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1 Angelo Pontecorboli Editore - Firenze Il Ristorante Cosimo de’ Medici Protagonisti, storie, ricette

Il Ristorante Cosimo de’ Medici · Angelo Pontecorboli Editore - Firenze Il Ristorante Cosimo de’ Medici Protagonisti, storie, ricette. ... da solo o con il mio staff. Chi, come

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Angelo Pontecorboli Editore - Firenze

Il Ristorante

Cosimo de’ Medici

Protagonisti, storie, ricette

Redazione dei testi: Nicola Di Renzone e Jacopo Lazzari

Direzione artistica: Angelo PontecorboliProgetto grafico e elaborazioni immagini: Angelo Pontecorboli Editore

Fotografia: Fratelli Ballini, Videolab - Firenze

Copyright © Angelo Pontecorboli Editore, Firenzewww.pontecorboli.it - [email protected]

ISBN 88 88461 16 7

La scoperta di un nuovo piatto contribuisce di più alla felicità umana che la scoperta di una nuova stella

Physiologie du GoûtJean-Anthelme Brillat-Savarin, 1755-1826

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Introduzione

Sono ormai diversi giorni che ho notato qualco-sa di strano nel comportamento di Claudio Fontani, mâitre del Cosimo de’ Medici, anzi quasi mi sento offeso, “Diamine - penso - dopo più di dieci anni che ci conosciamo, Claudio improvvisamente sembra in imbarazzo quando si avvicina al mio tavolo“.

Mi bastano poche domande apparentemente casuali a Franco, che da sempre mi vizia con le sue attenzioni, e con cui si è creata una certa confidenza, per rivelare questo segreto di Pulcinella.

Scopro che si sta preparando una pubblicazio-ne per commemorare i venticinque anni del locale e l’editore vorrebbe qualche riga d’introduzione al volume da parte di qualcuno fra i clienti più affezio-nati, solo che Claudio non si decide a farsi avanti.

Ecco svelato il motivo: senza pensarci due volte, mi propongo come volontario.

In realtà più che tessere nel dettaglio le lodi sulla qualità del cibo o sull’accuratezza del servizio, ba-sterebbe partire dalla constatazione poc’anzi fatta: da dieci anni mi siedo cinque giorni alla settimana al Cosimo de’ Medici per pranzare, da solo o con il mio staff.

Chi, come me, conduce una vita che lo por-ta quotidianamente a mangiare fuori casa conosce

bene le relative implicazioni, la ripetitività portata all’estremo, il medesimo menu esplorato in tutte le sue varianti, in ultimo l’assuefazione ad un certo tipo di sapori, in una parola, la noia.

Proprio questo è invece quello che mâitres e cuochi del Cosimo sono riusciti e riescono ad evi-tarmi, attingendo, pur nel rispetto della tradizio-ne, a ricette sempre nuove e variate, modificando il menu saggiamente, seguendo ogni anno il corso delle stagioni come si faceva una volta, somman-do insomma alla professionalità indiscussa quella creatività e quella voglia di sperimentare che solo pochi ristoratori sanno o vogliono offrire.

Riuscire a creare questi piatti, ma sopratutto riuscire a rinnovarli senza mai perdere la continui-tà con la tradizione, né tantomeno scivolare nella banalità, è un’opera mirabile; essere in grado, dopo tanti anni, di stupirmi ancora con qualche novità o qualche piccolo aggiustamento, magari talmente piccolo da non essere apprezzabile dall’avventore occasionale, denota indiscutibilmente una non co-mune passione per la ristorazione e per la soddisfa-zione del cliente.

Ecco, son tutte qui le qualità del Cosimo, poche forse, ma rare.

SANDRO FRATINIPresidente Super Rifle S.p.A.

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La mattina avevo accennato casualmente ad un collega, buon amico e grande buongustaio, di un impegno per il primo pomeriggio a Bologna e lui, nell’offrirsi di accompagnarmi, mi aveva consiglia-to, anzi è più corretto dire imposto, di partire per tempo e fermarsi a desinare a Barberino di Mugello, al Cosimo de’ Medici.

Ed eccoci qui, seduti al tavolo ordiniamo una fiorentina: la specialità del ristorante. Mi guardo in-torno e rimango colpito dai movimenti dei camerieri dalla impeccabile uniforme che, laboriosi ed in silen-zio, provvedono ai numerosi tavoli. Faccio un rapido calcolo mentale e mi rendo conto che ci sono più di cento persone sedute ai tavoli, eppure il locale rima-ne silenzioso e riesco a conversare con il mio com-mensale senza necessità di alzare il tono della voce.

Appare un cameriere spingendo un carrello con una enorme bistecca intera posata su un tagliere e due grandi piatti fumanti, poi, con la naturalezza di un gesto ripetuto infinite volte, taglia la carne che, servita sui piatti arroventati, continua a cuocere e “sfrigolare” davanti a noi, sul tavolo. Solo dopo, par-lando con il cuoco e con il responsabile di sala, capi-rò i perché ed i segreti di questi gesti, quasi rituali, ma che hanno, tutti, una precisa ragion d’essere.

Quasi ignoro il premuroso, ma anche pleona-stico, avvertimento “Attenzione, non toccate il piat-to, che scotta!” e, vinto dall’aroma che se ne spri-

giona, impugno forchetta e coltello da bistecca e li affondo nella succulenta pietanza. La conversazio-ne riprende solo quando anche l’ultimo brindello di “ciccia” si è trasferito dai piatti ai nostri stomaci, non senza l’aiuto del buon vino rosso di Montalci-no. Pur già sazi, non possiamo fare a meno di gu-stare uno dei dolci “fatti in casa” e, dopo il caffè, insolitamente buono, a livello di quelli che ormai si possono gustare solo nelle torrefazioni, chiedo il conto, preparandomi mentalmente ad un esbor-so rilevante. Resto piacevolmente sorpreso e rivol-go uno sguardo interrogativo al mio amico, che mi sorride sornione. Solo grazie ai buoni uffici del mio amico riesco a vincere l’iniziale timidezza di Clau-dio Fontani, maître e gestore storico del ristorante, che inizia a raccontarmi i come ed i perché del loca-le e della sua conduzione.

Una bottega artigiana dove si produce un pro-dotto di qualità. Ecco il Cosimo De’ Medici: un ri-storante dove lavorano e vivono gran parte del loro tempo 16 e più persone che formano le brigate di sala e di cucina, una squadra affiatata che cerca di non lasciare niente al caso nel servizio e nella pre-parazione dei piatti. Claudio Fontani lo gestisce as-sieme ad altri quattro soci, due dei quali stanno in cucina mentre altri due organizzano la sala insieme a lui. Ma che tipo di locale è il Cosimo? Fontani lo definisce come un ristorante medio. Abituati alla ri-

Il Cosimo de’ Medici

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cerca del primato ad ogni costo questa parola può spaventare. In realtà nasconde la virtù dell’equili-brio: la scommessa di coniugare una buona qua-lità dei piatti e del servizio con prezzi accessibili, evitando la dicotomia, ormai classica in Italia, tra trattorie di dubbia qualità e poco prezzo e ristoranti eccellenti ma molto costosi. La principale caratteri-stica del Cosimo è proprio questa: i piatti di cuci-na toscana vengono preparati e serviti con la cura e la professionalità tipiche della hôtellerie europea a molte stelle, dove Claudio Fontani ha lavorato a lungo, imparando l’importanza di affrontare il pro-prio mestiere con serietà e professionalità, metten-do ai primi posti tra i propri valori il rispetto e la riservatezza verso il cliente.

Pasta fresca, pappardelle alla lepre e al cin-ghiale, tortelli di patate, tagliolini con i prugnoli: i piatti del Cosimo de’ Medici rispecchiano la grande tradizione della cucina toscana, travalicando i con-fini del Mugello. Principali protagonisti sulla tavo-la sono gli ingredienti tipici della regione, serviti secondo il ritmo delle stagioni. Così, nel periodo giusto, i funghi diventano gli ingredienti di risotti e zuppe ma tra i secondi piatti non c’è storia: è la bi-stecca alla fiorentina che ha reso famoso il locale. Le ricette, pur ricche di piccoli segreti e accorgimenti, riescono, quando eseguite dalle abili mani dei cuo-chi del Cosimo, a dare ad ogni piatto quel sapore

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unico che permette di riconoscerlo tra tutti gli al-tri dello stesso tipo, anche a distanza di anni. Ecco un’altra caratteristica del Cosimo: pur essendo un ristorante di passaggio, collocato sulla principale arteria di comunicazione italiana, e traendo proprio da essa una gran parte della clientela, ha un gran numero di clienti “fissi” che si fermano per mangia-re anche solo una volta l’anno, ma con costanza, e che si aspettano di trovare gli stessi sapori, gli stessi odori e la stessa atmosfera che ricordano distinta-mente dall’ultima volta che si sono fermati. E’ così che, in un territorio, un ristorante può diventare un segno di continuità: un qualcosa che c’era 25 anni fa, c’è oggi e ci sarà in futuro, mantenendo intat-te le sue caratteristiche e allo stesso tempo essendo in grado di rinnovarsi senza perdere la scommessa con il futuro né il contatto con la Toscana ed il Mu-gello che cambiano intorno a lui.

Claudio Fontani, che è stato ed è tuttora l’ani-ma di questa continuità, sottolinea però come il ri-sultato ottenuto non sia dovuto alle individualità, ma, al contrario, sia il frutto del lavoro complessivo di uno staff molto professionale e preparato, una sorta di catena cinematica in cui, ad ogni ora, ciascu-no sa con precisione cosa deve fare e come. A questo si aggiunge una grande cura nella scelta degli ingre-

dienti, la selezione rigorosa di fornitori affidabili e, nel caso specifico della carne, addirittura l’esclusiva per la Toscana di un particolare allevamento.

“Nella cucina non ci sono segreti – afferma Claudio – non si inventa niente perché ormai è stato già inventato tutto”. In realtà, come abbiamo visto, un segreto esiste: il lavoro serio e costante tipico di un artigianato di alta qualità, quell’esperienza che permette di valutare la qualità della carne da cru-da, tagliandola o semplicemente sentendone l’odo-re. Un’organizzazione che si nota già entrando nel locale di mattina, quando è ancora chiuso ma già iniziano i preparativi per il pranzo, in un viavai di fornitori, con il personale che turbina lavando e ras-settando i locali. Così come quando vengono servi-ti i pasti, colpisce come l’attività sia portata avanti in silenzio e con efficienza, con ciascun addetto che svolge il proprio compito senza mai intralciare un collega, con una naturalezza che solo l’esperienza e la professionalità possono donare.

“Eppure gli inizi non sono stati facili” ricor-da Fontani, soprattutto perché il locale si è inserito tra altri esercizi già avviati e conosciuti. E’ stata una piccola guerra, combattuta da tutti in modo leale, con sue battaglie fatte di vittorie e sconfitte. Per cer-care di accaparrarsi qualche cliente occorreva resta-

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re aperti più della concorrenza, per intercettare chi trovava chiusi gli altri locali. E proprio i clienti sono uno degli ingredienti fondamentali del Cosimo. E’ infatti sul loro affetto e sulla loro scelta che si basa la sua continuità, possibile grazie sia ai molti clienti locali, soprattutto imprenditori toscani e mugellani, che a chiunque viva e lavori a stretto contatto con l’autostrada. Ai suoi tavoli si siedono spesso attori, politici, avvocati, imprenditori, ma anche rappre-sentanti, impiegati, camionisti e famiglie, e ognuno trova quello che si aspettava. Guai però a chiedere al personale un aiuto per avere un autografo dal ce-lebre vicino di tavolo: qui anche le persone famose hanno diritto ad un’ora di tranquillità.

La sua collocazione, immediatamente a ridos-so degli Appennini, rende il locale una tappa idea-le sia per chi scenda verso sud e voglia mangiare solo dopo aver superato il passo, che per chi, diretto a nord, voglia riposarsi prima di affrontare le nu-merose curve che precedono Bologna. Sono molti i camionisti che interrompono il loro lavoro dietro il volante per mangiare al Cosimo, fermandosi anche tre o quattro volte alla settimana nei loro continui viaggi attraverso l’Italia: qui sanno di poter trovare un menu particolare, con piatti semplici e dai prez-zi accessibili. Tutti però, dall’attore al camionista,

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sembrano essere stati conquistati dalla stessa ricet-ta: dare dignità ad un ristorante normale, medio ap-punto. Aver la certezza di trovare camerieri in divi-sa, dall’aspetto impeccabile, che offrono un servizio tipico dei ristoranti di élite, accompagnato da una indiscutibile qualità dei piatti non è cosa comune. Un buon bilanciamento, insomma, tra sala e cuci-na. Secondo Fontani non si può scindere, infatti, la bontà di un piatto dalla sua presentazione, da un servizio veloce ed efficiente o dal modo in cui viene ricevuto il cliente. Ecco perché una delle scommes-se del Cosimo de’ Medici è quella del personale: la ricerca di persone qualificate e l’impegno a formarle nell’esperienza quotidiana, con la convinzione che un investimento nelle risorse umane e nella qualità non sia mai a fondo perduto.

Anche adesso che il ristorante incontra un buon successo di pubblico, le difficoltà per i suoi gestori non sono finite: occorre mantenere il livel-

lo conquistato, soddisfacendo un numero sempre maggiore di clienti. Non si tratta di un’impresa faci-le, però, a partire dalla gestione dell’orario più cao-tico, quello del pranzo, in cui i clienti si concentrano in un’ora e mezzo, tutti con una certa fretta. La cena, coprendo un orario più lungo, è, solo a prima vista meno caotica: in realtà qui il lavoro è maggiore per-ché alla fine si servono più clienti.

A sentire Claudio Fontani, quindi, non ci sono segreti né in cucina né in sala, verrebbe quasi voglia di improvvisarsi ristoratori ed attendersi un simile successo. In realtà bisogna conoscere la storia per-sonale di Claudio per comprendere il bagaglio di esperienze che hanno portato il Cosimo de’ Medici ad eccellere, probabilmente è vero che non ci sono trucchi e segreti, nel senso che tutto è alla luce del sole, ma che, similmente ad uno spettacolo di pre-stidigitazione, la destrezza dovuta al lungo allena-mento fa la differenza.

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Claudio Fontani è nato a Chiusdino, nella provincia di Siena e a due passi dalla Maremma, nel 1948. Il suo percorso per arrivare a lavorare nei risto-ranti più esclusivi d’Europa e poi a gestire un locale come il Cosimo de’ Medici è stato un avvicinamen-to graduale, fatto di fatica quotidiana e gavetta. La passione, come ci racconta, nascerà con il tempo.

Nella Montecatini dei primi anni Sessanta Claudio frequenta il prestigioso istituto alberghiero La Querceta, costituito negli anni Cinquanta, che esi-ste ancora oggi e dove molti ex allievi, che adesso ge-stiscono alberghi e ristoranti sparsi in tutto il mondo, si ritrovano ogni anno. All’epoca La Querceta però era un convitto: un collegio dove vivere e studiare, e lui vi si trasferisce all’età di quattordici anni.

Nato come albergo all’inizio del secolo, il ca-stello della Querceta era rimasto a lungo inutilizza-to finchè, nel 1950, fu scelto come sede della Scuola Alberghiera di Montecatini divenuta poi l’Istitu-to Alberghiero di stato “F. Martini”. Della scuola Fontani conserva un buon ricordo: un istituto or-ganizzato molto seriamente, dove acquisire le basi per apprendere poi l’esperienza sul campo, quella che si ottiene solo lavorando e che è l’aspetto fon-damentale per imparare qualsiasi mestiere, special-mente in cucina o in sala. Nell’istituto di Monteca-tini Claudio compie una delle prime scelte che con-dizioneranno il suo futuro: decide di diventare un

uomo di sala e segue questo indirizzo per tutti gli anni del ciclo di studi. Sala e cucina: ecco le prime due parole da imparare per chi si avvicini al mondo della ristorazione, i due ingredienti di un buon ri-storante, che vanno mescolati nelle dovute propor-zioni, senza trascurare né l’uno né l’altro. La scuola alberghiera sarà un’esperienza fondamentale nella sua vita professionale, e sarà proprio l’esigenza di finire gli studi che, qualche anno dopo, lo porterà

Non ci si inventa professionisti...

(le radici del Cosimo de’ Medici)

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L’Acqua cotta, un piatto della Maremma senese

La storiaPer quanto si possa cercare nella mente dei vecchi maremmani, non esiste una storia dell’acqua cotta. È un tradizionale piatto nato dall’ingegno delle massaie della Maremma, fatto di poco, di quel poco che l’arida terra di un tempo dava: cipolla, verdura, olio, pomodoro, un uovo, pane abbrustolito, un po’ di pecorino grattato.

La ricettaAd una buona base di olio di oliva, aggiungere due o tre grosse cipolle tagliate a fette e far prima soffriggere, poi cuocere a fuoco lento finchè saranno molto cotte e quasi sfatte. Aggiungere pomodoro a pezzi e continuare la cottura, unendo degli odori (basilico, sedano). A cottura ultimata aggiungere acqua (se c’è, sarebbe meglio del buon brodo) e far bollire per 15 minuti. Preparare nelle scodelle (o meglio in tegamini di coccio) delle fette di pane ben abbrustolito con un po’ di formaggio pecorino grattato. Aggiungere un uovo a persona (facendo atten-zione che le uova non si uniscano, quindi farle scendere lentamente - rosso e bianco insieme - e ben distanziate) direttamente sul tegame che è ancora al fuoco. Appena le uova si saranno rapprese (uno o due minuti), togliere dal fuoco. Con un romaiolo prendere il composto fumante e metterlo sul pane nelle scodelle, badando bene di porre su ogni scodella un uovo rappreso.

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anche a rifiutare impieghi prestigiosi. Fin da giova-ne, quindi, Claudio Fontani sceglie di essere uomo di sala. Le sue mansioni non saranno solamente servire in tavola ma comprenderanno il compito di instaurare sempre un rapporto positivo con i clienti e presentare nel modo giusto il lavoro di chi sta in cucina. L’esperienza di un cameriere o di un cuoco non può però essere appresa tutta sui libri, o pro-vata “in laboratorio”: l’importante è il lavoro con il cliente vero. Già negli anni Sessanta la scuola orga-nizzava percorsi formativi pratici in Italia e all’este-ro e, mentre gli studenti degli altri istituti tornavano ai propri paesi per le vacanze, loro partivano per fare “la stagione” in noti ristoranti e alberghi del-le maggiori località turistiche. E così Claudio, a soli quindici anni, parte per Belgirate, sul Lago Maggio-re. Qui, al confine tra Italia e Svizzera, lavorerà nel ristorante dell’esclusivo Grand hotel Villa Carlotta, un lussuoso albergo ricavato nella storica villa dove avevano soggiornato Alessandro Manzoni, Antonio Rosmini e Guido Gozzano, che vi ha ambientato an-che alcune scene della sua opera “L’amica di nonna Speranza”. Immerso in un grande parco, l’hotel era

affacciato sulle rive fiorite del lago Maggiore che, chiamato in passato Verbano, era rimasto a lungo sotto il dominio della famiglia dei Borromei che vi aveva costruito suntuose residenze e ville imprezio-site di giardini e parchi. Sarà solo il primo dei nu-merosi impieghi che lo vedranno girare l’Europa la-vorando in alcuni dei più esclusivi hotel e ristoranti del vecchio continente. “Ricordo anni fatti di lunghi viaggi in treno – afferma Fontani -, ma a sedici anni gli spostamenti non erano un problema, anzi rap-presentavano un’occasione di divertimento”.

La prima esperienza all’estero è dell’estate successiva, quando, insieme a due compagni di stu-di, Claudio lascia Montecatini per la Costa Azzurra. Stavolta la destinazione è quanto di più esclusivo si possa pensare negli anni Sessanta: l’hotel a cin-que stelle Le Roches Fleuries, a pochi chilometri da Saint Tropez. Dai colli della Toscana, fatti di silen-ziosi paesi dalle piazze polverose, Claudio si ritro-va catapultato nell’epoca d’oro della Costa Azzurra. Saint Tropez si trovava al centro della mondanità europea dal 1956, quando il regista Roger Vadim l’aveva scelta per girare il celebre “Et Dieu... créa

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La storiaLa zuppa di pesce è stata da tempi immemorabili il compenso quotidia-no di marinai e pescatori. Anche per i marinai greci che seguivano la rot-ta per Marsiglia preparare la zuppa costituiva senz’altro una routine. Un simile, ineluttabile destino ali-mentare si deve al fatto che la zuppa rappresenta il modo migliore, e forse l’unico, di utilizzare con profitto il pesce non adatto alla griglia.

Bouillabaisse, ovvero la zuppa di pesce della Costa Azzurra

Gli ingredienti3 kg circa di pesce tra cui: scorfani, triglie, cappone, naselli, granchi, 1 dl di olio extravergine d’oliva, il bianco di 2 porri, 2 grosse cipolle, 250 g di pomodori pelati, 2 spicchi d’aglio, poco zafferano, un pizzico di semi di finocchio, 2 foglie di lauro, pepe nero.

La preparazioneRipulire, lavare e sgocciolare il pesce. Trinciarlo in pezzi regolari. Far dorare, in poco olio, la cipolla tritata e l’aglio. Versarvi sopra il pomodoro schiacciato e, abbassato il fuoco, lasciare che si riduca in massa uniforme, rimescolando spesso. Fatto questo, aggiungere il pesce, ad eccezione del nasello. Bagnare con poca acqua e condire con sale e pepe nero. Aggiun-gere poco prezzemolo tritato, un pizzico abbondante di zafferano, il re-sto dell’olio, il lauro, il finocchio. Aggiungere il nasello soltanto a questo punto e continuare la cottura per altri 10 minuti. La bouillabaisse si serve in questo modo: il brodo, in una capace zuppiera con crostoni di pane fritti nel burro; il pesce, sopra un piatto di portata ben caldo, avendo cura di mettere in bella mostra i pesci rimasti interi.

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la femme” con Brigitte Bardot. Località turistica fin dall’inizio del Novecento, grandi nomi della lettera-tura e dell’arte avevano scelto Saint Tropez per lun-ghi soggiorni, folgorati dalla sua luce e dai suoi co-lori. Circondata da splendide pinete era finita anche sulle tele di geni come Modigliani, Signac, Renoir, Chagall, Matisse e Picasso.

Quando si trattava di grandi alberghi però, le differenze organizzative tra Italia e Francia non era-no molte e il funzionamento delle “macchine” della sala e della cucina era simile a quello già visto in Ita-lia. Proprio durante esperienze come quelle sul lago Maggiore o in Costa Azzurra Claudio Fontani inizia ad apprendere i segreti della ristorazione, grazie a superiori e a capi servizio che ogni tanto regalano qualche dritta, o, meglio, che si lasciano “rubare” un po’ di mestiere. E proprio grazie all’esperienza all’hotel Villa Carlotta, sul lago Maggiore, Claudio ricorda una delle persone che più gli hanno inse-gnato in questo lavoro: il maître del ristorante, che svolgeva le stesse funzioni anche all’hotel Gallia, di Milano. Fu lui a proporgli di lasciare la scuola per seguirlo a Milano perché, diceva, la vera scuo-la era quella del lavoro. All’epoca però la selezione era molto rigida e interrompere gli studi lo avrebbe penalizzato. “Per fortuna – dice Fontani - l’era dei calci negli stinchi stava finendo e noi non venivamo trattati male come succedeva negli anni Cinquanta a chi si avvicinava a questa professione”. Maestri gelosi dei loro segreti, rapporti duri con allievi ed apprendisti, rigida divisione dei ruoli e delle man-sioni: ecco cosa doveva essere, nel dopoguerra ita-liano, la strada tutta in salita di chi voleva lavorare nella ristorazione di qualità. Ma Claudio si affac-cia nel mondo del lavoro e degli hotel europei nel momento di passaggio tra due epoche, non solo in

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sala o in cucina. L’Europa uscita dalla guerra, già da diversi anni in pieno boom economico, si pre-parava ad un’altra rivoluzione, stavolta molto più fragorosa: quella dei costumi che esploderà alla fine del decennio proprio in Italia e Francia. Maggior be-nessere e rapporti gerarchici meno duri entreranno anche nei rapporti di lavoro, generando un nuovo modo di trasmettere l’esperienza che dura ancora oggi e che, come investimento nella formazione e la qualità del personale, è una delle caratteristiche del Cosimo de’ Medici.

Dopo le esperienze all’estero per Fontani arri-va la fine degli studi, il diploma e il momento di tro-vare un lavoro. “A quei tempi, per chi metteva im-pegno e passione nel proprio mestiere, e che poteva vantare un diploma, non era molto difficile trovare un impiego”. Era proprio l’aver frequentato o meno l’istituto alberghiero la base di una rigida selezione per cui chi voleva accedere a ristoranti di alto livello doveva fare un percorso di parecchi anni e impara-re due lingue. Ma ecco che arriva il primo “vero” incarico: è l’ora di ripartire, di lasciare l’Italia, anco-ra una volta per recarsi in Francia. Stavolta però si cambia: niente più rocce color fuoco della Costa Az-zurra, niente palme né sole. La nuova destinazione è Barcellonet, stazione sciistica delle Basses Alpes, nei pressi di Grenoble. Dal sole alla neve, per tutta la stagione invernale. Non siamo però più tra l’alta

società tipica della costa e, anche se la distanza in termini di chilometri è poca, l’albergo è meta di un turismo più “normale”. Anche stavolta sarà un pe-riodo breve ma intenso: una gioventù passata senza fermarsi mai per troppo tempo nello stesso posto, un lungo periodo in giro per l’Europa che non sem-bra essere stato un problema per Fontani, abituato fin da piccolo a stare lontano da casa, nel collegio dei salesiani. Si tratta di una parentesi di pochi mesi poi il mare, ancora una volta di una località esclusi-va, si riaffaccia nella sua vita professionale. Finita la stagione invernale è il momento di trovare un’altra sistemazione: stavolta il ristorante che lo richiede, sempre in Francia, è affacciato sull’Oceano Atlanti-co e Fontani avrà l’occasione di passare l’estate del 1966 in un posto da favola: Biarritz. Siamo a due passi dal confine con la Spagna, nella zona dei pae-si baschi, dove onde altissime si infrangono contro scogliere di trenta metri: un luogo di vacanza, chia-mato “la perla dell’Atlantico”. Il ristorante, influen-zato dalla vicina terra basca, si chiama El Torro.

Ma Biarritz è stata anche l’occasione per avere un altro anno di lavoro, ancora in Francia, natural-mente. Con l’arrivo dell’autunno è il momento di fare di nuovo le valige: destinazione Marsiglia per lavorare in un albergo dello stesso proprietario.

Si avvicina però il momento del ritorno in Ita-lia e, in particolare, a Firenze. Artefice del suo ritor-

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Gli ingredienti4 pezzi di baccalà, 6 spicchi d’aglio, olio d’oliva, peperoncini rossi.

PreparazioneMettere il baccalà in ammollo per 36 ore, cambiando l’acqua 3/4 volte. Dopodiché togliere squame, spine e asciugare con un panno pulito. Pulire le teste d’aglio, tagliarle a fettine e farle andare con olio in una padella, una volta dorate toglierle dalla padella e conservarle a parte. Nello stesso olio mettere il baccalà e fare cuocere per 10 minuti circa. In una pentola di terracotta aggiungere un po di olio di cottura del baccalà e fare scaldare, quando la pentola arriva a temperatura aggiungere il baccalà e il restante olio. A fine cottura guarnire con le teste di aglio e i peperoncini rossi.

Baccalà al Pil pil, una specialità di terra basca

no la madre, che, dopo una così lunga assenza, insi-ste per averlo più vicino. Siamo nel 1967, appena un anno dopo l’alluvione che ha così gravemente ferito la città di Firenze, generando uno sforzo enorme per salvare i suoi tesori artistici e una corsa alla soli-darietà che ha coinvolto un po’ tutto il mondo. E’ in questo clima, con la città ancora al centro dell’atten-zione internazionale, che Claudio inizia a prestare servizio al Grand Hotel Villa Medici, nella zona di Porta a Prato. Un cugino che già lavora nella strut-

tura parla di questo “ragazzino” di 19 anni al maître che, viste le già prestigiose credenziali di Claudio, lo assume all’istante. Inizia così un’esperienza che durerà per cinque anni. Certo, il ritorno in patria non è indolore per un ragazzo che ormai mancava dall’Italia da diversi anni, che aveva imparato a pa-droneggiare la lingua francese e che all’estero si era già fatto una nutrita cerchia di amici. Ma il destino riservava per lui altre sorprese: avrebbe dovuto la-vorare ancora fuori dai confini, in un contesto molto

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particolare e, per dirlo con le sue parole, molto stra-no. Anche la madre, che aveva insistito per il suo ritorno in Italia, avrà in futuro un ruolo di primo piano nel suo futuro professionale.

Al Villa Medici Claudio lavora nella sala del grande ristorante allestito nell’attico del palazzo, da cui si gode di una meravigliosa vista sui tetti di Fi-renze. I clienti sono per la maggior parte americani: molti turisti ma anche uomini d’affari, uno spaccato d’elite della Firenze della fine degli anni Sessanta. Grazie alle sue esperienze all’estero e al suo lavoro a Firenze, ecco che arriva l’occasione di lasciare l’Ita-lia: il vicedirettore del Villa Medici lo manda a Lon-dra assieme a un collega, all’hotel Claridge’s, per un periodo di sei mesi, durante la stagione meno frequentata a Firenze. Sarà il passaggio a una cul-tura e a tradizioni completamente diverse dalle no-stre, a cominciare dai piatti e dal cibo. “La differen-za – afferma Fontani - non si sentiva tanto tra Italia ed estero, se per estero si intende la Francia, quanto tra Inghilterra e paesi mediterranei”. Italia e Francia hanno molti punti in comune e passare le Alpi non era un salto grande quanto passare la manica. Di più, se gli altri alberghi dove aveva lavorato erano lussuosi, il Claridge’s era qualcosa di unico nel suo genere e nella sua eccentricità, frequentato assidua-mente, in passato, dalla regina Vittoria e dall’impe-ratrice Eugenia, moglie di Napoleone III e rifugiata

in Inghilterra dopo la caduta del II Impero francese. Ritrovo di attori e facoltosi industriali, l’albergo era una sorta di macchina rara che funzionava come un orologio svizzero: con “appena” 200 camere, il gran-de edificio in mattoni rossi in stile Art Déco dava lavoro a 620 dipendenti, un piccolo esercito al ser-vizio dei ricchi clienti. Nei suoi tre ristoranti, in gra-do di offrire menu e atmosfere diverse, lavoravano più di cinquanta cuochi. Nel periodo in cui Claudio Fontani lavora al ristorante del Claridge’s, dalla sua hall adornata di colonne e di scale con balaustre in ottone passano magnati come i proprietari delle fer-rovie statunitensi e persino Gianni Agnelli, simbolo dell’industria automobilistica italiana.

Tornato a Firenze, per lui si prepara un’altra sorpresa e l’ennesimo cambiamento lavorativo. L’hotel Villa Medici ha intenzione di chiudere il grande ristorante, per affidarne uno più piccolo in gestione esterna. Bisogna ricominciare tutto in un altro posto, ma l’occasione arriva presto: Angelo Schiavi e Piero Lazzerini, maîtres di Villa Medici, anche loro rimasti senza lavoro e disponibili a nuove esperienze, rilevano il ristorante del Queen Victoria, nella centralissima zona di Por Santa Maria, e de-cidono di assumerlo. Ottimo è il ricordo che Clau-dio conserva di Schiavi e Lazzerini. I due, destinati a divenire in seguito i proprietari del celeberrimo ristorante fiorentino Sabatini, sono stati infatti tra

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le persone che più gli hanno insegnato come debba comportarsi un ristoratore. Il ristorante del Queen Victoria è in pieno centro città e i clienti da servire sono anche qui sempre molto selezionati. Si tratta di un’esperienza destinata a durare un anno, nel 1972, fino alla decisione di compiere il “grande salto” e mettersi in proprio, in società con Raffaello Talanti, un amico e collega fin dai tempi dell’esperienza al Claridge’s in Inghilterra e al Villa Medici, durante i quali i due hanno avuto la possibilità di trovare un grande affiatamento.

Nel ’73, quindi, i due decidono di abbando-nare la ristorazione elitaria dell’ormai ristretto cen-tro fiorentino per iniziare una nuova avventura con una scommessa: portare fuori dal capoluogo un po’ dell’alta qualità cui sono abituati. Un ex collega di Villa Medici li informa che un suo cugino, proprie-tario di un ristorante in campagna, ha chiuso il rap-porto con la precedente gestione. E’ così che Clau-dio Fontani e Raffaello Talanti arrivano in Mugello, nelle colline sopra Barberino, a gestire la “Trattoria la Mangona”. “Ci siamo detti: proviamo – ricorda

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Fontani - ci bastava riprendere i soldi per mangia-re, e invece è andata meglio del previsto”. La prima sera, una domenica, i due servono 23 coperti su un massimo di 180. Nel giro di poco tempo, però, ogni fine settimana fanno il tutto esaurito per quasi sei anni. Il cambiamento è totale: Fontani e Talanti la-sciano gli ambienti lussuosi e i clienti stranieri per intraprendere una gestione familiare tra i monti del Mugello. E si tratterà di una gestione veramente familiare, che coinvolgerà nell’avventura anche le loro mamme e le loro mogli.

Claudio si occupa della sala mentre in cucina, aiutato dalle due mamme, sta Raffaello, dotato di una enorme passione per i fornelli. Il successo arri-va veloce ed in quantità ben superiore alle previsio-ni più rosee: difficile stabilirne la ricetta, un ruolo di primo piano spetta sicuramente alla cura nella pre-parazione dei piatti e all’assortimento della canti-na. Tutti particolari che discendono dall’esperienza internazionale dei due. Allora, in Mugello, la con-correnza si chiamava Buzzino, Gianni, Gualtieri: i ristoranti della zona con cui iniziò il confronto. “Se

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Buzzino, nella piazza di Barberino di Mugello, era già in calo, - ricorda Fontani - la stessa cosa non si poteva dire per il ristorante Gianni, sul passo delle Croci, o del Gualtieri, nel paese di santa Lucia, per non parlare del locale del Sergente, arrampicato sul passo della Futa”. Pasta fresca, tutta fatta in casa, selvaggina cotta a legna sul girarrosto e vini di qua-lità: ecco le armi con cui la Mangona sfidava gli altri locali, riuscendo il più delle volte ad accaparrarsi i pranzi organizzati in occasione di consigli comu-

nali, dai sindacati o dalle aziende locali, ormai nu-merose. Pur essendo in campagna, nel locale non si trovava solo carne e si potevano ordinare dei menu a base di pesce: una tradizione che è rimasta anche al Cosimo de’ Medici.

I successi della Mangona dureranno sei anni, fino al 1978, quando i due soci decidono di ven-dere il ristorante iniziando una nuova avventura: gestire Il Cavallo, locale nella piazza principale di Barberino, un ristorante molto particolare dove si

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mangiava solamente pesce. Ma si trattava soltanto di una parentesi, perché il progetto del futuro Cosi-mo de’ Medici era già nell’aria. L’idea del Cosimo era nata proprio alla Mangona: è qui che Claudio Fontani aveva conosciuto i proprietari dell’Hotel Barberino, allora chiamato ancora Motel Barberi-no. Situato proprio all’uscita dell’autosole, infatti, l’albergo poteva fregiarsi del titolo di motel, appel-lativo riservato dalla legge italiana alle strutture di servizio all’autostrada. Durante una delle numero-se cene alla Mangona, i proprietari rivelano di voler aprire un ristorante nel loro albergo e propongono ai due giovani ristoratori di prenderlo in gestione. La prospettiva è allettante: la possibilità di aprire una grande struttura e la vicinanza dell’autostrada sembrano garantire la presenza di tutti i requisiti di un’impresa di successo. E i due accettano: amanti dei cambiamenti e delle prospettive di una nuova avventura professionale, iniziano le procedure per la vendita della Mangona.

La costruzione di un nuovo ristorante, come quella di una casa, è però sempre soggetta a ritardi e dilazioni. Anche il Cosimo così, per un motivo o per l’altro, deciderà di venire alla luce con un certo ritardo. La decisione di lasciare la Mangona era però ormai presa e i due, in attesa della loro nuova “casa” rilevano il locale Il Cavallo, chiuso ormai da diversi anni. La nuova scommessa sarà quella di creare un

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luogo originale e innovativo: la scelta ricade sulla possibilità di cucinare solo pesce. “In Mugello c’era allora una grossa richiesta di locali dove mangiare un buon pesce, e le dimensioni ridotte del Cavallo, con soli 80 posti, si prestavano bene a questo tipo di ristorante” afferma Fontani. In cucina Talanti si fa affiancare da un altro cuoco, esperto di pesce, un ferrarese con cui arrivano in Mugello ricette e sapo-ri fino ad allora quasi sconosciuti, come i vari piatti a base di anguilla.

E la scommessa riesce bene: con Il Cavallo na-sce un locale dall’impronta nuova, anche nell’arre-damento, con sedie dal design originale e moquet-te ovunque, in cui i piatti principi sono le grandi grigliate di pesce, accompagnate dai primi piatti di mare e dai risotti. Era proprio il tipo di locale che

mancava in Mugello e si formò presto una clientela affezionata che arrivava anche da Firenze. Nell’ago-sto del 1981, però, vengono finalmente ultimati i la-vori in quello che diventerà il Cosimo de’ Medici: inizia così l’avventura che festeggia adesso i venti-cinque anni di collaborazione tra il ristorante e l’al-bergo.

Fatto il trasloco e aperti i battenti, rimane la cosa più difficile: Claudio e Raffaello devono con-vincere la loro clientela a seguirli nella nuova si-stemazione e conquistare gli avventori provenienti dall’autostrada. La situazione non è certo semplice e la concorrenza non manca: il Cosimo nasce lette-ralmente incastrato tra più ristoranti aperti già da quasi venti anni, che lavorano principalmente con camionisti ed utenti dell’autostrada e che sono già

I segreti dell’anguilla alla griglia, un sapore ferrarese

La preparazioneL’anguilla deve essere tagliata a metà per tutta la sua lun-ghezza e scuoiata, togliendo anche la spina. Una volta messa sulla griglia deve cuocere uniformemente ma per soli dieci minuti.Servire assieme al resto della grigliata di pesce, condita sola-mente con olio, sale, pepe e prezzemolo.

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DOMENICO AMERICOLO

Chef e responsabile della cucina

Nato in Puglia nel 1960, Domenico inizia a lavorare giovanissimo come aiuto cuoco in un ristorante pizzeria di Canosa di Puglia. A soli quattordici anni decide di partire per il nord e raggiungere i fratelli a Torino. Arrivato in città, lavora prima al ristorante Il Giardino poi all’hotel Excelsior. Dopo il servizio militare si sposta a Firenze, dove lavora presso il celeberrimo ristorante Sabatini, dapprima come gard manger, l’addetto al taglio della carne, poi come addetto alla griglia e infine alla preparazione dei secondi piatti. La sua collaborazione con Claudio Fontani inizia al ristorante il Cavallo e continua poi per tutta la durata dell’esperienza del Cosimo de’ Medici.

ALBERTO CARLI

Chef

Nato nel 1965 a Barberino di Mugello, inizia la sua carriera in cucina a soli sedici anni, quando ha la possibilità di fare esperienza come aiuto cuoco in un locale sull’Argentario. Partito per la sola stagione estiva, si appassiona al mestiere e vi rimane per oltre un anno. Tornato in Mugello nel 1984, e ormai già pratico della cucina, viene assunto come aiutante al Cosimo de’ Medici, dove rimarrà, salvo una breve parentesi, accumulando via via esperienza nella preparazione dei piatti e nella gestione della cucina, fino a diventare prima Chef e poi socio.

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MAURIZIO POGGIALI

Chef de rang

Nato nel 1968, è il più giovane dei cinque soci e l’unico formatosi interamente nel locale. La scelta di lavorare nella ristorazione nasce quasi per caso quando, giovanissimo, durante una vacanza estiva a Marotta, diviene amico di alcuni giovani camerieri e si appassiona a questo mestiere. Alla fine dell’estate, a quattordici anni, viene assunto al Cosimo de’ Medici come apprendista, iniziando così la sua esperienza ed evolvendosi rapidamente fino a partecipare alla direzione della sala con Claudio e Franco.

FRANCO SACCO

Chef de rang

Nato a Cosenza nel 1965, lavorando nel locale da “soli” venti anni, Franco è invece il più recente acquisto fra i soci. Franco arriva infatti in Mugello nel 1986 e viene subito assunto come cameriere, avendo già una buona esperienza. Dopo la scuola alberghiera di Sorrento ha lavorato stagionalmente in Puglia ed in Germania, nei dintorni di Hannover. Tornato a Cosenza, altri due anni di lavoro a Scalea e poi la partenza alla volta della Toscana. Qui, al Cosimo de’ Medici, diventa presto un beniamino dei clienti abituali ed ora è uno dei dirigenti della sala.

CLAUDIO FONTANI

Chef de rang e responsabile della sala

Il fondatore del Cosimo de’ Medici. Nato nel 1948 a Chiusdino, in provincia di Siena, inizia la sua carriera nella ristorazione frequentando il prestigioso istituto alberghiero La Querceta, a Montecatini Terme. Saint Tropez, Biarritz e Londra: le sue esperienze all’estero sono numerose e iniziano già dai tempi della scuola. Prima di arrivare in Mugello lavora a lungo a Firenze, al Grand Hotel Villa Medici e in altri locali del centro. Grazie a lui nel 1981, venticinque anni fa, aprono i battenti del Cosimo de’ Medici.

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In piedi da sinistra:Alberto Carli, Almo De Rosa, Simone Capecchi, Zoubir Abdessadk, Emilio Monti, Domenico Americolo, Claudio Fontani, Franco Sacco

Accovacciati:Maurizio Poggiali, Line Gonaj, Eduard Gonaj, Leonardo Gatti, Jacopo Fontani

Non in foto: Angela Leone, Valentina Dumitrache, Gofile Sadiku

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considerati un punto di riferimento nella zona. In più, all’inizio, il Cosimo è penalizzato dal fatto di essere collocato sotto un albergo: in Italia, infatti, il livello di queste strutture non è di solito molto alto e sono poche quelle che riescono a vivere di vita pro-pria o addirittura a portare clienti all’albergo che le ospita.

“La concorrenza più agguerrita – ricorda Fon-tani - è stata sicuramente quella dei ristoranti vici-ni, nati quasi contemporaneamente all’autostrada”. Per farsi conoscere dai nuovi clienti, Claudio e Raf-faello si sono dovuti impegnare in lunghi turni di lavoro, “saltando” addirittura le ferie e sperando che i potenziali clienti, trovando chiusi gli altri lo-cali, si fermassero da loro. Una “guerra” con la con-correnza che si è svolta comunque sempre in modo molto corretto e oggi tra i gestori c’è addirittura aria di collaborazione. “Può succedere – spiega ancora Fontani – che io vada da loro per avere un ingre-diente che ho finito, o viceversa che loro vengano da me. Un rapporto molto corretto che ci permette di convivere senza mai litigare”. Un inizio faticoso, con i clienti che aumentano lentamente, passando dal nocciolo di affezionati che li ha seguiti dopo le avventure della Mangona e del Cavallo a quelli at-tuali, sempre più numerosi.

Il sodalizio lavorativo con Raffaello Talanti al Cosimo de’ Medici dura per ben sedici anni, dal

1981 al 1997, quando Talanti decide di cambiare ancora una volta e tentare una nuova scommessa. “Ora Raffaello, con cui sono rimasto in ottimi rap-porti, gestisce diverse attività, tra cui un albergo, un’impresa di catering e un bar”, spiega Fontani. Al momento della separazione dei due soci Clau-dio decide di coinvolgere nella gestione del Cosimo quattro dei suoi storici dipendenti, due di sala e due di cucina, che diventano così i suoi nuovi soci. Si tratta di Domenico Americolo, chef e responsabile della cucina, Alberto Carli, chef, e dei due chef de rang, ossia resposabili della sala, Maurizio Poggiali e Franco Sacco. “Sono tutte persone che sono cre-sciute professionalmente con me e che meritavano un riconoscimento per il loro lavoro” dichiara Clau-dio, col suo modo di fare non si sa bene se un po’ burbero o eccessivamente riservato.

Anche con questi cambiamenti il successo del Cosimo non si interrompe, anzi, negli ultimi otto - dieci anni l’afflusso diviene sempre più massiccio e i suoi gestori sono costretti a rifiutare molti clienti ogni settimana. Un grande impegno, quindi, ripa-gato da tanta soddisfazione: “Nella ristorazione - commenta Fontani - si fatica di più quando c’è poco lavoro, perché alle cose da fare, che rimangono sempre tante, si aggiunge l’avvilimento”. Un clima ideale, quindi, per accettare le sfide del futuro. Pro-prio con questo intento già da due anni lavora nello

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É proprio quando riusciamo ad ottenere il permes-so di visitare la cucina che ci rendiamo conto della enorme quantità di lavoro che c’è dietro anche al più semplice dei piatti. Defilati, in una posizione in-dicataci dallo chef Domenico “Ecco, lì che non dai fastidio!”, abbiamo agio di osservare il continuo an-dirivieni dei camerieri che entrano portando i piatti vuoti per il lavaggio ed escono con le pietanze pron-te per essere servite, gli addetti di cucina che senza sosta controllano i fornelli, preparano o “sporziona-no” i piatti, l’enorme lavapiatti a tapis roulant che “divora” montagne di stoviglie, i cuochi che diri-

staff del ristorante anche Jacopo, figlio di Claudio Fontani, espressione della nuova generazione, cui spetterà conciliare continuità e innovazione.

Se in questi venticinque anni la sala e le strut-ture del Cosimo sono rimaste sostanzialmente le stesse, adesso siamo alla vigilia di importanti lavori di ristrutturazione che, tramite la chiusura di due verande, offriranno un ampliamento dei locali fina-lizzato non tanto all’incremento dei posti quanto al fornire migliori servizi ai clienti, come un guardaro-ba e nuovi bagni al piano, e ad ampliare la cucina, che guadagnerà un reparto lavaggio indipendente.

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gono le febbrili operazioni con una calma che solo anni di mestiere possono conferire. Tornati in sala, ci soffermiamo ad osservare i clienti: ecco il tavolo dove imprenditori o dirigenti discutono di lavoro, e l’altro dove è seduta una famiglia con due bam-bini, ed ancora uno dove una coppietta si scambia sguardi ammiccanti ed uno dove un signore distin-to, forse un rappresentante, siede da solo leggendo un giornale. È il mondo variegato e misto tipico di ogni ristorante costituito qui in buona parte da mu-gellani e fiorentini, ma anche da tutte quelle perso-ne che, per motivi molto diversi, transitano sull’au-tostrada.

Tra i clienti che arrivano dall’autostrada, i ca-mionisti meritano una menzione speciale: sono loro che vivono la strada per la maggior parte del loro tempo e che sono costretti a mangiare fuori casa due volte al giorno, ogni giorno. I camionisti sono stati e continuano ad essere una buona base per il Cosimo: “lo zoccolo duro” dei clienti che garantisce il lavoro anche nei periodi meno frequentati.

“Con molti di loro si è anche sviluppato un rapporto di amicizia e, dato che spesso si fermano anche a pranzo e a cena nello stesso giorno, cono-sciamo ormai gusti e preferenze. A volte facciamo addirittura qualche piatto extra menu, più legge-ro, per chi non desidera appesantirsi o ha qualche problema di dieta”. Di molti il Cosimo de’ Medici

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ha visto passare tutta la famiglia: ha visto padri che hanno lasciato il mestiere ai figli, che ora sono di-ventati padri a loro volta. E’ dai loro racconti che il personale del Cosimo ha imparato a conoscere l’au-tostrada e a vederla come la vedono loro, i grandi viaggiatori, a temere le code e gli effetti degli inci-denti, che possono costringerti a restare fermo per ore sull’Appennino. Non sono tanto la nebbia o la neve, infatti, ad impensierire gli autotrasportatori, a queste dopo un po’ si fa l’abitudine e l’esperienza, la maggiore preoccupazione è quella di non avere dei ritmi di marcia sicuri: di partire e non sapere mai se per arrivare a Bologna ci vorranno un’ora, tre ore, o addirittura un giorno intero.

Ma i camionisti non sono gli unici avventori che il Cosimo vede arrivare dall’Autosole. Un’au-tostrada che attraversa un territorio, soprattutto fuori dalle grandi città, è una sorta di dimensione

parallela: una specie di zona franca, popolata da persone appartenenti ad ogni classe sociale. Non è difficile al Cosimo de’ Medici vedere seduto al tavo-lo accanto al proprio un protagonista della politica o dello spettacolo, mentre ad un altro è seduta una famiglia di turisti e ad un altro ancora degli operai in trasferta. Curiosamente, anche se sono molti gli attori e i personaggi della politica nazionale che si sono seduti e si siedono ai suoi tavoli, sulle pare-ti non c’è neanche una foto che li ritragga: del loro passaggio non si riesce a trovare traccia. Anche la memoria di Claudio Fontani sembra averli rimos-si, in nome della riservatezza che contraddistingue da sempre lo stile del ristorante. “Queste persone quando arrivano qui per mangiare cercano un’at-mosfera tranquilla dove rilassarsi e il nostro sforzo è proprio quello di garantire lo stesso servizio e la stessa qualità sia alla più illustre personalità che al

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cliente comune. “Spesso – continua Fontani - fin-giamo addirittura di non riconoscere i personaggi famosi, per non rovinare loro il piacere del pasto. Capita però che alcuni clienti ci chiedano aiuto per ottenere un autografo, in questi casi tentiamo sem-pre di dissuaderli, sapendo che per queste persone, sempre sotto i riflettori, la tranquillità è un valore importante”. Siamo ormai in confidenza con Clau-dio, che a malincuore confessa che, a dire il vero,

un’eccezione a tutto questo c’è stata: protagonista Alberto Tomba, il campionissimo dello sci azzurro, che si è fermato al Cosimo de’ Medici proprio ne-gli anni del suo maggior successo. “In quel periodo – racconta Fontani – eravamo tutti appassionati di sci e uno dei miei ragazzi non resistette e volle far-si fotografare con Alberto. Ma posso garantire che è stata l’unica volta in cui è successa una cosa del genere”.

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L’autostrada, una dimensione a parte

Attraversare l’Appennino prima dell’autostrada

Non è possibile capire la storia del Cosimo de’ Medici senza intrecciarla con quelle del Mugello e dell’Autosole, la mitica autostrada A1 Milano Na-poli, che rappresenta tuttora il principale collega-mento tra il nord e il sud dell’Italia e che è talvolta responsabile della divisione in due del paese per la neve, la nebbia o gli incidenti, che possono blocca-re il traffico per ore. Progettata cinquanta anni fa, l’arteria si rivela adesso insufficiente rispetto al vo-lume di traffico che deve sostenere e sono iniziati complessi lavori per la costruzione di una variante di valico che avrà il compito di alleggerire il traffico sul percorso originale.

Il Mugello è stato terra di passaggio già secoli prima della costruzione dell’Autosole: la valle ri-vestiva una funzione strategica grazie ai suoi passi appenninici che collegavano le pianure dell’Emilia con la Toscana, il Lazio ed il resto della penisola. La prima via che, attraverso gli impervi e spesso inne-vati passi dell’Appennino, collegava le attuali Bo-logna e Firenze sembra sia stata quella aperta oltre 2000 anni fa, nel 187 A.C. dal console C. Flaminio, di cui parlano le cronache di Livio. Una origine antica, quindi, per una strada che si sarebbe poi sviluppata nell’epoca dei comuni e delle repubbliche cittadi-ne. Molti secoli più tardi, nel 1204, sarà il patriarca

d’Aquileia, ad usare questa via per recarsi a Roma e a lasciare una cronaca dettagliata del suo viaggio su quella che, all’epoca, non doveva certo essere un’autostrada.

Il patriarca, Wolfger, racconta di un lungo viaggio attraverso i borghi del Mugello e della Ro-magna, nominando i paesi di Pianoro e Sant’Agata. Non abbiamo notizie certe del valico usato dal pre-lato tedesco per oltrepassare l’Appennino, ma, stan-do alle descrizioni lasciate delle tappe precedenti e successive, pare fosse quello dell’Osteria Bruciata, posto poco più a nord di Sant’Agata. Possiamo so-lamente provare a immaginare le enormi difficol-tà, a partire dalla neve per finire con il rischio di incontrare animali selvatici e predoni, che si dove-vano affrontare in un viaggio di questo genere. Il tutto, naturalmente, per superare distanze che oggi si possono coprire stando comodamente seduti in auto per poche ore.

Negli anni in cui Wolfger attraversò l’Appen-nino, Firenze e il Mugello erano divise da rivalità territoriali e la zona di campagna, che comprendeva i valichi, era ancora in mano alla vecchia famiglia feudale degli Ubaldini. Qualche anno prima, nel 1184, ospite degli Ubaldini era stato il Barbarossa, in onore del quale era stata organizzata una grandio-sa caccia al cervo, terminata in un lauto banchetto. Tra i potenti del tempo quella dei banchetti doveva

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essere usanza diffusa, tanto che Dante colloca, uno degli Ubaldini della Pila, Podestà a Borgo San Lo-renzo nel 1239, nel purgatorio per il vizio della gola assieme al figlio Bonifazio:

“Vidi per fame a vuoto usar li dentiUbaldin della Pila e BonifazioChe pasturò col rocco molte genti”

Anche gli esponenti del clero erano, allora, tra i pochi che potevano permettersi un’alimentazione ricca e a base di carne. Nello stesso periodo, infat-ti, dai fitti che le chiese vassalli pagavano al vesco-vo fiorentino, emerge spesso la richiesta di cappo-ni, alimento allora molto ricercato. D’altra parte il Mugello, come territorio di campagna, riforniva di carne la città di Firenze, come testimonia Morelli, autore mugellano, nella sua Cronaca Trecentesca:

“vi si raccoglie assai vino, gran quantità di legname e di castagne e tanto bestiame che si crede che fornisca Firenze per la terza parte”

Allora come oggi, il controllo delle vie di co-municazione era fondamentale e Firenze non po-teva permettere a lungo che una delle principali strade fosse in mano a una famiglia a lei avversa. Per ridurre la sua dipendenza dalle terre controlla-

te dagli Ubaldini, il governo fiorentino cercò allora di creare un altro tracciato per raggiungere Bologna. La nuova strada avrebbe avuto un percorso diverso, abbandonando il passaggio attraverso Sant’Agata e il valico dell’Osteria Bruciata in favore di una via che, passando per Scarperia, salisse fino al passo del Giogo: il nuovo valico era più aperto, più basso e fa-cilmente raggiungibile, nonché più vicino a Firenze. La fortuna tardomedievale e rinascimentale del bor-go di Scarperia, ancora oggi una delle più importanti bellezze architettoniche e artistiche del Mugello, na-sce proprio da qui: fatta per la gran parte da una stra-da. A Scarperia, tappa obbligata nel viaggio verso il nord, si sarebbe anche sviluppata nel corso dei se-coli una tradizione artigianale che dura ancora oggi: quella della produzione di lame e coltelli.

Ma già dall’anno mille si era sviluppata un’al-tra direttrice per attraversare l’Appennino: quella del passo della Futa, che fu anche protagonista di un accordo tra gli Ubaldini e il comune fiorentino, volto a tutelare ufficialmente il transito commerciale. Una volta che, sotto il controllo dei Medici, la signoria di Firenze ebbe assorbito le antiche famiglie feuda-li dei Guidi e degli Ubaldini, i valichi appenninici conobbero un notevole sviluppo e lungo il loro per-corso furono predisposti anche efficienti servizi per la viabilità, come punti di ristoro e stazioni di posta per il cambio dei cavalli. Originaria del Mugello, la famiglia dei Medici si era stabilita a Firenze nel

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XII secolo, dedicandosi al commercio della lana. La sua ascesa era iniziata con Salvestro de’ Medici che, gonfaloniere di giustizia, appoggiò le rivendicazio-ni del popolo fiorentino contro l’oligarchia cittadina in occasione di un tumulto. Venti anni dopo, la fami-glia fondò il Banco de’ Medici, diventando curatrice degli interessi finanziari della Curia romana, ma il successo politico arrivò con Cosimo il Vecchio che, nel 1434, ufficializzò la signoria medicea sulla città. La campagna del Mugello continuava ad essere di vitale importanza per Firenze e fu proprio Cosimo, nel 1443, a dare incarico all’architetto Michelozzo di Bartolomeo, che aveva collaborato con Ghiberti alla realizzazione delle porte del Battistero fiorentino, di trasformare in dimora estiva l’antico fortilizio di Cafaggiolo. In questo castello, posto tra Barberino e San Piero a Sieve, qualche anno più tardi avrebbe passato gran parte della sua infanzia il nipote di Co-simo: Lorenzo, detto il Magnifico. In un poemetto in ottava, “La Nencia da Barberino”, Lorenzo cantò la terra del Mugello per bocca di Vallera, un contadino innamorato di Nencia:

“E quinamonte insino a Dicomano: Fegghine Castelfranco ho ricercato San Pier, el Borgo, Mangona e Galliano, più bel mercato che nel mondo sia è Barberin dov’è la Nencia mia”

In questi luoghi, e più precisamente nella loro tenuta di Panna, i Medici impiantarono anche un al-levamento di vacche di razza bruno alpina (chiama-ta anche Svizzera), facendo venire appositamente dalla Lombardia una famiglia di esperti allevatori.

In tutto questo periodo, fino al 1600, non si registreranno cambiamenti di rilievo nei valichi appenninici e la Bologna Firenze, antenata dell’au-tostrada del Sole, manterrà sostanzialmente lo stes-so tragitto disegnato dalle rivalità feudali del 1200. Nell’ultima parte della loro signoria, per la verità, i Medici dovevano aver trascurato la manutenzio-ne delle vie di comunicazione tra la Romagna e il Mugello: le condizioni climatiche e il fondo della strada erano ancora un’incognita capace di decreta-re le fortuna o la sfortuna di un viaggio e, in caso di condizioni avverse, le conseguenze potevano esse-re veramente nefaste. Le cronache locali raccontano del viaggio verso Firenze di Francesco di Lorena e Maria Teresa che, siamo ormai nel ‘700, arrivavano a prendere possesso del loro nuovo Stato: i due, ac-compagnati da una notevole quantità di carrozze e attrezzature, riuscirono ad attraversare le montagne tra Firenze e Bologna solo grazie alla loro nutrita scorta, che comprendeva trecento cavalli di appog-gio, una grande quantità di buoi e squadre di uo-mini che spingevano a braccia le ruote bloccate dal fondo impervio o invischiate nel fango. Saranno i Lorena a trasformare la strada in una via carrozza-

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bile, operando diverse modifiche come l’abbando-no definitivo del passo del Giogo per quello più alto ma dal tragitto più breve della Futa. Nel periodo napoleonico, poi, la direttrice venne inserita nella strada imperiale numero 6, che collegava Parigi a Roma e Napoli.

Il boom delle strade in Italia

Fu solo negli anni Trenta del Novecento che nella Toscana e nell’Italia rurali scoppiò il boom del-le strade. A partire dall’inizio del secolo, la ferrovia e il treno si erano infatti imposti come i principali mezzi di trasporto per i pochi e brevi viaggi degli italiani, ancora in massima parte contadini. Negli anni Trenta per spostarsi in auto tra Milano e Ge-nova si poteva impiegare anche un’intera giornata, mentre uno dei nuovi treni elettrici impiegava solo due ore e mezza.

Quella del trasporto su rotaia veniva ormai considerata una tecnologia moderna e matura e le prime auto che si diffondevano in Italia non poteva-no competere né per il trasporto merci né per quello delle persone. In questi anni, poi, le auto erano un privilegio concesso a pochi, uno status simbol della nobiltà e della nuova classe borghese ed industriale, e chi ne possedeva una aveva quasi sempre anche

un autista, addetto a tutte le complesse operazioni di manutenzione del prezioso mezzo di trasporto. Il conducente doveva essere una sorta di tuttofare pronto a trasformarsi in meccanico in grado di ri-parare l’auto con mezzi e strumenti di fortuna, vista l’inesistenza di stazioni di servizio e meno che mai di un moderno soccorso stradale e la condizione di difficile percorribilità anche delle principali vie di comunicazione.

La maggior parte della rete stradale naziona-le era stata costruita dal regime fascista negli anni Venti: si trattava però ancora di una rete per il 70% a fondo naturale. I lavori di asfaltatura delle princi-pali arterie procedevano a rilento e, dieci anni dopo, solo la metà delle strade aveva un fondo in catrame. Si trattava di un problema che sarebbe stato risolto solo nel dopoguerra, e anche allora in modo molto rallentato, basti pensare che, ancora negli anni Cin-quanta, era a fondo bianco un quarto delle vie di co-municazione del nostro paese, che si avviava intan-to al boom economico. Eppure le autostrade erano nate in Italia prima della guerra, per iniziativa di un ingegnere milanese, Piero Puricelli.

Il primo tronco autostradale del mondo fu la Milano Laghi, di 85 chilometri, inaugurata nel 1924. All’inizio degli anni Trenta nacque a Milano la So-cietà autostrade e nel 1933, fra le altre tratte, fu co-struita la Firenze Mare. Si trattava però, ancora, di

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episodi sporadici che non riuscirono a modificare la mobilità degli italiani.

Automobile e ferrovia iniziavano ad essere mezzi di trasporto alternativi e in concorrenza tra loro. Se oggi molti guardano al treno come un mez-zo di trasporto moderno e pulito, magari capace di evitare code ed ingorghi, in passato l’auto ha signi-ficato la conquista della mobilità individuale e con questa, della libertà. Prima della sua diffusione di massa, infatti, per la maggior parte degli italiani spostarsi significava prendere il treno: fino agli anni Cinquanta la mobilità dei cittadini seguiva le linee e gli orari obbligati delle strade ferrate. Nei primi anni che seguirono la seconda guerra mondiale, l’Italia affrontava un periodo di pesanti ristrettez-ze e sacrifici e viaggiare in treno era sicuramente più conveniente anche per quei pochi fortunati che possedevano un’auto. Molti, in linea con il valore simbolico della sospirata vettura, la utilizzavano solo per compiere una passeggiata fuori città o rag-giungere qualche località turistica, quasi mai per affrontare viaggi più impegnativi. Nei primi anni Cinquanta, comunque, l’automobile era ancora un affare per pochi se si pensa che nel 1953 c’era in Ita-lia un autoveicolo ogni 51,6 abitanti; negli Stati Uni-ti uno ogni 2,8 abitanti.

Eppure la rivoluzione era dietro l’angolo: l’av-vento delle autostrade e di nuovi modelli di auto,

affidabili e accessibili a tutti, avrebbero cambiato per sempre il modo di spostarsi degli italiani, por-tandoli a dire addio alle strade polverose, alle mil-le soste nei più svariati paesi e agli impervi passi appenninici. Proprio per conquistare il mercato di massa, in gran segreto, la Fiat cominciò a progetta-re un’auto completamente nuova, la Seicento, a cui avrebbe affidato il compito di modernizzare l’Ita-lia. La nuova utilitaria, che doveva simboleggiare la rinascita del paese e la diffusione del benessere, aveva con molti fregi e cromature e un po’ di spazio per i bagagli. Alla Seicento sarebbe stato affidato il compito di portare un’intera famiglia, completa di un paio di bambini e magari di un’anziana suocera, in giro per l’Italia. La nuova vettura uscì con grande successo nello stesso anno della televisione: il 1954. La vera novità era che le Seicento si poteva compra-re a rate: prima avvisaglia di quel boom dei con-sumi che avrebbe cambiato radicalmente l’aspetto dell’Italia contadina. Il prezzo base, 590mila lire, era relativamente basso e rappresentava l’equivalente di circa venti mensilità di un salario operaio.

Negli anni che seguirono, durante quel boom automobilistico che avrebbe fatto delle utilitarie beni di largo consumo, la parola “automobile”, in Italia, significò Fiat. All’inizio degli anni Cinquan-ta, su cento vetture prodotte, più di novanta erano della casa di Torino. Se la Fiat spadroneggiava tra le

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nascenti classi medie, i simboli del potere e del suc-cesso rimanevano però le vetture di Lancia e Alfa Romeo, che occupavano i settori alti del mercato. La Lancia Aurelia, modello di punta della casa che aveva fatto dell’eleganza la sua bandiera, era l’auto della nobiltà, del potere e dei politici: la stessa su cui Palmiro Togliatti, leader del Partito comunista ita-liano, ebbe un pauroso incidente nel 1950. Le Alfa Romeo, le potenti auto della casa del biscione (dallo stemma raffigurante un serpente), erano le vetture veloci per eccellenza, scelte dalle forze dell’ordine per pattugliare strade e città della penisola. Non solo, l’Alfa era l’auto preferita dalla nuova borghe-sia nata nel dopoguerra: i protagonisti di quel boom economico ormai in pieno svolgimento, come com-mercianti, industriali, professionisti.

Se la diffusione di nuove auto accessibili a tut-ti, le famose utilitarie, rendeva possibile la mobilità individuale, molto restava da fare ancora dal punto di vista delle strade. La parte d’Italia più accessi-bile e equipaggiata era la pianura padana, aiutata certamente anche dalla conformazione del territo-rio. Nel resto d’Italia, e in particolare sull’Appenni-no, le condizioni erano molto diverse. Molti erano i punti critici, temuti dagli automobilisti e dai ca-mionisti che per lavoro dovevano battere spesso i passi. Molti dei valichi, seppure asfaltati e forse un po’ allargati, non erano poi molto diversi da quelli

settecenteschi o medievali: anche se non esistevano più i predoni e era sparito l’incubo del fango, non doveva essere piacevole per un camionista trovarsi sull’Appennino durante una fitta nevicata. Uno di questi passi, a cavallo tra Mugello, Val di Sieve e Casentino, era l’ottocentesco passo del Muraglione, così chiamato a causa di un grande muro, eretto alla sommità e tuttora esistente, che doveva proteggere la strada dalle bufere di neve.

Agli occhi di chi affrontava lunghi viaggi, l’Ita-lia continuava a manifestare il suo carattere conta-dino ed era frequente, mentre il motore arrancava in salita, superare a fatica colonne di muli cariche di fascine di legna. In questo quadro particolarmente duro e difficile nasceva una professione che avrebbe fatto epoca, creando figure di miti riprese anche dal cinema e dell’immaginario collettivo: il camionista. Se ancora oggi la professione degli autotrasportato-ri è per molti sinonimo di vita dura e avventurosa, questo era ancora più vero negli anni Cinquanta, specie prima della costruzione delle autostrade. Ca-mion e autocarri sempre più moderni e capaci di tra-sportare grandi carichi, uniti alla crescente necessità di trasporti da parte delle industrie, contribuirono a rendere il trasporto merci su gomma delle merci competitivo rispetto a quello su rotaia.

Con lo sviluppo dei trasporti su strada, la ma-nutenzione e la costruzione di nuove arterie diven-

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tava un problema prioritario. Nei primi anni Cin-quanta la situazione era ancora critica: nel 1950, ad esempio, si contavano solo 520 chilometri di auto-strade. Intanto aumentava velocemente anche il nu-mero delle autovetture in circolazione, rischiando di rendere insufficiente la rete stradale. Tra il 1952 e il 1958 le automobili prodotte ogni anno passarono da 113mila a 369mila, mentre i veicoli industriali da 24mila a 34mila. Diventava una necessità ampliare la rete stradale italiana, e lo stato si mosse tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, proprio mentre Claudio Fontani iniziava la sua av-ventura negli hotel europei. Nel 1959, ad esempio, si spesero 35 miliardi per le ferrovie e 238 per la co-struzione di nuove strade e l’adeguamento di quel-le già esistenti. L’utilizzo del trasporto ferroviario iniziava così lentamente a declinare e l’autostrada diveniva un simbolo: insieme alla Rai e all’Agip le autostrade furono agli occhi del consumatore co-mune il segno più tangibile dell’impegno dello sta-to nella modernizzazione del paese.

Fu nel 1953, grazie al ministro Ezio Vanoni, che nacque il progetto di una grande autostrada che collegasse Milano con Napoli, il nord con il sud dell’Italia, attraversando la penisola. Per sviluppa-re questo progetto, quattro dei protagonisti dell’in-dustria italiana, Eni, Fiat, Pirelli e Italcementi, tutti interessati allo sviluppo della motorizzazione e del-

le costruzioni stradali, crearono la Sisi, una società di studi che predispose il progetto di massima per un’autostrada Milano-Bologna-Firenze-Roma-Na-poli. Il progetto fu donato allo stato e il ministro dei Lavori pubblici, Giuseppe Romita, si impegnò a far approvare dal parlamento un piano autostra-dale. La costruzione dell’autostrada Milano-Napo-li fu affidata all’Iri con una convenzione del 1956 e concessa alla Società costruzioni autostrade Spa. Il nome scelto per la nuova opera “Autostrada del sole”, evocava quel “Treno del sole” che collegava nord e sud e che era spesso carico di emigrati che fa-cevano la spola tra le terre d’origine e le città del fa-moso triangolo industriale. Soltanto un mese dopo la firma della convenzione venne posata la prima pietra, a san Donato milanese. La costruzione di tut-ta l’opera richiese otto anni, fino al 1964, ma il tratto appenninico, quello più complesso, fu realizzato in soli quattro anni e il 3 dicembre 1960 venne inaugu-rato e aperto al traffico il tratto Bologna – Firenze. Le due città vengono così collegate da un tratto stra-dale lungo 102 chilometri, che conta 47 gallerie, 36 viadotti e 14 ponti.

Anche il Mugello aveva un gran bisogno di nuove strade per sviluppare la sua economia an-cora legata in massima parte all’agricoltura. La co-struzione dell’autostrada era vista da molti politici ed imprenditori come una grande opportunità di

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sviluppo, e non era raro che gli amministratori lo-cali cercassero di influenzare il disegno del tracciato in modo da farlo ricadere nel proprio territorio. Tra i mugellani la prospettiva di essere attraversati da una strada così importante creava reazioni contra-stanti: da una parte c’era chi temeva che la nuova opera si sarebbe rivelata l’ennesima costrizione che la città imponeva alla campagna senza dare niente in cambio, anzi, imponendo un prezzo salato fatto di espropri e disagi durante i lavori. Dall’altra si ri-teneva che, insieme all’autostrada, sarebbero giunti sviluppo, turismo e nuova occupazione.

Il 18 marzo 1956, una domenica, si tenne a Barberino di Mugello un convegno dedicato alla costruzione del tratto appenninico, a cui partecipa-rono numerosi parlamentari, amministratori locali ed esponenti dell’economia locale e fiorentina. Con-corde fu la valutazione positiva delle opportunità offerte dal progetto e Giacomo Devoto, presidente della Camera di commercio, industria e agricoltu-ra di Firenze, aprì i lavori affermando “Voi (i mu-gellani n.d.r.) nell’insistere perché i lavori abbiano inizio, potete avere la coscienza tranquilla di non domandare un favore né di commettere un atto di campanilismo”. La nuova opera veniva quasi idea-lizzata dai suoi sostenitori, che arrivavano a prefigu-rare uno sviluppo turistico per i valichi appenninici. Continuava infatti Devoto: “Immaginate che intor-

no al crinale ci siano delle piccole strade di tre metri di larghezza, che colleghino la stazione di Monteci-terna o Mentepiano fino al Muraglione. Vi rendete conto quanto sia possibile fare tutti questi piccoli giri uscendo dall’autostrada per arrivare alla Futa, a Casaglia, al Giogo, quali risorse, quali vantaggi può trarne il Mugello per l’afflusso di piccoli turisti che vengono senza fatica a respirare un po’ di aria buona?”. Al termine del convegno veniva deciso al-l’unanimità di inviare al ministro dei Lavori pubbli-ci il seguente telegramma:

“Convegno per sviluppo economia mugellana preso atto con vivo compiacimento prossima aggiudicazione appalti per costruzione autostrada Bologna Firenze chiede Vostra Eccellenza efficaci pronte disposizioni per immediato ini-zio relativi lavori specie tratto Mugellano fine utilizzarli subito at sollievo grave disoccupazione locale”.

L’autostrada non era solo un collegamento ve-loce tra diverse località, era un simbolo della mo-dernità, del futuro e dello sviluppo del paese. Pochi anni dopo la costruzione dell’A1, nel 1966, la guida del touring club italiano definiva il percorso appen-ninico dell’autostrada come un tratto interessante dal punto di vista paesaggistico e “per la stessa vi-sione delle grandiose opere d’arte dell’autostrada”. Così, in modo quasi pittoresco, veniva descritto il

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tratto toscano della strada: “Un’ultima vivace sali-ta su lunghi, grandiosi viadotti tra strette incisioni boscose e si giunge all’imbocco della galleria di Ci-terna, lunga m 680, con la quale l’autostrada supera il crinale appenninico. Si esce sul versante toscano in sensibile discesa, passando da una galleria all’al-tra, da un viadotto all’altro, in un ambiente alpestre, tra picchi boscosi, che a primavera si vestono del giallo delle ginestre. Il panorama si amplia; sulla si-nistra la vista spazia sulle ondulazioni del Mugello fino al lontano monte Senario; sulla destra si leva l’uniforme catena dei monti della Calvana. Cipressi e ulivi annunciano il paesaggio toscano fino ad arri-vare alla stazione di Barberino di Mugello. Con un erto rettilineo in trincea poi si sale alla quota 400 e si imbocca la galleria delle Croci di Calenzano, la più

lunga (m 875) dell’intero percorso appenninico”.Oggi il tratto appenninico dell’Autostrada del

sole si rivela drammaticamente insufficiente rispet-to al volume di traffico che ogni giorno lo attraversa, rendendo necessaria la creazione di un nuovo tratto di autostrada che passi da una parte all’altra del cri-nale, chiamato Variante di valico, che permetta di ridurre il carico sul tratto “storico”. I lavori per la costruzione della variante, già iniziati, sono parte del raddoppio della tratta Bologna Firenze e interessano un tratto di circa 60 chilometri situato sia in Emilia Romagna che in Toscana. Il nuovo tracciato, che avrà 23 viadotti e 22 gallerie, compresa quella del Poggio-lino, lunga oltre tre chilometri e mezzo, passerà l’Ap-pennino ad una quota molto più bassa dell’attuale A1: 490 metri sul livello del mare anziché 716.

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Con gli anni non si è modificato solamente il vo-lume di traffico in autostrada ma, da quel convegno del 1956, tutto il Mugello ha cambiato faccia. Al posto del suo vecchio tessuto sociale, basato sull’agricoltu-ra, si è sviluppata una rete fatta di artigianato e pic-cola impresa cui, negli ultimi anni sta cercando di ag-giungersi il turismo. L’invaso artificiale di Bilancino, l’autodromo internazionale che ospita il gran premio d’Italia del motomondiale, i campi da golf, la recente costruzione di un importante outlet commerciale.

Ecco alcuni esempi del Mugello di oggi, erede non immobile delle terre che hanno dato i natali alla grandiosa famiglia dei Medici.

Progettato negli anni Settanta e poi profonda-mente rinnovato, il circuito del Mugello, di proprie-tà della Ferrari, è oggi sede di numerosi test per le vetture di Formula 1 e per le maggiori scuderie mo-tociclistiche. Il percorso è l’erede ideale della gara che si svolgeva nei primi anni del Novecento ar-rampicandosi per le tortuose strade dell’Appenni-no. Nata nel 1914 e subito interrotta dalla guerra, la competizione partiva da Scarperia per arrivare a Fi-renzuola e tornare a San Piero passando per il passo della Futa. Si trattava di 66 chilometri in cui piloti

come Antonio Ascari ed Enzo Ferrari (vincitore nel 1921) si sfidavano rischiando la vita ad ogni curva.

Il lago di Bilancino è l’altro elemento del Mu-gello che cambia: un’opera di regolazione idrica originariamente concepita, nell’immediatezza del dopo alluvione del 1966, come parte di un sistema di invasi per regolare l’afflusso di acqua alla città di Firenze, evitando le disastrose piene con cadenza secolare dell’Arno.

La realizzazione del lago è stata in passato pro-fondamente osteggiata da molti mugellani che vi vedevano uno scempio ambientale. In effetti nel progetto iniziale, a partire dalla stessa denomina-zione all’epoca adottata, di “invaso”, l’opera era denotata esclusivamente dalla sua utilità ingegne-ristica, senza alcuna concessione ad un suo inqua-dramento nell’ambiente circostante oppure ad un suo sfruttamento di tipo turistico-balneare. Solo nel corso dei lunghi anni necessari per la sua realizza-zione, complice la nuova diffusa sensibilità di tipo ambientale, il progetto è andato mutando, perden-do poco a poco la sua funzione esclusiva di “serba-toio” per diventare “lago” e, come tale, fruibile an-che al pubblico. Innumerevoli sono state le varianti

Il Mugello e la sua evoluzione

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sia alla sistemazione delle sponde che alla viabilità che lo circonda, quest’ultima ancora in fase di com-pletamento.

Oggi, a lavori praticamente ultimati, il lago viene da molti considerato una preziosa risorsa di sviluppo turistico e vi si possono praticare, oltre alla balneazione ed alla pesca, vari sport tra cui ca-noa, windsurf e vela, ma vi è anche una oasi am-bientale popolata da uccelli migratori ed un rete

sempre più completa di piste ciclabili e percorsi per trekking.

L’ultima grande mutazione, che certamente in-crementerà l’afflusso di visitatori nel Mugello, è rap-presentato dalla recentissima realizzazione dell’Ou-tlet di Barberino: un vero e proprio piccolo villaggio destinato essenzialmente alla vendita di abbiglia-mento, con particolare riguardo a prodotti di stilisti e “Made in Italy”.

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Il Castello di Villanova (facciata interna) dalle origini duecentesche, recentemente restaurato, è adibito per accogliere feste e cerimonie.

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Anni ’70

Oggi

Anni ’80 prima dell’apertura del ‘Cosimo de’ Medici’

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le stesse, sia che ci si muova a piedi, su una carroz-za o su di un carro a buoi, che su un “bisonte della strada” o magari su una fiammante fuoriserie. In particolare rimane invariata la necessità di ristoro lungo il viaggio: oggi chiamiamo hotel o ristorante quello che in altre epoche avremmo appellato “spe-dale” oppure “osteria”, ma sono solo diverse parole per lo stesso significato.

L’Hotel Barberino nasce agli inizi degli anni set-tanta proprio come struttura dedicata agli utenti di un’autostrada sempre più trafficata e caotica. Da un’iniziale impronta tipica da “motel”, destinato unicamente ad accogliere per una sola notte i viag-giatori, nel corso degli anni si evolve, seguendo i gu-sti e le esigenze dei clienti, dotandosi poco alla volta di tutte quelle piccole comodità, come l’aria condi-zionata, tipiche di alberghi di più alto lignaggio.

La gestione, nelle mani delle stesse famiglie di imprenditori da più di trentacinque anni, ha as-sicurato, pur mantenendo l’impronta originaria, un’evoluzione costante. La struttura, anche se ar-chitettonicamente datata, è continuamente ogget-to di migliorie ed aggiunte al fine di aumentare il comfort ed i servizi offerti alla clientela. Assieme al ristorante Cosimo de’ Medici, quindi, l’hotel è in grado di offrire le risposte a tutte le esigenze di chi ha fatto del viaggio, per lavoro o per passione, una costante della propria vita. E’ pur vero che il casello di Barberino gode della dubbia fama della ricorrente menzione nei notiziari sul traffico, ma è altrettanto indubbio che, grazie ad un discreto e co-stante “passaparola”, questo piccolo centro del Mu-gello è diventato uno dei punti di sosta e ristoro più frequentati in Italia.

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Il vino è uno dei maggiori segni di civiltà nel mondo.

ERNEST HEMINGWAY

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Se è possibile con un semplice aggettivo caratte-rizzare un periodo, per i tempi in cui viviamo quel-lo più adatto è senz’altro “estremo”.

Quante volte si sente questo aggettivo accostato a parole come divertimento, prestazione, esperien-za con una connotazione positiva che non ha ragion d’essere, basta usare il medesimo attributo con pa-role come rischio, delusione o disagio per compren-derne l’opposta valenza.

La ricerca dell’estremo ed il compiacimento nel raggiungerlo appare comunque essere il traguardo della intera società.

Al contrario, l’aggettivo che spesso ricorre in questo libro è “medio”, appunto come antonimo di “estremo”, da non intendersi cioè nella comune ac-cezione di mediocre, ma piuttosto in quella di pun-to medio, baricentro, equilibrio.

Dall’ “aurea mediocritas” di Orazio al più tardo “in medius stat virtus”, innumerevoli sono in lette-ratura e filosofia gli esempi ed i precetti in tal senso, ma a ben guardare non sono generalmente applicati alla ristorazione.

A tutti sarà capitato almeno una volta di pran-zare in un locale dove per attirare l’attenzione del cameriere gli unici modi sembrano essere il fischio alla pecorara o direttamente il placcaggio in stile rugbystico o dove magari il padrone a fine pasto dà una pacca sulle spalle del cliente e si siede al suo tavolo per raccontare aneddoti di dubbio interesse.

A molti sarà successo di essere serviti con pie-tanze magari buonissime ma in porzioni così ridotte da essere scambiate per assaggi, salvo poi verificare come alla parsimonia nella preparazione dei piat-ti corrisponda invariabilmente una certa larghezza nella redazione del conto.

A qualcuno poi non sarà mancata l’esperienza del senso di oppressione causato dalla costante pre-senza alle proprie spalle di un cameriere che mesce il vino nei bicchieri appena smezzati ed osserva con professionale distacco i maldestri tentativi del clien-te nell’uso di strumenti bizzarri, apparentemente più adatti ad una sala operatoria che ad un normale desco.

Esperienze come queste appena citate fanno ap-prezzare la filosofia e le caratteristiche del Cosimo de’ Medici, dove il servizio è infatti veloce e silen-zioso, ma discreto, e la cortesia non sconfina mai nell’eccesso di confidenza.

Il raggiungimento di un giusto punto di equi-librio è altresì rispecchiato nei rapporti tra qualità della cucina, abbondanza dei piatti ed adeguatezza dei prezzi. D’altra parte, la stessa contrapposizione, ormai storicizzata, tra “fast” e “slow” food non è che un ennesimo aspetto di questa assurda ricerca dell’estremo.

Come sostengono i soci del Cosimo, i tempi del pasto devono essere scanditi dal cliente e dalle sue esigenze e non da quelle del ristorante. Flessibilità

I piatti sono tondi...(ovvero il successo dell’equilibrio)

di Jacopo Lazzari

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è la parola d’ordine in questo caso, ci sono persone che hanno un appuntamento a breve e che devono essere messe in condizione di pranzare velocemen-te, mentre altre, cui piace godersi la conversazione e la compagnia oltre che il cibo, devono avere l’agio di farlo in tutta tranquillità.

Anche per questo, oltre all’orientamento di tut-to il personale alle esigenze del cliente, al Cosimo cucina e sala sono caratterizzate da un’organizza-zione del lavoro puntigliosa, con procedure ben de-terminate ma al tempo stesso in grado di adattarsi in modo dinamico ai ritmi ed alle necessità degli avventori.

Le medesime considerazioni valgono da un punto di vista estetico: non si comprende perchè un ristorante “tipico”, sia spesso ancora oggi simile ad una scenografia dei Pinewood Studios per un film degli anni ‘60, con tanto di travi a vista e relativi sa-lami e prosciutti appesi, nonché oste con grembiale e tovagliolo buttato sulla spalla; nè, tantomeno, si riesce a capire perchè per gustare un qualcosa più evoluto delle penne al pomodoro od al ragù ci si debba assoggettare ad un ambiente semioscuro ed a bellissime, ma altrettanto scomode, sedie di desi-gners dall’inespressa tendenza al sadismo.

Provate a chiedere a qualche cliente che esce dal Cosimo de’ Medici di descrivere il locale, vi accor-gerete con ogni probabilità che non sarà in grado di

farlo, i più osservatori accenneranno a separè in le-gno oppure menzioneranno vagamente pareti rosa, ma molti ammetteranno semplicemente di non aver notato nulla di particolare, se non la qualità delle pietanze e del servizio ed il fatto che sono riusciti a conversare con i loro commensali senza necessità di alzare la voce.

I clienti di lunga data vi diranno poi che il Co-simo è sempre stato così, eppure, anno dopo anno, tante piccole modifiche sono state introdotte sulla base dell’esperienza, le sedie, ad esempio, sono rea-lizzate appositamente da un mobiliere trentino con piccoli accorgimenti per trasmettere al cliente una sensazione di solidità oltre che di comodità.

Ennesimo successo dell’equilibrio, la neutra-lizzazione dell’ambiente come ulteriore stimolo al-l’esaltazione dei contenuti.

Infine, le stesse considerazioni valgono per l’ap-parecchiatura, se nemmeno degno di considerazio-ne è il pezzo di carta gialla, è proprio possibile che esistano ancora, ad un estremo, le tovaglie a qua-dretti bianchi e rossi?

E perchè, all’estremo opposto, il primo viene servito in scodelle triangolari ed il secondo in piatti quadrati?

Al Cosimo de’ Medici i piatti sono tondi, come i bersagli, e nella ristorazione, come nel tirassegno, si fanno più punti colpendo il centro.