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Il profanatore di mondi

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Angela Gagliano, fantasy. Due adolescenti appartenenti a realtà parallele. Un solo destino. Sol, terrestre londinese, si risveglia in un pianeta sconosciuto governato da leggi irrazionali e genera un blackout che avvia i mondi al collasso. Inizia così a vagare alla ricerca della strada per il ritorno sulla Terra. Cinque anni dopo il suo arrivo, quando tutto oramai sembra perduto, il veggente Muron gli restituisce la speranza grazie a una profezia. Sol giunge nella città di Samelia, dove incontra Sam. Insieme affrontano un viaggio oltre i confini dei mondi, poiché dalle loro azioni dipende il destino di tutti. Ostacolati dall'oscurità perenne, dalla magia e da continui pericoli di morte, scopriranno quanto il loro legame sia speciale, ma proibito dalle Leggi della natura. Extramondo ed extraterrestre si troveranno davanti a una scelta: condannare i pianeti o il loro amore.

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In uscita il 29/7/2014 (16,00 euro)

Versione ebook in uscita tra fine agosto e inizio settembre 2014 (6,99 euro)

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ANGELA GAGLIANO

IL PROFANATORE DI MONDI

 

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IL PROFANATORE DI MONDI Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-755-1 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Luglio 2014 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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Dedico questo romanzo al piccolo Francesco.

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PARTE PRIMA “L’amore è bensì una nebbia sollevata con il fumo dei sospiri e se questa si dissipi è un fuoco che sfavilla negli occhi degli amanti e se sia contrariato non è che un mare nutrito delle lacrime di quegli stessi amanti. E che cos’altro può mai esser l’amore se non una follia molto segreta,un’amarezza soffocante e una salutare dolcezza.”

William Shakespeare – “Romeo e Giulietta”

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1. LA VETTA. Le dita delle mani, accartocciate dal gelo, sfioravano la parete rocciosa senza avvertirla al tatto. Intorpidito al punto d’aver perduto sensibilità, aveva smesso di battere i denti. I capelli biondi, sbiancati dal ghiaccio, sembravano spilli conficcati nel cranio. Lo sforzo gli tingeva le gote di un rossore febbricitante, in contrasto con il biancore del paesaggio circostante, al quale si adattavano due occhi cristallini, colmi di determinazione. Il corpo stanco arrancava, sospinto dall’inesauribile energia dello spirito. Gli scarponi, induriti dal freddo, strisciavano sulla roccia. Conquistare la montagna si era rivelato duro, così come tutto ciò cui aveva dovuto fare fronte, approdando in una improbabile realtà. In quella scalata rimetteva ogni briciola di speranza rimastagli, l’ultima possibilità di porre fine ai suoi tormenti. I tornanti ghiacciati, a tratti pericolanti, sfilavano infiniti uno dopo l’altro. Ai lati del sentiero irregolare, arbusti rinsecchiti invitavano i visitatori a proseguire, con le loro braccia esili e spoglie. L’inverno perenne avvolgeva il pianeta, un mondo che si era rivelato diverso da quello che aveva immaginato e di cui lui stesso, si diceva, fosse il Creatore. Egli era un dio, un tempo venerato dagli abitanti di quel bizzarro universo governato da Leggi irrazionali, gli stessi che ora lo avrebbero voluto morto attribuendogli le cause del declino di cui erano caduti vittime. Il giovane adolescente si sentiva tutt’altro che una divinità, intrappolato in quella dimensione parallela e avversa, dalla quale non desiderava altro che fuggire. «Non c’è nulla di fottutamente divino in me!» imprecò, arrancando per l’ultimo tratto che conduceva alla cima. Il sentiero terminò e la furia dei venti lo colse alla sprovvista. Perse l’equilibrio e cadde. Lo strapiombo spalancò le fauci, pronto a cibarsi di lui e reclamare vendetta a nome di tutti i popoli offesi dal tradimento. Una radice, tenace nel voler sopravvivere al freddo intenso, ebbe pietà di quel giovane dall’aria innocente e offrì il proprio aiuto. Lo sorresse e lasciò che si servisse di lei per mettersi in salvo. Il vento ululò furioso. Le mani del ragazzo scivolarono sul terreno ghiacciato. Avanzò carponi sino alla vetta, aggrappandosi alla roccia. Le iridi brillarono di meraviglia nell’ammirare le forze della natura confluire nel minaccioso vortice che avvolgeva la cima della montagna.

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Nubi temporalesche frizzavano tutt’intorno, schioccando folgori che producevano suoni metallici letali. Le stesse nubi che avevano oscurato il sole e aleggiavano sui cieli di tutti i pianeti appartenenti all’universo parallelo in cui era approdato. Nuvole sterili, incapaci di spremere una sola goccia d’acqua. Il giovane si bagnò le labbra aride. Era trascorso molto tempo dall’ultima volta che aveva bevuto. Strisciò al suolo e si avvicinò al vortice. Scariche elettriche lo sfiorarono e gli bruciarono gli abiti, ma ciò non lo fermò. Sfidando la furia dei venti, si lasciò inghiottire dal turbine. Il tifone, le nubi e il vento evaporarono, sgretolando l’illusione di cui erano parte. «Dannati pianeti, in cui nulla è come sembra» disse tra i denti, mentre tornava ritto sulle proprie gambe. La smorfia si sciolse sul suo volto quando gli ultimi sbuffi di foschia liberarono la visuale. Al centro dello spiazzo si ergeva una modesta costruzione in pietra. Un casolare di montagna, mezzo sgangherato e consumato dal tempo, con le finestrelle coperte da tendine bianche. Una generosa riserva di legna giaceva accatastata sul lato della casa. Dal balcone penzolavano resti di piante appassite e la vernice sul portone era sgretolata. Tutto faceva pensare che non vi abitasse nessuno, ma dal comignolo sul tetto serpeggiava del fumo. Il giovane avventuriero sorrise, dimenticando la fatica che lo aveva condotto sin lassù. Si sentì leggero, colmo di quella sostanza incorporea che da tempo non avvertiva più dentro di sé. La speranza. La vista della casa aveva riacceso la fiducia perduta durante il lungo vagabondare. Le voci che aveva udito corrispondevano a verità. La dimora del veggente Muron esisteva davvero.

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2. SAMELIA. La musica faceva da sottofondo alla serata. Note lievi e malinconiche accordate all’animo afflitto di coloro che l’ascoltavano. L’atmosfera annebbiava la mente e avvolgeva d’apatia chi ne respirava l’aria, la stessa che si respirava ovunque sul pianeta Samelia. A un’ora dal coprifuoco le strade erano già deserte. Il giorno e la notte fusi insieme dal buio perenne. Gli abitanti si erano rifugiati nella familiarità delle proprie case, dopo una manciata di ore trascorse a perseverare nella solita routine. Trovavo inutile vivere nell’illusione che nulla fosse cambiato, quando al di là delle calde mura domestiche gli alberi sfiorivano, i frutti marcivano, gli animali morivano e la gente dimenticava cosa significasse sorridere. La crisi energetica, che da cinque anni era calata come un sudario su tutti i pianeti, si era portata via ogni cosa, a cominciare dal sole. Senza la luce, tutto si consumava, cambiava aspetto, colore e sapore. La terra non dava più buoni frutti, il poco che sopravviveva al nuovo clima aveva un cattivo gusto e le bestie perivano denutrite. Nulla restava più della prosperità dei nostri mondi, se non nei ricordi e nei miei disegni. Nei lunghi pomeriggi dopo la scuola, quando le vie si erano fatte silenziose e porte e finestre sbarrate, mi armavo di fogli e matite, dando vita a scorci di paesaggio che non esistevano più, fedelmente impressi nella mia memoria. Terminavo la mia ultima riproduzione della rigogliosa prateria che circondava il mio villaggio, prima di diventare una macchia di sterpaglia infertile, quando mio padre mi riportò al presente. «Sam, va' a vedere che combina tuo fratello.» Poggiai la matita sul tavolo e soffiai sul foglio cui stavo lavorando, ripulendolo dai residui di polvere. Il viso di mio padre, stanco e raggrinzito dalla malinconia, apparve oltre il giornale. L’improvvisa scomparsa di mia madre, tre anni prima, aveva lentamente sgretolato la personalità carismatica e combattiva con la quale si era opposto al declino della crisi energetica. Ogni tentativo di sopravvivere senza lasciarsi sopraffare dall’afflizione era svanito con l’anima di Ily Bereinor e da allora si era barricato dietro a un giornale che, a giudicare dallo sguardo fisso per ore sulla medesima pagina, avevo dedotto non leggesse affatto. Che su di lui gravasse la responsabilità di un’adolescente, io, e di un infante,

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non sembrava pesargli più del lutto. Mio fratello Raily era nato in piena crisi ed era rimasto orfano di madre prima di potersi affezionare a lei abbastanza da sentirne la mancanza. La sua allegria era incondizionata, in contrasto con la dura realtà in cui vivevamo. Sforzandosi di mostrare interesse per ciò che avevo fatto, mio padre mi fece cenno di mostrargli il disegno. «Ho dovuto utilizzare tutti i colori, per riuscire a renderlo così reale» spiegai. «Sam, è meraviglioso!» Il suo stupore era sincero. «Papà? Samelia tornerà a essere così, un giorno?» Sospirò, accarezzando con il pollice la riproduzione della vasta distesa d’erba alta, rigogliosa e costellata di fiori variopinti, estesa fin oltre l’orizzonte illuminato dal sole che irradiava tutto intorno la sua nutriente luce. In lontananza la collina, sovrastata da una macchia di alberi dagli alti tronchi e di folti arbusti, alle cui pendici un gregge di pecore pascolava indisturbato. Animali sani e ben nutriti. La meraviglia svanì, per lasciar riemergere la consueta afflizione, e mio padre calò il capo. Come molte delle persone che vivevano tempi tanto duri, egli si era ammalato d’infelicità e lo sconforto lo consumava. Assistevo impotente al lento abbandono, concentrando ogni mia energia su Raily, ma più sgravavo mio padre dalle responsabilità che gli spettavano e più la sua condizione peggiorava. «Va' da Raily, prima che combini qualche pasticcio.» Senza rispondere alla mia domanda, mi restituì il disegno, spiegò il giornale e vi si schermò. Sentii la gola stringersi in una morsa, nell’assistere alla rovina di un uomo che tempi addietro avevo veduto come un eroe. Roland Rosenfer, un tempo era uno stimato commerciante, viaggiatore, brillante, divertente e scelto tra un discreto numero di corteggiatori da Ily Bereinor, la più bella donna del villaggio. Dando alla luce me e mio fratello, Roland e Ily avevano costruito una famiglia, la stessa che anni dopo si era sgretolata come carta incenerita. «Papà…» «Uhm?» «Il tuo giornale è al contrario.» Gli diedi le spalle, prima di poter scorgere la vergogna sul suo volto invecchiato dalla resa. Trovai Raily in corridoio, al buio, e per poco non inciampai nel suo corpicino celato dall’oscurità. «E tu che ci fai qui, tutto solo?» Raily emise un gridò acuto e batté le mani, folle di gioia. Mio fratello, nato senza paura e con una infinita riserva di allegria, aveva i capelli rossi come me, caratteristica dei Bereinor, e la carnagione scura tipica dei Rosenfer. Gli occhi, dal taglio tondo e di un bruno intenso, luccicavano di intelligenza.

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Raily diede una sonora succhiata ed emise un versetto dal significato chiaro soltanto a lui. Gli spettinai i capelli, intenerita dalla sua ingenuità. Aveva due anni compiuti eppure non parlava ancora. Mio padre riteneva fosse una conseguenza dello shock per la perdita della mamma, ma in cuor mio preferivo credere che Raily risparmiasse energie per sviluppare altre utili peculiarità. La luce fioca proveniente dal salotto illuminava il corridoio abbastanza da farmi scorgere il visino di Raily. «Che vuoi dirmi, piccola peste?» Il piccolo additò con l’indice paffutello un punto in alto, là dove la porta chiusa impediva l’accesso alla Camera dei Sogni. Ero la sola a possederne la chiave, affidatami dopo la morte di mia madre, affinché la tenessi pulita. Una gran perdita di tempo, considerando che nessun ospite era più venuto a farci visita da quando il sole si era oscurato. Avevo mantenuto l’impegno per un paio di mesi, poi avevo smesso di occuparmene. Continuavo però a custodirne la chiave, che portavo sempre con me. «Vorresti entrare? Sai che non ti è permesso.» Infilai le dita sotto le ascelle di Raily e cominciai a solleticarlo, ma invece di ridere si scansò. «Non ti piace più il solletico?» Borbottò e ripeté il gesto con l’indice. La sua serietà mi incuriosì. Fu così che notai la lampadina accesa, proprio sopra la porta della Camera dei Sogni. Strabuzzai gli occhi, nel vedere la luce color porpora lampeggiare nell’ampolla. Raily cominciò a schiamazzare. Mi bagnai le labbra e passai le mani tra i capelli, mentre venivo colta da infinite emozioni. La Camera dei Sogni era occupata, o così lasciava intendere la luce accesa, ed essendo la sola a possederne la chiave, significava che un ospite era venuto a farci visita, cosa che non accadeva più da cinque lunghi anni. Lo stato d’abbandono in cui avevo lasciato la stanza era riprovevole, abbastanza da rendermi immeritevole d’annunciare l’evento. Restituire la speranza a un popolo afflitto e rassegnato era un onore che non sentivo d’essermi guadagnata. «Sai cosa significa?» chiesi a Raily. Il piccolo batté le mani. Lo zittii, puntandomi l’indice sulle labbra. Raily smise di agitarsi, prese il succhiotto e se lo ficcò in bocca, obbediente. I risultati del mio impegno con lui erano soddisfacenti. Raily cresceva sano e ben educato, ma per quanto ne fossi orgogliosa cresceva in me la sensazione d’essere stata gravata prematuramente dalle responsabilità. «Andrò dentro a controllare, tu aspetta qui e non fare rumore.» Se dovevo rendere pubblica la mia negligenza, era saggio essere certa di non aver preso

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un abbaglio. Sfilai la catenina che avevo al collo e infilai la chiave nella toppa. L’ingranaggio fece i capricci, disturbato dopo un lungo riposo. L’aria viziata m’investì. Starnutii, per via della polvere che aleggiava, smossa dal mio passaggio. Dovetti tapparmi la bocca, per non soffocare. Oltrepassai l’anticamera, ove residui di fiori secchi giacevano sbriciolati ai piedi del vaso in ceramica bianca, posato sul tavolo in vetro, opaco per lo sporco. Ily amava fiori. Quand’era in vita, ogni mattina usciva per coglierne di nuovi, rinnovando profumo e colore sia all’interno della camera che nel resto della casa. Aveva continuato a farlo con cura meticolosa, sino a quando i fiori erano scomparsi da Samelia. Infilai il corridoio e passai tra i due armadi a muro colmi di biancheria. Mi domandai se la polvere fosse riuscita a insinuarsi anche lì dentro. Seguii la luce azzurra proveniente dal fondo fino a che non ne fui avvolta. La Camera dei Sogni, di forma ovale, era frutto del lavoro di un gruppo di uomini saggi che ne avevano studiato il funzionamento, brevettato la costruzione e fatto sì che ciascun abitante dei mondi ne possedesse una per provvedere al fabbisogno energetico della popolazione. Tutti gli oggetti che adornavano angoli e pareti derivavano dal cospicuo tesoro accumulato da mio padre durante i suoi viaggi, quando ancora era impegnato nel commercio. Al centro troneggiava il letto a baldacchino, costruito da Roland in persona. La struttura era interamente di legno, rivestita da una vernice bianca resistente all’umidità. Sulle quattro colonne si arrampicavano edere di resina dipinte a mano da mia madre. Il materasso era alto all’incirca trenta centimetri, composto da strati di materiali differenti, studiati per garantire il miglior risposo. Il tulle bianco, attraversato da fili argentei, lo avvolgeva, velando ciò che vi era all’interno. Nonostante la sporcizia, era ben visibile la sagoma di un individuo disteso supino sul materasso. Nessun abbaglio. La luce rossa aveva dato il giusto segnale. Un sognatore era tornato a Samelia. Timorosa mi avvicinai per osservare la figura, quando gli insegnamenti di mia madre mi tornarono alla mente. La Camera dei Sogni andava preparata ogni giorno. La luce rossa stava a significare che un ospite era giunto, pertanto l’accesso era vietato sino a che non si fosse spenta, indicando che il visitatore se n’era andato. Nell’eventualità di un arrivo improvviso, durante le ore di pulizia, l’allontanamento doveva essere immediato. Le regole non erano molte, ma ben precise, importanti. Indugiai, indecisa se andare da mio padre, annunciare il lieto evento e sorbirmi la doverosa ramanzina, o approfittare dell’occasione, per togliermi

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qualche curiosità. L’uomo terrestre, simile ai sameliani nell’aspetto, restava un individuo piuttosto enigmatico. Rispettato e venerato come un dio, confinato in una realtà grigia, in balia di Leggi razionali. Noia da cui aveva trovato il modo di sfuggire attraverso i sogni, brodo primordiale per la vita sui nostri pianeti. Un giorno, lo stesso artefice del sistema perfetto aveva spezzato l’equilibrio, portandosi via la prosperità dei mondi e la ragguardevole reputazione guadagnata nei secoli. Afferrai la rete e la feci scorrere lateralmente, abbattendo l’ultima barriera tra me e colui che ci aveva donato la vita e poi tradito, senza alcuna compassione. Il fiato mi mancò all’istante e non fu per via del pulviscolo. Il sognatore era un giovane maschio, pressappoco della mia stessa età. I capelli ondulati, di un biondo lucente, che si allargavano sul cuscino in onde disordinate, gli conferivano un aspetto selvaggio. I tratti del viso erano appuntiti e gli zigomi appena pronunciati. Il naso tradiva un accenno di gobba appena sotto l’attaccatura. La pelle ambrata, in contrasto con la capigliatura chiara, lo faceva assomigliare a un corsaro. Immaginai di scorrere la punta delle dita lungo tutto il profilo e giocherellare con le ciocche dei capelli. Mi morsi il labbro, mentre mi rendevo conto di non aver mai visto un giovane così bello. Allungai la mano e gli sfiorai la pelle, lasciata scoperta sul petto dalla camicia sbottonata. Al mio tocco due pupille di ghiaccio mi fermarono il cuore. «Samrodnalormy?» La terra mi mancò da sotto i piedi nell’udire il mio nome. «Samrodnalormy?» ripeté il giovane, allarmato. «Sam» soffiai. «Sam sta per Samrodnalormy?» Confermai con un cenno e la sua fronte si distese. Lentamente si sollevò seduto e si massaggiò braccia e collo, poi si passò le mani tra i capelli nel tentativo di domarli. Con un balzò scese dal letto. «Sam.» Sorrise, squadrandomi dall’alto in basso. «Tu sei…?» Scossi la testa confusa. «Sol.» Si presentò e mi offrì la mano destra. Fissai il palmo proteso senza muovere un muscolo. L’idea di toccare una seconda volta l’extramondo mi mandava fuori di testa. «Sei un…» Deglutii, avevo la gola secca. «… sognatore? Sì.» «Tu non puoi esserlo, i sognatori non si svegliano. Non da questa parte.» Scrollai il capo. «Eppure, eccomi qui.» Si guardò attorno, perplesso. «Siamo a Samelia, giusto?» «Samelia? Sì.» Ebbi un lieve capogiro.

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Cinque anni di totale assenza di sogni ed era sopraggiunta la miseria. Niente più luce, cibo e buon umore. Il Creatore si era dimenticato di noi e in un giorno qualunque egli era riapparso come nulla fosse, nella mia casa, al mio cospetto, e aveva pronunciato il mio nome. «Chi sei tu?» sussurrai, in balia delle emozioni. Il giovane mi scrutò a lungo, fino a farmi sentire nuda. Contrasse la mascella in un’espressione di profondo avvilimento e in quel viso giovane lessi tanta stanchezza. «Sol, dal pianeta Terra, prima che qualcosa andasse storto e restassi bloccato da questa parte.» Scrollò le spalle. «Chi regna sul pianeta?» «La Regina Amaranta.» Aggrottò la fronte. «È una regina buona?» «Lei sì, lo era.» «Che le è successo?» «Si è ammalata, come quasi tutti qui.» La sovrana di Samelia era stata la prima a soffrire della terribile malattia che aveva incupito gli animi col sopraggiungere della crisi energetica. Ella si era ritirata in solitudine, con le sue dodici ancelle sfiorite dalla tristezza, e da cinque anni il pianeta languiva, abbandonato al suo destino. Sol si mosse nella stanza e raccolse con l’indice la polvere dalla superficie dell’antico comò. «Come fai a conoscere il mio nome?» gli chiesi. Drizzò il collo e tornò da me. I suoi occhi scintillavano mentre si avvicinava e un lembo della sua camicia mi sfiorava. Il suo respiro mi gettò nello scompiglio, quando con le labbra soffiò ancora una volta il mio nome. «Samrodnalormy.» «Sam.» «Sam.» Sorrise. «Ho una lunga e sorprendente storia da raccontarti.» «Che può esserci di ancor più sorprendente?» «Presto lo saprai, ma non qui.» «Cosa? Dove?» Scrollai il capo confusa. Sol mi prese per mano e infinite emozioni esplosero al contatto con la sua pelle. Impaurita, diedi uno strattone e mi liberai della presa. Il giovane mi scrutò dubbioso. «Non posso farti uscire» stridetti. «Perché?» «Perché fa parte delle regole.» «Regole?» «Regole.» Arricciò il mento e una piega ironica gli torse le labbra. «Tipo: tenere pulito, non disturbare il sognatore, il sognatore non deve svegliarsi…?» Strinsi i pugni, accusando il colpo basso. L’extramondo sapeva molte cose. «D’accordo, ne ho violata qualcuna, ma sono ancora in tempo.»

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«In tempo per fare cosa?» «Evitare il disastro.» Mi morsi il labbro. Sol scoppiò a ridere e scacciò l’aria con le mani, mi diede le spalle e sparì nel buio. La sua sagoma scomparve, inghiottita dall’oscurità e dalla polvere. «Dannazione!» imprecai e lo seguii. Quando giunsi nell’anticamera, trovai la porta socchiusa. Sol aveva lasciato la Camera dei Sogni con noncuranza, come se risvegliarsi nel mio mondo fosse per lui una cosa del tutto normale. Forse, ipotizzai, egli credeva di vivere un cosiddetto sogno a occhi aperti. Balzai fuori, col battito cardiaco accelerato come non mai. Raily era ancora lì, seduto sul pavimento dove lo avevo lasciato, in una mano il ciuccio e nell’altra il dito di Sol. «Credo di piacergli» mormorò il terrestre. L’extramondo rivolse a Raily una smorfia buffa che lo fece esplodere in una risata chiassosa. Dal soggiorno si udirono dei rumori e la voce di mio padre squillò alta. «Sam, è tutto a posto?» «Sì, papà. Metto Raily a dormire.» Strattonai Sol per la camicia, ma egli reagì con sorprendente rapidità e mi schiacciò spalle al muro. Il gesto, per quanto rude, mi fece accapponare la pelle di piacere. «Ho bisogno di parlarti, Samrodnalormy.» «Io non posso, se mio padre ti scopre…» «Dimmi dove posso nascondermi.» «Devi andartene.» «Sam…» Le iridi di ghiaccio mi attrassero come magneti. Avvertii un nonsoché di pericoloso nell’aria, ma non durò abbastanza per convincermi che avrei potuto fare a meno di rivedere quegli occhi e di ascoltare ciò che il dio venuto da lontano aveva da dirmi. «In fondo al corridoio, l’ultima porta rossa. Aspettami lì.» Mio padre arrivò qualche minuto dopo. Fece il suo ingresso nella stanza di Raily a passo strascicato, con la solita espressione annoiata stampata in volto. «Che cos’è questa puzza?!» Arricciò il naso, in direzione di Raily. Arretrai stizzita. Raily, sebbene non parlasse ancora, sapeva usare il bagno meglio di un maschio adulto. Era irritante che mio padre non lo sapesse. «È disgustoso» bofonchiò Roland, dopo aver costretto mio fratello a calarsi braghe e mutande. L’osservai speranzosa, mentre ispezionava ogni angolo della stanza. Era da mesi che non lo vedevo impegnato in qualcosa, oltre fingere di leggere il giornale. Durò una manciata di minuti, prima che un lungo sospiro lo riportasse sulla frequenza d’apatia cui era abitualmente sintonizzato. Aprì le finestre e mi raggiunse per rimboccare le coperte a Raily. Come ogni sera, celebrammo il rituale che segnava la conclusione di un

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altro giorno. Distesi sul lettino, mio fratello nel mezzo e io e mio padre ai lati, contemplammo il soffitto, in attesa che il piccolo si addormentasse. Accarezzai la guancia di Raily, irresistibilmente morbida, e lo riempii di minuscoli baci. Egli mi lasciò fare, la mente già intorpidita dal sonno. «Sei quasi un’adulta Sam» disse a un tratto mio padre. Oh, no! Crescere: la sola idea mi terrorizzava. La morte di mia madre mi aveva strappata alla fanciullezza e resa schiava di una vita che, per quanto mi vergognassi di ammetterlo, mi andava stretta. Piegai la testa in avanti, nascondendomi dietro il corpicino di Raily. «Hai gli stessi occhi di tua madre e i suoi capelli» continuò. «Lei era bellissima.» «Vi somigliate ogni giorno di più.» La voce gli tremò, ma prima di abbandonarsi alle lacrime si alzò. «Buonanotte, Sam.» «Buonanotte, papà.» Rimasi ancora un poco con Raily, stretto all’orsacchiotto preferito. Un peso mi schiacciò lo stomaco e non era colpa della cena, ogni sera più misera della precedente. Il terrore d’essere infettata dalla malattia dell’abbandono mi perseguitava. Per quanto ancora avrei resistito, prima d’esserne sopraffatta, come era stato per la Regina Amaranta, per mio padre, per il medico del paese che aveva rinunciato a curare coloro che avevano perduto la forza di lottare, incapace di guarire se stesso? Mi piegai sul volto paffuto e sereno di Raily e lo baciai sulla fronte. Giunta sull’uscio gli soffiai un ultimo bacio dal palmo della mano. Il ricordo di Sol, il sognatore cui avevo offerto rifugio, mi tornò alla mente e sentii il bisogno di stringere ancora una volta il corpicino di Raily al petto. Dalla finestra soffiò un vento gelido e la sensazione di un imminente cambiamento mi riempì lo stomaco vuoto. La mia camera, chiusa da una porta tinteggiata di vernice rossa, era l’ultima del corridoio. Sfiorai il pomello d’ottone con la punta delle dita e una scarica elettrica mi fece arretrare. Oltre l’uscio si ergeva il mio piccolo regno, ove custodivo i miei disegni, intimi pensieri scarabocchiati su un diario e qualche fotografia con frasi malinconiche scritte sul retro. Nessuno avrebbe mai osato invaderne la segretezza senza il mio permesso, perciò mi sentii stupida per averlo concesso a uno sconosciuto, un extramondo, solo perché bello da togliere il fiato. Mi stropicciai la faccia nel vano tentativo di cancellare il rossore provocato dai miei pensieri ed entrai.

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Sol era seduto sul letto, assorto nella lettura. Quando mi resi conto di ciò che aveva scelto dalla libreria, per poco non svenni. «Ma che diamine stai facendo?!» strillai, sbattendo la porta. Sol chiuse il mio diario e lo gettò sul letto. «Bradly dev’essere un tipo interessante.» «Come osi ficcare il naso nei miei affari?» squittii costernata. Il terrestre scrollò le spalle con aria di sufficienza. Fece il giro della stanza, ammirando i disegni appesi alle pareti e leggendo qualche titolo tra i pochi volumi allineati nella libreria. Le sue mani non stavano ferme un attimo. Sfiorava, tamburellava con le dita e afferrava qualunque cosa lo incuriosisse in maniera particolare. Scelse una cornice da una mensola e si mise a studiarla con interesse. «Questa donna ti somiglia molto.» «È mia madre» spiegai con una punta di stizza. L’extramondo mi scrutò con intensità, poi tornò a esaminare la foto. «Avete la stessa bellezza, ma la luce nei tuoi occhi è più intensa» disse, distante. Il complimento avrebbe dovuto imbarazzarmi, non ero abituata alle lusinghe. La distrazione con la quale si era pronunciato mi confuse. Il terrestre voleva soltanto essere gentile. «Lei non c’è più» sussurrai. Il giovane sbatté le palpebre, come appena risvegliato. «Anche la mia se n’è andata, moltissimo tempo fa.» «Mi dispiace.» Sol sospirò e si tuffò sul letto. Accavallò le gambe e si perse a osservare il soffitto. «Sono orfano di entrambi i genitori da quando avevo poco più di tre anni.» L’irritazione per la faccenda del diario svanì per lasciare posto alla compassione. «Chi si occupava di te, prima del risveglio nei nostri mondi?» «Ho vissuto in una casa famiglia.» Il tono di voce di Sol mi fece intuire che non conservava un buon ricordo di quel luogo. «Il cibo non mancava, così come abiti puliti e un discreto numero di amici. Non male, tutto sommato, non fosse stato per la megera.» Ebbe un brivido e le sue labbra si contrassero in una smorfia. «Ti staranno cercando.» Scrollò il capo. «Ero già fuggito, prima di risvegliarmi qui.» «Quindi sei un randagio?» Alla mia domanda ebbe un sussulto e si portò il braccio all’altezza del viso. Lo squadrai perplessa, mentre si annusava la camicia. «Sei proprio un tipo strano» osservai. Sorrise, con lo sguardo fisso al soffitto. Se ne stava disteso sul mio letto, con le scarpe logore ancora ai piedi. L’ambiente sconosciuto non sembrava metterlo a disagio, tipico di chi era abituato a viaggiare e adattarsi a ogni situazione. Mi domandai quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che aveva dormito su un vero letto, messo qualcosa nello stomaco e fatto un bagno.

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Ebbi un capogiro al pensiero di Sol avvolto dalla schiuma e dal vapore. «Sam?» «Uhm?» gongolai, ubriaca delle mie fantasie. «A che pensi?» «Vuoi fare un bagno?» Sol si alzò sui gomiti e mi fissò esterrefatto. «Scusami, non so che mi è preso!» Mi coprii il volto con le mani e scrollai il capo. L’imbarazzo m’impedì di aggiungere altro. Per un attimo mi parve di rivivere ciò che era accaduto qualche settimana prima, con Bradly, quando spinta dalla curiosità lo avevo baciato. Era stato un errore, me ne resi conto subito. Lui non accettò il mio rifiuto di approfondire quel nuovo aspetto della nostra conoscenza e tra noi le cose cambiarono. Mi sentii una stupida per esserci cascata ancora una volta. L’assoluto silenzio mi fece sperare che Sol se ne fosse andato. Sbirciai tra le dita e lo ritrovai dove lo avevo lasciato. Stralunato, ma ancora lì. Mi feci coraggio, raddrizzai la schiena e mi schiarii la voce. «La tua incredibile storia?» Sol grugnì, prima di tornare a fissare il soffitto. «Avevo undici anni, quando mi risvegliai per la prima volta in una Camera dei Sogni» cominciò. «La prima cosa che percepii fu il profumo di lavanda. Le lenzuola ne erano intrise, l’aria satura. Quella volta non trovai nessuno al mio capezzale.» Chinai il capo e mi morsi il labbro, colpevole. «Provai ad alzarmi, ma avevo le membra intorpidite e le gambe non mi ressero. Avanzai carponi. La porta era chiusa a chiave e così dovetti attendere che qualcuno venisse ad aprire» continuò. Sgranai gli occhi, ma Sol agitò il palmo a mezz’aria interrompendo la mia immaginazione. «Ho creduto d’essere vittima di un rapimento, così ho atteso ben nascosto e al momento giusto sono sgattaiolato fuori.» «Rapire un randagio? E per quale riscatto?» commentai con una risatina acidula. «Alquanto insensato.» Sol storse le labbra. Mi scusai, serrando le mie. «Mi ritrovai in un groviglio di corridoi, stanze, scale e vetrate dalle quali si osservavano immensi giardini. Il profumo di lavanda era onnipresente e la luce tanto forte che presto mi stordì. Ero stanco, affamato, faticavo a camminare e così sono svenuto. Per mia fortuna fui scoperto dalla governante, una brava donna. Credendomi un poveretto in cerca di cibo, mi ha offerto da mangiare...» Storse il naso. «... dopo avermi costretto a fare il bagno.» «Non ti ha denunciato?» Negò col capo. «Sono rimasto a Taithara per quasi due anni. Ho esplorato il pianeta. All’inizio lo trovai ammaliante. Ogni cosa emanava luce. Le case, gli alberi, le strade, persino le persone sprizzavano un’insolita energia luminosa. Ben presto però cominciai a non tollerare più la lavanda.»

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Annuii. Un tempo l’avrei pensata allo stesso modo, ma, viste come erano andate le cose negli ultimi anni, avrei dato ogni cosa per poter sentire ancora una volta quella fragranza. «Hai mai rivelato la tua vera identità?» gli chiesi. «Pensai di farlo, ma cominciarono ad accadere strane cose.» «Quali strane cose?» «Il sole impallidì, l’atmosfera divenne cupa e, sotto un cielo plumbeo, il cibo perse sapore e marcì, le bestie si ammalarono. Il cambiamento cominciò a indisporre la gente. Racimolare acqua e cibo divenne sempre più difficile. I taithariani si sentivano abbandonati dal loro dio e cominciò a girare voce che il cataclisma fosse colpa dei terrestri.» Arricciai la fronte. I taithariani non erano i soli a credere che fossero gli umani i responsabili della crisi energetica. Smettendo di sognare, essi ci avevano condannati a morte certa. «So bene cosa pensi.» Intuì i miei pensieri e si mise seduto. «Io non ho nulla a che fare con tutto ciò.» «Avete smesso di sognare» lo accusai. «Credi che sia stata nostra la scelta? Sono bloccato qui da cinque dannatissimi anni!» sbottò. «Altrettanto dannati per noi» risposi asprigna. «Guardami Sam, non sono un dio!» Il viso di Sol si contrasse. Le pupille azzurro ghiaccio brillarono nella penombra. La fioca luce delle candele, che Sol aveva acceso, illuminava il suo volto, bellissimo e carico di frustrazione. Una lieve sfumatura d’ira accennava sulle labbra. La sofferenza, al contrario, ben si delineava sul volto. A una prima impressione, Sol era un giovane adolescente, ma a un occhio attento non sarebbero sfuggiti i segni della dura esistenza che gli solcavano fronte e mento. Un’immagine ben lontana dalla divinità che avevo immaginato. «No, sei solo un giovane molto arrabbiato» convenni con tono compassionevole. Abbassò le spalle, abbandonandosi a un triste sospiro. «E solo.» «Nemmeno un amico, nei due anni trascorsi a Taithara?» chiesi, addolorata per lui. «Layla.» Sorrise, pronunciando il nome con affetto. «Fu lei a indicarmi la strada per lasciare Taithara...» Deglutii, lottando contro il desiderio di formulare le inopportune domande che mi balenarono in mente. Quanti anni aveva Layla? Era bella? «… attraverso i portali.» Proseguì Sol, abbozzando un sorriso compiaciuto. «Chi lo avrebbe mai immaginato? Collegamenti spazio-temporali per consentire rapidi trasferimenti da un pianeta all’altro. Una tecnologia sbalorditiva, in antitesi con uno stile di vita ancestrale.» Scrollai le spalle, incerta se le considerazioni di Sol fossero o meno lusinghiere.

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«Ma per quanto prodigioso…» sospirò l’extramondo, «… scoprii che il solo modo per poter raggiungere il mio mondo era tramite i sogni.» Il tono di voce del giovane mi fece intuire che, per quanto semplice, la soluzione non era a portata di mano. Qualcosa impediva a Sol di sognare e tornare a casa. Sol si schiarì la voce e riprese il racconto. «A ogni modo, Taithara mi aveva annoiato e fui ben felice di andarmene. Oltrepassai il portale e mi ritrovai a vagare lungo un sentiero che conduceva all’ombra di una quercia carica di monete d’oro.» «La Quercia Lucente di Ilim, il pianeta dei sogni irraggiungibili» dedussi. «Ho odiato quel posto sin dal primo giorno» confessò aspro. «A che servono alberi colmi di monete che si sgretolano come polvere una volta raccolte, fiumi di oro colato dagli argini impervi, campi di diamanti dai confini invalicabili e quantità inestimabili di elisir di lunga vita, stipate negli empori del villaggio, che vaporizzano a contatto con l’atmosfera?» «È la Legge di Ilim.» Alzai le spalle. «È una tortura! Ecco cos’è!» «Quanto tempo sei rimasto laggiù?» «Un anno circa. Sono stato fatto prigioniero in meno di una settimana.» «Con quale accusa?» «Un giovane cordiale, un gran chiacchierone, mi parlò dei sognatori e di ciò che significavano per i vostri mondi. Scoprii così che il solo modo per poter tornare sulla Terra era attraverso le Camere dei Sogni.» Aggrottò la fronte. «Ai tempi non potevo immaginare che ciascun abitante del pianeta ne possedesse una. A Taithara mi ero risvegliato in un castello, così ne cercai uno anche lì.» «Dimmi che non l’hai fatto!» Sgranai gli occhi. Sol calò il capo, confermando i miei timori. «Hai violato la dimora di Von Vlad» sussurrai. Von Vlad, governatore di Ilim, era l’individuo più irascibile, scortese e inospitale di tutti i mondi, peggiore persino di Furio, temuto principe di Zaffiron. «Sei stato torturato?» Deglutii. «Diamine, no!» squillò indignato. «Ero poco più di un bambino!» Sospirai, sollevata che Sol non avesse suscitato sufficiente interesse per il governatore succhia sangue. L’extramondo, era evidente, ignorava le storie che ne elencavano le malefatte. Vicende terribili, che non risparmiavano bambini d’età anche più giovane di quella di Sol ai tempi della cattura. «Von Vlad è noto per la sua intolleranza» osservai. Sol s’illuminò e un sorriso sghembo gli comparve sulle labbra. Labbra sulle quali indugiai. «Fortunatamente per me, in ogni governo esiste un’opposizione» disse, ignaro del tremore che mi faceva vibrare ogni cellula. «Esiste un folle che oserebbe contrapporsi a Von Vlad?» domandai,

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riprendendo il controllo. Sol annuì. «Lana, figlia dell’ex governante di Von Vlad.» Col sopraggiungere della crisi energetica, il reggente di Ilim, famoso per la sua diffidenza e la sua tendenza a isolarsi, aveva congedato tutta la servitù al suo servizio e molte famiglie erano rimaste, da un giorno all’altro, senza dimora. L’improvvisa miseria era un’ottima ragione per serbare rancore verso il cupo sovrano. «Lana ti ha aiutato a fuggire?» Sol confermò con un cenno del capo. «Scoperto ciò che andava fatto per tornare sulla Terra, chiesi a Lana di condurmi alla Camera dei Sogni del castello.» Socchiuse gli occhi e la voce gli tremò in gola. «Mi addormentai con l’idea di sognare e invece mi risvegliai nel peggiore degli incubi.» Zaffiron, intuii, il pianeta oscuro. «Ho trascorso mesi a vagare intrappolato in un tortuoso labirinto» pronunciò, con l’angoscia ancora viva al ricordo. «Non sono mai stata a Zaffiron» ammisi. «Ma ho ascoltato le storie che lo descrivono come il pianeta degli orrori.» «Credimi, un racconto non è abbastanza per descrivere ciò che c’è laggiù. Un mondo tetro, senza cibo né acqua, solo roccia, cenere, fumo e puzza di zolfo.» «Come hai fatto a fuggire dall’incubo?» Si animò d’improvviso, impaziente di svelarmi come ci fosse riuscito. «Risalendo alla radice del mio incubo. La paura. Smisi di averne e la strada tornò libera.» «Essere prigioniero del labirinto per il resto dei tuoi giorni, era questa la tua paura?» «Il timore di non fare mai più ritorno a casa» rispose a occhi chiusi. «Raggiunto il portale, tornai a Taithara.» «Perché Taithara?» chiesi perplessa. Fece spallucce. «Ne avevo abbastanza di sorprese. Almeno lì ci ero già stato, conoscevo l’ambiente, le sue Leggi.» Un sospiro prolungato precedette l’altrettanto lungo silenzio che seguì il racconto di Sol. La storia del sognatore, risvegliatosi dalla parte sbagliata, era davvero incredibile. Un vagabondaggio durato cinque anni, in una cupa realtà dalla quale sembrava non esserci via di fuga. Solo, lontano dalla sua terra, Sol aveva perduto la fanciullezza, travolto dagli eventi. Anche se in maniera differente, non riuscii a sentirmi diversa da lui. Entrambi costretti a un’esistenza estranea ai propri desideri e privati della giovinezza. A Sol, tuttavia, non serviva la mia compassione. Gli avrei offerto il mio letto per quella notte, non era molto, ma forse lo avrebbe fatto sentire per un po’ al sicuro. Potevo racimolare per lui qualcosa da mangiare, seppur stantio e insapore.

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«Puoi restare» dissi lieve. «Per questa notte.» Sussultò e i suoi occhi cristallini luccicarono. «Non è per un riparo e un tozzo di pane che sono giunto a te, Sam.» Arretrai d’un passo. L’extramondo aveva cambiato tono. Il dolore, la rabbia e lo sconforto, che avevo percepito durante il suo racconto, sembravano svaniti, sostituiti da una fremente speranza. «Perché sei venuto a Samelia? Come facevi a conoscere il mio nome?» chiesi, temendo la risposta. Sol sorrise. Un bagliore scintillò sulle sue labbra, richiamando la mia attenzione sulla bellezza del suo viso, perfetto sotto ogni angolazione. «Sonnecchiavo sotto un tronco d’albero» riprese a narrare, con leggerezza. «Mentre mi godevo la frescura, udii delle voci. Una coppia di giovani innamorati passeggiava, progettando le imminenti nozze. Taithariana e ilimiano discorrevano su quale dei rispettivi mondi scegliere per stabilirvisi, una volta marito e moglie.» «Una conversazione piuttosto frivola» osservai. «La noia ti porta ad accogliere con entusiasmo qualsiasi genere di distrazione» si giustificò. «A ogni modo, ascoltai. Fu l’esclamazione dell’ilimiano ad attirare la mia attenzione. - Cercheremo la soluzione a Nathare, laddove a tutto c’è risposta! – disse lui.» «I novelli sposi hanno pensato bene. Nathare è il pianeta dove i dubbi trovano risposta» spiegai. «Per questo mi recai lì il giorno stesso.» Sol scivolò sul copriletto e attraversò la stanza per raggiungere la finestra. La tristezza emanata dal suo spirito riempì l’aria, mentre con le dita scostava la tendina in pizzo. Oltre il vetro, la notte priva di stelle avvolgeva Samelia. «Forse non hai fatto le domande giuste.» Tentai di confortarlo. Sospirò, senza voltarsi. «E se...» Esitai. Stavo per essere impulsiva, ancora una volta, perciò decisi di contare fino a dieci, come era bene fare, prima di dar voce ai pensieri. Uno... Sol non badò all’interruzione, rivolto al paesaggio senza vederlo davvero, la mente lontana chissà dove. Due... Un peregrinare, il suo, lontano universi interi dal pianeta d’origine, lontano da casa. Una parola che poteva aver assunto un significato confuso, senza una famiglia che attendesse il suo ritorno. Tre... Il declino dei nostri mondi era il triste scenario del presente, ma l’extramondo non poteva aver cancellato il ricordo del vecchio splendore di cui era stato artefice. Egli era un dio, che volesse ammetterlo o no. Quattro...

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Forse, il Creatore era giunto a noi per conoscere e comprendere da vicino ciò cui aveva donato la vita. Un test per decidere se lasciarci godere ancora della benevolenza umana. Un’ipotesi che spiegava il blackout. Cinque... Ma il terrestre non ricordava. Il viaggio astrale doveva avergli danneggiato la memoria, l’amnesia prolungato la pausa e gettato i mondi nell’oscurità. Sei... Sol doveva ritrovare il suo scopo e i nostri mondi sarebbero risorti. Gli occorreva aiuto, qualcuno che lo portasse ad amare ciò che aveva creato. Sette... Cinque anni, il tempo che gli era occorso per giungere a me. Otto... Un brivido. Nove... L’extramondo faceva vibrare ogni cellula del mio corpo, mandando in visibilio ogni pensiero razionale. Era questo il mio destino? Riscattare il mio popolo, insegnando al giovane Creatore ad amare i mondi oltre le apparenze, la mia gente, me? Dieci. «E se...» ricominciai, vibrante di decisione. «... fosse questa la tua meta?» Sol mi squadrò con attenzione. Mi bagnai le labbra. «Una nuova vita, in un mondo sconosciuto» sussurrai, chiedendomi se non sarebbe stato meglio contare più a lungo. «Sam» disse Sol in tono grave. «Il mio posto non è qui. Io non sono come te.» Calai il capo. La vergogna mi immobilizzò. La giovinezza del terrestre mi aveva distratta e fatto dimenticare che gli dovevo venerazione. L’idea di poterlo convincere a restare era folle, impronunciabile, offensiva. Ai suoi occhi non ero altro che un suddito, la cui esistenza dipendeva dalla sua volontà. D’un tratto mi sentii inerme come un burattino, senza possibilità di scelta. «Dannazione, Sam, te l’ho già detto: non sono un dio!» L’ira di Sol, nello scorgere la mia sottomissione, mi fece trasalire. Annuii debolmente, accalorata dal suono del mio nome sulle sue labbra, ma Sol non sembrò soddisfatto. Si avvicinò. Con l’indice mi costrinse a sollevare il viso. Era così bello! Come potevo non pensare che fosse un dio? «Siamo entrambi carne, ossa e spirito» sussurrò, placando la collera. «In cosa siamo diversi, allora?» «In molte cose… » Distolse lo sguardo, imbarazzato. «Dimmene una» azzardai. «Non hai avvertito nulla di insolito, da quando ci siamo incontrati? Uno

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strano… odore?» Aggrottai la fronte, interrogativa. «Niente di sgradevole?» chiese incerto. Negai col capo. Sul suo viso colsi un’espressione dubbiosa, come se stesse cercando di leggere una bugia nelle mie parole. «È stato Muron a condurmi a te» dichiarò d’un tratto, cambiando argomento. «Il veggente di Nathare?» «Samrodnalormy» sussurrò. «È solo un nome.» Deglutii. «Il solo in tutta Samelia.» Sol dovette scuotermi energicamente per riportarmi al presente. Respirare e reggermi in piedi allo stesso tempo era difficile. «Scusami, Sam. Sono stato troppo brusco.» Le sue braccia mi cinsero per cullarmi. Ero più bassa di lui e gli arrivavo al petto. Stretta a lui, mi sentii tutt’altro che inadeguata, come se tra noi vi fosse un’innata empatia. Mi prese per mano e mi aiutò a mettermi seduta. Si piegò sulle ginocchia e si accovacciò ai miei piedi. I suoi occhi color ghiaccio non mi lasciarono, mentre con le dita mi accarezzava i polsi. Era attento e preoccupato. «Sam…?» «Sì?» «Sono piombato qui, per riempirti la testa con le mie complicazioni, ma sei la sola speranza che mi sia rimasta. Mi aiuterai?» Trattenni il fiato. Sol aggrottò la fronte. «Muron ha detto che potevo fidarmi.» «Se lo ha detto Muron…» balbettai. Mi strinse più forte. «Io voglio sentirmelo dire da te.» La temperatura nella stanza salì e sentii il disperato bisogno di prendere aria, ma Sol sembrava determinato a non lasciarmi andare, non prima d’aver ottenuto ciò che desiderava. «È una specie di accordo?» chiesi. L’idea gli piacque e riuscì a strappargli un mezzo sorriso. «Più o meno.» Abbassò le spalle, ma continuò a tenermi stretta, come se temesse che potessi scappare da un momento all’altro. Se solo mi avesse letto nel pensiero, avrebbe saputo che avrei dato ogni cosa per fermare il tempo a quell’istante. «Devo raggiungere Throna, la città dei nani, e mi occorre una guida» spiegò. «E vuoi che sia io ad accompagnarti?» Sol annuì. «E il coprifuoco?» chiesi. «Violerai molte regole, se mi dirai di sì.»

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«Non sono mai stata oltre la foresta, come potrei esserti utile?» Alzò le spalle. Il come non gli interessava, la visione di Muron era sufficiente a fargli credere che fossi io la soluzione ai suoi problemi. «Muron deve essersi sbagliato.» Il mio tono non convinse me stessa, né tanto meno Sol che reagì con la smorfia tipica di chi ha appena smascherato una menzogna. Il veggente di Nathare non sbagliava mai, le sue profezie si avveravano sempre. «Sol, io… Mio padre, mio fratello, loro hanno bisogno di me.» Le iridi cristalline smisero di luccicare. Mi lasciò andare e provai un profondo senso di abbandono. Dalla finestra entrò l’aria fredda della notte. I miei disegni attaccati alle pareti, riproduzioni raffiguranti una florida Samelia, svolazzarono. La morsa della solitudine mi attanagliò le viscere. Le mie certezze non esistevano più. Il mio mondo era sprofondato nel buio. «Tutta questa oscurità…» sussurrai, «… non la sopporto più.» Sol, già cavalcioni del davanzale, si fermò. L’aria soffiò ancor più forte, carica di aspettative e imminenti novità. L’arrivo di Sol era l’occasione che avevo atteso a lungo, l’opportunità di ridare un senso alla mia vita. Seguirlo poteva essere un punto di partenza per molti. «Va bene, vengo con te» annunciai. «E le regole?» «Sono fatte per essere violate.» Feci spallucce. Il giovane extramondo sorrise e alzò il volto alla notte, come volesse ringraziare il cielo per un dono ricevuto.

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3. IL PONTE DEL DUBBIO. Il terreno erboso, intriso di umidità, era tanto molle da rendere difficoltoso il cammino. I sandali in cuoio affondavano nel suolo melmoso e dopo poche centinaia di metri ci ritrovammo infangati sin sopra le ginocchia. Per il viaggio avevo scelto indumenti comodi e nessun bagaglio, così come Sol aveva raccomandato. Avevamo percorso un breve tratto e un tuffo al cuore mi sorprese. Mi voltai e la vidi. La mia casa, poco lontana, ma più di quanto fosse consentito dal coprifuoco. «Che farai una volta a Throna?» domandai a Sol. Si fermò. Colse un filo d’erba secca e se lo mise in bocca. «La città dei nani non è la nostra meta» asserì, serio. «E qual è allora?» chiesi, sorpresa. «L’Oracolo» rispose, volgendo lo sguardo altrove. Le braccia mi caddero lungo i fianchi. Tutte le speranze di riscattare una triste esistenza svanirono, offuscate dalla sciocca storiella tramandata nei secoli per addormentare i bambini. Leggenda. L’Oracolo non era nient’altro. Un ciclope, per giunta cieco, condannato a vagare per le oscure grotte di Throna alla ricerca di una via d’uscita. A volte diventava eremita, ritiratosi in solitudine per coltivare il proprio spirito. Poi c’erano racconti del terrore, che parlavano di un demone malvagio, colpevole di numerose sparizioni nella tribù dei nani. L’Oracolo era un sacco di cose e niente allo stesso tempo. «È lì che siamo diretti, alle grotte di Throna, oltre la città dei nani, ove si dice esista il solo in grado di svelarmi la via» spiegò Sol con un fil di voce. «L’Oracolo non esiste.» Scrollai il capo. «Immaginavo che avresti reagito così.» Arricciò il mento. «Avresti dovuto dirmelo subito» lo rimproverai, mentre lottavo con la mia coscienza. Lo avrei seguito comunque, anche se mi avesse rivelato una così sciocca missione. «Sam, sono disperato.» Sussultai, udendo la triste ammissione. «In questi anni ho tentato tutto ciò che era possibile e ogni volta ho fallito. Questa è l’ultima speranza che mi resta. Io devo credere che l’Oracolo esista. E sono pronto ad affrontare ogni ostacolo.» Tirai su col naso e abbassai le spalle. Fingere d’essere combattuta mi parve la cosa migliore da fare. Non volevo che Sol sospettasse quanto in realtà mi

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coinvolgesse emotivamente. Mi sarei sentita una sciocca se avesse saputo che, da quando era apparso nella mia vita, sentivo il sangue scorrere più velocemente. «E pensare che un tempo una dormita sarebbe stata sufficiente» sospirai, infine. Il giovane non disse nulla, ma compresi la silenziosa e profonda gratitudine. Conoscevo Sol da qualche ora e sul suo volto avevo scorto infiniti passaggi d’emozioni. Troppi per poter credere che l’uomo terrestre fosse un individuo cupo e materialista, come era credenza comune. «Perché avete smesso di sognare, Sol?» Lo colsi di sorpresa. «Io…» Mi guardò con rammarico. «… non lo so.» «Credevo vi piacesse.» «L’uomo terrestre tende a stancarsi di ogni cosa» si scusò. Per quanto franca, la risposta parve non renderlo orgoglioso di se stesso. Si passò una mano tra i capelli e guardò il cielo, come vi cercasse qualcosa. Il suo viso s’adombrò. «I sogni sono figli di mente vagabonda, pieni soltanto di vana fantasia, che ha meno sostanza dell’aria ed è più incostante del vento che ora corteggia le gelide gole del nord e poi, furibondo, fugge lontano in cerca di calore.» Fu il pensiero più malinconico, e sentimentale, che avessi mai udito prima d’allora. Ne restai folgorata. «È ciò che pensi?» domandai. La sua espressione mutò e tornò a essere il giovane vitale e sorridente capace di ammaliarmi con un sorriso. «William Shakespeare.» «William, chi?» «Il Cigno dell’Avon.» «Non conosco nessun cigno con questo nome.» «Il più grande drammaturgo, poeta e scrittore di tutti i tempi.» «Ed è un tuo amico, questo genio, William…?» «Il Bardo.» Rise. «No, non è mio amico.» «Quanti accidenti di soprannomi ha?!» «Parliamo di un uomo che è un’icona, non solo per l’Inghilterra, ma per tutto il pianeta Terra!» esclamò con orgoglio. «Inghilterra?» «È la mia nazione.» «La città da cui provieni?» «È molto più di una città» spiegò, sognante. «È la parte più a sud di una grande isola, chiamata Gran Bretagna.» «Gran Bretagna, mi piace, ha un suono così fiabesco.» Ciò che dissi gli piacque e mi osservò con un’attenzione particolare. C’era un interesse, nella maniera con la quale mi scrutava, che andava oltre ciò che ci eravamo detti. Un pensiero azzardato, visto il breve tempo trascorso da quando ci eravamo conosciuti, eppure ne ero certa. Lo sentivo. Sulla

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pelle. Sotto pelle. «Sam…» sussurrò lieve. «Sì?» balbettai a fil di voce. L’espressione di Sol cambiò ancora. «… Torna a casa.» Le emozioni altalenarono sul viso del giovane a una velocità sorprendente. Decisione, paura, irresolutezza, gioia si sostituirono l’un l’altra, così in fretta da non lasciarmi capire cosa provasse in un preciso istante. L’essere umano terrestre era una creatura davvero sorprendente. «Perderai la tua giovinezza, se resti con me.» Curvò le spalle. «Avevo intuito che non sarebbe stata una passeggiata» risposi. Ebbe un fremito, attraversato da una scarica invisibile, e un nuovo sentimento gli colorò il viso. «Certo che…» Esitò. «… sei grande abbastanza per decidere.» «Ecco appunto.» Storsi il naso. Essere grande abbastanza era una delle peggiori cose che, fino a qualche ora prima, potessi sentirmi dire, ma sulle labbra di Sol, e in quelle circostanze, mi procurava una insolita soddisfazione. Era bello il modo in cui mi guardava. Diverso, da come ero abituata. Mi faceva sentire importante. Persino Bradly non era riuscito a farmi sentire così speciale, anche dopo che il suo interesse nei miei confronti era mutato in qualcosa di più dell’amicizia. «Non è uno scherzo, Sam.» S’irrigidì di nuovo. «Non l’ho mai pensato.» Scossi il capo confusa. L’extramondo si passò una mano tra i capelli. Un gesto che marcava l’indecisione. Sbuffò e mi diede le spalle. Lo sentii farneticare a voce bassa, rivolto al suolo, poi al cielo, poi all’oscurità dinnanzi a sé. Qualcosa di serio lo tormentava, al punto da contrastare il desiderio di tornare a casa. «Insomma, Sol» dissi, pronunciando per la prima volta il suo nome, «vuoi o non vuoi che ti aiuti in questa folle impresa?» Drizzò il collo e si voltò lentamente. Ancora una volta, la natura terrestre mi sorprese. I denti di Sol luccicarono in bella vista, contornati da un sorriso ammaliante, da far perdere la testa. «Hai viaggiato, qualche volta?» mi chiese. Spostai una ciocca dietro l’orecchio e mi morsi il labbro. «Solo attraverso i portali.» A dispetto della profezia proveniente dal pianeta Nathare, non riuscivo a togliermi dalla testa quanto fossi inadeguata alla missione di Sol. Prima del nostro incontro, la mia vita si era svolta costantemente sotto controllo, lontana da rischi e pericoli. La crisi e il coprifuoco avevano solo aumentato le restrizioni cui ero abituata. Non ero mai uscita sola dal villaggio e l’idea non mi aveva mai nemmeno sfiorata. Vivevo tra le mie sicurezze, del tutto incapace di cavarmela da sola al di fuori. «Muron ha detto che potevo fidarmi di te ed è quello che farò.» Sol si

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strofinò il mento con l’indice. «Dopotutto, sei o non sei una sameliana?» «Una purosangue!» Alzai il mento fiera. La fiducia di Sol riuscì a convincermi. Avrei assolto il compito che il destino mi aveva affidato, per la buona fama di Muron, per Sol e per me stessa. Ci volle più di un’ora di cammino per raggiungere il ponte millenario, battezzato il Ponte del Dubbio. L’imponente costruzione lasciò Sol a bocca aperta, affascinato dalla maestosità dell’antica creazione, la più vecchia di tutto il pianeta. «Non ho mai visto niente del genere. Persino il Tower Bridge non reggerebbe il confronto!» esclamò. «Tower… cosa?» «Il famoso ponte di Londra, la mia città» spiegò con leggerezza, come se le conoscenze relative al pianeta Terra fossero cosa ovvia per tutti gli altri universi. «Vedi tutti quegli intarsi sui piloni?» Indicai in direzione del ponte. «Quando il sole ci finisce contro, nasce un gioco di luce che irradia tutta la valle sottostante. Accade anche con il vostro Tower Bridge?» Una provocazione. Un’astuta sfida. Gliela lanciai con una sfacciataggine di cui non credevo essere capace. Lo scopo, far prevalere i miei mondi, Samelia in particolare, con la speranza di convincere Sol a restare, una volta appurato che l’Oracolo era solo una leggenda. «Direi di no» ammise. «La Terra sarà pure un bellissimo pianeta, ma…» fui pronta a incalzare, ma Sol mi schiacciò con la sua contrarietà, descritta dalle rughe che gli solcarono la fronte. «… ma?» «La magia» continuai. «Un potere sconosciuto al vostro mondo razionale.» Meno decisa, ma pur sempre sicura di ciò che affermavo. Samelia, la cui esistenza si doveva ai sogni magici degli umani, era una tra le mete più ambite dalle menti terrestri libere, che disprezzavano la realtà nella quale erano confinati. La magia rendeva il mio mondo unico. «Sulla Terra c’è tanta magia quanta a Samelia, credimi» obiettò Sol, senza esitazione. «In forma diversa, ma altrettanto onnipresente.» «Davvero? Fammi un esempio.» Ridacchiai, certa d’averlo messo con le spalle al muro. Sol distese la fronte. Per un attimo immaginai che avrebbe alzato le mani in segno di resa, ma l’extramondo non mancò di sorprendermi per l’ennesima volta. «Il susseguirsi delle stagioni, l’assortimento di colori, la varietà dei profumi, gli infiniti sapori…» elencò fiero. «… Potrei andare avanti all’infinito.» Rimasi ammutolita. Ciò di cui parlava Sol era banale, ma innegabilmente

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magico, visto da un punto di vista più ampio. Romantico. Quasi mi avesse letto nel pensiero, Sol mi prese la mano e l’avvicinò alla bocca. Lieve, vi impresse l’impronta delle sue labbra. Trattenni il fiato, assaporando la sensazione di quel tocco gentile. «Ma esiste un potere assai più grande che rende ogni mondo speciale» aggiunse. «Sa-sarebbe?» balbettai. «Non mangia che colombe l’amore, e ciò genera sangue caldo, e il sangue caldo genera caldi pensieri e i caldi pensieri generano calde azioni e le calde azioni sono l’amore.» Terminò la frase soffiandomi sul dorso della mano e solo allora mi ricordai di respirare. «Un altro aforisma del tuo famigerato amico poeta?» sussurrai quando mi riebbi. Annuì e lo trovai ancor più bello, per quanto fosse possibile. «C’era una libreria all’Istituto, amavo leggere le sue opere. Di tanto in tanto rubavo qualche libro, così potevo studiarne i versi.» Si fece sognante e provai ammirazione per il giovane extramondo amante della lettura. Sol non era solo bello e audace, ma anche colto. Il giovane tornò a osservare il ponte. «Lo attraverseremo?» Annuii esitante e la mia inquietudine non sfuggì a Sol. «Qualcosa non va?» «Vedi quel fiume laggiù? È il Fiume del Dubbio.» «Dovrebbe voler dire qualcosa?» «Non saprei…» Un confuso e frammentato ricordo, riguardante il pericolo che aleggiava in quel luogo, cercò di tornare. Ciò che ricordavo era che i miei genitori se ne erano sempre tenuti alla larga, preferendo la strada più lunga per raggiungere la foresta, sul lato opposto. Per Sol avevo scelto il percorso breve, ma ora non ero più tanto certa d’aver fatto la cosa migliore. «Dobbiamo fare attenzione alla nebbia» sussurrai, ricordando qualcosa in proposito. «La nebbia? Le nubi sono alte e non c’è un velo di foschia.» Scacciò l’aria con le mani e oltrepassò il primo arco che dava accesso al ponte. Si voltò dopo qualche metro, per dimostrarmi che non c’era nulla di cui preoccuparsi. Esitante, feci qualche passo. Sotto l’arco, vidi le iscrizioni incise nella roccia secolare. Le lettere, consumate dal tempo, erano cancellate in parte e qualunque fosse stato il messaggio era divenuto illeggibile. «Coraggio, Sam!» mi incitò Sol. Feci un respiro profondo e oltrepassai l’arco. Quando raggiunsi l’extramondo, avevo il battito cardiaco accelerato. «Sei proprio un pesce fuor d’acqua.» Rise di me. Arrossii. Conoscevo Sol da una manciata di ore, eppure tutto era semplice, come lo era stato con Bradly. Sentivo di potermi fidare di lui, tanto quanto lui era

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disposto a fare con me. Affidandomi l’ultima speranza di realizzare i suoi desideri, il giovane aveva siglato un importante patto tra noi, molto più importante d’una banale amicizia. Essere scelta per lui, tra migliaia di individui dei mondi, mi riempiva di orgoglio e per quanto detestasse essere considerato una divinità, non riuscivo a fare a meno di provare venerazione per quel giovane così indipendente e dotato di una bellezza capace di inebriarmi i sensi. Il mio spirito si dilatava a ogni suo respiro ed era una reazione che non ero in grado, e non volevo in alcun modo, controllare. Ubriaca di emozioni, percorsi più della metà del tratto senza rendermene conto. In lontananza, sul versante opposto, il confine della foresta attendeva silenzioso. Un ululato si udì nella notte e il petto mi si chiuse in una morsa di paura e rimpianto. In tempi tanto avversi non era prudente allontanarsi dal villaggio, oltre l’ora del coprifuoco. Le numerose sparizioni, opera di assassini, razziatori, vecchi brav’uomini spinti dalla disperazione e bestie affamate, avevano spinto la regina Amaranta all’ultimo atto di potere, prima di abbandonare il trono. Vulnerabile. La parola mi lampeggiò nella mente come un avvertimento. Ciò che ero in quel momento, alla mercé delle peggiori presenze che dominavano l’oscurità. Con la mano sul cuore, ascoltai il suono dell’angoscia. Il mio corpo, stanco e impaurito, s’irrigidì e arrestai il passo. «Sam, ti senti bene?» mi chiese Sol, ignaro dalle mie paure. «Ho freddo» dissi, tremante, mentre minuscoli puntolini luminescenti mi lampeggiavano attorno. L’extramondo mi cinse le spalle con l’intento di scaldarmi. Ebbi un fremito e ogni timore sembrò sciogliersi col calore della sua pelle. «Si sta alzando la nebbia» osservò e mi lasciò per scrutare il paesaggio. Privata del contatto con lui, nuove domande affiorarono e mi confusero i pensieri. La nebbia s’infittì. «Che diamine sta succedendo?» La sua voce mi giunse lontana, sconosciuta. La temperatura calò e cominciai a battere i denti, avviluppata in un manto di gelida foschia. Il paesaggio scomparve, dandomi la sensazione di fluttuare in una nuvola. Avevo la mente vuota. «Sam?» Mi sentii chiamare. Udii un fruscio e un giovane volto sconosciuto, bellissimo, apparve circondato dal vapore. Un paio d’occhi color ghiaccio brillavano sopra labbra sorridenti. «Tutto bene?» domandò lui. Ebbi un sussulto e feci un passo indietro. Il bel giovane aveva un aspetto innocuo e uno sguardo amichevole, ma

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conosceva il mio nome, e io no, o forse non lo ricordavo. Magia. Non poteva trattarsi d’altro e sapevo quanto non ci fosse da fidarsi della Magia. La nebbia s’ispessì, insinuandosi in ogni spazio e frapponendosi tra me e lo sconosciuto. «La nebbia… i dubbi…» sentii bisbigliare, poi urlare: «Sam! È la nebbia!» «La nebbia» sussurrai, combattuta tra il desiderio di ascoltare ciò che lui cercava di suggerirmi o scomparire, avvolta dalla nube. «La nebbia è il frutto delle tue esitazioni, devi smettere di dubitare!» Smettere di diffidare, suggeriva lo sconosciuto, abbandonare la prudenza. La Magia dava pessimi consigli. Arretrai ancora di un passo. Vento gelido si fece strada tra le pieghe dei miei abiti, ghiacciandomi all’istante. Sentii i muscoli irrigidirsi e avvertii fitte dolorose alla testa, ma non gridai. Il volto dello sconosciuto tornò visibile, più vicino della prima volta. Le nostre fronti aderirono e i nasi premettero l’uno contro l’altro. «Dimentica ogni incertezza Sam, torna alla realtà.» L’alito del giovane m’infiammò, sciogliendo il gelo nel quale ero avvolta. C’era tensione nella sua voce e i denti battevano come i miei, per via del freddo. Anch’egli aveva paura, glielo leggevo negli occhi, lo sentivo nel suo respiro, lo vedevo nella mascella contratta. La Magia non aveva paura. L’aria sferzò lingue di ghiaccio, sovrastando il calore di quel corpo così vicino. La testa divenne pesante e i dubbi che si affollavano nella mia mente stridettero, stordendomi col loro frastuono. Piegai la testa all’indietro, staccandomi dal giovane e dalla realtà. Calò il buio. Un ruggito rabbioso mi giunse ovattato e il calore esplose improvviso, infuocando ogni cellula del mio corpo irrigidito dal freddo. Come una miccia, mi accesi. Aprii gli occhi e tutto tornò chiaro. Il giovane dalla chioma dorata non era uno sconosciuto, ma il terrestre, giunto a me da lontano. La sua guancia premeva contro la mia, irradiandomi dell’energia vitale che mi aveva sollevata dall’incertezza e ricondotta ai mondi, a lui. L’angolo della sua bocca sfiorava leggermente la mia, e in quel punto sentivo frizzare una forza che mi faceva girare la testa. Il vuoto che avevo dentro lentamente si riempì, colmato dall’ineguagliabile sensazione provocata dal contatto con la sua pelle. La foschia si dileguò. Il paesaggio tornò visibile, sebbene oscurato dal buio perenne che avvolgeva Samelia. L’incanto del fiume era svanito. «Bentornata, Samrodnalormy» mi salutò Sol, lasciandomi. Dispersi i dubbi, l’imbarazzo ci sorprese entrambi. Mi studiai le scarpe, incerta se ringraziarlo per avermi salvata, sicura che difficilmente avrei dimenticato il sublime, seppur solo accennato, contatto con le sue labbra.

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«Andiamo, prima che altri dubbi sopraggiungano a confonderci la mente» disse Sol senza guardarmi, intento a spolverarsi gli abiti. L’extramondo mi diede le spalle e si affrettò lungo il ponte, lontano dall’incanto della nebbia e da qualunque altra cosa accaduta per sua causa.

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4. LA FORESTA DEI NIMM. Superato il ponte, realizzai a quale grave pericolo eravamo andati incontro. Come voleva l’incantesimo, le mie paure avevano preso vita materializzandosi nella nebbia che aveva offuscato ogni cosa: paesaggio e certezze. Vittima del sortilegio, avrei vagato nell’indecisione per il resto dei miei giorni, senza più sapere chi fossi. L’intervento di Sol era stato decisivo. Il contatto con la sua pelle mi aveva riportata alla realtà, dandomi una verità più forte di ogni altro dubbio. La presenza del giovane era un richiamo per i miei sensi ed essi rispondevano. Sin dal primo istante avevo avvertito il magnetismo con il quale mi attraeva. Lo scrutai di sbieco e per quanto egli si sforzasse di non darlo a vedere, ciò che era accaduto sul Ponte del Dubbio aveva mutato il nostro rapporto. «Sembra una muraglia invalicabile» osservò a un tratto Sol, rivolto alla boscaglia innanzi a noi. «In un certo senso lo è.» «Qualche altra stregoneria?» Aggrottò la fronte preoccupato. «È la Foresta dei Nimm.» «Magia buona o cattiva?» Storsi le labbra, incerta sulla serietà della domanda, ma la perplessità di Sol mi convinse che egli non sapeva davvero nulla del potere onnipresente sul pianeta Samelia. «La magia non è buona, né cattiva. È Magia. Una forza primordiale ed evanescente, che prende forma dopo essere stata plasmata.» «Chi plasma la Magia nella foresta?» «L’inconscio» spiegai, fiera d’essere a conoscenza di un argomento di cui parlare. «Il Potere è incorporeo, perciò s’insinua nell’animo, alla ricerca dell’ispirazione dalla quale prendere forma.» «Significa che potrebbe manifestarsi in ogni cosa?» «Solo nella mente di chi la ospita.» Negai col capo. «La Magia agisce sulla mente, condiziona il comportamento del portatore e, attraverso di esso, è in grado di compiere grandi prodigi, o terribili delitti. È una sorta di parassita che intacca la psiche.» Rabbrividii, pensando alle conseguenze di una sottomissione sbagliata. Sol si fece pensieroso. «L’accesso alla foresta è protetto dai guardiani.» Mi affrettai a rassicurarlo. «I Nimm, creature centenarie, esseri rigorosi e degni di timoroso rispetto, custodiscono il Potere e proteggono i viaggiatori che attraversano la foresta.

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Senza il consenso dei Nimm, non si passa.» Da secoli, i Nimm assolvevano l’importante compito d’impedire che la Magia si manifestasse attraverso animi maligni. Domandare il permesso di passaggio significava permettere loro di scrutare nel profondo del proprio cuore, ove essi erano in grado di scovare la vera natura delle intenzioni del viaggiatore. «Sincerità!» esclamai. «Rispondi onestamente a ogni domanda che ti verrà posta. Nessuna bugia. Se mentissi, lo scoprirebbero.» S’irrigidì. «Che succederebbe se…?» «Nessuno è così stupido da correre un rischio simile.» Lo fissai intensamente. «La bonarietà dei Nimm non è citata nei racconti che li riguardano, al contrario del rigore con il quale adempiono al loro dovere.» L’extramondo annuì. Ero stata sufficientemente chiara. La fitta vegetazione si mosse. Il suono di rami spezzati e foglie accartocciate si udì, sempre più vicino. Le chiome degli alberi si agitarono. Un ululato scosse la boscaglia e i nostri spiriti tesi. «Sono loro» annunciai. Cinque enormi sagome uscirono allo scoperto. «Scimmioni!» squillò Sol. Alti due volte un sameliano, con gli arti ricoperti da folto pelo scuro, i Nimm marciavano in riga. La fierezza del loro passo dava l’idea dell’austerità che li caratterizzava. Un plotone di cinque soldati, scelti per ricoprire il ruolo di guardiani della Magia. Colui che marciava nel mezzo alzò un braccio e liberò un oggetto sferico che si librò in aria. In pochi attimi ci ritrovammo schiacciati sul terreno umido, sotto il peso di una rete piovuta dal cielo. «Siamo in trappola» biascicò Sol, cercando invano di liberarsi. «Sta calmo, non agitarti.» «Perché ci fanno prigionieri?» «Per interrogarci, credo.» «Ed era necessario atterrarci?!» «Sol, non essere insolente.» Come un bambino obbediente, smise di divincolarsi e attese l’arrivo dei Nimm. Gli scimmioni rallentarono il passo, godendosi la gloriosa entrata. Indossavano enormi collari di ferro e anelli fasciavano loro polsi e caviglie. Il pelo appariva liscio e sfumava nel bruno, passando dal marrone scuro al rosso porpora. Non avevano abiti, ma solide armature che coprivano petto e gambe, lasciando scoperte le ginocchia. Ai piedi, calzari leggeri stridevano a ogni passo. L’espressione sui volti dei cinque era tutt’altro che affabile e veniva resa ancor più minacciosa dall’armamento col quale erano equipaggiati. Ciascuno possedeva un’arma: arco, spada, lancia e mazzafrusto, a eccezione di colui che aveva scagliato la rete. Proprio

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quest’ultimo, attirò l’attenzione di Sol. «Quello disarmato ha l’aria d’essere il capo» osservò. «Kogart. Il più temibile» confermai, ricordando ciò che si diceva del Nimm. Quest’ultimo allargò le braccia e il plotone arrestò la marcia. Il ruggito che gli uscì dalla gola fece trasalire entrambi. Kogart si sollevò sulle zampe posteriori e venne avanti. Appena ci ebbe raggiunti si piegò sulle ginocchia per scrutarci da vicino. L’odore di cui era intriso il pelo della creatura mi colpì diritto allo stomaco. Anche il Nimm sembrò avvertire qualcosa e arricciò il naso. Kogart annusò prima me, scrollò il capo e fece lo stesso con Sol, sul quale indugiò a lungo, incuriosito e sospettoso. «Tu, vuoi entrare?» domandò all’extramondo con voce profonda. Sol deglutì, soggiogato dall’austerità del Nimm, e annuì. «Perché?» Lo scimmione scrutò con intensità il ragazzo. «Siamo diretti a Throna.» «Perché?» Sol esitò. La possibilità che il giovane potesse dar voce a una menzogna, pur di non svelare la propria identità e la ragione che lo aveva condotto ai confini della foresta incantata, mi portò a pensare ancora una volta che la scelta del percorso breve non fosse stata una buona idea. Kogart piegò la testa di lato, in attesa. I muscoli fremettero, sotto il pelo bruno della creatura centenaria, impaziente di esercitare la propria autorità, se solo Sol gliene avesse offerto l’occasione. Dalla gola dello scimmione nacque un urlo rabbioso, la cui eco si protrasse a lungo nell’oscurità. Temetti il peggio. «L’Oracolo!» gridai. La creatura s’immobilizzò e spostò l’attenzione su di me. Pensai a cosa dire, senza dover ricorrere a una bugia, ma non mi venne in mente nulla e così, a labbra serrate, calai il capo. Il silenzio che seguì parve durare un’eternità. Gli altri quattro Nimm si agitarono. «Kogart… » chiamò uno di loro. Lo scimmione disarmato alzò il palmo per zittire il compagno e tornò a occuparsi di Sol. Il mio intervento non aveva destato abbastanza interesse da distrarlo. «Perché?» chiese ancora all’extramondo. Sol s’irrigidì, le mani aggrappate al terreno come cercassero un appiglio, occhi chiusi e mente impegnata a seguire la lotta interiore tra verità e menzogne. Kogart si alzò e fece cenno agli altri quattro di raggiungerlo. «Fogarty?» chiamò il capo dei Nimm. Lo scimmione armato di lancia scosse il capo e indicò l’altro compagno.

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«La spada di Thor non mancherà il bersaglio.» Kogart annuì e fece spazio al Nimm di nome Thor, la cui lama luccicava al buio, affilata e mortale. Lo vidi avanzare verso Sol, piegare il collo da una parte e dall’altra, producendo un sinistro scricchiolio di ossa. Lo scimmione sollevò la spada al cielo. Ebbi solo il tempo di urlare, pietrificata dalla consapevolezza di ciò che sarebbe avvenuto. Il verdetto dei Nimm era stato dei più crudeli. Il terrestre, che al cospetto dei protettori della Magia non aveva dato le risposte richieste, avrebbe pagato con la vita. Thor calò le braccia. La lama fendette l’aria fredda della notte. Il gelido sibilo si protrasse per l’intera valle con la sua eco funesta, lenta e prolungata come una marcia funebre, requiem per il giovane senza discendenza. Quando il suono si spense, non rimase altro che il mio lieve e ritmico pianto. Col volto schiacciato al suolo, bagnai la terra arida con le mie lacrime. Per Sol, il giovane extramondo, avrei varcato i confini di ciò che mi era conosciuto e rischiato la vita, pur di aiutarlo a compiere la profezia del veggente Muron, che lo aveva condotto a me. Ammettere l’ardore e l’attaccamento che sentivo verso il terrestre sconosciuto era una follia che mi sgretolava l’animo, dal momento in cui concretizzai che non lo avrei rivisto mai più, poiché la sua vita era stata spezzata, per mano di Thor, il Nimm armato di spada. «Perché? Perché?» singhiozzai, sollevando il capo per scontrarmi con l’espressione rigida di Kogart, il leader dei Nimm che aveva dato l’ordine di giustiziare Sol. Senza rispondere, l’animale sollevò la rete, liberandomi del peso che mi teneva schiacciata al suolo, e mi fece cenno di uscire. Rimasi dov’ero. Col palmo della mano mi asciugai le lacrime e tirai su col naso. La freddezza della creatura mi fece ribollire il sangue nelle vene. «Venerabili Nimm…» sibilai, «… mi domando, poi, cosa sia rimasto di onorabile, scimmioni senza un briciolo di compassione.» Kogart schiuse la labbra stupito. Dietro di lui, lo sbigottimento stropicciò i volti degli altri Nimm, mentre borbottii si levarono nella notte. Animata dal senso di giustizia, scivolai sul terreno, mi liberai dalla rete e fronteggiai Kogart. Non m’importava più della mia incolumità né di metterla a rischio per onorare Sol. «Ignobili, esseri senz’anima, superbi…» Fiotti di insulti scivolarono dalla mia mente sulla mia lingua, espulsi come aculei da una cerbottana per colpire ciascuna di quelle creature fatate. Le offese si susseguivano senza sosta, pronunciate con odio crescente. Lontana da quel che era il mio consueto modo di agire, il dolore per la perdita di Sol m’impediva di contenere l’indecenza di ciò che la furia mi suggeriva.

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Lo stupore abbandonò il volto dei Nimm. Le vitree iridi degli scimmioni scintillarono di nuove emozioni. Vivo e ansioso d’esplodere scorsi il desiderio di vendicare l’affronto. «… assassini di bambini.» Fu la mia ultima accusa. Sarei stata uccisa, per aver sfidato l’egemonia dei guardiani, ma con la fierezza d’aver parlato a difesa dell’innocenza. Mai, come in quell’attimo, abbracciare la morte mi parve cosa più lodevole. L’ira dei Nimm svanì. Kogart si accigliò e mosse un passo verso me. Rimasi immobile, col mento alto. «Come hai detto, giovane sameliana?» chiese con voce roca il capo guardiano. «Vuoi che ripeta l’elenco?» soffiai. Lo avrei fatto senza esitazione. «Assassini… di bambini?» Lo scimmione avanzò ancora e le sue pupille brillarono nella notte. Ciò che vi lessi mi annodò la gola come un cappio. Dolore. Per ciò che avevo detto di quel quintetto esistente ai mondi da un tempo troppo lontano per essere ricordato sui libri. Cercai il corpo di Sol. Il terrestre giaceva al suolo, immobile. Non c’era sangue a macchiare il terreno infertile di Samelia. Un lieve movimento del petto del giovane era il segnale che l’extramondo viveva ancora, pur privo di sensi. «Io credevo…» sussurrai. «I Nimm non uccidono. I Nimm proteggono» disse Kogart con orgoglio. Alle spalle del capo Nimm, lo scimmione armato di arco si fece avanti. «Non hai nulla di cui scusarti» disse, liberando il corpo di Sol dalla rete, squarciata dal fendente di Thor. «È colpa nostra, di questa natura bestiale. A volte dimentichiamo d’avere una metà antropica. Il mio nome è Arthur.» Accettai la stretta cordiale, che lasciai in fretta, quando Sol si mosse. Il terrestre scrollò il capo e si guardò attorno con aria smarrita. Col palmo aperto si diede un colpo alla testa e sbatté le palpebre più volte, quasi faticasse a ricordare cosa fosse accaduto e volesse aiutare la mente a ricostruire gli ultimi eventi. Parve funzionare. Sol ebbe un sussulto, drizzò il collo scorgendo i Nimm e arretrò, terrorizzato e tremante, strisciando al suolo i talloni. «Sol, va tutto bene» lo rassicurai. Si tastò il petto, stralunato. «Sono vivo.» «Sì» confermai. «La spada… » sussurrò smarrito. Mi piegai sulle ginocchia e gli accarezzai il capo sfiorando con dolcezza i capelli biondi. A quel contatto, il conforto che pensavo di voler donare a lui tornò indietro. Sentirlo vivo, dopo aver creduto d’averlo perso, mi riempiva di smisurata gioia. «I Nimm non uccidono. I Nimm proteggono.» Ripetei le parole del capo guardiano.

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Lasciai che prendesse il tempo che gli serviva per tornare in sé e riacquistare la calma perduta. Lo smarrimento svanì, lasciando spazio alla collera. Accigliato, Sol si erse fiero e con fare seccato si tolse la polvere dagli abiti. «Nobili Nimm…» disse asprigno, «dopo essere stati spaventati a morte, abbiamo il permesso di entrare nella foresta?» L’insolenza del giovane mi fece accapponare la pelle. Lo spavento preso, che gli era costato l’immediata perdita di sensi, non era servito da lezione al giovane terrestre. Trattenni il fiato, mentre i Nimm circondavano Sol, abbandonando ogni traccia di pentimento per l’equivoco provocato dal gesto di Thor. «La giovane sameliana ha il permesso» ringhiò Kogart. «Io e Sam viaggiamo insieme» chiarì Sol con risolutezza. «È la mia guida.» Lo scimmione studiò il giovane a lungo. «Tu non sei un sameliano.» Sussultai e sentii la pelle imperlarsi di sudore freddo. Kogart si avvicinò a Sol e annusò l’aria attorno a lui. «Il tuo odore…» «Mai sentito nulla di simile» affermò Arthur. «Da non credere che un olezzo del genere possa esistere in questi mondi!» si accodò Thor. «Puzza più di te Fogarty!» esclamò ilare e allungò la spada per sollevare un lembo della camicia di Sol. Alla vista della lama, il giovane scattò. «Tieni giù quell’arnese, scimmione!» Il Nimm emise un ringhio, cui fecero eco i quattro fratelli. Kogart tentò di calmare gli animi, allargando le braccia per tenere a bada il gruppo. «Sta attento a come parli, forestiero. Ricorda che sei al cospetto di creature fatate» gorgogliò il capo dei Nimm. «Tutti uguali voi zaffironiani. Puzzolenti, scontrosi e arroganti» disse Fogarty sprezzante. Sol arricciò la fronte, ma non obiettò. Che i Nimm lo credessero uno zaffironiano era una fortuna che non andava sperperata. «Agli abitanti di Zaffiron non è concesso il passaggio?» Grugniti e mormorii generali si accavallarono. «Zaffiron ci è ostile e ci beffeggia, mentre i nostri mondi muoiono» affermò Kogart contrariato. «Sol non lo farebbe mai, è amico di Samelia» intervenni. L’extramondo si affrettò ad annuire. «La Foresta è incantata e la Magia in costante attesa» continuò Kogart, con tono grave. «Sotto le vesti di questo innocente giovane potrebbe nascondersi un emissario del principe Furio.» «Non è così!» esclamai stringendo i pugni. «Ed è una nativa di questo pianeta a garantirlo!» I Nimm si scambiarono rapide occhiate silenziose. Non dissero nulla, non con le parole. Le loro intenzioni, tuttavia, sincronizzate sulla stessa frequenza.

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«Leggete nei miei occhi» li invitai. «Se quel che dico è menzogna, lo saprete.» Kogart raccolse la sfida. Le iridi dello scimmione brillarono e sentii la mente frizzare, smossa dal potere della creatura centenaria. A parte il formicolio non avvertii altro. «Ci spiace, giovane sameliana» sospirò infine il capo Nimm. «È un rischio troppo grande, che non possiamo permetterci di correre, specie in tempi come questo.» Kogart serrò le labbra. Il dispiacere traspariva dalla risolutezza della decisione presa. La verità era dei Nimm, ma l’incertezza calata sui mondi predominava su ogni altra cosa. Prudenza. La stessa ragione che aveva portato la regina Amaranta a proclamare l’ultimo editto del coprifuoco. «Niente permesso di passaggio» sentenziò Kogart, spegnendo ogni speranza di spuntarla. Calò le spalle e girò su se stesso. Il compito dei Nimm era stato svolto. Non c’era altro da aggiungere. Sol osservò il quintetto con stizza. «Costeggeremo la foresta.» Cercai di tirargli su il morale. «Ci vorrà un po’ di più, ma…» Forse è meglio così, avrei detto. Pur essendo una nativa, temevo la Magia abbastanza da pensare che fosse prudente evitarla. Lo avrei detto se non avessi temuto altrettanto di avventurarmi in luoghi sconosciuti, segretamente popolati da bestie affamate e crudeli assassini. La foresta era fatata, ma coloro che l’attraversavano godevano della protezione dei Nimm, sicurezza che sarebbe venuta a mancare oltre i confini della boscaglia. «Qual è la verità, Sam?» domandò Sol rigido, senza guardarmi. «Verità?» Scrollai il capo smarrita. «Credi davvero nella mia lealtà a Samelia?» chiese, alzando il tono di voce. «Certo. Perché me lo chiedi?» L’extramondo piegò le labbra in un ghigno e sollevò il mento, rivolto ai Nimm, abbastanza vicini da udire la conversazione. «Nimm: tutt’altro che creature fatate.» Schioccò la lingua. «Ciarlatani.» I Nimm arrestarono il passo, senza voltarsi. Trasalii. «Sol, ti supplico, non sfidare la sorte.» «Pensaci bene, Sam» continuò il giovane, «se possedessero davvero il potere che vantano, avrebbero letto la verità dentro di te sul mio conto e non ci sarebbe stata ragione alcuna per negarci il permesso di passaggio.» «Sono tempi avversi.» Tentai di mediare. «Già…» disse sprezzante il terrestre. «E sai cosa porta via con sé l’oscurità, Sam?» «No.» Deglutii. Kogart si era voltato e fissava Sol arcigno, in attesa del passo falso che avrebbe offerto ai Nimm il pretesto per assopire la metà antropica. «La fiducia» soffiò l’extramondo tra i denti.

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Il vento ululò. Il pelo degli scimmioni si mosse in onde scomposte e tutti e cinque puntarono i loro sguardi animaleschi sul giovane terrestre. Quel che affermava Sol era la triste verità che tutti conoscevano, ma faticavano ad ammettere. C’era diffidenza negli animi e col giungere della carestia l’indisposizione verso il prossimo era peggiorata. Persino i Nimm si erano lasciati ammorbare dalla sfiducia e, per quanto insolenti, le accuse di Sol erano fondate. Allo stesso tempo, suonava presuntuoso che fosse un terrestre a giudicare la reazione dei Nimm, o di qualsiasi altro abitante dei mondi, alla peggior catastrofe di sempre. Era dei terrestri la responsabilità di ciò che era accaduto e Sol, per quanto giovane e bello da togliere il fiato, era uno di loro. Scostai i capelli dal viso e aumentai la stretta attorno al braccio di Sol. Lo trafissi sibilando. «Che ti piaccia o no, è merito della tua gente se nessuno ha più fiducia in voi e la tua faccia d’angelo non basterà a riscattare quel che ci avete fatto!» Terminai la frase senza fiato. Le iridi di Sol luccicarono al buio, attratte come due magneti dalla forza scatenata dalla mia furia. Lo stesso magnetismo aveva catturato l’attenzione dei Nimm, che fissavano me e Sol con viva attenzione. «La mia gente…?» Il panico fece impallidire l’extramondo e la sua pelle divenne chiara come quella della luna, nascosta dietro la coltre di foschia. Ritrovai la calma nel turbamento di Sol. A un soffio dallo svelare la sua identità, calai le spalle e scrollai il capo afflitta. «La condotta di pochi ha punito ogni zaffironiano e i buoni, come te, si sono fatti portatori di colpe mai commesse.» L’extramondo emise un impercettibile sospiro di sollievo. Col palmo della mano asciugò la patina di sudore che gli imperlava la fronte. «Eppure tu, Sam, credi in me.» Abbozzò un sorriso. Annuii e tutto ciò che ci circondava perse significato. Nell’azzurro dei suoi occhi mi persi e immaginai di potermi immergere in quella profondità, come fosse acqua fresca, in grado di dare sollievo al mio spirito oppresso. Non c’era nulla che mi importasse più di lui, Sol, il mio nuovo sole in quei mondi di oscurità. Il mio dio cui avevo giurato fedeltà. «Sì, Sol. Io credo in te» sussurrai infatuata. Mi accarezzò il dorso della mano avvinghiata al suo braccio. «Muron non si sbagliava sul tuo conto, Samrodnalormy di Samelia.» Un grugnito si levò nel silenzio e il paesaggio tornò a primeggiare sulla mia immaginazione. «Muron, hai detto?» grugnì Kogart. «Cos’ha a che fare il grande veggente di Nathare con voi due?» «È lui che mi ha predetto questo viaggio.» Sol alzò le spalle, non degnando il Nimm di uno sguardo. «Uhm…» mormorò lo scimmione. Kogart fece cenno agli altri Nimm di accostarsi a lui. I loro bisbigli

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riecheggiarono nella notte. «Muron ha predetto allo zaffironiano che avrebbe compiuto questo viaggio.» «Ciò non cambia le cose…» «Certo che sì! Le profezie di Muron si avverano sempre!» I Nimm smisero di discutere e Kogart tornò da noi. «Dite i vostri nomi.» «Sam… Samrodnalormy.» «Sol.» Il capo guardiano emise un lungo sbuffo. «In tutti i secoli passati nessuno è mai stato così sfrontato da presentarsi al cospetto dei Nimm con tanta alterigia.» Kogart sospirò profondamente mostrando disappunto. «Tuttavia, non siete ricorsi alla menzogna, rispettando la sacralità della verità. I vostri animi sono puri, perciò accorderemo al giovane zaffironiano e alla sua guida il permesso di passaggio.» Thor grugnì, Arthur strinse l’arco, rumoreggiando con la pelle dell’impugnatura, mentre Fogarty picchiettò la base della lancia sul terreno. Gant, il cui nome avevo udito sussurrare dai fratelli, tintinnò le catene del mazzafrusto. Sol irrigidì i muscoli della mascella per la soddisfazione. Feci un inchino, per ringraziare le creature fatate della loro benevolenza. «Ascoltatemi bene, giovani avventurieri. Al di là del confine della foresta, la Magia è libera. Essa vi tenterà e sfrutterà le vostre debolezze con il solo intento di distruggervi» soffiò Kogart a nervi tesi, tutt’altro che entusiasta d’aver trovato un accordo. «Credevo che la Magia non fosse cattiva!» esclamò Sol. Arthur fece un passo avanti. «Ciascuno dei cinque mondi possiede una caratteristica che lo differenzia dagli altri. Per Taithara è la luce che genera amore e amicizia, a Ilim la smania di realizzare i propri desideri li rende irrealizzabili, a Nathare è la chiarezza che fa semplice il trovare una soluzione, mentre Zaffiron, voi ben saprete, è il regno dell’occulto» spiegò il Nimm armato di arco. «Ciò che rende speciale Samelia è la Magia, un potere nato libero, ma che si è reso necessario arginare, per evitare che possa essere plasmato da menti oscure. Noi guardiani lo custodiamo da lungo tempo, perciò ne comprendiamo i segreti più reconditi, abbastanza da sapere quanto esso ambisca alla libertà.» «Leggerà nei vostri cuori e colpirà diritto nel punto più vulnerabile.» L’avvertimento dello scimmione con il mazzafrusto mi gelò di paura. «Noi non cederemo» affermò l’extramondo con fermezza. «Il coraggio non servirà a contrastare il potere della Magia. Essa scoverà la sofferenza nel più profondo del vostro animo e se ne servirà per manifestarsi. C’è dolore nel vostro cuore?» domandò Kogart, per nulla rassicurato dalla convinzione di Sol. «Chi non ne ha?» Il terrestre schioccò la lingua e si lasciò scappare una risata.

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Il capo dei Nimm si accigliò e puntò il dito al petto di Sol che smise di ridere all’istante. «Più è grande il dolore e più la Magia sarà in grado di scatenare la sua forza!» Tutto tacque e il respiro del Nimm fu il solo suono che si udì nel buio della notte. Nonostante i timori per il pericolo incombente, i Nimm avevano concesso il permesso di attraversare la foresta, perciò fecero un passo indietro e si scostarono per lasciarci passare. La vegetazione al confine della boscaglia si agitò e una breccia si aprì tra i tronchi degli alberi. Esitai. I Nimm ci avevano messi in guardia contro la Magia avida della nostra fragilità. Il profondo dolore per la morte di mia madre mi tormentava ogni giorno, assicurandomi un’esposizione al pericolo. Sol intuì le mie preoccupazioni. «Temi che il tuo lutto possa trasformarsi in un’arma contro di te?» «E tu? Non hai timore per le tue sofferenze?» Pensai alla sua triste adolescenza, priva della guida di entrambi i genitori e all’incredibile avventura che stava vivendo. Un’esistenza difficile che aveva senz’altro lasciato qualche nera sfumatura. Sol rifletté brevemente sulla domanda e concluse con un’alzata di spalle. «I miei genitori morirono quando ero troppo piccolo. Non ricordo nemmeno i loro volti. Ho avuto una vita difficile, ma ne sono uscito piuttosto bene.» L’osservai attentamente per cercare di capire quanto Sol potesse essere immune al dolore. «Andiamo Sam, sono sopravvissuto a Zaffiron!» incalzò. Lo ammonii con un’occhiataccia e gli feci cenno di calare il tono. «I Nimm ti credono uno zaffironiano, non dimenticarlo.» Mi cinse le spalle, la sua bocca si accostò al mio orecchio e il suo alito mi solleticò il collo. «Andrà tutto bene piccola, non temere.» Sussultai al ricordo del contatto con il quale mi aveva strappata all’incantesimo del Ponte del Dubbio. Pur consapevole del grave pericolo cui ero scampata, rievocare la vicenda riaccendeva in me il desiderio di poter rivivere l’istante in cui le nostre labbra si erano carezzate. Kogart tossì e ricondusse la nostra attenzione su ciò che stavamo per affrontare. Sol annuì al capo guardiano, poi cercò la mia approvazione che non esitai a concedergli, intontita dallo strano effetto che egli aveva su di me. Insieme superammo gli enormi corpi degli scimmioni che ci augurarono buona fortuna con le armi innalzate al cielo. «La mia mazza irradi in voi la forza» disse Gant. «Che la lama della mia spada incuta timore al nemico» minacciò Thor. Arthur tese l’arco e scoccò una freccia in direzione della foresta. «Questo sia un avvertimento.»

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Lo scimmione con la lancia calò l’asta senza dir nulla e, scrutando con sospetto Sol, scosse la testa. Fogarty non era d’accordo con il permesso di passaggio concesso dai fratelli e avrei tanto voluto conoscerne le ragioni. Fu l’ululato alla notte di Kogart l’ultimo omaggio che ricevemmo, prima di varcare il confine della foresta, alla mercé delle nostre sofferenze, della fragilità dell’inconscio e dell’abilità della Magia di scavare nei nostri spiriti. Oltrepassato il confine, gli alberi alle nostre spalle si mossero chiudendo il passaggio. L’oscurità mi assalì e mi sentii soffocare. Il buio infinito dava la sensazione che stessi camminando nel nulla e il silenzio non faceva che peggiorare tale percezione. Annaspai alla ricerca di un appiglio per non perdermi. Fu Sol a trovarmi nelle tenebre. Il calore esplose attraverso la sua pelle quando i nostri corpi si sfiorarono. L’odore del suo respiro affannato, mi fece girare la testa e ancor più quando sentii il suo volto insinuarsi tra i miei capelli. «Sta tranquilla, Sam. Sono qui.» Inspirai a fondo e soffiai con energia, liberandomi di tutta la tensione che rischiava di farmi esplodere. Lo sbuffo generò luce che, sotto forma di vapore luminescente, illuminò l’area attorno a noi. L’incanto durò alcuni istanti, poi tutto tornò buio. Sol mi lasciò andare e alitò forte, manifestando ancora una volta l’incanto. «I nostri respiri generano luce! Potremo individuare la via e seguirne il percorso senza il rischio di perderci!» esclamò entusiasta. La luce si spense con il suo viso. Cominciai a soffiare, girando su me stessa e illuminando tutt’intorno. Sol mi imitò finché non individuammo il sentiero. Sfiancati, ci aggrappammo l’un l’altro per sostenerci. «Ci scoppierà la testa prima di aver raggiunto il limite opposto» constatai. «Faremo a turno.» Sol sbuffò sul mio viso, che divenne paonazzo per via del suo respiro estasiante. Sorrise di sbieco, prima che la luce si spegnesse. Feci una smorfia, imprecando contro la mia incapacità di autocontrollo. Era sempre più difficile per me placare la chimica che avvertivo accanto al giovane extramondo e avevo il sospetto che Sol lo avesse capito. Grazie all’incantesimo, riuscimmo a orientarci nel buio e imboccare lo sterrato. La luce emanata dai nostri respiri ci guidò, impedendoci di smarrirci nella foresta, ma nonostante ciò il disagio di quel luogo occulto mi perseguitava. La Magia era in agguato e, per quanto discreta, ne avvertivo la presenza. «Dobbiamo fermarci» annunciò a un tratto Sol. «Ho la nausea.» Riluttante dovetti acconsentire. Lasciare la foresta era la cosa che desideravo di più in quel momento, ma la spossatezza per le continue soffiate cominciava a farsi sentire. Sol mi guidò ai margini del sentiero e scelse il tronco di un’ampia sequoia. Continuò a sospirare, fino a che non fui seduta, poi mi lasciò la mano.

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Nonostante sentissi i suoi spostamenti, la perdita del contatto mi fece impazzire, ma lo smarrimento fu sostituito dalla sorpresa, quando tornai a percepire il calore del suo corpo. Allungai la mano verso la fonte del calore e le dita s’insinuarono tra le morbide ciocche dei capelli di Sol. Si era sdraiato, il mio grembo a fargli da cuscino. «Ti spiace, se…?» chiese. «No, fai pure.» Mi sentivo una sciocca. Una sciocca innamorata. In una manciata di ore la mia vita era stata sconvolta dall’arrivo di un giovane sconosciuto per cui avevo perso la testa. Una follia, non solo per averlo seguito in una irragionevole avventura. Egli era un terrestre: un sognatore! Sotto di me l’erba soffice e umida placava il calore causato dalla vicinanza di Sol. Ci volle un po’ prima che riuscissi ad abituarmi alla posizione, ma quando i nervi si furono distesi, un colpetto all’altezza del cuore m’irrigidì nuovamente. Passò qualche secondo prima che il fatto si ripetesse, più intensamente. Arrivò un terzo colpo e sussultai. Ne seguì un altro e un altro ancora, sbatacchiai contro il tronco della sequoia. I colpi s’interruppero bruscamente e tutto tornò fermo. Sol, già addormentato sulle mie gambe, mugugnò infastidito. Si mosse, cercando una posizione più comoda e poco dopo, il suo respiro tornò regolare. La sensazione di disagio, che non mi aveva abbandonata dal nostro ingresso nella foresta, aumentò e fui sul punto di svegliare Sol, quando sentii pronunciare il mio nome nel buio. «Sam.» Trasalii. «Kogart?» Non ricevetti risposta. «Samrodnalormy.» Sussurrò una voce troppo lieve per appartenere a uno dei Nimm. Una fioca luce si materializzò e una figura apparve. I contorni si delinearono man mano che la luce irradiava tutto intorno e distinsi la sagoma di una donna, dalla corporatura esile, abbigliata con un lungo abito bianco, tenuto fermo in vita da una cinta in cuoio. Ella sorrise e si mosse appena, facendo luccicare la catenina d’oro che portava al collo, il cui pendente le cadeva all’altezza della gola. «Un nome complicato da pronunciare e difficile da ricordare» balbettai, frastornata. «Sei cresciuta.» Sorrise lei. «Gli anni passano.» «E tuo fratello?» «Raily è un bambino adorabile.» Raccolse le mani al petto, come se le mie parole le avessero dato una gioia

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immensa e il suo sorriso si dilatò ancor più. «Stai facendo un ottimo lavoro con lui, Samrodnalormy.» La tristezza mi serrò la gola e tutto ciò che avevo compiuto in quegli ultimi anni mi cadde addosso come un pesante fardello. Ogni difficoltà, affrontata con tenacia e senza mai lamentarmi, mi sembrò insostenibile. «Mi manchi, mamma.» «Anche tu, bambina mia.» «Raily ha bisogno di te. Io ho bisogno di te.» Aggrottò la fronte, studiandomi con intensità. «Sei diventata un’adulta.» «Ho perduto la mia fanciullezza.» «È tanto ingiusto, lo so.» Il viso le si velò di tristezza e dolore. «Io non voglio crescere!» esclamai. I suoi occhi lampeggiarono e per un breve istante in essi bruciarono fiamme ardenti. «Piccola mia» sussurrò e l’espressione tornò gentile, il tono quieto. «Dimmi che posso fermarlo» la supplicai. «Fermarlo…?» «È troppo presto per me, io non sono pronta per fare da genitore e papà è più bisognoso di Raily!» La mia voce riecheggiò nella foresta, carica di tutta la frustrazione che avevo covato sino a quel momento. Ogni cosa che avevo sopportato con rassegnazione, traboccava assieme alla rabbia repressa. «Se c’è un modo, ti prego, dimmelo.» Le sue pupille brillarono ancora, ma questa volta non si spensero. Ciò che chiedevo era possibile ed ella conosceva il modo per accontentarmi. «Oh, mamma ti prego!» «Sei certa che è ciò che desideri?» «Oh, sì!» «La possibilità che tu sia esaudita esiste… » «…e qual è?!» «Fermare il tempo.» «Fermare il tempo?» «Il tuo tempo» precisò. «E come posso riuscirci?» «Vieni qui, abbracciami e ti condurrò nel luogo ove il tempo non ha significato, dove non c’è età e potremo ricongiungerci, per sempre.» Il candore della sua pelle era sublime e invitante. Tornai indietro nei miei ricordi e mi parve di poter sentire il tocco lieve delle sue mani, mentre mi accarezzava il viso e mi baciava leggermente sulla fronte, per augurarmi la buonanotte. Un’abitudine che non aveva mai perduto, nemmeno quando mio padre aveva definito quella pratica troppo infantile. «Tornerò a essere la tua bambina.» Sorrisi speranzosa. «E io a prendermi cura di te. La mia piccola Samrodnalormy.» «Oh, mamma… » Allungai la mano verso il suo palmo. Non c’era

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nient’altro che desiderassi di più che ricongiungermi con lei e riavere ciò che mi era stato tolto dalla morte, nella quale risiedeva la sola possibilità di spogliarmi delle responsabilità che il destino mi aveva accollato e interrompere per sempre lo scorrere del tempo che mi rubava la giovinezza. «Samrodnalormy, vieni da me, dalla tua mamma.» Tese le braccia. Staccai la schiena dal tronco d’albero e le fiamme le avvamparono nelle orbite. La sua espressione mutò e mi parve fremente e irrequieta. Il desiderio d’avermi con sé era forte quanto il mio, ma nella sua smania lessi qualcosa che mi apparve improvvisamente… sbagliato. Ritrassi la mano e mi feci esitante. «Sam…?» Piegò la testa di lato. «Tu, mi vuoi bene davvero?» le chiesi. Sgranò gli occhi e si portò una mano al petto, sorpresa dall’inaspettata domanda. «Certo tesoro, come puoi dubitarne?» «E desideri il meglio per me?» «È ciò che ogni madre vuole per i suoi figli.» Nella mia mente, annebbiata dal dolore e dalla rabbia, si aprì una schiarita. «È ciò che Ily avrebbe voluto per i suoi figli.» Le sue labbra si piegarono in una smorfia. «Sam, sono io, la mamma.» Scossi la testa. «Mia madre non avrebbe mai desiderato la morte per i suoi figli. Le è stato impedito di vederci crescere, ma sono certa che, se potesse, esprimerebbe più che mai la volontà che ciò avvenga.» La figura apparsa nella foresta, l’esatta copia di mia madre così come l’avevo veduta l’ultima volta, era la sofferenza più grande che covassi nel profondo dell’animo. La catenina al collo era la riproduzione di quella che indossavo io dal giorno della sua morte e l’abito chiaro lo stesso che papà aveva scelto per l’ultimo saluto. Tutto era stato rievocato, a eccezione dei suoi sentimenti. «Tu non sei mia madre.» La sfidai. La donna annaspò. «Samrodnalormy sei solo… confusa.» «Hai fallito» sibilai alla Magia. «Non mi avrai.» La menzognera strinse i pugni e digrignò i denti. Dalla gola le uscì un gorgoglìo, forte e rabbioso. Al culmine dell’ira si portò le mani alla testa e si strappò alcune ciocche che caddero a terra, perdendo tono e colore, prima di vaporizzarsi nell’aria. La luce aumentò fino a esplodere in infinite scintille incandescenti. Alcune di esse raggiunsero me e Sol e la pelle sfrigolò al contatto. Il giovane extramondo scattò, risvegliandosi dal sonno. «Che succede? Sam!» Soffiai, cercandolo nel buio e gli presi il viso tra le mani. «È tutto a posto.» Continuai a illuminargli il volto finché il suo respiro si stabilizzò. «La… Magia?» mi chiese impaurito. «Sono stata tentata.»

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Mi afferrò per stringermi forte. Il battito del suo cuore agitato mi giunse attraverso il petto accaldato dalla paura. Al contrario, ciò che era accaduto non mi aveva affatto turbata. Avevo affrontato la Magia con una maturità che non avrei mai pensato di possedere e mi sentii fiera d’essermela cavata senza l’aiuto di nessuno. Era piuttosto la vicinanza di Sol ad agitarmi e la forte ansietà con la quale reagì al pericolo che minacciava la mia incolumità. «Andiamocene da questo posto.» Strofinò il naso tra i miei capelli, prima di sciogliere l’abbraccio. Le sue mani scivolarono giù dalle spalle, percorrendo le braccia e cercando le mie. Solo una si staccò, mentre l’altra si incatenò alla mia. Lo lasciai fare, rapita dalle sue premure. Alternandoci a illuminare la via, lasciammo la sequoia. Sol procedette a passo rapido, aumentando il ritmo fino a costringermi a saltellare per non cadere. La sua mano mi stringeva così forte da farmi male e presto sentii il braccio dolorante, per via degli strattoni. «Sol, così è troppo!» L’ansia di lasciare la foresta fu più forte di ogni supplica e invece di rallentare, accelerò il passo. «Coraggio, ci siamo quasi.» Preso dalla foga di raggiungere al più presto la fine della boscaglia, Sol soffiò, saltando il suo turno di riposo. «Toccava a me» protestai, tossendo nel ricacciare dentro l’aria. La luce durò alcuni istanti, poi tornò il buio. Mi preparai a un’altra boccata, ma ancora una volta Sol mi precedette. «Sol! Ti girerà la testa!» Il giovane si fermò d’improvviso e gli rovinai addosso con tutto il peso. Le nostre mani si persero nel trambusto. «Sol!» «Sam!» Arrancai nell’oscurità, fino a che non ci ritrovammo schiena contro schiena. «Che succede?!» domandai allarmata. «Non sono stato io» sussurrò. «E chi, allora?» Non rispose e nel silenzio si udì l’eco di un suono sinistro. «Cos’è stato?!» «Shhh» soffiò sottile. Il suono si udì ancora, questa volta più vicino. «Hai sentito anche tu?» domandai, tremante. Chiara e inconfondibile, udimmo l’agghiacciante risata provenire dal sentiero già percorso, illuminato a giorno da un fascio di luce emanato da una figura in lontananza che procedeva verso di noi a passo svelto. Una donna, abbigliata di stracci, con lunghi capelli che le svolazzavano attorno. «Oh, mio dio!» sbottò Sol, sconvolto. La donna alzò il mento e ululò nella notte. «Soooooooooooooool!»

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Tremai nell’udire pronunciare il nome del giovane in tono macabro. «Chi è quella?!» chiesi. «Sam… » balbettò Sol, «… corri!» Non mi diede il tempo di decidere e mi strattonò. Trascinata via a forza, ripresi a trottare sul sentiero. La donna alle nostre spalle portava con sé un forte bagliore, risparmiandoci l’affanno d’illuminare la via. «Soooooooooooooool!» «Quella ti chiama per nome!» urlai. Una scarica elettrica esplose nell’aria e un fulmine mi sfiorò il braccio, scaricandosi sul terreno. La carne bruciò all’istante, sfrigolando nell’aria. «Mi ha scagliato contro una folgore!» gridai. Sol imprecò. «Soooooooooooooool!» La sconosciuta prendeva terreno, inseguendoci con energia inesauribile. Chiamava Sol, minacciosa, sghignazzando di tanto in tanto. Scagliò altri colpi infuocati, che ci passarono accanto senza colpirci. Alcuni di essi toccarono i rami degli alberi che presero fuoco. Le fiamme si svilupparono in breve tempo. Accalorata dalla corsa e dal calore della boscaglia incendiata, cominciai a sudare e gli abiti mi si incollarono alla pelle. L’ustione al braccio pulsava e le forze venivano meno. «Sol non ce la faccio più!» Un fulmine incandescente passò sopra le nostre teste e piombò nell’oscurità. Avanti a noi si generò un’esplosione e poco dopo le fiamme si levarono fitte, bloccando il passaggio. Intrappolati dal fuoco, fummo costretti a interrompere la fuga. «Soooooooooooooool!» Col volto raggrinzito e ricoperto da pustole, la donna procedeva a grandi falcate. I suoi abiti erano logori e il grembiule legato in vita ridotto a un brandello penzolante. «È una strega!» esclamai, sconvolta. Sol si passò una mano tra i capelli. «No, è molto peggio.» «La conosci?» «È… mia madre.» «Cosa?!» La donna alzò un braccio e materializzò una saetta che ci scagliò addosso. Schivammo il colpo per un soffio. «Soooooooooooooool!» L’urlo si allungò per l’intera foresta e sul viso della strega si dipinse un sorriso trionfale. La donna si chinò appena, così da acquistare maggiore aerodinamicità e quando si fu avvicinata abbastanza spiccò il volo. Con un fulmine in ciascuna mano, si preparò a colpire. A bocca aperta, osservai l’apocalittica scena di morte e mi preparai alla fine della mia giovane vita, arsa dal fuoco delle folgori. «Perdonami, Sam» sussurrò Sol accanto a me. Il calore del suo corpo riuscì a superare quello dell’aria, quando mi ritrovai

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tra le sue braccia. In un istante scavalcai il confine tra la paura e il piacere sublime del contatto con la sua pelle. Alzai il mento e la mia bocca gli sfiorò il collo. Sol si scansò, affinché i nostri sguardi si incontrassero. Circondati dalle fiamme e sovrastati da una famelica creatura misteriosa, il tempo si fermò e il pericolo per le nostre vite divenne solo un sottofondo. «Morirai per colpa mia» soffiò. «Allora rendi indimenticabile l’ultimo istante che mi resta.» Sol trattenne il respiro e nei suoi occhi scoprii tutto ciò che desideravo sapere. Le emozioni che mandavano in subbuglio ogni cellula del mio corpo e mi avevano portata ad agire in maniera irrazionale al punto da incamminarmi verso la morte erano le stesse che sconvolgevano l’animo del giovane extramondo. Resa audace da tale nuova consapevolezza, chiusi gli occhi. «Baciami, Sol. Baciami, per la prima e l’ultima volta.» Un improvviso fragore si propagò nell’aria. Il terreno tremò e persi il contatto con Sol. Privata di ogni sostegno, caddi all’indietro. Sbattei il cranio e tutto si confuse. Fumo, scintille e cenere avvolsero ogni cosa. Sola e frastornata, fui colta dal panico. Il dolore al braccio aumentò e fitte, simili a scariche elettriche, partirono dalla ferita per espandersi fino alle dita. La testa divenne pesante come un macigno. Sul punto di perdere i sensi, mi sentii afferrare alla vita e mi ritrovai aggrappata a una montagna di muscoli e folta pelliccia. «Kogart.» Lo scimmione grugnì un dissenso. «Kogart è rimasto indietro per riparare al disastro che avete combinato tu e quel… » «Gant, dov’è Sol?» lo interruppi. «Con Arthur, verso il confine della foresta.» Sospirai, confortata dalla notizia. «Se non fossimo intervenuti, ora sareste cenere» ringhiò il Nimm. Mi strinsi alla montagna di pelo ispido. «Grazie.» «È nostra la colpa, non avremmo mai dovuto lasciarvi passare. La nostra negligenza è imperdonabile» Gant gorgogliò frustrato. «La strega che ha scatenato il finimondo è la Magia?» Pensai a ciò che aveva detto Sol a proposito della donna e al fatto che l’avesse riconosciuta. Il collegamento con la Magia mi dava da pensare che essa potesse essere una proiezione derivata dall’inconscio del giovane extramondo. Così come il Potere si era manifestato a me, assumendo le sembianze di mia madre Ily, lo stesso era accaduto con i ricordi di Sol. «Credevo che il Potere agisse solo nell’inconscio» dissi incerta. «È così infatti» brontolò. «Avremmo dovuto prevederlo. Concedere il passaggio a uno zaffironiano, bah! Puzzolente, irriverente e per giunta senza sheena!» «Sol non ha sheena?!» esclamai.

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«La sheena è come uno scudo. Nel caso dello zaffironiano, la Magia si è materializzata senza ostacolo alcuno.» «Riuscirete a domarla e a rimettere le cose a posto?» «Deve essere così, siamo i guardiani.» Dal tono di voce, intuii il peso del grave compito che i Nimm assolvevano e mi dispiacque non averlo considerato in maniera adeguata. «L’incendio ha bruciato la vostra foresta» osservai rammaricata. «La foresta è magica, si riprenderà.» Questa volta lo scimmione rispose con tono leggero. Confortata dalle parole di Gant, mi sistemai meglio in groppa. La nube di fumo si diradò e l’aria divenne fresca. La vegetazione cambiò e i fusti degli alberi furono sostituiti da cespugli e rovi. Il pesante respiro di Gant produceva abbastanza luce da illuminare la via e presto riuscii a scorgere il confine della foresta. Il Nimm si fermò qualche metro prima e mi fece scendere. «Grazie per avermi salvata.» Gli poggiai una mano sul braccio e ne accarezzai l’ispida pelliccia. Gant sparì, inghiottito dal buio. Oltrepassai le ultime fronde, ansiosa di lasciare la foresta e ricongiungermi a Sol. Sebbene il buio avvolgesse Samelia, al di fuori dalla boscaglia il paesaggio era visibile e la luccicante distesa d’acqua apparve innanzi a me. Il mio compagno di viaggio mi venne incontro, avvolgendomi in un abbraccio. «Sam, grazie al cielo!» Strofinai la guancia sul suo petto e ne inspirai l’odore, così diverso dal mio, ma tutt’altro che nauseabondo come lo definivano i Nimm. «Come va il braccio?» chiese ansioso. «Dolorante, ma nulla di grave.» Storse le labbra, soffermandosi sulla scottatura provocata dalla folgore. «Posso sopportarlo. Piuttosto… » Alzai un sopracciglio, ripensando all’insolito inseguimento. «… non mi avevi detto d’essere il figlio di una strega.» Malgrado la gravità della vicenda, riuscii a strappargli un debole sorriso sghembo. Tossì impacciato e d’un tratto ricordai il racconto circa la sua fuga dall’orfanotrofio e gli ultimi tempi vissuti sulla Terra. «La megera dell’Istituto!» esclamai. Annuì, storcendo il naso. «Una donna dissennata, dall’ossessivo istinto materno. Non aveva figli, così sfogava il suo bisogno su noi bambini. Il mio arrivo le fece perdere letteralmente la testa. Mi trattava come fossi un lattante, costringendomi sulle sue ginocchia a cantare filastrocche e sgranocchiar biscotti» raccontò disgustato. «Un incubo!»

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«Pretendeva che la chiamassi mamma e mi batteva, se per errore me ne dimenticavo.» Contrasse la mascella. «Ora capisco perché sei fuggito.» «E capisci anche perché è così che me la ricordo.» Fece un cenno alla foresta, alludendo allo spauracchio che la Magia aveva scovato nell’inconscio di Sol e che per poco non ci aveva bruciati vivi. «Credevo che la Magia agisse esclusivamente nell’inconscio. È stato così con te» disse ancora confuso. Annuii e spiegai a Sol ciò che mi aveva rivelato Gant, riguardo l’assenza di sheena che aveva permesso alla Magia di materializzarsi. «È una cosa brutta, non avere la sheena?» osservò corrucciato. Feci spallucce. Era uno scudo invisibile che solo le creature magiche potevano individuare, ma tolto l’episodio nella foresta, non avevo idea di cosa potesse comportare tale mancanza. «Non mi abituerò mai alle Leggi che governano questi mondi.» La nota di disappunto nel suo tono mi colpì. Tenevo a Sol e più ci pensavo più mi domandavo come fosse possibile in così poco tempo. Contro ogni mio desiderio, lo aiutavo a trovare la strada di ritorno al suo pianeta, lontano da me e dal mio mondo. Ogni attimo vissuto lontano dalla Terra era per Sol motivo di rabbia, tristezza e sofferenza. Non c’era speranza che egli rinunciasse alla sua missione per restare. «Terra uno, Samelia zero.» Sbuffai. «I nostri mondi sono in competizione?» Strabuzzò gli occhi. «Non farci caso. Riflettevo tra me e me.» Mi morsi il labbro, pentita d’aver detto una cosa tanto sciocca, ad alta voce. Sol, incuriosito, decise di non mollare il colpo. «Mi piacerebbe molto condividere i tuoi pensieri.» Deglutii. «Potresti restarne deluso.» «Ne dubito.» Le sue pupille scintillarono e accesero la miccia delle mie sensazioni. Presi fuoco, le palpitazioni aumentarono, il respiro si accorciò e cominciai a sentire un gran caldo. «Sul serio Sol, lascia stare.» «Samrodnalormy…» Scrollò il capo. Tenergli testa era impossibile. Egli sapeva esattamente come mandarmi in estasi, mi aveva in pugno, ne era consapevole e la cosa lo divertiva. «Pensavo a quanto sia triste che tu non riesca a vedere Samelia al di là dell’oscurità» confessai. «Va' avanti… » Mi scrutò incuriosito. «Sei talmente radicato alla tua indole razionale, che non riesci a vedere quanto sia meraviglioso tutto questo!» Allargai le braccia. «La mia indole…? Uhm.» «I nostri mondi sono il frutto dei sogni. Come puoi non esserne ammaliato?!»

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Alzò un sopracciglio e sorrise di sbieco. «Forse perché non ho mai rischiato così tante volte di morire, come negli ultimi cinque anni quaggiù?» Schiusi le labbra per replicare, ma scoprii di non avere nulla da dire. A discapito dei miei ricordi, c’era la realtà del grigio e oscuro paesaggio che ci circondava. I mondi erano in piena crisi, morenti e senza futuro. Solo un pazzo avrebbe scelto la desolazione e rinunciato alla possibilità di vivere in un mondo prospero e ricco di opportunità. Sentii salire le lacrime e la gola mi si strinse in un cappio. Sol si mosse accanto a me e poggiò il palmo sulla mia spalla. Tirai su col naso e alzai gli occhi su di lui. La consapevolezza di non sentirmi più fiera per il mio paese mi colmava di una tristezza che nemmeno la vicinanza di Sol era in grado di consolare. «Sam, ascolta, non è il paesaggio a rendere speciale un posto, ma l’affetto per coloro che vi abitano.» Mi persi nei suoi occhi e vi nuotai, cullata dalle onde mosse dal suono della sua romantica voce. «È questo il motivo per il quale desideri ardentemente tornare a casa?» chiesi, domandandomi chi mai aspettasse Sol al di là degli universi. «No.» Si accigliò. «Tu appartieni alla tua magia, tanto quanto io alla mia razionalità.» Mi girò la testa, mentre i pensieri prendevano forma. «E se i tuoi affetti ti spingessero in una direzione diversa?» «Sam, io non… » Interruppe la frase e si passò una mano tra i capelli. Abbassai la testa e mi maledissi per essere stata tanto inopportuna. La mia insistenza ad agire d’impulso, seguendo l’istinto, tornava a rovinarmi l’esistenza. Le dita di Sol mi strinsero ancora più forte e mi costrinse a guardarlo in faccia. «Perché…?» mi chiese. «Perché, cosa?» «Perché vuoi che resti?» Avvampai per la vergogna e riuscii solo a balbettare parole sconnesse. «Sam, è sbagliato» sussurrò Sol, scuro in volto. «Allora perché non riesco a togliermelo dalla testa?» Ci contemplammo a lungo. Vicini, ma allo stesso tempo lontani per natura e chissà cos’altro. «È colpa mia» soffiò a un tratto. «Colpa? Né io né tu ne abbiamo.» Scrollò il capo e mi lasciò andare. «Rinuncia al tuo potere di attrarmi e io rinuncerò alla mia volontà di seguirti.» «Un’altra massima fantasma del defunto guru inglese?» ipotizzai. «Il Bardo ha ragione.» «È morto.» «Non la sua sapienza.»

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«Cosa vuoi che ne sappia di quel che è giusto e quel che sbagliato per me, per te, per…» Sbatté le palpebre. «Non dirlo…» «Perché?» «Ti scongiuro, basta» supplicò. La tensione raggiunse il culmine. Tutto ciò per cui erano necessarie settimane, mesi, o forse anni di frequentazioni, si stava verificando in meno di una notte. Brutalmente investiti da nuovi sentimenti, correvamo il rischio di restarne feriti entrambi. «Così non andiamo da nessuna parte» sospirai rassegnata. Sol mi scrutò con la fronte arricciata. I suoi tormenti, altrettanto chiari quanto l’attrazione che sentiva per me, mi stringevano il cuore. Semmai avessi voluto approfondire la nostra conoscenza, non era certo quello l’inizio migliore. «Samelia, Terra: time out» proclamai. L’extramondo non disse nulla. Sul suo volto, profonda gratitudine. Fine anteprima.Continua...