nulla in realtà, ma crea i presupposti affinché qualcosa di nuovo possa essere raggiunto) e, dall’altro, a prendere coscienza del carattere empirico della geometria euclidea (dopo l’epoché ogni oggetto ricondotto al suo noema acquista la giusta rilevanza, quella relativa alla sua struttura eidetica). 20 Il reines Ich husserliano ha avuto in un primo periodo (anche definito «formalistico») forti analogie con l’Ich denke kantiano e, in un secondo periodo («trascendentale»), con il cogito cartesiano. Infatti se all’epoca delle Ricerche logiche l’io non viene tematizzato che dall’esterno, come forma o struttura categoriale, quindi come ciò che permane identico nel flusso di coscienza, in seguito, in Idee I, l’io puro viene già caratterizzato come ciò che più tardi si chiamerà Ich-pol, cioè come un polo di trascendenza immanente da cui sorge ogni Erlebnis e a cui infine ritorna.

15

soggettività (noesi), il secondo tratta invece ciò che inerisce alla costituzione dell’oggettività per la soggettività (noema). Vi è tuttavia una caratteristica comune a tutti i vissuti: il tempo fenomenologico (che può legittimamente essere definito come il problema più complesso di tutte queste Idee). Allora l’io puro è temporale - anche se il tempo di cui qui è questione non è assimilabile al tempo oggettivo e spazializzato - o meglio, l’io puro si rivela costituito nella sua essenza da un io temporale. Le analisi riguardo agli enigmi di questa coscienza temporale non possono tuttavia essere contenute in Idee (lo studio della coscienza temporale esigerebbe il mutamento delle analisi, da statiche in genetiche, cambiamento che l’autore non reputa opportuno nell’ambito della trattazione in corso), infatti Husserl stesso rimanda in nota ad un ciclo di Lezioni sulla coscienza interna del tempo tenute a Gottinga nel 190521 e poi pubblicate da Heidegger nel 1928. In quelle Vorlesungen, ciò che la fenomenologia si impone è di descrivere il tempo così come esso si presenta alla coscienza nella sua Selbstgegebenheit, evitando quindi contemporaneamente di interpretarlo a partire dal senso atemporale delle categorie utilizzate per descriverlo e, in secondo luogo, di caratterizzarlo mediante categorie che a loro volta implichino un qualche riferimento al tempo. Husserl tenta di caratterizzare il tempo in rapporto alla percezione: la percezione vera e propria si ha solo del presente, che presenta (gegenwärtigt) l’oggetto in modo proprio, nella sua fresca datità; diverso è invece il discorso per il passato: la rimemorazione ri-presenta (vergegenwärtigt) l’oggetto, che però è presente solo come modificazione della sua datità originaria; anche il futuro, come il passato, non può darci l’oggetto in eigener Person, infatti esso si caratterizza come l’anticipazione (Vorerinnerung) della percezione. Secondo Husserl - e qui si avverte il più netto distacco nei confronti delle teorie brentaniane - l’adesso presente (jetzt) non può tuttavia venire spiegato come semplice identità a sé, poiché esso si inserisce all’interno di una complessa struttura temporale: il presente ha senso solo all’interno di una struttura di rimandi. Per questa ragione, la coscienza temporale dovrebbe essere descritta non tanto come un flusso, bensì come una catena (Kette: Husserl definisce in nota la coscienza come una «catena fluente»), che forse è una immagine più adatta al fine di porre in evidenza la razionalità sussistente all’interno dell’io temporale. Infatti all’impressione (jetzt) si associa continuamente il ricordo primario o ritenzione (Erinnerung als Retention), che salva l’impressione alterandola nella forma della quasi-presenza. Oltre al ricordo primario vi è anche il ricordo secondario22 (Wiedererinnerung) o rimemorazione, che si caratterizza come una vera e propria ri-produzione di oggetti temporali. Nelle Vorlesungen del 1905 Husserl si sofferma quasi prevalentemente sul rapporto sussistente tra ritenzione e rimemorazione, e l’immagine che egli propone per spiegare la struttura temporale è una cometa, il cui nucleo è costituito dall’ora sempre attuale e la cui coda è formata dagli ora ormai passati (1928: 66). Poi, nei Bernauer Zeitmanuskripte del 1917, la seconda grande esposizione di Husserl riguardo al tema della temporalità, il nesso di impressione e protenzione si apre al futuro offerto dalla protenzione: senza il futuro il nesso temporale si limiterebbe infatti a defluire. Se la protenzione corrisponde alla ritenzione, l’attesa corrisponde alla rimemorazione: ritenzione e protenzione sono infatti due quasi-percezioni e il loro nesso con l’impressione presente è necessario, invece rimemorazione e attesa sono libere. Allora risulta chiaro come il presente 21 Anche se già nella terza Ricerca logica («Teoria delle parti e del tutto») si possono trovare le radici della problematica sul tempo, proprio nelle osservazioni relative al carattere non-indipendente dei momenti del tempo. 22 Non si deve pensare che il ricordo primario sia una riproduzione e che il ricordo secondario sia semplicemente la riproduzione di una riproduzione, infatti se ciò che io ho ritenzionalmente nella coscienza è assolutamente certo ed evidente, nella riproduzione implicata dal ricordo secondario sono possibili errori, esattamente per lo stesso motivo per il quale il ricordo secondario è libero e quello primario no: infatti l’appena-stato della ritenzione è necessario (l’impressione non può non venire registrata), invece il già-stato della rimemorazione e della ripresentazione, avendo sempre una validità relativa, rientra nella sfera della possibilità, dell’errore e quindi della libertà.

16

sia sì l’inizio dell’esperienza, ma non l’origine di essa: il punto sorgente è infatti una finzione, esattamente come l’io puro, poiché entrambi si basano su qualcosa di totalmente altro che, per la sua stessa essenza, non può ricevere una descrizione adeguata. Da che cosa è resa possibile l’evidenza del presente? Il presente è reso possibile da quello strano nesso sussistente tra ritenzione e protenzione, che costituiscono propriamente quella hyle23 - cioè quella componente reale ma non intenzionale - senza la quale la coscienza non potrebbe mai esercitare la propria attività intenzionale. E’ doveroso sottolineare che vi è una precedenza della ritenzione sulla protenzione, ma questa precedenza non è di ordine temporale, bensì trascendentale: nessuna protenzione sarebbe infatti possibile, se non vi fosse una linea ritenzionale (che è la possibilità stessa dell’iscrizione, è la traccia dell’esperienza); tuttavia è del pari opportuno rilevare che è soltanto grazie alla protenzione che si realizza la direzione all’oggetto, la tensione verso di esso. Il presente dell’impressione si caratterizza quindi come un nucleo di addensamento: in questo presente infatti non vi è uno sgorgare originario (urquellen), ma uno sgorgare per accumulazione (verquellen): il presente esteso deriva dall’addensarsi di presente impressionale, passato ritenzionale e futuro protenzionale. L’attualità del presente non è un dato, bensì un processo, infatti il Bewusstseinstrom non ha in sé stesso né inizio né fine. Presente, passato e futuro si inseguono e si intrecciano in un continuum costante che prende il nome di tempo. Il nucleo temporale dell’io puro è un continuum, è infinito. Il fatto che Husserl abbia utilizzato proprio questo termine, può fare riflettere, dal momento che la nozione di «continuo» ha un significato ben preciso nel linguaggio matematico. Infatti, proprio rifacendosi alle sue valenze nell’ambito matematico, Husserl dice che continuo è un insieme infinito di punti tale che ciascuno di questi punti è a sua volta definito da un un insieme infinito di punti24: in altri termini, continuo è un infinito alla seconda potenza. Ebbene, anche il flusso di coscienza presenta caratteristiche analoghe: esso è infatti infinito da parte a parte, e infiniti sono anche gli Erlebnisse che lo compongono. Ma allora se, come più sopra si era detto, l’io può cogliere sé stesso mediante la riflessione, ciò significa che l’io può cogliere ed afferrare l’infinito? «Ma per principio l’intera connessione non è e non può essere data in un unico sguardo. Tuttavia in certo modo, ma ben diverso, è anche essa intuitivamente afferrabile, e precisamente nel modo della “illimitatezza progressiva” delle visioni immanenti, cioè procedendo dall’Erlebnis fissato a nuovi Erlebnisse del suo orizzonte» (1913: 184). Come già aveva recitato il principio di tutti i princìpi, ogni essere ha il suo specifico modo di offrirsi in maniere corrispondente alla sua essenza: la corrente dei vissuti viene allora sì afferrata come unità, ma nello stesso modo in cui si può cogliere come unità una idea in senso kantiano, cioè in una accezione tanto ampia da corrispondere alla sua infinità. Sarebbe legittimo domandarsi perché Husserl scriva che la totalità infinita può essere intuita e non si limiti invece ad affermare che essa può essere pensata (come aveva fatto Kant nella Dialettica). Il motivo è abbastanza semplice: egli parla di intuizione poiché ciò a cui mira è l’evidenza, che è poi l’equivalente fenomenologico di verità adeguata alla datità della cosa. L’evidenza si intuisce, non si pensa; infatti solo una intuizione, immediata anche se

23 Ritenzione e protenzione infatti, in quanto non (-più, -ancora) intenzionali costituiscono la hyle, che Husserl in Ideen aveva introdotto accanto alla morphé, cioè a quel vissuto intenzionale ma non reale, identificantesi con il noema (che si caratterizza come l’oggettività dell’oggetto per il soggetto). Hyle e morphé, in quanto materie informi e forme senza materia, costituiscono il più grande problema della fenomenologia (riflettendo così quello ben più profondo sussistente tra intuizione e intenzione), che non si dimostrerà mai capace di comprendere la ragione per la quale materia e forma possano sussistere l’una separatamente dall’altra. 24 Questa definizione è in realtà appropriata per il termine denso e non tanto per il termine continuo , che è invece caratterizzato dal fatto di non avere buchi. Probabilmente l’assimilazione tra infinito e continuo, porta Husserl a non tenere conto di ulteriori distinzioni e a generalizzare laddove la matematica tenderebbe invece a distinguere rigorosamente. La definizione impropria di continuo qui riportata vuole proprio essere indice di questo più generale atteggiamento husserliano.

17

inadeguata, può salvaguardare la purezza dell’io temporale. Per essere puro l’io deve, tramite la riflessione, essere capace di intuire sé stesso: anche se l’intuizione è di qualcosa che non c’è mai completamente. La corrente dei vissuti, non potendo mai essere data in un solo sguardo, non è tanto una totalità infinita di connessioni, che implicherebbe un tutto chiuso e assoluto, quanto piuttosto un insieme indefinito di questa totalità di connessioni: però la questione si fa più complicata nel momento in cui Husserl non definisce questo indefinito come un valore limite, intrinsecamente inaccessibile, ma si impegna nel renderlo immanente, intuibile in «carne ed ossa». Anziché fare, kantianamente, dell’infinito un pretesto per confermare l’essenziale finitudine delle nostre coscienze, egli riempie l’indefinito di un contenuto concreto: l’intuizione dell’indefinito è infatti l’intuizione del possibile infinito degli Erlebnisse. «Caratteristica dell’ideazione che intuisce una “idea” kantiana (caratteristica che peraltro non ne diminuisce l’intuitività), è appunto che l’adeguata determinazione del suo contenuto, in questo caso della corrente di Erlebnisse, sia irraggiungibile» (1913: 184). Come idea si ha la perfetta datità, come continuum di vissuti con diverse infinità: questo flusso, in sé, non può venire concepito in una unità, cioè in un atto finito, altrimenti ciò a cui si arriverebbe sarebbe una infinità finita; è invece ammissibile l’idea di questo continuum, che è l’idea corrispondente al modo di datità del suo oggetto. L’idea di un continuum infinito di Erlebnisse non è essa stessa un’infinità: l’idea che abbiamo dell’infinito è finita, essa è ciò che guida il nostro procedere e che stimola il nostro cammino, è una promessa di percezione della totalità dei vissuti, non ancora (e mai lo sarà completamente) la sua realizzazione. E’ paradossale che un’idea in sé finita punti verso quell’infinito, che per noi non sarà mai altro che un indefinito, riuscendo addirittura a farcelo intuire: è paradossale, ma non contraddittorio. Proprio in chiusura delle Idee, Husserl si premura di rammentare che questo tipo di datità, per così dire imperfetta (anche se sarebbe meglio dire inadeguata), racchiude nel suo nucleo una «regola» (come dimenticare la funzione regolativa delle idee kantiane?), uno stimolo verso la possibilità ideale del suo perfezionamento: anche se intuita - o meglio, proprio perché intuita - l’idea va oltre sé stessa, confermandosi al tempo stesso come un limite e come il suo costante oltrepassamento. 4. Il mondo come orizzonte Nel semestre invernale 1919-1920, Husserl tiene a Friburgo un corso di logica genetica, volto ad indagare le strutture prime, antepredicative, dalle quali la logica ha origine. Tale indagine potrà dirsi propriamente conclusa solo vent’anni dopo, con la pubblicazione 25, nel 1938, di Esperienza e giudizio. Le analisi svolte in quest’ultima opera sono molto diverse rispetto a quelle già incontrate, ad esempio, nelle Ricerche logiche, dove la logica pura illuminava staticamente, dall’alto della sua assolutezza, la logica normativa; infatti, come già spiega il titolo, ciò di cui qui è questione è proprio il passaggio, il movimento che dall’esperienza va al giudizio e viceversa. Tra la logica e il mondo si stabilisce un nesso, un nesso genetico. In primo luogo Husserl si propone di mettere in evidenza l’essenza del giudizio predicativo, per poi giungere, in un secondo momento, ad esplicitarne i fondamenti. Ma tra tutte le forme di giudizio, ve ne è una che funga da fondamento di tutte le altre? Sì, infatti sin dai tempi di Aristotele, il giudizio copulativo, la cui forma è «S è P», è stato considerato lo schema fondamentale del giudizio. Ebbene, visto che il problema che ci si pone non riguarda l’ inizio della logica (che risponde alla domanda: come comincia la logica?), bensì la sua origine (da dove proviene la legittimità della logica?), bisogna approfondire lo studio del nesso

25 Esperienza e giudizio non ha mai ricevuto una forma definitiva da parte dell’autore medesimo, infatti l’elaborazione definitiva si deve a Ludwig Langrebe, al tempo assistente di Husserl, su contenuti e proposte però rigorosamente provenienti dal maestro, il quale un anno prima della morte diede il consenso per la pubblicazione.

18

copulativo, per individuarne l’essenza e l’origine. E’ importante insistere su questo «approfondire», infatti non vi è altro modo di raggiungere l’originario se non dal costituito. Anche il serio studioso di logica si occupa a suo modo di un problema di origine, però l’origine da lui ricercata è origine formale, conditio sine qua non; infatti egli è interessato alle leggi di formazione dei giudizi, che non includono altro che le condizioni negative della verità possibile. Però anche quando le regole formali venissero rispettate, ciò non significherebbe ancora avere raggiunto la verità: infatti se l’attività conoscitiva vuole raggiungere il suo scopo, alle condizioni formali si debbono aggiungere «i caratteri soggettivi dell’intelligibilità, dell’evidenza, e le condizioni soggettive per raggiungerla» (1938: 16). Da un lato vi è quindi la questione formale dei giudizi e dall’altro vi è invece la questione delle condizioni soggettive26 per accedere all’evidenza. Il soggetto che formula giudizi è mosso dalla propria tendenza alla conoscenza, che è naturalmente rivolta verso ciò che è, verso ciò che esiste. Quindi la conoscenza si dirige verso l’esistente e tende a racchiudere in giudizi ciò che esso è e il modo in cui è: ovviamente l’oggetto esistente deve essere già dato prima, in modo da poter poi divenire in un secondo momento oggetto del giudicare. Gli oggetti devono essere dati come «evidenti» affinché sia possibile la conoscenza ad essi relativa. Tuttavia nella datità evidente degli oggetti non è ancora inclusa nessuna forma predicativa: è questa quell’evidenza originaria che deve essere presente affinché la logica abbia un senso. E’ quindi a partire da un esistente evidente dato nella sfera antepredicativa che può e deve essere descritta la genesi del giudizio27. La teoria fenomenologica della logica considera quindi come sua parte fondamentale, costitutiva rispetto a tutte le altre, la teoria dell’esperienza antepredicativa, che fornisce i sostrati primi della stessa evidenza oggettiva. Prima di tutto infatti, prima di dare un nome alle cose e conoscerle, le cose ci sono e proprio in quanto ci sono producono in noi delle affezioni28, cioè entrano nel nostro campo di esperienza modificandolo: l’affezione infatti precede sempre l’atto soggettivo del cogliere (non possiamo cogliere se non ciò che ci si dà) e produrre un’affezione significa propriamente «emergere» da un ambiente che c’è già sempre, 26 Questa potrebbe sembrare una tematica propriamente kantiana: un dirigersi soggettivo verso l’oggetto. Certo da un punto di vista è così. Infatti nell’ambito fenomenologico l’oggetto è sempre tale per una coscienza, e qualsiasi realtà diviene oggetto solo in relazione alla coscienza che è per essenza intenzionale, coscienza-di. Però è anche vero che nella sfera di cui poi sarà questione, cioè quella antepredicativa, il soggetto non potrà dirsi propriamente attivo: come indica molto chiaramente il titolo di una serie di lezioni tenute da Husserl a Friburgo dal 1920-1926, le Lezioni sulla sintesi passiva , in questa sfera non si tratta tanto di kantiane sintesi attive, quanto piuttosto di sintesi passive: quindi anziché rivelare l’operare di una soggettività, essa rivela i dinamismi interni all’ambito dell’esperienza, le sue autonome forme di organizzazione, precedenti e indipendenti rispetto a quelle della sfera predicativa. Secondo Husserl, che riprende a questo proposito la critica di Stumpf a Kant, lo spazio non è quindi soltanto la condizione di possibilità di qualsiasi esperienza, ma ha già un contenuto positivo che può essere indagato di per sé stesso. 27 In questo senso quindi, la sfera antepredicativa ha già una forma, che però non si identifica con la forma tipica della sfera predicativa. La grammatica del vedere, del sentire e del toccare, si distingue dalla grammatica del pensare: «anche se il processo di incorporazione del significato non è in genere osservabile, il costituirsi dell’oggetto visivo deve necessariamente precedere il suo riconoscimento. Può essere riconosciuto solo in quanto già esiste» (Kanizsa 1991: 20-21). Insomma conoscenza e sensazione non si identificano. Tuttavia se Husserl all’inizio della trattazione è ben disposto ad accettare affermazioni di questo tipo, tanto da sostenere che è nella sfera antepredicativa che il giudizio ha origine, in seguito la sua posizione muterà radicalmente: quando il rapporto sussistente tra lo strato predicativo e lo strato antepredicativo si inserirà in una dimensione teleologica, non si potrà potrà più seriamente parlare di una distinzione netta tra i due strati, caratterizzandosi già sempre la grammatica del «sentire» in vista della grammatica del «pensare», che della prima non sarà altro che il giusto fine. La continuità tra i due prevarrà, in ultima analisi, su quella separazione che in un primo momento era parsa del tutto ovvia e legittima. 28 La sintesi passiva fornisce la materia sensibile sulla quale si può poi edificare una apprensione attiva: questo presuppone che vi sia uno strato comune a tutte le civiltà. Infatti non è la coscienza a costituire il mondo, ma è il mondo a costituirsi innanzitutto nella coscienza e senza nessuna iniziale partecipazione attiva da parte dell’io, cioè in una sintesi passiva.

19

producendo così un interesse. «Potremmo anche dire che ogni attività conoscitiva è preceduta ogni volta da un mondo, come suolo universale» (1938: 28), vi è quindi un livello di doxa passiva che precede29 ed è presupposto da qualsiasi attività conoscitiva. Il mondo si caratterizza quindi come una sorta di «sfondo» sul quale ha poi luogo la nostra conoscenza degli oggetti: esso è infatti costantemente già dato in una certezza passiva. Però occorre a questo proposito fare una precisazione, al fine di evitare future confusioni: nel momento in cui si pone il problema della conoscenza di un oggetto, sono due gli orizzonti che si rivelano determinanti: quello interno (poiché infinite sono le determinazioni che di tale oggetto possono essere date) e quello esterno (poiché infiniti sono gli oggetti esterni che lo determinano e lo caratterizzano, infinito è il mondo sul quale l’oggetto in questione si staglia). La nostra esperienza è infinita da parte a parte. Forse si potrebbe già tentare una prima distinzione, per rendere più chiaro il discorso: l’oggetto potrebbe essere infinito e il mondo indefinito: infatti il modo in cui è infinito l’oggetto consiste nell’infinità delle determinazioni che di esso possono essere date, a questo proposito sembrerebbe quindi legittimo parlare di «regresso all’infinito», in quanto è necessario trovare sempre nuovi membri o condizioni all’insieme dato; nel secondo caso sembrerebbe invece essere in questione il «progresso indefinito», poiché non vi è alcuna esperienza del mondo che possa dirsi propriamente data e che possa fare da limite. Il mondo però non è solo questo e, come si è già avuto modo di rilevare, l’ambiguità o equivocità dei termini (soprattutto se si tratta di idee) sono più congeniali a Husserl della banale univocità. Infatti, oltre ad essere lo sfondo di ogni nostra esperienza o la possibilità infinita di tutte le evidenze, il mondo è anche quel tutto nel quale «esiste» ogni reale, quel sostrato antepredicativo di cui gli oggetti reali non sono che determinazioni, peraltro non indispensabili all’essenza del tutto dal quale emergono (la formula scolastica a cui è spesso stata ridotta la Gestalt, «l’intero è più della somma delle parti», viene utilizzata da Husserl per spiegare il mondo sotto questo particolare punto di vista, 1938: 130). La duplicità dei piani del discorso già riscontrata nelle Ricerche logiche è tornata in tutta la sua potenza. Da un lato il mondo è l’orizzonte di tutti i singoli reali esperibili, dall’altro è l’ insieme di tutti i reali esperibili: infatti se secondo la prima accezione l’oggetto si può considerare come un prodotto della nostra attività conoscitiva, che cerca di determinare con sempre maggiore precisione lo sfondo sul quale tale oggetto si staglia, poiché ogni nuova determinazione contribuisce ad arricchire il senso di questo mondo; secondo l’altra invece tale oggetto non viene creato o determinato da noi nella misura in cui lo conosciamo, perché esso non è altro che una specificazione di quel tutto passivamente già dato che prende il nome di mondo. Quindi parlando di antepredicativo, occorre chiarire che cosa si intende per ante-: se si intende «precedenza reale», perciò fondativa, allora si rimanderà a quel piano d’esperienza autonomo che per la sua stessa essenza ignora la sua destinazione predicativa; se l’ante- fa invece riferimento ad una anteriorità funzionale, allora si ritroverà il mondo come orizzonte indeterminato, in cui l’antepredicativo non è autonomo poiché non trova propriamente realizzazione se non grazie al predicativo che, esplicitandolo e dandogli un senso, a suo modo lo crea. Ovviamente la logica risulterà diversamente caratterizzata a seconda che abbia il primo o il secondo tipo di antepredicativo come fondamento. Poniamo per un attimo che il mondo sia la totalità in cui esiste ogni reale: allora se i termini della logica elementare sono «S è P», basterà riempire questi vuoti termini di contenuti reali; la logica non sarebbe quindi altro che una idealizzazione del mondo, «un rivestimento di idee sopra il mondo dell’intuizione e dell’esperienza immediate» (1938: 41). La logica, e di conseguenza la scienza, porta alla luce un mondo che c’è già e che non ha assolutamente 29 Se in Kant l’isolamento dell’Estetica trascendentale dall’Analitica vuole essere solo di carattere metodologico, in Husserl si riscontra una effettiva priorità dell’estetica sulla logica trascendentale. Husserl distingue - almeno nei propositi iniziali - il «fare esperienza» del mondo dal «conoscere» il mondo.

20

bisogno di lei per essere tale. Ecco perché è importante ridurre, sottoporre al procedimento implacabile dell’epoché tali idealizzazioni che spengono l’autentica luce della Lebenswelt, al fine di riattualizzare il senso originario del mondo. Secondo questa prospettiva l’idea del mondo non si caratterizza più tanto come una mèta irraggiungibile, quanto piuttosto come un tutto dato, che è poi la base di tutto il resto: insomma è un punto di partenza. Ma così non si presuppone forse che il mondo abbia già un «senso», anche se originario, vero e proprio? Però se fosse veramente originario, il senso sarebbe ancora senso? Se il senso è per definizione frutto di una costruzione extra-essenziale al mondo, parlare di senso originario non è forse una contraddizione nei termini? Questi problemi non sono nuovi: li si erano già incontrati in Ideen (terza sez., cap. IV) nel rapporto sussistente tra Sinn e Bedeutung. Tuttavia occorre non dimenticare che il mondo non è solo questo «tutto» puro e originario, ma è anche un orizzonte, un’idea in senso kantiano, della quale non viene però fatto un uso dialettico se la si intende come un insieme indeterminato di tutti i nostri giudizi possibili, di tutti i nostri modi di conoscere il mondo. Come conciliare questa sorta di potenzialità, di indeterminatezza del mondo, con l’attualità e la pienezza prima riscontrate? Non bisogna assolutamente conciliare, bensì distinguere: l’antepredicativo ha infatti un duplice aspetto che non deve essere essere ridotto, ma va invece messo in luce in tutta la sua ambiguità. Infatti se il mondo fosse una possibilità indefinita, un’idea in senso kantiano, non vi sarebbe propriamente nessun dato da cui partire, ma soltanto un fine a cui tendere: in questo caso l’essenza dell’antepredicativo non consisterebbe in altro che nel suo essere in vista del predicativo che solo lo potrebbe realizzare. Da questa prospettiva quindi la logica non può più essere considerata come un semplice «rivestimento di idee», poiché il mondo non può dirsi effettivamente tale prima di venire in-formato concettualmente: il mondo come possibilità diventa reale solo grazie alle attualizzazioni predicative. Infatti se il mondo «è» solo nella misura in cui ha un senso, non può dirsi propriamente che esso sia fino a che non ne ha effettivamente uno. Rispetto al caso precedentemente trattato, la direzione della dipendenza risulta chiaramente invertita: se prima il movimento andava dal predicativo all’antepredicativo che del primo era il legittimo fondamento, adesso si va dall’antepredicativo indeterminatamente possibile al predicativo reale che del primo è la legittima realizzazione (questa ambiguità era già stata riscontrata in Ideen). Un interrogativo può sorgere spontaneo: che cosa interessa davvero a Husserl nello studio dell’antepredicativo? Che cosa vuole riuscire a mettere in luce? Ciò a cui Husserl vuole arrivare è di riuscire ad attribuire all’antepredicativo tutte quelle caratteristiche che si ritroveranno poi idealizzate, concettualizzate e impoverite nel predicativo; l’antepredicativo non potrebbe infatti fungere da sostrato inferiore, primo e fondativo rispetto a tutti gli altri, se non contenesse già tutte le determinazioni. Questa è la ragione per la quale egli introduce la distinzione tra esperienze schiette e esperienze fondate, stabilendo l’assoluta originarietà delle prime, nelle quali ci si volge direttamente al percepito, e di conseguenza la derivazione delle seconde dalle prime, non essendo la riflessione che un dirigersi indirettamente all’oggetto per mezzo di una variazione della direzione immediata. Insomma, se l’esperienza schietta è volta alla esperienza del senso, l’esperienza fondata si impegna nel produrre il senso dell’esperienza. Ma si può davvero avere una esperienza del senso che non sia già il senso di quell’esperienza? Proviamoci. Già osservando un sostrato, senza individuarlo predicativamente come un identico questo o quest’altro (cioè escludendo ogni sorta di idealizzazione), io compio un’operazione, che è un’azione vera e propria e non una semplice ricezione, è una credenza d’essere, una oggettivazione antepredicativa: viene infatti stabilito ciò che è percepito qui, ora, da me. La percezione purificata della logica ha il vantaggio di essere estremamente semplice e di percepire gli oggetti dati come veramente esistenti: è questo il fondamento che si cercava sin dall’inizio. Vediamo se una esperienza di questo tipo

21

è davvero possibile: io sono qui, ora e vedo questo; ciò mi basta per avere un oggetto individuale, anche se non individuato tramite specifiche determinazioni, e per percepirlo in quanto tale. Nella sfera antepredicativa quindi ind ividuare un oggetto del mondo significa in qualche modo indicarlo, non per altri, perché gli altri sono stati messi tra parentesi, ma solo per me stesso, infatti percepire un oggetto è come indicarlo perché la percezione individualizza e l’oggetto esiste per me solo se lo indico. Come ha fatto Husserl ad arrivare a questo risultato? Si è servito di quelle espressioni che nelle Ricerche logiche venivano definite «occasionali», in quanto aventi un ineliminabile rimando al contesto. Nella prima Ricerca logica l’esempio portato da Husserl era la parola «io»: tale termine, precisava l’autore, contiene un significato generale, che consiste nella sua stessa funzione di rimando, e poi un significato più proprio, che indica a chi si riferisce effettivamente questa parola; inoltre si insisteva molto sul fatto che se il significato nel senso più proprio non veniva intuitivamente riempito, non si poteva parlare di una comprensione effettiva. Ma - e questo è il trait d’union tra le Ricerche logiche e Esperienza e giudizio - ciò che si caratterizza come contenuto o riempimento, non necessita costitutivamente di una forma per essere veramente tale? Torniamo all’esempio precedentemente portato a proposito della logica originaria: una frase del tipo «io sono qui, ora e vedo questo», dove io, qui e ora sono dati derivanti dalla percezione sensibile, non è volta, nella sua stessa essenza, ad una idealizzazione che riesca a strapparla da quella situazione momentanea, garantendole il possesso stabile di una conoscenza condivisibile e comunicabile? Se così fosse la distinzione netta tra predicativo e antepredicativo si rivelerebbe illusoria e il mondo non potrebbe mai dirsi propriamente tale senza di noi, che con i nostri giudizi gli diamo un senso: la logica sarebbe già sempre una logica del mondo e il mondo non sarebbe comprensibile se non in quanto potenzialmente informato dalla logica (non si trovava forse già tutto questo in nuce nell’idea - intesa come compito e non come dato - di una logica pura delle Ricerche logiche?). Il problema consiste forse nel fatto che l’antepredicativo è già talmente teleologicamente rivolto al predicativo che il suo senso non è altro che mera protensione al futuro riempimento di senso oggettivo, che solo la sfera predicativa gli può fornire. Allora Husserl non solo parte dal predicativo per poi rivolgersi all’antepredicativo, ma anche quest’ultimo non ha propriamente senso se non in quanto illuminato dal primo: le determinazioni dell’antepredicativo dipendono dal predicativo al quale esse sono destinate. Ma allora come può l’antepredicativo essere definito un fondamento, e in quanto tale autonomo, che può essere spiegato di per sé stesso? In quale misura ha senso parlare di una logica originaria, se poi questa non viene realizzata che nella logica predicativa? Se l’antepredicativo rimanda a ciò che esso è supposto fondare, allora forse più che di fondamento primo si dovrebbe parlare di reciproca determinazione di un piano sull’altro: l’intreccio degli elementi prevale sulla netta distinzione 30. Queste conclusioni si basano sul fatto che l’aspetto infinito e quello indefinito dell’idea del mondo devono essere strettamente connessi affinché il mondo abbia un senso: noi infatti sappiamo che il sostrato del mondo sul quale poi si erge la sfera della predicatività è indeterminato nella sua totalità31, poiché ciò che si ha sono solo singoli elementi, che si cerca di continuo di identificare meglio con nuove percezioni, però nonostante questo dobbiamo

30 Anche se Husserl ha ribadito più volte che la sfera antepredicativa è autonoma rispetto a quella predicativa, non si riesce a vedere come questo sia davvero possibile: si potrebbe pensare che nonostante il primo sia in funzione del secondo, esso si riveli comunque capace di mantenere la sua autonomia e la sua originaria datità; tuttavia questa argomentazione non potrebbe comunque spiegare come sia effettivamente possibile esperire l’antepredicativo in quanto tale, poiché ciò che risulterebbe chiaro sarebbe soltanto che è in quanto inglobato nel logico che il pre-logico viene esperito. L’autonomia in questione si caratterizzerebbe allora come il frutto di una dipendenza originaria. 31 Infatti per noi non c’è mai un mondo assoluto, inteso come Welt che esiste come un tutto di per sé stesso, ma c’è solo sempre un mondo-ambiente, relativo ad uno spazio, ad un tempo, ad un soggetto, sussistente solo come Umwelt. A questo proposito, fondamentali le osservazioni svolte da Heidegger in Sein und Zeit.

22

agire come se il tutto implicato dall’idea fosse davvero possibile e ad esso si potesse, dopo infiniti sforzi, arrivare. Purché questo come se non conduca alla «ragione pigra» o alla «ragione rovesciata», la sua funzione non potrà essere che positiva, stimolando la ricerca e regolandone il percorso. Il mondo come totalità infinita non potrà mai essere frutto di alcuna esperienza, a meno che per «esperienza del mondo» non si intenda quell’esperienza dei singoli corpi che, essendo costantemente insufficiente, rimanda sempre ad altro da sé: il finito è indice verso l’infinito, caratterizzandosi come una sua costante, ma sempre insufficiente, determinazione. L’idea del mondo non può venire «costruita» a partire da sostrati individuali, ma soltanto indeterminatamente prospettata da questi, e non è neanche l’oggetto di una evidenza semplice, perché il mondo non è mai «dato», o meglio non è mai dato nello stesso modo in cui sono date le cose finite (non dimentichiamo che tra finito e infinito, pur sussistendo forti analogie, vi è una totale incommensurabilità: già Kant si riferiva implicitamente a questa incommensurabilità dei piani quando sosteneva che l’illusione trascendentale della ragione consistesse nell’assegnare all’infinito le proprietà appartenenti al finito): l’unità di questa idea non è né unità individuale né totalità delle parti componenti. Tale idea quindi non si può dire né ricevuta passivamente dalla sfera dell’antepredicativo (o doxa originaria, che più sopra si era detta fondativa rispetto alla certezza dell’episteme), né tantomeno costruita da un’attività logica. Sull’origine di tale idea e sulla sua unità Husserl non dice nulla (perché non si può propriamente dire nulla, bensì solo sempre cercare di dire qualcosa), ma ribadisce soltanto che in quanto idea il mondo è un orizzonte aperto per nuove proprietà determinabili, per questo esso viene definito infinito, perché ammette sempre un plus ultra oltre al già dato. E’ chiaro che di conseguenza anche il rapporto tra predicativo e antepredicativo va reimpostato: non ergendosi più su di un terreno fisso e stabile, bensì su di una possibilità aperta, il mondo della logica si caratterizza come l’idea (lo si era già visto nelle Ricerche logiche che la logica pura non era altro che un’idea, indispensabile per non limitare il procedere della ragione) di una idea (il mondo, sempre e mai completamente definito dalle nostre singole esperienze). Allora anche la conoscenza, intesa come adaequatio dei concetti con il mondo, non è altro che un’idea, e tale sarà anche la verità, il fine ultimo di ogni conoscere, poiché essa presuppone ed include una esperienza inferiore che non è mai propriamente data. Coerentemente infatti Husserl dice che l’evidenza della datità della sfera predicativa non può fare altro che riflettere l’evidenza dei sostrati che stanno a fondamento, infatti se questi ultimi «non possono mai per ragione d’essenza pervenire ad una datità adeguata, come accade per tutte le oggettività reali ove per essenza un’anticipazione appartiene al modo della loro datità, sì che la piena datità adeguata non è che un’idea all’infinito, allora questa stessa cosa vale anche per gli stati di cose che si edificano su questi oggetti; anche gli stati di cose sono quindi dati essenzialmente anticipatoriamente» (1938: 264). Tenendo conto che Husserl definisce «stati di cose» l’insieme dei giudizi che si riferiscono alle cose, non si può fare a meno di rilevare quanto indeterminatamente infinita sia, almeno per noi, la logica del mondo (anche perché per noi non vi sarà mai altro che una logica del mondo, essendo l’idea della logica sempre e mai del tutto formata dalla nostra esperienza del mondo). Anche la verità partecipa a questo nuovo modo di essere, non scomparendo ma modificandosi: essa diventa infatti un’idea, mai completamente adeguata alla cosa o al giudizio di cui è verità, poiché così come la percezione dell’oggetto continuamente cambia e si accresce, così anche il giudizio vero non contiene mai la cosa stessa, ma solo il suo senso, nella pienezza indefinita che gli è propria. Insomma, come le cose e il loro mondo sono un’idea, non tanto infinita quanto piuttosto indefinita per quanto ci riguarda, così è un’idea anche la totalità del senso che su di essi si fonda. Se il proposito iniziale era stato quello di rispondere alla domanda «perché il mondo ha un senso?», ora ci si rende conto che la risposta non può essere una sola e soprattutto non può essere esaustiva. Per Kant la questione si risolveva grazie allo schema che, mediando tra

23

categorie e mondo, faceva sì che la forma non fosse vuota e la materia avesse già un senso, ma questo era possibile proprio perché i due ambiti erano distinti (da un punto di vista metodologico) nettamente, anche se complementari. In Husserl il problema è però più complicato, perché predicativo e antepredicativo non possono dirsi propriamente due campi separati e autonomi - né effettivamente, né metodologicamente - essendo piuttosto l’uno il proseguimento dell’altro: infatti l’intuizione del mondo è già teleologicamente rivolta alla logica del mondo, e quest’ultima a sua volta non trova fondamento se non sulla prima. Non essendoci scissione, ciò che qui si cerca non è tanto un termine medio, quanto piuttosto quell’orizzonte in cui ha luogo la genesi dall’uno all’altro livello, cioè l’idea di infinito che, nella sua ambiguità, appartiene ad entrambi. Tale idea di infinito che è poi sempre indefinito, esplicita molto chiaramente l’essenza di quel continuum sussistente tra logica e mondo, per il quale il mondo si può considerare archeologicamente logico solo perché è tale anche teleologicamente: il senso finale dell’attività deve già essere tutto contenuto nella passività più originaria. La genesi dell’idea e l’idea della genesi si stagliano su un orizzonte infinito. Il compito che adesso si impone a Husserl, e che coincide con l’ultima fase della sua filosofia, consiste nell’indagare sull’origine di questa stessa genesi, esplicitandone tutte le implicazioni. 5. La storia e l’idea della filosofia La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale è il notevole risultato dell’ultimo sforzo di Husserl e racchiude un insieme di lavori risalenti ad un periodo che comincia nel 1930 per concludersi nel 1938, con la morte dell’autore. Può suscitare a tutta prima qualche perplessità il nesso istituito tra la storia e la fenomenologia, tanto da fare pensare ad una sorta di svolta o conversione, ma presto risulterà chiaro come in fondo non si tratti che di un serio e concreto approfondimento delle problematiche fenomenologiche stesse. Che cosa fa sì che Husserl rivolga alla storia la propria attenzione? E’ la coscienza di una crisi relativa al senso autentico della storia. Tale consapevolezza invita quindi a riaffermare quel senso, quell’idea di cui si è dimenticata l’importanza. C’è un’idea filosofica infinita immanente alla storia dell’Europa: è un’idea teleologica32. L’evento è sede dell’avvento del senso: l’ideale «accade» nel reale dandogli un senso, ed è la storia. Come appare già da questi brevi cenni, nella trattazione della storia Husserl vuole evitare, con un solo gesto, tanto una storia empirica, quanto un razionalismo astorico, non accontentandosi però nemmeno di una conciliazione semplicistica tra genesi e struttura, cioè quella che consiste nel considerare la struttura come il fine prestabilito della genesi: egli riuscirà nel suo intento proprio grazie all’idea di infinito, che implica che nella genesi vi sia sì una predelineazione di senso, ma non una totale coincidenza tra quanto viene predelineato e la realtà. Tuttavia è opportuno non anticipare le conclusioni e seguire Husserl nella trattazione. La prima e fondamentale nascita, apertura dell’uomo all’idea di ragione e di filosofia, è avvenuta - spiega l’autore - nella Grecia del VI secolo (a.C.). L’infinito si è imposto come 32 Questa è l’ultima e la più comp iuta forma che l’idea d’infinito in senso kantiano assume nell’orizzonte fenomenologico. Già nelle Ricerche logiche, in Idee e in Esperienza e giudizio si è avuto modo di incontrare questa idea: come idea di un divenire infinito della logica, come idea di un tempo infinito delle evidenze vissute e come idea di un mondo come orizzonte delle possibilità infinite dell’esperienza; lo statuto di tali idee non veniva però chiarito a sufficienza e spesso le ambiguità del discorso parevano insuperabili. Il problema della teleologia quale viene presentato nella Krisis è solidale con l’idea in tutte le sue forme precedentemente incontrate, e forse risulterà tutto sommato anche più chiara. L’essenza dell’Europa, che particolarizzandola (cioè distinguendola da tutti gli altri paesi) la rende universale, è l’idea della filosofia come compito infinito. Ma ciò che davvero sorprende in quest’ultimo lavoro, è che i tratti principali dell’idea della filosofia non possano propriamente manifestarsi che nella storia: se nelle opere precedenti l’empirico veniva chiamato in causa solo implicitamente per la manifestazione o la realizzazione del trascendentale, qui viene chiaramente affermato che è proprio perché la ragione, per la sua realizzazione, si risolve in un compito infinito che essa implica una storia, una progressività.

24

guida e al tempo stesso come limite del finito, la ragione si è rivelata come una possibilità per l’uomo che ha il compito di realizzarla nella storia. Il testo principale della Crisi si occupa però di una nuova nascita dell’uomo europeo: il Rinascimento33. «Innanzitutto occorre ora comprendere quell’essenziale mutamento dell’idea e dei compiti della filosofia, che avvenne all’inizio dell’epoca moderna al momento della riadozione dell’idea antica» (1935-36: 51). Il rinnovamento dell’idea antica orienta e stimola lo sviluppo di tutte le singole scienze, che presto cominciano a trasformarsi. Le due grandi conquiste dello spirito moderno - che portando a compimento il desiderio innato di totalizzazione, hanno al tempo stesso alterato l’idea antica di filosofia - sono state la generalizzazione della geometria euclidea in una mathesis universalis di tipo formale e la matematizzazione della natura. La prima innovazione si può considerare come un proseguimento della scienza antica, anche se poi si risolve in un superamento decisivo, da un lato con l’elaborazione di una assiomatica in grado di circoscrivere il campo chiuso della deduzione, dall’altro con la radicalizzazione dell’astrazione dal suo oggetto: grazie all’algebra, alla geometria analitica e ad un’analisi universale ed esclusivamente formale, si giunge infine ad una dottrina delle molteplicità34, che già Leibniz aveva intravisto e assegnato come compito per il futuro. Così si è raggiunto il campo dell’assoluta esattezza, quello delle «figure limite» della geometria pura, nei confronti delle quali qualsiasi figura immaginata o percepita non è che una mera approssimazione; questo regno dell’esattezza è chiuso, razionalmente fondato e di grande utilità per la scienza universale (1935-36: 52, 72-75). La seconda grande innovazione dell’epoca moderna porta il nome di Galileo, al quale Husserl dedica un ricco paragrafo (il nono, recante il titolo «La matematizzazione galileiana della natura», che si estende per circa trenta pagine di analisi), tanto complicato quanto interessante. Galileo viene presentato come colui che ha progettato una scienza capace di considerare la natura come una molteplicità matematica, allo stesso titolo delle figure ideali (1935-36: 53). Nonostante la sua genialità, dice Husserl, non si può evitare di porre in evidenza ciò che la sua scoperta ha d’un sol colpo ricoperto (il termine Lebenswelt racchiude quella totalità di elementi che verranno poi singolarmente esaminati). Galileo è ovviamente l’erede di un pensiero scientifico già sussistente e consacrato da parte della tradizione, però nel momento in cui egli lo rifiuta per andare oltre, non si rende conto di avere perso il senso dell’origine: infatti le operazioni idealizzanti non sentono più alcun legame con quella realtà di cui non sono che un’astrazione, e l’Umwelt (ambiente) che dovrebbe essere la matrice di ogni umana produzione, perde di significato, fino a non venire assolutamente più presa in considerazione. Ma non è tutto. Infatti Galileo, in perfetta coerenza con i suoi assunti iniziali, giunge anche a sostenere che le qualità percepite degli oggetti non siano altro che illusioni

33 La filosofia moderna viene concepita da Husserl come una lotta tra l’obiettivismo , il cui massimo rappresentante è Galileo, e il trascendentalismo , che si richiama al dubbio e al cogito di Cartesio. Come si avrà modo di argomentare più avanti, in questo combattimento si inserisce, ad un certo momento, la fenomenologia trascendentale, per portare sino alle sue ultime conseguenze la profonda scoperta cartesiana e mettersi così in condizione di prevalere definitivamente sull’obiettivismo, avviando la crisi verso la sua conclusione. 34 «Nel suo senso pieno e completo, essa non è altro che una logica formale onnilaterale (che dev’essere cioè promossa all’infinito nella sua totalità propria ed essenziale), una scienza delle forme di senso del “qualcosa in generale”, costruibili attraverso il pensiero puro nella loro vuota e formale generalità e, su questa base, delle “molteplicità” da costruire sistematicamente e in sé senza contraddizione, secondo le leggi formali elementari della non-contraddizione; una scienza cioè dell’universo delle “molteplicità” pensabili in generale» (1935-36: 74). Questi elementi, costituenti quell’analisi puramente formale che prende anche il nome di logistica, sono stati trattati anche in altre opere di Husserl (non va mai dimenticato il suo grande interesse per il formalismo, spesso all’origine delle forti ambiguità del suo pensiero): per approfondire il concetto di molteplicità definita si può rimandare a Idee I (1913: 218 e seguenti), invece per l’idea di una mathesis universalis alla seconda edizione delle Ricerche logiche (1913) e a Logica formale e trascendentale (1929).

25

soggettive, dal momento che, a suo avviso, la «vera realtà»35 (1935-36: 58-63) è di natura matematica: è da qui che sorge l’esigenza di esaminare matematicamente la natura. Husserl non esita a definire «geniale» il superamento dell’ostacolo che divideva le qualità dal calcolo e dalla misura, tramite la valutazione delle qualità soggettive stesse come indici di quantità obiettive; egli però non esita del pari a criticare tale matematizzazione, la cui estensione conduce inevitabilmente ad una sorta di circolo vizioso tra l’anticipazione ipotetica e la verificazione, circolo dal quale sarebbe possibile uscire solo riconoscendo l’assoluta autonomia del mondo antepredicativo, la pre-datità degli oggetti e, conseguentemente, la secondarietà di qualsiasi matematizzazione. Sarà proprio richiamandosi a questi ultimi elementi che la fenomenologia si schiererà contro l’obiettivismo 36 della scienza naturale matematica, affermando che esso ha prodotto un vero e proprio «occultamento di senso». Infatti i successori di Galileo radicalizzano tutte le sue scoperte portandole sino alle loro ultime conseguenze: la scienza diventa una tecnica che «opera con lettere dell’alfabeto, con segni di collegamento e di relazione (+,×, = , ecc.) e secondo le regole del giuoco della loro coordinazione» (1935-36: 75), non tenendo assolutamente più conto di quelli che sono gli effettivi fondamenti del pensiero. Perdendo la chiave di comprensione delle proprie operazioni, la scienza si aliena, perdendo così il proprio significato. Questi sono i motivi, che allora non potevano venire compresi nella loro interezza, per i quali Galileo «è un genio che scopre e insieme occulta», scopre il mondo come matematica applicata, ma lo occulta considerandolo come un’opera della coscienza scientifica37.

35 Come si è già avuto modo di sottolineare nei capitoli precedenti e come si cercherà di spiegare anche in questo, per Husserl l’espressione «vera realtà» è già di per sé stessa problematica: che cos’è la «vera realtà»? Se per verità si intendesse la verità logica, esattamente quella stessa verità della quale era questione nelle Ricerche logiche e che reggeva la distinzione tra verità di ragione e verità di fatto, allora sarebbe errato parlare di «vera realtà», poiché così come la verità non potrebbe mai fare parte del mondo, anche il mondo non potrebbe mai essere vero. Poi tenendo conto che quella stessa verità logica non era altro che un’idea (in senso kantiano) la situazione si complicherebbe ancora di più. Certo, si potrebbe obiettare che proprio perché la logica è un’idea, il mondo deve in qualche modo essere vero: infatti se il mondo non desse il proprio contributo con parziali verità, la logica sarebbe del tutto impossibile. Questa obiezione non toglierebbe nulla comunque al fatto che la verità logica nella sua interezza non possa mai venire considerata come un dato o una parte del mondo. Invece se per «verità del mondo» si volesse intendere quella verità della logica originaria della quale Husserl aveva trattato in Esperienza e giudizio, allora sarebbe sì legittimo affermare che il mondo ha una verità, ma certamente questa verità non sarebbe quella della matematica. Ogni verità di questo tipo non potrebbe mai infatti essere concepita come «nel» o «del» mondo, ma sempre conseguente ad esso, in quanto frutto di una categorizzazione comunque e sempre secondaria. Ecco perché la «vera realtà» di natura matematica di Galileo non potrà mai risultare del tutto convincente per Husserl: il compito della fenomenologia infatti sarà proprio quello di fondare trascendentalmente un mondo che non è già di per sé stesso vero. 36 E’ doveroso cercare di comprendere nella sua essenza questa critica, senza lasciarsi fuorviare da conclusioni affrettate: in sé il passaggio da una matematica che si applica alle cose alla sua logicizzazione formale (che non è altro che l’applicazione della matematica su sé stessa), che segna l’ultima grande tappa scientifica dell’epoca moderna, non è sbagliato, anzi è un ampliamento della scoperta iniziale assolutamente legittimo; ciò che però non è ammissibile è che questo metodo non venga utilizzato coscientemente (per Husserl è fondamentale la consapevolezza: sarà infatti proprio a partire dalla mancanza di essa che avrà luogo la confusione tra il mondo vero e ciò che in realtà non è altro che un metodo) e che con il tempo l’autentico orizzonte di senso sia stato trasformato e degradato. 37 Appare già da questi brevi cenni la singolarità del metodo utilizzato da Husserl per compiere le proprie analisi storiche, che può essere sintetizzato nel termine tedesco Rückfrage e che Derrida propone di tradurre con question en retour: la crisi attuale e le cause che l’hanno provocata riportano alla motivazione originaria (Ursprungmotivation) e autentica, che a sua volta rende comprensibile il disordine presente. Infatti, come Husserl stesso si premura di sottolineare, essendo originaria la sintesi tra fatticità e origine, tra empirico e trascendentale, è necessario procedere a «zig-zag» nel metodo regressivo, poiché con una argomentazione a senso unico si renderebbero possibili pericolosi fraintendimenti: «Veniamo dunque a trovarci in una specie di circolo. Si può giungere ad una piena comprensione degli inizi, soltanto a partire dalla scienza data nella sua forma attuale e attraverso la considerazione del suo sviluppo. Ma senza una comprensione degli inizi questo sviluppo, in quanto sviluppo di senso , è muto. Non ci resta altro: dobbiamo procedere e retrocedere, a “zig-zag”;

26

I notevoli risultati ottenuti dalla scienza galileiana portano presto a pensare che sia possibile una estensione dei suoi metodi ad altri campi del sapere, per esempio alla psicologia. Sono presenti tutti i presupposti affinché una estensione di questo tipo possa davvero funzionare: se la scienza matematica aveva considerato il lato fisico delle cose, astraendo da qualsiasi coscienza o soggetto, la psicologia si impegna nel costruire un ambito autonomo dello psichico sul modello del fisico, cosa peraltro possibile, vista l’universalizzabilità del metodo delle scienze della natura. Tuttavia le difficoltà non tardano a farsi sentire, soprattutto quando ci si rende conto che una psicologia di questo tipo (cioè di stampo naturalistico) perde necessariamente di vista unelemento di importanza fondamentale: la soggettività, l’essenza stessa del soggetto. Husserl riconduce le prime riflessioni radicali riguardo alla priorità assoluta della coscienza su tutti gli oggetti a Cartesio che, con il motivo trascendentale, di cui è a giusto titolo considerato il fondatore, si presenta come l’unico davvero in grado di combattere contro il dogmatismo naturalistico. Può essere curioso constatare che è proprio con il proposito di rinforzare ulteriormente l’obiettivismo che Cartesio ha fornito le armi per sconfiggerlo: «egli, nelle sue Meditazioni - proprio nel proposito di fornire i fondamenti radicali del razionalismo e, eo ipso, del dualismo - giunse a fondare originariamente alcuni pensieri, che nel loro influsso storico (come aderendo ad una nascosta teleologia storica) erano chiamati appunto a dirompere questo razionalismo mediante l’esplicitazione del suo nascosto controsenso: proprio quei pensieri che dovevano servire a fondare il razionalismo come un’aeterna veritas, recavano in sé un senso profondamente nascosto38, il quale, una volta venuto in luce, lo sradicò completamente» (1935-36: 103). La portata delle prime due Meditazioni è infatti più vasta di quanto si possa immaginare e più di quanto abbia immaginato anche il loro stesso autore. Il dubbio cartesiano dà inizio a qualsivoglia critica nei confronti delle presunta sufficienza delle evidenze matematiche, fisiche e sensibili. Per primo Cartesio decide di «passare attraverso l’inferno di una epoché quasi scettica, che non poteva essere scavalcata, e di raggiungere il portone di entrata al cielo di una filosofia assolutamente razionale per poi costruirla sistematicamente» (1935-36: 105). L’esito di questa epoché radicale è a tutti noto: se io sospendo qualsiasi validità d’essere, allora io che opero l’epoché devo per principio essere escluso dal suo ambito: io che dubito di tutto «sono» necessariamente. Esaminando poi a dovere questo suolo apodittico infine raggiunto, si vede che la sua essenza è: Ego cogito cogitata; questo significa che il mondo, perso come quell’in-sé del quale non posso non dubitare, può venire riaffermato come ciò che io penso, cioè come un elemento costitutivo delle mie cogitationes: solo in quanto cogitatum del cogito il mondo è indubitabile. Estendendo fino ai cogitata (o ideae, come le chiama Cartesio) la sfera del cogito esente da

nel giuoco delle prospettive ogni elemento deve contribuire al chiarimento dell’altro» (1935-36: 87). Quindi è indispensabile questo procedere-retrocedere, perché nel momento in cui giungiamo alla fonte costituente originaria (sempre ammesso che lo si possa), il costituito c’è già sempre. 38 Questo «senso profondamente nascosto» è particolarmente interessante e racchiude tutte le difficoltà inerenti alla effettiva storicità della storia in Husserl. Come mai il senso del pensiero dei grandi filosofi (che Husserl esamina in questa specie di storia della filosofia che è il tema centrale del manoscritto principale della Crisi) è sempre quello nascosto e mai quello che di essi ha ritenuto e tramandato la tradizione? La posizione particolare di ogni singolo filosofo non viene forse così sacrificata a quell’unica problematica che Husserl sta affrontando? Porre tutti gli elementi in un’unica prospettiva, non significa forse voler escludere implicitamente tutte quelle caratteristiche che mal si prestano ad una lettura unitaria? Sarebbe prematuro tentare di fornire una risposta senza attendere il seguito della trattazione, tuttavia si può forse già anticipare che la soluzione non va cercata in direzione di un elemento o dell’altro, quanto piuttosto nella loro reciproca implicazione. La storia del pensiero potrebbe quindi essere definita come al tempo stesso continua e discontinua, discontinua perché ogni filosofo è unico e così il suo pensiero, continua perché egli comunque porta avanti, realizza un compito comune, al quale egli dimostra di partecipare con la razionalità stessa del suo tentativo particolare. Questa soluzione è comunque soltanto ipotetica ed esige il seguito della trattazione per venire definitivamente scartata o accettata.

27

dubbio, Cartesio ha proposto implicitamente il grande principio dell’intenzionalità, del quale egli si è servito per collegare qualsiasi conoscenza obiettiva all’evidenza del cogito, anche se però «in Cartesio non c’è traccia di una vera enunciazione e di una vera trattazione del tema “intenzionalità”» (1935-36: 111). Nonostante questi importanti presupposti, Cartesio non è stato in grado di andare oltre le evidenze nelle quali credeva Galileo: infatti anche per lui la verità della fisica si identifica con la matematica e l’impresa del cogito nel suo insieme non è altro che l’ennesimo tentativo per rinforzare l’obiettivismo. Basti pensare che l’ego che rimane quale suolo apodittico dopo l’epoché, viene definito «res cogitans», quindi è ancora qualcosa: è l’anima; ma il fondatore del motivo trascendentale non si è reso conto del fatto che l’ego demondanizzato dovesse essere concepito come qualcosa di totalmente diverso (da qualsivoglia res) e non solo come diverso dal corpo fisico. Tutti questi elementi (l’ego concepito come una res e il tentativo di riconfermare la scienza obiettiva) spiegano lo strano destino del cartesianesimo che da un lato ha dato vita al razionalismo (Malebranche, Spinoza, Leibniz e Wolff), che elimina il motivo del dubbio e l’epoché, e dall’altro all’empirismo scettico, che conduce sino alle sue ultime conseguenze l’interpretazione psicologistica del cogito, sbagliandosi così completamente sulla natura della soggettività fondatrice. Può destare qualche perplessità la circostanza per la quale Husserl si impegna così a lungo nell’analizzare i pensieri e le motivazioni di Galileo e Cartesio, senza fare alcun riferimento a Kant. Inoltre, anche quando decide esplicitamente di trattare di Kant, Husserl lo fa in maniera pittosto sommaria, senza analizzare a fondo la sua filosofia, quasi come se sapesse già cosa cercare e dove trovarlo. Come mai a Kant, che viene di solito considerato il filosofo trascendentale per eccellenza, sono dedicati soltanto tre paragrafi39 (dieci pagine in tutto: a Galileo ne erano state dedicate addirittura trenta)? Poi perché così tanta reticenza nell’elogiarlo, quando persino Galileo, lo scienziato all’origine dell’obiettivismo moderno, era stato definito un «genio»? La Crisi fornisce la spiegazione di questo insolito atteggiamento: secondo Husserl, Kant non è un pensatore di primaria importanza perché la sua interpretazione è legata a quella di Hume (che al dire di Kant lo risvegliò dal suo sonno dogmatico), e nella scepsi humiana si cela un autentico motivo filosofico in grado di confutare l’obiettivismo; quindi Hume, se rettamente inteso, è chiaramente più prossimo di Kant alla vera essenza del dubbio cartesiano. Tutte le perplessità iniziali dovrebbero essere scomparse. Certo, la tradizione ha assimilato Hume ad una sorta di «bancarotta della scienza obiettiva», ad un comodo scetticismo accademico grazie al quale «egli è diventato il padre di un fragile positivismo, ancor oggi vivo, che elude gli abissi filosofici oppure li occulta superficialmente, accontentandosi di una spiegazione psicologistica delle scienze positive e consolandosi con i loro successi» (1935-36: 116). Ma il vero motivo filosofico di Hume, nascosto all’interno del suo scetticismo, consiste in una radicalizzazione senza precedenti dell’epoché cartesiana: se Cartesio aveva deluso le aspettative iniziali indirizzando l’epoché verso una giustificazione dell’obiettivismo, Hume con il suo scetticismo mette in luce come ogni conoscenza del mondo sia un «enigma inaudito», realizzando così il dubbio cartesiano nella sua interezza (1935-36: 117). Era indispensabile una filosofia di questo tipo, una filosofia assurda, per rendersi conto dell’enigmaticità della conoscenza. Infatti grazie a Hume è possibile rendersi conto che la vita è operante (leistend) nel senso che produce un senso d’essere: «l’intero mondo potrebbe essere un cogitatum costituito dalla sintesi universale delle cogitationes molteplici e fluenti» (1935-36: 118). Questa rinascita, che è al tempo stesso una radicalizzazione, del problema cartesiano fondamentale, intacca profondamente quell’obiettivismo che per molto tempo aveva dominato.

39 I paragrafi dei quali è qui questione sono quelli della sezione specificatamente incentrata sulla crisi, recante il titolo: «L’origine del contrasto moderno tra obiettivismo fisicalistico e soggettivismo trascendentale».

28

E’ quindi questa alta considerazione di Hume e del suo motivo nascosto che sta alla base dell’opinione di Husserl nei confronti di Kant: il pensiero di Kant infatti è soltanto la risposta al senso manifesto della filosofia di Hume, che però, come si è visto più sopra, non coincide con il suo senso più proprio; ecco perché egli non può essere considerato come il vero successore di Hume, caratterizzandosi piuttosto come uno tra gli esponenti del razionalismo post-cartesiano, già estraneo al significato più autentico delle Meditazioni. Infatti Kant non si richiama all’ego, bensì a delle forme e a dei concetti che sono ancora un momento obiettivo della soggettività: quello che egli cerca di dimostrare con il suo metodo è che «il mondo che appare intuitivamente deve già essere un prodotto della facoltà dell’“intuizione pura” e della «ragion pura», di quelle stesse facoltà che si esprimono nel pensiero esplicito della matematica e della logica» (1935-36: 122). Richiamandosi a questa fondazione soggettiva, Kant è più preoccupato di giustificare l’obiettività, che non di capire l’operazione stessa, tramite la quale il soggetto dà un senso (e quindi un essere) al mondo. Insomma a Kant non interessa poi tanto l’origine del senso, quanto piuttosto il senso stesso, l’origine non essendo altro ai suoi occhi che un mezzo per raggiungere lo scopo. Nonostante queste mancanze, Husserl ritiene che Kant sia comunque degno del titolo di filosofo trascendentale, poiché riconduce la possibilità stessa dell’obiettività alle forme concettuali, le categorie, proponendo così «una grande filosofia sistematica, scientifica in un modo nuovo, in cui il ritorno cartesiano alla soggettività della coscienza si ripresenta nella forma di un soggettivismo trascendentale» (1935-36: 123). Nell’ambito della secolare lotta tra obiettivismo e soggettivismo, Husserl propone la sua soluzione (che ai suoi occhi è poi l’unica vera soluzione): la fenomenologia trascendentale. Innanzitutto è indispensabile chiarire questo motivo trascendentale, ricco di sfumature e di problematiche implicazioni. Il trascendentalismo husserliano si propone fondamentalmente come una filosofia nella forma interrogativa, come un pensiero che si realizza nella forma di una domanda: è infatti grazie ad una Rückfrage che si ritorna all’io, all’ego come fondamento ultimo (o origine prima, dal momento che il procedere della Rückfrage è a «zig-zag») dell’essere e del valore: «la problematica trascendentale si aggira attorno al rapporto di questo mio io - dell’“Ego” - con ciò che dapprima viene posto come ovvio in vece sua: la mia anima; poi attorno al rapporto di questo io e della sua vita di coscienza con il mondo di cui l’io è cosciente, e di cui conosce il vero essere, nelle proprie formazioni conoscitive» (1935-36: 125). Come si vedrà più avanti, è proprio perché la sua forma è quella di una domanda, che questo pensiero può infine coincidere con l’idea stessa della filosofia. Il motivo trascendentale inoltre si concretizza in quell’operazione (Leistung) della coscienza che è una donazione di senso e di essere e che può venire effettivamente compresa solo una volta che l’obiettivismo sia stato definitivamente superato. L’ego trascendentale è infatti in primo luogo vita (Leben) nel senso forte e pieno del termine, vita come azione e come percezione: il mondo è questo, che indico, che vedo, che tocco e proprio per questo esso ha un senso per me. Qualsiasi matematizzazione o logicizzazione di questo terreno antepredicativo non sarà altro che un «abito ideale, un metodo che deve servire a migliorare mediante “previsioni scientifiche” in un “progressus in infinitum”, le previsioni grezze, le uniche possibili nell’ambito di ciò che è realmente esperito ed esperibile nel mondo della vita» (1935-36: 80). Con espressioni che ricordano «il rivestimento di idee gettato sopra il mondo dell’intuizione» di Esperienza e giudizio, Husserl ribadisce la secondarietà di qualsiasi attività scientifica, rispetto al darsi originario del mondo, come mondo che c’è già sempre: è questo concetto di Lebenswelt, fondato prima nell’ego che nelle sue categorie, che permette di superare ogni obiettivismo. L’obiettivismo ha occultato l’idea di ragione dispiegantesi nella storia. Ci si sente autorizzati ad avanzare un dubbio: come può Husserl proporsi di ritrovare o riscoprire qualcosa che di per sé non è mai dato? L’idea come può essere al tempo stesso un qualcosa, al punto da poter

29

venire ricoperto dalle scienze 40 e un progetto, uno stimolo, un indice puntato verso un orizzonte che mai potrà trasformarsi in un dato? L’idea è al tempo stesso un senso definitivamente costituito e un movimento intenzionale la cui unità si costituisce indefinitamente attraverso una serie ininterrotta di alienazioni e di prese di coscienza, proprio perché il telos considerato di per sé stesso (l’idea di per sé medesima è un «tutto») non si identifica con il telos quale esigenza della nostra ragione (l’idea per noi non sarà mai altro che un compito). La meravigliosa duplicità dell’idea in senso kantiano, infinita e indefinita al tempo stesso, permette a Husserl di dare un senso (indefinito) alla stessa esistenza storica dell’uomo a partire dall’idea di una storia infinita (come teleologia). Se però nelle opere precedentemente analizzate questa duplicità veniva sentita come pericolosa e si cercava di porla in evidenza il meno possibile, anzi anche di nasconderla, facendo apparire solamente il suo lato ideale e positivo, adesso sembra quasi che l’intreccio tra la dimensione verticale e quella orizzontale sia completamente accettato. Certo questo non implica assolutamente che tutte le difficoltà e le ambiguità vengano definitivamente chiarite, ma solo che si possano osservare gli elementi in questione in un modo nuovo, più da vicino. A tal proposito la tematica trattata non può che essere d’aiuto: se prima si trattava della logica, del tempo e del mondo, adesso si tratta di noi, uomini della storia, e del nostro contributo alla costituzione del senso. L’uomo ha un senso41 in quanto custodisce un’idea, noi però non «sappiamo ancora se questa Idea possa realizzarsi. Tuttavia, pur sotto questa forma presuntiva e in una universalità indeterminata e fluida, noi la possediamo; abbiamo dunque l’idea di una filosofia, senza sapere se e come sia da realizzare. Noi l’assumiamo come una presunzione provvisoria e l’accettiamo a scopo di ricerca; da essa ci faremo guidare» (1929-31: 44). Come possediamo questa idea? Il possesso non implica forse già sempre un avere, un tenere, un serbare? Come si può possedere una tensione? Vivendola. Ma, ci si potrebbe ancora chiedere, si può davvero vivere un’idea teleologica pura? In realtà sembra che siano due le tendenze implicate nella concezione husserliana: da un lato il senso della storia europea trova il suo fondamento in quel soggettivismo trascendentale che 40 Husserl parla di Kleid: un vestito, certo non è un vestito qualsiasi, ma ein Kleid von Ideen, comunque presuppone ugualmente un tutto ben definito alla sua base. Infatti il compito della fenomenologia trascendentale consiste nel cercare di togliere questa sovrastruttura che non fa che occultare la vera essenza dell’idea, riattivando così l’origine prima del senso, dell’essere e della storia. Tuttavia la posizione husserliana nei confronti della scienza è ambigua: se da un lato, come progetto, essa viene valorizzata al massimo, essendo la possibilità stessa di una incarnazione dell’idea, dall’altro viene svalorizzata nella sua precarietà sovrastrutturale: la scienza come progetto ha ancora quello slancio, quella tensione che la scienza come sistema compiuto ha già perduto. Questa ambiguità nei confronti della scienza non fa in realtà altro che riflettere l’ambiguità generale riguardante l’atteggiamento della fenomenologia nei confronti della scrittura (quindi nei confronti del rapporto tra ideale e reale del quale la scrittura non è che l’esplicitazione): «Nell’arco di pensiero che dalle Logische Untersuchungen conduce sino alla Krisis der Europäischen Wissenschaften, Husserl non intermette di modulare questa ambiguità. Da una parte, la caduta nell’obiettivismo - la dimenticanza della funzione delle scienze e del loro significato per l’uomo, insomma il tecnicismo in cui implode l’umanità europea - si presenta come una forma di scrittura generalizzata, di cattiva ipomnesi dove il senso dell’origine cade nell’oblio insie me al telos più autentico delle scienze; d’altra parte, la verità vivente, proprio perché richiede una tradizionalizzazione assoluta che la esenti dalle vicissitudini empiriche dei suoi scopritori, esige il ricorso a una scrittura, più autentica e vera del tecnicismo galileiano, ma nondimeno sempre legata al ricorso a indici» (Ferraris 1997: 301). Insomma, la verità che idealizzata viene poi trasposta nel linguaggio al fine di poter venire trasmessa ad altri, allo stesso tempo si realizza e si espone al pericolo dell’oblio e della distruzione. 41 Ovviamente sempre quello europeo: l’umanità europea è infatti caratterizzata da un telos situato in una prospettiva infinita che attrae, come un polo catalizzatore, tutti i telos particolari delle singole nazioni non-europee e che, a differenza della cultura europea (è infatti una questione di cultura se «In un senso spirituale rientrano nell’Europa i Dominions inglesi, gli Stati Uniti, ecc., ma non gli esquimesi e gli indiani che ci vengono mostrati nei baracconi delle fiere, o gli zingari vagabondi per l’Europa» 1935-36: 332) non hanno ancora raggiunto il livello della scienza, della filosofia e quindi sono culture di un tipo antropologico che vivono in un ambito ancora finito. Ci sono diversi livelli di vicinanza allo scopo ultimo, che sono in qualche modo normativi (appendice XXVI «Gradi della storicità. Prima storicità» 1935-36: 529-530).

30

Cartesio non era stato capace di comprendere nelle sue implicazioni ultime (a questo proposito Husserl parla di «ritorno all’Ego» e «via di coscienza»), dall’altro però si parla anche di uno «Spirito» (Geist) o «Ragione», che diviene nella storia, che fa di essa il luogo della sua rivelazione. Ma è possibile conciliare, senza cadere in pesanti contraddizioni, una filosofia radicale dell’ego cogito e una filosofia dello spirito storico? Una filosofia trascendentale può comprendere una filosofia della storia? Ebbene, l’importanza del tentativo di Husserl risiede proprio nell’avere cercato di superare questa apparente antinomia. A tale proposito può rivelarsi molto utile il confronto delle tematiche della Crisi con la quinta Meditazione cartesiana, la quale si propone esplicitamente di colmare la grande lacuna della filosofia di Cartesio, cioè la mancanza di una teoria dell’esistenza degli altri. Alla base della teoria husserliana dell’alterità, sta la distinzione, tanto netta quanto insuperabile, tra percezione immanente e percezione trascendente: se la prima può essere oggetto di una riflessione fenomenologica pura, in quanto «effettivamente» compresa, la seconda implica comunque e sempre uno scarto, una deficienza che nessuna riflessione potrà mai colmare. Infatti gli altri ego sono sempre esterni, trascendenti rispetto a me, ed io li posso conoscere (con tutti i dovuti limiti implicati da una conoscenza di questo tipo) solo costituendoli nel mio ego, ma - e qui risiede l’interesse maggiore di questa teoria - l’altro si costituisce in me precisamente come altro, estraneo che mi sfugge, che esiste come me e con il quale io posso entrare in relazione, ma che non sarà mai «me». Sono proprio queste considerazioni sul rapporto tra inglobante e inglobato che possono gettare luce sugli enigmi della storia. Nelle Meditazioni cartesiane Husserl propone il concetto di empatia (Einfühlung) che racchiude in sé il mistero della costituzione dell’altro all’interno stesso del proprio, dell’inerenza dell’altro in quanto altro alla vita propria dell’ego. Da un lato è vero che un fenomeno è tale solo per e in una coscienza, tuttavia dall’altro lato è anche vero che ciò che è nella mia «sfera appartentiva» non si caratterizza affatto come una modalità di me stesso, come un contenuto della mia coscienza: infatti l’altro si offre a me sempre in quanto altro. E’ grazie ad una «appresentazione», che è una appercezione per analogia, che si costituisce in me l’altro («nella mia monade un’altra monade» 1929-31: 135), che ha fenomenologicamente luogo come modificazione di me stesso (non esaminiamo in profondità questa Meditazione, che esigerebbe già di per sé stessa un’analisi autonoma, ma cerchiamo di ricavare da questi brevi cenni un ausilio per meglio comprendere la problematica storica). Che cos’è in questione nella conoscenza dell’altro? La costituzione fenomenologica. Tale costituzione, che si tratti di cose o di persone, ci pone sempre di fronte al paradosso di una immanenza che è nel contempo apertura verso una trascendenza. Questo paradosso raggiunge il punto culminante proprio nella costituzione dell’altro, perché in questo caso l’oggetto intenzionale è un soggetto, esattamente come chi è all’origine dell’intenzione. Tuttavia non appena ci si rende conto che questa costituzione non è reale, bensì intenzionale, ogni paradossalità svanisce. Ma non è tutto: l’altro che si costituisce in me come costitutivamente altro da me, si identifica con un’ idea, sempre approssimata42 e tuttavia mai raggiunta, tale però da rivestire una importante funzione regolativa: «nell’esperienza dell’altro, così com’esso mi si dà direttamente quando io ne approfondisco il contenuto ontico-noematico (puramente come correlato del mio cogito, la cui struttura particolare dev’essere ancora mostrata), io non ottengo che una guida trascendentale» (1929-31: 114)43. 42 Dal momento che si tratta della tematica dell’alterità, bisognerebbe forse dire «sempre appresentata»; inoltre è interessante considerare che, come l’appresentazione presuppone sempre un nucleo di presentazione, così anche l’approssimarsi all’idea presupporrà sempre un nucleo di prossimità: è nello scarto e nella negazione che si insinua la positività dell’infinito. 43 A questo proposito è doveroso richiamarsi brevemente alla concezione dell’idea di infinito quale è stata esposta da Lévinas, poiché viene esplicitamente esaminata la funzione dell’alterità per la costituzione dell’Idea. Anche Lévinas utilizza come punto di partenza per le proprie analisi le Meditazioni metafisiche di Cartesio, andando però oltre di esse, non seguendo Cartesio nel suo argomentare l’esistenza di Dio a partire da un’idea

31

Questo è stato il grande tentativo husserliano al fine di superare le difficoltà incontrate dalla nozione di storia in una filosofia del cogito: Husserl pensa di riuscire, proprio laddove Hume e Cartesio avevano fallito, grazie alla sua concezione di idealismo intenzionale. Questo idealismo «costituisce» ogni essere estraneo nell’io, ma non riducendolo all’io, bensì lasciandolo persistere nella sua alterità44. E’ in questo senso che l’alter ego, che si costituisce in me pur non essendo un mio contenuto, può fare luce sulla concezione husserliana della storia: l’idea che esso implica rende infatti possibile giustificare una autentica trascendenza (che non si risolve mai in una immanenza, ma sempre in una trascendenza nell’immanenza) della storia sul fondamento del soggettivismo trascendentale. L’idealismo intenzionale riesce in questo proposito grazie all’idea in senso kantiano che, forte della sua duplicità, pone in connessione l’io e la storia, infatti come osserva Ricoeur «occorre sottolineare il ruolo mediatore tra la coscienza e la storia che viene assegnato ad alcune Idee, Idee in senso kantiano, concepite come dei compiti infiniti, che implicano in effetti un compito senza fine e quindi una storia» (1949: 282). La storia è quindi il luogo nel quale l’uomo cerca di realizzare quell’idea di ragione che costantemente lo guida: certo dal punto di vista dell’idea stessa, che è disposta all’infinito, qualsiasi mondo circostante finito non sarà altro che una sua finitizzazione (sempre indeterminata in quanto inerente ad un orizzonte) e la sua completa realizzazione in esso sarà sempre ancora a venire. Questo significa che il pensiero può produrre soltanto verità relative? L’idea di verità ha un senso per l’uomo? Sì, perché di fatto l’idea di verità (o di ragione o di filosofia) è il motore noetico e il correlato noematico della stessa soggettività trascendentale: è l’essenza stessa dell’intenzionalità. A ben guardare una teleologia è già sempre racchiusa in un idealismo intenzionale, per il quale il senso originario non è che il suo senso finale: infatti l’intenzione mira sempre già oltre sé stessa, il suo significato è racchiuso in quella tensione che essa rappresenta. Grazie alla dimensione intenzionale del cogito trascendentale l’idea diviene evidente nelle sue realizzazioni parziali, non potendolo però mai essere nel suo contenuto più proprio che, essendo infinito, si nega per definizione ad ogni intuizione: si può avere una evidenza determinata semplicemente dell’idea (come attualità del potenziale), ma mai di ciò (che si avrebbe in noi precedentemente alla conoscenza dell’esistenza di Dio), bensì utilizzando la particolare struttura dell’idea di infinito per indicare la singolare natura formale della relazione metafisica tra il Medesimo e l’Altro: l’Altro rompe l’imperialismo del Medesimo affidandogli un compito. La paradossalità dell’idea di infinito risiede secondo Lévinas nel fatto che il suo ideatum, cioè ciò che con essa si pensa o si ha di mira, vada costantemente al di là di sé stesso quale atto di un pensiero, quindi pensando l’idea di infinito, il pensiero pensa sempre di più di quanto potrebbe in realtà pensare. Con l’idea di infinito emerge l’idea stessa della trascendenza, della vera e propria alterità: «L’infinito è il carattere proprio di un essere trascendente in quanto trascendente, l’infinito è l’assolutamente altro. Il trascendente è l’unico ideatum di cui possiamo avere in noi solo un’idea; esso è infinitamente lontano dalla sua idea - cioè esteriore - perché è infinito» (1961: 47). L’idea dell’infinito scavalca le barriere dell’immanenza, è una «sporgenza dell’essere sul pensiero che pretende di contenerlo» (1961: 24-25), è un interrogativo sempre in grado di mettere il soggetto in discussione. Tale idea non può venire tematizzata od oggettivata, poiché così facendo la si ridurrebbe alla presenza dell’Altro nello Stesso, rispetto a cui essa segna invece un momento di rottura; l’unico termine adatto a descrivere il procedere dell’idea è: Desiderio. Proprio perché il Desiderio pensa sempre di più di quanto non pensi può «misurare» l’infinità dell’infinito. Perché Desiderio? Non è forse un termine assimilabile all’amore o al bisogno? No, dice Lévinas, perché al di là della fame che può essere saziata e dei sensi che possono venire soddisfatti, esiste l’altro (che è tuttavia sempre l’Altro: la relazione etica lévinassiana è assolutamente asimmetrica, quindi non assimilabile al rapporto Ich und Du del quale parla Buber), l’assolutamente altro, il Desiderio nei confronti del quale non può venire placato, non perché deriva da una fame infinita, ma semplicemente perché non chiede alcun nutrimento. Ecco che l’idea d’infinito si identifica con la coscienza morale, perché nel suo volto l’Altro mi appare come ciò che mi misura: l’infinito misura il finito, non limitandolo ma mettendo continuamente in questione la sua libertà. In questo senso il Desiderio dell’infinito ha il rigore dell’esigenza morale. 44 Questa è precisamente la ragione per la quale la critica che Lévinas rivolge alla quinta delle Meditazioni cartesiane di Husserl non coglie nel segno: Husserl non tenta assolutamente di ridurre l’alter ego alla stessa coscienza trascendentale dell’ego, l’altro infatti rimane sempre tale e la sua conoscenza (intesa come comprensione inglobante) è sempre ancora a venire.

32

di cui essa è idea (questo argomento era già stato affrontato da Husserl in Idee I). Ma quale può essere l’evidenza dell’idea in quanto tale? E’ l’evidenza di una tensione, di un compito, vuoti però di qualsiasi oggetto determinato. Adesso risulterà chiara la circostanza per la quale si può a ragione affermare che l’idea teleologica racchiuda tutte le altre idee in senso kantiano precedentemente incontrate: essa le comprende tutte poiché si rivela come la loro condizione di possibilità: essa è infatti l’evidenza stessa della possibilità nella sua infinita apertura. Come polo d’intenzione puro, l’idea è la possibilità regolatrice (non dimentichiamo che è solo come regola che l’idea può essere presa in considerazione) dell’apparire e la certezza finita (ecco perché l’idea semplicemente e non il suo contenuto è evidente) di una determinabilità indefinita. L’idea è quindi il tramite di un rapporto: senza di essa la fenomenologia si risolverebbe in un solipsismo e l’obiettività sarebbe impossibile, il cogito non penserebbe il mondo e la storia, ma penserebbe solo sé stesso e l’intenzionalità si risolverebbe in un gioco senza significato. A questo punto occorre fare una precisazione: la distinzione tra intenzione ed intuizione, fondamentale in Kant, è sempre parsa non sussistere (in maniera esplicita) nella filosofia husserliana, secondo la quale solo un nesso inscindibile tra le due poteva generare qualcosa come un senso. Basti pensare che, nelle Ricerche logiche, quei termini che risultavano privi di una intuizione riempiente, si diceva che fossero intenzionati solo «simbolicamente», visto che il loro riferimento era ad una intuizione determinata nella sua assenza (ma non ad una intuizione del tutto mancante!). Intenzione ed intuizione erano (o meglio, sembravano essere) tutt’uno. Tuttavia, anche ammesso che questo sia vero per le opere anteriori45, non si può fare a meno di notare come l’idea teleologica non possa, per la sua stessa essenza, venire inglobata in questa rigida corrispondenza: la certezza, senza intuizione corrispondente, della determinabilità infinita dell’oggetto in generale, non è forse una intenzione vuota che fonda e rende possibile ogni intuizione fenomenologica determinata (e, di conseguenza, anche ogni intenzione particolare)? E non è così anche forse per tutte le altre forme che l’idea teleologica assume (come idea di una logica pura, come idea di una corrente infinita dei vissuti e come idea di un mondo-orizzonte)? L’idea infinita della ragione è pura di qualsiasi intuizione perché è condizione di possibilità di qualsiasi intuizione, quindi se da un lato segna lo scacco di qualsiasi rigida corrispondenza tra intuizione ed intenzione, dall’altro essa ne è la più compiuta realizzazione (purché non la si concepisca come un tutto fisso e dato): l’idea è infatti la possibilità stessa della coscienza di intenzionare la totalità infinita degli oggetti. Tuttavia l’idea in senso kantiano non viene mai descritta direttamente o tematizzata da Husserl in quanto tale, ma solo sempre nei suoi atti finiti, nelle sue intuizioni e nei suoi oggetti: questo avviene perché l’idea in senso kantiano si caratterizza all’interno della fenomenologia come un concetto operatore e non come un concetto tematico: l’idea è un compito (sempre ancora da fare), e non un dato. Da un punto di vista ancora più profondo, si potrebbe osservare che l’intenzionalità pura non può venire tematizzata dalla fenomenologia perché essa è proprio ciò a partire da cui la fenomenologia si è instaurata, riconoscendo sé stessa come lo scopo ultimo di tutta la filosofia. La fenomenologia non può tematizzare l’idea per l’ottima ragione che non può tematizzare le proprie origini, infatti la sua Endstiftung sarà sempre indefinitamente differita, mancata nel suo contenuto, anche se sempre evidente nel suo valore regolatore.

45 A questo proposito si veda la posizione di Ricoeur – secondo cui la fenomenologia di Husserl è la realizzazione di quella fenomenologia latente e di quella preoccupazione ontologica che avevano animato la filosofia di Kant (infatti egli sostiene che se Kant «limita e fonda» la fenomenologia, Husserl «la fa») - il quale scrive: «La chiave del problema è la distinzione, fondamentale in Kant, ma totalmente sconosciuta in Husserl, fra l’intenzione e l’intuizione: Kant dissocia radicalmente il rapporto a qualche cosa […] e la visione di qualche cosa. Lo Etwas = X è una intenzione senza intuizione. E’ questa distinzione che sot-tende quella del pensare e del conoscere; essa ne mantiene non solamente la tensione, ma l’accordo» (1954-55: 57).

33

Dell’idea, così come dell’origine e del fine (non sono forse tutt’uno?), non può esser detto nulla, poiché essi sono precisamente ciò a partire da cui qualcosa in generale può essere detto. Questa è la ragione per la quale l’idea ha bisogno di una storia, perché solo la storia le può fornire quell’evidenza in grado di realizzarla sempre (e solo) parzialmente: così l’idea si espone e, in un solo gesto, si rivela e si lascia minacciare. L’evento della storia impone all’avvento del senso la propria finitudine. Avviene nel VI secolo a.C. : l’idea di ragione si rivela ad alcuni uomini in Grecia. Prima di domandarsi «perché», è forse opportuno soffermarsi sugli elementi in questione e sul loro rapporto. Un’idea infinita si manifesta ad un uomo finito. Sarà in grado egli di comprendere l’infinito? Ovviamente no. Tuttavia l’uomo si può impegnare in una progressiva esplicitazione di esso, e questo diventerà quel compito capace di dare un senso alla sua esistenza. Non bisogna però dimenticare che, concretizzandosi in una dimensione finita, l’idea si altera, si allontana da quella che si definisce come la sua più autentica essenza: ma se così non fosse, l’idea non sarebbe reale e il mondo non avrebbe un senso. Questo per quanto riguarda l’inizio. Poi, con il passare del tempo46, le scienze, quelle stesse scienze che l’idea aveva reso possibili, occultano la sua infinità, fino a farla scomparire. E’ la crisi delle scienze europee. Il filosofo, quale «funzionario dell’umanità», ha in questa situazione (e sempre) il dovere di essere responsabile, affinché questa crisi abbia fine, e lo può fare illuminando a ritroso, cioè a partire dai risultati, il senso originario. Il senso autentico dell’atto costituente si può già decifrare a partire dall’oggetto costituito: questo, più che essere una necessità esteriore, è il riflesso della natura stessa dell’intenzionalità: il senso originario di ogni atto intenzionale è infatti il fine al quale esso tende. Bisogna disfare tutte le sedimentazioni e ridurre la «pericolosa ingenuità» galileiana per ridestare il vero senso della storia. Ma ci sarà un senso già di per sé stesso costituito sotto questa molteplicità di strati? Non sembrerebbe davvero possibile poter dare a questa domanda una risposta affermativa, dal momento che il senso della storia si è caratterizzato sin dal principio come un’idea, e come qualsiasi idea che non sia illusoria, anche questa non sarà altro che un progetto, una tensione alla quale gli uomini potranno indefinitamente partecipare, ma mai realizzare o concretizzare nella sua interezza. Ma se è a partire dalle sedimentazioni stesse che si può risalire al senso originario, allora non avranno anche queste un senso? Nell’indefinito divenire dell’idea, non avrà forse avuto anche Galileo il suo posto e la sua funzione? La crisi della quale egli è stato l’iniziatore involontario è stata davvero un errore oppure è stata semplicemente una necessità della storia 47? Non è un problema di secondaria importanza quello riguardante la funzione attribuita da Husserl alla questione della crisi, poiché nella sua chiarificazione si stabilisce anche il senso della teleologia. Se nella storia del senso vi fosse un momento di non-senso, ciò significherebbe che non tutta la storia è dotata di un senso, che ci sono delle parentesi; ma questo si potrebbe davvero concepire in una prospettiva teleologica? E’ Husserl stesso a fornire le indicazioni necessarie affinché non vi sia il rischio di cadere in contraddizioni di questo tipo: occorre fare una distinzione netta tra la storicità interna e la storicità esterna, in

46 E’ nel tempo che l’idea si realizza: il sovratemporale, che è in realtà l’onnitemporale, si manifesta nel temporale, esplicitando così il suo essere contemporaneamente dipendente dal tempo e sua condizione. L’idea è condizione del tempo poiché solo grazie ad essa esso ha un senso e una direzione; ma è anche dipendente dal tempo perché solo in esso l’idea può avere luogo. 47 La posizione di Husserl non è a questo proposito molto chiara: talvolta presenta la crisi come un accadimento empirico, quindi contingente ed estraneo alla teleologia della ragione, semplice errore di un uomo che ha poi condizionato gli eventi futuri; altre volte invece essa è presentata come il frutto di un errore etico-filosofico radicale, che ha segnato il fallimento di quella missione di responsabilità (ciascuno di noi con il suo operare è responsabile del divenire dell’idea) che è propria di ogni filosofo; infine si possono trovare alcuni punti, rari, nei quali la crisi viene presentata da Husserl come una necessità eidetica implicata, come sua «naturale» conseguenza, dalla sedimentazione stessa del senso.

34

cui è la prima, quale autentico apriori storico, ad essere il legittimo fondamento della seconda. L’essenza della storia, che è la storicità interna, non potrà mai venire intaccata da nessuna degradazione «esterna»: l’infinità dell’idea non verrà mai oscurata dalle sue realizzazioni. Il senso insomma può sì perdere il proprio valore, ma non potrà mai perdere la sua idealità. Come già nelle Ricerche logiche, Husserl si appoggia qui alla distinzione tra idealità in senso «specifico» e idealità in senso «normativo», ma - come d’altra parte si era già ampiamente avuto modo di osservare nel secondo paragrafo del presente lavoro - non sembra che tale distinzione possa davvero essere rigidamente mantenuta: non è forse stato l’autore stesso a dire che il telos spirituale dell’umanità europea è un’idea infinita che si caratterizza come un fine pratico della volontà e che permette così il delinearsi di una fase retta da idee normative? Non è forse vero inoltre che dopo essersi appellato all’imperativo dell’univocità e avere condannato l’equivocità quale sede di ogni errore filosofico, egli precisa in nota che «la conoscenza obiettiva e assolutamente assodata della verità è un’idea infinita» (1935-36: 545, nota 10)? Allora è chiaro che se la storicità interna riflette il lato infinito dell’idea, la storicità esterna riflette quello indefinito: la storia di per sé stessa avrà sempre il suo senso puro e ideale e non ci sarà mai alcun obiettivismo in grado di metterla in discussione; invece la storia quale la conosciamo noi è un susseguirsi continuo di svelamenti e occultamenti, di momenti nei quali seriamente ci chiediamo se essa abbia un senso: questo avviene perché la nostra storia è tale quale noi giorno dopo giorno la realizziamo, noi che cerchiamo indefinitamente di darle un senso, ma che non le daremo comunque mai il «suo» senso, poiché esso non potrà mai derivare dal nostro operare. L’identità del senso, come fondamento dell’univocità e come condizione della riattivazione del senso originario delle scienze obiettive, sarà allora sempre relativa, indeterminata, in quanto scaturente da un progetto (che già per la sua stessa definizione è finito) aperto: essa sarà quel compito che l’uomo dovrà sempre cercare (senza mai poterci riuscire) di realizzare. Allora l’univocità assoluta è sì inaccessibile, ma come può esserlo un’idea in senso kantiano, cioè sempre raggiungibile, nei suoi risultati parziali, ma mai nella sua completa infinità. In questo senso l’idea, come indefinito regola tore, è caratterizzata da una negatività che lascia alla storia i suoi diritti: la falsificazione dell’infinito attuale in un indefinito (ciò stesso di cui Hegel criticava Kant e Fichte) permette ad ogni momento della storia di contribuire alla realizzazione dell’idea. E quali saranno invece le caratteristiche dell’idea nella sua infinità? Quale funzione possiamo noi attribuire al risvolto propriamente infinito dell’idea? L’idea considerata di per sé stessa non è assimilabile alla storia, bensì alla sua condizione di possibilità: ma allora come verrà definito l’apriori di una storia che si caratterizza come il divenire dell’idea? Il merito di Husserl risiede proprio nell’avere individuato un apriori concreto, che si potesse vivere nel modo dell’orizzonte: l’apriori della storia è quindi quel sapere originario che racchiude la totalità delle esperienze storiche possibili. Questa nozione di apriori «converte dunque la condizione di possibilità astratta del criticismo nella potenzialità infinita concreta che vi era segretamente presupposta; essa fa così coincidere l’apriorico e il teleologico» (Derrida 1962: 174). L’intenzionalità pura nella sua essenza, che si realizza come progetto di un senso del mondo, è la radice stessa della storicità. Contro qualsiasi speranza di un senso unico (da intendersi sia come unico senso, sia come unica direzione), il nostro compito è quindi quello di procedere a «zig-zag» in una storia di cui per capire gli inizi, occorre partire dalla storia e dal senso quali attualmente esperiti, ma nel contempo se non si sono compresi gli inizi, lo sviluppo non verrà mai inteso quale sviluppo di senso. Forse risiede proprio in questo «zig-zag» (che esplicita meravigliosamente il nesso infinito-indefinito inerente all’idea) il significato di ciò che prende il nome di storia.

35

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Husserl Husserliana: Edmund Husserl, Gesammelte Werke, auf Grund des Nachlaßes veröffentlicht vom Husserl-Archiv (Louvain) unter Leitung von H. L. van Breda, Den Haag-Dordrecht/Boston/Lancaster, Martinus Nijhoff, 1950 ss. (dal vol. XXVII: Kluwer Academic Publishers, Dordrecht/Boston/London). Philosophie der Aritmetik. Psychologische und logische Untersuchungen I, Halle 1891 (Husserliana, XXI; a cura i I. Strohmeyer, 1983). Logische Untersuchungen, Halle 1900-1901 (Husserliana, XIX, 1-2; a cura di U. Panzer, 1984); trad. it. di G. Piana, Ricerche logiche, 2 voll., Milano, Il Saggiatore 1968. Vorlesungen zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstseins, 1905, edite a cura di M. Heidegger in Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung, Halle 1928, vol. 9 (Husserliana, X; a cura di R. Boehm, 1966); trad. it. di A. Marini, Le lezioni sulla coscienza interna del tempo dell’anno 1905, in Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, Milano, Franco Angeli 1985. Philosophie als strenge Wissenschaft, “Logos” 1911, vol. 1; trad. it. di F. Costa, La filosofia come scienza rigorosa, Pisa, Ets Editrice 1990. Ideen zu einer reinen Phänomenologie und einer phänomenologischen Philosophie, Erstes Buch, Allgemeine Einfhürung in die reine Phänomenologie, in Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung, Halle 1913, vol. 1 (Husserliana, III; a cura di K. Schuhmann, 1976); Zweites Buch, Phänomenologische Untersuchungen zur Konstitution (Husserliana, IV; a cura di W. Biemel, 1952); Drittes Buch, Die Phänomenologie und die Fundamente der Wissenschaften (Husserliana, V; a cura di W. Biemel, 1953); trad. it. di G. Alliney, E. Filippini, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica (I-II-III), 3 voll., Torino, Einaudi 1981; trad. fr. di P. Ricoeur, Idées directrices pour une phénoménologie et une philosophie phénoménologique, Paris, Gallimard 1950. Analysen zur passiven Synthesis, 1918-1926 (Husserliana, XI; a cura di M. Fleischer, 1966); trad. it. di V. Costa, a cura di P. Spinicci, Lezioni sulla sintesi passiva, Milano, Guerini 1993. Formale und transzendentale Logik. Versuch einer Kritik der logischen Verunft, in Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung, Halle 1929 (Husserliana, XVII; a cura di P. Janssen, 1974); trad. it. di G.D. Neri e pref. di E. Paci, Logica formale e trascendentale, Roma-Bari, Laterza 1966. Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, 1929-31 (Husserliana, I; a cura di S. Strasser, 1950); trad. it. di F. Costa, Meditazioni cartesiane. Con l’aggiunta dei Discorsi parigini, Milano, Bompiani 1994. Die Krisis der Europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, 1935-36 (Husserliana, VI; a cura di W. Biemel, 1954); trad. it. parziale di E. Filippini, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, il Saggiatore 1997.

36

Erfahrung und Urteil. Untersuchungen zur Genealogie der Logik (a cura di L. Landgrebe), Prague 1938 (Philosophische Bibliothek 280, Hamburg, Felix Meiner Verlag 1972); trad. it. di F. Costa e L. Samonà, Esperienza e giudizio. Ricerche sulla genealogia della logica redatte e edite da Ludwig Landgrebe, Milano, Bompiani 1995. Altri autori Bolzano B., Paradoxien des Unendlichen, Leipzig 1851; trad. it. di F. Voltaggio, I paradossi dell’infinito, Milano, Feltrinelli 1965. Brentano F., Psychologie vom empirischen Standpunkt, Wien I (1874) e Leipzig II (1925); trad. it. di G. Gurisatti e a cura di L. Albertazzi, Psicologia dal punto di vista empirico, Trento, Reverdito 1989. De Monticelli R., Di Francesco M., Lingua degli angeli e lingua dei bruti, in Teoria, Pisa, Ets Editrice 1989, IX/1, pp.68-137. Derrida J., Le problème de la genèse dans la philosophie de Husserl, diss. 1953-1954, relatore M. de Gandillac, Paris, Puf 1990; trad. it. di V. Costa, Il problema della genesi nella filosofia di Husserl, Milano, Jaka Book 1992. -trad. fr. e intr. a E. Husserl, L’origine de la géométrie, Paris, Puf 1962; trad. it. di C. Di Martino, Introduzione a L’origine della geometria di Husserl, Milano, Jaka Book 1987. -La voix et le phénomène. Introduction au problème du signe dans la phénoménologie de Husserl, Paris, Puf 1967; trad. it. di G. Dalmasso, La voce e il fenomeno. Introduzione al problema del segno nella fenomenologia di Husserl, Milano, Jaka Book 1997. -«Genèse et structure» et la phénoménologie, in L’écriture et la différence, Paris, Seuil 1967, pp. 229-251; trad. it. di G. Pozzi e intr. di G. Vattimo, «Genesi e struttura» e la fenomenologia, in La scrittura e la differenza, Torino, Einaudi 1990, pp. 199-218. -“La forme et le vouloir dire”, in Marges de la philosophie, Paris, Ed. de Minuit 1972, pp. 185-207. Ferraris M., Estetica razionale, Milano, Cortina 1997. Fink E., Les concepts opératoires dans la phénoménologie de Husserl, in Husserl, Cahiers de Royaumont, Philosophie n.3, Paris, Ed. de Minuit 1959, pp. 214-230. Gurvitch G., Les tendances actuelles de la philosophie allemande, Paris, Vrin 1930, pp. 11-66. Heidegger M., Sein und Zeit, 1927; trad. it. di P. Chiodi riv. da A. Marini, Essere e tempo, Milano, Longanesi 1995. Kanisza G., Grammatica del vedere. Saggi su percezione e Gestalt, Bologna, il Mulino 1980. -Vedere e pensare, Bologna, il Mulino 1991. Kant I., Kritik der reinen Vernunft, A: 1781, B: 1787; trad. it. di P. Chiodi e nota bibliografica a cura di A. Bosi , Critica della ragion pura, Milano, TEA 1996.

37

Lévinas E., Totalité et infini. Essai sur l’exteriorité, La Haye, Nijhoff 1961; trad. it. di A. Dall’Asta, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Milano, Jaka Book 1990. Ricoeur P., Husserl et le sens de l’histoire, in Revue de Métaphysique et de Morale, Paris 1949, pp. 280-316. -Kant et Husserl, in Kant-Studien, Band 46, Heft 1, 1954-1955, pp. 44-67.