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Il socialismo patologia millenaria dell’umanità INDICE Passato e avvenire del socialismo, I. Safarevic, in “Voci da sotto le macerie”, a cura di Aleksandr Solzenicyn, Mondadori 1981, pp. 33-75. Il socialismo nella storia della civiltà, G. Toniolo, in Opera Omnia, Serie I vol. I, Città del Vaticano 1947, pp. 267-326. Del protestantismo e di tutte le eresie nel loro rapporto con il socialismo, A. Nicolas, Vol. 1, Napoli 1859, pp. 227-266. La socialdemocrazia fabiana, "new look" dell’"opzione socialista" , G. Cantoni, da Cristianità, n° 186 (1990).

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Il socialismo patologia millenaria dell’umanità

INDICE

• Passato e avvenire del socialismo, I. Safarevic, in “Voci da sotto le macerie”, a

cura di Aleksandr Solzenicyn, Mondadori 1981, pp. 33-75.

• Il socialismo nella storia della civiltà, G. Toniolo, in Opera Omnia, Serie I vol.

I, Città del Vaticano 1947, pp. 267-326.

• Del protestantismo e di tutte le eresie nel loro rapporto con il socialismo, A.

Nicolas, Vol. 1, Napoli 1859, pp. 227-266.

• La socialdemocrazia fabiana, "new look" dell’"opzione socialista", G. Cantoni,

da Cristianità, n° 186 (1990).

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IGOR SAFAREVIC

Passato e avvenire del socialismo (1)

1) Il socialismo oggi

Ogni generazione tende a sopravvalutare l'importanza della propria epoca e commette

facilmente l'errore di credersi testimone di una svolta fondamentale della storia: in

realtà, movimenti profondi capaci di rimettere in causa i principi fondamentali che

reggono la vita dell'umanità si producono meno di una volta ogni mezzo millennio. E

tuttavia si verificano (ad esempio il tramonto dell’Antichità classica o la crisi che

segnò il passaggio del Medioevo all'Età moderna). E ad alcune generazioni tocca

evidentemente in sorte di vivere proprio questi momenti cruciali.

È sicuramente anche il caso nostro. L'umanità attuale, se non vuole trovarsi in un

vicolo cieco, non può continuare a percorrere le vie tradizionali, sia in campo

spirituale che in quello dell'organizzazione della società e della produzione (l'idea di

una società industriale in continua espansione s'è dimostrata infondata). Le future

generazioni devono scegliersi delle nuove vie e determinare con questa loro scelta il

corso futuro della storia. In queste condizioni molti problemi apparentemente

insolubili assumono un rilievo doloroso e l'abisso dei pericoli che ci minacciano si fa

sempre più profondo. La via d'uscita resta incerta e le voci che ci parlano di una

possibile salvezza si fanno esitanti e contraddittorie.

C'è tuttavia una voce che non è incrinata dal minimo dubbio, una dottrina i cui

adepti ci predicano con sicurezza quale dovrà essere l'avvenire dell'umanità, ed è il

socialismo. Esso è oggi ramificato in una moltitudine di correnti delle quali ciascuna

si proclama socialista escludendo tutte le altre. Ma guardando senza preclusioni

partigiane i paesi i cui governi si dicono socialisti, possiamo constatare che la

maggior parte dell'umanità - dell'Europa, dell'Asia, dell'Africa o dell'America Latina -

è già avviata su questa strada. E nel resto del mondo i partiti socialisti lottano per

conquistare il potere, le dottrine socialiste trionfano tra i giovani, il socialismo è

diventato una tale forza che gli uomini politici più in vista ne cercano i favori e i più

eminenti filosofi lo circondano di ossequiose premure.

Tutto lascia pensare che l'umanità disponga ormai di ben poco tempo per decidere

se consegnarsi completamente al socialismo o meno e si tratta evidentemente di una

decisione che metta in gioco tutto il suo avvenire. Per questo motivo è fondamentale

che noi si comprenda che cos'è il socialismo: qual è la sua origine? che forze utilizza?

quali sono i motivi del suo successo? dove conduce?

Le risposte eterogenee e contraddittorie che le varie correnti socialiste danno a

queste domande dimostrano eloquentemente quanto si sia lontani da una reale

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comprensione del fenomeno. Ci limiteremo, per essere brevi, a citare alcuni giudizi

sull'origine del socialismo.

«Ci si è resi conto, dopo il rovesciamento della servitù della gleba e lo sviluppo di

una società capitalistica cosiddetta" libera", che questa libertà designava al contrario

un nuovo sistema di oppressione e sfruttamento dei lavoratori. Sono allora apparse

diverse correnti socialiste che riflettevano e denunciavano questo nuovo giogo.»

(Lenin, Tre fonti e tre componenti del marxismo.)

«... Le società africane sono sempre vissute nell'ambito di un socialismo empirico,

naturale, che potremmo definire istintivo.» (Dudu Tiam, ideologo del «socialismo

africano.»)

«Il socialismo fa parte della religione dell'Islam, esso è stato sempre connaturato al

carattere del nostro popolo, anche quando era nomade e pagano.» (El-Afghani,

ideologo del «socialismo arabo»).

Cos'è dunque questo fenomeno, così stranamente controverso? Si tratta di un

complesso di correnti completamente estranee le une alle altre ma che, per qualche

incomprensibile motivo, vogliono chiamarsi con lo stesso nome? Oppure questa

diversità delle apparenze nasconde in realtà qualcosa di comune? Evidentemente la

risposta è ben lontana dall'essere formulata; non solo, ma si deve constatare che molti

dei problemi fondamentali suscitati dal socialismo, come vedremo nel corso di questo

lavoro, vengono addirittura elusi. Questa particolare difficoltà nella quale viene a

trovarsi l'osservatore, che è costretto a rinunciare ai metodi dell'analisi razionale, non

è che un enigma in più all'interno di un fenomeno che ne conta già così tanti.

Nel presente lavoro cercheremo di esaminare tutti questi problemi e di proporre

alcune conclusioni, servendoci delle fonti più conosciute: le opere dei classici del

socialismo nonché opere di storia generale.

Cercheremo anzitutto di descrivere da un punto di vista strettamente fenomeno

logico gli elementi comuni e fondamentali che caratterizzano attualmente gli Stati e

le dottrine socialiste. Il principio più chiaramente proclamato e più largamente noto è

certamente quello economico: collettivizzazione dei mezzi di produzione, altrimenti

detta nazionalizzazione, controllo sotto varie forme dello Stato sull'economia. Questo

primato delle esigenze economiche è anche sottolineato nel Manifesto del partito

comunista di Marx e Engels: «... i comunisti possono riassumere la loro teoria in

quest'unica formula: abolizione della proprietà privata».

Se ci si attiene a questo elemento solo, viene naturale chiedersi quanto il socialismo

differisca in linea di principio dal capitalismo, se non debba in definitiva riguardarsi

come una forma monopolistica del capitalismo, una specie di «capitalismo di Stato».

Potrebbe effettivamente sorgere il dubbio nella misura in cui ci si limitasse all'aspetto

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economico, benché anche sotto quest'aspetto le differenze tra capitalismo e

socialismo siano notevoli. Ma nel momento in cui si esaminano gli altri aspetti del

problema si rivela un'opposizione fondamentale tra i due sistemi. Ad esempio, alla

base di tutti gli Stati socialisti attuali c'è un partito, ma esso rappresenta una

formazione completamente nuova, che, a parte il nome, non ha niente in comune con

i partiti dei paesi capitalisti. Inoltre gli Stati socialisti cercano di diffondere il proprio

socialismo negli altri paesi e questa tendenza caratteristica, non giustificata da un

punto di vista economico, spesso contro-producente sotto l'aspetto politico, provoca

di solito l'apparizione nel loro stesso campo di giovani rivali più aggressivi.

Queste differenze sono essenzialmente dovute al fatto che il socialismo,

diversamente dal capitalismo, non è un regime economico, ma è anche e forse

soprattutto un'ideologia. Solo l'ideologia è capace di generare ad esempio quell'odio,

inspiegabile da un punto di vista economico o politico, degli Stati socialisti nei

confronti della religione, odio che li caratterizza tutti come una specie di marchio di

fabbrica, ma che si manifesta più o meno apertamente a seconda dei casi: dal conflitto

quasi simbolico dello Stato fascista italiano con il Vaticano, fino alla proibizione

totale della religione in Albania proclamata «primo Stato ateistico del mondo».

Passando dagli Stati socialisti alle dottrine socialiste ritroviamo delle posizioni già

note: soppressione della proprietà privata, ostilità nei riguardi della religione. A

proposito della prima abbiamo citato il Manifesto del partito comunista. La lotta

antireligiosa costituisce per il marxismo il punto di partenza e il fondamento della

riorganizzazione sociale del mondo. Nel suo articolo La critica della filosofia

hegeliana del diritto, Marx scrive: «… la critica della religione è il presupposto di

ogni altra critica.»

«La maggior riprova del radicalismo della teoria tedesca, e conseguentemente della

sua azione pratica, ci è data dal suo punto di partenza: la decisa eliminazione della

religione.»

«L'emancipazione del tedesco coincide con l'emancipazione dell'uomo in generale.

La filosofia [ci si riferisce qui all'aspetto ateistico del sistema di Feuerbach. I. S.] è la

testa di questa emancipazione, il proletariato il suo cuore.»

S. Bulgakov (2) in un'opera intitolata Karl Marx come tipo religioso, ha mostrato

come l'ateismo militante, che è un motivo centrale dell'attività di Marx, fosse anche

all'origine delle sue concezioni storiche e sociali, vale a dire: la negazione. del ruolo

della personalità e dell'individuo nel processo storico, «la concezione materialistica

della storia», il socialismo. Questo punto di vista viene a essere pienamente

confermato dalla pubblicazione postuma dei lavori preparatori di Marx all'opera La

sacra famiglia. Egli vi considera il socialismo come il giardino supremo dell'ateismo:

se l'ateismo «afferma l'esistenza dell'uomo attraverso la negazione di Dio», e cioè si

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configura come un'«affermazione negativa dell’uomo», il socialismo è invece «la sua

affermazione positiva».

Ma nelle teorie socialiste troviamo anche dei principi che gli Stati socialisti si

guardano bene dal proclamare, perlomeno apertamente. Così chiunque torni a leggere

senza preconcetti il Manifesto si stupirà di vedere quanto spazio vi è accordato al

tema della distruzione della famiglia, all'educazione dei bambini, separati dai loro

genitori e collocati in istituzioni scolastiche pubbliche, alla comunanza delle donne.

Nel discutere coi loro avversari gli autori del Manifesto non rinnegheranno mai questi

principi, ma sosterranno sempre, al contrario, la loro superiorità rispetto a quelli su

cui era fondata la società borghese del tempo. Ci hanno successivamente rinunciato?

Lo si ignora (3).

Attualmente, nelle correnti di sinistra che, benché socialiste, spesso non hanno

niente a che vedere con il marxismo, lo slogan della «rivoluzione sessuale», in altre

parole la distruzione dei rapporti familiari tradizionali, svolge un ruolo essenziale.

Citiamo l'esempio impressionante dell’«Armata Rossa», un'organizzazione trotzkista

giapponese divenuta celebre in seguito a una serie di attentati perpetrati all'inizio

degli anni Settanta. Le vittime erano spesso gli stessi membri dell'organizzazione, i

quali dovevano rompere ogni legame con la loro famiglia: l'infrazione a questa regola

fu la causa di molti assassinii. Bastava essere accusato di «comportarsi come un

marito» per vedersi condannato a morte. La punizione del colpevole era di solito

affidata al suo compagno. I bambini venivano sottratti alla madre e affidati a un'altra

donna che li nutriva ...

Riassumendo, tra i principi che numerosi Stati e dottrine socialiste difendono

attualmente, e che perciò possono essere considerati come la base del socialismo,

troviamo l'abolizione della proprietà privata, l'annientamento della religione, la

distruzione della famiglia. Il socialismo non è dunque una concezione puramente

economica, ma un sistema incomparabilmente più vasto di idee che comprende quasi

tutti gli aspetti della vita dell'umanità.

2) Il passato del socialismo

Possiamo sperare di comprendere la natura e il ruolo del socialismo solo se

riusciremo a trovare una scala che permetta di misurarlo adeguatamente. Per far

questo ci occorre prendere una certa distanza ed esaminarlo in una prospettiva storica

più ampia. E ciò che faremo studiando prima gli Stati e poi le dottrine socialiste.

La formazione di Stati socialisti è una peculiarità esclusiva della nostra epoca, o ci

sono dei precedenti? La risposta può essere solo una: diversi secoli e perfino millenni

addietro sono esistite delle società che hanno messo in pratica in modo assai più

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completo e conseguente le stesse tendenze socialiste che ispirano oggi la politica di

certi Stati. Basteranno due esempi:

a) La Mesopotamia dei secoli XXII e XXI a.C.: Nel corso del quarto millennio

apparvero in Mesopotamia i primi Stati conosciuti dagli storici. Essi si costituirono a

partire dai templi che rappresentavano allora i centri di un'intensa vita agricola

fondata sull'irrigazione e attorno ai quali erano riuniti consistenti gruppi di contadini

e artigiani. Verso la metà del terzo millennio, la Mesopotamia si suddivise in piccoli

regni all'interno dei quali il tempio restava l'unità economica di base. Il periodo

dell'unificazione iniziò con Sargon, re di Accadia. I pochi fatti che riassumeremo qui

sotto riguardano il periodo che va dal XXII al XXI secolo (terza dinastia d'Ur),

durante il quale il nuovo Stato, che aveva per capitale Ur, riunì sotto il suo potere la

Mesopotamia, l'Assiria e l'Elam.

Gli archeologi hanno scoperto un'enorme quantità di tavolette cuneiformi che ci

forniscono molte notizie su quella che era allora la vita economica del paese. Da esso

apprendiamo che le aziende raggruppate attorno ai templi costituivano la base

dell'economia; tuttavia, molto presto, esse persero la loro indipendenza per diventare

le cellule di un insieme più vasto completamente controllato dallo Stato: degli

intendenti, nominati dal re e controllati da ispettori, si recavano nella capitale a render

conto del loro lavoro; gli operai venivano frequentemente trasferiti da un'attività

all'altra.

Gli operai addetti all'agricoltura, uomini, donne e bambini, divisi in squadre dirette

da sorveglianti, lavoravano tutto l'anno passando da un campo all'altro e ricevendo le

sementi, gli utensili e il bestiame dai magazzini del tempio o dello Stato. Ogni

squadra, con in testa il proprio capo, riceveva dai magazzini anche le vettovaglie. La

famiglia non era considerata un'unità economica; i prodotti erano distribuiti non al

capofamiglia, ma a ogni operaio o, più spesso, al caposquadra. Alcuni documenti

menzionano degli uomini, altri delle donne, altri ancora dei bambini, qualcuno

perfino degli orfani. Questa categoria di operai non solo non possedeva beni, ma non

aveva neanche in uso un piccolo pezzo di terra.

Gli altri gruppi della popolazione ricavavano di che sostentarsi dai terreni loro

assegnati. Singole persone, gli artigiani, i pastori avevano i loro campi. Ma a

coltivarli erano quegli stessi che lavoravano le terre appartenenti allo Stato; la

direzione del lavoro era affidata a funzionari statali.

Ogni città aveva i suoi laboratori artigianali, ma i più importanti erano situati nella

capitale, a Ur. Lo Stato forniva agli operai utensili, materie prime e semi lavorati. La

produzione dei laboratori alimentava i magazzini statali. Come gli operai agricoli, gli

artigiani erano divisi in squadre dirette da sorveglianti. Lo Stato distribuiva loro i

prodotti alimentari in base a elenchi.

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Il vitto fornito al singolo dipendeva sia dalla sua vigoria fisica che dal lavoro

prodotto. Le aziende agricole tenevano costantemente aggiornati gli elenchi con i

nomi dei morti, dei malati, degli assenti dal lavoro (con il motivo dell'assenza). Gli

operai potevano essere trasferiti da un'azienda agricola all'altra, da un laboratorio

all'altro, e talvolta perfino da una città all'altra. Gli operai agricoli potevano essere

trasferiti nei laboratori e, inversamente, gli artigiani potevano ritrovarsi nei campi o a

trainar battelli sull'alzaia di un canale. In che stato di schiavitù fossero ridotti a vivere

larghi settori della popolazione lo possiamo capire dal gran numero di fughe ricordate

in diversi documenti: quella di un barbiere, ad esempio, o di un pastore, talvolta

perfino del figlio di un sacerdote o del sacerdote stesso ... I decessi venivano

tempestivamente comunicati (e questo per permettere di tenere aggiornati gli elenchi

di vettovagliamento). Un documento informa che in un solo anno e in una sola

squadra si è avuto il 10 per cento di decessi tra gli operai, un altro riferisce del 14 per

cento, un terzo del 28 per cento. La mortalità era particolarmente elevata tra le donne

e i bambini, impiegati nei lavori più pesanti come ad esempio l'alaggio lungo i canali.

bbb

b) L'impero Inca. Questo grandioso impero, che contava diversi milioni di abitanti e

comprendeva un vasto territorio che si estendeva dall'attuale Cile all'Ecuador, fu

conquistato dagli spagnoli nel XVI secolo. I conquistatori ci hanno lasciato

dettagliate descrizioni di ciò che avevano potuto osservare di persona o che avevano

potuto apprendere dai racconti degli indigeni. La natura sociale del regime che essi

incontrarono è così evidente che oggi parecchie opere storiche contemporanee

dedicate agli incas non esitano a parlare di «socialismo».

Gli incas ignoravano completamente la proprietà privata dei mezzi di produzione.

La maggioranza degli abitanti non possedeva nulla o quasi. Il denaro era sconosciuto.

Il commercio non aveva alcun ruolo importante nell'economia.

Alla base dell'economia era la terra, la quale teoricamente apparteneva al capo dello

Stato, cioè era proprietà dello Stato e gli abitanti ne avevano soltanto l'uso. I membri

della classe dominante, gli Inca, disponevano delle terre nel senso che ne ricavavano

dei redditi. A coltivarle erano comunque i contadini sotto la direzione dei funzionari

governativi.

Il contadino riceveva in uso un terreno le cui dimensioni variavano in rapporto al

numero dei suoi familiari. Quando moriva, lo Stato si riprendeva la terra. Le terre

rientravano poi in altre categorie: quelle che appartenevano direttamente allo Stato e

quelle che erano di proprietà dei templi. Queste e quelle erano coltivate da contadini

suddivisi in squadre agli ordini e sotto la sorveglianza di funzionari. Perfino il

segnale di inizio del lavoro veniva dato da un funzionario che soffiava in un corno

dall'alto di una torre costruita a questo scopo.

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I contadini esercitavano inoltre un mestiere artigianale. Essi ricevevano la materia

prima dai funzionari ai quali consegnavano i prodotti. Partecipavano anche ai lavori

edilizi, riuniti in enormi eserciti operai che potevano arrivare fino a 20.000 uomini. E

infine erano tenuti a degli obblighi militari.

Tutta la vita della popolazione era regolamentata dallo Stato. Gli Inca, che

costituivano la classe dirigente del paese, avevano un unico campo d'attività: la

burocrazia militare e civile. Essi ricevevano un'adeguata formazione in scuole

speciali. La loro vita privata era sottomessa a un minuzioso controllo da parte dello

Stato. Certe regole prevedevano ad esempio di quante donne e concubine, di quanto

oro e argento, vasellami, ecc., poteva disporre questo o quel funzionario.

Naturalmente la vita del contadino era regolamentata in modo ancora più severo.

Gli si prescriveva quello che doveva fare in questa o quell'epoca della sua vita: dai

nove ai sedici anni, pastore; dai sedici ai venti, domestico nella casa di un Inca, ecc.,

e così via fino alla vecchiaia. Le contadine potevano essere destinate agli Inca in

qualità di domestiche o concubine, e fungevano inoltre da vittime nei sacrifici umani.

I matrimoni dei contadini erano celebrati una volta all'anno dai funzionari governativi

in base a liste preparate in precedenza.

Il vitto, le dimensioni delle capanne, l'utensileria di cui potevano disporre, ogni

cosa era accuratamente regolamentata. Degli incaricati speciali del governo

percorrevano in lungo e in largo il paese, sorvegliando affinché i contadini non

infrangessero queste prescrizioni e fornissero il lavoro dovuto.

Lo Stato distribuiva anche i vestiti. Questi erano d'un determinato colore, diverso

per ogni provincia. Era proibito modificare il colore o la forma dell'abito. Queste

disposizioni, alle quali bisogna aggiungere un taglio di capelli particolare per ogni

regione, permetteva un migliore controllo della popolazione. I contadini non

potevano lasciare il loro villaggio senza il permesso dell'autorità. Delle guardie poste

sui ponti e alle barriere verificavano l'identità dei passanti.

Questo regime si sosteneva su un sistema minuziosamente elaborato di punizioni

che comunque in sostanza coincidevano quasi sempre con la pena di morte. I mezzi

prescelti erano i più vari: i condannati a morte venivano precipitati dall'alto di un

dirupo, lapidati, appesi per i capelli o per i piedi, gettati in grotte piene di serpenti

velenosi; talvolta venivano anche torturati prima del supplizio finale; poi non

venivano seppelliti: le ossa venivano utilizzate per confezionare flauti e la pelle

tamburi ...

Questi due esempi non costituiscono affatto dei fenomeni isolati, paradossali e di

conseguenza trascurabili. Potremmo portarne molti altri. Nel 1534-35 un impulso di

spiriti combattivi tra gli anabattisti portò a un’esplosione, che potrebbe essere intesa

come un tentativo di rivoluzione anabattista nell'Europa settentrionale. Gli

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avvenimenti chiave ebbero luogo nella Germania del nord, dove per molti anni erano

confluiti gli anabattisti perseguitati della Germania centrale e del sud. Munster

divenne centro di questi avvenimenti.

Sfruttando la lotta tra cattolici e luterani, gli anabattisti presero la maggioranza nel

consiglio municipale di Munster, dopodiché sottomisero completamente la città. Tutti

quelli che rifiutavano di prendere il nuovo battesimo furono espulsi da Munster dopo

essere stati spogliati di tutti gli averi. Quindi ogni proprietà nella città fu

socializzata; tutti erano tenuti a consegnare i propri averi sotto il controllo di

speciali diaconi a questo preposti. Infine fu introdotta la poligamia e le donne, a

partire da una certa età, erano obbligate al matrimonio.

Da Munster gli apostoli dell'anabattismo andarono per la Germania, la Danimarca e

l'Olanda predicando il secondo battesimo ed esortando ad accorrere in aiuto di

Munster. Il vescovo Waldeck, nella cui giurisdizione si trovava una volta Munster, e i

principi vicini spaventati da questo movimento, raccolsero un esercito e

circondarono la città. L'assedio si protrasse per più di un anno. Nella città, nel

frattempo, un anabattista, Giovanni Beukels, detto Giovanni di Leida, fu proclamato

re di Munster e del mondo intero. Costui aveva una corte fastosa, si circondava di

numerose donne, e lui stesso, sulla pubblica piazza, tagliava le teste dei riottosi.

In quel periodo gli anabattisti fecero scoppiare rivolte in tutta la Germania

settentrionale e in Olanda e riuscirono persino a impadronirsi per breve tempo del

municipio di Amsterdam.

Ma alla fine le autorità riuscirono a venire a capo della situazione. Nel 1535

Munster fu presa d'assalto, Beukels e altri capi anabattisti furono giustiziati. La

descrizione più completa di questo episodio si trova nell'Appendice.

L'antico Egitto è vicino, sia come epoca che come strutture statali, ai governi della

Mesopotamia. Il faraone era il proprietario di tutte le terre, le quali venivano cedute

solo temporaneamente. I contadini non erano altro che una pertinenza trasferibile allo

stesso titolo della terra. Essi dovevano servire lo Stato: scavare canali, costruire

piramidi, trainare battelli, estrarre pietre e trasportarle. Gli artigiani e gli operai delle

aziende di Stato ricevevano utensili e materie prime dai magazzini reali, ai quali

dovevano poi consegnare i prodotti del loro lavoro. Gordon Childe (4) paragona la

burocrazia degli scribi che dirigevano tutti questi lavori ai «commissari della Russia

sovietica». Egli scrive: «Circa tremila anni prima di Cristo, la rivoluzione economica

aveva assicurato all'artigiano egizio non solo i mezzi di sussistenza e le materie prime

che gli erano necessari, ma aveva anche creato le condizioni favorevoli allo sviluppo

della scrittura e della scienza e aveva fatto nascere lo Stato. Ma l'organizzazione

sociale ed economica realizzata da quei militanti della rivoluzione che furono Menes

e i suoi successori si rivelò centralizzatrice e totalitaria ...» (What happened in

history).

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Potremmo riportare altri esempi di società fondate in larga misura su principi di

tipo socialista. Quelli che abbiamo presentato mostrano tuttavia abbastanza

chiaramente che l'apparizione di Stati socialisti non è affatto tipica di un'epoca o di un

continente. Anzi, molto probabilmente, lo Stato è nato proprio in questa forma così

che i primi Stati della storia furono al tempo stesso «i primi Stati socialisti del

mondo».

Lo stesso accade quando ci volgiamo alle dottrine socialiste. Anch'esse non sono

nate nel XIX o nel XX secolo, ma esistono da più di duemila anni. La loro storia può

essere divisa in tre periodi.

a) Le idee socialiste erano ben conosciute fin dall'Antichità. Il primo sistema

socialista, di cui si può seguire l'influenza, pur attraverso molteplici variazioni, fino ai

nostri giorni, è stato creato da Platone. Attraverso il platonismo le concezioni

socialiste penetrarono le sette gnostiche, manicheismo incluso, che fiorivano allora

attorno al nascente cristianesimo. Durante questo periodo, le idee socialiste non

superano l'ambito delle scuole filosofiche e delle ristrette consorterie mistiche.

b) Nel Medioevo, le idee socialiste si diffondono largamente tra le popolazioni,

assumendo forme religiose all'interno di correnti ereticali come quella dei Catari, i

Fratelli del libero spirito, gli Apostolici e i Begardi (5). Esse ispirano vasti movimenti

popolari: ad esempio quello dei Patarini (6) in Italia nel XIV secolo, o quello dei

Taboriti (7) nel XVI secolo, in Boemia. La loro influenza è particolarmente forte

durante la Riforma ed è ancora avvertibile nella rivoluzione inglese del XVII secolo.

c) A partire dal XVII secolo, lo sviluppo dell'ideologia socialista prende un nuovo

indirizzo. Le forme religiose e mistiche cedono il campo a concezioni materialiste e

razionaliste caratterizzate da un atteggiamento ostile e bellicoso nei confronti della

religione. Ancora una volta cambia la sfera di diffusione delle dottrine socialiste:

sono ormai i filosofi e gli scrittori a farne la propaganda presso artigiani e contadini, a

cercare di guadagnare alla loro influenza i lettori, vale a dire gli strati superiori della

società. Il punto culminante di questa evoluzione è il «secolo dei lumi». Un po' più

tardi si delinea un nuovo scopo: trasferire il socialismo dai salotti e dagli studi dei

filosofi nella strada e nei sobborghi. Assistiamo a un primo tentativo di attuazione

pratica delle idee socialiste nei movimenti di massa.

Né il XIX né il XX secolo introdussero, secondo me, elementi fondamentalmente

nuovi nello sviluppo dell'ideologia socialista.

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Alcuni esempi ci permetteranno anche qui di comprendere meglio il carattere delle

dottrine socialiste e di sottolinearne alcuni elementi importanti per il successivo

svolgimento delle nostre riflessioni.

a) Platone, nella Repubblica, traccia il quadro di una società ideale. Il potere

appartiene ai filosofi che governano il paese appoggiandosi ai guerrieri (chiamati

anche guardiani). Ed è la vita dei guardiani a interessare principalmente Platone sia

perché i filosofi sono scelti nelle loro file, sia perché sono essi a dirigere il resto della

popolazione. La loro vita è completamente subordinata agli interessi dello Stato e

organizzata in modo tale che qualsiasi dissidio o divergenza di interessi ne sia

esclusa.

Così la proprietà privata è soppressa. I guardiani non posseggono nulla all'infuori

del proprio corpo. Chiunque lo desideri può in qualsiasi momento entrare nella loro

casa. Essi vivono nello Stato come mercenari, non ricevendo alcuna retribuzione oltre

al cibo per nutrirsi.

Per le stesse ragioni anche la famiglia è abolita. Nella classe dei guardiani ogni

uomo è il marito di ogni donna e viceversa. Il matrimonio è sostituito da un breve

accoppiamento regolato dallo Stato che ha per solo scopo di soddisfare i bisogni fisici

e assicurare una discendenza perfetta. A questo scopo i filosofi permettono ai

guardiani che si sono maggiormente distinti di avere dei rapporti più frequenti con le

donne più belle.

I bambini ignorano fin dalla nascita non solo chi sia il loro padre ma anche chi sia

la madre; e perfino le nutrici alle quali vengono affidati si avvicendano con

frequenza. All'educazione successiva provvede lo Stato. Un posto particolarmente

importante ha nell'educazione l'arte, che è sottomessa, per le esigenze della causa, a

controlli e purghe molto severe. Un'opera è considerata tanto più pericolosa quanto

più è elevato il suo livello artistico. Le favole di Esiodo e di Omero, la maggior parte

della letteratura classica, tutto ciò che può far pensare all'ingiustizia e

all'imperfezione degli dei, suscitare la paura o sentimenti di prostrazione o indurre

alla mancanza di rispetto nei confronti dei superiori, viene distrutto. Allo stesso

tempo si inventano nuovi miti capaci di sviluppare nei guardiani le virtù necessarie al

servizio dello Stato.

Oltre a questa costrizione ideologica, la vita dei guardiani è sottomessa a un

controllo biologico. Esso inizia con una selezione minuziosa dei genitori in grado di

fornire la migliore discendenza; in questo campo servono da modello le pratiche in

uso nell'agricoltura. I bambini nati da unioni non sanzionate dallo Stato o affetti da

imperfezioni fisiche vengono soppressi. La selezione degli adulti è affidata alla

medicina: i medici curano alcuni, lasciano morire altri e uccidono altri ancora.

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b) Nel Medioevo, i movimenti ereticali hanno una concezione dell'universo fondata

sull'opposizione dei mondi spirituale e materiale considerati come categorie

antagonistiche che si escludono a vicenda. Da qui l'ostilità nei confronti del mondo

materiale, e più particolarmente di ogni forma di vita sociale. Tutte queste correnti

avversano il servizio militare, il giuramento di fedeltà al sovrano, il ricorso alla

giustizia, la sottomissione dell'individuo alle autorità ecclesiastiche o civili, e,

perlomeno alcune di esse, il matrimonio e la proprietà. In alcune sette, proprio il

matrimonio, e non la fornicazione, è considerato peccato; quest'atteggiamento non è

dettato quindi da esigenze ascetiche, ma dall'intento di distruggere la famiglia. Molti

contemporanei accusano queste sette di praticare l'amore «libero» o «santo». Uno di

loro afferma ad esempio che presso gli eretici, «i legami matrimoniali contraddicono

le leggi della natura perché queste leggi esigono che tutto sia in comune», Negando la

proprietà privata, l'individuo rinuncia ai suoi beni a profitto della setta. La comunità

dei beni è innalzata a ideale supremo. «Allo scopo di rendere la loro dottrina più

attraente, essi hanno introdotto la comunità dei beni»: così si può leggere nel verbale

di un processo contro degli eretici del XIII secolo.

Di solito, gli aspetti più radicali della dottrina sono noti soltanto ai membri più

introdotti nelle cose della setta: i «perfetti», nettamente separati dalla massa dei

«credenti». Tuttavia, nei periodi di crisi, i predicatori e gli apostoli della setta li

diffondono anche tra il popolo. Di norma, i loro sermoni sono accompagnati da

appelli alla distruzione dell'ordine esistente e anzitutto della Chiesa cattolica.

Così, all'inizio del XIII secolo, in Italia, il movimento dei Patarini, diretto da

predicatori della setta dei «Fratelli apostolici», provoca una guerra sanguinosa che

dura tre anni. I «Fratelli apostolici» insegnano che «tutto deve essere messo in

comune nell'amore: i beni e le donne». Coloro che entrano a far parte della setta

devono donarle tutto ciò che posseggono. Per essi, la Chiesa cattolica è la peccatrice

di Babilonia, e il papa l'Anticristo, che deve essere messo a morte insieme a tutti i

vescovi, i preti, i monaci nonché gli infedeli. Qualsiasi azione diretta contro i nemici

della fede è consentita.

Circa un secolo più tardi, le sette ereticali estendono la loro influenza sui Taboriti,

le cui incursioni desolarono per quasi un quarto di secolo tutta l'Europa centrale. Un

contemporaneo racconta al riguardo: «Nella loro città, Tabor, ogni cosa appartiene a

tutti, e ognuno usa il bene comune: nessuno deve possedere separatamente alcunché

se non vuole peccare». Secondo i loro predicatori, «tutto deve essere in comune,

comprese le donne; i figli e le figlie di Dio sono liberi, e il matrimonio in quanto

unione di due esseri, marito e moglie, non deve esistere». «Tutte le istituzioni e

regole umane devono essere abolite poiché non sono state create dal padre celeste.»

«Le case dei preti e i beni della chiesa devono essere distrutti, le chiese, gli altari e i

monasteri rasi al suolo.» «I grandi e i potenti vanno piegati come i rami di un albero,

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tagliati e bruciati come la paglia perché non ne restino né radici né germogli, battuti

come covoni, svuotati del loro sangue, sterminati con gli scorpioni, i serpenti e le

belve della foresta, consegnati alla morte.»

J. Dullinger, eminente studioso della storia delle eresie, caratterizza in questo modo

la dottrina sociale delle sette ereticali: «Tutti i movimenti ereticali apparsi nel corso

del Medioevo avevano un carattere più o meno apertamente rivoluzionario;

dovevano cioè, in caso di presa del potere, distruggere l'ordine esistente e procedere

a un capovolgimento politico e sociale. Tutte le sette gnostiche - Catari e Albigesi,

perseguitati da una legislazione severa e spietata, e vittime di una repressione

cruenta - erano socialiste e comuniste. Esse attaccavano il matrimonio, la famiglia e

la proprietà».

Questi vari elementi sono ancora più evidenti nelle eresie apparse nel XVI secolo al

momento della Riforma. Citeremo solo un esempio: quello di Nicolas Storch (8) capo

dei «profeti di Zwickau». La sua dottrina (esposta in un'opera apparsa all'epoca)

sviluppa le seguenti tesi:

«1) Non bisogna sposarsi, né segretamente né pubblicamente ...

3) Ognuno può invece prendere tutte le donne che desidera se la sua carne l'esige e

la sua passione lo richiede, e vivere con loro nell'intimità che egli desidera.

4) Ogni cosa deve essere messa in comune, perché Dio ha egualmente inviato tutti

gli uomini sulla terra. A tutti egli ha egualmente donato in proprietà gli uccelli e l'aria

e i pesci dell'acqua.

5) Bisogna perciò spogliare tutti i poteri, spirituali e temporali, delle loro

prerogative oppure farli perire con la spada, dacché essi non fanno che vivere a loro

capriccio, bevendo il sangue e il sudore dei loro poveri sudditi, gozzovigliando e

facendo festa giorno e notte ...

Perciò tutti devono sollevarsi al più presto, dar piglio alle armi e attaccare i preti

nelle loro confortevoli dimore, ammazzarli e sterminarli tutti. Perché se si priva il

gregge della sua guida, poi sarà più semplice venire a capo delle pecore. Bisogna

attaccare gli sfruttatori, impadronirsi delle loro case, saccheggiare i loro beni, radere

al suolo i loro castelli».

c) L'apparizione del libro di Tommaso Moro, Utopia, nel 1516, segna l'inizio di una

nuova tappa nello sviluppo del pensiero socialista. Il procedimento adottato -

descrizione di uno Stato ideale fondato su principi socialisti - rinnova dopo

un'interruzione di duemila anni la tradizione platonica, ma le condizioni dell'Europa

occidentale dell'Età moderna sono completamente differenti. Le opere successive più

significative di questa tendenza saranno La città del sole del monaco italiano

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Tommaso Campanella (1602) e La legge della libertà di Gerard Winstanley,

contemporaneo della rivoluzione inglese (1652)9.

Dalla fine del XVII secolo e durante tutto il XVIII, le idee socialiste si diffondono

sempre più tra filosofi e scrittori, ispirando una vera e propria valanga di opere.

Nasce il «romanzo sociale», nel quale le storie d'amore, i viaggi e le avventure si

intrecciano alla descrizione di governi socialisti (ad esempio, La storia dei Sevarambi

di Vairasse, la Repubblica dei filosofi di Fontanelle, La scoperta australe di Rétif de

la Bretonne). I trattati filosofici, sociologici e morali che predicano le idee socialiste

sono sempre più numerosi (ad esempio il Testamento di Meslier, il Codice della

natura di Morelly, Dubbi sull'ordine naturale di Mably, Il vero sistema di

Deschamps, alcuni passaggi del Supplemento al viaggio di Bougainville di Diderot)10.

Tutte queste opere concordano su un punto fondamentale: la comunanza dei beni.

La maggioranza di esse vi aggiungono il lavoro obbligatorio e l'organizzazione di una

burocrazia che lo diriga (Moro, Campanella, Winstanley, Vairasse, Morelly), altri

descrivono un paese suddiviso in piccole comunità agricole governate dai membri più

esperti o più anziani (Meslier, Deschamps). Molti sistemi presuppongono l'esistenza

della schiavitù (Moro, Winstanley, Vairasse, Fénelon) e alcuni, in particolare Moro e

Winstanley, non la considerano solo una categoria economica, ma anche una misura

punitiva capace di mantenere la stabilità del corpo sociale. Sono frequenti le

descrizioni dei metodi grazie ai quali la società sottomette l'individuo. Moro, ad

esempio, parla di un sistema di lasciapassare indispensabile non soltanto per

viaggiare attraverso il paese, ma anche per fare una passeggiata in campagna, e

prescrive a tutti di portare abiti uguali e vivere in abitazioni che non si distinguano

una dall'altra. In Campanella, gli spostamenti si effettuano sempre in gruppo e la

colpa più grave che possa commettere una donna è di allungarsi l'abito o dipingersi il

viso. Morelly proibisce qualsiasi riflessione su temi sociali e morali. Deschamps

ritiene che la cultura, cioè l'arte, la scienza e perfino la letteratura spariranno per

conto loro.

L'esame delle modificazioni che devono subire la famiglia e i rapporti fra i sessi

occupano egualmente un posto importante, sia che si tratti di Campanella, di Rétif, di

Diderot o Deschamps. Campanella ipotizza un controllo assoluto della burocrazia in

questo campo. È essa a decidere la scelta che deve fare il tale uomo o la tale donna e

l'ora in cui devono dividere lo stesso letto. Perfino l'unione si compie sotto la

sorveglianza di funzionari. I figli vengono allevati dallo Stato. Deschamps ritiene per

parte sua che in uno stesso villaggio tutti gli uomini devono diventare

successivamente mariti di tutte le donne, e questo affinché i bambini ignorino chi

sono i loro genitori.

Si assiste alla nascita di una nuova concezione della storia dell'umanità. La mistica

del Medioevo considerava quest'ultima come un processo unico tendente alla

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scoperta di Dio in tre tappe successive. Ormai a questo punto di vista si sostituisce la

concezione di un processo storico sottomesso a leggi immanenti e comprendente

anch'esso tre tappe, delle quali l'ultima conduce inevitabilmente al trionfo dell'ideale

socialista (si vedano, tra altri, Morelly e Deschamps).

A differenza delle eresie del Medioevo, che attaccavano il solo cattolicesimo, le

nuove concezioni socialiste diventano progressivamente ostili nei confronti della

religione in genere. Socialismo e ateismo si confondono. In Moro la libertà di

coscienza si combina col riconoscimento del piacere come scopo supremo

dell'esistenza. In Campanella la religione ha il carattere di una divinizzazione

panteistica del Cosmo. Quanto a Winstanley, è ostile alla religione; i suoi «preti» non

sono altro che agita tori e propagandisti. Per Deschamps, la religione è condannata a

sparire con la cultura. Ma particolarmente aggressivo nei confronti della religione è il

Testamento di Meslier. La religione, secondo lui, sarebbe all'origine di tutti i mali

dell'umanità, sarebbe un'assurdità, una superstizione nociva. Meslier detesta

soprattutto il Cristo che ingiuria a lungo e al quale rimprovera perfino di essere

sempre stato «povero» e «incapace».

La fine del XVIII secolo vede nascere il primo tentativo di attuazione pratica

dell'ideologia socialista. Nel 1796 viene fondata a Parigi un'organizzazione segreta, la

«società degli Eguali», il cui scopo è preparare un colpo di Stato. Il complotto viene

scoperto e i suoi membri arrestati ma i loro progetti ci sono conosciuti grazie ai

documenti pubblicati e alle memorie dei superstiti.

Il primo scopo dei cospiratori è l'abolizione della proprietà individuale. Tutta

l'economia francese deve essere centralizzata. Il commercio è soppresso e lo Stato

s'assume il compito di rifornire la collettività. La burocrazia è onnipotente: «la patria

prende a suo carico l'individuo dal giorno della nascita a quello della morte». Ogni

individuo deve essere considerato come un funzionario che si sorveglia da sé e al

tempo stesso sorveglia il suo vicino. Il lavoro dovuto allo Stato è obbligatorio «i

fannulloni, i negligenti, i dissoluti o coloro che danno prova di scarse virtù civiche»

sono condannati ai lavori forzati. A questo scopo numerose isole vengono trasformate

in luoghi di reclusione.

I pasti sono in comune. Ogni spostamento non autorizzato è proibito. È instaurata la

censura e proibita la pubblicazione di opere «cosiddette di denuncia».

3) Teoria e pratica del socialismo

Possiamo ora tornare al problema fondamentale di questo lavoro. Per quanto breve

e frammentario sia stato il nostro excursus nella storia del socialismo, possiamo

tuttavia concluderne che il socialismo non è legato né a una determinata epoca né a

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un ambiente geografico né a una data cultura. Gli elementi che lo definiscono oggi li

abbiamo incontrati nelle condizioni storiche, geografiche e culturali più diverse, sia

nel programma politico degli Stati - abolizione della proprietà privata dei mezzi di

produzione, controllo della vita dei cittadini da parte dello Stato, sottomissione

dell'individuo al potere della burocrazia - che nell'enunciazione teorica delle dottrine:

distruzione della proprietà privata, della religione (11) della famiglia, del matrimonio,

e comunanza delle donne.

Questa conclusione non è nuova: numerosi lavori sottolineano il carattere socialista

di società come quello dell'impero Inca, del governo degli anabattisti a Munster e dei

primi Stati mesopotamici, e la storia delle dottrine socialiste ha già costituito l'oggetto

di un gran numero di studi monografici (alcuni, tra l'altro dovuti a dei socialisti).

Così R. Vipper scrive nel suo saggio sulla storia del socialismo contemporaneo: «Si

può ben dire che il socialismo ha la stessa età della società umana» (12).

Tuttavia, per quanto strano possa sembrare, questa osservazione non si applica

normalmente alla valutazione del socialismo come fenomeno storico. Se lo si facesse,

si dovrebbero riconsiderare radicalmente i principi fondamentali sui quali ci basiamo

per tentare di comprendere il fenomeno. Infatti se quest'ultimo è inerente a quasi tutte

le epoche e civiltà, la sua origine non può essere spiegata da nessuna causa legata alle

peculiarità di un'epoca o di una cultura: né dalle contraddizioni delle forze e dei

rapporti di produzione del capitalismo né dalle caratteristiche psicologiche di questo

o quel popolo, arabo o africano che sia. Tentare di ridurre un fenomeno di così vasta

portata alle dimensioni di un problema economico, storico o razziale, significa

deformarne irrimediabilmente le prospettive. Tenteremo dunque di affrontare la

questione partendo da un punto di vista opposto, considerando cioè il socialismo una

delle forze essenziali e universali che hanno costantemente agito ovunque nel corso

dell'intera storia dell'umanità.

Questo non basta evidentemente a chiarire il ruolo del socialismo nella storia. Per

comprenderlo occorre capire quale sia il suo scopo. Ma ci troviamo qui di fronte a

due diverse possibili risposte a seconda che consideriamo il socialismo un sistema di

governo o una dottrina. Mentre i governi socialisti (contemporanei o antichi) si

basano su un solo principio, quello della soppressione della proprietà privata, le

dottrine socialiste auspicano anche altre misure fondamentali come, ad esempio, la

distruzione della famiglia.

Abbiamo a che fare con due sistemi di idee, uno caratterizzante la «teoria

socialista», l'altro la «pratica socialista». Come conciliarli e quale dei due considerare

come autentica espressione degli scopi del socialismo?

La risposta più naturale (e che viene talvolta anche esplicitata) è la seguente: gli

slogan che proclamano la distruzione della famiglia e del matrimonio e, ancora più

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radicalmente, la comunanza delle donne, servono unicamente a far tabula rasa delle

strutture sociali esistenti, a suscitare il fanatismo e rinsaldare la coesione dei

movimenti socialisti. Essi non possono, in linea di principio, essere messi in pratica e

del resto non è questa la loro funzione: sono utili solo ai fini della presa del potere.

L'unico punto positivo di ogni dottrina socialista è quello dell'eliminazione della

proprietà privata. È questo il vero scopo. Di conseguenza quando si parla del ruolo

del socialismo nella storia, solo questo elemento deve essere preso in considerazione.

Questo punto di vista è radicalmente errato. Anzitutto un'ideologia come il

socialismo, capace di ispirare imponenti movimenti popolari, di avere i suoi santi e i

suoi martiri, non può essere fondata sulla menzogna e l'incoerenza. La Storia, al

contrario, ci mostra con quale franchezza e onestà i movimenti socialisti proclamano i

loro scopi. Se c'è inganno esso riguarda gli oppositori del socialismo ed è piuttosto un

autoinganno, un abbaglio. Quanto spesso si cerca di autoconvincersi che le posizioni

ideologiche più estreme sono il frutto dei demagoghi irresponsabili e fanatici! E poi

invece si scopre, e ci si meraviglia anche, che le azioni più incredibilmente

estremistiche non sono altro che l'attuazione di programmi apertamente esposti in

opere da tutti conosciute. Tutti i punti essenziali della dottrina socialista sono già

esposti nelle opere di pensatori «a tavolino» come Platone e Campanella, i quali non

sono mai stati legati a nessun movimento popolare. Chiaramente, in essi

l'elaborazione di questi principi è il risultato di una logica interna e di un'unità che

sono entrambe l'essenza dell'ideologia socialista. Non si può quindi dividere il

socialismo in due parti di cui una dovrebbe servire alla presa del potere per essere poi

rigettata.

In secondo luogo si comprende facilmente perché l'ideologia delle dottrine

socialiste supera - e di gran lunga - la pratica dei governi. Il pensatore e

l'organizzatore di un movimento popolare da una parte, l'uomo di Stato socialista

dall'altra, anche se professano un'ideologia comune, devono risolvere problemi

differenti e lavorare in ambienti differenti. Per il creatore o il predicatore è importante

spingere il proprio sistema fino alle sue conseguenze logiche estreme: soltanto allora

le idee esposte avranno il massimo impatto e la più grande influenza. Al contrario, un

capo di Stato deve pensare anzitutto al modo in cui conservare il potere. Egli è

costretto, sotto l'azione di determinate forze, ad allontanarsi dalla linea che si era

ripromesso di seguire, se non vuole veder minacciata l'esistenza stessa dello Stato

socialista. Non è un caso che nella lotta politica del nostro secolo si assista a un

fenomeno ricorrente: non appena una corrente socialista arriva al potere (o per lo

meno partecipa all'esercizio del potere), i suoi compagni meno fortunati la ricoprono

di anatemi e l'accusano di tradire l'ideale socialista; con la prospettiva di essere a loro

volta messi sul banco degli accusati qualora il successo arrida anche a loro.

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Ma il confine che separa gli slogan dottrinari dalla realtà di governo non esiste tra i

principi economici e le esigenze della lotta contro la famiglia e il matrimonio.

D'altronde, ogni Stato socialista realizza, in modo più o meno radicale a seconda dei

casi, le trasformazioni economiche che figurano nel suo programma.

Da noi, il periodo del «comunismo di guerra» costituì un drammatico tentativo di

attuazione integrale dei principi socialisti. Fu allora deciso di basare tutta l'economia

della Russia sullo scambio diretto dei prodotti, di sopprimere il mercato e la

mediazione del denaro, di introdurre il lavoro obbligatorio e la coltivazione in

comune delle terre e di sostituire al commercio dei prodotti agricoli la loro confisca e

ridistribuzione su scala nazionale. Il termine di «comunismo di guerra» potrebbe

indurci a credere che si trattasse di misure eccezionali dettate dalle esigenze della

guerra civile. Ma quando si avviò questa politica il termine non esisteva; esso

apparve solo dopo la guerra civile, vale a dire quando si ebbe rinunciato agli eccessi

giudicati temporanei del «comunismo di guerra».

Proprio nel momento in cui la guerra civile era praticamente vinta e in cui si

elaborava già un piano di gestione del paese adatto al tempo di pace, Trockij, a nome

del Comitato centrale, presentò al IX Congresso del partito il proprio programma di

«militarizzazione» dell'economia. Contadini operai mobilitati venivano trasformati in

soldati suddivisi in «unità di lavoratori ricalcati sul modello delle unità militari»

sottoposti a un comandante. Ognuno doveva considerarsi «un soldato del lavoro che

non è più libero di disporre di sé; se gli viene ordinato di lasciare il lavoro per un

altro, egli deve eseguire; in caso contrario diventa un disertore e viene punito».

A fondamento del suo piano, Trockij sviluppò la seguente teoria: «Se si prende per

oro colato il vecchio pregiudizio borghese - o piuttosto il vecchio assioma borghese

diventato pregiudizio - secondo il quale il lavoro forzato non è produttivo, si mette in

gioco l'intero sistema dell'armata del lavoro, dello stesso lavoro, l'intera base del

nostro sistema economico, e più in generale l'organizzazione socialista». Questo

«assioma borghese», fortunatamente, è vero solo in regime feudale e capitalista e non

è quindi applicabile al regime socialista: «Noi diciamo: è falso ritenere che il lavoro

forzato sia sempre improduttivo, indipendentemente dalle condizioni nelle quali si

svolge»,

Un anno dopo, il «comunismo di guerra» e la «militarizzazione» venivano sostituiti

dalla NEP a causa dello sfacelo, della fame e della rivolta che regnavano nelle

campagne. Tuttavia non vennero per questo rinnegate le concezioni precedenti, al

contrario: ci si limitò a dichiarare che la NEP era un ripiego temporaneo. E, in effetti,

quelle stesse idee continuarono a riemergere sia nella politica di Stalin che negli

interventi dell'opposizione. Li si trova esposti anche nell'ultima opera di Stalin, I

problemi economici del socialismo, in cui egli auspica una riduzione del commercio e

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della circolazione monetaria e la loro sostituzione con un sistema «di scambi di

prodotti» ...

L'ostilità del socialismo nei confronti della religione assume le stesse forme. Nel

1932 venne inaugurato il «Piano ateistico quinquennale»: in base a questo piano era

prevista la chiusura dell'ultima chiesa nel 1936; si contava anche, entro il 1937, di

ottenere che il nome di Dio non fosse più pronunciato da nessuno nel nostro paese.

Nonostante l'ampiezza inaudita che assunsero allora le persecuzioni, questo «Piano

ateistico quinquennale» non fu realizzato. Tutta una serie di fattori, come l'imprevista

risolutezza dei credenti disposti a sopportare qualsiasi tormento, l'apparizione di una

Chiesa ortodossa delle catacombe e la fermezza dei credenti delle altre confessioni, la

guerra, la rinascita impetuosa della vita religiosa nei territori occupati dai tedeschi,

obbligarono Stalin a rinunciare al suo piano di annientamento della religione e a

riconoscere a quest'ultima il diritto di esistere. Tuttavia, l'ostilità di principio nei

confronti della religione restò e si fece di nuovo sentire durante le persecuzioni

dell'epoca chruscjoviana.

Cerchiamo ora di affrontare il problema della famiglia e del matrimonio nell'ottica

socialista. I primi anni post-rivoluzionari (gli anni Venti) possono una volta di più

servirci da esempio.

Le concezioni marxiste sulle quali si basa la pratica di quegli anni sono

dettagliatamente esposte nel libro di Engels Origine della famiglia, della proprietà

privata e dello Stato. Esse riducono la famiglia a una «sovrastruttura» fondata su una

base economica. In particolare «la monogamia costituisce il risultato di una

concentrazione di grandi ricchezze nelle mani di un singolo, nella fattispecie nelle

mani dell'uomo, e deriva dalla necessità di trasmettere queste ricchezze in eredità ai

figli di quest'uomo con l'esclusione di ogni altro». Nella società socialista

«l'economia domestica privata si trasforma in una branca del lavoro collettivo. La

cura dei bambini e la loro educazione concernono tutti quanti». La famiglia perde in

questo modo ogni sua funzione sociale e si trova condannata, secondo il marxismo, a

sparire. Il Manifesto del partito comunista proclama il deperimento della «famiglia

borghese». Negli anni Venti, non si parla già più di deperimento, ma di morte tout-

court. In un libro intitolato Sociologia del matrimonio e della famiglia, pubblicato nel

1929, il professore S. Wolfson prevede che la famiglia perderà in definitiva tutte le

sue caratteristiche: funzione produttiva (il che si manifesta già in periodo capitalista),

economica (provvederà la società a nutrire gli individui), educati va (i bambini

verranno educati in istituti e pensionati appartenenti allo Stato) ... «svuotata di ogni

contenuto sociale, la famiglia si estinguerà a poco a poco» ...

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Le misure pratiche corrispondono alle proposizioni dell'ideologia. Così nelle Dieci

tesi sul potere sovietico, Lenin propone l'applicazione di «misure ferme e

sistematiche allo scopo di sostituire alle economie individuali, gruppi di famiglie che

si nutrono in comune». Ancora decenni dopo, saranno numerosi coloro che vivono in

appartamenti di coabitazione costruiti negli anni Venti senza cucina, in quanto era

allora prevista l'installazione di gigantesche «fabbriche-cucine». La legislazione del

matrimonio si riduce a una semplice formalità di consenso e il divorzio può essere

sancito in base a una semplice richiesta di una delle parti. «In certi casi da noi è più

semplice divorziare che farsi cancellare dal registro degli inquilini», poteva scrivere

un giurista. La famiglia è considerata dai militanti dell'epoca come un'istituzione

contraria alla società e allo Stato. Così, nel suo articolo I rapporti tra i sessi e la

morale, la Kollontaj (13) scrive: «La "fluidità" e la facilità delle relazioni tra i sessi

coincidono perfettamente con gli scopi principali della classe operaia, anzi ne

discendono addirittura». Sempre secondo la Kollontaj, la donna rappresenta la classe

operaia, e «deve anzitutto servire gli interessi della sua classe, e non quelli di una

cellula isolata».

Tutte queste idee incontrano un tale eco nella pratica che Lenin, lungi dal salutare

la distruzione della «famiglia borghese» preconizzata nel Manifesto del partito

comunista, osserva: «Sicuramente vi è nota la famosa teoria secondo la quale, nella

società comunista, il soddisfacimento dei propri bisogni sessuali e delle proprie

aspirazioni amorose è altrettanto facile che bere un bicchiere d'acqua. Questa teoria

del "bicchiere d'acqua" ha fatto perdere ogni ritegno alla nostra gioventù. Essa ha

avuto un pessimo influsso su molti giovani e ragazze. I suoi partigiani affermano che

essa sarebbe conforme al marxismo. Bel marxismo davvero!» (Clara Zetkin, Su

Lenin)14. Effettivamente, nell'inchiesta organizzata ad esempio all'Istituto comunista

Sverdlov, solo il 3,7 per cento delle persone interrogate indicano l'amore come

ragione del loro primo legame. Nella parte europea dell'URSS tra il 1924 e il 1925 la

percentuale dei divorzi aumentò di 1,3 volte. Nel 1924, su 1000 divorzi, il numero dei

matrimoni durati meno di un anno era di 260 a Minsk, 197 a Charkov, 159 a

Leningrado (a titolo di confronto: 80 a Tokyo, 14 a New York e 11 a Berlino).

È probabile, come dimostra questo precedente storico, che se le circostanze fossero

state più favorevoli, la distruzione della famiglia e la riduzione del matrimonio allo

stato di semplici relazioni (anche spirituali o magari solo fisiche?) sarebbero divenute

realtà. Comunque non è escluso che questo possa ancora realizzarsi in un prossimo

futuro: nessuno infatti vorrà più ormai sostenere che l'intromissione dello Stato nella

vita privata degli individui è un fatto inconcepibile! «Noi ci ingeriremo nelle

relazioni private tra uomo e donna solo nella misura in cui esse infrangeranno le

regole del nostro sistema sociale», scriveva Marx. Ma chi definirà queste regole? Il

professor Wolfson, nell'opera già citata, scrive «... Abbiamo fondati motivi per

ritenere che con il socialismo la procreazione smetterà di dipendere dal volere della

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natura ... Ma è, lo ripeto, l'unico aspetto del matrimonio che potrà, secondo me, essere

controllato dalla società socialista». Questo tipo di provvedimento fu effettivamente

adottato nella Germania nazionalsocialista sia per prevenire le nascite ritenute

indesiderabili per lo Stato che per assicurare una posterità conforme ai suoi desideri:

a questo scopo le SS avevano addirittura istituito un'organizzazione, la Lebensborn,

incaricata di scegliere per le donne non maritate dei riproduttori ariani, che venivano

selezionati da un apposito istituto. In Cina fu proclamata per un certo periodo quella

che doveva essere la norma per le famiglie: «avere un figlio è indispensabile, due è

auspicabile, tre è escluso». Si può ritenere che dietro alla parola «escluso», ci fossero

determinate misure amministrative.

Oggi viene generalmente riconosciuto che la crisi di sovrappopolazione costituisce

uno dei maggiori pericoli (forse il più terribile) che minacciano l'umanità. In una

simile situazione, la tendenza dello Stato a controllare le relazioni familiari rischia di

rivelarsi vincente. Arnold Toynbee, nell'opera An historian's approach to religion,

ritiene ad esempio che in un prossimo futuro l'ingerenza dello Stato nelle relazioni

umane più intime diventerà inevitabile, il che comporterà, negli Stati totalitari, una

restrizione delle libertà nella vita familiare non meno accentuata di quelle già in atto

in campo economico e politico. In questa prospettiva - e considerando anche che i

valori spirituali sui quali poteva appoggiarsi l'umanità appaiono sempre meno saldi -

ci sono notevoli possibilità che un giorno si realizzino le previsioni già formulate da

Platone e Campanella.

Questi e altri esempi ci portano a concludere che l'ideologia socialista è costituita

da un solo e unico insieme di nozioni unite tra loro da una logica interna.

Naturalmente il socialismo assume forme diverse a seconda delle condizioni storiche

nelle quali si manifesta, e subisce determinate influenze esterne. La cosa è del tutto

naturale: constateremmo lo stesso esaminando qualsiasi altro fenomeno di uguale

portata storica, ad esempio la religione. Siamo tuttavia in grado di isolare molto

nettamente, nel fenomeno socialista, una specie di nucleo e di formulare in modo più

o meno completo quell’«ideale socialista» che si manifesta costantemente nelle

situazioni più diverse e in forme più o meno modificate da apporti esterni.

Le teorie socialiste hanno sempre proclamato questo ideale nelle forme più radicali.

La storia degli Stati socialisti è invece una sequela di tentativi intesi ad avvicinarsi a

un certo ideale estremo che non si è ancora mai realizzato nella sua integralità ma che

può essere ricostruito a partire dalle approssimazioni successive. Questo ideale

vagheggiato dagli Stati socialisti coincide con quello delle dottrine socialiste;

possiamo dunque constatare che si tratta di un unico e solo ideale socialista.

4) L'ideale socialista

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Possiamo a questo punto formulare senza fatica questo ideale.

Precetti fondamentali del socialismo come la distruzione della proprietà privata,

della religione, della famiglia, sono stati proclamati numerose volte. Per contro si

sente parlare meno spesso di un altro precetto, anch'esso ben noto ed essenziale:

l'esigenza di eguaglianza, la soppressione di ogni gerarchia all'interno della società.

Nell'ideologia socialista questo concetto dell'eguaglianza ha un carattere molto

particolare ed è eccezionalmente importante per la comprensione del socialismo. Nei

sistemi socialisti più coerenti, l'eguaglianza è così radicale che arriva fino alla

negazione di ogni differenza apprezzabile tra gli individui: «eguaglianza» diventa

allora sinonimo di «identità». Ad esempio, L. Mumford (nel suo libro Il mito della

macchina) pensa che nella società egizia o nella società dei primi Stati mesopotamici

gli abitanti costituissero in un certo senso gli ingranaggi di una macchina. A sostegno

di questa tesi egli si riferisce ai disegni dell'epoca che rappresentano guerrieri e operai

in modo affatto stereotipo, proprio come gli elementi di una macchina.

Dostoevskij, nei Demoni, dà una descrizione ormai classica della concezione

socialista dell'eguaglianza; si tratta di quella particolare utopia socialista battezzata

«sigalevismo» (15) i cui principi fondamentali sono esposti in questo modo:

«La sete d'istruzione è una sete aristocratica. Il desiderio della proprietà si

manifesta non appena appaiono la famiglia e l'amore. Noi uccideremo questo

desiderio: svilupperemo l'ubriachezza, la calunnia, la delazione; tufferemo gli uomini

in una dissolutezza mai vista; soffocheremo il genio sul nascere. Tutto sarà ridotto

allo stesso comune denominatore, sarà l'eguaglianza completa.»

«Ognuno appartiene a tutti, e tutti a ciascuno. Tutti gli schiavi sono eguali nella

schiavitù. Nei casi estremi si fa ricorso alla calunnia e all'assassinio, l'essenziale è

l'eguaglianza. Anzitutto si deve abbassare il livello dell'istruzione, delle scienze e dei

talenti. Un livello elevato è accessibile solo ai talenti, dunque non devono esserci

talenti! Gli uomini di talento si impadroniscono sempre del potere e diventano dei

despoti. Essi non possono non essere despoti; essi sono sempre stati più nocivi che

utili; bisogna dunque bandirli o metterli a morte. Cicerone avrà la lingua tagliata,

Copernico gli occhi trafitti, Shakespeare verrà lapidato: ecco cos'è lo "sigalévismo"!

Gli schiavi devono essere uguali: senza dispotismo non c'è mai stata né libertà né

uguaglianza; ma ora l'eguaglianza deve regnare nel branco, ecco lo sigalevismo!»

I fautori del socialismo di solito dichiarano che I demoni sono solo una parodia, una

calunnia del socialismo. Ci arrischieremo allora a riportare qualche altra citazione

non lontana, come spirito, dalle precedenti:

«Il comunismo che nega sempre e ovunque la personalità dell'uomo è soltanto

l'espressione logica di questo sentimento della proprietà privata, che della personalità

è appunto la negazione».

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«... Egli sopravvaluta a tal punto il ruolo e la supremazia della proprietà materiale

che vuole distruggere tutto quanto non può divenire appannaggio della proprietà

privata di tutti; egli vuole eliminare il talento con mezzi violenti, ecc.»

«... Infine, questo movimento che tende a opporre alla proprietà privata una

proprietà privata universale cade ben in basso quando oppone al matrimonio (che è

evidentemente una certa forma di proprietà privata esclusiva) la comunanza delle

donne, facendo di queste, conseguentemente, la vile proprietà di tutti.»

«Allo stesso modo che la donna lascia il matrimonio per il regno della prostituzione

universale, così il mondo della ricchezza, quello cioè dell'essenza oggettiva

dell'uomo, passa dallo stato di matrimonio esclusivo con un proprietario a quello di

prostituzione universale con la collettività.»

Vorrei che prima di leggere la risposta il lettore tentasse di indovinare chi è l'autore

di queste brillanti considerazioni: K. Marx, nei lavori preparatori alla Sacra famiglia

(pubblicati dopo la morte)! Affrettiamoci ad aggiungere, per rassicurare il nostro

lettore, che secondo Marx il comunismo si manifesta così solo «nei primi tempi». Più

in là esso diventa quel comunismo della «distruzione positiva della proprietà privata»

di cui Marx prevede scientificamente le modalità. È in tal modo, ad esempio, che

ogni oggetto diventerà «oggetto umano o uomo oggettivato»; «l’uomo rientra in

possesso della propria molteplice essenza con molteplici mezzi, e facendo ciò agisce

come uomo integrale».

Ricordiamo anche l'esempio della «società degli Eguali» per la quale il concetto di

eguaglianza era fondamentale:

«Ciò che noi vogliamo è l'eguaglianza o la morte.»

«Per questo siamo pronti a tutto, siamo disposti a spazzar via ogni cosa. Se è

necessario spariscano anche tutte le arti purché noi si abbia una vera eguaglianza.»

Constatiamo, a proposito di questa nozione di eguaglianza, che c'è una stupefacente

concordanza tra socialismo e religione. Entrambi sono costituiti da identici elementi

che assumono in differenti contesti un senso opposto. «V'è tra di essi una

convergenza dei contrari simile a quella dei due poli», nota Berdjaev a proposito di

cristianesimo e marxismo. Anche la religione è fondata sul concetto dell'eguaglianza

tra gli uomini, ma essa non può essere realizzata se non in un rapporto con Dio, vale a

dire al livello più elevato dell'essere. Il socialismo, come indicano chiaramente gli

esempi citati, tende invece a realizzare l'eguaglianza col procedimento inverso,

distruggendo tutto ciò che vi è di più elevato nell'uomo. Tutti i principi socialisti

come la comunità dei beni o la distruzione della famiglia possono essere ricondotti a

questa concezione dell'eguaglianza; con essa si spiega anche quell'odio per la

religione che impregna tutta l'ideologia socialista.

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Possiamo dunque formulare nel modo seguente l'insieme delle idee fondamentali

che, da millenni, sono alla base dell'ideologia socialista e che costituiscono ciò che

possiamo definire come ideale socialista: eguaglianza e distruzione d'ogni gerarchia,

distruzione della proprietà privata, distruzione della religione, distruzione della

famiglia.

Il ritratto che ce ne fornì Dostoevskij era tutt'altro che una parodia:

Liquidare i signori

Sopprimere l'impero

Far comuni i beni,

Abolir per sempre

Chiese, nozze e famiglia,

Obbrobrio del vecchio mondo! (16)

5) Dove porta il socialismo?

Siamo dunque giunti alla conclusione che esiste un unico ideale proclamato da tutte

le dottrine socialiste e messo in pratica - in maggiore o minore misura - dagli Stati

socialisti. Ora ci sforzeremo di comprendere quali cambiamenti fondamentali si

verificherebbero nella vita se questo ideale arrivasse a realizzarsi. Descriveremo a

questo fine lo scopo del socialismo e il suo ruolo nella storia.

Grazie alla varietà dei sistemi socialisti e all'esistenza di Stati socialisti, abbiamo la

possibilità di raffigurarci il modo in cui questi principi generali si concretizzano.

L'immagine che ci appare - benché a prima vista strana e poco rassicurante - non è

per questo meno coerente, verosimile e in sé stessa perfettamente logica.

Immaginiamoci un mondo nel quale tutti, uomini e donne, sono «militarizzati»,

trasformati in soldati. Questi uomini e donne vivono in convitti o baracche comuni,

lavorano sotto la direzione di capisquadra, consumano i pasti in mense comuni e

trascorrono anche le ore di riposo con la squadra alla quale appartengono. Per uscire

di notte, fare una passeggiata o una gita in un'altra località occorre un lasciapassare.

Tutti sono vestiti allo stesso modo, c'è poca differenza tra l'abbigliamento degli

uomini e quello delle donne, si distinguono solo le uniformi dei capi. La procreazione

e le relazioni sessuali sono soggette all'insindacabile controllo delle autorità. Non c'è

spazio per la famiglia, il matrimonio, l'educazione familiare dei figli. I bambini non

sanno chi siano i loro genitori e vengono allevati dalla collettività. Nel campo

dell'arte è ammesso solo ciò che può contribuire a educare i cittadini nello spirito

desiderato dallo Stato, tutto il resto viene annientato.

Ogni riflessione è proibita, sia nel campo della filosofia, della morale che

soprattutto della religione: di quest'ultima si conserva solo la confessione ai superiori

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e l'adorazione del capo dello Stato trasformato in divinità. La disobbedienza è punita

con la schiavitù che gioca un ruolo importante nell'economia. Ci sono molte altre

forme di punizione, ma il condannato è tenuto comunque a pentirsi e a ringraziare i

propri carnefici. Il popolo partecipa alle esecuzioni (manifestando pubblicamente il

proprio assenso o lapidando il colpevole). Anche la medicina partecipa

all'eliminazione degli indesiderabili.

Tutto ciò non è affatto tratto dai romanzi di Zamjatin, Huxley o Orwell, ma da

teorizzazioni socialiste che tutti conoscono o dalla realtà degli Stati socialisti

esistenti; ci siamo comunque attenuti solo agli elementi più tipici e ricorrenti.

Quali sarebbero le conseguenze dell'attuazione di un simile regime universale, che

direzione imprimerebbe alla storia dell'umanità? Ponendoci quest'interrogativo, non

ci ripromettiamo di sapere in quale misura la società socialista sarà capace di

mantenere il livello di vita della popolazione, assicurargli cibo, vestiario e alloggio o

di difenderla contro le epidemie o altri flagelli naturali. Per quanto si tratti di

problemi assai complessi, essi restano tuttavia secondari. Il problema fondamentale è

che l'instaurazione di un regime che realizzi completamente i principi del socialismo

comporterebbe un totale cambiamento dei rapporti fra l'uomo e la vita e una

trasformazione radicale della struttura dell'individuo.

Le relazioni tra gli individui costituiscono una delle caratteristiche fondamentali

della società umana. Come hanno dimostrato importanti ricerche realizzate negli

ultimi decenni dagli etologi (studiosi della psicologia del comportamento), si tratta di

un fenomeno molto antico, precedente alla stessa apparizione dell'uomo. Ci sono

numerose varietà di animali sociali e le società che formano si dividono in due tipi: le

società anonime e le società individualizzate. Nelle prime (ad esempio nei banchi di

aringhe) i membri non si conoscono individualmente e sono intercambiabili nei loro

rapporti. Nelle seconde, al contrario (per esempio negli stormi di oche selvatiche), si

stabiliscono dei rapporti in funzione dei quali ogni membro ha nella vita dell'altro un

ruolo particolare e insostituibile. L'esistenza di tali rapporti determina in un certo

senso l'individualità. Uno degli scopi del socialismo è proprio di distruggere questi

rapporti individuali: rapporti tra marito e moglie, tra figli e genitori. Nei lavori degli

etologi è stupefacente la constatazione che tra gli elementi fondamentali sui quali si

fondano le società individuali si ritrovano sempre la gerarchia e la proprietà del

territorio. Anche nella società umana la gerarchia e la proprietà, anzitutto della casa e

di un pezzo di terra, contribuiscono al rafforzamento dell'individualismo: esse

assicurano a ognuno nella vita un posto che nessuno contesta e creano un sentimento

d'indipendenza e di dignità personale, due realtà che il socialismo cerca

tendenzialmente di far scomparire.

Beninteso solo il fondamento della società umana ha questa origine biologica. Le

forze che contribuiscono allo sviluppo dell'individualità sono per sé specificamente

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umane. Si tratta della religione, della morale, del sentimento che si ha di partecipare

personalmente alla storia, la responsabilità che ci lega al destino dell'intera umanità.

Il socialismo è ostile anche a queste forze. Abbiamo già citato numerosi esempi di

questo odio caratteristico nei confronti della religione. Le dottrine più esplicite

sostengono che i fattori che governano la Storia sono indipendenti dalla volontà

dell'uomo il quale non sarebbe altro che il prodotto dell'ambiente sociale; questo

libera l'uomo dalle responsabilità che invece gli attribuiscono la religione e la morale.

Infine il socialismo è direttamente ostile allo stesso fenomeno dell'individualità

umana. Fourier sostiene per esempio che alla base del futuro regime socialista ci sarà

un sentimento nuovo (una «passione»): l'uniteismo. Egli non può per il momento che

definirne l'antitesi: «questa tendenza ripugnante è chiamata in vari modi del mondo

degli scienziati: per i moralisti è l'egoismo, per gli ideologi l’"Io", parola nuova che

tuttavia non porta niente di nuovo e che si limita a parafrasare inutilmente

l’egoismo».

Marx, constatando che dopo aver ottenuto le libertà democratiche la società è

rimasta cristiana, conclude che essa resta afflitta da una specie di «imperfezione»

dovuta secondo lui al fatto che «... l'uomo, non inteso in generale, ma qualsiasi uomo,

l'uomo non allo stato sociale ma in quello dell'incultura, preso a caso nella sua

esistenza, così com'è nella vita; si considera come un essere superiore, sovrano ...».

Scopriamo perfino in Bebel (17) nel quale l'esperienza parlamentare e il gusto del

potere avrebbero pur dovuto temperare un poco il radicalismo ideologico, delle

descrizioni di questo tipo: «nella nuova società, non potranno esserci differenze tra

"fannulloni" e "studiosi", tra stupidi e intelligenti perché ciò che noi intendiamo con

questi termini avrà smesso di esistere»,

Si è detto e ridetto che il socialismo porta all'annullamento dell'individuo. Tuttavia

molti hanno voluto vedere in ciò soltanto un mezzo che permette di raggiungere degli

obiettivi come, ad esempio, lo sviluppo dell'economia, il bene del popolo, il trionfo

della giustizia o il benessere materiale universale. È, tra gli altri, l'opinione di S.

Bulgakov che avvicina il socialismo alla prima tentazione del Cristo: «trasformando

le pietre in pane», il socialismo cerca di ridurre tutti gli scopi dell'umanità alla

soluzione di compiti puramente materiali. In realtà, tutta la storia del socialismo

contraddice questa immagine. Le dottrine socialiste, ad esempio, manifestano un

interesse straordinariamente modesto nei confronti dei problemi di una lotta

immediata contro l'ingiustizia e la povertà, esse considerano tutti gli sforzi che si

possono fare in questo campo alla stregua di «carità borghese», «riformismo»,

«psicologia degna dello zio Tom»; la soluzione di tutti questi problemi è rimandata al

trionfo dell'ideale socialista. Come sempre, il più sincero è Necaev (18): «il governo

probabilmente non si arrischierà a ridurre le imposte o a prendere analoghe

simpatiche misure. In caso contrario sarebbe una iattura perché nella situazione

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presente il popolo non è affatto propenso a sollevarsi, e se si alleggerisse anche di

poco la sua miseria materiale, se gli si desse anche una sola vacca, ci toccherebbe poi

aspettare ancora per dieci anni e tutto il nostro lavoro andrebbe in niente. No, noi

dobbiamo al contrario opprimere il popolo, come fanno i datori di lavoro».

Contrariamente a ciò che alcuni pensano è dunque per mezzo delle esigenze

economiche e sociali che il socialismo può raggiungere il suo scopo essenziale, vale a

dire la distruzione dell'individuo. Come ha mostrato l'esperienza la maggior parte dei

principi strettamente economici proclamati dal socialismo, come ad esempio la

pianificazione, non hanno organicamente niente a che vedere con esso, ed esso stesso

si dimostra scarsamente adatto alla loro applicazione.

Una volta distrutta l'individualità dell'uomo in ciò che ha di più essenziale, quale

può essere l'influenza di questo cambiamento d'atmosfera spirituale sulla vita?

Un tale capovolgimento significherebbe la distruzione dell'Uomo, perlomeno nel

senso che abbiamo finora attribuito a questo termine. Una distruzione non solamente

astratta, ma anche concreta. Citiamo, a titolo d'esempio, il conflitto che oppose i

popoli primitivi alla civilizzazione europea: il processo, benché di dimensioni più

ridotte, è analogo. La maggior parte degli etnografi concorda nel ritenere che la causa

principale dell'estinzione di numerosi popoli primitivi risieda non nella loro

decimazione a opera degli europei o nell'introduzione a opera dei bianchi

dell'alcolismo e delle malattie, ma nella distruzione del loro universo religioso, dei

loro riti e di tutto quel tipo di vita che dava un senso alla loro esistenza. Il

miglioramento delle condizioni di vita, l'assistenza medica, lo sviluppo di nuove

tecniche agricole e di allevamento, la diminuzione delle guerre tribali non

modificarono la situazione. Gli indigeni divennero apatici, invecchiarono più

rapidamente; persero ogni stimolo e dinamismo e finirono per soccombere a delle

malattie che prima sopportavano più facilmente. Il tasso di natalità decresceva

rapidamente e la popolazione diminuiva.

Sicuramente, l'attuazione degli ideali socialisti porterebbe allo stesso risultato con

la differenza che dei cambiamenti più radicali porterebbero a risultati di ampiezza

universale e si tradurrebbero nel deperimento dell'intera umanità, nella Sua morte.

Siamo evidentemente in presenza di un legame interiore e organico: il socialismo

tende a distruggere tutti gli aspetti della vita che costituiscono il vero fondamento

dell'esistenza umana. Di conseguenza, noi riteniamo che la morte dell'umanità non

possa essere altro che il risultato inevitabile e logico dell'ideologia socialista e che

questa possibilità non sia affatto ipotetica ma già si manifesti più o meno

evidentemente in ogni movimento e in ogni Stato socialista a seconda che questo o

quello si mantengano più o meno fedeli all'ideale socialista.

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6) La forza motrice del socialismo

Se questo è il risultato oggettivo al quale porta il socialismo, qual è il suo scopo

soggettivo: cos'è a ispirare tutti questi movimenti, a renderli forti? Il quadro che

vediamo delinearsi al termine delle nostre riflessioni assomiglia molto a una

contraddizione: l'ideologia socialista la cui completa realizzazione porta alla rovina

dell'umanità, tuttavia per interi millenni ha ispirato filosofi e sollevato larghi

movimenti popolari. Come mai non s'è mai capito quale fosse lo scopo finale e, se lo

si è capito, perché non s'è cambiato strada? Quale errore del pensiero o aberrazione

dei sentimenti spingono dunque gli uomini a intraprendere una via al termine della

quale li attende la morte?

La contraddizione è probabilmente solo apparente. Spesso, nel corso dei nostri

ragionamenti, esprimiamo macchinalmente una supposizione che ci pare tanto

scontata che non ci facciamo neanche caso, mentre è proprio in essa che risiede la

contraddizione. È il caso, mi sembra, di quando noi facciamo la seguente

supposizione: tutti gli uomini avrebbero voltato le spalle al socialismo se si fossero

resi conto del suo carattere deleterio per l'umanità. Per quanto strano possa sembrare

a prima vista, più si conosce l'ideologia socialista e più ci si può convincere che non

vi è né errore, né aberrazione di sorta: tutti coloro che studiano da vicino il socialismo

avvertono, inconsciamente o semincoscientemente, il legame organico che lo collega

con la morte, ma non ne sono minimamente spaventati; al contrario, questo legame è

all'origine dell'attrattiva che esercitano i movimenti socialisti, ne costituisce la forza

motrice. Naturalmente questa deduzione non può essere dimostrata con gli strumenti

della logica, ma unicamente riferendosi alla letteratura socialista e alla psicologia dei

movimenti socialisti. Dovremo accontentarci, in questa occasione, di alcune

illustrazioni sparse.

Quando, ad esempio, Necaev invita i giovani a entrare nella rivoluzione ma li

avverte, d'altra parte, che «una morte anonima è la prospettiva della maggior parte dei

rivoluzionari» (e questa profezia è una delle poche che si sono pienamente

realizzate!) in che cosa consiste l'attrattiva del suo richiamo? Egli non può, è vero,

richiamarsi a Dio, all'anima immortale, al patriottismo e neanche al sentimento

dell'onore poiché, «per diventare un buon socialista», egli propone precisamente di

rinunciare «ai genitori, agli amici, all'amore, alla riconoscenza e perfino all’onore».

Si sente chiaramente, davanti ai suoi proclami e a quelli di Bakunin, che ciò che li

attirava entrambi e contagiava i loro contemporanei non era altro che una specie di

vertigine della morte, di «impeto distruttore», «assoluto ed esclusivo». In questo

incendio, ogni cosa era condannata a bruciare; tutta la generazione dei loro

contemporanei rivoluzionari, contaminati dalle «sordide condizioni dell’esistenza»,

era capace di questo solo: annientare ed essere annientata. Questo era l'unico scopo di

Bakunin; non solo gli ideali positivi erano assenti ma era perfino proibito pensarli:

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«ci rifiutiamo recisamente di elaborare le condizioni della vita futura», «non

vogliamo illuderci immaginando che avremo forze sufficienti per costruire».

In URSS, gli uomini della nostra generazione (e, prima di loro, i giovani della

guerra civile e le «guardie rosse») si ricordano ancora le parole che cantavamo con

entusiasmo quando, pionieri, marciavamo in colonna:

Andiamo a combatter con coraggio

A difender dei soviet il potere

E moriamo come un sol uomo

Lottando per la sua causa!!!

Proprio questo moriamo come un sol uomo accendeva tutti quanti di entusiasmo e

di slancio collettivo.

Ecco come i tre scrittori socialisti più conosciuti del secolo scorso si immaginavano

l'avvenire del genere umano: secondo Saint-Simon, la fine dell'umanità sarà causata

dal prosciugamento del globo terrestre; Fourier, invece, l'attribuisce all’«arresto del

movimento rotatorio e al rovesciamento dei poli sull’equatore»; ed Engels al

raffreddamento del nostro pianeta.

Dubito fortemente che si possa ravvisare in queste previsioni il risultato del lavoro

di uno spirito scientifico costretto a inchinarsi davanti alla verità, per quanto sia dura

la sua sentenza; comunque non possono essere tutte e tre vere contemporaneamente

(19).

Anche la religione prevede la fine del mondo, ma solo dopo che avrà raggiunto il

suo scopo ultimo, che è il senso della sua storia. Invece il socialismo (obbedendo al

principio della similitudine dei contrari) fa dipendere la fine dell'umanità da una

causa esteriore e accidentale, togliendo così ogni senso alla sua storia.

I capi dei movimenti socialisti prevedono con uno stupefacente sangue freddo, e

talvolta perfino con malcelata soddisfazione, la fine, se non di tutta l'umanità,

perlomeno di una sua grande parte in un futuro molto prossimo. Il presidente Mao ad

esempio ebbe un giorno ad affermare che la scomparsa della metà della popolazione

del globo terrestre poteva essere considerata un prezzo ragionevole per la vittoria del

socialismo nel mondo. All'inizio del XIV secolo, Dolcino, capo dei Patarini in Italia,

predisse la fine prossima di tutta l'umanità citando le parole del profeta Isaia: «non ne

resterà che un numero insignificante».

Numerosi sintomi indicano che questo gusto dell'autodistruzione non è

completamente estraneo all'uomo: così è ad esempio per il buddismo, religione

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pessimista il cui scopo ultimo è la fusione dell'umanità con il Nulla, il Nirvana; per la

filosofia di Lao-Tzu che predica il nulla finale; per il sistema filosofico di Hartmann

(20) che predice l'autodistruzione cosciente dell'umanità; per l'apparizione, in varie

epoche, di tendenze scientifiche e filosofiche volte a dimostrare che l'uomo è una

macchina, ecc.

La biologia ha attirato da molto tempo la nostra attenzione sul ruolo fondamentale

che questo desiderio di autodistruzione ha nella vita. Freud, d'altra parte, vi vede una

delle forze essenziali che determinano la vita psichica dell'uomo (egli la denomina

istinto di morte o Thanatos).

Convinciamoci che non potremo comprendere il socialismo, che conquista e

sottomette alle sue leggi milioni di uomini e il cui scopo ideale è la morte

dell'umanità, fintanto che non avremo ammesso che tutte le idee che esso difende

sono applicabili al campo dei fenomeni sociali, in altre parole che il desiderio di

autodistruzione e l'istinto di morte fanno anch'essi parte delle forze che

sovraintendono allo sviluppo della storia.

Il comprendere questo desiderio come una forza analoga all'istinto ci dà anche la

possibilità di spiegare certe particolarità del socialismo. Le manifestazioni dell'istinto

sono sempre legate al campo delle emozioni, l'azione istintiva suscita un sentimento

di soddisfazione profonda, di intensa emozione e, nell'uomo, un sentimento di

entusiasmo e di felicità. Questo spiega l'attrattiva che esercita l'ideologia socialista, lo

stato di esaltazione e di ardore spirituale nel quale vivono i capi e gli adepti del

socialismo, la loro inesauribile riserva di energie. Il socialismo presenta quel carattere

contagioso che è tipico di molte manifestazioni istintive.

Le facoltà di apprendere, comprendere e giudicare una data situazione, al contrario,

sono quasi incompatibili con l'attività dell'istinto. Abitualmente l'influenza dell'istinto

ottunde nell'uomo le risorse del suo spirito critico; tutti gli argomenti che vanno

contro gli scopi che quest'istinto cerca di realizzare non solo vengono rifiutati ma

disprezzati e sminuiti. Tutti questi elementi li ritroviamo nell'ideologia socialista.

All'inizio di questo lavoro, abbiamo notato che il socialismo sembrava voler

respingere ogni discussione razionale. A più riprese abbiamo constatato che le

contraddizioni connaturate alle dottrine socialiste non ne diminuivano per questo la

forza d'attrazione; d'altra parte, di solito, gli ideologi del socialismo non temono le

contraddizioni.

Nel XIX secolo, una dottrina come quella di Fourier non poteva nascere e

guadagnare tanti discepoli se non nell'ambito del socialismo: il sistema fourierista

attribuisce un ruolo fondamentale alla vita sessuale dei pianeti (il polo Nord,

portatore del fluido maschile, s'unisce al polo Sud, portatore del fluido femminile) e

predice per esempio che nel futuro regime socialista l'acqua dei mari e degli oceani

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saprà di limonata, o ancora che gli animali marini saranno sostituiti da antibalene e

antisquali in grado di trasportare a gran velocità le mercanzie da un continente

all'altro... (21). Tutto questo ci sembrerà meno incredibile se ci ricorderemo che la

conversione dell'ideologia socialista al razionalismo non risale a più di due secoli fa.

Ed è solo recentemente (in rapporto alla Storia) che il socialismo, nella sua forma

marxista, è divenuto scientifico. Il breve periodo del «socialismo scientifico» si sta

però concludendo sotto i nostri occhi; l'aggettivo scientifico non accresce più il

prestigio delle idee socialiste, e il socialismo stesso lo rigetta. Herbert Marcuse nel

suo libro La fine dell'utopia dichiara che attualmente la «sinistra d'avanguardia»

considera Fourier più attuale di Marx, proprio a motivo del carattere più utopistico

della sua dottrina. Egli invita a sostituire il socialismo che va «dall'utopia alla

scienza» con un socialismo che va «dalla scienza all’utopia».

Tutto questo mostra che la forza del socialismo non agisce attraverso la ragione, ma

che è più simile a un istinto, il che spiega come mai l'ideologia socialista sia così

incapace di reagire ai risultati dell'esperienza, o, come dicono gli etologi, sia incapace

di apprendere. Il ragno che tesse la sua tela compirà tutti i 6400 movimenti necessari

all'operazione anche se, poniamo, a causa del calore, le sue ghiandole si disseccano e

smettono di secernere i fili. Ma l'esempio dei socialisti che, con lo stesso

automatismo, costruiscono per l'ennesima volta, con le loro ricette, una società di

eguaglianza e giustizia, è ancora più drammatico: si direbbe che per loro i precedenti,

che hanno invariabilmente portato sempre allo stesso risultato, non sono neppure

esistiti. Essi rifiutano un'esperienza millenaria e la sostituiscono con dei cliché che

sfidano il buon senso, pretendendo ad esempio che tutti i modelli socialisti che ci

hanno preceduto o che sono stati realizzati dall'altra parte del pianeta siano falsi e che

invece, nelle condizioni particolari del nostro paese, tutto sarebbe diverso, ecc. ecc.

Identificazione del socialismo con la giustizia sociale, fede nel suo carattere

scientifico: queste sono le spiegazioni che si possono dare del persistere dei

pregiudizi e delle opinioni favorevoli a questa dottrina. Accettate senza essere

sottoposte a verifica, esse si radicano negli spiriti come verità assolute.

L'epoca di crisi nella quale viviamo sottolinea ancora maggiormente la profondità e

la complessità dei problemi coi quali si è scontrata l'umanità: una forza potente le si

oppone, la minaccia nella sua esistenza e paralizza l'arma più sicura di cui dispone -

la ragione.

______________________

Note

1 Questo articolo riassume le conclusioni cui l'autore è pervenuto al termine di uno studio più vasto

consacrato all'argomento. A esso rinviamo il lettore che desideri approfondire le considerazioni e i

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fatti sui Quali si basano le nostre deduzioni. [Lo studio al Quale si riferisce Safarevic è apparso

anche in traduzione italiana col titolo Il socialismo, Milano 1980. N.d.C.]

2 Sergej Nikolaevié Bulgakov (1871-1944) è, con Nikolaj Berdjaev, il rappresentante più tipico di

quella corrente del pensiero russo che, dall'iniziale marxismo, giunse a un idealismo d'ispirazione

platonica e plotiniana nella linea di Schelling, Hegel, Schopenhauer. [N.d.C.]

3 È interessante, in rapporto a questa delicata questione, seguire l'evoluzione degli atteggiamenti

attraverso le varie traduzioni del Manifesto. Nell'edizione sovietica del 1929 delle opere di Marx ed

Engels leggiamo: «Tutt'al più si può rimproverare ai comunisti il fatto che vogliano sostituire a una

comunanza delle donne ipocritamente dissimulata una comunanza esplicita e ufficiale».

Nell'edizione del 1955 invece di «vogliano» c'è già «vorrebbero».

4 Vere Gordon Childe (1892-1957), archeologo australiano, diresse l'Istituto di archeologia di

Londra. Tra le opere, Il progresso nel mondo antico, 1944. [N.d.C.]

5 Begardi: apparsi nel secolo XII, si diffusero in quel secolo e nel successivo dal Belgio e dalle

Fiandre in Germania, Francia, e Italia: predicavano il ritorno alla perfezione evangelica. Dalle

iniziali comunità di devoti e mistici (beghini e beghine), diffondendosi assunsero coloriture eretiche

confondendosi coi «Fraticelli» e i «Fratelli apostolici»; uno dei capi di quest'ultima, fra Dolcino,

finì arso sul rogo nel 1307. La dottrina dei begardi venne condannata al Concilio di Vienna del

1313. [N.d.C.]

6 Patarini: denominazione dei membri di una associazione cristiana (pataria) fondata a Milano dopo

il 1045 e divenuta presto un vasto movimento di clero e di popolo diretto soprattutto a riformare la

vita ecclesiastica che entrò in conflitto con le autorità ecclesiastiche e civili; nei secoli successivi il

termine indicò impropriamente i membri di movimenti ereticali italiani di origine prevalentemente

catara. [N.d.C.]

7 Taboriti: costituiscono la frazione radicale degli hussiti (discepoli di Jan Hus, riformatore

religioso ceco) che si formò a Tabor, nella Boemia del Sud, dopo il 1420; furono sgominati dai

cattolici nel 1434. [N.d.C.]

8 Nicolas Storch, predicatore religioso tedesco morto a Monaco nel 1525. fu uno dei fautori della

Guerra dei contadini. [N.d.C.]

9 Gerard Winstanley fondò nel 1649 una setta comunista agraria nel Lancashire: i diggers. [N.d.C.]

10 Il titolo completo dell'opera dell'utopista francese Denis Vairasse d'Alais, apparsa tra il 1677 e il

1679, è Storia dei popoli che abitano una parte del terzo continente comunemente noto come terra

australe, contenente un resoconto esatto del governo, dei costumi, della religione e della lingua di

questa nazione finora sconosciuta ai popoli d'Europa; Il Testamento di Iean Meslier (1664-1729)

venne pubblicato da Voltaire e d'Holbach tra il 1762 e il 1772; La Verità o il vero sistema, del

benedettino dom Léger Marie Deschamps (1716-1774), inedita anche in Francia, è stata tradotta e

pubblicata in Russia nel 1930; quanto all'opera (1768) di Gabriel Bonnot de Mably (1709-1785), il

titolo completo è Dubbi proposti ai filosofi economisti sull'ordine naturale ed essenziale delle

società politiche. [N.d.C.]

11 L'ideologia della Repubblica platoniana ci sembra caratterizzata dall'areligiosità: quantomeno è

assente qualsiasi riferimento alla religione. Anche se si prospettano come movimenti religiosi, le

eresie del Medioevo sono in realtà profondamente ostili alla religione com'era professata dai loro

contemporanei; tutta la loro storia è segnata dall'uccisione di monaci e preti, la profanazione di

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chiese, la distruzione di croci. Quest'odio costituisce il nucleo dal quale si sono sviluppati gli altri

aspetti della loro ideologia.

12 Robert Jur'evic Vipper (1859-1954), storico, docente dell'Università di Mosca fino al 1922, è

noto soprattutto come autore di una Teoria della conoscenza storica, del 1911 [N.d.C.]

13 Aleksandra Michajlovna Kollontaj (1872-1952), esponente di spicco dei primi anni del potere

sovietico; nel Comitato centrale bolscevico nel 1917 (dopo aver militato tra i menscevichi)

sostenne, nel 1920, le tesi dell'Opposizione operaia; fu quindi relegata al ruolo di ambasciatrice in

vari paesi. [N.d.C.]

14 Clara Zetkin (1857-1933), socialdemocratica tedesca, poi spartachista, contribuì alla fondazione

del partito comunista tedesco e lo rappresentò al Reichstag dal 1920 alla morte. [N.d.C.]

15 Dal nome di Sigalév, uno dei personaggi dei Demoni. [N.d.C.]

16 Sempre nei Demoni, Dostoevskij cita questo breve componimento intitolato Un eroe come fosse

un proclama nichilista. L'imitazione è così perfetta che, molti anni dopo la pubblicazione del

romanzo, questi stessi versi, largamente diffusi tra i nichilisti, finirono tra le mani della polizia

politica.

17 August Bebel (1840-1913) è, con Liebknecht, il fondatore del partito social-democratico

tedesco, che capeggiò fino al 1875. [N.d.C.]

18 Sergej Gennadievié Necaev (1847-1882) redasse con Bakunin nel 1868 il Catechismo

rivoluzionario; nel 1869 fondò a Mosca un gruppo rivoluzionario, «La giustizia del popolo», che

compì numerosi attentati e assassinii; sconfessato dagli stessi socialisti, emigrò; fu arrestato in

Svizzera e consegnato alle autorità russe; morì in prigione. [N.d.C.]

19 Engels, nonostante la diversità delle argomentazioni, apprezzava in modo particolare l'idea di

Fourier secondo la quale «l'intera umanità è condannata a scomparire»: «Questa idea di Fourier

occupa nella scienza storica il posto che nelle scienze naturali ha l'idea di Kant relativa alla

distruzione finale del globo terrestre».

20 Karl Eduard von Hartmann (1842-1906) nella sua Filosofia dell'inconscio (1869) identifica

«pensiero» logico e «volontà» illogica in uno spirito inconscio che anima il mondo. [N.d.C.]

21 Come ha fatto notare Engels, qui «lo spirito dei francesi si unisce alla profondità dell’analisi».

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Venerabile prof. GIUSEPPE TONIOLO Docente di Economia Politica all’Università di Pisa

IL SOCIALISMO NELLA STORIA DELLA CIVILTA'

Linee direttive Edizione del «Comitato Opera Omnia di G. Toniolo»; Città del Vaticano 1947; Serie I: Scritti

storici; Volume I (intonso); pp. 267-446, con piccoli aggiornamenti lessicali e semantici a cura della

redazione di totustuus.it

CAPITOLO I. L'ordine e il disordine sociale

I. L'ordine sociale subisce, di quando in quando, perturbazioni o disordini tali da far

pericolare 1'esistenza della società, prendendo forma e nome di crisi sociali; e

analogamente le dottrine stesse della società, traendo occasione e materia da questi

disordini di fatto, assumono spesso una enunciazione anomala da riprodurre, nel

dominio delle idee, l'aspetto di crisi del pensiero. La storia del socialismo, nelle sue

somme manifestazioni e indirizzi, riesce, in tal caso, di complemento della storia

sociale e delle sue dottrine, come la patologia rispetto alla fisiologia.

Ma all'uopo occorre premettere una brevissima analisi sulla natura, sulle relazioni di

questi due aspetti della vita dei popoli. Non si comprende infatti il disordine, senza

prima richiamare alla mente il concetto dell'ordine, come il regresso è inesplicabile

senza l'idea del progresso.

2. Ordine sociale è «sistema di relazioni fra tutti gli uomini, converso ad attuare in

modo progressivo i fini complessivi della convivenza, cioè la civiltà». E questa

parola di civiltà esprime: «la partecipazione proporzionale di tutta l'umanità nello

spazio e nel tempo al bene essenzialmente morale (coordinato a quello

sovrannaturale) e subordinatamente a tutti gli altri beni accidentali che vi servono di

guarentigia e presidio».

Quindi la civiltà (che è il fine dell'ordine) consta di due serie di beni. Gli uni

principali, sostanzialmente etici, che hanno ragione di fine ultimo: per esempio

l'adesione concorde delle menti e delle coscienze ai veri religiosi ed alle leggi eterne

dell'onestà, la integrità dei costumi, il rispetto dell'autorità, il riconoscimento della

dignità e della libertà umana, la santità della famiglia, la solidarietà operosa in tutte le

classi e in tutte le nazioni, l'impero del dovere, dell'abnegazione, della giustizia e

della carità in tutte le relazioni esteriori, lo spirito di conservazione e di

miglioramento la fortezza dei caratteri, l'elevazione crescente degl'ideali che

unificano e guidano a perfezione tutta l'umana famiglia. Gli altri secondari, dai primi

derivati, e che rispetto ad essi hanno ragione di fini prossimi coordinati e quindi di

mezzo e d'integrazione; e tre in particolare: i beni intellettuali, della scienza, delle

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lettere, delle arti estetiche, cioè la cultura; i beni economici, cioè la ricchezza; i beni

giuridico-politici, cioè la potenza dello Stato.

I due ordini di beni da cui risulta civiltà, sono connessi ma distinti; sicché in qualche

momento storico, e in certo grado, possono avverarsi gli uni senza degli altri. Ma ben

se ne comprende la differenza: senza i beni principali si annulla la civiltà, senza i beni

secondari la civiltà rimane soltanto deficiente.

3. Come l'ordine sociale è sistema di relazioni fra enti ragionevoli e liberi, così la

civiltà, che ha pure fattori molteplici (gli uni sovrannaturali, cioè Iddio che opera nei

popoli e li conduce ai loro destini e gli altri cosmici, le influenze del mondo fisico) è

nell'essenza il prodotto immediato di fattori umani spirituali, cioè del libero volere,

illuminato dalla ragione e tradotto in atto dall'energia operosa; ossia essa è

prossimamente figlia dell'intelligenza, virtù, attività dei popoli, e ne segue le vicende.

Di qui il concetto d'incivilimento (distinto da civiltà come il cammino dal termine),

che è «procedimento cosciente dell'umanità che attua successivamente in modo

sempre più completo la perfezione civile ossia la civiltà».

E perciò procedimento non già cieco, non fatale, né inalterabilmente continuato,

come un'incosciente evoluzione, ma inteso, voluto, operato, che si esplica cioè sotto

le condizioni e nei limiti dell'intelligenza, del retto uso della libertà, e infine degli

sforzi e dei sacrifici degli uomini per attuarlo. Per ciò stesso che l'incivilimento si

dispiega con queste condizioni e questi limiti di una libertà illuminata, retta ed

operosa, la quale spesso viene meno e travia, esso storicamente si traduce in atto

mediante una serie di avanzamenti, interrotti da soste e ricorsi, e compensati da

riprese e restaurazioni. Di qui tre aspetti: il progresso, il regresso, il rinnovamento, i

quali sono inerenti al fatto dell'incivilimento e ne compongono la fisiologia, la

patologia e la terapeutica. Sono tre aspetti di uno stesso fatto e quindi di una stessa

scienza (la sociologia), disgiungendo o menomando i quali si uscirebbe dalla realtà

storica e dalla verità scientifica. Ogni illusione sopra di questo argomento diviene

fonte di aberrazioni nelle menti e di convulsioni nella vita dei popoli, generando

alternamente o l'ottimismo improvvido con le sue delusioni, o il pessimismo scettico

con le sue disperazioni.

Bensì le tre manifestazioni o fenomeni e le rispettive cagioni, non hanno la stessa

estensione ed importanza nelle vicende dell'incivilimento il quale, nel suo concetto,

esprime un procedimento che riesce definitivamente (attraverso quelle perturbazioni)

a sempre più alti gradi di perfezione civile. Ed invero l'incivilimento nella varietà

delle sue vie e delle forme nella storia, palesa un processo normale, giusto il quale la

virtù del progresso apparisce prevalente e perdurante, le cause dell'arresto e del

regresso prendono il sopravvento soltanto in modo transitorio ed eccezionale, ed

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infine le energie di ristorazione si esplicano in modo, non solo da risarcire il perduto,

ma da sollevare a maggiori e più durevoli progressi. Cosicché la vigoria dei popoli

nel corso della civiltà, si misura comparativamente, non tanto dai continui e illimitati

avanzamenti, quanto dal più protratto cammino progressivo, dalle più corte e lievi

soste e cadute, e soprattutto (avvertasi bene) dalla più pronta ed energica virtù di

risurrezione; sicché da ultimo si possa raggiungere qualche tappa più innanzi nella

marcia della civiltà.

4. Ma questo cammino normale non si avverò sempre nel mondo. L'antichità

orientale e quella classica dei greci e romani e dei popoli che furono in relazione con

questi, non ebbero vera civiltà (essenzialmente etica), bensì appena manifestazioni

più o meno imperfette di cultura, di ricchezza, di potenza politica e basti rammentare

le superstizioni, le abominazioni del costume, la schiavitù in permanenza, l'egoismo

sistematico, la prepotenza legalizzata. E quelle lunghe età, dopo periodi più o meno

protratti di splendore, si lasciarono sopraffare dalle cagioni deleterie di un

decadimento prolungato, irreparabile, definitivo, spegnendosi tutte nel pessimismo

desolante remoto da ogni speranza e da ogni virtù di risorgimento. Ciò appunto

perché a quelle popolazioni mancava l'essenza della civiltà, consistente nelle rette

idee e nelle virtù etico-religiose, in cui si cela la resistenza alla definitiva dissoluzione

e la virtù medicatrice di rinnovamento. E questo il caso delle civiltà dell'India, della

Cina, degl'imperi del centro asiatico, di Grecia, di Roma, dei popoli africani, tutte

ricadute inesorabilmente in una di queste tre forme di negazione o di distruzione

definitiva dell'incivilimento: l'immobilità (paesi orientali), la corruzione (le nazioni

occidentali), la barbarie (le genti dell'Africa centrale e meridionale).

5. Invece, dal comparire del cristianesimo in poi, mercé una profonda rigenerazione

sociale, gl'impulsi dell'avanzamento ebbero veramente il predominio sopra le forze

d'inerzia e di retrocessione. Sicché l'incivilimento non scomparve più dal giro

immenso e sempre più espansibile delle nazioni cristiane. E ciò perché esso, dalla

fonte delle dottrine e delle virtù religiose (complemento ed elevazione delle virtù

deficienti della natura), con vera palingenesi, primamente accese in tutti l'idea giusta,

alta, doverosa del progresso individuale e sociale, di poi ne insinuò e di continuo

alimentò il bisogno e finalmente generò nei popoli il fatto storico, non mai prima

veduto né sospettato, di un progresso universale, perenne, indefinito.

Tali i caratteri di questo progresso cristiano che riassume l'unico, il vero, il normale

progresso del genere umano, sicché fuori di esso non vi hanno che pallidi riflessi o

negazioni assolute del progresso medesimo.

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Esso veramente è universale nel senso che non si raccoglie e chiude in una razza o in

un territorio, ma penetra, si espande e tende a fruttificare in tutte le stirpi e sotto tutte

le piaghe; perenne, non già perché ne sia assicurata la presenza simultanea e

indefettibile presso ogni singola nazione cristiana, ma perché, pur trapassandone il

primato a seconda delle virtù e delle colpe sociali dall'uno all'altro popolo, non mai

quel labaro si abbassa e scompare dalla periferia dei popoli dal cristianesimo

illuminati; e indefinito, non già nel senso che non conosca limite, né escluda arresti e

regressi, ma perché questi sono sempre transeunti e sopravanzati dalla virtù di ripresa

verso le più alte conquiste.

Anche in questo normale incivilimento cristiano, pertanto, non viene meno la ragione

dello studio intorno alla degenerazione dell'ordine sociale con le sue manifestazioni

morbose le quali, prendendo talora forma intensa e minacciosa, si enunciano col

titolo di crisi sociali o acute o croniche. Ma qui si riproduce, anzi, più viva la

convenienza scientifica di considerare, accanto alla fisiologia sociale, le

manifestazioni della patologia insieme con la ricerca dei mezzi terapeutici; perché,

fermato mercé la storia della civiltà cristiana più rigorosamente il concetto di ordine

sociale e analogamente delle cause normali dei suoi progressi, meglio al confronto si

riesce ad analizzare le cause dei regressi, deviazioni e corrompimenti e, soprattutto,

ad estimare le energie di restauro e di rinnovamento perché è nel sistema delle virtù

risanatrici. essenzialmente etico-religiose, quivi sempre operative e non mai esaurite,

che consiste il segreto del vero incivilimento.

Con questi criteri diremo alcunché delle crisi sociali e delle dottrine socialistiche

nella storia.

CAPITOLO II. Le crisi sociali

I. Intendesi per crisi sociale: «uno stato di sofferenza della società conseguente ad un

disordine nei rapporti essenziali di essa e tale da comprometterne l'esistenza».

L'analisi di questo concetto complesso designa alcune idee elementari che meglio ne

definiscono il contenuto ed i limiti:

- crisi sociale importa in primo luogo l'idea di una deviazione dall'ordine razionale e

provvidenziale della società, a cui è connesso il conseguimento del comune

benessere, deviazione che pertanto, si traduce nel malessere; il quale malessere non

consegue, però, alla perturbazione di qualche particolare rapporto, ma si estende in

vario grado a tutte le relazioni sociali: religiose, morali-civili, politiche-economiche;

- malessere che, alla sua volta, affetta l'essenza (e non alcuni elementi accidentali) di

tali rapporti ed istituti, e per ciò stesso con tale intensità da porre in pericolo,

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mediante il discioglimento letale o l'infrazione violenta dei vincoli reciproci, l'unità

organica del civile consorzio.

Senza tali necessari caratteri di una crisi sociale propriamente detta, questa si

confonderebbe con altre crisi solamente morali o politiche od economiche, o di

singoli aspetti di esse: per esempio, crisi della produzione, del commercio, ecc.

Si comprende pertanto che lo studio delle crisi sociali appartiene massimamente alla

sociologia, salvo che le altre scienze, come l'economia, ne considerino più

particolarmente l'aspetto proprio della rispettiva competenza, senza però smarrire

giammai questa comprensione più ampia e completa.

2. Il carattere essenziale delle crisi sociali (senza distinzione di tempi storici e di

luoghi) si rivela mediante la sproporzione o il disquilibrio nella costituzione organica

e nella esplicazione vitale della società.

Ciò logicamente: la società, infatti, risulta dalla proporzione fra i vari elementi

compositivi e vitali di essa ed il fine (il bene comune) cui quelli convergono; fine

concreto che è rispondente alla sua volta ad un fine ideale doveroso. Quindi la crisi

sociale involge una serie di sproporzioni che generano opposizione in luogo di

coordinamento armonico.

E prima sproporzione interiore negl'intelletti e nelle coscienze fra l'ideale e il reale,

cioè:

a) sproporzione fra il concetto di un ordine umano-sociale, immaginario, idealistico,

vagheggiato e quello vero, moralmente necessario e praticamente possibile (per

esempio il concetto di una bontà umana perfettissima, di un progresso infinito, di

un'eguaglianza di fatto e non solo virtuale, ecc.);

b) in relazione a tali ideali e sentimenti, sproporzione fra la coscienza del diritto e il

sentimento del dovere;

c) e ancora, sproporzione fra i bisogni sentiti di certe innovazioni e l'insufficienza di

virtù e di mezzi per appagarli.

Di poi sproporzione nei rapporti esteriori di fatto delle società, e quindi:

a) sproporzione fra l'importanza e funzione dei vari ceti sociali, in relazione ai fini

comuni della convivenza (assorbimento da parte delle classi aristocratiche,

predominio egoistico della borghesia, depressione avvilente di plebe); donde

opposizione sociale-civile di classi;

b) sproporzione fra l'espansione e l'altezza della vita sociale e lo sviluppo e l'indirizzo

della vita politica: donde opposizione sociale-giuridica fra società e Stato;

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c) sproporzione fra i bisogni materiali delle singole classi e la distribuzione degli

averi, ossia dei mezzi materiali per soddisfarli; donde opposizione sociale-

economica, in specie fra abbienti e nullatenenti, fra ricchi e poveri.

3. Avvertasi che quest'ultimo indizio del malessere sociale (crisi della distribuzione

della ricchezza), non riguarda tanto la ripartizione del reddito (salari, rendita, profitti,

ecc.), quanto l'equa ripartizione della proprietà o della ricchezza patrimoniale

(mobile o immobile). Tale sproporzione progressiva negli averi è, in gran parte, una

conseguenza necessaria dei semplici rapporti economici, se questi non trovinsi

contemperati da virtù morali e da provvidenze giuridiche (dovere, giustizia e carità

sociale).

Ed invero: la classe lavoratrice, di momento in momento storico, può accrescere

soltanto i suoi redditi mediante l'esercizio più intelligente, intenso e protratto delle

proprie forze organiche personali, mentre le altre classi economiche (proprietari

terrieri, capitalisti, imprenditori) possono moltiplicare i propri redditi, oltreché con

l'elevazione delle proprie attitudini personali, anche con l'impiego di una crescente

quantità di mezzi produttivi nella industria (terre e capitali), in virtù dei loro risparmi

trasformati in patrimonio produttivo. Ma per l'operaio, l'incremento delle forze

organiche sue proprie e del loro esercizio è limitatissimo e difficile; per le altre classi

l'incremento dei patrimoni e dei capitali nella stessa mano, può essere indefinito e

diviene progressivamente più facile. Donde la tendenza ad ingrossarsi e raccogliersi

nella classe degli abbienti di sempre maggiore cumulo di ricchezza, rimanendo

invece pressoché inalterata la condizione economica degli operai.

E ciò tanto più che la sorte degli operai rimane incerta e precaria, dipendendo essi

dalle classi proprietarie; mentre lo stato di queste ultime presenta un alto grado di

stabilità, insieme con la previsione del miglioramento ulteriore nell'avvenire,

rendendo, frattanto, sempre maggiore la distanza fra l'una e l'altra classe. Più ancora

se si pensi che il progresso scientifico e tecnico, dando prevalenza alle grandi

industrie, rende quasi impossibile al semplice artigiano d'elevarsi al grado

d'imprenditore (per difetto di cultura e dei necessari ingenti mezzi materiali), e

insieme il progresso commerciale, estendendo col mercato universale la concorrenza,

moltiplica i pericoli di ruina per i piccoli imprenditori stessi, lasciando ritti a

signoreggiare solo i potenti.

Se pertanto non intervengano le doverose e benefiche prestazioni delle classi

superiori per agevolare alle inferiori, in nome della solidarietà e carità sociale, la

possibilità d'elevarsi a stato economico autonomo, mediante l'acquisizione di un

capitale proprio o almeno mediante la compartecipazione (p. es. con 1'enfiteusi, con i

diritti di uso) alla stabilità del patrimonio altrui; e se al tempo stesso l'azione delle

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leggi e delle provvidenze politiche, dispiegandosi con eguaglianza proporzionale

verso le singole classi e perciò rivolgendosi con più intensità a tutela ed a sollievo dei

più deboli, non elida ed anzi non rivolti in qualche misura in senso opposto questa

tendenza, la legge economica del disquilibrio procederà inesorabile e, a lungo andare,

la crisi della distribuzione della ricchezza si paleserà con due fenomeni, egualmente

morbosi, di plutocrazia in alto e di proletariato in basso.

4. Posta la condizione di crisi sociale, dietro queste cagioni generatrici e con tali

caratteri, essa in breve si manifesta con esteriori agitazioni sociali, ovvero con

agitazioni socialistiche.

Quelle mirano, con intendimento retto (comunque talora sbagliato nei modi, p. es.,

illegali, o violenti, ecc.) a correggere la crisi, riconducendo l'ordine sociale o

affrettandone il miglioramento, giusta la natura razionale degli uomini e di

conformità alle leggi morali dell'incivilimento; donde il nome di riforme e di

riformatori sociali.

Queste (sovente con simile intendimento di riparare al disordine) tendono invece ad

introdurre, in modo permanente, un altro disordine, mutando l'assetto della civile

convivenza contrariamente alle esigenze naturali e storiche dell'incivilimento; donde

le espressioni di riforme e riformatori socialisti.

Di qui il concetto di socialismo. Il socialismo, come teoria, può definirsi: «un sistema

di dottrine riguardanti la riforma della società nei suoi istituti e rapporti

fondamentali, col fine di introdurre in essa, a vario grado, una eguaglianza materiale

o di fatto (e non già soltanto virtuale, etico-giuridica) ripugnante alla natura

essenziale degli uomini e dell'incivilimento».

Tenuto fermo che il socialismo, come teoria riformatrice della società, è determinato

dal fine, tale teoria, per logica conseguenza, si contrassegna in generale per questi

caratteri:

a) tende a riformare, nella loro costituzione fondamentale, tutti gli istituti e rapporti

della vita sociale, quelli religiosi, morali, giuridici, politici e non soltanto quelli

economici. È la conseguenza, da un canto, del presupposto che non esista un ordine

sostanzialmente intangibile di società e che quindi l'uomo abbia, sulla riforma di

essa, pienezza di autorità (senza distinzione fra ciò che è essenziale ed accidentale), e

da un altro canto, della inscindibile solidarietà dei vari aspetti della vita sociale, per

cui non si può modificarne uno solo senza rimaneggiarli tutti;

b) tende a sacrificare prossimamente l'individuo alla società (socialismo panteistico-

autoritario), ovvero la società all'individuo (socialismo individualistico-anarchico),

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ma sempre e definitivamente a subordinare i fini dell'esistenza sociale con la sua

uniformità.

È questa la conseguenza dell'intento del socialismo (sotto qualunque forma), che è

l'uguaglianza di fatto, per la quale esso è disposto ad immolare l'individuo, ovvero

l'organismo sociale, a seconda che quello o questo reputa cagione delle

disuguaglianze materiali fra gli uomini; ma definitivamente, per causa della stessa

uguaglianza di fatto, esso ammette pur sempre che gli individui servano al bene

finale della società e non già al bene finale di tutti gli individui. Invece chi ha

l'anima? Chi destini ultramondani e analoghi i doveri? Chi sente, chi gode, chi vive di

vita propria? Certamente l'individuo ente reale, mentre la società è un ente ideale che

risulta di rapporti reciproci fra individui e che non può avere fuorché un fine

coordinato. Per esempio: la famiglia, le classi, la nazione, la società universale

importano vincoli e sacrifici all'indipendenza personale; ma tali sacrifici mirano al

risultato che la famiglia avvalori l'individuo, le classi rinsaldino le famiglie, la

nazione garantisca l'unità armonica delle classi, e la società universale colleghi ed

integri le nazioni: e così, attraverso questi molteplici circoli sociali concentrici, viene

compensata ad usura la serie dei sacrifici dei singoli verso la società, con un

incremento di bene definitivo individuale, altrimenti impossibile. In ciò la ragione

d'essere ed anche i limiti di questi sacrifici personali. Devono cioè arrestarsi i

sacrifici degli individui al di là di quel limite, oltre il quale il bene sociale non riesce

più a ripercuotersi (immediatamente o mediante, in un momento prossimo o remoto)

a bene degli individui stessi. Invece il concetto informativo del socialismo che

subordina gli individui ai fini della società (la quale non ha ragion d'essere in se

stessa) lo trae a comprimere più o meno, senza limite definito, la libertà personale e

quindi a sopprimere a vario grado (e per lo più totalmente) la proprietà particolare

che è un riflesso obbiettivo della personalità autonoma; e finalmente a deprimere e

livellare la graduazione delle classi, che, comunque si eriga su distinzioni

fisiologiche, psichiche ed economiche, è pur sempre il prodotto della libera

esplicazione della personalità stessa. E così l'eguaglianza di fatto, cui mira ogni

programma socialistico, compendia questo triplice assorbimento individuale

nell'uniformità sociale.

c) Finalmente il socialismo tende (come conseguenza logica e storica delle due prime

tendenze) ad esagerare la funzione dello Stato, reputandolo onnipotente, talvolta nel

generare i mali sociali, e chiedendo perciò a vario grado l'annichilimento dei pubblici

poteri (socialismo anarchico); e più spesso nel guarire il male e nell'effettuare il bene,

e perciò accrescendone sconfinatamente le attribuzioni (socialismo autoritario).

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5. A questi caratteri che spettano essenzialmente al socialismo come teoria, si

aggiunge un altro che gli spetta come arte, cioè come sistema di mezzi e modi di

attuazione.

Il socialismo vero e proprio denota una dottrina che mira ad essere praticamente

applicata e che, perciò, reputa esistere nel corpo sociale, forze e organi a ciò

adeguati: invece le utopie esprimono concezioni idealistiche non destinate (per

convinzioni degli stessi autori) ad essere applicate e che si risolvono perciò in una

forma di critica dei disordini sociali presenti, mediante il raffronto con altre

costituzioni sociali vagheggiate.

6. Stabilita così l'indole ed i caratteri del socialismo, apparisce l'inesattezza di altre

definizioni; per esempio, quella dello Scheel: «la filosofia delle classi sofferenti»;

l'altra del Laveleye: «ogni dottrina la quale, da un lato, propugna una maggiore

eguaglianza nelle condizioni sociali di tutti e, dall'altro, tende ad attuarla per mezzo

dello Stato»; quella finalmente del Lehr: «la dottrina che osteggia il capitalismo».

Si comprende che tutte queste definizioni vengono meno al sano criterio scientifico

che prescrive di definire una teoria dal fine specifico che essa si propone di

giustificare e poi praticamente di attuare; mentre esse scambiano l'essenza del

socialismo con alcuni caratteri affatto accidentali e storici di esso, ovvero con le sane

dottrine e con i propositi sociali (e non socialistici). Donde si rileva come molti

scrittori facciano, analogamente, passare per socialisti tutti coloro che si adoperano a

sollievo delle classi popolari disagiate e oppresse; donde, p. es., la espressione fallace

di socialisti cattolici.

7. Bensì, ai caratteri essenziali del socialismo, propri d'ogni tempo, si aggiungono

altri caratteri accidentali che mutano nei successivi momenti storici, nei quali il

socialismo rinviene le sue cause prossime, ritraendo quasi da esse varietà di colorito.

In specie il socialismo storicamente varia: a) con l'indole e direzione delle idee

supreme intorno alla vita sociale ed ai suoi fini; b) con la qualità ed indirizzo dei fatti,

ossia degli avvenimenti sociali di ciascun periodo.

Il movimento delle idee fa capo alle dottrine religiose ed alle teorie filosofiche, di

volta in volta prevalentemente accettate e diffuse; ed esse compongono la causa

intrinseca efficiente del socialismo. La religione, infatti, per autorità sovrannaturale, e

la filosofia per autorità razionale, porgono le spiegazioni prime ed ultime dell'origine,

natura e fine delle umane società; sicché ogni aberrazione in proposito, nelle menti e

nella coscienza dei popoli, diviene fonte di disegni ed aspirazioni illegittime e

scomposte. Ciò coincide, pertanto, nella storia con i momenti critici per la religione,

in cui si abbuia la fede e degenera in sette appassionate, o si contrasta in nome del

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dubbio e dell'ateismo sistematico e, analogamente, con i momenti critici per la

scienza, in cui il pensiero filosofico (e tutta la corrispondente cultura), prende nuove e

audaci direzioni o idealistiche trascendenti o positive materialistiche, ovvero si

dissolve nello scetticismo e nel pessimismo.

Il movimento dei fatti sociali, che porge più acuto alimento e stimolo al socialismo

anche teorico, fa capo alla sua volta a queste cause principalissime:

a) il guasto generale del costume: ciò, in specie, con l'acuirsi dell'egoismo nelle classi

abbienti e quindi con l'oblio dei loro doveri sociali, con la corruttela, con le cupidigie

e corrispondente sfruttamento delle classi nullatenenti e col diffondersi in tutti, della

passione dei piaceri sensibili;

b) gli abusi del potere giuridico-politico in pro dell'assolutismo o di pochi

privilegiati, con attentati legali alla libertà personale o alla proprietà particolare e,

soprattutto, con la trascuranza ed offesa degl'interessi e dei diritti delle moltitudini;

c) l'incentramento dei beni (immobiliari o mobili) come risultato o di un lungo

decadimento economico che aduggia e spegne le mediocri e piccole fonti di

operosità, ovvero di rapide e profonde trasformazioni del progresso che, tornando a

profitto dei più potenti, deprimono rispettivamente i deboli e, in specie, i nullatenenti.

Questi fatti formano le cause estrinseche e occasionali del socialismo stesso nei

singoli momenti storici.

8. Col vacillare di quei criteri ideali più lucidi e certi e fra gl'influssi sinistri di questo

ambiente reale viziato, scorgonsi ognora spuntare dottrine più o meno intinte di

socialismo e tentativi corrispondenti di applicazione. Né ciò sempre per iniziativa di

menti volgari o di uomini totalmente perversi; bensì, in qualche caso, per opera

d'ingegni elevati né alieni da generosi sensi, ma però illusi o traviati, i quali, avendo

smarrita la fede in quelle verità supreme che danno luce intorno alle ragioni prime del

male quaggiù ed alle origini ed ai fini dell'uomo e delle relazioni umane, s'ingannano

intorno alla natura dell'ordine civile ed alla efficacia di quei disegni e mezzi, con cui

definitivamente porre rimedio agli stessi abusi, giustamente deplorati. Bensì essi si

trovano ognora generalmente preceduti e accompagnati da altri corifei di più radicali

errori religiosi e filosofici, seguiti da favoreggiatori di basse passioni ed appoggiati

dalle illusioni del fanatismo delle moltitudini sofferenti.

Così si devono in massima estimare i disegni dei riformatori socialisti: essi sono

l'espressione del malessere sociale, né vanno rimproverati sempre per gli impulsi e le

ragioni della loro propaganda, cioè per il desiderio in genere di riparare ai sociali

malori o affrettare il progresso del pubblico consorzio e specialmente delle

moltitudini, bensì per i principi supremi cui si ispirano, per lo più antireligiosi e

antifilosofici, per i fini specifici di riforma che si propongono, spesso ingiusti ed

errati, e per i mezzi riprovevoli e dannosi con cui attuarli.

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CAPITOLO III. Cenni sulle dottrine socialistiche nella storia

La storia delle dottrine socialistiche e dei corrispondenti sperimenti di attuazione

pratica, segue i grandi periodi della storia dell'incivilimento e perciò (omettendo la

cultura primitiva orientale) può ripartirsi in quelli: della cultura classico-pagana di

Grecia e Roma, della cultura cristiano-medioevale, della cultura cristiano-moderna.

Qui si procederà per cenni, limitandosi alla storia delle teorie socialistiche nei loro

sommi concetti informativi, posti in relazione bensì, giuste le esigenze del buon

metodo, con le dottrine religiose filosofiche che le ispirano e, subordinatamente, con

le vicende sociali-civili che vi porsero materia ed occasione.

I. Nella cultura classica pagana

I. La civiltà classica di Grecia e Roma (in ciò somigliante a quella dell'oriente) può

dirsi aver custodito nel proprio seno il germe del socialismo in permanenza. Ciò a

vario grado e come carattere riposto, avuto riguardo all'assetto sostanzialmente

difettoso (in onta ad alcuni accidentali splendori e parziali istituti benefici) di quelle

società pagane. La schiavitù alla base dell'ordinamento universale, la vita giuridica e

politica riservata per privilegio ad una ristretta parte della popolazione, in questa

stessa l'organizzazione artificiale delle classi, lo Stato onnipotente che, in nome d'un

panteismo politico, è arbitro di rimaneggiare e assorbire tutte le esistenze sociali,

familiari, individuali, e la religione, alla sua volta, che dovunque non rifrena questa

oltrepotenza, ma l'avvalora sconfinatamente, sia facendo lo Stato ministro della

ierocrazia (come in India), sia ponendo la potenza morale della religione a servizio di

quella coattiva delle leggi e del pubblico reggimento (Grecia e Roma); tutto questo

componeva un ambiente morboso, il quale moltiplicava gl'incentivi, insinuava le

abitudini e forniva i modelli di sistemi socialistici.

2. Non è esatto che nei primi secoli della storia dei popoli greci, fosse universale la

proprietà collettiva e nemmeno che colà gli ordinamenti a tipo comunistico di celebri

legislatori, siano stati introdotti, di regola, a priori, per un disegno preconcetto. Ma è

vero, invece, che l'ambiente sociale or ora descritto e comune nelle grandi linee anche

alla Grecia, congiunto alle tradizioni panteistiche dell'Asia vicina, fece proni i popoli

ellenici (in onta al diverso genio dei dori e degli ioni) a forme socialistiche e, inoltre,

che spesso l'incentramento delle proprietà fondiarie, vieppiù pericoloso in quei

ristretti territori, e gli abusi precoci del capitalismo in parecchie di quelle repubbliche

mercantesche, (disordini in cui erano già cadute o stavano di continuo per ricadere le

società di quel tempo, in specie i fenici), dettero a quelle forme socialistiche il

prossimo impulso. Di qui l'ordinamento comunistico di Lipari, più tardi quello di

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Megara, più esteso quello di Creta (Minosse), più celebre quello di Sparta (Licurgo),

senza dire di Rodi, di Eraclea, ecc.

Quello spartano però, comunque per l'opera di Licurgo diretto a conseguire la

massima unità ed uniformità sociale a scopi politico-militari, lasciava tuttavia a certe

classi economiche (agricoltori e commercianti, ecc.) sufficiente ampiezza di azione,

sì da riprodurre in breve le sproporzioni e l'incentramento di ricchezza che resero

impossibile la durata di quel regime al quale invano tentarono di richiamare il popolo

dorico, più tardi, in due riprese, le riforme di Agide e di Cleomene.

Atene stessa, sebbene per il genio versatile e spigliato degli ioni e per le riforme

democratiche di Solone e Pericle, nonché per lo spirito mercantile e per l'alta cultura,

avesse porto fomento straordinario alla elevazione della individualità, presenta un

certo momento la fisionomia di un popolo che vive in buona parte a carico dello

Stato. Ogni ufficio pubblico è retribuito, per la sola amministrazione della giustizia,

sopra 20 mila cittadini di Atene (forniti della pienezza dei diritti politici, altri 80 mila

essendone privi) ben 6000 giudici pagati: ogni cittadino, per la sua assistenza

all'agorà (comizi o assemblee popolari), riceve tre oboli al giorno e lo Stato, ben

prima che a Roma, deve provvedere al popolo feste e spettacoli. L'Attica così, in

mezzo alla libera sua espansione individualistica, si acconcia ad abitudini di vita

collettiva proprie del socialismo.

3. In questa atmosfera doveva pur sorgere il dottrinario del socialismo, Platone il

quale, nei suoi scritti la Repubblica e le Leggi, porge il saggio di uno Stato modello

(stato ideale o di ragione). In esso trattasi: a) di comunismo di beni e di famiglia

insieme; b) limitato però alle classi dirigenti o superiori cui esclusivamente volevasi

affidare la gestione della pubblica cosa (i reggitori, i custodi, i filosofi); c) introdotto

a scopo di educare il perfetto cittadino il quale, alieno dalle cure materiali e

domestiche, immoli tutto se stesso al pubblico bene. Questo disegno del grande

filosofo è riprova dell'ambiente saturo d'idee, d'istituzioni e di consuetudini comunisti

che in cui viveva e di cui, in gran parte, egli faceva riflesso: e tanto più che tale

archetipo di un ottimo Stato, giusta la mente di Platone, era suscettivo di

applicazione, destinato cioè ad attuarsi in seguito ad opportuna educazione civile.

Platone stesso, in questi disegni di riforme socialistiche, trovasi preceduto e seguitato

d'altri dottrinari: prima di lui Pitagora, poi Isocrate, ulteriormente Senocrate e la

scuola cinica, Falea di Calcedonia, Zenone e lo Stoa; comunque fosse egli stesso da

altre scuole contraddetto, in specie da Aristofane e dallo stesso Aristotele. Tuttavia

può dirsi che non solo per l'autorità conseguita fra i suoi contemporanei, ma per

l'influenza esercitata nei secoli posteriori, Platone, in relazione alle dottrine

socialistiche, tenga il posto che Aristotele conseguì in relazione alle dottrine sociali.

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Ma tutti quegli architetti teoretici di ordinamenti statuali, a vario grado, s'ispirano a

pensieri comunistici, tutti manifestano l'assenza del concetto di un ordine sociale

naturale, ossia di talune istituzioni richieste inesorabilmente dalla natura umana e

superiori ad ogni opinione soggettiva di filosofi e ad ogni autorità di umano

legislatore, e tutti, più o meno, s'informano alla filosofia panteistica orientale, più

propizia a quelle riforme stesse; sicché già, simultaneamente a Pitagora fra i Greci,

nel secolo VI a. C. il comunismo trovasi predicato da Vishnu-Das (sotto l'influenza

ancor recente di Budda) in India, e poco di poi nel secolo V in Cina da Mih-Teit

(sotto l'influenza di Lao-Tze, capo del taoismo) e altrettanto da Mazdak in Persia;

salvo di riprodurre un saggio più vasto di ordini comunistici, a gran distanza di tempo

(sec. II d. Cr,) per parte di Uang-Ngan-Shi, ancora nella China. Oggi pure la poderosa

propaganda del socialismo contemporaneo in Germania e dovunque, vedremo farsi

per lo più sotto l'ispirazione d'idee panteistiche.

4. Roma non ha propri ed originali socialisti dottrinari, come non presenta, per lungo

tempo, ordinamenti civili che, a somiglianza delle genti elleniche, ritraessero dal

socialismo; nuova prova che tali tipi comunistici non sono universalmente originari e

che soltanto i popoli vi si trovano sospinti posteriormente dal sopravvenire di

particolari circostanze; e queste mancarono alle primitive genti latine, ed in specie,

per lungo tempo, il vizio dell'incentramento della proprietà e del capitalismo. Per

converso la religione era, presso di esse, domestica per eccellenza (i lari o penati),

mentre il Giove, rappresentante dell'unità panteistica, fu accettato più tardi e,

analogamente, il potere del pater familias era robustissimo e il diritto rivolto

precisamente a proteggere l'autonomia privata con spiccato carattere individualistico.

Di qui argomenti di ripugnanza a forme socialistiche. Ha Roma bensì l'istituto della

schiavitù alla base, ma non costituita organicamente in caste; il potere pubblico è colà

riservato ai patrizi, ma così da lasciare svolgersi, con la ricchezza, l'influenza delle

altre classi, giusta quel processo evolutivo che ammise a grado a grado alle

magistrature i ceti mezzani e poi gli inferiori (la plebe); ciò che temperava il bisogno

di radicali riforme organiche. Infatti non si avverano nella repubblica moti socialistici

propriamente detti; la stessa agitazione per le leggi agrarie non riguardava che la

migliore partizione periodica dell'ager publicus per la coltivazione di esso in forma di

beni collettivi, collocati accanto alla proprietà privata la quale, anzi, era forte e

rispettatissima, sostentando per i primi secoli della repubblica, un robusto e saldo

ceto di mezzani e piccoli proprietari ed un prosperoso colonato.

Bensì questo tipo della società romana, resistente sotto la repubblica alle insidie

socialistiche, si perverte con lenta progressione sotto l'impero. Ciò precisamente

mercé l'influenza ormai preponderante della Grecia e dell'oriente, in seguito alle

ultime conquiste, che vi fanno prevalere gradualmente il panteismo orientale in

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religione e in filosofia, e ciò dai tempi di Augusto che, per mezzo di Agrippa, erige il

Pantheon indistintamente a tutti gli dei, fino a quelli di Gallieno che v'introduce il

culto persiano di Zarathustra.

L'onnipotenza imperiale, che incentra in sé ogni dignità e autorità, prende allora il

nome celebre di cesarismo ed attua la maggiore statolatria, applicata al mondo

intero, che la storia conosca. Remota e profonda questa elaborazione. La società

romana, sin dal decadere della repubblica, aveva assistito al crescere e

spadroneggiare del capitalismo (dopo la seconda guerra punica), il quale fa triste

sfoggio di sé con le malversazioni di Verre (20 milioni di franchi) e con la oligarchia

del denaro rappresentata da Crasso nel primo triumvirato. Ne affretta il predominio il

simultaneo disparire della classe media rurale e il dilagare dei latifondi che riusciva,

per esempio, sotto Nerone ad incentrare in sei persone la proprietà di tutta la

provincia d'Africa. Ne rinsaldano l'oltrepotenza, le sconfinate ambizioni di emuli

corruttori, insieme con le cupidigie delle plebi corrotte. Già da tempo in Roma, le

moltitudini si erano assuefatte a mercanteggiare i suffragi per la elezione dei

magistrati: Clodio introdusse le distribuzioni di grano alla plebe a cui si aggiunsero,

poi, quelle di carne, sale, olio, e bagni e spettacoli gratuiti; sicché queste sovvenzioni

in natura in breve assorbirono un quinto delle rendite pubbliche e Augusto sostentava,

inoltre, in denaro non meno di 300 mila persone. Le stesse proprietà private da Silla

si trasferiscono arbitrariamente in mano a soldati e proletari e Cesare moltiplicava le

espropriazioni in massa di antichi coltivatori (veteres migrate coloni) trasportando ai

confini dello Stato le masse turbolente di Roma per fondarvi le colonie militari. Al di

sopra di queste società dissolventi si era agevole agl'imperatori d'imporre

gradualmente ordinamenti uniformi e universali che raggiungono il massimo di

rigidezza sotto Diocleziano il quale proclama la servitù forzata della gleba, le

corporazioni artigiane coattive, le tariffe obbligatorie dei prezzi d'ogni cosa, la stessa

costituzione coercitiva delle curie municipali.

Il grande impero si era accostato così ai tipi comunistici artificiosi di Grecia e

d'oriente.

5. Come tardo prodotto dottrinale di questa degenerazione storica, compariscono,

finalmente, nella vasta cerchia dell'impero decadente, alcuni socialisti teoretici che

fecero intorno a sé attiva propaganda. Apollonio di Tiana, neo pitagorico,

propugnatore di comunismo nell'Asia Minore e nella Grecia, morto sotto Nerone, le

cui lettere furono raccolte da Adriano e a cui Caracalla decretò onori divini; la scuola

neo-platonica di Alessandria, e in specie Plotino (m. 260 d. Cr.), che tenne cattedra

anche in Roma, protetto da Gallieno, e più tardi il suo seguace,

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Porfirio Giamblico, favorito da Giuliano l'Apostata, tutti riproduttori dell'antico

panteismo orientale.

6. Ora alcune induzioni:

a) nell'antichità classica, sia nel rispetto delle idee scientifiche che in quello dei fatti,

il socialismo incontrasi congenito a quelle popolazioni. Le menti, non meno che le

istituzioni e le consuetudini, si aggirano intorno ad un ordinamento in gran parte

artificiale della società che raffigura un totale o parziale socialismo; questo almeno

compone il centro di gravità, a cui il vivere civile, fra successive posizioni di

equilibrio instabile, tende costantemente a ricadere;

b) tale socialismo però non apparisce originario, come importerebbe il presupposto di

parecchi scrittori, di una condizione comunistica primitiva della umanità da cui

questa sarebbe poi gradualmente trapassata a forme di disuguaglianza sociale di

proprietà particolari. Quando non si confonda (come la scienza richiede) il

comunismo con la condizione economico-territoriale di terre libere (beni non ancora

occupati nel periodo pastorale e nomade), né con la proprietà sociale-collettiva (beni

spettanti a un gruppo di popolazione ad esclusione di altri, ciò che è sempre proprietà

particolare), l'introduzione di comunioni socialistiche che escludono la proprietà

individuale risulta un fatto posteriore che ha date storiche precise nei vari paesi e che,

anzi, trovasi generalmente preceduto da periodi anteriori di ordinamenti in qualche

proporzione fondati sulla libertà e proprietà personale. Anzi sono gli abusi protratti e

multiformi di questa libertà e proprietà, i quali accoppiati a sintomi di maggiori

aberrazioni religiose di corruzione morale e di violenze politiche, divengono fornite a

quelle riforme egualitarie. Tutto ciò è confermato dalla critica moderna;

c) esso pertanto è proprio di ricorrenti momenti di decadimento, in cui le

disuguaglianze artificiali o violente trovansi in più flagrante contrasto con le

reminiscenze, sopravvissute nelle nazioni dell'antichità orientale e occidentale, di una

sovrannaturale perfezione dell'uomo all'origine del mondo e quindi con gli ideali di

una primigenia giustizia, eguaglianza e felicità, da cui poi decadde, come ce ne fa

testimonianza la Bibbia; reminiscenze che poi, pervertite e confuse, trapassarono non

solo nei miti religiosi della Cina e dell'India, ma ancora nelle leggende europee di una

remotissima età dell'oro, come la leggenda ellenica di Cronos e quella italica di

Saturno;

d) come morbo connaturato e cronico presso le popolazioni delle più differenti stirpi

e condizioni di territorio e di civiltà, il socialismo antico si presenta sotto tutte le

forme: di socialismo religioso e filantropico, come quelli più remoti della China,

dell'India e della Persia; di socialismo di Stato, come quello del secolo II d. Cr. in

Cina e sotto il tardo cesarismo di Roma; di socialismo parziale ed aristocratico,

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come quello propugnato da Platone sul tipo prevalente in Grecia e valevole soltanto

per le classi superiori dirigenti, o generale e democratico, come quello di Megara che

al popolo abbassa e allivella gli ottimati; o infine intermedio, come lo schema di

Falea calcedonese, che manteneva i privati possessi ma li eguagliava;

e) ma in mezzo a questa generale proclività patologica, pressoché nessuna vis

medicatrix naturae. A rimuovere i disordini sociali e politici dell'antichità pagana che

porgono incentivo al socialismo, non valgono le riforme, in breve elise e sfruttate, di

uomini eletti quali Solone, Pericle e i Gracchi, ecc., e il morbo si aggrava in un

processo di tempo. Né vi porgono remora le grandi forze della religione, della

scienza, dello Stato; anzi nell'età pagana è caratteristico e frequente il fatto della

confluenza concorde di questi tre fattori di civiltà nell'introdurre, come rimedio a

profondi vizi organici della società, ordinamenti artificiali che attuano, o almeno

predispongono, gli sperimenti socialistici.

II. Nella cultura cristiana medioevale

1. Quanto si palesa nell'antichità rispetto alle idee scientifico-sociali ed alle

corrispondenti istituzioni positive, fa luogo nel cristianesimo ad un fenomeno affatto

opposto. Le idee dell'ordine sociale dominano generalmente le menti e le idee

socialistiche soltanto appaiono come parziali e passeggere aberrazioni; e

analogamente un insieme di rapporti e d'istituti sociali spunta dalla radice e si matura

con mirabile evoluzione storica, fino a comporre un ordine sistematico normale,

rispetto a cui il disordine di convulsioni socialistiche raffigura l'eccezione. Anche per

tale rispetto il cristianesimo apparisce una vera palingenesi, cioè un rinnovamento ab

imis fundamentis.

Questo secolare processo della civiltà cristiana di fronte ai traviamenti teoretici ed ai

pericoli pratici del socialismo, va considerato brevissimamente in tre momenti:

a) in un primo preparatorio, dalle origini del cristianesimo fino a Gregorio VII

(1073);

b) in un secondo di maturazione, da questo pontefice fino allo scisma di occidente

(1378);

c) in un terzo di decadimento, fino a chiudersi dell'evo medio (1492).

2. PRIMO MOMENTO (da Cr. - 1073) La dottrina di Cristo nella sua proclamazione

e nella sua propaganda in questo momento preparatorio, che disegna la transizione fra

la civiltà pagana dissolventesi e l'elaborarsi della civiltà cristiana (dalle origini a

Gregorio VII), può considerarsi di fronte al socialismo come un sistema di principi, di

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forze effettrici e di concrete istituzioni, aventi virtù di prevenire nelle sue fonti prime,

cioè nel pensiero e nei sentimenti delle popolazioni, il sorgere e propagarsi di dottrine

socialisti che e delle rispettive applicazioni.

G. Cristo aveva porto e con la sua divina autorità consacrato queste somme nozioni:

a) il concetto di un ordine morale sociale, voluto da Dio, e perciò teoricamente

superiore ai capricci della ragione umana e praticamente intangibile nella sua

essenza;

b) e insieme la spiegazione delle imperfezioni dell'ordine civile e della sua

corruzione, con la dottrina del peccato originale, che spiega il mistero del male

accanto al bene negli umani consorzi;

c) ma ancora la certezza di una possibile correzione, entro certi limiti, dei disordini

sociali, anzi di un graduale perfezionamento (negli accidenti) dell'ordine stesso civile,

mediante la intelligente e virtuosa cooperazione umana, integrata dalla grazia

sovrannaturale, senza sopprimere giammai totalmente i difetti e le concomitanti

sofferenze sociali, le quali troverebbero esuberante e perenne compenso in un'altra

vita ultramondana e perfetta.

Così assicurò i concetti essenziali del sistema sociale e nello stesso tempo represse la

pretesa di ogni riforma che escludesse fin dalle radici il male nella società e insinuò,

insieme con gl'impulsi del miglioramento sociale, la forte pazienza che affronta tutti

gli ostacoli, per attuarlo progressivamente, e che attende nell'oltretomba la perfezione

dell'ordine. In una parola, fondò la dottrina dell'essere sociale ed insieme rimosse

gl'incentivi a disconoscerla, per sostituirvi audaci concezioni perturbatrici.

Cristo insieme definì non già astrattamente, bensì in concreto, quali dovessero essere

le essenziali istituzioni positive della società (matrimonio monogamico, proprietà

particolare, libertà personale, gerarchia delle classi, ecc.), nonché le virtù per

conservarle (giustizia e carità); onde tolse lo sdrucciolo dell'indeterminato che

avrebbe alimentato la mania di riforme fantastiche e radicali.

Avendo infine dichiarato morale e quindi religiosa l'essenza di questi rapporti ed

istituti sociali, ne sottopose per questo rispetto la custodia e la interpretazione alla

Chiesa e così si premunì contro ogni alterazione sostanziale di essi, sotto il pretesto

dell'utilità civile per mezzo dell'onnipotenza di Stato.

Con tali presidi dottrinali, il cristianesimo aveva prevenuto lo spuntare di dottrine

socialistiche, con provvedimenti che si direbbero profilattici, riguardanti le idee dalle

quali trae origine prima ogni disordine. Ciò nel dominio dei principi.

3. Simultaneamente nell'ordine dei fatti, il cristianesimo e precisamente la Chiesa

cattolica (unica custode delle sue verità e virtù), con lungo processo storico, dispiegò

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la sua azione positiva rivolta a sostituire sane istituzioni rinnovatrici al luogo di

quelle guaste ed ammortite dalla civiltà pagana. Questa si era spenta in mezzo alla

corruzione della vita individuale e familiare ed alla oppressione delle moltitudini,

asservite fra l'ozio e il lusso delle classi doviziose sfruttatrici e sotto il mostruoso

dispotismo dello Stato. Il cristianesimo cominciò la sua opera instauratrice dalle

radici, risalendo al fastigio: rivendicò la dignità umana provvedendo all'abolizione

della schiavitù; risanò il costume familiare con la santificazione delle nozze

indissolubili; rialzò le classi inferiori coll'insinuare le abitudini del lavoro e

proclamando il loro diritto ad un'equa retribuzione; ammaestrò intorno ai doveri della

ricchezza verso i nullatenenti sia a titolo di giustizia, sia a titolo di carità,

organizzando dovunque, dietro il proprio esempio, una larga dispensazione di

beneficenza; frenò in nome della superiorità delle ragioni spirituali su quelle

temporali l'onnipotenza dello Stato, obbligando, anzi, quest'ultimo (da Costantino in

poi) a porre le leggi a servizio della religione e della sua missione di civiltà. È questo

il lavorio rinnovatore degli apostoli e dei santi padri, nonché, più tardi, di quello

mirabilmente benefico del monacato.

Ciò posto, si comprende come, iniziata in questa modo la più grande riforma sociale

che conosca il mondo, venisse meno l'incentivo a riforme socialistiche, le quali

invero scarseggiano in tutto il lungo periodo da Cristo all'età moderna, relativamente

alle difficoltà di quella immane trasformazione di civiltà. Ma perciò stesso si

comprende come certi tentativi (o teoretici o pratici) di socialismo dovevano

comparire anche in quest'epoca, appena che la società. avesse deviato dalla purezza

dei principi e dello spirito cristiano; appena cioè venisse meno il sale della terra che

preserva dalla corruzione.

4. Il socialismo invero di questa lunga età, si presenta sempre sotto la veste di eresia.

Né senza ragione: il cristianesimo stesso aveva proclamato taluni veri precetti e

consigli, come quelli della uguaglianza morale, della fratellanza in Cristo,

dell'abnegazione dei beni terreni, della povertà e della verginità volontarie, ecc., i

quali facilmente potevano essere traviati dal loro giusto senso e dalle rette

applicazioni, generando così e quasi coonestando, con l'autorità massima della

religione, teorie e istituzioni socialistiche.

Così accadde appunto per opera degli eretici, fin da questo primo momento e in tutti i

tempi dappoi; confermando con la esperienza storica che il cattolicesimo come è

fattore massimo di ogni riforma e miglioria sociale, così esso è essenzialmente

opposto ad ogni dottrina socialistica; sicché quanti si fecero propugnatori di

socialismo dovettero falsare le dottrine del cattolicesimo stesso o accamparsi contro

di esso.

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Già nei tempi apostolici sorsero gli ebioniti (di cui un ramo gli esseni in Palestina), i

quali, insieme con una mistura di dogmi giudaici e cristiani, professarono la

comunione dei beni e la poligamia.

Similmente (nel secolo II) i gnostici e poi un ramo di essi i manichei (secolo III) in

tutto oriente e in parte dell'occidente; più tardi i pelagiani (secolo V) appartenenti

all'arianesimo, i quali, a giustificare la comunione dei beni, risalivano al principio che

la rinunzia d'ogni ricchezza fosse necessaria alla salvazione dell'anima. Sono quegli

eretici socialisti, che trovano confutazione splendida nelle opere di s. Ireneo, di s.

Clemente di Alessandria, d'Origene, di s. Agostino, ecc.

5. SECONDO MOMENTO. Non diversamente nel momento della maturità

medioevale, dopo Gregorio VII (1073) fin oltre mezzo il secolo XIV (1378). Questo

fiore della civiltà novella che racchiude il tempo delle monarchie cristiane, dei

comuni democratici e delle crociate, con lo sviluppo meraviglioso di arti, industrie,

commerci, di cultura estetica e letteraria, non è alieno da incessanti e stridenti

contrasti sociali, sì da condensare nell'atmosfera formidabili forze di esplosione,

anche in forma socialistica: conflitti aspri e profondi fra elementi sociali eterogenei e

ripugnanti, cioè fra genti romane e genti germaniche, fra il pensiero cristiano e il

costume pagano, fra la rozzezza germanica e la corrotta raffinatezza latina, fra la

immobilità feudale nelle campagne e la morbosa instabilità popolare nelle città; e

soprattutto opposizioni di classi, fra quelle terriere e quelle mercantili, fra la

borghesia industriale e il capitalismo bancario, fra questo e il salariato.

Eppure in tale ambiente, così saturo di cagioni perturbatrici, i rivolgimenti delle

popolazioni sono bensì frequenti in tutta Europa (specialmente dopo la metà del

secolo XIV), ma però col carattere schietto di movimenti e lotte sociali, le quali

(salvo l'abuso dei mezzi) intendono a conseguire fini legittimi conformi all'ordine

civile, senza però essere intinti di mire socialistiche. Tale la rivoluzione di Stefano

Marcello, prevosto dei mercanti in Parigi (1357) per la partecipazione del ceto medio

ai poteri politici; tale tosto di poi (1358) la «jacquerie», ossia la sollevazione dei

contadini francesi guidati da Guglielmo Karle, contro il feudalesimo per affrettare

l'abolizione della servitù della gleba; così il tumulto dei ciompi in Firenze, per

l'ammissione delle arti minute al pubblico reggimento e per il miglioramento delle

loro condizioni economiche (1378), e similmente quelle dei tessitori della contrada

del Bruco a Siena (1382), ecc.

6. Uno solo di tali moti, all'apogeo di questa età, presentasi con la fisionomia di

socialismo, moto invero profondo, diffusivo e pericolosissimo, ma tuttavolta con

risultanze né durature, né irreparabili.

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Ciò per opera degli eretici albigesi (catari, patarini, preceduti dai valdesi e dai poveri

di Lione con cui poi si confusero) all'aprirsi del secolo XIII, sorti in Francia, diffusi e

radicati nel mezzodì di essa, trapassati in Lombardia, penetrati in Toscana.

Insidiosi riprovano qualunque matrimonio e proprietà, legittimando ogni

scostumatezza e lo sperpero epicureo, violentissimi nella propaganda, favoriti per

cupidigia da Raimondo di Tolosa, richiesero altrettante sanguinose repressioni per

opera di Simone di Montfort nella battaglia di Muret (1213) e ciò per suprema

necessità di salvezza sociale. Se avessero trionfato, il fulgore della democrazia

medioevale ed in specie il primato economico e civile dei Comuni, sarebbe stato

spento in culla. Ciò nel primo quarto del secolo XIII.

Eppure alla metà del secolo stesso, alla distanza poco più di 25 anni, morto Federico

II (1250), che per avversione politico-religiosa ad Innocenzo III e ai grandi papi suoi

contemporanei favoriva di soppiatto gli albigesi, non solo l'ordine sociale si trova

tosto ricostituito in tutta Europa, ma esso anzi raggiunge in breve il fastigio del suo

sviluppo. La metà del secolo XIII è infatti il tempo di s. Luigi IX in Francia, di

Rodolfo d'Asburgo in Germania, di s. Ferdinando in Spagna, del trionfo definitivo dei

governi a popolo in Italia, anzi dell'apogeo della civiltà medioevale in tutta Europa!

Ciò significa che nel medio evo tali bufere non riuscivano a schiantare le radici

dell'ordine sociale cristiano il quale, dopo quelle prove terribili, dal tronco

ripullulava più vigoroso di prima.

7. Ma ciò rivela e misura ancora, in questo medesimo momento storico, la presenza di

grandi forze sociali, le quali avevano virtù, in prima di educare e maturare

saldamente l'ordine sociale di civiltà, di poi di restaurarlo con prontezza ed efficacia.

Questo, infatti, è il momento (da Gregorio VII fin verso la fine del XIV secolo) in cui

la Chiesa, uscita da un lungo periodo di latente lavorio morale, e salita finalmente al

fastigio dell'ordine politico civile (e non solo religioso) con Innocenzo III, poté

esercitare in tutta la sua pienezza ed estensione la suprema sua funzione sociale.

Abbiamo detto come il cristianesimo, fin dalle sue origini, avesse prevenuto lo

spuntare di dottrine socialistiche, con l'affermazione di dottrine che esercitavano

un'influenza preventiva o profilattica riguardante le idee e come, inoltre, in tutto quel

primo periodo fino a Gregorio VII, l'azione sua si rivolgesse più direttamente a porre

sane ed incrollabili le fondamenta dell'ordine civile, con gli istituti privati riguardanti

essenzialmente l'individuo, la famiglia, la proprietà e con le leggi di giustizia e di

carità.

Ora invece, in questo secondo momento, si allarga e si solleva a dispiegare un'azione

propriamente sociale sopra tutte le classi, nelle reciproche loro relazioni e sul

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complesso organico di tutta la società. Di qui una serie di provvedimenti da essa

ispirati, favoriti, attuati con la predicazione, con le leggi canoniche, con i concili

diocesani nazionali ed ecumenici, con l'autorità del clero, dell'episcopato, del

pontefice; provvedimenti d'indole sociale-civile che erano una diretta emanazione od

un riflesso del suo spirito religioso.

8. Di questi provvedimenti altri si dispiegano con funzione promotrice.

Il socialismo teoretico trae alimento in qualche parte da un sentimento abusato, ma in

sé stesso onesto, di miglioramento sociale. Ottimo modo, quindi, di togliere a quelle

teoriche sovvertitrici ragione e popolarità è d'iniziare o secondare legittimi progressi

sociali, specialmente in pro delle moltitudini.

Così a grado a grado, e specialmente nel medioevo in cui le dottrine cristiane

riuscirono ad un pieno dominio nella vita sociale, la Chiesa aiutò la elevazione delle

classi inferiori:

a) mediante l'emancipazione delle ultime reliquie di schiavitù e poi dalla servitù della

gleba;

b) mediante le associazioni di ogni modo in cui l'individuo emancipato, ma sempre

debole, rinvenisse protezione, forza, decoro (le corporazioni artigiane);

c) mediante istituzioni giuridico-economiche, in cui il lavoratore potesse assorgere

facilmente a posizione indipendente od autonoma di fronte ai proprietari della terra

ed ai capitalisti (media e piccola proprietà terriera, piccole imprese industriali, società

in accomandita, società tacite, ecc.).

9. Altri di questi provvedimenti si esplicano con funzione coordinatrice intesa a

mantenere il legame rispettoso e amorevole delle classi fra loro e specialmente della

società in generale col popolo. La natura umana, per quanto abbia coscienza della

propria personalità individua, mantiene pur sempre un sentimento di socialità che

giustifica, in qualche misura e sotto date condizioni, un certo titolo alla

partecipazione, o virtuale o concreta, all'usufruimento dei beni altrui e delle

comunità.

Di qui:

a) il patronato delle classi fondiarie sui volghi campagnoli ed anche di quelli

industriali sulle popolazioni operaie, che è una dispensazione etico-giuridica dei beni

materiali e dell'influenza civile delle classi superiori a tutela e sollievo delle inferiori;

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b) la cointeressenza dei lavoratori ai profitti dei proprietari (enfiteusi, mezzadria,

ecc.) e quindi alla stabilità e all'incremento degli accomunati redditi;

c) il godimento od uso da parte delle moltitudini dei beni collettivi (beni demaniali,

beni comunali, ecclesiastici, conventuali, di opere pie) che, dopo aver servito ai fini

loro propri, si considerano siccome un patrimonio riservato al sollievo dei

nullatenenti o del popolo.

10. Altre provvidenze infine con funzione assimilatrice, consistente nell'esercizio, da

parte di tutti i ceti superiori, della carità sotto tutte le forme: sia che si dispiegasse

con prestazioni personali, ovvero con elargizioni di mezzi materiali in pro dei deboli,

dei poveri, dei derelitti.

Che se, in onta a queste ordinarie e sistematiche provvidenze per elidere le forze

latenti del socialismo, questo talvolta prorompesse ruinoso, ecco tosto la Chiesa

apportarvi straordinari soccorsi di restaurazione. Contro le sette ereticali-

socialistiche, durante il loro dilagare e tosto dopo le maggiori loro devastazioni,

scorgesi ognora la Chiesa, stringendo sotto di sé tutte le forze sociali e quelle dei

governi ma più specialmente avvalorandosi della vitalità del proprio organismo,

dispiegare tutte le sue virtù in una grandiosa opera riparatrice; e ciò in tutti i tempi,

ma specialmente da Gregorio VII ad Innocenzo III e fino al cadere del medio evo non

cessando mai da tale ufficio anche di poi, ed effettuandolo in più modi, improntati a

sapiente opportunità pratica:

a) si moltiplicano infatti in tali occasioni vieppiù i concili e le sentenze pontificie per

la condanna non solo degli errori dogmatici, ma ancora di quelli antisociali, come

accadde contro i patarini stessi;

b) s'introducono riforme ecclesiastiche, sociali e politiche e così si riduce a disciplina

il clero, affinché riprenda con efficacia la sua missione di salute religiosa e sociale; si

riprovano abitudini popolari che fossero affette di tendenze socialistiche o sdrucciolo

a farne propaganda; si stigmatizzano le pratiche lesive della giustizia e della carità da

parte delle classi superiori o quelle dell'autorità politica da parte dei prìncipi in danno

dei popoli, le quali avevano provocato la reazione delle moltitudini in senso

antisociale.

Tali, per esempio, la profonda riforma del clero per merito di Gregorio VII affinché

quello rimanesse puro ed operoso a sollievo del popolo, e non aulico, guerriero e

politicante a servizio dei prìncipi feudali e della corte imperiale; la proibizione delle

processioni dei penitenti bianchi o dei flagellanti, per cui si perpetuavano nelle masse

popolari, peregrinanti dall'uno all'altro territorio, corruttrici abitudini di comunanza di

vita vagabonda, senza vincolo e virtù di famiglia, di patria, di lavoro; e così

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divengono più frequenti le condanne di nuove forme di usura mascherata da parte del

capitalismo crescente nel secolo XIII; e del pari più decisive e generali allora le lotte

della Chiesa contro l'assolutismo dei re e degli imperatori, le quali riescono a fondare,

in quel secolo stesso definitivamente, la libertà inglese e l'italiana democrazia;

c) si suscitano di mezzo alle popolazioni i riformatori sociali, uomini di fede integra

professata inflessibilmente e di popolarità estesissima guadagnata con 1'eroismo delle

virtù, i quali richiamano alla purezza religiosa dei principi e della vita, trascinano

dietro la loro parola le moltitudini inebriate, stigmatizzano la insofferenza delle plebi

e la cupidigia dei ceti procaccianti con 1'esempio della nuda povertà, smascherano le

sordide arti di guadagno nei ricchi, rinfacciano ai prìncipi o alle classi dominanti la

loro tirannia, riamicano le parti, indicono la correzione delle leggi inique,

suggeriscono le riforme degli statuti, profondono dovunque la carità a pro dei deboli,

dei miseri, dei sofferenti, con le prestazioni, col danaro, con le istituzioni (come gli

ospedali, le scuole, i monti di pietà), coll'unzione della carità.

Tali s. Francesco, sant'Antonio, santa Caterina senese, i due Bernardini da Feltre e da

Siena, sant'Antonino di Firenze, fino a Niccolò di Cusa e a Savonarola, ultimo e

meno perfetto, ma pur sempre splendido esempio di quei riformatori sociali cristiani

che nulla distruggono per tutto riedificare.

II. TERZO MOMENTO. Tutto questo dimostra e misura la potenza meravigliosa

della Chiesa nell'opera generatrice, conservatrice, e restauratrice dell'ordine sociale,

di fronte alle insidie del socialismo, in quel periodo in cui essa sedeva suprema

moderatrice della civiltà. Ma ciò spiega ancora come nel terzo momento, che data

dallo scisma d'occidente (1378) fino al 1500 e che comprende la decadenza della

società medioevale, - turbata la fede per lo scisma papale, scosso il rispetto del

ministero ecclesiastico per la corruzione del clero, osteggiata l'autorità pontificia

dall'incipiente assolutismo delle vecchie monarchie (da Filippo il Bello in poi e dei

nuovi principati specialmente d'Italia), erigentesi fra gli abusi della democrazia e

delle civili libertà, tale diminuzione di efficacia sociale della Chiesa, accoppiata allo

scadere del costume e al sorgere in qualche luogo del capitalismo mercantile e

bancario, permettesse finalmente che il socialismo, in sul tramonto dell'età di mezzo,

comparisse in forma organizzata e con effetti duraturi.

In Inghilterra Wykliffe (1334-85), traendo dai sacri testi argomenti a condannare la

ricchezza e l'apatia degli ecclesiastici, riesce in breve a proclamare la libertà ed

uguaglianza assoluta dell'individuo di fronte all'autorità religiosa, alle classi civili

dominanti ed alla rispettiva proprietà e, associatosi alla propaganda di lui W. Tyler

che capitaneggiava centomila contadini armati, il moto socialista non poté essere

troncato che con la forza degli eserciti, lasciando però, dopo la sua repressione,

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continuatori più legali ma duraturi nei lollardi (1401) e riproducendosi più tardi in

Germania per opera di Giovanni Huss, eretico socialista furiosissimo precursore di

quelli moderni, condannato al concilio di Costanza (1415), che si trova alla sua volta

proseguito nella propaganda da Zizka e da Bohme (1438) e da parecchie sette

analoghe, fra cui i taboriti e gli adamitici in Boemia; tutti preparatori di quel latente

fermento che attendeva un Lutero per prorompere e dilagare.

12. Giudicandone complessivamente, il socialismo teoretico, e di rispondenza quello

pratico della cultura cristiana primitiva e medioevale, offre i seguenti caratteri: è

essenzialmente pseudo-religioso per la ispirazione; con prevalente tendenza ad

applicazioni generali egualitarie per abuso del concetto di solidarietà sociale proprio

del cristianesimo; con intenti di pretesa perfezione etico-religiosa; ma con efficacia

(salvo in sulla fine del medioevo) eccezionale e transitoria. L'opposizione col

socialismo dell'antichità non potrebbe essere più aperta; mentre questo per lo più era

filosofico-politico per il principio, spesso parziale per le applicazioni ad alcune classi

soltanto, tendente a perfezione civile nello scopo, congenito e duraturo nella

immanenza storica.

Ma più spiccata ancora è l'opposizione del medioevo con l'antichità nel rispetto delle

virtù terapeutiche, cioè delle forze intrinseche di risanamento sociale, come apparisce

dall'insieme vigoroso di presidi che l'ordine sociale cristiano aveva saputo

contrapporre (dalla sua origine al secolo XIV) alle molteplici tendenze di

dissoluzione o di sconvolgimento civile, fino a che, almeno la Chiesa, poté effondere

liberamente i tesori delle sue virtù interiori e della sua efficacia esteriore nella

società; argomento codesto che anche oggidì milita in favore della libertà della

Chiesa per la sua missione storica di fronte ai vizi della società moderna ed al

progresso del socialismo.

13. Né valgano, davanti alla critica, le obiezioni vecchie e rinnovate (Cabet,

Considérant, Saint-Simon, Villegardelle, Renan, Laveleye, Nitti), che anzi il

socialismo moderno rinvenga i suoi tipi negli ordinamenti e costumi dei primi

cristiani (la comunità cristiana di Gerusalemme, le agapi fraterne, le comunanze

monastiche, ecc.) e il suo fondamento dottrinale nel Vangelo, negli Atti degli

apostoli, in specie nelle dissertazioni apologetiche e controversiste dei santi padri,

donde l'accusa ed il nome di socialismo cristiano.

Certamente il cristianesimo allora per la prima volta nel mondo (e sempre dappoi)

sorse a condannare autorevolmente l'egoismo, ad additare i pericoli della ricchezza, a

prendere la difesa dei deboli e delle moltitudini oppresse e a predicare 1'amore che

tutti pareggia ed accomuna, confermando le parole con l'esempio. Ma inferirne perciò

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che il cristianesimo generò il socialismo è errore antistorico e anti-scientifico, figlio

di una delle seguenti ragioni:

a) talvolta di una superficiale conoscenza del cristianesimo e della sua storia; donde

una confusione elementare fra precetti e consigli evangelici, fra uso ed abuso di

ricchezza, fra doveri di giustizia e quelli di carità;

b) tal altra di preconcetti e passioni, per cui si contorce l'espressione dei fatti e della

dottrina del cristianesimo deliberatamente contro ogni critica scientifica; e ciò a due

diversi intendimenti, o per tessere 1'apologia del socialismo o per rinfacciare il

cattolicesimo di connivenza con quello;

c) qualche volta di un resto di razionalismo mistico, per lo più fra protestanti e russi,

quali anche oggi (Ruskin, Toynbee, Tolstoi, ecc.), per cui uomini desiderosi di

rialzare i sentimenti morali del dovere e dell'abnegazione in pro della generalità,

credono di consacrare, con l'autorità superiore religiosa, il loro ottimismo egualitario

e trascendentale.

Del resto, appena qualche passo isolato o qualche ampollosità e vibratezza di

linguaggio dovuti al carattere polemico degli scritti dei santi padri od alla eccezionale

gravità storica dei vizi da essa flagellati, porsero pretesto a pervertire le idee sociali

dei medesimi. Una rigorosa ermeneutica storica ha oggi dimostrato la perfetta

colleganza di dottrine che essi mantengono con le fonti del Vangelo e con quelle

posteriori della scolastica, la quale, anzi, non fece che ridurre a formula rigorosa la

dottrina dei santi padri stessi (Funk, Hergenrother, Freppel, Duchesne, Joly, Benigni,

Ballerini, Semeria).

Nessun'altra religione o teoria filosofica quanto la cristiana, può vantare di fronte ai

disordini sociali, da qualunque parte provengano, una eguale coerenza logica e

continuità storica. E una prova di più della missione che le è riservata anche ai dì

nostri, per la restaurazione della civiltà avvenire.

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Auguste Nicolas

Del Protestantismo e di tutte le eresie nel loro rapporto col Socialismo

APPENDICE AL VOLUME 1° - pag. 227-266

SUNTO STORICO DELLE ERESIE NEL LORO RAPPORTO

COL PANTEISMO E COL SOCIALISMO.

Appena il cristianesimo fu stabilito, sorsero tosto intorno alla Chiesa che ne custodiva

il deposito, e si succedettero eresie a molestarne il corso attraverso ai secoli.

Ma una cosa sorprendente e decisiva, non ancora ben osservata e che prova la divinità

del cristianesimo e della istituzione della Chiesa col fatto stesso della nostra esistenza

sociale, è che tutte le eresie, qualunque ne fosse il principio e l'arma, tutte, nella

diversità delle mille origini, dei mille nomi, delle mille forme che ebbero, hanno

voluto attaccare il dogma dell’Incarnazione, e così sono traboccate nel panteismo, nel

fatalismo, nel comunismo; in una parola sono state non meno antisociali che

anticattoliche, ed hanno mirato a ricondurre al caos antico la novella civiltà, della

quale la Chiesa salvò in tal modo i destini salvando quelli della fede.

È una prova che ci par degna di attirare l’attenzione di ogni mente che ami la verità

quella che stringe così con un vincolo solidale il cattolicesimo e la società, e permette

di stabilire fra loro una regola di proporzione, la quale, posta la verità della società,

presenta per equazione la verità del cattolicesimo, e viceversa.

I socialisti hanno ammirabilmente colto e giustificato questo rapporto, confondendo il

cattolicesimo e la società nella loro comune rabbia; e i razionalisti conservatori, che

dopo tante lezioni vorrebbero ancora separare il cattolicesimo dalla società, sarebbero

i più incorreggibili e i più ciechi degli uomini.

Sotto questo aspetto la storia delle eresie riuscirebbe del maggiore e più curioso

interesse. Noi non possiamo entrarvi molto addentro, perché sarebbe opera troppo

lunga. Noi ci occupiamo a produrle rapidamente innanzi al dogma cristiano e, per via

di confronto, convincerle di errore e di delitto.

La storia delle eresie può esser divisa in quattro periodi:

1.° Il periodo delle eresie indo-elleniche; in cui il vecchio Oriente e il vecchio

Occidente fecero i loro ultimi sforzi centra il cristianesimo.

2.° Il periodo delle eresie dommatiche; in cui i principali articoli del dogma

cattolico furono messi in questioni e ricevettero la loro precisa definizione.

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3.° Il periodo delle eresie scolastiche, in cui per l’abuso del raziocinio le eresie

nacquero dalle speculazioni della mente sulla dottrina.

4.° Il periodo delle eresie protestanti e razionaliste delle quali è propria la

negazione del principio medesimo dell'autorità cattolica.

In questa Appendice noi presenteremo il quadro dei primi tre periodi, avendo

esposto il quarto nel corpo dell’opera.

Eresie del primo periodo

I. — Le prime fra tutte le eresie, contemporanee al sorgere stesso della Chiesa e

che vennero da lei soffocate in culla, sono state quelle dei giudaizzanti, dei nazareni e

degli ebioniti.

Cotali eresie avevano questo di singolare, che le distingue dalle eresie posteriori, che

non erano uscite dal seno della Chiesa separandosi dalla sua dottrina, ma piuttosto si

son poste fin dal principio allato ad essa, come forme particolari e difettose del

cristianesimo.

Esse costituiscono per ciò una prova storica immediatamente contemporanea e diretta

dei fatti evangelici, poiché la fede di colali eresiarchi in questi fatti non l'hanno attinta

dalla Chiesa, alla quale non hanno mai appartenuto, ma fuori della Chiesa e nei fatti

medesimi, come lo attesta segnatamente il loro folto Vangelo degli Ebrei. Essi non

sono cristiani tralignati, ma ebrei mal cristianizzati, sono come prove mal riuscite di

stampa, le quali attestano al più alto grado la realtà dei caratteri storici sui quali è

stato tirato il foglio di torchio. Sotto questo rapporto non si è forse fatto valere

abbastanza questo argomento nell’apologetica cristiana.

Checché sia di ciò, questi cristiani giudaizzanti, come si chiamavano, o meglio questi

ebrei cristianizzanti, le cui diverse sette erano comprese sotto il nome di ebioniti, si

distinguevano dal resto degli ebrei in questo, che riconoscevano Gesù Cristo essere il

Messia; e si separavano dai cristiani in questo, che non ammettevano che egli fosse

Dio. Essi negavano il dogma dell’Incarnazione. Tuttavia la maggior parte

ammettevano che Gesù Cristo era nato da una vergine; ma non vedevano in lui che un

uomo dotato di una sapienza soprannaturale, in cui il Messia celeste era disceso

durante il suo battesimo sotto la forma di una colomba. Questo Messia celeste era il

più elevato degli spiriti emanati da Dio. La loro dottrina era dunque quella

dell’emanazione, vale a dire del panteismo orientale. Essi avevano preso il nome di

ebioniti da una parola ebraica che significa povero, a motivo che professavano lo

spogliamento individuale e la comunanza dei beni, come una prescrizione che

imputavano falsamente agli apostoli.

Gli apostoli non hanno mai prescritto la comunanza dei beni I primi cristiani di

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Gerusalemme, è viro, non avendo tutti che un cuore ed un'anima, vendevano i loro

beni e ne deponevano il prezzo appiè degli apostoli perché fosse distribuito a

ciascuno secondo i propri bisogni. Ma la cosa si faceva liberamente, e gli apostoli

non l'imponevano come legge. Se ne ha la prova nelle parole medesime di san Pietro

ad Anania e a Safira, percossi di morte, né già per non aver portalo l’intero prezzo del

loro campo agli apostoli, ma unicamente per avere mentito: Non è vero che

conservandolo stava per te, e venduto era in tuo potere?... Non hai mentito agli

uomini, ma a Dio. (Act V, 4.) Nulla di più formale. 11 cristianesimo, come ii vede,

non è comunista clic della verità. Questo è il solo bene che esso esige che noi

mettiamo in comune. Ma, diversamente da tutti gli altri beni, questo si aumenta

dividendosi, e arricchisce coloro che lo comunicano quanto quelli che lo ricevono.

Egli, anziché dividere sé stesso eguaglia noi e ci unisce. È la comunione delle anime,

il rovescio e l'antidoto del comunismo, cui la sola Chiesa ha la potestà di operare.

Permettevano inoltre la poligamia (Dellinger, Origine del cristianesimo. — Alzog,

Storia della Chiesa— Bergier, Dizionario di teologia. Fleury, Storia ecclesiastica).

Così fin dai primi giorni del cristianesimo la negazione del dogma fondamentale

dell’Incarnazione si mostrò per mezzo del panteismo e del comunismo.

La Chiesa percosse questi primi nemici della fede e dell’incivilimento,

proclamando la divinità del figliuolo di Maria.

II. — Intorno a quel tempo o poco dopo questa eresia, comparve quella degli

gnostici. Chi dice eresia dice frazione all'infinito, come chi dice Chiesa dice unità

perfetta. Quando adunque noi indichiamo un'eresia con un nome. non si deve

intendere un’unità di frazione, ma frazioni di frazione senza numero. Sotto la

denominazione di gnostici pullulava una moltitudine di sette; esse avevano solo

qualche cosa di comune fra loro, e questo è ciò che le ha raccolte sotto il nome di

gnostici; questo qualche cosa che avevano comune fra loro è il punto di sezione pel

quale si sono separati dalla Chiesa. Essi si chiamavano gnostici dalla parola gnosis,

che significa illuminazione, scienza superiore. I gnostici presero essi medesimi

questo nome orgoglioso, perché si vantavano di aver lumi straordinari, di essere

illuminati. La Chiesa dovette sostenere contra di loro lotte lunghissime e moltissime:

essa v’adoperò tutto l’ardore e tutto il genio dei suoi primi gran dottori, segnatamente

di sant’Ireneo, di sant’Epifanie, di san Clemente -e di Tertulliano. I primi gnostici

erano pagani mal diventati cristiani, come abbiamo veduto che gli ebioniti erano ebrei

malvenuti egualmente al cristianesimo. I gnostici posteriori furono eretici usciti dalla

Chiesa.

Era proprio dei gnostici il negare il dogma dell'Incarnazione, come gli ebioniti, con la

sola differenza che gli ebioniti negavano la divinità di Cristo, e i gnostici la sua

umanità (Beausobre, Storia del manicheismo, lib. II, cap. 4, § 1. — Bergier,

Dizionario di teologia. — Alzog, Storia della Chiesa. — Dellinger, Origine del

cristianesimo. — Pluquet, Dizionario delle eresie).

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Essi dicevano che Gesù Cristo non aveva avuto che una carne apparente; che egli era

nato, che aveva patito ed era morto solamente in apparenza. È incontrastabile che il

panteismo formava la sostanza di tutte queste sette (Cfr. cit. sopra). Esse

professavano la dottrina dell’emanazione decrescente per una moltitudine di eoni o di

geni, ai quali attribuivano la produzione delle cose e tutti gli avvenimenti: dottrina

presa in parte dal buddismo, in parte dal platonismo. Consistendo la loro medesima

eresia nel non vedere in Gesù Cristo altro che un’apparenza, essa procedeva dal

panteismo e a lui conduceva; essendo Gesù Cristo il primogenito delle creature, tutta

quanta la creazione non era, come lui, altro che una semplice apparenza.

I gnostici si dividevano in due grandi categorie; quelli che ammettevano non più che

una sostanza unica, i panteisti semplici, e quelli che ammettevano due sostanze

principii, i panteisti dualisti o manichei. Questi non erano meno panteisti dei primi;

solamente il loro panteismo era doppio: il panteismo della materia, il cui principio

emanatore era il male; e il panteismo dello spirito, il cui principio emanatore era il

bene; ambedue necessari. Per conseguenza essi professavano orrore alle cose

materiali; fuggivano il matrimonio come una propagazione del male, e il

possedimento di beni terreni come un attaccamento al cattivo principio; ma, come

tutte le sette che ardirono riprovare l'unione legittima dei sessi e la legittima proprietà

dei beni, essi andavano a cadere in tutte le turpitudini che oltraggiano la natura e in

tutte le follie che rovinano la società.

Il socialismo, il comunismo dei nostri dì si ritrovano interamente in questi antichi

eretici. Noi leggiamo in un libro intitolato Della giustizia, composto da uno dei loro

capi, Epifanio, onorato da essi quale un Dio, che «la natura medesima vuole la

comunanza di ogni cosa, del suolo, dei beni della vita, delle donne: e che le leggi

umane, sconvolgendo l'ordine legittimo, hanno prodotto il peccato con la loro

opposizione agli istinti più potenti posti da Dio nel fondo delle anime». Tali principii

potevano facilmente condurre ai delitti contro natura che la storia attribuisce a questi

eretici (Dellinger, Origine del cristianesimo, tom. I.—Maret, Saggio sul panteismo

pag. 219).

Due iscrizioni scoperte da poco tempo nella Cirenaica sono un monumento notevole

di questi gnostici manichei. L’una mette sulla medesima linea Thot o Ermete

Trismegisto, Crono, Zoroastro, Pitagora, Epicuro, il persiano Mazdac, Giovanni e il

Cristo, come tali che hanno unanimemente insegnato la comunanza d'ogni proprietà

(meden oikeiopoieisthai); l’altra dice: «La comunanza di tutti i beni e delle donne è la

sorgente della giustizia divina e la perfetta felicità per gli uomini buoni tratti dalla

cieca popolaglia. Zaradete e Pitagora, i più illustri dei gerofanti, insegnarono loro a

vivere insieme».

Se la fede non dovesse già altari al cattolicesimo, la riconoscenza dovrebbe

rizzargliene per aver salvato l'incivilimento nella sua culla, abbattendo coi colpi

raddoppiati della clava dell’ortodossia l’idra dello gnosticismo, le cui mille teste

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rinascenti furono per ben duecento anni sempre in atto di divorarlo.

«L’età della forza e del fiorire del primo gnosticismo, dice un dotto e onorevolissimo

storico, durò circa cent’anni. Verso la metà del terzo secolo, si vedevano già i segni

forieri della sua dissoluzione; e se si era potuto temere per qualche tempo che la

forma gnostica avesse a prendere la superiorità nel cristianesimo, la preponderanza

della Chiesa fu da quel tempo evidente e decisa. Ma l’attrattiva che questo errore

aveva esercitato sulla mente di tanti uomini era molto lungi dall’essere interamente

dileguata, come lo provarono i progressi rapidi e la vasta estensione del

manicheismo, nuova setta, parente di quella che si spegneva. Lo spirito delle

religioni naturali dell'Oriente raccolse un'altra volta tutte le sue forze e tentò

d'imprimere al cristianesimo una direzione retrograda verso il vecchio panteismo.

L’anima umana fu nuovamente identificata dal panteismo con la divinità, e l’una e

l’altra si trovarono inghiottite ad un tempo nel circolo della natura...» (Dellinger,

tom. I, pag. 266).

Noi ritroviamo poscia il manicheismo negli albigesi e sin nei franchi muratori dei

nostri giorni, almeno per le forme e le cerimonie delle loro iniziazioni e i segni

segreti del loro riconoscimento, letteralmente descritti da sant'Agostino, che nella sua

gioventù si era lasciato impigliare nella setta dei manichei. Noi torneremo su questi

raffronti. Tuttavia notiamo fin d’ora che i manichei, come in appresto gli albigesi e i

protestanti, avevano un’avversione particolare per le immagini e per la croce; che essi

rimproveravano ai cattolici cadessero negli errori dell’idolatria e onorassero i santi

come divinità; e pretendevano che era per nascondere ai laici la contraddizione tra la

condotta della Chiesa e la Sacra Scrittura sotto questo rispetto che i preti vietavano la

lettura di quest’ultima. (Vedi Pluquet, Dizionario delle eresie)

III. Lo gnosticismo era il vecchio errore panteista dell'Oriente, che aveva voluto

trasfigurarsi in cristianesimo; il vecchio errore dell'Occidente fece pur esso il

medesimo tentativo sotto il nome di neo-platonismo.

La pietra d'inciampo del suo tentativo fu ancora il dogma dell'Incarnazione: Gesù

Cristo, pietra sempre rigettata da quelli che vogliono rizzar gli edifici cadenti della

ragione umana, e sempre sussistente come pietra angolare del tempio della verità.

Il dogma dell’Incarnazione non è che il dogma della Trinità in azione per la salute del

mondo. Esso lo include necessariamente. Gesù Cristo è il Figliuol di Dio, seconda

persona della santa Trinità, che manifesta la prima nell’Incarnazione, e che è essa

medesima manifestata dalla terza nella Chiesa. L'Incarnazione ci mostra il Padre

celeste che si riconcilia il mondo nel Figliuolo; e la Chiesa ci mostra questo Figliuolo

che converte il mondo a questa riconciliazione per mezzo dello Spirito Santo. Ma

queste tre persone non hanno rapporto necessario e sostanziale se non fra loro: col

mondo esse non hanno che rapporti di libera elezione e di misericordia puramente

gratuita. Esse sono Dio; e Dio, l'infinito, è sovranamente indipendente dal finito, nella

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sua essenza come nei suoi atti; nella Chiesa, come nell'Incarnazione, come nella

creazione, come nell’eternità. Estendere i rapporti necessari delle tre persone divine

al mondo è dunque un urtar contro il dogma dell’Incarnazione, il quale protesta

contro questo errore per la distinzione assoluta delle due nature in Gesù Cristo, che le

unisce solamente nella sua persona, non meno che contra il dogma della Trinità, il

quale non ammette nella partecipazione della divina essenza se non le tre persone che

la costituiscono.

Questo fu lo scoglio del neo-platonismo.

Il neo-platonismo ha avuto tre centri principali: Alessandria, Roma e Atene; ma ha

conservato il nome di alessandrino o di scuola di Alessandria. I suoi più famosi

rappresentanti sono stati Piotino, Porfirio, Giamblico, Gerocle e Proclo. Il loro scopo

era quello di salvare la filosofia ellenica, e insieme con essa il paganesimo,

cristianizzandola, e di soppiantare il cristianesimo togliendogli tutto ciò che gli si può

togliere allora che non si vuol dare sé stesso a Gesù Cristo, vale a dire quando si

vuole escluderlo; perché quelli che non sono per lui sono di tutta necessità contro di

lui.

Appunto per questo essi finirono ancora nel panteismo; conseguenza ordinaria del

rigettare il dogma cattolico dell’Incarnazione.

E così fecero volendo più particolarmente platonizzare il dogma della Trinità o

cristianizzare il platonismo. Ecco difatti, secondo le Enneadi, libro di Plotino, il

prodotto del loro sforzo:

«L’unità è il principio necessario, la sorgente e il termine d'ogni realtà, o piuttosto la

realtà medesima, la realtà originale e primitiva… Essa racchiude in sé i germi d'ogni

cosa; è quel Saturno incatenato della mitologia, padre del padre degli dei....

Nondimeno l'uno non è l’essere, non è l'intelligenza; esso è superiore all’uno ed

all’altro, essendo al di sopra d’ogni azione, d’ogni situazione determinata, d'ogni

conoscenza. È qualche cosa d'invisibile, ritratto in una notte immensa; il padre

sconosciuto, l'abisso, Bythos. È ciò che è il Brama indeterminato della metafisica

dell’India; il fondo dell'essere, la sostanza che non si può cogliere in sé medesima, e

che si comprende come ciò che è nascosto sotto ciò che appare.

«Dal seno di questa unità assoluta procede l'Intelligenza suprema, secondo

principio, perfetto anch’esso, quantunque subordinato, ed essa ne procede per

emanazione, come la luce procede dal sole.—L'anima universale è il terzo principio,

subordinato agli altri due; quest’anima è il pensiero, la parola, un’immagine

dell’intelligenza, l’esercizio della sua attività— Questa processione è da tutta

l'eternità, e questi tre principii, quantunque formino una gerarchia nell'ordine della

dignità, sono contemporanei fra loro.»

Questa triade di Piotino compone il mondo intelligibile, mondo perfetto, che non è

che la medesima divinità in quanto la si manifesta. Questo mondo intelligibile è non

solamente il tipo del mondo visibile, ma ne è la base, l'essenza reale e vera.

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«Dall’anima suprema e dall’intelligenza emanano di fatto le idee o le anime che sono

le sole realtà vere, le anime degli Dei, degli uomini, degli animali e degli elementi; la

materia medesima.» A dir breve, il mondo non era per Piotino che la grande anima

informante la materia per mezzo delle idee o delle anime che essa produce.

L'identità assoluta, che è il fondo del sistema di Plotino, si rivela soprattutto nella sua

teoria della conoscenza. «La vera conoscenza, dice egli, è quella in cui l’obietto

conosciuto è identico col soggetto che lo conosce.» Quando adunque noi percepiamo

l'unità assoluta. percepiamo noi medesimi; quando noi conosciamo le altre

intelligenze, conosciamo ancora noi stessi.

Con tale sistema la libertà, la spontaneità, la personalità individuale, elementi d’ogni

società, si dileguano interamente. Perciò, secondo Piotino, tutto nel mondo è

necessario, tutto è l'opera di una produzione fatale. Il male medesimo non è che una

negazione necessaria al bene; esso risiede nella materia, che è considerata qualche

volta da Piotino come una produzione imperfetta dell'Ente supremo. In questa ipotesi

il male risiede in Dio medesimo.

La medesima dottrina è nella sostanza in Proclo e negli altri neoplatonici.

Le operazioni teurgiche erano per essi il gran mezzo di purificazione e

d'illuminazione delle anime. Essi cercavano comunicazioni dirette coi gonii, cogli

Dei, col Dio supremo. Così questi filosofi si studiavano di rimettere in corso tutte le

superstizioni pagane, e si abbandonavano con uno zelo incredibile a tutte le pratiche

del politeismo e della magia.

Questa dottrina, in cui si riconoscono i principali tratti dell'hegelianismo dei nostri

giorni, era un’accozzaglia bizzarra delle filosofie orientali ed elleniche, colorata dalla

dottrina cristiana sulla Trinità. Era una lega di tutti i sogni dello spirito umano conica

la luce della verità che veniva a dissiparli. Per arrestare i progressi del cristianesimo i

neo-platonici si diedero di fatto a scegliere nelle diverse scuole di filosofia le opinioni

che a forza di palliativi potevano diventar simili in apparenza ai dogmi del

cristianesimo, affine di persuadere agli spiriti superficiali che anche i filosofi

avevano, del pari che Gesù Cristo, scoperto la verità, e che non v’aveva alcuna

necessità di rinunziare alla loro dottrina per abbracciar quella del Vangelo. Sotto

questo rispetto il neo-platonismo è un’altra conferma di questa verità che noi

vogliamo soprattutto mettere in luce, che cioè tutte le concezioni filosofiche dello

spirito umano sulla verità soprannaturale, fuori della fede cristiana, vanno a perdersi

inevitabilmente nel panteismo e nel fatalismo, poiché questi ci mostrano nei

mostruosi loro errori unite e compendiate tutte quelle concezioni.

I neo-platonici stessi non negavano di aver preso qua e là tutti quei placiti, la cui

unione componeva la loro dottrina. Anzi essi avevano ridotto una tale unione in

sistema, nel sistema dell’ecletticismo e del sincretismo, che ai giorni nostri abbiam

veduto ricomparire.

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Essi trascorsero sino a pretendere che la differenza di carattere dei popoli voleva una

diversità nella loro religione, e rendeva necessario quel sincretismo religioso che noi

vediamo esposto in Proclo, Gerocle, Simplicio, Calcedio e nello storico Ammiano

Marcellino. Movendo da questo punto, Proclo diceva: «Il filosofo non si costringe a

tale o tal altro culto nazionale; egli non è estraneo ad alcuna forma di religione,

perché è il gran sacerdote dell'universo.» Ed è questo ministero delle anime che i

nostri filosofi pretendono altresì esercitare del pari o meglio al di sopra dei pontefici

della religione.

Del resto, essi facevano al cristianesimo il medesimo onore che gli si fa ai dì nostri,

di ammetterlo, insieme colle altre religioni, a partecipare agli ossequi della filosofia;

cristianesimo e paganesimo erano messi al medesimo livello, non essendo l'uno e

l'altro che manifestazioni dell’intelligenza, la quale mira continuo a sciogliersi per

innalzarsi alla ragion pura.

Ma questa tolleranza filosofica, oltre che attentato al cristianesimo dommatico, il

quale non può patire queste assimilazioni sacrileghe, non era che una tattica per

battere in breccia il cristianesimo pratico e la sua azione incivilitrice sul mondo. Sotto

questo riguardo il panteismo non era solo il termine inevitabile di tutte le concezioni

umane fuori della fede, ma era al tempo stesso il terreno più favorevole per questa

gran congiura. Facendo procedere ogni cosa da un medesimo principio ed emanare

ogni cosa da una medesima intelligenza, egli consacrava tutti gli errori, e autorizzava

la loro lega contro la verità che li escludeva. È questa l’identica cosa che abbiamo

veduta ai dì nostri. La sola differenza era questa, che il trattato era steso ad

Alessandria invece di Parigi, e compilato da Gerocle o da Giamblico invece di esserlo

nel Globe da Damiron o da Jouffroy.

Ma questo tentativo fu altrettanto vano allora quanto fu vano ai di nostri. La

questione tra il panteismo e il cristianesimo, tra il paganesimo antico e l’incivilimento

moderno, sospesa per un istante sul mondo, fu tronca dalla spada della verità

cattolica; il panteismo e il paganesimo furono ricacciati negli abissi, e il cristianesimo

continuò il suo corso, traendo con sé il mondo nella gran via luminosa del suo

destino.

Ambrogio! Apollinare! Lattanzio! Eusehio! Cirillo! Teodoreto! Arnobio! Clemente!

Origene! Atanasio! Agostino! bei geni, illustri dottori, e molti soprattutto gran santi,

che combatteste allora per la verità, siate salutati dall’età nostra come i veri padri non

solamente della fede e della Chiesa, ma della ragione e della società, del mondo

strappato da voi alle tenebre antiche e restituito ai suoi alti destini! Siate invocati

nella gloria che vi hanno acquistato i tanti e sì gran combattimenti in cui la verità non

solo fu salva dai vostri scritti, ma ancora dal sacrificio della vostra vita o del vostro

sangue; e ottenete pei vostri credi nell’incivilimento e nella fede i medesimi lumi

contro i medesimi errori, il medesimo coraggio contro i medesimi pericoli, il

medesimo trionfo per la medesima causa!

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Eresie del secondo periodo

Dopo la vittoria decisiva conseguita sopra il sincretismo alessandrino, la Chiesa e la

società cristiana non furono per lunga stagione attraversate nel loro corso da alcuna

lega esteriore. Però lo spirito di errore non venne meno alla sua natura eternamente

gelosa e sovversiva, ed al potere che ha ricevuto dalla previdenza di abbandonarvisi

nella misura prescritta, per provare continuamente la verità e lo zelo dei suoi

discepoli. Egli soggiacque allora a una specie di metempsicosi. I sistemi panteisti

esterni, sotto i quali si era prodotto, essendo disciolti dal dogma cristiano, egli passò a

forme più teologiche, più dommatiche, ma la sostanza non era punto meno panteista,

e il risultato non meno antisociale.

I. Secondo questa nuova strategia, lo spirito di tenebre cominciò dal trasfigurarsi in

angelo di luce nel montanismo.

Quantunque il montanismo risalga a più alta origine, pure, siccome. egli apre la serie

delle eresie più particolarmente teologiche, noi abbiamo creduto di poterlo porre

dopo il sincretismo.

Il montanismo, che ebbe la trista gloria di macchiar quella del valente Tertulliano e di

farlo cadere per eccesso di valore, non smentisce punto il parentado logico che noi

vogliamo mostrare tra ogni eresia cristiana ed il panteismo. La dottrina di Montano

consisteva nel pretendere che Gesù Cristo e la Chiesa non erano il termine del

progresso morale e religioso; che, oltre Gesù Cristo, oltre lo Spirito Santo da cui la

Chiesa era stata sino allora assistita, doveva venire il Santo Spirito in persona, il

Paracleto, per recare sulla terra una dottrina più perfetta, una morale più severa che

doveva essere un progresso sopra quella del Vangelo, come quella del Vangelo era

stata un progresso sulla legge mosaica, e questa sulla legge naturale. «La morale,

diceva egli, deve perfezionarsi; essa deve crescere in vigore; Dio medesimo ha

provato e mostrato anticipatamente questa gradazione passando dall’antico al nuovo

Testamento per mezzo le istituzioni e i modi di salute progressivi dell’uno e dell’altro

Testamento (Alcog, Storia della Chiesa, tom. I, pag. 247)

A questa semplice esposizione del montanismo è facile riconoscere la traccia del

panteismo. Questo progresso successivo per mezzo le istituzioni e i simboli non

dell’uomo nella perfezione morale, ma della morale in seno all’umanità, somiglia in

fatto assai allo sviluppo, alla processione dell’infinito in mezzo alle forme e ai modi

del finito, che è propriamente il panteismo. Montano si applicava il benefizio di

questa dottrina, facendosi tenere o credere come particolarmente ispirato dal Santo

Spirito, come l’organo più potente del paracleto che fosse mai apparso. Egli

predicava in conseguenza una morale più rigorosa di quella del Vangelo insegnato

dalla Chiesa, pretendendo, oppostamente a questa, che bisognava scomunicare per

sempre e senza remissione i peccatori pubblici, fare astinenze e digiuni fuori di ogni

misura, vietare le seconde nozze e prevenire le persecuzioni. Come lo gnosticismo

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aveva sviluppato in maniera fantastica la parte teorica del cristianesimo, così il

montanismo ne esagerava la pratica. Il primo minacciava di trasformare il

cristianesimo in una teosofia mistica, il secondo ne faceva un monarchismo esagerato

sopra ogni modo. Uscendo l’uno e l’altro, sui passi dell’orgoglio, dalla via cotanto

sapiente della Chiesa, e privandosi dei soccorsi soprannaturali di lei, mentre

esageravano le prescrizioni, riuscirono a tutte le follie dell’illuminismo e a tutte le

infamie per le quali la natura, troppo disconosciuta, ripiglia i suoi diritti.

Cosi, negando il dogma dell’Incarnazione nella sua efficacia assoluta, il montanismo

degenerava in panteismo e finiva coll'immoralità.

I vescovi cattolici, raccolti in diversi sinodi, fulminarono questa stolta sapienza e

questo rigorismo immorale, e separarono dalla società della Chiesa questa setta di

menzogna.

II. Intorno al tempo medesimo sorsero le eresie degli antitrinitari, dei sabelliani e dei

patripassionisti. Per salvare l'unità di Dio, compromessa, dicevano questi eretici, nel

dogma della Trinità, essi negavano questo dogma, e per conseguenza quello

dell’Incarnazione del Verbo, — gli uni, ricusando a Gesù Cristo ogni rapporto

consustanziale con la divinità, — gli altri, non vedendo in lui che una potenza divina,

non una persona divina, non la divinità medesima — gli altri finalmente vedendo in

lui la divinità, ma senza pluralità di persone, ridotta all’unica persona del Padre, che

si era egli stesso fatto uomo e aveva patito per noi; onde furono chiamati

patripassionisti.

Cosa singolare, ma profondamente giusta e logica: per voler essere più saggi, più

gelosi della grandezza di Dio che non la Chiesa, questi eretici cadevano nell’eccesso

opposto alla loro orgogliosa pretesa; essi prostituivano la divinità; e, cosa non meno

singolare e non meno logica, la prostituivano col panteismo, alternativa inevitabile

del dogma cristiano.

Cosi questi spiriti vani e superbi che pretendevano di vendicare la divinità dell'offesa

che secondo loro faceva alla sua unità santa l'ammissione delle tre persone che non

inducono in essa alcuna divisione, ammettevano all’identificazione con questa

medesima divinità, non già solo tre persone coinfinite e coeterne, ma il mondo altresì,

ma l’umanità, ma tutte le creature; e per salvare il teismo cadevano così nel

panteismo.

Ecco di fatto qual era il loro sistema:

«Il Padre, il Figliuolo, il Santo Spirito non sono punto persone distinte e

coeternamente esistenti in una medesima sostanza divina, senza rapporto necessario

col mondo. Sono denominazioni esteriori e temporanee della manifestazione della

monade divina, nella sua azione sul mondo. Queste manifestazioni diverse della

monade non hanno per scopo che il loro proprio sviluppo; esse si distendono, si

dilatano, secondo le espressioni stoiche, (ekteinesthai o platynesthai), o si restringono

e si concentrano (syntellesthai). La monade esce nel mondo e diventa Padre; ella si

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unisce al Cristo per l’opera della redenzione, e si chiama Figliuolo; ella si identifica,

coll’umanità, e si fa Santo Spirito. Finalmente, dopo di avere sviluppato la vita divina

nei tre regni del Padre, del Figliuolo e del Santo Spirito, la divinità si ritrae, si

raccoglie, si racchiude in sé medesima» (Alzog, Storia della Chiesa, tom. I, pag. 252.

— Dellinger, Origine del cristianesimo, tom. I, pag. 252. —Bergier, Dizionario di

teologia).

Così il panteismo usciva apertamente dalla negazione dei dogmi della Trinità e

dell’Incarnazione per mezzo di questi eretici.

Son ora da studiare le conseguenze antisociali di questa dottrina e la profonda

sociabilità dei dogmi cristiani. Io prego in ciò i lettori a degnarmi di tutta l’attenzione.

Se noi non siamo che una manifestazione, che un’apparenza, noi siamo annichilati; e

al tempo stesso questa manifestazione essendo una manifestazione, una dilatazione di

Dio, noi siamo autorizzati, necessitati, divinizzati in tutte le cattive inclinazioni della

nostra natura; conseguenza generale del panteismo già esposta e che noi ci limitiamo

a ricordare.

Scendiamo ad un’analisi più elementare.

L’elemento d'ogni società consiste in due cose: pluralità e similitudine degli esseri.

Di fatto, chi dice società dice pluralità, e per conseguenza distinzione degli esseri fra

loro, la cui unione forma la società. Senza questa pluralità, mantenuta dalla

distinzione nell’unione medesima, non può esservi né rapporto, né movimento, né

vita. — Io aggiungo: Le nostre società, fondate sulla nozione e sul culto del bene e

del giusto, vale a dire di Dio, ne suppongono una prima fra noi e Dio, tra il finito e

l’infinito, per mezzo della loro distinzione necessaria alla loro stessa unione, e senza

la quale non essendo noi distinti e sociabili per rapporto a Dio, non lo saremmo più

neppure gli uni rispetto agli altri. — Quanto alla similitudine degli esseri, è evidente

che essa non è meno necessaria della loro pluralità per stabilire fra essi una società;

non si può aver società che coi propri simili, ed è con questo disegno che l’uomo è

stato fatto originariamente a somiglianza di Dio, e che per questa prima similitudine è

stata formata la nostra società con Dio, la quale, rovinata dal peccato, doveva

riformarsi e consumarsi più tardi da Dio, facendosi egli pure simile all’uomo.

Da queste premesse traggo due luminose conseguenze a favore dei dogmi della

Trinità e dell’Incarnazione.

A favore del dogma della Trinità ne inferisco che Dio, essendo infinito, non può aver

rapporto eterno e necessario, o società naturale che con sé medesimo: perché chi è a

lui simile: Domine, quis simili stibi? (Psal. XXX,V, 10) Che ogni rapporto ed ogni

società implicando, come abbiam detto, pluralità non meno che similitudine, bisogna

necessariamente che vi sia in Dio una pluralità; la quale siccome non può essere

nell’essenza, poiché molti infiniti sono una contraddizione, deve essere in qualche

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cosa che sia in lui e che non è la sua essenza, qualche cosa che noi chiamiamo

persone, le quali dovendo corrispondere ai due gran bisogni di conoscere e di amare,

che sono la vita dell’essere, devono essere conoscenza e amore, distinte dal soggetto

che le genera; finalmente, che deve esser questa la prima di tutte le società sulla quale

devono essere formate tutte le altre, quella dalla quale devono discendere ed a cui

devono risalire.

A favore del dogma dell’Incarnazione concludo, che siccome ogni società suppone

pluralità e somiglianza, cosi, perché vi fosse società fra noi e Dio, bisognò che Dio si

facesse simile a noi, rimanendo distinto da noi; che l’uno di Dio, se così posso dire, si

facesse l’uno di noi; che egli formasse così l’anello di congiunzione, l’Emmanuele

che congiunge la società degli uomini con la società divina, e che inaugurasse il

dogma sociale sul dogma della Trinità per mezzo del dogma dell’Incarnazione, come

l’ha sì bene epilogato Gesù Cristo in quella divina preghiera che noi non possiamo

mai ripeter troppo in simile argomento: Che tutti non siano che uno, ecco la società;

come voi, Padre mio, siete in me, ed io in voi, che essi siano medesimamente uno in

noi, eccone il tipo; finalmente, io sono nel Padre mio, e voi in me ed io in voi, eccone

il nodo.

Per ciò rigettare il dogma della Trinità, come facevano cotesti eretici, è negare

all’Essere per essenza la vita di relazione che è propria dell’Essere, e che egli non

può trovare necessariamente che in sé medesimo: è un costringerlo in certo qual

modo, secondo questa concezione, a cercare fuori di sé e nel finito i termini dei suoi

rapporti necessari, vale a dire ad abdicare la sua natura e ad assorbire la nostra, e per

conseguente ogni società, nel panteismo.

Similmente, rigettare il dogma dell’Incarnazione è rendere impossibile ogni società

mediata fra noi e Dio, ogni rapporto accessibile; e siccome questa secondo il disegno

di Dio è il fondamento di quella, così il rigettare un tal dogma è un costringerci a

metterci pur noi in società immediata, in relazione diretta e necessaria con Dio, ad

assimilare per conseguenza la sua natura e la nostra, vale a dire a confonderle, e ad

andarci a perdere nell’infinito per mezzo del panteismo.

In questa guisa s'incatenano adorabilmente tutte le verità in seno alla dottrina

cattolica; così l'eresia degli antitrinitari e dei sabelliani doveva essere

necessariamente panteistica e antisociale.

III. Questa eresia dischiuse le strade ad un’eresia a gran pezza più vasta nei suoi

sviluppi, all’arianesimo. L’arianesimo, che menò i così gran guasti nei popoli

germanici e ritardò per sì lungo tempo l'azione incivilitrice del cattolicesimo su quei

barbari, fu una conseguenza dell’eresia antitrinitaria e sabelliana. Il Cristo non era

consustanziale al Padre, secondo Ario; egli era un essere creato, ma superiore a tutte

le creature e produttore pur egli delle medesime. L'arianesimo era una prolungazione

parziale del panteismo gnostico, che aveva messo in voga la dottrina delle

emanazioni divine decrescenti. Agli occhi degli Ariani, il Verbo divino era

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un’emanazione inferiore al Padre; e siccome al tempo stesso essi lo concepivano

sotto la nozione di creatura, così tutta quanta la creazione, la cui nozione vera era

distrutta, diventava una serie di emanazioni, ciò che era propriamente il panteismo.

Dicasi la stessa cosa delle dottrine eterodosse sopra Io Spirito Santo, le quali non

erano che l’arianesimo applicato alla terza persona della Trinità divina, e che furono

condannate nel secondo concilio ecumenico di Costantinopoli.

Il primo gran concilio di Nicea anatemizzò questa eresia, e formulò la verità cattolica

in quel passo del suo simbolo, di cui facciamo risuonare i nostri templi: Credo in...

Jesum Christum... Deum de Deo, lumen de lumine, Deum vero de Deo vero, genitum,

non factum, consubstantialem Patri; dichiarando così la divinità in Gesù Cristo, e

all’opposto distinguendone l’umanità, la cui confusione con la divinità l'avrebbe

compromessa.

IV. Apparve allora sulla scena il pelagianismo, il quale non fu che un’applicazione

dei principii dell’arianesimo. Secondo questo, Gesù Cristo non era che una creatura;

era perciò naturale il concluderne che egli non poteva acquistarci alcuna grazia

divina; ed è appunto la necessità di questa grazia che rigettava Pelagio, pretendendo

che l'uomo poteva raggiungere il più alto grado di perfezione morale e sottrarsi

all’impero del peccato colle sue proprie forze. I pelagiani, è vero, non negavano la

divinità del Cristo, come facevano direttamente o indirettamente gli ariani; ma

avrebbero potuto farlo senza nuocere in alcun modo alla loro teoria. Muovendo da

due punti di vista diversi, i due sistemi arrivavano al medesimo termine, col dedurne

le conseguenze dai loro principii. L’arianesimo separava Dio dall’uomo, il

pelagianesimo separava l'uomo da Dio. L’uomo, partendo dalla negazione della

divinità di Gesù Cristo, doveva arrivare alla negazione della grazia divina; l'altro,

partendo dalla negazione della grazia divina, doveva arrivare alla negazione della

divinità di Gesù Cristo; ambedue dovevano riuscire al naturalismo.

Il che è ciò che abbiamo veduto operarsi in grande nel protestantismo, il quale, per

mezzo di Zuinglio e Socino, arriva in Rousseau alla dottrina della bontà natia

dell’uomo e del pervertimento della società, donde Luigi Blanc e i socialisti hanno

tratto i principii della loro riforma. La fiducia di questi nella bontà dell’uomo, sulla

quale essi fondano e le loro accuse contro la società che l'ha pervertita, e le loro folli

utopie di riforma, illudeva del pari i pelagiani e li recava, per un falso raffinamento di

perfezione di cui essi credevano troppo capace l’uomo, a incriminare egualmente la

proprietà e tutte le relazioni che costituiscono la società degli uomini. «A veder come

i discepoli di Pelagio - dice un moderno scrittore - sostennero che la rinunzia alle

ricchezze era un obbligo assoluto per chiunque, voleva operare la propria salute, si

comprende come potessero sistematicamente riuscire mediante espropriazione alla

negazione della proprietà, al comunismo» (Francesco Lacombe, Studi sui socialisti).

L’ortodossia religiosa e sociale trovò un fiero campione in sant'Agostino, il quale

combatté tutti gli errori pelagiani, confrontandoli con la verità cattolica. Egli

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giustificò la proprietà mobile ed immobile dell’uomo individuale riguardo allo Stato;

definì in modo ammirabile ciò che era di precetto e ciò che era di consiglio nella

legge della rinunzia, e restituì a questa legge il suo vero carattere evangelico,

piuttosto morale che materiale, che non potrebbe pregiudicar mai alla vita sociale

degli individui, di cui si compone quella delle società.

V. Non è mai che lo spirito umano prorompa in qualche eccesso senza che ne sia in

breve punito, cadendo nell’eccesso contrario. Inoltre, come abbiam già detto, il

naturalismo non può durar lungo tempo nell’anima umana. Questa ha orrore del

vuoto, del suo isolamento da Dio, e non è mai più vicina a precipitarsi in questo

abisso come quando è giunta a separarsene. Il naturalismo, una volta che si è

abbandonato il cristianesimo, non è altro che un rapido passaggio al panteismo. Non è

la separazione che può salvarci dalla confusione con Dio; è l'unione, la Religione.

Il pelagianismo doveva condurre al predestinazionismo; o alla dottrina opposta

dell’onnipotenza della grazia divina nell’uomo, esclusiva di ogni cooperazione

umana e negativa d'ogni libertà. Dio ci predestina fatalmente alla felicità o alla

dannazione; la sua azione ci rende necessariamente giusti e santi. Tale fu l'eresia del

predestinazionismo, che conteneva il panteismo e il fatalismo, doppio errore cui tutte

le eresie pare abbiano avuto per scopo d'impiantar nel cuore delle società cristiane.

(F. Lacombe).

Con profonda sapienza la Chiesa anatemizzò il pelagianesimo e il

predestinazionismo; il primo nel gran concilio di Cartagine, l'anno 418; il secondo in

diversi concili d'Arles e Lione. Essa mantenne due verità certe, l’azione della grazia

divina e l'azione della libertà umana, vale a dire, sempre la realtà distinta dell’infinito

e del finito, del soprannaturale e del naturale, così nella loro azione come nella loro

essenza. La grazia non può nulla sopra di noi senza il concorso della nostra libertà. La

nostra libertà non può nulla in noi, nell’ordine della salute, senza il soccorso della

grazia. Distinzione capitale, essenziale, che erige a destra e a sinistra dell’umanità un

baluardo che la preserva dal naturalismo e dal panteismo, e tiene sgombro il sentiero

del buon senso, dell’esperienza, della tradizione sociale e della verità pratica delle

cose sul quale deve correre.

VI. Ma come si conciliano fra loro la grazia divina e la libertà? Qual è la parte

reciproca della loro azione nell’opera dell’umana salute? È in ciò che si tocca al

mistero dei misteri, la difficoltà delle difficoltà; è questo il passo che la sola Chiesa

seppe superare senza cercare né evitare, e al quale sono venuti a sdrucciolare e a

cadere tutti quelli che non si sono accontentati di porre semplicemente il piede sulla

traccia del suo insegnamento, insistere vestigiis.

E questo è ciò che volle fare il semi-pelagianesimo. Secondo il pelagianesimo, il

peccato di Adamo non ha turbate le condizioni della perfettibilità umana: l'uomo può

fare il bene dopo come prima di quel peccato; egli ha in sé una forza naturale

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sufficiente per compiere le buone azioni; esso è naturalmente buono, e la grazia è

semplicemente un soccorso che lo aiuta a diventare più facilmente migliore.

Secondo il predestinazionismo, il peccato di Adamo ha distrutta nell’uomo la libertà.

la possibilità del bene. Egli ha bisogno della grazia, non già come aiuto per rialzarsi,

ma come mezzo unico e assoluto di essere rialzalo. Essa sola è quella che lo rialza,

che lo sostiene e lo fa camminare; egli non conta, è un cadavere.

Il semi-pelagianismo credette di essere la sapienza medesima venendo a porsi nel

giusto mezzo fra questi due eccessi, e a dire che la grazia e la libertà concorrevano

vicendevolmente a rialzar l'uomo e a recarlo al bene; che esse avevano un’egual parte

alla sua salute e ch’egli ne aveva un egual bisogno; che dopo il peccato originale,

l'uomo non è naturalmente buono, né portato al bene più che al male, ma che egli si

determina con altrettanta facilità all'uno e all'altro; che solo la grazia viene a

determinare il buon movimento, e a svilupparne il principio che è in lui.

Sapienza umana! la Chiesa anatemizzò questa eresia, più perniciosa delle altre due

perché era più sottile e riconduceva a quella per una doppia china. Occupata non già

di cercare il giusto mezzo fra due errori, ma unicamente di dichiarare la verità

rivelata, che non si trova necessariamente in questo giusto mezzo, essa divulgò quei

grandi assiomi di fede, di tradizione e di esperienza: cioè che per il peccato di Adamo

noi abbiam perduto cotesta grande e felice libertà, quest'equilibrio della nostra

volontà fra il bene ed il male; e che per ristabilire in noi un'eguaglianza perfetta è

necessario l'impulso della grazia; che essa è dunque sempre preveniente, e gratuita in

quanto preveniente; ma che non è efficace se non col concorso della nostra libertà.

Così la Chiesa sciolse il nodo gordiano della libertà e della grazia formato dall'eresia.

Certamente questo nodo ha altre difficoltà che si addentrano nelle misteriose

profondità della volontà umana e della grazia; ma la Chiesa non entra mai

prematuramente in questi abissi, come ella non sta mai in forse a perseguitarvi

l'errore e a portarvi la luce netta e viva della precisione quando l’errore gliene porge

argomento. Solamente ella mantiene il mondo nel possedimento di queste due grandi

verità, di questi due gran principii; il soprannaturale e il naturale, il divino e l’umano,

la grazia e la libertà; e li accorda nella loro azione nel seguente modo: la grazia

sempre preveniente, la libertà cooperante; Dio che stende la mano all’uomo, e l’uomo

che la prende.

VII. L'arianesimo e tutte le eresie precedenti avevano messo in questione l'esistenza

della divinità e dell’umanità, dell’infinito o del finito di Gesù Cristo. Il nestorianismo

venne ad inaugurare un altro ordine di eresie, quelle che si riferiscono non più

all’esistenza, ma ai rapporti naturali ed alle operazioni reciproche delle due nature nel

Cristo. L’unità di persona fu attaccata, come lo era stata la dualità di natura. Nestorio

venne a dire che vi era dualità di persona come vi era dualità di natura. Egli trasformò

la distinzione essenziale del finito e dell’infinito nella loro separazione. Secondo lui,

vi erano nel Cristo due persone, poste l'una accanto all’altra, unite esteriormente e

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moralmente. Egli si scandalizzò della denominazione di Madre di Dio universalmente

data a Maria; sostenne che si doveva dir solo Madre del Cristo, e che l’uomo

partorito da Maria doveva essere nominato Teoforo, o portante Dio, come tempio nel

quale Dio dimora. In questo modo l'Incarnazione non era altro più che una semplice

inabitazione del Logos nel Cristo, e il Verbo eterno non si era fatto uomo.

Senza saperlo, questa eresia procedeva dai principii del manicheismo, che, come

abbiam già fatto osservare, non è che un doppio panteismo. L'antitesi di due volontà,

di due nature divina e umana, o la difficoltà di concepirle unite in una sola persona,

fu la sua base principale, come l’antitesi dello spirito e della materia, o la difficoltà di

riferirle ad una comune origine era stata una delle basi principali del dualismo.

Ma è principalmente da notare che, isolando il finito dall'infinito, essa doveva riuscire

a precipitarvelo.

VIII. E ciò si avverò ben presto.

Eutiche venne, sulle orme di Nestorio, a dire che «prima dell'unione del Verbo con

l’umanità le due nature erano assolutamente distinte; ma che dopo l’unione la natura

umana, confusa con la natura divina, ne fu talmente assorbita che rimase la divinità

sola, e che fu essa sola che patì per noi e ci riscattò. Il corpo del Cristo era dunque un

corpo umano quanto alla forma o quanto all'apparenza esteriore, ma non quanto alla

sua sostanza».

L’eutichianesimo conduceva altresì allo gnosticismo panteistico puro; egli originò il

monofisitismo, che ammetteva una sola natura, ed il monotelismo, che ammetteva per

conseguenza una sola volontà in Gesù Cristo; la natura e la volontà divine.

In questo modo tali eresie si generavano e si riproducevano reciprocamente; così

l’errore s'implicava nel suo proprio labirinto; così, fuori del dogma della fede

cattolica, e per poco che si deviasse da esso, si ritornava sempre fatalmente, dall’una

parte o dall'altra, al grande abisso.

Il dogma salvatore dell'Incarnazione fu sciolto di nuovo da tutte queste eresie, le quali

furono anatemizzate in diversi gran concili. Il terzo concilio ecumenico d'Efeso

fulminò il nestorianismo; il quarto concilio ecumenico di Calcedonia percosse

l'eutichianesimo, e il sesto concilio ecumenico di Costantinopoli condannò il

monotelismo.

La dottrina del Verbo fatto carne, vita del mondo, fu mantenuta in tutta la sua

purezza. Queste eresie non avevano fatto che provarla e porla in una luce più viva.

Essa fu richiamata, affermata e definita quale era sempre stata creduta dagli apostoli

dopo Gesù Cristo.

«Conforme all’insegnamento dei santi padri, — porta il decreto di uno di questi

concili, — noi dichiariamo a voce unanime che si deve confessare un solo e

medesimo Gesù Cristo Nostro Signore; il medesimo, perfetto nella divinità e perfetto

nell'umanità; vero Dio e vero uomo; essendo, come uomo, composto di un’anima

ragionevole e di un corpo, consustanziale al Padre secondo la divinità, consustanziale

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a noi secondo l'umanità; in tutto simile a noi fuorché nel peccato; ingenerato dal

Padre prima dei secoli secondo la divinità; il medesimo, nato in questi ultimi tempi,

secondo l’umanità; un solo e medesimo Cristo, figliuol unico, Signore in due nature,

senza confusione, senza mutamento, senza divisione, senza separazione, senza che

l'unione tolga la differenza delle due nature, conservando l’una e l’altra la sua

proprietà, e concorrendo in una sola persona e sussistenza; in guisa che egli non è

dimezzato o diviso in due persone, ma è un solo e medesimo Figliuol unico, Dio il

Verbo, nostro Signore Gesù Cristo, come i profeti e nostro Signore medesimo ci

hanno insegnato, come il simbolo dei padri ci ha trasmesso» (Quarto concilio di

Calcedonia).

Alla lettura di questa definizione di fede, l’universo cristiano, per bocca di tutti i

vescovi, esclamò ad una sola voce: «Questa è la fede dei padri, è la fede degli

apostoli; noi la seguiamo tutti secondo loro, e tutti noi la pensiamo come loro: Haec

fides patrum, haec fides apostolorum; huic omnes consentimus, ila sapimus» e a

questo grido tutte le eresie furono confuse, e il sole della verità cattolica, libero da

esse, continuò il suo corso.

Dopo questa definizione del dogma dell’Incarnazione, l’incredulità di questo secolo

non ci venga a domandare di spiegarglielo e di dirle come ciò avvenga; noi gli

risponderemo con un padre: Ciò si fa nel modo che Dio sa: questa è cosa che si

definisce, ma non si spiega.

Ma al tempo stesso noi le spiegheremo benissimo come ciò non debba spiegarsi,

facendo ad essa osservare che nelle cognizioni di qualsiasi ordine, anche le più esatte,

come le matematiche, che hanno per oggetto il finito, le cose non si spiegano da

ultimo se non per mezzo di cose che non si spiegano punto; che e proprio delle cose

che spiegano le altre di essere inesplicabili esse medesime, e di essere per

conseguenza tanto più inesplicabili quanto più sono esplicative; e che la cosa più

esplicativa di tutte, quella che spiega tutto, Dio, è tal cosa cui nulla può spiegare.

— E perché ciò? — Perché l'Infinito solo può spiegare il finito, ed è proprio

dell’infinito l’essere inesplicabile: La spiegazione discende dall’infinito al finito, ma

non risale.

— E perché anche questo? — Perché le cose non possono spiegarsi che secondo cose

che sono loro anteriori e superiori, come la parola secondo usata in tutte lo

spiegazioni lo indica; perché la cosa che non ha nulla che le sia anteriore e superiore

non può per conseguenza essere spiegata per mezzo di ciò che non è; — e più

particolarmente perché l'infinito è l’archetipo del finito, il quale essendo fatto

secondo questo archetipo, vi si riferisce e ne rivela la spiegazione della sua esistenza,

perché ne ha ricevuto questa esistenza medesima.

L'immagine si spiega dall’originale; ma l’originale medesimo, l'archetipo, l'infinito,

chi lo spiegherà? Quis videbit eum et enarrabit (Eccl. XLIII, 35). Sarebbe come

domandare chi ha fatto Dio: Egli è colui che è; ecco la sua definizione, nelle sue

operazioni come nella sua essenza. Chi spiegherà ragionevolmente il mondo senza la

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creazione, senza Dio? Chi spiegherà il mondo morale e sociale, chi spiegherà l’uomo

e l’umanità senza Gesù Cristo, senza la soluzione che dà l'incarnazione del Verbo?

Ma chi spiegherà questa Incarnazione, chi spiegherà Gesù Cristo? Questo non si può

e non si deve naturalmente potere. Ma se nessuna cosa spiega l’infinito e le sue

operazioni, tutto però lo prova, tutto gli rende testimonianza, quella testimonianza

che il problema rende alla sua soluzione. Infatti la sola verità può spiegare la verità.

In questo senso ciò che sfugge e deve sfuggire alla spiegazione nella verità infinita si

trova in questo, che essa medesima dà la spiegazione delle verità finite, poiché non si

può dare se non quello che si ha. E Rivarol pronunziò una parola profondamente

giusta quando disse: Dio spiega il mondo, e il mondo lo prova. La spiegazione

discende da Dio al mondo, e risale, come prova, dal mondo a Dio: Coeli enarrant

gloriam Dei, et opera manuum ejus annuntiat firmamentum. (Psal. XVIII, 1).

Cosi è del dogma dell’Incarnazione: inesplicabile, egli solo spiega e scioglie il

problema dell’unione dell’infinito e del finito senza loro confusione. Egli li unisce

distinguendoli e li distingue unendoli. Due condizioni sulle quali posa tutto l’edificio

delle esistenze morali e sociali, nessuna delle quali può spiegarsi senza che tutto

questo edificio non si sposti, non cada e non s'inabissi: due condizioni tuttavia cui,

fuor della tradizione cattolica, così nei tempi antichi come nei moderni, tutti i

movimenti dello spirito umano mirano a falsare ed a violare, e che il solo

cattolicesimo mantiene filosoficamente e praticamente nel mondo.

Gesù Cristo solo, e dopo di lui la Chiesa, come quella che l’ha ricevuta da lui, ha così

la chiave di questa porta misteriosa di comunicazione tra il finito e l'infinito, di cui

parla san Giovanni nella sua Apocalisse: Il santo, il vero, che ha la chiave di Davide;

che apre, e nessuno chiude; che chiude, e nessuno apre (III, 7).

Ma ciò che noi non possiamo omettere senza renderci colpevoli di un silenzio che ci

obblighiamo di nuovo a rompere con un omaggio più speciale, è che Gesù Cristo, il

quale definisce tutto, è esso medesimo definito da Maria.

L’eresia lo sa benissimo; e se noi per saperlo dovessimo giudicarne dalla sua

condotta, essa ce ne ammaestrerebbe oltre il bisogno. Come essa non ha mai attaccato

il dogma religioso e sociale della credenza in un Dio creatore se non coll’attaccare il

dogma cristiano dell’Incarnazione, così non ha mai attaccato il dogma cristiano

dell'Incarnazione se non coll’attaccare il dogma cattolico della maternità divina di

Maria.

Nella grande eresia di Nestorio è questa divina maternità che era capitalmente in

questione; ma in questa questione e sotto questa questione si agitava quella

dell'Incarnazione, come sotto questa si agitava quella d'ogni religione e d'ogni

società. Ha lo spirito ben ristretto colui che non vede tutta questa concatenazione e

non ne sente il profondo significato.

E Maria è o non è la madre di Dio* Deve o no essere onorata come tale? Questione

vana e puerile, dicono i saccenti; questione vana e puerile come il secolo che la

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suscitava! Vedete nondimeno: — Maria non è la madre di Dio, diceva l'eresia; poiché

non si può ammettere che Dio sia nato da una donna. Dì fatto, ciò che è nato da

Maria, diceva Ario, è sì il Figlio di Dio, ma non Dio medesimo: è il primogenito di

Dio, è colui pel quale è nato tutto il resto, nel modo medesimo che egli stesso è nato,

non essendo così ogni cosa che una emanazione della sostanza infinita.... Colui che è

nato da Maria, diceva Nestorio, è il Cristo; vale a dire un uomo in cui la divinità è

venuta ad abitare; ma che non è la divinità medesima, non potendosi la natura umana

e la natura divina riferire ad un medesimo soggetto, più di quello che la materia e lo

spirito possa riferirsi ad una medesima origine, essendo ambedue separate da tutta

l'opposizione dei due principii donde esse derivano e che le animano

esclusivamente... Ciò che è nato da Maria, diceva Eutiche, è niente, è una semplice

apparenza umana, una sembianza d'uomo; Maria non è in ciò che un velo il quale

copre solamente il fondo di Gesù Cristo, il fondo della natura umana, il fondo di tutto

ciò che è Dio, Dio solo in tutto, del quale Gesù Cristo, come tutto il resto, non è che

l'apparenza.

In questo modo la testa del serpente cercando sottrarsi ai piedi della divina maternità

di Maria, la coda del mostro, se così oso dire, per diverse sinuosità si ripiegava e

degenerava sempre in panteismo, in manicheismo, in fatalismo, per insinuarne il

veleno nella società.

Ma non fu indarno lanciata contro di lui la primitiva sentenza: Porrò inimicizia tra te

e la donna, e tra il seme tuo e il seme di lei. Ella schiaccerà la tua testa, e tu tenderai

insidie al calcagno di lei. (Gen. III, 15.) La Chiesa, esecutrice di questo decreto, ha

conservata Maria nel possedimento della sua potestà sullo spirito delle tenebre,

divulgandola come la madre di Dio. Maria è madre di Dio, perché Dio è nato da

Maria. Dio è nato da Maria, perché il Cristo, suo figliuolo, è il Figliuolo di Dio, e

come tale, eguale a Dio, Dio medesimo. Maria ha il medesimo figliuolo che il Padre

celeste: solamente egli è Figliuolo del Padre celeste da tutta l’eternità, e di Maria nel

tempo; però il medesimo figliuolo, la medesima persona divina, il medesimo Verbo,

il medesimo Dio, che ha preso la nostra natura per farne, mercé la sua unione con la

propria, una sola persona, la quale è nata integralmente da Maria. Questa grande

personificazione delle due nature finita e infinita, distinte e unite nel Cristo, per la

quale tutto il mondo morale e sociale è stato ritratto dal naturalismo e dal panteismo,

e ne è preservato, si è formata nelle viscere di Maria, o Maria ne è il nodo vitale.

Ciò posto, si comprende che se il dogma dell’Incarnazione è, come abbiamo

dimostrato, la soluzione del gran problema della religione e dell’incivilimento, è

ugualmente vero che Maria, onorata nella sua maternità divina, è la formula più

esatta, più decisiva o più conservatrice di questa soluzione.

Questa formula è benissimo esposta da san Cirillo in questi termini del decreto del

sinodo di Efeso: Si quis non confitetur Deum esse secondum veritatem EMMANUEL, et

propter hoc Dei genitricem sanctam Virginem (genuit enim carnaliter carnem factum

Dei Verbum), anathema sit!

Il dogma della Vergine Madre scorge in qualche modo e protegge attraverso ai secoli

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il dogma dell’Uomo-Dio, come anch’essa la Vergine Madre era un tempo la

guardiana e la protettrice dell’adorabile persona dell’uomo-Dio sulla terra.

Chiunque si rifiuta di onorare la maternità divina di Maria, egli, il sappia o non lo

sappia, non è cristiano.

«Chiunque non ama e non onora la Vergine di un onore tutto speciale e particolare

non è vero cristiano» (San Francesco di Sales, nel suo mirabile secondo sermone su la

Visitazione, avendo a testo Unus Deus, Ephes. IV), «Per conseguenza, esclama

Bossuet, poiché la divozione verso la Beata Vergine è sì sodamente fondata, anatema

a chi la nega e toglie ai cristiani un così potente soccorso: anatema a chi la

diminuisce: egli indebolisce la pietà nelle anime» (Terzo sermone sulla Concezione

della tantissima Vergine).

Egli non crede al Verbo fatto carne, è deista in qualche grado, o almeno sulla via di

esser tale; e chi è deista è in qualche grado panteista o ateo, o sulla via di diventarlo;

il che permette in un certo senso di dire con san Gregorio di Nazianzo: Quegli che

non risguarda Maria come la madre di Dio non crede alla divinità, è ateo.

Perciò, integrità ammirabile della verità divina nel cattolicesimo! questa divozione

così umile, così disconosciuta, così ritenuta vile dai filosofi, — ai quali non manca

per esserlo che di conoscere sé stessi per mezzo di quell’umiltà di cui questa

divozione medesima è la scuola sublime, — questa divozione, ripeto, è così

fattamente ben collegata con tutto il rimanente della dottrina che si può dire ch’essa è

l'ultimo anello di una catena, il primo dei quali è il dogma di un Dio creatore, e

sospende e rattiene la società sull’abisso del naturalismo e del panteismo. Le più

gravi questioni, le più vaste conseguenze dell’ordine umano e sociale discendono da

questi articoli di fede, da questi punti di dogma rilegati nel dominio della divozione e

della teologia, la deviazione dai quali conduce, da deduzione in deduzione, dall’uno

all’altro errore, alle dottrine più antisociali e più sovversive.

Quando il concilio di Efeso, confermando la tradizione, mantenne la fede dei popoli

intorno alla maternità divina di Maria, il mondo cristiano esultò di gioia e levò al

ciclo i suoi plausi di entusiasmo. Esso sentì istintivamente che era sfuggito ad uno

scoglio. E oggidì, in cui esso si è nuovamente salvato dalla sua rovina per uno di quei

colpi la cui salutare opportunità rivela la mano della Provvidenza, la società tutta

quanta, per una ispirazione pur essa provvidenziale e conforme a quel rapporto

istintivo che sempre esistette tra la Francia e Maria, corse a prostrarsi riconoscente ai

piedi di Nostra Signora, a far echeggiar le volte del suo tempio di canti di trionfo, e

rappresentar da per tutto la madre che stringe il Verbo incarnato con un braccio e

stende l’altro sul mondo, mentre schiaccia sotto i suoi piedi l'idra del socialismo.

Eresie del terzo periodo

II rapporto di tutte le eresie col panteismo è vero e costante sino ad esser noioso. Il

che però non ci esime dal seguitarne l'esposizione, poiché a nostro giudizio ne risulta

una delle prove più luminose della verità di nostra fede e della necessità di far ritorno

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ad essa. Noi siam costretti a domandarci come mai una dottrina da cui non ci

possiamo allontanare senza riuscir da tutte parti agli abissi non è la verità? come mai,

se non fosse la verità medesima, potrebbe essa sola, fra tutte le concezioni e tutte le

istituzioni, preservarci da questo fatale destino e preservarne il mondo, facendolo del

continuo progredire? Come mai ella regga così bene e si conservi così bene

nell’operosità della sua scienza, per mezzo dei suoi dottori e della sua universale

applicazione, per mezzo dei suoi apostoli, senza esagerazione né diminuzione né

deviazione né confusione, e stia, benché sia stata sempre provocata, sempre

bersagliata dalla violenza o dalle insinuazioni delle eresie senza posa rinascenti

intorno a lei, ma riconosciute appena nate, e fulminate appena riconosciute, senza che

alcuna di esse abbia mai potuto, non dico atterrarla, ma neppur sorprenderla o

imbarazzarla neppure una volta nel lungo correre di oltre diciotto secoli, e siano

invece riuscite a favoreggiar la sua esposizione ed a provar la sua sapienza?

Diversamente della statua marina di Glauco, che i flutti sempre battenti avevano

sfigurata e mutata in un informe scoglio, la figura della Chiesa non è mai alterata dai

flutti dell’eresia; e l'eresia venendo continuamente a rompere contra di lei, ne ha fatto

tutto al contrario uscir sempre più manifesti i tratti divini.

Noi ci domandiamo soprattutto come mai, difendendo i suoi più alti misteri, o meglio

il suo unico mistero, la Chiesa si trovi difendere tutta la serie delle verità naturali e

sociali; e sentinella vigila, posta alle Termopili dell’incivilimento, come veda sempre

da lungi il suo nemico, come lo riconosca nonostante tutti i suoi travestimenti e tutti i

suoi stratagemmi, come lo percuota sempre con sicurezza senza che l’astuzia la possa

mai sorprendere, né l'audacia sgomentarla, né muoverla la violenza, né scoraggiarla

l’ingratitudine di questa società medesima che ella protegge, e farle abbandonare la

sua immortale impresa?

Che diremo poi quando si osservi che la meraviglia già si grande che ci fanno questi

prodigiosi caratteri della Chiesa va associata alla meraviglia della loro predizione e

dell’infallibile parola che fino dal suo nascere e prima del suo nascere promise alla

Chiesa tale stabilità contra la quale non potranno prevaler mai gli assalti dell’errore?

Tutto ciò si comprende facilmente da quanti credono alla divinità dell’istituzione

della Chiesa; rispetto a quelli che non vi credono ancora, essi non possono rispondere

che col più muto stupore.

Ma importa assai di accrescere questo stupore e così incalzarlo che non trovi più

alcun termine ragionevole se non nella fede.

Dopo le eresie del periodo che abbiam chiamato dogmatico o teologico vergono le

eresie del periodo scolastico, quelle del secolo IX fino al XVI. Qui non vediamo

eresie propriamente nuove, poiché le solenni decisioni della Chiesa avevano innanzi

definite tutte le questioni; invece vediamo da una parte una disposizione vaga

all'eresia delle eresie, cioè quella dell’indipendenza da ogni autorità, che quale

prorompe grazie a settari audaci; dall’altra vediamo il veleno delle prime eresie

gnostiche e manichee diffondersi di nuovo, traviare i popoli ed esporre la civiltà ai

più grandi pericoli.

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I. Noi non faremo lunghe parole dell’islamismo, il quale ha tolto all’incivilimento i

luoghi che furono la sua culla. Basti alcun cenno. L'islamismo si è stabilito grazie

all’arianesimo, al nestorianismo e all’eutichianesimo, che infestavano allora tutto

l'Oriente. Di fatto, queste tre eresie, attaccando il dogma dell’incarnazione e quello

della maternità divina, aprirono la porta alla gran barbarie pel doppio battente del

deismo fatalista e dell'avvilimento della donna. Perciò, cosa notevole, i due

sentimenti opposti precipitarono l'Europa sull’Asia, e contrastarono la barbarie

mediorientale, liberando almeno il culto di Gesù Cristo e il culto della donna; la croce

e la cavalleria. Lascio che ciascuno sviluppi questi cenni e ne segua le luminose

indicazioni.

II. Lo scisma di Fozio, oltre che attaccare il principio dell’unità della Chiesa,

conteneva un principio di eresia intorno alla processione del Santo Spirito, e per

mezzo di questo partecipava indirettamente dell’arianesimo. Del resto, per quanto

può sussistere un ramo separato dal tronco, la chiesa greca ha conservato nella loro

forma le antiche tradizioni del cristianesimo; anzi le ha conservate sino alla

superstizione, e questa fedeltà minuta in alcuni riti primitivi, il cui mutamento non

guasta in alcun modo la sostanza della dottrina, non è in questa chiesa che una

singolarità e soprattutto un effetto della sua immobilità o del suo difetto di vita.

È una testimonianza meravigliosa della vita divina in seno alla chiesa cattolica il

confronto del suo stato e della sua azione con lo stato e coll’azione della chiesa greca.

La chiesa greca aveva per sé sulla chiesa romana questo immenso vantaggio, che pel

luogo e pel centro in cui era posta era erede più immediata dell’incivilimento antico e

del primo incivilimento cristiano. Costantinopoli, Antiochia, Efeso, Corinto, tutta

l’Asia minore, tutto l’Arcipelago greco, ove i primi raggi della fede cristiana vennero

a incrociarsi cogli ultimi raggi dell’incivilimento antico, ove l'impressione viva e

continua della vita del Salvatore, delle predicazioni apostoliche, dei primi

combattimenti, dei primi concili della Chiesa, delle prime testimonianze dei suoi

confessori e dei suoi martiri, e del miracolo luminoso della conversione del mondo

pagano, della conversione di quello che esso aveva di più corrotto in ciò che v'ebbe

mai di più puro e di più santo; tutte queste impressioni, tutte queste ispirazioni, tutti

questi flutti di luce, di tradizione, di fede, di grazia, di vita, zampillanti dalle loro

sorgenti medesime, davano alla chiesa greca un vantaggio immenso sulla chiesa

romana.

Come uso essa di questo vantaggio? Non solamente non l'ha propagato, non solo non

l’ha conservato, ma lasciò che la notte della barbarie invadesse le regioni della luce;

ed essa medesima vi è rimasta sepolta e stagnante senza far mai alcun sforzo per

uscirne, e non presenta oggidì altro più che un cumulo di eresie e di superstizioni

materiali cui la simonia compra dal dispotismo il diritto di trafficare dividendone con

esso i profitti.

La chiesa romana per lo contrario, inondata sin dal principio dai barbari; alle prese

colle più maligne e più perseveranti eresie, dovendo combattere al tempo stesso

l'ignoranza e la falsa scienza, la violenza e la sottigliezza; ricevendo ad ogni istante

nel suo seno elementi estranei ad ogni origine e ad ogni tradizione cristiana;

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distendendo essa medesima il suo apostolato nelle regioni più lontane, più barbare,

più selvagge, ove la lingua, i costumi, le superstizioni, le abitudini, il clima, le

comunicazioni, tutto era ostacolo, pericolo, tutto doveva, umanamente parlando,

alterarne, pervertirne, perderne la disciplina e la dottrina; la chiesa romana, ripeto,

non solamente si è mantenuta intatta e libera in mezzo a questa confusione e a questi

ostacoli, ma ha operato altresì su tutti questi elementi barbari, li ha signoreggiati,

disciplinati, fusi; essa li ha ispirati del suo soffio, vivificati della sua vita; ha tratto da

essi un incivilimento affatto nuovo; essa ha raccolto anche gli ultimi avanzi

dell’incivilimento antico che la chiesa greca non ha saputo conservare, e che da

Costantinopoli sono venuti a riparare a Roma; essa ha creato il mondo moderno, il

mondo attuale, in ciò che ha di più animato, di più puro, di più ricco e di più forte, al

punto che esso non può opporre alla Chiesa medesima altro che l’abuso dei benefici

che ha ricevuti.

Qual prova più luminosa che la sola chiesa cattolica ha le promesse di Gesù Cristo, e

che queste promesse sono divine così per la società del tempo come per quella

dell’eternità!

III. Ma è d’uopo che noi torniamo ad osservar questa verità nei particolari delle eresie

del periodo scolastico, cogliendo il rapporto di ciascuna di esse col panteismo.

Il primo movimento di eresia scolastica ci appare nel famoso Scoto Eriugena. Per

mostrare il rapporto della sua eresia col panteismo, io non posso far meglio che

lasciar parlare uno degli storici più esatti ed uno degli apprezzatori più riservati e più

indulgenti degli avvenimenti cattolici.

«Malgrado la sua perspicacia divinatoria, dice Alzog, Eriugena non seppe garantirsi

dai più gravi errori. Dovendo lottare contro espressioni talvolta ribelli, nella sua

esposizione delle verità intelligibili egli non rimase sempre fedele al suo proprio

principio di ben distinguere i termini propri e figurati, li confuse troppo spesso, ne

abusò, divenne il predecessore di Berengario nella sua dottrina dell'Eucaristia e porse

immediatamente occasione agli errori posteriori sui rapporti della fede e della

scienza, di Dio e del mondo, sulla natura del male e sulla predestinazione. Le sue

opinioni diventarono la sorgente, donde più tardi si trasse una teoria positivamente

panteista» (Storia della Chiesa, tom. II).

Cosi, ecco uno spirito per nessun modo mal intenzionato, ma temerario, il quale

invece di svilupparsi nella profondità e sublimità della dottrina cattolica, come fece

così potentemente il genio di san Tommaso, vuol passarne i confini; egli fa un passo

fuor del dogma dell'Incarnazione eucaristica, e subito dove si dirige? dove riesce? Al

panteismo.

Lo storico dal quale abbiam preso il giudizio che lo riguarda e uno dei più moderati

verso di esso: egli fa ogni cosa per scusarlo: «Gli è perché fu disconosciuta, dice egli,

la distinzione chiaramente stabilita da Scoto tra il linguaggio proprio e il linguaggio

improprio applicato al Creatore, che esso fu generalmente rimproverato di essere

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panteista La proposizione, Dio è in tutto e diventa tutto, vuol dire secondo Eriugena:

Dio si manifesta in tutto: tutto ciò che è creato è manifestazione di Dio». Questa

spiegazione è almeno molto benevola; ma la tendenza al panteismo non è punto meno

manifesta nel dottor scozzese, e noi medesimi siamo troppo benevoli verso di lui non

imputandogli se non la colpa di tendenza.

E se ne giudichi da questo passo: «Il fiume intero (dell'essenza suprema) sgorga dalla

sorgente prima: l’onda che ne zampilla si spande in tutta l’estensione di questo fiume

immenso, e ne forma il corso, che si prolunga indefinitamente. Così la bontà divina,

l’essenza, la vita, la sapienza e tutto ciò che è nella sorgente universale, si spande

prima sulle cause primordiali e dà loro 1'essere; discende poscia per queste medesime

cause sull'universalità dei loro effetti di una maniera ineffabile, in una progressione

successiva, passando dalle cose superiori alle inferiori: queste effusioni sono in

appresso ricondotte alla sorgente originale per la trasparitimi nascosa dei pori più

segreti della natura. Di qua deriva ciò che è concepito e sentito, tutto ciò clic è

superiore ai sensi ed all'intelletto. Il movimento immutabile della bontà suprema e

triplice, della vera bontà sopra sé medesima, la sua semplice moltiplicazione, la sua

diffusione inesauribile clic parte dal suo seno e vi ritorna, è la causa universale, o

meglio essa è tutto. Perché, se l'intelligenza d'ogni cosa è la realtà d’ogni cosa, questa

causa che conosce tutto è lutto; essa è la sola potenza gnostica; essa non conosce

nulla fuori di sé medesima; non vi ha nulla fuori di lei; lutto è in lei; essa sola è

veramente» (De divisionae naturae, lib. IlI pag. 4).

IV. La cosa che importa soprattutto notare come una verità che sembrerà forse

eccessiva, e che nondimeno è molto positiva e molto logica, ben giustificata

soprattutto dalla sorte delle eresie che noi esaminiamo in questo momento, è che se il

dogma dell'Incarnazione preserva del panteismo come dottrina, lo fa a condizione che

sia vivificato e realizzato in noi come sacramento. La realtà della presenza

soprannaturale di Gesù Cristo nell’Eucaristia ci fa sentir vivamente la distinzione

dell’infinito e del finito; e la partecipazione a questa divina realtà ci fa provare la loro

comunione senza nuocere alla loro distinzione, che anzi ce la rende tanto più

profonda per il sentimento della reciprocità dell’amore che ne dimostra chiaramente i

due termini: Dio e noi, Dio in noi e noi in Dio, distinti ed uniti, altrettanto distinti

quanto è la miseria più profonda della creatura dalla triplice santità del suo autore; e

altrettanto uniti quanto devono essere per un amore che supera questa distanza e

questa distinzione: due sentimenti, due bisogni profondamente necessari al cuor

dell’uomo; la cui soddisfazione, per mezzo del cattolicesimo, salva l’uomo da tutti i

traviamenti ai quali quei sentimenti lo spingono quando manca loro il proprio

oggetto.

La scolastica nel medio evo non fu volta da alcuni begli spiriti alla speculazione

razionalista se non con lo scuotere il contrappeso divino che mantenne nelle vie

sicure e larghe della teologia positiva gli Anselmi, i Tommasi d’Aquino, i Lanfranchi,

i Bernardi, i Gersoni, i Bonaventura, il cui genio andò debitore di tutta la vigoria ed

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esattezza del suo volo alle ispirazioni della fede pratica. L'allontanamento dell'esca di

questa fede, la privazione del soprannaturale eucaristico, condusse gli altri

all'indebolimento della fede in questo soprannaturale e in quello di tutta la religione e

bentosto al panteismo. Se invece di studiar cotanto a spiegare in sé ciò che è

inesplicabile, essi fossero stati fedeli alla pratica del sacramento divino, avrebbero

conosciuto Gesù Critto alla frazione del pane, si sarebbero conosciuti essi medesimi,

avrebbero conosciuto tutte le cose molto meglio che non investigandole in sé

medesime; o almeno sarebbero stati illuminati e preservati nei pericoli delle loro

investigazioni. Se non che, avendo essi spirito orgoglioso e cuor molle,

soccombettero nella lotta dei sensi e si trovarono trascinati da questa schiavitù a

quella falsa libertà di ragionare e di pensare, di cui i nostri moderni razionalisti hanno

tanto esaltato in loro l'iniziativa, e che non è in sostanza altro che la libertà di traviare

e di inabissarsi, inabissando insieme il mondo. Tali furono principalmente

Berengario, Roscelino, Abelardo, Guglielmo di Champeaux, Amalrico di Chartres,

David di Dinan, Gilberto della Porretta.

Il dogma dell’Eucaristia era stato fino allora rispettato. II solo Scoto Eriugena aveva

cominciato ad attaccarlo. Ma Berengario di Tours fu nel secolo undecimo l'autore di

una vera eresia su questo punto: egli si dichiarò in maniera più forte e più formale

ancora di Eriugena contro il dogma della transustanziazione e della presenza reale, e

fu l'autore della setta dei berengariani, i quali furono i precursori dei luterani e dei

calvinisti, e sono stati condannati da molti concili, segnatamente da quelli di Vercelli,

di Tours, di Parigi e di Roma nel 1079.

Si è preteso, quantunque il fatto non sia ben provato, che a questi attacchi contra la

fede nel dogma dell’Eucaristia Berengario ne mescolasse altri contra i primi

fondamenti della società: che condannasse i matrimoni legittimi; che professasse il

principio dover le donne essere comuni; che riprovasse altresì il battesimo dei

fanciulli, e finalmente che trascorresse nell’eresia degli gnostici e dei manichei

(Bergier, Dizionario di teo1ogia).

V. Roscelino fu autore di una eresia sulla Trinità, la quale consisteva in vedere nelle

tre persone divine tre esseri, e per conseguenza tre dei: fu l’eresia dei triteisti,

condannati in un concilio tenuto a Compiègne nel 1092, e contra la quale

sant’Anselmo scrisse il suo trattato dell’incarnazione del Verbo.

Con questo attacco contro il dogma della Trinità, Roscelino cominciò la famosa

controversia sui reali e sugli universali, che agitò cotanto quell’età e che sotto questi

nomi barbari occultava lo scoglio fatale dello spirito umano deviato dalla fede, del

quale mostriamo la presenza sotto tutte le eresie.

Le idee generali degli esseri sono esse qualche cosa di reale o di puramente

nominale? V'ha egli altro di reale oltre gli esseri in sé medesimi presi

individualmente?

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Non vi ha di reale che gli esseri medesimi presi individualmente, e le idee generali

non sono che una pura astrazione nominale, sostenevano Roscelino e i nominali.

Le idee generali son al contrario le sole realtà, e gli oggetti individuali non ne sono

che le forme e i fenomeni, dicevano i realisti.

Le qualificazioni di nominali e di realisti s’intenderanno così per rapporto alle idee

generali: i nominali dicevano che esse non erano che un nome: i realisti dicevano che

erano le sole realtà.

Chi non riconosce la nostra gran questione sotto queste formule? Le idee generali

degli esseri sono per noi i tipi dietro i quali si particolarizzano gli esseri medesimi, e

sui quali noi li giudichiamo; esse implicano la generalità dell’idea e dell’essere,

l’essere medesimo come loro principio e l’intelligenza infinita come loro sede.

Negare un valor reale alle idee generali è dunque negare la generalità dell’essere,

l'essere medesimo, è cadere nel naturalismo. E da un altro lato, non ammettere di

reale che le idee generali, e non vedere negli esseri particolari che le forme delle idee

generali, che fenomeni dell’essere, non è evidentemente un cadere nel panteismo?

Naturalismo o panteismo, tali sono dunque i due partiti per i quali la filosofia si

traeva da questa gran questione. Il cattolicesimo affermando egualmente la realtà

distinta del mondo soprannaturale e quella del mondo naturale, e l’accordo di questi

due mondi nella gran personificazione del Cristo; rappresentandoci il Cristo come il

Verbo, vale a dire come il pensiero, l'idea eterna dalla quale tutto è stato fatto e tutto è

rifatto, sia nell’ordine terrestre, sia nell’ordine celeste, e questo Verbo medesimo

fatto carne, il cattolicesimo, ripetiamo, salva mirabilmente, raccogliendole, senza

confonderle, la realtà delle idee generali nella realtà dell’Idea divina, e la realtà degli

oggetti particolari nell’individualità umana del Cristo. Egli mette la filosofia sulla

strada di determinare la loro distinzione e la combinazione loro nelle conoscenze

umane; e lasciando che gli spiriti si esercitino nel campo della controversia, li

trattiene almeno nei termini generali della verità e pone barriere ai precipizi.

J. J. Goerres nel suo libro Della Chiesa e dello Stato (pag. 91, 94; Weissembourg

1842), ha detto anch’egli molto felicemente così: «La più profonda radice delle idee

universali si trova nel logos medesimo: le idee sono i prototipi dietro i quali sono

state fatte tutte le cose, prototipi che il Creatore ha messo nello spirito umano perché

gli servano di principio d'ogni scienza»

VI. Il famoso Abelardo fu il continuatore moderato di Berengario, di Roscelino, di

Amalrico di Chartres e di David di Dinan. Separando come essi la scolastica dalla

mistica, la teologia speculativa dalla teologia positiva, cercando temerariamente di

fondare la fede sulla ragione, invece di innalzar la ragione sui fondamenti della fede,

egli spiegò un gran prestigio di spirito e di cognizioni, tale però che tendeva ad uscire

ed usci spesso dai limiti della fede. Il concilio di Soissons condannò la sua

Introduzione alla teologia, a motivo di molte proposizioni eretiche sulla Trinità.

Guardate la fatale concatenazione dell’errore! le medesime proposizioni si trovavano

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essere panteista e corrispondevano a proposizioni licenziose. Cosi, secondo lui, il

Padre, o meglio la paternità, era la suprema divinità che si sviluppa nel Figlio e nel

Santo Spirito, a tal che il Figlio e il Santo Spirito non son nulla in sé medesimi (aliae

vero due personae nullatenus esse queant). Era negare implicitamente il dogma

dell’Incarnazione del Verbo, della sua mediazione tra il mondo e Dio, cui egli unisce

senza confonderli, e per conseguenza era un aprir la porta al panteismo; era già un

introdurre nel seno medesimo della Trinità il principio dell’emanazione, il quale,

ammesso una volta, non si arresta più, e si estende necessariamente a tutti gli esseri.

Negar le persone divine e lo stesso che essere condotto a negare le personalità umane.

Dio, l'essere per eccellenza, la vita medesima non può, come abbiam già detto,

concepirsi senza rapporti, i quali sono per conseguenza necessari. Se voi, con la

soppressione delle persone divine, togliete i termini di questi rapporti in sé

medesimo, voi siete recato a darglieli nel mondo, assorbendovelo, o assorbendo il

mondo in lui. Abelardo giungeva a questa proposizione positivamente panteistica:

secondo lui «il Padre solo è ed esiste pel suo rapporto col mondo e per la sua

manifestazione nel mondo».

Quindi le cose sensibili, gli atti esteriori, i fatti non avevano valor reale ed esistenza

obbiettiva per Abelardo. Lo spirito solo era tutto, e il peccato consisteva solo nella

volontà perversa e non nelle opere. L’amante di Eloisa apriva così la via

all’illuminismo immorale delle sette del libero spirito.

San Bernardo combatté soprattutto quest’ultima proposizione dell’Etica di Abelardo.

Egli fu contro questo chimerico e brillante ingegno il campione della Chiesa e della

società, come sant’Anselmo lo era stato contro Roscelino, e il beato Lanfranco contro

Berengario. È pur mirabile questa unione della santità e della verità nei gran dottori

della Chiesa! oh come tutto 1'uomo col genio e col cuore si regge fermo, e la società

insieme con esso, sul fondamento della fede, fuor del quale non si può porre il piede

senza vacillare e trascinare con sé la società negli abissi!

VII. Ha considerato ben poco e poco osservato colui che non è convinto di questa

importante verità: che lo stato materiale delle società è o diventa in breve conforme

alle dottrine che si agitano nel mondo superiore delle intelligenze; e che dalle idee ai

fatti, dal gabinetto del filosofo alla strada non v’ha che la distanza di alcuni gradi

rapidamente corsi dalle passioni, sempre preste ad ascoltare chi può autorizzare la

loro licenza. Il mondo delle intelligenze non è mai senza dottrine, e queste dottrine si

tramutano sempre in avvenimenti, informano la società e la fanno muovere a grado

dello loro ispirazioni. Le questioni più speculative della teologia e della filosofia sono

sempre feconde d’ordine o di disordine, di vita o di morte.

L’età di cui parliamo, del pari che la nostra, ne fece terribili esperienze.

Già una moltitudine di sette, conosciute sotto il nome di catari, patarini, patelini,

cotterelli, corrieri, triaverdini, bulgari, portavano il delirio e la loro perversità per

tutta l’Europa. Il loro centro era principalmente nell’Alta Italia e nella Francia

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meridionale, donde si sparsero lungo il Reno, nella Svevia e in Inghilterra. Esse

vennero tutte a concentrarsi nei valdesi e negli albigesi, i quali posero per un istante

in questione l'universale incivilimento e l'obbligarono ad intraprendere contro di loro

una crociata.

Ora, quali dottrine avevano ripiene queste sette del loro veleno? Qual era l'ultima

parola e lo scopo dei loro attentati?

Tutti gli storici sono unanimi nel farci ragione su questo soggetto.

Le dottrine panteistiche che noi abbiam già veduto allo stato di eresia teologica, e che

la Chiesa aveva successivamente fulminate sotto i nomi di ebionismo, di gnosticismo,

di manicheismo, di montanismo, d'arianesimo, di nestorianismo, di eutichianesimo

come opposte al dogma dell’Incarnazione, tali erano le sorgenti certe di queste sette:

Il loro scopo era la distruzione della religione, della famiglia e della proprietà, il più

spaventevole comunismo.

Noi abbiamo già veduto gli ebioniti e gli gnostici manichei professare apertamente la

comunanza d'ogni cosa; della terra, dei beni, della vita, delle donne, e pretendere che

le leggi umane, invertendo l’ordine legittimo, hanno prodotto il peccato con la loro

opposizione agli istinti più potenti deposti da Dio nel fondo delle anime (Epifani,

Della giustizia, Iscrizioni della Cirenaica).

In sul suo nascere il cattolicesimo dovette fare i più grandi sforzi per domare questi

mostri di dissoluzione e di barbarie.

Essi non furono interamente vinti. Gli avanzi di queste sette gnostiche, sotto il nome

di pauliciani, si accamparono in alcuni villaggi dell’Armenia. Collegati in breve coi

Saraceni e coi musulmani, essi menarono il gran guasto nell'Asia minore; sbaragliati

poi dall'imperator Basilio, si tramutarono poco appresso dalle rive dell’Eufrate nella

Tracia e nella Bulgaria, donde venne ad essi il nome di Bulgari: il nome di Bulgari

designava un popolo: dopo che è stato dato agli albigesi, è diventato un termine

ingiurioso che fu applicato via via agli usurai ed a quelli che finiscono nel peccato

contro natura. (Gibbon)

In poco tempo essi ammorbarono delle loro dottrine le frontiere della Bulgaria, della

Croazia e della Dalmazia, ove sedeva il loro primate, e dalla quale, a detta di Gibbon,

penetrarono in Europa per tre comunicazioni : — mescolandosi colle carovane dei

pellegrini di Ungheria, che andando e venendo da Gerusalemme dovevano passare

per Filippopoli; — col favore delle relazioni di commercio e di ospitalità che Venezia

aveva allora con tutta la costa del mare Adriatico; — finalmente, come arruolati

nell’esercito dell’impero di Bisanzio e trasportati con esso nelle provincie che

l'imperatore possedeva in Italia e in Sicilia.

Per mezzo di queste diverse migrazioni o comunicazioni, i manichei, pauliciani o

bulgari, seminarono i germi delle loro dottrine nell'alta Italia e nella Francia

meridionale.

Questi germi, coltivati in società segrete e fomentati dalle nuove eresie scolastiche,

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che noi passeremo ora in rivista, gettarono profonde radici sulle rive del Rodano e nel

territorio degli albigesi, il cui nome è rimasto qual nome generico di questa

moltitudine di sette impure che pigliavano la loro origine nell’antico manicheismo

gnostico, e che minacciarono nel secolo decimoterzo di rigettar l'Europa nella notte

donde il cristianesimo l’aveva tratta e l’andava sempre più liberando.

La rapidità del nostro corso non ci permette di arrestarci ed esporre in dettaglio

ciascuna di queste sette, e di distinguere i valdesi, i catari, gli enriciani, gli arnaldisti,

i popelicani e altre sette che differivano lievemente nelle loro follie, ma che tutte si

univano nella negazione del dogma cristiano dell'Incarnazione e in un odio amaro

contro la Chiesa e la società civile; gli è che da quest’odio che procedevano tutte,

come dice il loro storico Reinier: Sic processit doctrina ipsorum et rancor.

Noi prendiamo a disegnare i loro principali tratti negli albigesi tra i quali ritroviamo

le medesime dottrine antisociali che abbiam fatto palesi nei primi gnostici.

Così gli albigesi professavano il panteismo dualista o il manicheismo. Essi

rigettavano il dogma dell’Incarnazione nel suo punto di partenza, il dogma della

Trinità, negando l'eguaglianza delle tre persone divine come gli ariani; e lo

rigettavano eziandio negando l’umanità di Gesù Cristo, o riducendola ad un puro

fantasma insieme ai doceti e gli eutichiani. Il grande oggetto del loro odio era la

Chiesa, la tradizione, i sacramenti, le preghiere pei morti, l'intercessione dei santi,

l'Ave Maria, le cerimonie e le immagini, soprattutto quella della Croce; a dir breve,

tutto ciò che mantiene, riproduce o ricorda la fede nel gran mistero dell’Incarnazione,

supremo oggetto del culto cattolico.

Perciò la distruzione radicale di tutto ciò che aveva forma di culto e di religione era il

disegno e troppo spesso il risultato dei loro attentati; e siccome a quel tempo la

religione era l’anima di tutto, ne sarebbe conseguitata altresì la distruzione d'ogni

cosa.

Inoltre, non solo la religione, ma attaccavano anche gli altri fondamenti della società.

Quindi proscrivevano il matrimonio, il che era una conseguenza diretta della loro

dottrina. A seconda delle loro opinioni manichee, come la materia e la carne erano

l'opera del cattivo principio e ne erano impregnate, così era delitto il contribuire alla

loro propagazione con la procreazione coniugale. Per la ragion medesima essi

proscrivevano l’uso delle carni! Ma sotto questo doppio aspetto, affettavano una

continenza ed una temperanza che erano solo apparenti e velavano i più mostruosi

eccessi. Siccome a loro giudizio il concepimento era ciò che bisognava avere in

orrore, così si abbandonavano a tutto fuorché a quello che era legittimo, e allentavano

in sì fatto modo il freno alle brame colpevoli da lasciarle assolutamente senza

rimedio: «Stupra, etiam adulteria, caeterasque voluptates in caritatis nomine

committebant, mulieribus cum quibus peccant, et simplicibus quos decipiebant

impunitatem peccati promittentes, Deum tantummodo bonum et non justum

praedicant» (Atto del sig. di Tinnières, del 1373, e lettere di Filippo Augusto ivi

contenute, del 1251)

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La proprietà e la giustizia non erano da essi attaccate meno del matrimonio e della

religione. Eredi degli ebioniti, essi pretendevano di erigere in legge la povertà

universale, vale a dire la più assoluta comunanza dei beni: «Voi altri, dicevan essi ai

cattolici, voi aggiungete casa a casa e campo a campo. I più perfetti di voi, come i

monaci e i canonici regolari, se non possiedono beni in proprio, li hanno almeno in

comune. Noi, che siamo i poveri di Gesù Cristo, senza riposo, senza dimora certa,

noi andiamo errando dall’una città all’altra, siccome pecorelle in mezzo ai lupi, e

patiamo persecuzione come gli apostoli e i martiri» (Enervino). Sotto questa

bugiarda dolcezza e sotto questo falso distacco, essi rinnovavano l’errore antisociale

dei manichei e dei pelagiani, che era stato così vittoriosamente combattuto da

sant’Agostino; abusavano delle massime del Vangelo per pretendere «che non

bisognava punto dividere le terre né i popoli» La qual cosa dice Bossuet, mira

all’obbligo di porre ogni cosa in comune (Bossuet, Storia delie variazioni, lib. XI). È

l'antico sistema dei manichei: Nec domos, nec agros, nec pecuniam ullam possideant

(EX Epiphan et August.)

Essi riprovavano tutte le magistrature, dicendo che tutti i principi e tutti i giudici sono

dannati perché condannano i malfattori contro questa parola: La vendetta appartiene

a me; dice il Signore; e contra quest’altra: Lasciateli crescere sino alla messe. «Ecco,

dice Bossuet, come quegli ipocriti abusavano della sacra Scrittura, e con la loro finta

dolcezza colpivano tutti i fondamenti della Chiesa e degli stati» (Storia delie

variazioni, lib. XI). Magistratus civile et politias damnabant, ut quae a Deo malo

conditae et constitutae sunt (Cfr. Centur. Magdeb., tom., II, in Manet.).

Quest’eresia sociale era talmente propria degli albigesi che secondo il concilio di

Tarragona, esecutore dei decreti 3, e 4, del concilio di Laterano la prova assegnata ai

giudici per l’applicazione dei decreti fatti contro questi settari consiste in vedere se

l’accusato è uno di quelli qui dicunt potestatibus ecclesiasticis vel SAECULARIBUS non

esse obediendum, et poenam corporalem non esse infligendam in aliquo casu et

similia. (Concilio di Tarragona, a. 1242).

Cosi, giustizia, proprietà, famiglia, religione, tutti i fondamenti della società erano

combattuti da questi eretici, in cui erano venute a compendiarsi tutte le antiche eresie.

Cogliendo il pretesto di una rilassatezza di costumi che si faceva sentire allora così

nel clero come nella società, e che voleva una riforma, queste sette ipocrite

affettavano un rigorismo esagerato e falso, il quale non era che un modo di rovinare i

principii invece di emendare e togliere gli abusi.

Intorno a tale argomento può essere notato che tutte le sette cominciano

ordinariamente con una gran pretesa di rigorismo, di disinteresse e di riforma, col cui

favore esse distillano il loro veleno. Primieramente seducono sé medesime, si vuol

dirlo, con questa illusione d'orgoglio; ma due risultati funesti non tardano a

dileguarla: il primo è che erigendo in precetto generale ciò che non è altro che un

consiglio particolare, esse distruggono i fondamenti della natura e della società a

profitto della passione della moltitudine, la quale si arresta a cotale distruzione senza

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poggiare sino a quella perfezione che ne è lo scopo chimerico: il secondo è che quei

medesimi che raggiungono per qualche tempo tale perfezione, non potendo riuscirvi

che a forza di tendere troppo le forze dell’immaginazione e della volontà, essendo

privi affatto del soccorso dei mezzi soprannaturali che il cattolicesimo mette a

disposizione delle anime, non tardano a precipitare: a tal che, per aver voluto

innalzarsi naturalmente al di sopra della natura, queste sette orgogliose cadono al di

sotto. Osservate tutte le sette: il loro principio è angelico, il loro fine rapido e

satanico: desinit in piscem mulier formosa superne.

Il cattolicesimo, che solo ha nei suoi sacramenti dei mezzi soprannaturali di dominare

la natura ne permette nondimeno le legittime soddisfazioni alla generalità degli

uomini. Egli forma il santo senza disfar l’uomo, e innalza la città del cielo senza

disturbare o meglio con il rinforzare la società della terra. È il buon senso pratico

della vita santificata. E perché? Sempre per la medesima ragione; perché esso

distingue ed unisce il naturale e il soprannaturale, che tutte le sette tendono a

confondere; perché esso continua Gesù Cristo, il quale era distintamente e ad un’ora

perfettamente Dio e perfettamente uomo: che amava Giovanni, che piangeva

Lazzaro, che ordinava si pagasse il tributo a Cesare, che era commosso dalla sorte

della sua patria, che carezzava i piccoli fanciulli, che beveva e mangiava coi

peccatori, e che al tempo stesso comandava alla natura, faceva tremare i demoni, era

servito dagli angeli, santificava le prostitute e i ladroni, e moriva qual Dio sulla croce

in mezzo a tutti i tormenti della natura umana.

Le sette di cui ora favelliamo avevano concepito un singolar mezzo di conciliare il

rigorismo con la licenza; si dividevano in due classi; l'una dei buoni uomini o perfetti;

l'altra dei credenti, di gran lunga più numerosa, che componeva la moltitudine. I

buoni uomini si presentavano con un rigorismo fuor di misura, soprattutto

nell’esteriore e nel loro vestire. I credenti potevano abbandonarsi a tutti gli eccessi,

stimandosi dalla sola fede giustificati dei delitti più enormi, e assicurati della loro

salute, purché prima di spirare avessero ricevuto l’imposizione delle mani di un

perfetto, «senza pretendere di essere obbligati né alla confessione dei loro peccati né

alla restituzione di ciò che essi avevano rubato colle usure, coi furti e colle rapine di

cui non si facevano scrupolo alcuno, com’era altresì di tutte le altre corruttele della

voluttà, alla quale si abbandonavano con una libertà sfrenata; non dubitando punto

della loro salute purché prima di morire potessero ricevere l'imposizione delle mani

di qualcuno dei loro buoni uomini o perfetti» (Cfr. Storia degli albigesi, del rev.

padre Benoist). Secondo tutti gli storici contemporanei così i buoni uomini e i

credenti si assistevano reciprocamente: i credenti commettevano le rapine e i guasti

pei buoni uomini e i buoni uomini meritavano pei credenti. Tutta la loro religione

consisteva in questo.

Uno dei caratteri distintivi di questi settari, che si trova egualmente nei primi

manichei, nei rosa-crociati, nei franchi muratori, era il mistero delle loro società e dei

loro giuramenti, i loro segni, il loro linguaggio di convenzione, la loro fraternità

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sotterranea, la loro propaganda invisibile, e quei terribili segreti che non era permesso

al padre di svelare ai propri figliuoli, ai figliuoli di svelare al padre; segreti di cui la

sorella non doveva parlare al fratello, né il fratello alla sorella (Philiedorf, Contra

Wald. cap. 13).

È cosa curiosissima il ritrovare nella descrizione che fa sant'Agostino delle cerimonie

segrete dei manichei, ai quali aveva appartenuto nella sua gioventù, ciò che si pratica

ancora precisamente nelle logge dei franchi muratori. Così il segreto ad ogni patto,

jura. perjura, segretum prodere noli. Giura, spergiura, ma conserva il tuo segreto: era

questa la loro divisa. Lo stesso numero ancora e l'identità dei segni, signa oris,

manuum et sinus. La maniera di venirsi incontro con un tocco segreto di mano in

segno che avete veduto la luce; Manichaeorum alter alteri obviam factus, dexteram

dant sibi ipsis signi causa, velut a tenebris servati. Finalmente perfino quel catafalco

rizzato su cinque gradi, e quegli apparecchi di morte in memoria di quella di Manete,

che formano una delle principali cerimonie massoniche. Pascha suum, id est Diem

quo Manichaeus occisus, quinque gradibus instructo tribunali, et pretiosis linteis

adornato ac in promtu posito et objecto, adorantibus magnis honoribus prosecuuntur

(Aug. Contra epist. Manich.). Vedi intorno a' manichei, agli albigesi, ai muratori le

Memorie per servire alla storia del giacobinismo, di Barruel. Noi non vogliamo

dedurre da ciò che i franchi muratori debbano essere assimilati agli albigesi ed ai

primi manichei, no; come non si può dire che i fratelli moravi somiglino agli ussiti:

non sono che residui, che le ceneri fredde di quei vulcani che in passato furono

incendiari. Il loro torto principale è di romperla con la luce, di cui si dicono

nondimeno i settari, di essere perfettamente ridicoli e di perpetuare quel fondo di

società segrete che l’incivilimento riprova quanto la Chiesa, e che in tempi di

disordine possono tornare nuovamente il centro.

Cosi organizzati in una congiura antisociale, essi mettevano le loro dottrine ad

esecuzione da per tutto ovunque potevano, abbattendo le chiese e le case religiose,

trucidando inesorabilmente le vedove e i pupilli, i vecchi e fanciulli, non facendo

alcuna distinzione di età o di sesso; come i nemici giurati del cristianesimo,

distruggendo, mettendo ogni cosa a ruba nello Stato e nella Chiesa.

Così li rappresentano Glaber, testimonio della loro prima apparizione ad Orleans, nel

1017, Reinier o gli altri storici contemporanei. Ececo come parla Mèseray: «Scesero

dall’Italia in Francia alcuni altri avvelenatori, che vi arrecarono il pernicioso veleno

dei manichei; e furono questi, a mio credere, quelli che ammorbarono primieramente

la diocesi d’Alby, per la qual cagione questi eretici si denominarono albigesi....

Questi paesi di Linguadoca e Guascogna erano pieni di un’altra specie di belve feroci

che amavano le stragi. Essi non se la pigliavano solamente coi beni, ma assalivano le

persone e attentavano alla loro vita, non avendo riguardo alcuno né a condizione né a

sesso né ad età. Essi non erano d’alcuna religione, ma assistevano gli eretici per avere

argomento di mettere a ruba ed a sacco i sacerdoti e le chiese. Si chiamavano

brabanzoni, aragonesi, navarresi, baschi, cotterelli e triaverdini» (Compendio

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cronologico, tom. II, pag. 665.) Erano quei banditi che componevano la categoria dei

credenti al servigio dei buoni uomini.

A dir bene, era la perversità umana scatenata sulla società dal fanatismo anticattolico:

era il socialismo nato sotto forma di eresia teologica dai diversi oltraggi fatti al

dogma salvatore dell’Incarnazione e giunto ad ogni confusione del bene e del male,

ed alla più completa distruzione dell’uno e dell’altro.

Il filosofismo fu largo sino a questi ultimi tempi di accuse alla Chiesa, accusandola

d'intolleranza per avere autorizzata la società a rintuzzare questi barbari. Oggidì che

noi siamo illuminati dall’esperienza del medesimo pericolo, io non credo che nessun

uomo onesto e ragionevole ricuserebbe di approvare il canone del concilio generale

di Laterano, il quale consacrò la legittima difesa dell’incivilimento a quell’epoca:

«Rispetto ai brabanzoni, aragonesi, navarresi, baschi, cotterelli e triaverdini, che

esercitano così grande crudeltà sopra i cristiani, che non rispettano né le chiese né i

monasteri, e non risparmiano né le vedove né gli orfanelli né i vecchi né i fanciulli,

non avendo riguardo né all’età né al sesso, ma abbattono e guastano ogni cosa, come

pagani, noi ordiniamo a tutti i fedeli, per la remissione dei loro peccati, di opporsi

coraggiosamente a questi guasti e di difendere i cristiani contra questi cattivi» (Conc.

later., 1179, can. 27). Nei libri protestanti che trattano questa materia si citano le

disposizioni dei decreti promulgati cantra gli eretici, ma si usa la malizia di non

citarne i motivi.

La difesa dei cristiani contra i tristi è pur quello che noi facciamo oggidì. Ma

cadrebbe invano l’opera nostra se non facessimo ritorno al gran principio

d’incivilimento, la cui negazione è la sorgente di questo cataclisma. Tutto il male e

tutto il bene che si operano nel mondo non sono che l'errore o la verità ridotta in

pratica. Ora, Gesù Cristo è la verità. Egli lo ha detto: Ego sum veritas, e questa parola

suonerà in tutti gli avvenimenti sino alla fine dei secoli. Ogni offesa fatta a Gesù

Cristo è dunque fatta alla verità medesima, e porta direttamente o indirettamente e

tosto o tardi all’errore totale, che è l’opposto di ciò che è Gesù Cristo, vale a dire alla

confusione ed all’atterramento del finito e dell’infinito di cui esso è l’unione o la

personificazione adorabile, al panteismo, al comunismo, al caos, alla morte.

Cosa che noi non dobbiamo smettere di dimostrare sino alla fine.

VIII. Mentre l'esperienza di questa verità si compieva in grande nella guerra degli

albigesi, essa ricominciava nelle cattedre filosofiche di Parigi e riusciva rapidamente

alle medesime conseguenze.

Amalrico di Chartres professava la logica e l’esegesi all'università di Parigi.

Interpretando falsamente questa proposizione di Eriugena: «Ogni cosa è di Dio, ogni

cosa è manifestazione di Dio», egli diffuse tra i suoi contemporanei una dottrina

strettamente panteistica. Quantunque egli avesse avviluppato il suo errore in un

insegnamento in apparenza ortodosso, pur la Chiesa, sentinella vigilante della fede e

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dell’incivilimento, lo scopri: la Sorbona di Parigi pronunziò contro di lui una

sentenza che il papa confermò, e che fece morir Amalrico di angoscia e di rabbia.

Alla sua morte fu manifesto che egli aveva un certo numero di aderenti, tra i quali

Guglielmo di Champeux e Davide di Dinan, pel cui mezzo la peste del panteismo

distese i suoi guasti. Da questa fatale proposizione che egli aveva insegnato: «Tutto è

uno; e uno è tutto; questo tutto è Dio — l'idea è la medesima cosa che Dio — «fu

veduta uscirne la sovversione di ogni idea morale e sociale. Il dogma della Trinità,

donde esce così mirabilmente il dogma dell’Incarnazione, il quale mediante i

sacramenti va a cogliere l’umanità nei suoi diversi stati, e col mezzo del concorso

della libertà e della grazia, l‘unisce al Cristo per unirla a Dio; quest’ammirabile

economia della dottrina cattolica, in cui tutto è distinto e tutto è unito per essere

santificato, diventava ciò che vediamo qui nell'eresia di questi settari: «Bisogna

intendere pel padre il periodo reale della storia del mondo, nella quale la vita dei

sensi domina come avvenne nei tempi dell'antico Testamento; il Figliuolo è il periodo

ideale e reale, durante il quale l’uomo entra in sé medesimo, senza però che lo spirito

possa ancor trionfare del mondo esteriore e che l'ideale e il reale siano coordinati.

Finalmente, lo spirito si manifesta nel periodo puramente ideale e consegue la

vittoria. Per conseguenza i sacramenti istituiti dal Cristo, il Battesimo, la Penitenza,

l’Eucaristia, non hanno più senso: e ciascuno trova la sua salute nell’ispirazione

immediata dello Spirito Santo e senza alcuna pratica esteriore. L'ispirazione risulta

dal raccoglimento dello spirito in sé. La santificazione non è altro che la coscienza

della presenza di Dio, il pensiero dell’uno e del tutto, li peccato consiste nello stato

dell'uomo limitato nel tempo e nello spazio. Chiunque è nello Spirito Santo non può

più contaminarsi, anche quando si abbandona alla fornicazione; ciascuno di noi è lo

Spirito Santo» (Engehardt, Amalrico di Benc. Trattato di storia ecclesiastica, n. 3.

Conc. di Parigi. Atti.).

IX. Davide di Dinan si spogliò di questo alone mistico e confessò francamente il

paganesimo panteistico, che fa di Dio il principio materiale di tutto. In breve il

torrente di questa filosofia perversa andò a confondersi con quello di tutti i sistemi

eretici dei catari, dei valdesi e degli albigesi. Muovendo dal medesimo principio, cioè

dal panteismo, gli uni e gli altri s'incontrano, nonostante la diversità dei loro errori,

nel medesimo risultato, che è la barbarie. Da questa scuola, fulminata dalle decisioni

del concilio di Parigi nel 1209, derivò la setta in parte montanista, in parte panteista,

dei fratelli e delle sorelle del libero spirito, i quali traevano il loro nome dalla

dottrina che professavano. Essi consideravano tutte le cose come una emanazione

immediata di Dio e applicavano a sé medesimi le parole del Cristo: Io e il mio Padre

siamo uno. Chiunque è giunto a questa convinzione, dicevano essi, non appartiene

più al mondo dei sensi, non può più esserne contaminato, e non ha per conseguenza

più bisogno di sacramenti. Separando assolutamente il corpo dallo spirito, essi

pretendevano che gli eccessi della sensualità non avessero alcuna influenza sullo

spirito, e perciò alcuni di loro si abbandonavano in tutta sicurezza alle più vergognose

disonestà; non ammettendo alcuna differenza tra il vizio e la virtù, negavano l’inferno

e la giustizia, e si lasciavano andare agli eccessi più abominevoli. Vestiti in modo

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strano e talvolta ancora neppur vestiti, andavano qua e là errando in apparenza di

mendicanti. Furono chiamati begardi o piccardi in Alemagna, e in Francia turlupini.

Questi sanculots del medioevo portarono il disordine del loro selvaggio comunismo a

tal punto che la società e la Chiesa dovettero porre tutto in opera per rintuzzarli

(Engelhardt, Storia ecclesiastica, tom. IV, pag. 151. Alzog, tom. II, pag. 388. Hurter,

Storia d’Innocenzo III, tom. II, pag. 302. Moehler, La Simbolica, tom. I, pag. 376).

X. In questi tempi di pazzi e degradanti traviamenti si levava sull'orizzonte del

mondo cattolico uno dei più sublimi, più vasti e più puri intelletti che abbiano onorato

l'umanità, del quale non è detto quanto si dovrebbe; neppure applicando il supremo

elogio che la Scrittura fa della natura umana denominandola per alcun poco inferiore

agli angeli (Psal. VIII, 6). Io ho nominato l’angelo della teologia, l’aquila della

filosofia, il gran san Tommaso. Questo luminoso genio fu suscitato da Dio in questo

tempo di aberrazione degli spiriti razionalisti e alla vigilia del gran divorzio tra la

ragione e la fede mercé il protestantismo, per stringere tra l’una e l’altra la più bella

alleanza, per determinare in qualche modo tutta l’altezza alla quale lo spirito umano

può toccare, e tutta la possanza, la pienezza, la gravità che la ragione sviluppata sotto

la scorta della fede può avere, e così far meglio sentire alla ragione tutta la

fiacchezza, tutto l’oscuramento, tutta l’abbiezione in cui cade, quando si separa dalla

fede.

La gran Somma di san Tommaso pone e risolve tutte le questioni possibili sulla

natura e i rapporti del finito e dell’infinito. Ella sviluppa e determina al tempo stesso

tutte le soluzioni con una sicurezza, facilità e rettitudine luminosa, la quale movendo

dalla fede come da un centro comune, si spande in raggi intellettuali, che vanno in

ogni verso a illuminare il più vasto orizzonte che possa essere aperto all’occhio

dell’intelletto. In quest’opera incomparabile non si sente né timidezza, né ardimento,

non stanchezza, non sforzo, non insufficienza, né esagerazione; ma un pieno, naturale

e sicuro esercizio del pensiero, che bilancia il suo volo con la sua sottomissione e

riceve dalla fede una specie d'infallibilità intellettuale. Non c’è questione agitata che

san Tommaso non tratti a fondo, e ne eccita altre moltissime che non erano neppur

sospettate. Ma dove lo spirito umano non può che suscitare le questioni senza

risolverle, san Tommaso è in grado di risolverle prima di eccitarle, e non le eccita in

certo qual modo che per la forma e per mostrare il rigore delle sue soluzioni, nessuna

delle quali in sostanza è causa di dibattito, tanto vi si fanno sentire la giustezza,

l'armonia. la precisione propria della verità. Cosa soprattutto notevole è che, mentre

la ragione degli eresiarchi fin dal primo passo cade nel panteismo, la ragion cattolica

di san Tommaso va sull’orlo dei precipizi, sino alle estremità più remote della natura

e del fine delle cose, non vacillando né fallendo mai, trovando al contrario in queste

medesime estremità la giustificazione armonica delle sue vedute e come la sonora

ripercussione della verità.

Oltre questa grand'opera, questa magnifica piramide della dottrina cattolica, che

previene tutti gli errori e li distrugge implicitamente con l’esposizione e con la statica

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della verità, san Tommaso scrisse specialmente contro quel panteismo satanico ad

una o due teste, che, venuto dall’India e dalla Persia e raccogliendo tutti gli errori

analoghi delle scuole talmudiche ed elleniche, aveva creato il primo pericolo

all’incivilimento cristiano nelle sette gnostiche e neoplatoniche; che lo aveva messo

nuovamente in pericolo nelle eresie degli albigesi e dei valdesi, e che respinto dal

mezzogiorno dell'Europa, la pigliava ora da un altro lato introducendo il suo veleno

in seno alle razze slave e germaniche. Il genio di san Tommaso venne in aiuto

dell’incivilimento con due opere speciali: la Somma contra i gentili, nella quale la

fede cattolica combatte gagliardamente il manicheismo, o il suo trattato contro gli

errori degli Orientali. Nello quali dilegua le tenebre del panteismo ristabilendo con

invincibile chiarezza la vera nozione di un Dio essenzialmente distinto da tutti gli

esseri creati; considerando Dio in sé medesimo; poscia Dio per rapporto alle creature;

indi le creature per rapporto a Dio; e improntando queste distinzioni fondamentali e

questi rapporti naturali con l'esposizione dell'unione ineffabile di Dio con la natura

umana nell’incarnazione del Verbo, e di tutto il destino dell’uomo nel disegno

generale del cristianesimo.

Quando la dottrina cattolica ebbe così ricevuto, sotto la penna di questo gran genio

identificato con la fede, tutto lo sviluppo della sua esposizione e della sua sintesi, Dio

permise all’errore di raccogliere anch’esso per mezzo di poderosi settari tutti gli

elementi di falsa filosofia e di teologia errata, da cui l’Occidente era allora

ammorbato. Wiclef e Giovanni Hus vennero ad apparecchiar le vie a Lutero.

Dire che la loro separazione dalla dottrina cattolica e la loro caduta nel panteismo

furono una cosa medesima, è indovinare infallibilmente i fatti, tanto assoluta è la

legge di questo rapporto.

L'inglese Giovanni Wyclif si segnalò dapprima per la sua opposizione sistematica

contro la Chiesa; e della negazione dell'autorità di lei egli, forse per primo, fece

l’oggetto della sua eresia. In breve vi mescolò un attacco contro i dogmi,

segnatamente contra quello della transustanziazione: e mentre abbandonava la

dottrina cattolica, le sostituiva la seguente dottrina: «Ciò che è Dio, secondo l'idea, è

Dio medesimo, o l'idea è Dio. Ogni natura è Dio, ed ogni essere è Dio». Non c’è cosa

che arresti l'eresiarca nelle conseguenze del suo sistema: «Dunque, dice egli, un asino

è Dio» (Cfr. De ideis, cap. 2. Staudenmaier, Filosofia del cristianesimo. Alzog, Storia

universale della Chiesa, tom. II, pag. 588).

Ammesso una volta questo principio dell’identificazione panteistica di Dio coll'idea,

tutto il rimanente del sistema seguitava molto facilmente. Wyclif procedeva sino a

sostenere l'eternità reale delle cose e del tempo; la creazione tutta quanta non era che

un'emanazione; il che trae con sé il fato e la necessità del male che Wiclef professa

apertamente, non temendo punto di sottoporre a questa necessità Dio medesimo, di

distruggere la sua libertà, del pari che quella della creatura, e di soggettare ogni cosa

al giogo di questa stupida necessità.

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A questa dottrina già così perversa Wyclif ne mescolava un’altra, che aveva preso

dagli albigesi, contro la proprietà. Gli albigesi avevano attaccato principalmente le

proprietà ecclesiastiche; Wyclif generalizzò questo attacco stendendolo ad ogni

proprietà, fondandolo sull’idea che, per avere un dritto legittimo di possedere qualche

cosa sulla terra, bisogna esser giusto, e che un uomo perdeva ogni diritto ai suoi

possedimenti allora che commetteva un peccato mortale; e questa dottrina l’applicava

ai signori, ai principi ed ai re, del pari che ai papi ed ai vescovi (Pluquet, Dizionario

delle eresie).

Wyclif vedeva chiaro che apriva col suo sistema la porta a tutti i delitti e alla

distruzione d’ogni società. «Ma, soggiungeva egli, se non mi si danno ragioni

migliori di quelle che mi si vengono dicendo, io rimarrò confermato nel mio

sentimento senza dirne parola» (Bergier, Dizionario di teologia. Bossuet, Storia delle

variazioni)

Per mala ventura egli non stette silenzioso, e le sue predicazioni sovversive fecero

nascere la setta dei viclefiti, la quale s'ingrossò con quella dei lollardi, che veniva

dalla Boemia e aveva per autore Lollardo Walter, il quale non aveva fatto che

riprodurre gli errori manichei degli albigesi contro i sacramenti e la penitenza, il

matrimonio, la giustizia e la proprietà, e che aveva sopra questi tessuto quella dottrina

realmente infernale, che i demoni erano stati ingiustamente scacciati dal cielo, che

san Michele e gli angeli sarebbero un giorno dannati eternamente, del pari che quelli

che non abbracciassero la sua dottrina.

La filiazione di tutte queste eresie è attestata da tutti gli storici: esse si completavano

e si spiegavano le une per mezzo delle altre; così che per conoscere ciascuna di esse,

si vogliono conoscer tutte, e non si fa alcuna ingiustizia dicendo che quella che

sembrava la più innocente era solidale con la più colpevole. Così i valdesi di Lione,

per esempio, di cui si vanta cotanto l’apparente moralità, sono stati, per confessione

di tutti, i padri dei wiclefiti e degli ussiti: «Dalle reni dei Valdesi, dice uno storico,

uscirono, col volger degli anni, un gran numero d’altri fanatici, che aumentarono in

parte la setta con nuovi traviamenti e in parte pure la trasformarono in nuove» (Guido

Carmelita, Summa haeresis valdensium). Uno storico ussita dice dal canto suo che

Wyclif, il quale suscitò Giovanni Hus, fu assecondato dai valdesi (Clarissimi viri

Joachimi Camererii pabepergensis, Historica narratio de fratrum orthodoxarum

ecclesiis in Bohemia, Moravia et Polonia, pag. 264). Era il medesimo veleno, il

medesimo virus, ora latente, ora prorompente, e più pericoloso forse nel primo stato

che non nel secondo, perché si distendeva maggiormente. Bisogna esserne ben

convinti che ogni eresia porta nel proprio seno la morte.

XI. Giovanni Hus fu il discepolo e l'erede immediato di Wyclif, egli non poté

afferrare tutte le dottrine del teologo inglese; ma non gli sfuggirono i principali

risultati, e li seppe difendere con abilità. Egli prese da esso soprattutto la dottrina

della predestinazione assoluta, dividendo gli uomini in eletti ed in riprovati da tutta

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l’eternità, checché facessero, non considerando che gli eletti come membri della vera

Chiesa, e togliendone irremissibilmente gli altri, senza che alcun pentimento, alcuna

ammenda potesse farveli rientrare. Egli mosse da questo punto per dire coi lollardi e

coi valdesi che le potestà della Chiesa e la virtù dei sacramenti dipendevano dalla

santità dei loro ministri e perivano in mani indegne di esercitarli. Estese naturalmente

questa dottrina ai re, ai principi, ai signori e a tutte le superiorità sociali. E per

conseguenza decise che quelli che sono viziosi sono scaduti dalla loro autorità e

spogliati del loro diritto, e che il popolo può a grado suo correggere i tuoi padri

quando cadono in qualche colpa (Proposizione di Giovanni Hus condannata dal

concilio di Costanza nella sua ottava sessione).

Si comprende che la distruzione di ogni ordinamento sociale è l'effetto immediato di

una tale dottrina. Ciò non sarà vizioso e non lo diventerà soprattutto agli occhi di

coloro che sono interessati a trovarlo tale? Chi è che non cada in qualche colpa? Gesù

Cristo non ha liberato dalla comune miseria i ministri stessi delle sue grazie, e fece

con ciò due grandi cose: la prima, di far risplendere tanto più vivamente la purezza

soprannaturale della dottrina, l'infallibilità del suo insegnamento e la virtù dei suoi

effetti, che si mantengono invariabilmente nonostante tutti gli accidenti umani, ed

anche di quelli che ne sono l’organo; la seconda, di sostenere tutta quanta la società al

di sopra del caos di questi accidenti, facendo poggiare l’autorità, che a tutti i gradi ne

costituisce le basi, sopra un diritto superiore e indipendente. Tutta la società era

dunque interessata nella controversia suscitata da Giovanni Hus contro la Chiesa e le

sovranità.

La santità dei rappresentanti della Chiesa era del resto oscurata e come eclissata a

quella età da una di quelle ombre che la terra getta talvolta sugli astri medesimi che la

devono illuminare, e che anche dietro queste ombre sono non meno apportatori della

luce.

Non ci è per nulla di grave nel confessarlo: nella parte terrestre della sua esistenza,

non esente dalla corruzione della nostra natura, la Chiesa rappresentava allora uno

spettacolo affliggente di rilassatezza e di disordine. Sicuramente essi furono colpevoli

e responsabili di molti mali per la cui via giunse lo scandalo; ma non lo furono così

da giustificare quelli che si scandalizzarono, e soprattutto coloro che promossero lo

scandalo - e se ne giovarono - della responsabilità della rivolta, la quale ha voluto

delle violazioni della dottrina accusare la dottrina stessa e abusò del male per far

rigettare il rimedio, invece di provare l'infallibilità del rimedio applicandolo al male.

Ciò che vi ha di peggio al mondo non sono le cattive azioni, sono le cattive dottrine

che le scatenano.

Per favorir quelle che egli voleva diffondere, Giovanni Hus, come tutti i settari che lo

hanno seguito, esagerava sino alla calunnia il quadro della rilassatezza dei costumi

clericali in quel tempo, a tal punto di essere un giorno interrotto da un grave e onesto

uditore, il quale gli disse: «Maestro, io sono andato a Roma, vi ho veduto il papa e i

cardinali; ma in verità essi non sono così cattivi come voi li dipingete. — Ebbene, se

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il papa ti piace tanto, ripigliò Hus, corri un'altra volta a Roma e restaci. — No,

maestro, replicò il suo interlocutore, io son troppo vecchio per fare il viaggio; ma voi

che siete giovane andatevi, e troverete, ve lo ripeto, che le cose non sono così cattive

come voi dite».

La Chiesa non chiudeva la bocca di quelli che manifestavano gli abusi dei suoi

ministri se non allora che questo appello alla riforma era un appello alla ribellione, e

non era ispirato che dallo spirito di orgoglio e di sovversione. Sempre saggia, anche

nei rappresentanti che umanamente non erano sempre tali, essa ascoltava, anzi

suscitava dei veri riformatori nel suo seno e riconosceva in essi con gioia il diritto e il

dovere di rianimare la vita comune dei fedeli, sino a fare dell’esercizio di questo

diritto un titolo medesimo ai supremi onori della santità. Così furono accolti,

incoraggiati e onorati, fra una moltitudine di altri, san Bernardo e santa Brigida, i

quali dipinsero sotto i colori più vivi la rilassatezza della disciplina e ne invocarono

con tutte le loro forze la riforma. Cosa ammirabile! Brigida fu precisamente

canonizzata dal concilio che condannò Giovanni Hus. L’uno e l'altra avevano

domandato la riforma; ma Brigida cominciando dal riformar sé medesima, e

Giovanni Hus, come dopo di lui Lutero, lasciando libero il freno a tutte le passioni.

Queste, scatenate e infiammate da Hus, tramutarono per ben sedici anni tutta

l'Alemagna in un campo di stragi spaventevoli, d'incendi, di rapine, di orrori inuditi.

La questione per la quale avvennero così gran guai sembra a prima giunta di poca

importanza, e la filosofia moderna non mancò di gettar sul secolo che l'agitava e sulla

Chiesa che la sosteneva tutti i superbi dileggi della ragione. Si trattava di sapere se il

popolo farebbe o no, come il clero, la comunione sotto le due specie. Tale era la

questione per la quale il suolo d’Alemagna fu seminato d’ossa umane.

Ma una tale questione, sebbene in apparenza semplice e leggera, era la più gran

questione che fosse stata agitata in seno alla società, o della barbarie o

dell’incivilimento, una questione di vita o di morte sociale, la questione medesima

che ci mette oggidì in tanto spavento; il socialismo, il comunismo.

Quando le orde barbare degli ussiti si levarono al grido «LA COPPA AL POPOLO!» essi

domandavano che fosse tolta ogni distinzione tra il clero e i fedeli, e che tutti fossero

ammessi a bere nella medesima coppa. Essi inauguravano sotto la forma più sacra la

selvaggia divisa di eguaglianza e di fratellanza che ha insanguinato i nostri ultimi

tempi. Essi trasformavano il dogma della carità infinità di Dio, la comunione, in

comunismo, non per il fatto in sé medesimo della comunione sotto le due specie, ma

per l'intenzione che la faceva loro domandare; intenzione al maggior segno perversa,

poiché non credevano alla transustanziazione più che il loro capo Giovanni Hus che

l’aveva attaccata, e perché la loro esigenza non era che la formula sacrilega di tutte le

selvagge passioni contro la società. Del resto, fedeli eredi dei gnostici, e precursori

dei socialisti, al grido LA COPPA AL POPOLO! aggiungevano l'altro: LA PROPRIETÀ AL

POPOLO! che ne derivava naturalmente; e i socialisti moderni non hanno mancato di

salutare in essi con trasporto i loro fratelli ed amici e di stendere ad essi attraverso

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quattro secoli una mano congiurata contra la società e le sue sante leggi (Vedi tutto il

capitolo su Giovanni Hus che apre la Storia della rivoluzione francese, di Louis

Blanc).

Col suo senso di profondo incivilimento e con la sua fermezza inflessibile, la Chiesa

sostenne la furia della procella e pose al sicuro un'altra volta ancora, contra

l'invasione della barbarie, l'ingrata società che doveva un giorno maledirla.

Ma non era questo che il prologo di un più gran dramma, e questo secolo pieno di

amarezza, come dice Bossuet, aveva partorito Lutero.

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Alternativa vera e alternativa falsa al "socialismo scientifico"

La socialdemocrazia fabiana,

"new look" dell’"opzione socialista"

Articolo apparso sul n. 186 (1990) di Cristianità

Quesiti di fondo e grandi prospettive relativamente al mondo di là dalla

Cortina di Ferro — a partire dall’Unione Sovietica — e, più in generale,

al mondo intero: dal "socialismo scientifico" a quello "fabiano", nel

tentativo di vanificare consistenti spinte "neo-conservatrici".

1. Il 20 febbraio 1990, a Parigi, alla Sorbona, si è tenuto un convegno sul tema Ou va

l’Est?, organizzato da Libération, Antenne 2, Europe 1, Journal des Élections, El

País, Frankfurter Rundschau, la Repubblica, The Indipendent, Beszelö, Gazeta

Wyborcza, Zidove Noviny e Les Nouvelles de Moscou: dopo un saluto del rettore de

l’Académie e cancelliere delle Università di Parigi, Michèle Gendreau-Massaloux, ha

aperto i lavori il primo ministro della Repubblica Francese, Michel Rocard, e alla

discussione hanno partecipato il primo ministro rumeno, Petre Roman, il presidente

dell’Internazionale Socialista, Willy Brandt, il direttore del quotidiano polacco

Gazeta Wyborcza e deputato alla Dieta, Adam Michnik, il ministro degli Esteri della

Repubblica Italiana, Gianni De Michelis, il segretario generale del PDS, il Partito del

Socialismo Democratico — ex SED, il Partito di Unità Socialista, cioè comunista —

della Repubblica Democratica Tedesca, Gregor Gysi, il capo del gruppo parlamentare

laburista britannico, Roy Hattersdley, nonché — insieme a filosofi, sociologi e storici

di numerosi paesi europei — una nutrita delegazione dell’Unione Sovietica, di cui

faceva parte — fra altri — anche Aleksandr Tsipko, vicedirettore e docente di

filosofia all’Istituto di Economia del Sistema Socialista Mondiale (1).

Nel giugno del 1990, in un’intervista su ""l’opzione socialista" nella teoria e nella

pratica", raccolta dal giornalista politico Valeri Vyjutovic, lo stesso Aleksandr

Tsipko, di fronte alla situazione del mondo oltre la Cortina di Ferro — un mondo che

sta vivendo una sorta di dopoguerra in quanto sta faticosamente tentando di uscire

dalla guerra fatta alla natura, umana e non, dall’utopia socialcomunista — e con

implicito riferimento a propositi espressi in occasione del convegno parigino,

afferma: "Le speranze di Brandt e di Rocard di vedere la socialdemocrazia

conquistare tutta l’Europa sono illusorie.

"[...] nessuna previsione sulla prossima socialdemocratizzazione dell’Europa

Orientale si è rivelata fondata. Tutti questi paesi passano dal comunismo al neo-

conservatorismo oppure al neo-liberalismo, saltando la socialdemocrazia. In questo

vi è una logica. Quando si è portati a ripartire da zero, è meglio appoggiarsi sui

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valori e sui princìpi antichi, provati dai secoli. Il conservatorismo che punta sulla

famiglia, la proprietà, l’impresa privata, la religione, la coscienza nazionale

permette di accelerare il ristabilimento della vitalità della società. Questo spiega la

popolarità del conservatorismo. La socialdemocrazia ha ancor meno possibilità di

prosperare da noi [in Unione Sovietica]. [...]

"I nostri nuovi ideologi [...] [garantiscono] che i sovietici [...] restano in maggioranza

fedeli all’ideologia comunista, e che sono nemici convinti della proprietà privata.

Tutto questo deriva da una cattiva conoscenza della realtà, dalla perdita di contatto

con le masse popolari. [...]

"[...] La gente non teme né la proprietà privata né il capitalismo, ha paura di non

avere la sua parte. Date a ciascuno di loro in privato possesso anche un solo pezzo

tolto alla collettività e diventerà difensore feroce della proprietà privata" (2).

È difficile essere più chiari ed esprimere con maggiore sinteticità i termini di un

grande problema, offrendo nel contempo utili elementi di giudizio. Infatti, al quesito

che angoscia molti e che riguarda la fine o meno del socialcomunismo oltre la

Cortina di Ferro — e, soprattutto, oltre la cortina eretta dall’informazione

occidentale, che è sempre meno facile distinguere dalla propaganda allo stato puro —

il paradigma sapienziale risponde così: "Soltanto quando in un luogo tornano a fiorire

i valori e i princìpi provati dai secoli, cioè la famiglia, la proprietà, l’impresa privata,

la religione e la coscienza nazionale, in quel luogo il socialcomunismo è certamente

morto. In caso diverso...".

2. La "sentenza" del filosofo sovietico richiama immediatamente quanto scriveva

nella seconda metà degli anni Settanta il matematico russo Igor Rostislavovic

Safarevic: poiché "con il termine "socialismo" si designano spesso due fenomeni

completamente differenti: a) la teoria e il conseguente appello a un programma di

rinnovamento della vita; b) un regime sociale realmente esistente nello spazio e nel

tempo" (3), il problema della definizione del socialismo "[...] non in modo formale,

ma chiarendo almeno cosa intendiamo noi con questo termine [...]

"[...] s’intreccia con quello della sua esistenza come categoria storico-universale.

[...]

"Incominceremo dunque — proseguiva l’eminente scienziato — con l’enumerare i

principî fondamentali che si presentano nell’attività degli Stati socialisti e

nell’ideologia delle dottrine socialiste [...].

"1. Abolizione della proprietà privata

"[...]

"2. Abolizione della famiglia

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"[...]

"3. Distruzione della religione

"[...]

"4. Comunitarismo o uguaglianza" (4).

Svolgendo un pregevole sforzo ermeneutico, Igor R. Safarevic notava poi come "[...]

tutti gli elementi che rientrano nell’ideale socialista (abolizione della proprietà

privata, della famiglia, della gerarchia, avversione per la religione) possono essere

intesi come manifestazioni di un unico principio fondamentale: la repressione

dell’individuo" (5); e concludeva che "interpretare il socialismo come una

manifestazione dell’istinto d’autodistruzione dell’uomo aiuta a capire la sua ostilità

verso l’individualità, e la sua volontà di distruggere le forze che sostengono e

rafforzano questa individualità: la religione, la cultura, la famiglia, la proprietà

individuale" (6). Ma ammoniva che "il termine "ateismo" — opportunamente evocato

a proposito di un programma così radicalmente distruttore — non deve essere

applicato alle persone conquistate dalla visione socialista del mondo, perché questo

potrebbe ingenerare confusione, non si dovrà parlare quindi di ateismo ma di

teofobia. Tale infatti è l’atteggiamento del socialismo verso la religione,

appassionato e intriso d’odio. Certamente il socialismo è collegato alla perdita del

senso religioso, ma non si può ridurlo solo a questo. Il posto occupato una volta

dalla religione non è rimasto vuoto e ha accolto un nuovo inquilino. Qui ha origine

quel principio attivo del socialismo che determina appunto il ruolo storico di questo

fenomeno" (7).

3. L’affermazione di Aleksandr Tsipko sarebbe semplicemente il richiamo

nell’ipotesi della tesi doviziosamente illustrata da Igor R. Safarevic se il filosofo

sovietico enunciasse la sua "regola d’oro" in polemica e per contrasto con

l’esperienza socialcomunista, nel qual caso la sua affermazione potrebbe sembrare

perfino troppo facile e oggi troppo evidente. Invece, la polemica e il contrasto sono

con quelle che lui stesso chiama le "speranze" dei socialdemocratici, che quindi non

contrappone alle speranze dei socialcomunisti, ma — anch’esse e piuttosto — a quei

valori e a quei princìpi "provati dai secoli".

Dunque, nel passaggio — non mai facile — dalla "teoria" alla "pratica", sembra che

Aleksandr Tsipko si lasci "distrarre" dal "neo-conservatorismo" e dal "neo-

liberalismo" — cui, per altro, non dà seguito e che pare introdotto esclusivamente per

ragioni d’argomentazione, comunque interpretabile come "conservatorismo

depauperato", cioè già privato di un cospicuo numero di valori —, e che cada

platealmente e miseramente, non cogliendo la vera natura dell’alternativa storica,

quella fra "democrazia" e "totalitarismo" come alternativa fra socialdemocrazia e

socialcomunismo o "socialismo reale".

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Purtroppo la caduta è soltanto apparente: infatti, lo soccorre il pastore luterano

sudafricano Edward Cain che — anch’egli in modo molto sintetico e, quindi, pure

esso tendenzialmente sapienziale —, chiedendosi perché Nelson Mandela è tanto

popolare in Occidente, afferma che la risposta deve essere cercata nel fatto che il

socialismo è... trino: scientifico, fabiano e nazionale. Dopo non più di cenni al

nazionalsocialismo e al socialismo scientifico — nell’evidente ipotesi che tutti li

conoscano o, meglio, presumano di conoscerli adeguatamente —, egli traccia

brevemente una storia del socialismo fabiano. Questa branca del socialismo trae il

suo nome da "la Fabian Society [...] fondata a Londra nel 1884 dall’economista

Sidney Webb e da sua moglie, Beatrice. Entrambi ebbero influenza sullo sviluppo del

movimento laburista britannico. La loro brillante descrizione della Rivoluzione

bolscevica e delle riforme sovietiche, soprattutto dopo la loro visita nell’URSS nel

1922, ebbe una grandissima importanza nel coltivare il sostegno al regime sovietico

in Gran Bretagna e in altri paesi. Anche il drammaturgo George Bernard Shaw e lo

scrittore H[erbert] G[eorge] Wells, entrambi membri eminenti della Fabian Society,

ritornarono dall’URSS pieni di lodi per Stalin e l’"esperimento sovietico". Un altro

fabiano, l’economista James Maynard Keynes, fu il capo della rappresentanza

britannica alla conferenza di Bretton Woods (1944) da cui è nata l’istituzione del

Fondo Monetario Internazionale.

"I fabiani non hanno mai costituito un movimento politico, pensando che avrebbero

potuto esercitare meglio la loro influenza attraverso la penetrazione nei partiti

politici esistenti, nelle istituzioni scolastiche e nell’amministrazione pubblica.

Tuttavia, nel 1895, fondarono la London School of Economics.

"La tradizione fabiana — prosegue Edward Cain — continua a vivere nel British

Royal Institute of International Affairs e le sue organizzazioni sorelle nelle nazioni

del Commonwealth, come il South African Institute of International Affairs. In

America, si trova nel [CFR, il] Council of Foreign Relations e nella Commissione

Trilaterale.

"Benché l’attuale numero di soci del CFR sia soltanto di 2440, tutti i 14 segretari di

Stato degli Stati Uniti (affari esteri) dalla sua fondazione nel 1921 ne sono stati

membri. Questo fatto ha dato all’organizzazione un’influenza senza pari sulla

politica estera americana e quindi la possibilità di influenzare altri paesi esercitando

pressioni su di essi. Il CFR ha fornito inoltre 14 segretari al Tesoro, 11 segretari alla

Difesa e un gran numero di dirigenti dipartimentali federali, indipendentemente da

quale partito è al potere. Altri membri sono eminenti personalità nel mondo degli

affari (soprattutto banchieri), dell’amministrazione, della giustizia e dei mass media.

Si entra soltanto per invito.

"Nel suo monito al Senato americano nel dicembre del 1989, il senatore Jesse Helms

disse che dal punto di vista globalistico del CFR "le attività delle forze finanziarie e

industriali internazionali sarebbero orientate a mettere in essere un programma di

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unità mondiale con la convergenza dei sistemi sovietico e americano come suo

elemento centrale" (The Shadows of Power [Le ombre del potere], p. 15)" (8).

Ritornando a fatti noti — o che almeno oggi dovrebbero essere tali e costituire

premesse per la formulazione di ogni giudizio politico —, il pastore luterano

sudafricano osserva che "il socialismo scientifico ha creato nell’Europa Orientale

stagnazione economica, profonda povertà e popoli scoraggiati e ha ridotto questi

paesi del Primo Mondo allo stato del Terzo Mondo. Per mantenervisi al potere e

riconquistare il sostegno del popolo, sta cambiando la sua immagine e il suo nome.

Ora chiama sé stesso "socialismo democratico", ma la sostanza resta la stessa.

"L’influenza del socialismo fabiano è derivata dai capitali dell’Occidente, dalle sue

università, dai suoi media e dalle sue Chiese. Screditando lo status quo e rendendo il

socialismo intellettualmente rispettabile, i fabiani hanno spesso preparato la strada

all’insediamento di marxisti violenti. Perciò la differenza fra fabiani e marxisti riesce

spesso sfocata. La confusione delle linee fra queste due forme di socialismo è

accresciuta dagli agenti d’influenza sovietici.

"Probabilmente la cosa più importante è che la meta comune di entrambe le forme di

socialismo è costituita dalla costruzione di un Nuovo Ordine Mondiale diretto da un

governo mondiale unico. Il CFR ha da tempo identificato nel nazionalismo come

sovranità di ciascuna nazione il maggior ostacolo alla realizzazione di questa meta.

Perciò fin nel lontano 1953 il professor Robert Osgood scriveva: "L’estrema forma

di idealismo è l’autosacrificio nazionale, che richiede il deliberato cedimento del

proprio interesse da parte di ciascuna nazione per amore delle altre nazioni e degli

altri popoli oppure per amore di qualche principio morale o meta universale"

(Conspiracy: A Biblical View, p. 71)" (9).

4. Dunque, venendo ai nostri giorni e parlando del mondo oltre la Cortina di Ferro, si

può dire che sta venendo "fuori dal socialismo" oppure si deve sostenere che sta

passando "da socialismo a socialismo"?

Comunque, con che cuore mettere sullo stesso piano il socialismo nazionale, quello

scientifico e quello fabiano? Trascuro il nazionalsocialismo, limitandomi al

socialcomunismo e al socialismo democratico o socialismo fabiano, al cui proposito

cito una conclusione inquietante di A. B. Ulam secondo il quale "l’idea della

"moderazione" della ricetta fabiana per il socialismo è giustificata soltanto finché si

tratta del metodo e del ritmo proposti per la realizzazione del programma. Ma

allorché si passa all’obiettivo economico finale, la società che emergerebbe in

conformità al dettato degli Essays non dispiacerebbe a un marxista" (10).

Per meglio intendere quanto afferma l’autorevole studioso del pensiero socialista

inglese — quindi per meglio intendere anche l’uso dell’aggettivo "fabiano", assunto

come sinonimo di "gradualistico" e ricavato dal nome dell’uomo politico dell’antica

Roma Quinto Fabio Massimo detto il Temporeggiatore — credo basti segnalare che il

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"[...] processo di concentrazione capitalistico riceve dai fabiani una valutazione

caratteristicamente positiva in quanto sembra loro preparare la via al socialismo

[...]: accentuandosi, col crescere delle dimensioni dell’impresa, la separazione tra

l’elemento formale della proprietà, nelle mani di un gruppo di azionisti, più o meno

ristretto, ma comunque interessato esclusivamente a percepire dividendi, e quello

sostanziale, ai fini dell’andamento economico, della gestione, sempre più affidata a

manager stipendiati, risulta corrispondentemente agevolato il compito dello stato,

che si proponesse di subentrare progressivamente nella proprietà del capitale

industriale e finanziario della nazione. "Più di un terzo dell’intera attività economica

inglese — rileva compiaciuto Webb — misurata sulla base del capitale impiegato,

viene oggi esercitata in forma di società per azioni, i cui titolari potrebbero essere

espropriati dalla comunità senza causare maggior disturbo nell’andamento delle

industrie interessate di quello prodotto dagli acquisti di pacchetti azionari che si

realizzano quotidianamente alla borsa valori" [S. Webb, Historic, in G. B. Shaw (a

cura di), Fabian Essays in Socialism, Londra 1889 (reprint Peter Smith, Gloucester,

Mass., 1976), p. 67]. La trasformazione della figura del capitalista, da enterpreneur,

costoso ma indispensabile agente del progresso economico, a ozioso rentier,

rimpiazzato, in tutte le funzioni socialmente utili, dai manager alle sue dipendenze,

così come un tempo i rois fainéants erano stati spodestati dai propri maestri di

palazzo, è, agli occhi dei fabiani, un fatto pressoché compiuto, almeno per quanto

riguarda la grande industria" (11); ma, soprattutto, è un fatto auspicato nella

prospettiva che "[...] prevede che lo stato democratico, dopo aver sperimentato

l’inefficacia dei controlli esercitati dall’esterno sui grandi monopoli privati

["l’enorme concentrazione di potere nelle mani di pochi privati cittadini"], tagli il

nodo gordiano della proprietà privata dei mezzi di produzione trasformandosi in

stato socialista" (12).

5. Stando così le cose, la regola d’oro suggerita da Aleksandr Tsipko non vale forse

anche per l’Occidente? Anzi, benché il socialismo scientifico abbia avuto un brutto

tracon lo — ma non si deve assolutamente dimenticare la condizione del popolo

albanese né di quelli cubano, cinese e del Sud-Est Asiatico —, non vale ormai per

tutto il mondo? Perciò l’alternativa vera non è quella reiteratamente proposta dalla

"malsana utopia", dalla "rivolta" e dall’"empietà" (13), romantica oppure

razionalistica, cioè fra questo o quel socialismo, per quanto con sopravviventi

venature del liberalismo necessario come premessa e come strumento per la sua

realizzazione, ma fra socialismo e verità sociale, qualunque sia la forma di socialismo

proposta, quella "democratica" non esclusa.

Ma — come in un romanzo a puntate — riusciranno le nazioni, naturalmente, benché

disordinatamente, attratte dalla verità sociale, a sottrarsi a "l’influenza del socialismo

fabiano [che] deriva dai capitali dell’Occidente, dalle sue università, dai suoi media

e dalle sue Chiese", che in genere trascurano il monito di Papa Pio XI secondo cui il

socialismo, anche moderato, è sempre socialismo e non si può essere insieme buoni

cattolici e veri socialisti (14)?

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Giovanni Cantoni

(1) Cfr. Ou va l’Est, in Les Nouvelles de Moscou, n. 10 (2269), 10-3-1990.

(2) Aleksandr Tsipko, Le destin d’une idée, intervista a cura di Valeri Vyjutovic, ibid., n. 24 (2283),

17-6-1990.

(3) Igor Rostislavovic Safarevic, Il socialismo come fenomeno storico mondiale, con una

presentazione di Aleksandr Solzenicyn, trad. it., "La Casa di Matriona", Milano 1980, p. 17. Del

suo studio — notevolissimo benché in qualche parte "segnato" da pregiudizi anticattolici tipici della

cultura "ortodossa" — l’autore offre una sintesi in Passato e avvenire del socialismo, in AA. VV.,

Voci da sotto le macerie, trad. it., Mondadori, Milano 1981, pp. 33-73.

(4) I. R. Safarevic, Il socialismo come fenomeno storico mondiale, cit., pp. 261-264.

(5) Ibid., p. 346.

(6) Ibid., p. 375.

(7) Ibid., p. 308.

(8) Edward Cain, Socialism — Scientific, Fabian and National, in Signposts. A digest of researched

information for concerned christians, vol. 9, n. 4, 1990, p. 6. Per un excursus storico di maggior

respiro, cfr. G. D. H. Cole, Storia del pensiero socialista. III. La Seconda Internazionale 1889-

1914, tomo primo, trad. it., Laterza, Bari 1972, pp. 127-156; per un esame storico-dottrinale, che

illustra la filiazione della Fabian Society dal radicalismo della Rivoluzione puritana attraverso John

Stuart Mill, cfr. Lucio Renzo Pench, Il socialismo fabiano: un collettivismo non marxista, Edizioni

Scientifiche Italiane, Napoli 1988. "La storia della trasformazione del filosofo fabiano in re [...] —

afferma lo studioso italiano — [raggiunge] il suo apogeo con la formazione del ministero Attlee

all’indomani della grande vittoria del Labour Party alle elezioni del 1945: su un totale di 82

componenti, 45 erano fabiani, dieci dei quali membri del gabinetto (incluso il primo ministro);

mentre appartenevano alla società 229 dei 394 parlamentari laburisti" (L. R. Pench, op. cit., p. 10).

Sull’"esperimento inglese del socialismo", dal 1945 al 1951, cfr. Johannes Messner, Das englische

Experiment des Sozialismus, Tyrolia, Innsbruck 1954, trad. spagnola, El experimento inglés del

socialismo, Rialp, Madrid 1957.

Una dimensione metapolitica della Fabian Society è suggerita dal fatto che, fra i suoi membri

eminenti non citati da Edward Cain, si trova Annie Besant, succeduta ad Anna Petrovna Blavatsky

alla guida della Società Teosofica. Infatti, entrambe testimoniano una contaminatio fra Rivoluzione

politica e Rivoluzione religiosa resa evidente, per esempio nel caso di Anna Petrovna Blavatsky,

dall’affiliazione alla mazziniana Giovane Europa verso il 1856 e dalla partecipazione, nel 1867, alla

battaglia di Mentana agli ordini di Giuseppe Garibaldi, in occasione dell’azione di guerriglia da

questi sferrata contro lo Stato Pontificio; nel caso di Annie Besant — e sempre per esempio — da

una dichiarazione del 1880, a Bruxelles, nel discorso di chiusura del Congresso dei liberi pensatori,

secondo cui bisognava "[...] innanzi tutto combattere Roma ed i suoi preti, lottare ovunque contro il

Cristianesimo e scacciare Dio dai Cieli" (cit. in René Guénon, Il Teosofismo. Storia di una pseudo-

religione, trad. it., Delta Arktos, Carmagnola [TO] 1987, vol. I, p. 13 e nota 2. Sulla Teosofia in

genere e sulla Società Teosofica in specie, cfr. Massimo Introvigne, Le nuove Religioni, SugarCo,

Milano 1989, pp. 270-272, e la corrispondente bibliografia essenziale, pp. 399-400), e dalla

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collaborazione con un saggio su L’industria sotto il socialismo ai Fabian Essays in Socialism, il

primo testo della Fabian Society pubblicato nel 1889.

(9) E. Cain, art. cit..

(10) A. B. Ulam, Philosophical Foundations of English Socialism, Harvard University Press,

Cambridge, Mass., 1950, p. 77, cit. in L. R. Pench, op. cit., p. 103.

(11) L. R. Pench, op. cit., pp. 99-100.

(12) Ibid., nota 57.

(13) San Pio X, Lettera Notre charge apostolique, del 25-8-1910, in La pace interna delle nazioni.

Insegnamenti pontifici, con introduzione e indici sistematici a cura dei monaci di Solesmes, trad. it.,

Edizioni Paoline, 2a ed., Roma 1962, p. 274.

(14) Cfr. Pio XI, Enciclica Quadragesimo anno, del 15-5-1931, in I documenti sociali della Chiesa

da Pio IX a Giovanni Paolo II (1864-1982), a cura e con introduzioni di padre Raimondo Spiazzi

O.P., Massimo, Milano 1983, nn. 116 e 119.