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Ogni riferimento a fatti, personaggi ed episodi, è frutto della fantasia. Agli amici di sempre. Agli amici perduti A quelle poche donne che mi hanno amato veramente Il vento e la fiamma (L’INQUIETUDINE) di Enrico Giacometti Era un quaderno di brutta copia. Bene, e allora?... ... era qualcuno che aveva vissuto per davvero, e la vita va sempre in brutta copia, così come ci tocca subirla, non abbiamo mai il tempo di trascriverla in bella (Carmen Martìn Gaite - Lo strano è vivere) www.enricogiacometti.com [email protected]

Il vento e la fiamma - Enrico Giacometti · Era davvero bella, con quei lunghi capelli neri e quegli occhi verdi ... Paradiso. Avevo scelto il sogno... Ma si sa, viene un'alba per

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Ogni riferimento a fatti, personaggi ed episodi, è frutto della fantasia.

Agli amici di sempre.

Agli amici perduti

A quelle poche donne che mi hanno amato veramente

Il vento e la fiamma

(L’INQUIETUDINE)

di Enrico Giacometti

Era un quaderno di brutta copia. Bene, e allora?...

... era qualcuno che aveva vissuto per davvero, e la vita

va sempre in brutta copia, così come ci tocca subirla,

non abbiamo mai il tempo di trascriverla in bella

(Carmen Martìn Gaite - Lo strano è vivere)

www.enricogiacometti.com

[email protected]

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Enrico Giacometti Il vento e la fiamma

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I

Era una sera di maggio tiepida e profumata, coi grilli che già invocavano la grande madre estate. Mi avevano invitato ad una festa in un’antica villa sui colli. L’atmosfera era vivace, la musica carica. La gente chiacchierava allegramente, beveva, ballava, si ubriacava. Non era male come serata. Ma io, nonostante i due Negroni bevu-ti, non riuscivo ad entrare in sintonia. Mi sentivo un’isola sperduta in un mare sconfinato. La musica mi estraniava e nonostante il frastuono, mi appariva remota, quasi provenisse da un’altra epoca. No, non era serata... Avrei dovuto stare a casa, lo sapevo. Ma i miei amici avevano insistito. E anche Antonella. Avevo passato la serata scambiando qualche saluto e chiacchiere di convenienza con dei conoscenti e per tutto il tempo non avevo fatto altro che guardare con bramosia la porta aperta che dava sul balcone. Una brezza leggera e delicata gonfiava sinuosamente le tende. Avevo voglia d’aria, soprattutto il mio animo, appesantito dalle tensioni tra me e Antonella degli ultimi tempi. Sapevo che stava finendo, ma il pensiero dell'estate imminente con le sue lusinghe di avventure rallentava un po’ la caduta del mio umore. Ma sì, avrei superato anche questa.

La guardavo dall’altro lato della sala, mentre chiacchierava e ride-va. Era davvero bella, con quei lunghi capelli neri e quegli occhi verdi e brillanti che non nascondevano la vitalità esuberante del suo ca-rattere. Era una donna libera, quello era il suo fascino. E io sapevo che non si poteva averla per più di una notte o di due battiti del suo cuore. Il mio rapporto con lei era stato guidato dallo stesso spirito che ti spinge verso isole tropicali: poter assaporare brevi istanti di Paradiso. Avevo scelto il sogno... Ma si sa, viene un'alba per ogni sogno. L'importante è trovarne subito un altro, ancor più bello, ancor più splendente, perché il breve intervallo tra un sogno e l'altro, è se-gnato dalla nostalgia per ciò che si è perduto ed offuscato dalle ombre inquietanti della realtà. La musica faceva un gran chiasso, ancor più dei miei pensieri. Mi presi un altro Negroni e uscii sul terrazzo a cercare un po' di quiete. C'era già qualcuno, ne intravedevo il profilo nero sul cielo rischia-rato dalla luna. Mi appoggiai al parapetto e respirai profondamente, restando lun-ghi minuti in silenzio a contemplare la notte. Sparpagliate sulle colline lontane, lucine di case tremolavano al vento. Diffondevano un piacevole senso di leggerezza. Ad un certo punto l'ombra si animò e mi disse: "Credevo di essere l'unico qui, ad apprezzare la quiete".

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"Beh, di solito amo la compagnia... Ma questa sera non sono dell'umore più adatto… ", tagliai corto. Bevvi un lungo sorso del mio Negroni, come per ricacciare i pen-sieri che continuavano ad affacciarsi. "Ti capisco, con una ragazza come Antonella, s’impara ad ap-prezzare la tranquillità". Mi voltai cercando di inquadrare meglio l'ombra che mi parlava. "Conosci Antonella?" "Se la conosco?... Sì, la conosco ...la conosco... È una ragazza speciale... Appartiene solo a se stessa... è il suo fascino..." Nella penombra non riuscivo a vedere bene i tratti di colui che mi parlava. "Come fai a sapere di me e di lei?". "Vi ho visti prima. Immagino che tu sia il suo nuovo... ragazzo... Io sono. . . ehm. . . ...sono quello vecchio... Ma, per carità, senza risentimento, eh?".

Infine ci eravamo incontrati... Antonella me ne aveva parlato spesso e mi aveva incuriosito, per-ché non era consueto, né che parlasse di qualche suo "ex ", né che ne parlasse bene. Contrariamente a ciò che era successo con gli altri, erano rimasti ottimi amici, cosa non facile con un caratterino come il suo. Quando ne parlava riusciva a dire solo che era un tipo speciale. Si fermava un po', riflettendoci sopra, cercando un termine più adat-to, poi tornava a dire semplicemente, speciale, un tipo speciale... Sorrisi tra me e me, ripensando a quella strana presentazione. In un certo senso anch'io appartenevo ormai al passato. Era solo questione di tempo. Amen..., dissi tra me e me, mandando giù un altro sorso. "Temo che anch'io diventerò presto un "EX"... "Sul serio?" "Sì" Sospirò. "Che ci vuoi fare? Ci vuol pazienza, hombre! Purtroppo niente è eterno a questo mondo..." "Già, proprio così" "Beh, su con la vita! e facciamo un brindisi al nostro club!". "Quale club?"

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"Il Club dei Cuori Infranti da Antonella". "Ah, beh... Credi che abbia molti soci?" "Beh, nel corso degli anni, finirà per averne sicuramente parec-chi!", disse con un gran sorriso, alzando il bicchiere per il brindisi. Dopo un attimo di perplessità, mi venne da ridere. Pensa un po’ che tipo...riflettevo tra me e me. "Ok, al nostro club, allora", risposi alzando il bicchiere. "Al nostro club" “Salute” Mandammo giù un sorso e ci facemmo una gran risata. Dopo, mi sentivo meglio, e in quel momento mi fu chiaro che è fondamentale imparare a ridere delle cose, perché si dà loro il giu-sto peso. Era simpatico il tipo, un bel tipo. Un tipo originale. Mi tese la mano e mi disse: "Beh, io sono Franco, ma tutti mi chia-mano Dan". "Come mai Dan? " "E' per via del cognome ".

"Ah. Io sono Enrico, ma non ho soprannomi particolari... Tutt'al più, mi chiamano Henry". La nostra amicizia cominciò in questo modo semplice e forse ba-nale, come spesso accade per le cose importanti. Era una di quelle persone che ti sembra di conoscere da sempre, o forse di quelle che hai sempre desiderato incontrare. Una cosa che mi colpì subito, fu la sua voce seria e profonda, spesso interrotta senza preavviso da una risata scherzosa, come se in lui vi fosse una componente di vitalità che si sforzava di conte-nere, ma che non riusciva a controllare completamente. Sotto la calma apparente del suo viso, uno sguardo più attento ri-velava un fremito, una tensione interiore che ti turbava. In questo mondo vissuto alla superficie non è una cosa consueta. Ricordava qualcosa di indefinibile e di perduto. Qualcosa che non ho più ritrovato in nessun altro.

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II Un giorno di fine primavera, Antonella volò via, sospinta dal ven-to possente e implacabile di libertà che le donava quell'aria sen-suale e romantica che la rendeva unica. Antonella... quanti ricordi... L’avevo conosciuta a lezione di tango. Al corso spiccava su tutte le altre e non riuscivo a distogliere lo sguardo da lei. Per quanto cercassi di controllarmi, finivo per tor-nare a guardarla. Se n’era accorta e ogni tanto mi buttava un’occhiata divertita e maliziosa. A me, purtroppo, era capitata una ballerina scialbina e legnosa, che sentiva il tempo solo quando aveva la sciatica. Fortunatamente, ogni tanto, gl’insegnanti ci facevano cambiare compagna per migliorare la nostra guida. Quando mi capitò Anto-nella, feci un mezzo disastro, perché non riuscivo a concentrarmi con lei tra le braccia, contrariamente al solito che me la cavavo. Per fortuna era di spirito, e ci facemmo un sacco di risate. D’altronde nemmeno a lei era capitato un gran ballerino. Comun-que, passato il momento, ci trovammo bene, anzi scoprimmo di avere un’ottima intesa e con noncuranza, mollammo i nostri par-tner e finimmo per fare coppia fissa. Faceva l’indossatrice ed era spesso in giro per sfilate, ma riusciva

a venire al corso con una certa costanza. Quando i suoi impegni lo permettevano, andavamo a ballare in gi-ro per locali. Passavo a prenderla a casa e trascorrevo serate d’incanto. Inutile dire che mi ero preso una bella cotta. Oltre a essere bella, non era affatto superficiale. Mi trovavo bene a parlare con lei. Fu una conferma del mio sospetto che la storia del-le belle stupide, e delle brutte simpatiche e intelligenti, è una balla inventata dalle befane, che spesso sono pure acide. Il nostro rapporto, però, stava pericolosamente scivolando verso una semplice amicizia. Me ne rendevo conto, ma non riuscivo a cogliere il momento giusto. Non so, la sua bellezza m’intimidiva... e ogni volta che la riaccompagnavo a casa senza averci provato, passavo la notte quasi insonne, dandomi del cretino, consapevole che non stavo agendo bene e rischiavo di giocarmela. Infatti sape-vo per esperienza, che quando temporeggiavo, finiva che poi non riuscivo a combinare niente. Ma, finalmente, una fredda notte d’inverno, in auto davanti a casa sua, sotto una pioggia sferzante mista a neve, mentre ci stavamo salutando, i nostri visi indugiarono vicini... Tutto accadde automaticamente, senza sforzo... i nostri volti si sfiorarono... le nostre labbra si cercarono... i nostri cuori si trova-rono... Fu un sogno.... davvero un sogno... arrivai a mille, forse a un mi-lione... Quando la baciai tutto quello che mi circondava, semplicemente... scomparve... come se avessero spento tutto. Avevo la sensazione di essere diventato puro spirito. Salii da lei in un animo trasognato.

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Non mi sembrava nemmeno di essere io ad agire. Era un sogno... non riesco a dire altro... Il suo profumo... la sua pelle... i suoi capelli... Ero come ubriaco... ...accarezzavo... baciavo... toccavo... la spogliavo... Esploravo angoli nascosti... Gambe lunghe... seno giusto... un sedere scultoreo... fianchi stret-ti... Un viso che non potevi far altro che innamorarti... Già... Ho bisogno di un Cuba Libre... Ecco adesso va meglio... Un altro sorso e ricominciamo... Fu un periodo magico. C'era una grande intesa tra noi, facevamo l'amore, ci coccolavamo, passavamo tarde ore di notte a parlare delle nostre vite. Andavamo al cinema, a teatro, a concerti, a ballare. A forza di lezioni e di esercizio eravamo diventati bravi, e, a detta di alcuni compagni di corso, era un piacere vederci danzare. Non dovrei dirlo, ma mi sentivo molto orgoglioso quando passeg-giavo per strada tenendola per mano. Tutti la guardavano. Ero fie-ro d'averla al mio fianco. Aveva davvero un fascino fuori dal comune. Sì, lo sapevo, lo sapevo da subito che era un sogno... soltanto un sogno... Ma avevo voluto sognare lo stesso fino in fondo. Vissi la mia poesia, la nostra poesia. Ricordando la nostra relazione...

...ricordando tutte le serate a ballare insieme, tutta la musica di tango che aveva impregnato la nostra storia fin dall'inizio, potrei descriverla... ...come un tango... ...sì... ...un tango... La mente fa strani scherzi, se tendo l'orecchio mi sembra addirittu-ra di sentirlo... ...un'aria sensuale di violini... un bandoneon lieve, sentimentale, sognante...

...in una fredda notte d'inverno era stata attratta come una farfalla notturna alla finestra del mio cuore dove, già da tempo, molto calore trapelava per lei e l'attendeva. Il gelo ed il cielo basso e oscuro di nubi l'avevano costretta a cer-care riparo dalla notte cupa e solitaria... Secondo movimento... ...l'armonia fluisce...i violini cantano all'unisono e il bandoneon duetta con loro... La trovai, mi trovò... ci trovammo ...fu l'amore ...due anime, un cuore solo ...il cielo e ancor più su... Un attimo sospeso nel tempo.

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Illusioni d'eternità. ..... Terzo movimento... ...la pace dei violini s'incrina, l'armonia del bandoneon viene tur-bata ...il ritmo incalza.... Ma con la bella stagione il ghiaccio si era sciolto, l'azzurro di cieli liberi e il verde di spazi aperti l'avevano chiamata in un modo a cui lei non avrebbe saputo resistere a lungo... Quarto movimento... ...la pace svanita... il tempo crudo... gli archi gemono, un bando-neon stride sbrecciato... I silenzi si allungavano ...stridevano ...le incomprensioni si molti-plicavano, le distanze s'ingrandivano... Allora, ripensando ai bei momenti passati, per salvare almeno quelli, in modo comprensivo, anche se mi costò uno sforzo mag-giore di quanto facessi apparire, sciolsi il nodo che ci legava, e l'osservai uscire dalla mia vita... Quinto e ultimo movimento... ...adagio... lamento di un bandoneon triste e solitario... ... dissolve in lontananza... ..silenzio........ ......... .... ..

III

L'estate che seguì, scivolò via silenziosamente, prendendosi un'al-tra piccola parte di noi in modo discreto ed inesorabile. Era bastato lasciarsi ammaliare, e distrarsi un attimo, accarezzati dal torrido abbraccio del sole, per ritrovarsi tra le prime foglie strappate dal vento. E di una stagione che declinava ad ovest, rimanevano solo i ricordi dei suoi fuggevoli giorni, vuoti per le illusioni svanite e carichi di nuove inquietudini, che sotto i raggi dell'ultimo sole si addensava-no alle nuvole violacee dell'autunno. Gli anni si contano con le estati che finiscono. Sì, la fine di un’estate è sempre tempo di bilanci. Il pensiero, diso-rientato, si volta indietro, fruga nella memoria, riappaiono brevi scene che furono, momenti smarriti nel gorgo del tempo, che si mischiano e si confondono, e alla fine non sai più che anno era e come si chiamava quella ragazza e dov’era quella luna, così che non ti sembrano nemmeno veri. S’illuminò la memoria di un’estate lontana, di una storia d’amore ormai trascinata via dal fiume degli anni, un periodo in cui i miei sogni si libravano alti nel cielo. L’avevo conosciuta nel sole di fine Luglio di molte stagioni fa. Sembra quasi un’altra vita...

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In un certo senso lo era davvero. Camminavo nella luce rovente del mezzogiorno, quando l’energia ti scorre con un brivido giù per la schiena. La incontrai là dove finisce la terra e incomincia il mare. Sdraiata sulla sabbia umida, mille gocce d'acqua sul suo corpo scintillavano nel sole. Non so più dire se fosse così bella come la ricordo... L'ho riimma-ginata troppe volte ed è trascorso troppo tempo. Nella mia memo-ria è un modello ineguagliabile. Dorati come la sabbia, i capelli le scendevano su una spalla fin sul seno e i suoi occhi rispecchiavano il mare. Il suo sorriso, nei miei ricordi, è una luce in mezzo a tante ombre. Lei era l'eterna gioia di vivere, contrapposta ai miei frequenti ma-lumori. Si adombrava se il sole le inaridiva la pelle o se la luce le arrossava gli occhi, ma solo per un attimo. Sul mio umore grava-vano spesso nuvole grigie ed uniformi che duravano giorni interi. La rivedo mentre ride in riva al mare sotto una tettoia di canne in-trecciate, nel torrido silenzio di Luglio, amplificato dal brusio del-le cicale e dallo sciabordare sommesso delle onde. Il sole sull'acqua, frammentato in una miriade di specchi luminosi, si rifletteva nei nostri animi. La vita sembrava acquisire innumerevoli profondi significati in quella brezza calda e nei suoi occhi azzurri. In quegli attimi sembrava evidente l'esistenza di Dio. Credevo che saremmo rimasti così per sempre, io e lei, in una spiaggia luminosa sotto un caldo sole eterno. Ma i momenti di splendore ardono in fretta...

Una mattina ripartì, portandosi via tutto quello che la vita sembra-va aver trovato, e la luce confortante dei suoi sorrisi divenne pre-sto un ricordo lontano. È al momento della separazione che ti accorgi realmente dell’importanza d’una persona. La sua vita sembra arrestarsi nell’attimo della partenza. E non riesco proprio ad immaginarla vivere la vita di ogni giorno, nella sua città, tra i suoi amici. Ogni volta che penso a lei, la rivedo ritratta in uno dei suoi incan-tevoli sorrisi, fissata in un ritaglio di situazione che abbiamo vissu-to insieme, come in quell'unica fotografia rimasta. Le esistenze degli uomini sono simili alle scie delle rondini che volavano in quei giorni di fine estate: s’incrociano per caso, ri-mangono unite intrecciandosi per un attimo e poi si separano. In quei momenti trascorsi con lei mi sembrava di aver sentito qualcosa... che tutto avesse un significato ancora più profondo di quello che mi era apparso, che ci fosse stato un ritmo fuggente, ma importantissimo, che non ero riuscito ad afferrare, forse il signifi-cato stesso della mia esistenza, un piccolo ultimo gradino davanti a me, che, smarrito nell'attimo, non ero riuscito a salire. Quando partì era ancora estate e ascoltando il mare e le rondini, pensai che forse si poteva recuperare ancora qualcosa di ciò che mi era sfuggito. Il sole era ancora caldo, un po' più debole, ma sempre vigoroso. Presi quel cielo azzurro e quel sole, un vecchio che suonava una fisarmonica triste su una panchina tra le tamerici in riva al mare, cercai di fermare le rondini che già volavano a sud-ovest e afferrai per la coda l'estate che se ne andava a ritmo di walzer.

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Mi mancava così poco... ne ero certo... così poco... un piccolo sca-lino ancora da salire... Ma non ci riuscii. E per lungo tempo la mia vita restò in una spe-cie di animazione sospesa. Anni dopo, passeggiando da solo sulla stessa spiaggia vuota, ho immaginato spesso che lei, come in una scena d'un film, mi cor-resse incontro e mi si buttasse tra le braccia, e mi accorgessi che era sempre stata lì: si era solo nascosta per scherzo. Ma non sono regista della mia vita e non posso cambiare le scene a piacimento. Di tutto quello rimase solo un malinconico ricordo e l’eco di un rimpianto inestinto. Sì, a volte il passato diventa invadente, sproporzionato, occupa grandi parti della nostra vita, fino a diventare ossessivo, con voci maligne che sussurrano all’orecchio che di quei momenti non se ne vivranno più. Ciò che ci sostiene fragilmente, è la speranza che vengano nuove estati a ravvivare una vita scialba nei giorni comuni e che le dita del destino, finalmente, intreccino fili di luce anche alla nostra esi-stenza. Per questo scegliamo di continuare ad inseguire il miraggio lumi-noso e suadente dei nostri desideri, fingendo di non vedere le om-bre inquietanti che ci lasciamo alle spalle.

IV Una sera, seguendo le imperscrutabili vie del caso ci rincontram-mo in un locale all'aperto. Era stata una serata tranquilla, come tante altre, di quelle che si dimenticano in fretta. Mentre assieme ad alcuni amici mi stavo avviando all'uscita, sentii una voce che mi chiamava. Mi voltai, ma sul momento non riuscii a riconoscere chi fosse. "Ciao, Henry!" con una pacca sulla spalla come fossimo stati grandi amici. Dopo un attimo di stupore. "...?!?... Ciao, Dan!", "Come va?" "Bene, grazie". "Allora, che mi racconti di bello? Che novità ha portato questa breve estate?", mi chiese. Feci cenno ai miei amici che mi trattenevo ancora un po' .

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"Beh, niente di ché... ...sai, come da copione... la mia storia con Antonella...", tracciai una croce con due dita, "...é terminata...". Strinse le labbra e mi guardò serio. Si percepiva solo il brusio di sottofondo e la notte sembrava più profonda. "Mi dispiace", rispose, "Sul serio. Mi spiace...” Scrollai le spalle. “Te l’aspettavi però...", continuò. "Sì, ma tra immaginare e vivere c’é differenza". "Dai, su! Non vorrai mica buttarti di sotto, vero? E poi una ne va, cento ne vengono! Il mondo è pieno di donne!" "Come lei non ce ne sono tante..." "Ma dai! Vedrai che ne troverai un’altra ancora meglio, e un gior-no quando ti parleranno di lei, dirai: Antonella chi?...". "Speriamo. Per ora non ho trovato granché in giro". "Beh, ti sei appena lasciato.Vedrai che quando meno te l’aspetti..." "Ma sì...".

"Senti... a proposito... ieri ho conosciuto due ragazze... Dovrei u-scire con loro, ma i miei amici. . . ", e con un gesto indicò tre figu-re sedute ad un tavolino, ". . . sono già "ammogliati". Stavo giusto cercando qualcuno che fosse libero domani sera. Che ne dici?" Lo guardai con aria diffidente. " Al solito una è carina e l'altra in-guardabile?". "No, no, sono carine tutt'e due. Non ti fidi?". "Stavo scherzando, un’uscita con delle nuove ragazze non si può rifiutare!... Anzi, grazie!". "Allora ci posso contare?" "Sicuro!" Ci scambiammo i numeri di telefono e me ne andai. Rivedere Dan mi aveva messo addosso uno strano umore. Il ricordo di Antonella era ritornato prepotente. Non che riuscissi a dimenticarla a lungo in quel periodo. L’avevo sempre al margine dei miei pensieri, ma mi venne una nostalgia più forte che mai. Rientrando verso casa, mi fermai in un posto isolato in collina, lontano dalle luci della città, ad osservare la notte. Non avevo fretta di andare a letto. Non avevo voglia che il sonno mettesse subito la parola FINE ad un'altra giornata. Restai ancora un po' ad assaporare le ultime gocce dell'estate e ad osservare l'o-

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rizzonte oscuro. Gli uccelli notturni gridavano nella notte e la luna compassionevole stendeva i suoi raggi benevoli sui campi vuoti a rincuorare i suoi figli per la fine d'un altro ciclo. I grilli avevano un canto maledettamente malinconico... A breve mi attendevano un altro autunno insulso, seguito presto da un nuovo inverno spietato e interminabile. Ma la notte era ancora tiepida, perciò, senza guardarsi indietro, si poteva immaginare di essere ancora all'inizio dell'estate con da-vanti tutta una stagione di promesse sussurrate... Però l’incantesimo durava poco. Subito ritornava il pensiero che Antonella era partita, e con lei buona parte dei miei sogni. Era du-ra. Feci forza su me stesso. "Che importanza ha, in fondo, Henry? Tutto si trasforma... l’hai sempre saputo... perché farne una tragedia? Ciò che è inevitabile va accettato e basta..." Una leggera brezza profumata di fiori mi accarezzava il viso. Mi guardai intorno; fioche luci lontane, sagome di alberi, colline sfumate all’orizzonte, la realtà stessa mi appariva rarefatta... Ebbi una strana, assurda sensazione... "E poi chissà se tutto questo è reale...?”, pensai. All’improvviso la prospettiva girò su se stessa. Tutto mi apparve differente. La realtà mi apparve fluida, evanescente, piena di infi-nite possibilità... Mi prese inaspettatamente un senso di ebbrezza. Presi fiato e per un attimo pensai: "Ma certo, è tutto un sogno! Adesso mi risveglio e mi ritrovo in quarta liceo, alla fine della scuola! Ho sognato tutto! Che bello! In realtà ho ancora diciassette anni e tutto deve ancora

accadere!". Fu un attimo bellissimo pieno di immense opportunità. Mi venne da sorridere. "Certo, è così! ...Adesso chiudo gli occhi e svanisce tutto!" Chiusi gli occhi. Ma quando li riaprii...

...mi risvegliai nel sogno...

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V

Il giorno seguente trascorse in un clima di attesa per la serata. C'eravamo dati appuntamento in piazza dopo cena. Quando arrivai, da lontano scorsi tre piccole figure al centro della piazza incorniciata da antichi palazzi imponenti e sovrastata da una miriade di stelle tremolanti. Una brezza delicata rendeva leg-gere le cose come se dovessero levitare da un momento all'altro. "Ecco Henry!" disse Dan. Quando fui vicino, mi dette una pacca sulla spalla con aria di complicità: "Loro sono Elena e Francesca" Facemmo le presentazioni con sorrisi e strette di mano, e come al solito, dimenticai subito i nomi delle ragazze. Sembravano carine, ma nella penombra della piazza non riuscivo a vederle bene. Visto che la sera era mite, andammo in un locale all'aperto appena fuori città, sulle colline. I tavolini erano illuminati da candele che irraggiavano una luce ri-posante e al centro un’orchestrina suonava in maniera ovattata e un po’ malinconica. Attorno c'era un ampio prato, e in fondo, cir-condato dagli alberi, un laghetto da cui giungeva debolmente il gracidare delle rane. Dan aveva ragione, le ragazze erano tutt'e due molto femminili e molto carine. Francesca aveva capelli castani e mossi, occhi azzurri e indossava

un vestitino verde. Aveva un carattere aperto e chiacchierando al-legramente, iniziò subito una conversazione animata con Dan. Elena aveva lunghi capelli castani e lisci, occhi grandi e bruni, e vestiva un abito leggero rosa pallido. Aveva un carattere più riser-vato anche se non la si poteva definire timida. Mi raccontò che gli ultimi anni erano stati segnati da una lunga storia d'amore. "Pensa che quando l’ho conosciuto, non avevo nemmeno voglia di una nuova relazione; non ne avevo proprio voglia. Non solo non la stavo cercando, ma anzi la evitavo proprio. La storia precedente mi aveva lasciato una grande delusione e un senso... un senso... ...di disgusto... ecco... ...vedere un rapporto trasformarsi così... passare dall’amore ai liti-gi ...le ripicche ...mi aveva nauseato..." "Con Alex, è stato differente... Ci siamo subito trovati bene insie-me. Ho capito immediatamente che era qualcosa di diverso da co-me mi batteva il cuore." Le brillavano gli occhi. Le donne sempre romantiche.... pensai. Quando pare a loro... "Ero alle stelle. Un sogno... davvero un sogno... Troppo bello...". I suoi occhi presero un’espressione triste.

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Ci fu un’ampia pausa. Dan stava scherzando con Francesca. Chiacchierando, e ridendo tra una battuta e l’altra, cercavano con-tinuamente il contatto delle mani. Erano già avanti... Aspettavo che Elena ricominciasse, ma sembrava smarrita nei suoi ricordi. "Perché è finita?" "Già... Perché? Me lo domando anch’io... ...la versione ufficiale... è che aveva paura del futuro... delle scelte da farsi... non era il momento di fare progetti... non era pronto..." "Volevi sposarti?" "Beh, sì.... certo... mi sarebbe piaciuto... Stavo bene con lui... Mi sarebbe piaciuta una vita insieme... ...ma lui ha detto che era uno spirito libero... che non si sentiva pronto per un passo così importante... che non era ancora il mo-mento..." "Insomma si è sentito col fiato sul collo...", dissi. "Fiato sul collo!... Non esageriamo! Non gli ho mica fatto delle pressioni..." Non gli hai fatto delle pressioni!... pensai, sorridendo dentro di me M’immagino!... quando vi ci mettete, voi donne, con queste cose... “Certo, mi avrebbe fatto piacere sposarmi... io speravo solo che prendesse una decisione...

Ne abbiamo parlato più volte, ma non è che gli stessi col fiato sul collo!... Un giorno mi ha detto che non mi meritava... che una come me si meritava di meglio... che avevo bisogno di un ragazzo con la testa a posto..." Le solite scuse per mollare una, quando non ne trovi altre... pen-sai. "Per me fu davvero una mazzata... Mi sembrò che tutto il castello di felicità e di progetti che avevamo costruito insieme, mi crollasse addosso... ...a lungo ho sperato che ci ripensasse. E invece..." "Quanto tempo è passato?", le chiesi. "Ormai è un anno... ...mi sono rassegnata ...da un pezzo... È stata dura... Ma poco a poco, sono tornata alla vita. Mi sono dovuta rifare anche delle nuove amicizie, perché aveva-mo frequentato sempre il giro dei suoi amici, e così... ...inoltre buona parte delle mie vecchie amiche sono fidanzate ...o hanno messo su famiglia... È stato un periodo difficile. Poi per fortuna ho conosciuto Francesca. Ci siamo subito trovate benissimo, insieme. Ma senti, dimmi di te, piuttosto! Ho parlato solo io!". Ordinai un altro Negroni.

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"Beh non c’è molto da raccontare... Mi sono lasciato qualche mese fa..." Le raccontai di sfuggita di Antonella e di come avevo conosciuto Dan. "Le volevi bene?", mi guardò con occhi dolci. "Certo". "È stata una storia importante?" "Beh..." "Dì la verità!" Bevvi un sorso di Negroni. "Sì" Un alito di vento agitò la fiamma della candela. Una civetta canta-va in lontananza. "...ti manca molto?" Non risposi. Mentre i pensieri fluivano nella notte, le stelle mutavano posizio-ne, disegnando nuove forme geometriche nell'oscurità. Le rane cantavano più forte.

Ad un certo punto, Dan disse: "Noi andiamo a vedere il lago, veni-te?". "Vi raggiungiamo subito", risposi. E li lasciai incamminare. La conversazione cominciava a languire in pause sempre più am-pie e la serata aveva preso un tono nostalgico. Perciò dopo che fu-rono passati parecchi minuti, proposi di raggiungerli. Attraversammo silenziosamente il prato, soffice sotto le scarpe e velato di rugiada. Vicino al lago distinguemmo due figure abbracciate. Bravo Dan!, pensai. Elena si voltò verso di me e mi sorrise. Le sorrisi. La guardai nel profondo degli occhi, come se fosse veramente possibile guardare l’anima. La sua espressione si fece più seria e mi sembrò che il suo sorriso si sfumasse di malinconia. C’era un’atmosfera sognante. Forse era la notte o la musica. Suo-navano in lontananza un’aria che mi pareva famigliare... ♪ la, la-la laa la ♫... cos’è pure?... ♪ la, la-la laa la ♫... ♫ la, la-la♪ ...? ..Sì, sì, la conosco! Com’è che fa pure?... ♪ la, la-la laa la ♫ ...non... eppure... Com’è che dice?... ♫ la, la-la ... ♪...the rain-bow... Ecco! ...sì! ...Over the rainbow!....... oltre l’arcobaleno ... ... mi sembra perfetta... La guardai negli occhi lucidi sotto i raggi della luna, cercando di capire i suoi pensieri.

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Il suo sguardo era pieno di malinconia, ne ero certo. Mi sembrò ancora più bella e il suo viso poco alla volta si confuse con quello della donna che avevo amato da sempre. Le rane scandivano sempre più forte il pulsare della natura. Le accarezzai il volto passandole una mano tra i capelli e avvicinai il mio viso al suo. Quando le nostre labbra si toccarono, improvvisamente le rane so-spesero il canto, le stelle si spensero e il lago e il parco svanirono: rimasero solo due anime perdute tra di loro nell'oscurità.

VI

Elena aveva cicatrici grandi e profonde nell’anima. L’amore sbrecciato aveva lasciato dei solchi. Aveva una gran paura di soffrire di nuovo, come chi sa bene cosa vuol dire un amore che finisce. Mi faceva tenerezza. Mi sembrava così sola e sperduta... Ti osser-vava con grandi occhioni tristi, inerme e spaurita come se da un momento all’altro si aspettasse una bastonata. La coccolavo, curavo le sue ferite. Cercavo sempre di farla ridere e sorridere. Piano piano le ombre sul suo umore svanivano, ricominciava a splendere un po’ di luce. Le ferite cominciavano a guarire. Lenta-mente cominciava ad aprirsi. "Sono stata fortunata a trovarti", diceva, "non speravo più d’incontrare uno come te. Ho avuto tante delusioni... ma tu sei diverso... Se dovessi scoprire che mi stai prendendo in giro pure tu... Da te non me l’aspetto... da te, proprio no...” La ricolmavo di affetto. Il mio amore per troppo tempo era rimasto inespresso e inutile. Con Elena si ricominciava. Un nuovo amore... una nuova vita...

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Si ricominciava, ma mai esattamente dall’inizio. Fare l’amore con una nuova ragazza è sempre intrigante. All’inizio prevale l’attrazione per la novità, la curiosità per un nuovo corpo, un nuovo mistero da svelare. Poi però ti rendi conto che si apre un territorio sconosciuto e straniero. Bisogna ricominciare, cambiare il volto amato con quello di un’altra, sovrapporre i visi, e confonderli e confondersi, fino a convincersi che... ma sì, in fondo, è sempre quell’amore... La prima ragazza è un universo a parte. Non hai punti di riferimento, non hai mappe, è un mondo completamente inesplorato. Il primo amore lascia il segno. Il suo modo di baciare diventa uno schema familiare. L’odore della sua pelle lascia una traccia da in-seguire. È il Grande Amore... il “sentimento immortale”... che nelle nostre mentalità irragionevoli, dovrebbe durare più di quelli che lo pro-vano... Ma ci pensa il tempo a destarci dal sogno. Il tempo trita, cancella, frantuma. In un soffio, un giorno, il Gran-de Amore immortale si spegne. Com’è possibile? Il Grande Amore non può finire... non può mori-re... non può andarsene così... Ti ci aggrappi, cerchi di trattenerlo, di non farlo svanire, ce la metti davvero tutta... Ma va in frantumi lo stesso, assieme al tuo cuore e alle tue illusio-ni. È una delle prime dure lezioni della vita: niente dura, nemmeno l’amore. L’impari lasciandoci un pezzo di cuore, un pezzo della tua carne, un pezzo della tua vita che si dissolve in una nebbia di dolore. Ma forse non l’hai davvero imparata la lezione... Il prossimo sarà

diverso, ti dici. E allora cerchi di rintracciare in un’altra quel che hai perduto. Ma con la nuova non è mai come prima. Devi abituarti a nuove ca-rezze, a un nuovo modo di baciare a un nuovo modo di amare. Quella voce, non è la Sua voce... Quel tocco non è il Suo tocco... Alcuni stupiscono per la rapidità con la quale in apparenza riesco-no a ritrovare quell’amore perduto. In verità, hanno solo l’abilità di trasformare nella fantasia la prima incontrata a immagine e so-miglianza del primo amore, riuscendo a rivivere a piacimento una messa in scena interminabile con attrici diverse. Altri finiscono per passare un’intera vita alla ricerca di quell’amore perduto. Ma in fondo in fondo, sono disillusi da subi-to: hanno intuito che nessun’altro sarà mai più come quello. Ogni volta si ha sempre più difficoltà a lasciarsi andare. Tutto si ferma sulla pelle. D’altronde come potrebbe raggiungere il cuore, se ferita dopo ferita non ne è rimasto quasi più? Così l’amore finisce per sembrare soltanto una cosa puramente fi-sica. Si passa dall’una all’altra; poi ce ne sarà un’altra, e un’altra ancora. Tanto che importa? Che differenza fa, a questo punto? Quando il Grande Amore è finito, tutto è andato a puttane. E allora avanti... indietro non si torna... Avanti pure.... Si ricominciava, pronto a rimettermi in gioco un’altra volta. Con Antonella mi ero ripromesso che non mi sarei lasciato coin-volgere più di tanto e che non mi sarei lasciato strappare un altro pezzo di carne. Ma non era andata così... Erano gli anni in cui credevo ancora

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all’amore come a qualcosa di spirituale e non solo una questione d’opportunità e d’attrazione fisica. Era il tempo in cui speravo an-cora nel Grande Amore. La lezione non l’avevo ancora imparata... Con Elena non avevo voglia di lasciarmi andare. Così diceva la mia parte razionale. Ma l’altra mia parte mi bisbigliava, seducente, che potevo ancora ritrovare ciò che avevo perduto... Che non sarebbe stato come le altre volte... Che c’era ancora spazio per sognare... Che potevo ri-trovare quel sentiero perduto tanto tempo fa... C’era ancora tempo per un altro desiderio...

VII A quell'epoca studiavo Architettura e abitavo da solo in una casa di campagna sulle colline, tutta immersa nel verde del bosco che si arrampicava sui dolci pendii della valle. La mattina quando uscivi era come se salutassi il mondo intero. In primavera le robinie riempivano la valle di un profumo dolcis-simo, allegri cespugli gialli di ginestre si aggrappavano sull’arida arenaria e i calanchi erano tinti di rossa sulla. In alto, verso la cima delle colline c’erano dei castagni che in esta-te ingiallivano di fiori e profumavano l’aria di un sentore amaro-gnolo. Nel fondovalle scorreva un piccolo ruscello che non si sec-cava neanche d'estate. Spesso scendevo fin sulla riva e mi sedevo tra le fronde, immobile ad osservare i pesci nell'acqua limpidissima. Ascoltare il mormorio del ruscello e il canto degli uccelli del bo-sco era come un massaggio per lo spirito e, nel mutare dei colori e della vegetazione, seguivo i saggi ritmi dimenticati delle stagioni, che si susseguivano con calma pacata, a dispetto delle frenesie de-gli uomini. Dan frequentava il conservatorio, e lavorava come pianista in vari locali eleganti della città, cosa che faceva soprattutto per passione, perché con le varie proprietà lasciategli in eredità dai genitori, a-vrebbe potuto vivere agiatamente di rendita.

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Abitava in un attico in pieno centro, a fianco di una grande catte-drale gotica. Il palazzo era più alto degli edifici circostanti e gode-va di un panorama splendido. La vista spaziava dai tetti rossi della città vecchia, dove cresceva una pittoresca selva di antenne e di camini, fino alle colline pallide che ad ovest facevano da sipario ai maestosi archi rampanti della cattedrale. Da quella posizione dominavi la città e ti sembrava di essere più spettatore che attore della vita che scorreva sotto nelle strade. Ci trovavamo spesso là, alla fine delle nostre serate, quando il buio della notte più profonda avvolgeva i nostri animi, attutendo i sensi ed ovattando i rumori. Lassù, cancellati con una mano di colore nero tutti gli stupidi pro-blemi quotidiani, in bilico sul ciglio dell'immenso vuoto che av-volge l'universo e che la notte, dissolvendo il velo del giorno, ci mostrava in tutta la sua profondità, riuscivamo ad intravedere sprazzi di una realtà che ci appariva molto più vera di quella che sembra essere fatta solo di lavoro, impegni futili e di quella trita routine che sembra volerci malvagiamente piegare e incatenare a sé sempre più saldamente. La realtà del giorno striscia e quella della notte vola. E noi ci facevamo tentare dall’ebbrezza del volo. A volte parlavamo a lungo. Altre volte, invece, il silenzio domina-va la nostra conversazione, ciascuno immerso nel proprio inquieto mondo interiore. A volte si sedeva al pianoforte e le note si intrecciavano, dolci e malinconiche, accarezzando e accompagnando per mano i pensie-ri, verso memorie impolverate dagli anni. E ognuno rivisitava il proprio passato, ascoltando la stessa musica, che per ciascuno suonava diversa. E volavano ore e sogni, finché la stanchezza ci riportava a terra,

svuotandoci di tutti i pensieri ed avvolgendoci in una piacevole aura di indifferenza che ci estraniava completamente dal mondo, come se niente ci riguardasse. Allora, prima che il sonno mi sopraffacesse del tutto, tornavo ver-so casa e non mi curavo delle stelle o della pioggia, in una sorta di atarassia spicciola, tagliata su misura.

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VIII Ho innumerevoli ricordi di Dan al pianoforte. La prima volta che lo sentii suonare, fu qualche sera dopo l'incon-tro con Elena e Francesca. Era un locale intimo con luci soffuse, pervaso dal fumo delle siga-rette, che come una nebbiolina leggera sfumava i contorni delle cose. Un applauso accolse Dan, vestito con un bel completo chiaro. Si sedette al pianoforte, le luci si abbassarono e il mormorio di sotto-fondo si quietò. Ricordo che mi colse una strana sensazione, sentendo le prime no-te, e che mi concentrai sulla scena come se avesse avuto un signi-ficato più profondo, un significato celato che mi sfuggiva. Le note cominciarono a riempire la sala con la triste melodia di una vecchia canzone francese, piena di spaziose pause e di rallen-tamenti. "♫ ...on oublie le visage et on oublie la voix...♪" Tante immagini venivano rievocate come evanescenti fantasmi dei giorni andati, ombre che rendono la vita apparentemente degna di essere vissuta e greve da sopportare. Il pubblico sembrava tratte-nere il respiro per paura che potessero svanire. "♫...et l’ont se sent blanchi comme un cheval fourbu...♪" E i fantasmi lentamente si muovevano e danzavano, per ciascuno diversi, ma osservandoli insieme, simili, come simili sono i ricordi degli uomini. Perché‚ cambiando solo i nomi, e i volti che si con-

fondono, si possono scrivere le storie di tutti, e raccontare quel-l'immensa agitata moltitudine di memorie che sottilmente, parten-do da piccoli avvenimenti e drammi personali, hanno creato la Storia. L'atmosfera ci aveva coinvolto profondamente. Elena era molto seria; Francesca aveva gli occhi lucidi. Mi resi conto che era in-namorata di Dan. Rimasi perplesso dall'apparente cambiamento di Dan. Facevo fati-ca a conciliare l'immagine di allegra persona superficiale che mi ero fatta di lui, appena conosciuto, con quella sentimentale e ma-linconica che scaturiva dal suo pianoforte.

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IX

Non c’è molto altro da raccontare di quel periodo, solo serate in giro per locali e il dolce fluire del tempo tra i baci di Elena e le canzoni di Dan, ed è intessuto più da stati d'animo e da sensazioni, che da episodi concreti, per poter essere adeguatamente descritto e suscitare qualche interesse. Posso solo dire che a tratti ho avuto l’impressione di percepire di nuovo quel ritmo fuggente udito tanto tempo fa. Più di una volta ho pensato di aver ritrovato i frammenti di un pa-radiso perduto in cui un uomo poteva ritrovare la sua giusta di-mensione. Più di una volta ho sperato che il tempo si fermasse lì. Ma il futuro progettava diversamente, e il divenire indifferente, continuava la sua corsa imprevedibile, accrescendo e sgretolando le sue fragili, effimere creazioni. Molte immagini si sovrappongono nei miei ricordi di quei giorni con Elena... Che strana cosa il ricordo... Spezzetta la realtà, ne estrae frammen-ti, spesso scegliendo solo i più belli e luccicanti, ignorando quelli banali... Tutto è così splendente, lucente, circondato da un aura luminosa... Sembra una fortuna, perché fa sembrare la vita passata soltanto

splendore. Ma, nostalgicamente, mantiene anche invischiati a ri-cordi, probabilmente fasulli, di cose che comunque non saranno mai più. E per contrasto, spesso ci fa sembrare ben misero il presente. Rivedo brevi lampi... Il suo sorriso enigmatico. Prati verdi e giorni di pioggia. Il vestitino rosa che aveva quando l'ho conosciuta e i suoi capelli castani. La rivedo ridere e parlare di cose serie. Poi però, la prospettiva cambia, e mi ricordo degli ultimi tempi... Già, gli ultimi tempi... Aveva cominciato a comportarsi in maniera strana. Si era fatta ta-citurna e pensierosa. Non riuscivo a capire. Pensavo che fossero solo malumori passeg-geri dovuti al clima autunnale. Le donne sono frequentemente soggette a tristezze, spesso incomprensibili anche a loro stesse. Le domandavo: "Che c’è che non va?". E lei ogni volta, con un mezzo sorriso, rispondeva "Niente". Un giorno di fine autunno che ero da lei e i silenzi erano diventati più lunghi ed insostenibili che mai, domandai ancora: "Elena, cos’è che non va?" Mi guardò con gli occhi lucidi e cominciò a piangere. Colto di sorpresa la abbracciai e le passai la mano tra i capelli del-la nuca, accarezzandola con tenerezza. "Ma che c’è, Elena?"

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Pianse per un po’, mentre l’abbracciavo. "Eh? che c’è? Me lo vuoi dire?", dissi con dolcezza e grande pa-zienza. Singhiozzò ancora un po’. Poi tirò su col naso e si schiarì la voce. " ...mi ha chiamato Alex..." "Chi?..." "Alex... ...mi ha telefonato Alex..." Fui colto alla sprovvista. Allentai l’abbraccio. La guardai in viso. Teneva lo sguardo basso. “Alex?” “Sì... Mi ha telefonato varie volte... Voleva parlarmi...” Cercavo di guardarla negli occhi, ma mi sfuggivano. Singhiozzava. “E tu...?”

Tirò su col naso. Parlava con voce malferma. “...all’inizio non volevo vederlo... ma lui insisteva per chiarire le cose... Alla fine qualche giorno fa ci siamo incontrati, e abbiamo parlato a lungo...” Per farla breve, l'aveva pregata di tornare, le aveva detto che gli anni trascorsi insieme dovevano pur avere un senso... che non si poteva lasciar morire così quello che c’era stato tra di loro... bla, bla, ecc. ecc. ...insomma, le solite stronzate che si dicono quando si cerca di riprendersi una ragazza... Lasciai l’abbraccio e mi distanziai da lei. "E tu?", chiesi secco. "Non so... sono confusa… non so cosa pensare…" Mi aveva colto di sorpresa. Mi aveva così spiazzato che non riu-scivo nemmeno ad arrabbiarmi. Le dissi solo qualcosa del tipo: "E io? ... E noi?... E adesso....?" "…non so... Non mi capisco più…" e piangeva. Le voltai le spalle e me ne andai alla finestra. Fuori c’era il tra-monto di un giorno freddo e cupo. "Che vuoi fare?", la mia voce uscì brusca.

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Le prime luci pallide e fioche cominciavano ad accendersi qua e là. "... non so... sono confusa..." La notte avanzava nebbiosa come una cappa opprimente sulla cit-tà. "Che vuoi fare?" "... non so ...ho bisogno di riflettere…" AVANTI DILLO, CAZZO!, pensai. "...Quindi?..." Un cane solitario abbaiava in lontananza. "...forse è meglio... se vado a stare un po’ da mia sorella ...ho bi-sogno di riflettere... di stare un po’ da sola...". Ecco!

Mi abbracciò da dietro e ricominciò a singhiozzare. Avrei voluto dire tante cose, ma non mi venne niente di coerente. "Non dici niente?", chiese. "Eh?” Sfuocati per la nebbia brillavano già i primi addobbi natalizi. Or-mai il Natale era alle porte. L’atmosfera mi opprimeva.

Dovevo uscire. Amen...., dissi tra me e me. Presi la giacca e mi avviai alla porta. "Henry! Henry, aspetta!..." Chiusi la porta e uscii in strada. Vagai per tutta la sera senza meta. Poi mi stancai e decisi di rincasare. Quando rientrai, trovai una decina di suoi messaggi in segreteria. "...?? ci sei, Henry? ...se ci sei rispondi... ci sei?...chiamami dai..." Cancellai tutto. Mi lasciò ancora vari messaggi per qualche giorno... le solite fra-si... un po’ di pianto... E infine, un giorno "Henry... ci sei?... Ci sei? ...domattina parto, vado da mia sorella..." Il giorno seguente andai davanti a casa sua. Volevo parlarle, ma quando fui là davanti, mi misi a sedere su una panchina. Non so nemmeno io cosa stessi pensando. I pensieri sembravano nuvole sulla cima di una montagna: si addensavano, si contorce-vano, si dissolvevano. Ad un certo punto si fermò un taxi, e lei uscì. Quando la rividi giù in strada salire sul taxi che l’avrebbe portata in stazione, mi prese un nodo alla gola, un misto di rabbia e dispe-razione. Non andai a salutarla, non mi feci nemmeno vedere, mi girai sem-

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plicemente e me ne andai.

X

Quando la mia relazione con Elena terminò, l'inverno con i suoi bianchi veli cominciava già a ricoprire i prati delle colline più alte. Era il periodo delle nebbie, ed il desiderio d’infinito e di spazi a-perti era schiacciato da quella fumosa incombente massa grigia. Il freddo si sentiva dentro e rendeva le persone taciturne e cupe, mentre passavano veloci per le strade, rannicchiate nei cappotti con lo sguardo basso. Erano i giorni più corti dell'anno e sembrava che non finissero mai. L'estate appariva come un pensiero astratto, completamente incon-cepibile. Nelle poche mattine serene, il sole sorgeva tardi e col buio e il freddo, il risveglio aveva un senso d’ansia e d’oppressione. L'auro-ra sembrava urlare col suo colore porpora sul cielo nero. La sago-ma scura del grande cedro nel giardino, nel cupo lucore dell'alba, sembrava un mostro maligno in agguato, un oscuro presagio di sventura. Perfino il canto del gallo, in lontananza, aveva un suono sinistro. Solo io so quanto ho odiato quei momenti cupi da canti gregoriani in una cripta. Ricominciava il solito duro periodo da discoteca, quando, per ten-tare di scrollarci di dosso il grigiore e l'umidità delle sere nebbiose

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con la depressione dilagante negli animi, cercavamo il frastuono di suoni e di luci squillanti. Per questo nelle cupe sere invernali sfidavamo la nebbia, il gelo e la distanza riversandoci sulle lunghe strade buie fino ai locali più lontani, inseguendo l'unica illusione di divertimento che ci attraeva come falene ad una luce artificiale. Vivevamo di sogni, soltanto di sogni. Non avevamo altro in fondo... Proiettati perennemente in un im-maginario futuro luminoso per sfuggire lo squallido presente. Sognando, riuscivamo a mantenere un precario equilibrio al diso-pra del nulla spaventoso sempre in agguato sullo sfondo... Sì, meglio mantenersi impegnati in mille attività inutili, meglio vi-vere di sogni di latta, di plastica dorata, che guardare in faccia al vuoto. Quando uscivamo, a inizio serata, il futuro si stendeva davanti a noi con tutte le sue apparenti infinite potenzialità. Il vento era giu-sto e i sogni volavano alti: sogni di ragazze bellissime tutte calze nere, vestitini aderenti e tacchi a spillo. Sogni di avventure che a-vevano noi e loro come protagonisti, progetti di vacanze invernali su bianche spiagge tropicali al caldo tra le palme... Intanto eravamo avvolti dalla nebbia e dal freddo, e le fate mera-vigliose erano solo fate di rimmel e di rossetto, false come quello sguardo fatale con cui cercavano di nascondere le occhiaie e l’insicurezza. Comunque, la fantasia rimediava a quello che la realtà non offriva e anche i sogni erano pur sempre qualcosa... In quel periodo io e Dan, con qualche amico occasionale, andava-mo in locali molto sostenuti, molto alla moda e molto cari, dove le

ragazze avevano un'aria molto snob come se fossero state fotomo-delle da copertina. Tutte si sentivano estremamente belle, irraggiungibili e nobili, so-prattutto le segretarie. Nonostante l'aria sdegnosa ed indifferente, l'emancipazione fem-minile e il sessantotto, erano tutte in caccia di marito coi soldi, che magari le rapisse sulla sua Porsche fiammante così da far crepare d’invidia le colleghe d’ufficio. Tutti avevano un’aria posata ed ognuno recitava la propria parte: noi da uomini importanti, loro da dive del cinema. Alla fine il no-bile figlio del fornaio conquistava la divina parrucchiera, ma, con un pizzico d’ironia, andava bene lo stesso: l'importante era poter sognare. Ma la vita dispensa il divertimento a piccole dosi, troppo piccole per i nostri animi insoddisfatti e alla fine della maggior parte delle serate era la delusione a restare nel fondo. L'amarezza si accumulava e poco a poco offuscava i pensieri e le speranze, così che alcune sere desideravi solo sprofondare nel sonno con l'intenzione di dissolverti nel nulla. Ogni giorno speravamo che succedesse qualcosa che potesse colo-rare la lunga schiera di giorni grigi che rendono squallida l'esisten-za. Ma la realtà con le sue mani grossolane sciupava tutti i sogni. Ci sentivamo perseguitati dal destino, credevamo che ci avesse fatto grandi ingiustizie negandoci malignamente tante cose che sa-rebbe stato giusto ricevere assieme alla vita. Così ci dovevamo confondere continuamente tra divertimenti e passatempi per elude-re le grigie ragnatele letali della noia. Ma i divertimenti sono come una droga, danno assuefazione e devi averne dosi sempre più massicce, perché la soglia di reazione di-

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venta più elevata e più pericolosa la depressione che segue. Non ci sapevamo accontentare della serenità come un saggio mae-stro antico ci aveva suggerito. Volevamo la felicità. Ma per un minuto di felicità occorrono spesso giorni di frustrazio-ne e di sofferenza. E noi, allora, dissennatamente, eravamo pronti a rischiarli. Allora non sapevamo ancora che la felicità è un rapido fuggente divenire, e non uno stato. Pensavamo di poter raggiungere la feli-cità perpetua. Però alla fine Dan aveva capito che la felicità non è che un apice, una posizione instabile, che dev’essere breve e acuta, per essere intensa. E non aveva esitato ad andare fino in fondo.

XI Si ricominciava... La mia vita aveva fatto un nuovo giro completo, anche se non ero esattamente al punto di partenza. Avevo piuttosto compiuto un gi-ro a spirale, come la puntina che segue la traccia di un vecchio di-sco e si avvicina un po’ di più alla fine del brano. Ero tornato alla vecchia, apparentemente interminabile routine di sempre. Non so quante serate in tanti anni abbia trascorso a ballare, è im-possibile contarle... Quando ci ripenso, mi sembra che sia stata un’unica interminabile serata, con personaggi che si avvicendano, ma sono sempre gli stessi, in fondo. Ricordo ancora gli anni delle prime uscite, proprio i primi anni... ..tutto era divertente, tutto appariva bello e fresco, e la vita scorre-va in un largo fiume a portata di mano. C'era, è vero, qualche om-bra cupa ogni tanto, ma non ci facevamo troppo caso. Il mondo ci appariva una grande festa e noi eravamo gli invitati di riguardo. A quel tempo compagni fissi di avventura erano il Dottore e Gi-gler e qualche altro in formazione variabile. Il Dottore, all'epoca non aveva ancora questo soprannome, ma fu chiamato così perché fu il primo a laurearsi. Di carattere era molto nervoso ed aveva la tendenza ad essere pes-simista. Gli piaceva scherzare, ed era divertente, ma il suo umore

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di fondo era l'arrabbiatura, un'arrabbiatura cosmica, non personale, che esprimeva con continue imprecazioni. Gigler l’avevamo chiamato così dal nome storpiato di un pezzo del carburatore, perché aveva la mania per tutto ciò che aveva un motore e, in particolare, per le moto. Di carattere era tranquillo ed era spesso soggetto ai colpi di sonno. Viveva alla giornata, un po' come tutti noi del resto, ma in modo ancora più accentuato, viveva al minuto, all'istante. Le sue previ-sioni non superavano mai le ventiquattrore e inventava i giorni di momento in momento. Era la sua dote migliore, anche perché così era praticamente sem-pre di buon umore. Sono infatti pochi i momenti presenti realmen-te brutti. È il pensiero del futuro che genera preoccupazioni. Di solito andavamo tutti assieme verso la meta, compiendo parec-chie decine di chilometri col furgone bianco sporco di Gigler, che era passato a ruolo di autobus della compagnia. Ogni chilometro con quel vecchio rudere che emetteva una densa nube nera e scricchiolii inquietanti da banchisa al disgelo, era un rischio non indifferente. Abbiamo infatti rischiato la vita più di una volta, un po' per i colpi di sonno di Gigler, un po' per la sua guida spericolata, sempre al limite, giù per i tornanti dei colli o sulle lunghe provinciali. Durante i viaggi, di solito stavo davanti di fianco a Gigler, soprat-tutto al ritorno quando tutti dormivano, Gigler compreso. Il mio compito era di risvegliarlo con uno scossone ad ogni curva perché potesse sterzare e si riuscisse così ad arrivare a casa senza proble-mi. All'andata l'euforia regnava incontrastata, aiutata anche da vari al-colici. Facevamo infatti varie tappe durante il viaggio nei bar in-

fimi di provincia per "carburarci" come diceva Gigler, cioè per tracannare Negroni, Scotch & Scotch, B52 e altri cocktails. Io bevevo poco, perché bere, più che mettermi allegria, mi fa ad-dormentare e dovevo, tra l'altro, stare sveglio al ritorno. A quel tempo le mete erano discoteche di massa, tipo bolgia dan-tesca, dove un carnaio sudato ed alienato urlava e si dimenava. I lampi allucinogeni delle stroboscopiche ti facevano barcollare e, con la violenta musica frastornante, ti estraniavano dalla realtà. Orde di persone ti urtavano e ti spintonavano, e l'aria era satura di fumo e bollente come all'inferno. I ragazzi sembravano degli in-demoniati nel delirio della danza a ritmo martellante, e le pi-erre, che dall'alto dei cubi mostravano le mutandine compiaciute, sem-bravano diavolesse che incitavano i dannati. A volte ti sentivi sperduto e fuori luogo come un invitato di con-venienza dell'ultimo minuto ad una festa in cui non c'entri niente. L'ambiente ti appariva ostile e tutti sembravano osservarti e disap-provare; allora ti buttavi su un divanetto in un angolo, aspettando con bramosia l'ora di ritornare a casa. Altre volte, forse anche con un pizzico in più di alcool nelle vene, ti sentivi a tuo agio, quasi fra amici. La musica si mescolava ai tuoi pensieri, li rielaborava e li riordinava creando nuove fantasie; ti riempiva di euforia, ti sentivi pieno di idee e di possibilità, e cominciavi a danzare, posseduto dal ritmo, incurante di ciò che ti circondava, un satanasso tra i tanti. I frequentatori di quei locali erano per lo più ragazzini, ma impa-sticcati e violenti, che giocavano a fare i duri e facevano scoppiare spesso delle risse, cosicché, a volte era la polizia a metter fine alla

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festa. Per lo più, fortunatamente il bilancio dei danni era di qual-che bicchiere e naso rotto; ma ogni tanto, purtroppo, spuntava un coltello e accadeva che qualcuno non si rialzasse da terra... Comunque, per quanto violento, quello era il mondo che noi cono-scevamo allora, il Nostro mondo, e bello o brutto che fosse, era-vamo perfettamente adattati per viverci e quasi a nostro agio. Ci sentivamo una grande compagnia di grandi amici. Amicizia e-terna di una compagnia eterna. Ci credevamo davvero. C’eravamo noi, gli eletti, un gruppo di amici immortali e inossida-bili. E poi c’era il mondo, a parte. Avevamo visto molte compagnie sfasciarsi col tempo, ma noi ci credevamo differenti. Ci credevamo davvero... Mi rivedo ancora, tutti insieme a ridere e far casino sul palcosce-nico del vecchio furgonaccio di Gigler... Che nostalgia!... Il vecchio furgonaccio bianco, per anni e anni fedele compagno di infinite avventure... Mi viene da sorridere a pensarci. E anche parecchia malinconia. Ci si abitua presto alle cose, diventano parte di noi, del nostro es-sere, quasi dovessero durare per sempre... Quante illusioni d’eternità, in questo mondo! Il vecchio furgone sembrava indistruttibile, anche se temevamo che un giorno o l'altro avrebbe terminato la sua esistenza assieme alla nostra, contro qualche tir o giù da qualche strapiombo. Un giorno, invece, senza preavviso, gli venne una brutta tosse convulsa. Lì per lì pensammo che fosse qualcosa di temporaneo

come spesso gli accadeva. Invece no: in due minuti si fuse tutto. Non ci fu più niente da fare. Fu accompagnato tristemente nell'ul-timo viaggio a traino e sepolto tra le fredde lamiere d'uno sfascia-carrozze. Fu quasi un funerale. Vederlo là in mezzo a tante altre carcasse sfasciate e anonime mi mise una gran malinconia, quasi come se un pezzetto di noi se ne fosse andato. E fu proprio così, in qualche modo segnò la fine di un epoca. Adesso che sono passati vari anni, con Gigler, il Dottore e gli altri ci vediamo solo di tanto in tanto e sempre più di rado. Ognuno ha la propria vita, il proprio lavoro, la propria donna, la propria fami-glia, e c'è poco tempo e spazio per gli altri. Soprattutto il lavoro ha occupato larghe fette della vita di ciascuno e ha intristito ed ingri-gito tutti con la logica smaniosa dell'efficienza e della produttività. Ogni tanto si riprova a fare qualche rimpatriata dove si finisce per riparlare nostalgicamente del passato: sempre gli stessi racconti impagliati. Sì, me ne rendo conto: è stata una storia di una qualunque compa-gnia, con amicizie credute eterne che si dissolvono, amici che si disperdono, il presente incalzante che irrimediabilmente confina e cancella il passato. Ognuno per la propria via. Rimane solo una triste stanza vuota tra i ricordi, ingombra di malinconici avanzi e di squallide cartacce, come accade quando la festa è finita.

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XII L’inverno avanzava velocemente e l’anno volgeva ormai al termi-ne. La neve aveva cominciato a scendere candida in sciami di lenti fiocchi. Con tanta pazienza ricopriva il triste paesaggio invernale di un uniforme candore che ne nascondeva le macchie e le asperi-tà, gettando sul mondo un velo di purezza di cui si era perduta memoria. Le luci natalizie riempivano le strade adornando e incorniciando le case e i negozi, e gettavano ponti luminosi tra i palazzi. Brillavano fredde nel buio come apparizioni miracolose. La gente camminava in interminabili file vocianti, tra le vetrine illuminate e gli addob-bi. Gli archi dei portici, come rapiti da un sentimento mistico, sembravano volersi spingere più in alto, in uno slancio maestoso. Vetrine piene di addobbi, pacchi di regali dorati e argentati, con nastri rossi e blu, babbi natale, pupazzetti, alberi di natale lucci-canti, file di gente vociante, automobili, gente che entrava e usciva dai negozi piena di pacchi. Mi piaceva camminare là in mezzo inosservato come un fantasma. Passeggiavo distrattamente, osservando senza trattenere niente. Smarrendomi tra la folla di persone indaffarate mi sembrava che svanissero anche i miei pensieri.

Un giorno proprio ad un passo dal Natale, mentre passeggiavo per le strade lucide della città vecchia in un indefinibile stato d'animo, tra colonne, fiocchi di neve e mille volti anonimi, sentii una voce che mi chiamava. "Henry?!" Mi girai. "Henry!" "...? ...!" "Henry, come va?" "Ciao Jeanne! Che sorpresa!... come stai?" "Bene", rispose tutta sorridente, "e tu?" Per la sorpresa ero quasi senza parole. Era come un raggio di luce, un tono di colore in un mondo in bianco e nero. "Bene!, bene...." Jeanne.... ...mi ero preso una cotta per lei al tempo del liceo e, nei sogni, a-veva colorato molti miei giorni grigi... Alla mattina andavo a scuola contento, perché sapevo che l'avrei rivista, e quando mi parlava, il sole rideva anche nella pioggia. Davanti a quei grandi occhi verdi m’incantavo e mi perdevo. Ma,

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nonostante i miei sogni, lei non ricambiava il sentimento. Ma la speranza non é mai ragionevole. E io continuavo a sperare e ad aspettare. Così, aspettando e sperando, gli anni trascorsero, il liceo terminò e incominciò il mediocre periodo universitario. Ormai non ci vedevamo quasi più, ma mi faceva sempre piacere rincontrarla, anche se sapevo che poi mi sarebbe rimasta una sotti-le malinconia. "Che mi racconti, Henry?" "Mah, niente di ché... nessuna novità interessante.... le solite co-se... Studio, esco la sera..." "Come va l’università?" "Bene, dai. Ormai siamo verso la fine" "Bene" "Per il resto faccio qualche lavoretto per guadagnare due soldi... vado a ballare... Solita vita... niente di nuovo..." "Dove lavori?" "Mah, aiuto un architetto a fare dei disegni quando si trova ingol-fato... guadagno due soldi, giusto per arrotondare e per abituarmi al lavoro. " "Ti sei fidanzato?"

"No, ... no... Sono single..." "Com’è? ...uno come te non dovrebbe aver difficoltà...". "Beh, mi sono lasciato da poco..." "Scusa, mi spiace..." "Niente, niente... ormai acqua passata..." "Dai, vedrai che l’anno nuovo porterà delle novità..." "Speriamo. E tu cosa mi racconti?" "Mah? ...novità... Boh? ...dunque... Beh, sì ...mi sono laureata..." "Grande! E dici niente!.. E adesso che fai?" "Adesso lavoro presso un commercialista". "Bene, sono contento! Quante novità!". "E poi...", disse con un sorriso, "tra un paio di mesi... ...mi sposo!..." Sapevo che prima o poi questo momento sarebbe arrivato, ma que-ste cose colgono sempre un po’ impreparati. Fu come un’altra porta che si chiudeva definitivamente dietro di

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me. Era la fine di un’epoca... ...che in realtà era già finita da un pezzo... Il Liceo... anni incredibili... e tanti, tanti ricordi sempre più lontani e intangibili... Certo, ogni giorno, anzi, ogni momento finisce un’epoca... Avrei dovuto saperlo... e lo sapevo... Eppure si fa una fatica così grande a lasciar andare le cose e le persone... Non credevo che dopo tanto tempo mi avrebbe fatto ancora un ef-fetto così. Sforzandomi di non mostrare l'inesprimibile tristezza e malinconia che mi erano ripiombate addosso assieme al grigiore del cielo nevoso, con le parole che si annodavano in gola riuscii a dirle: "Bene... Bene... Sono contento per te, ti auguro tanta felici-tà..." L’abbracciai e le baciai le guance con molta tenerezza. E la osservai di nuovo perdersi tra la folla, mentre la neve conti-nuava a cadere lenta, fiocco a fiocco, uno per ogni momento sva-nito, uno per ogni occasione perduta.

XIII La vigilia di Natale la mia famiglia era andata ad una cena da vec-chi amici e parenti lontani, di quelli che si vedono solo una volta all'anno e ti dicono sempre che sei cresciuto. Non avevo proprio lo spirito per affrontarli, e me ne restai a casa da solo. Con l’accorciarsi delle giornate ed il progressivo rabbuiarsi della stagione, anche il mio animo si era adombrato. Lo spirito del Natale avrebbe raggiunto altre persone più degne; io ero ormai troppo cinico e smaliziato. E a me, per assurdo, avrebbe portato solo tristezza: per tutte le cose che dovrebbero esserci e non ci sono, per tutto quello che bisognerebbe avere e non si ha. Nel mio Natale non c'erano alberi, non c'era presepe, non c'erano cene al lume di candela: solo una poltrona davanti al camino, un pacchetto di sigarette e un bicchiere di duro, ma sincero whiskey, di quelli che ti raccontano com’è realmente la vita. Ma sì, in fondo, andava bene anche così. Avevo fatto talmente l’abitudine a quella profonda e diffusa malinconia, che era quasi piacevole. Attendevo semplicemente il momento in cui il sonno compassio-nevole prende il sopravvento e le maligne voci interiori si fanno sempre più lontane ed inconsistenti e poi svaniscono. Ero già mezzo assopito, quando sentii bussare alla finestra. Mi affacciai.

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"...???... Ciao Dan!!! ...Cosa fai qui?". "Ciao Henry! All’ultimo è saltata la serata nel locale dove avrei dovuto suonare". "Come mai?" "Problemi burocratici... Amen!... Così ho pensato : "Vado a fare un salutino a Henry, così la smette di stare da solo in quella cripta"". "Quale cripta?" "Questa!! Mi sembra un funerale! Coraggio, su, un po’ di allegria! Allora mi apri o no?" "Subito!" "Che sorpresa!" dissi con una pacca su una spalla. "E non è finita! Guarda chi c'è...". Nella penombra comparve il viso di Francesca. "Grande! Ragazzi non sapete che piacere mi fa vedervi!" L’abbracciai forte e la baciai, ma mentre l'abbracciavo, vidi che c’era qualcun altro fuori... Avrei giurato che....

...Antonella... Si fermò sull'uscio con un sorriso imbarazzato. "Ciao Henry..." Diventava sempre più bella. Dopo alcuni lunghissimi momenti di sorpresa le tesi le mani e mi si buttò tra le braccia. Non avevo più parole. Stavamo semplicemente abbracciati sulla porta. "Allora, entrate o avete intenzione di gelare la casa?", disse Dan dopo un po’. "Eccoci!", risposi, richiudendo l’uscio. Dan aveva portato anche un alberello di Natale e una grande cesta piena di zampone, lenticchie, panettone, datteri, torroni, frutta sec-ca, cioccolatini, champagne... Si guardò attorno. "Ma ti sembra un Natale questo? Ma hai fatto una scommessa con qualcuno?... Stai facendo un fioretto?... Ma dico io!... ...Vabbé ...Ragazze ...Azione! Operazione Natale!" Antonella e Francesca si misero ad addobbare la stanza e ad appa-recchiare.

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"Allora, ci prepari qualcosa da mangiare?", chiese, mentre metteva nello stereo una musica d’atmosfera. "Subito!" Misi a lessare lo zampone, le patate per il purè e preparai delle tartine di salmone affumicato. Mi riempiva d'allegria sentire il vocio delle ragazze che scherza-vano con gli addobbi natalizi, avvolgendosi coi nastri argentati, e appendendosi alle orecchie le palline, mentre posavano per le foto di Dan. Francesca e Antonella sembravano andare molto d'accordo. Presi un attimo in disparte Dan: "Ma Francesca e Antonella...?" "Ho detto che Antonella è ...una tua ex... E siete rimasti buoni a-mici..." "E immagino che..." "...non ho aggiunto altro...", disse con un sorriso furbesco. Brindammo con lo champagne e cenammo alla luce soffusa delle candele e del caminetto, chiacchierando a voce bassa per non sciupare l'atmosfera. Un'aura fatata ci aveva avvolto come bambi-ni in attesa di Babbo Natale. I bicchieri e i nostri occhi scintillava-no alla luce fioca delle candele. C’incantavamo a guardare le fiamme guizzanti e le bollicine dello champagne che si seguivano in processione verso l'alto. Finito il disco insistettero perché andassi a prendere la chitarra.

Cantammo a lungo a voce sommessa tante vecchie canzoni che ci misero in uno strano umore romantico. Quando ci stancammo ri-manemmo in silenzio ad ascoltare lo scoppiettio delle braci. La realtà tornava ad apparirmi piena di significato come mi acca-deva di rado, quasi avesse una dimensione celata che si svelava solo in alcuni momenti benedetti. Antonella appoggiò teneramente la guancia sulla mia spalla e io posai le labbra sui suoi capelli, inebriandomi del suo profumo. Rimanemmo così per un tempo che mi sembrò eterno, e trascorsi inaspettatamente un Natale profondo e puro.

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XIV L'incantesimo durò poco e tutto tornò rapidamente come prima. Antonella era sparita di nuovo. Dan e Francesca si lasciarono a fi-ne Gennaio. Fu lui a volere interrompere la relazione senza una ragione preci-sa. Lei lo amava davvero, questo era evidente, ma Dan sembrava non rendersene conto. Era veramente disperata, mi telefonava in continuazione e mi do-mandava sempre se aveva fatto qualcosa di sbagliato. Io la rassicu-ravo che non aveva colpe, ma quando mi domandava perché, non sapevo cosa rispondere, o forse l’intuivo, ma non era nulla che po-tesse consolarla. In quella situazione facevo ancora più fatica a non pensare ad Ele-na. Perciò una sera decisi di prendere la situazione di petto e af-frontai il discorso con Dan. Gli raccontai delle telefonate di Fran-cesca, della sua disperazione, del suo amore per lui, del male che le stava facendo ed era ingiusto. Era seduto al pianoforte. Si girò verso di me e si accese una siga-retta. "Mi dispiace, sai, non credevo l'avrebbe presa così. Ma le passerà presto, vedrai". "No, non le passerà presto! Ti ama! Questo non lo vuoi capire: ti

A-MA!" "Sì, certo, sai quante hanno detto così? Ma è solo un’infatuazione. Adesso crede di amarmi, ma presto si renderà conto che era solo un’infatuazione passeggera". "No, Dan, non è un’infatuazione!", risposi accalorato, "Non capita tutti i giorni di trovare una donna che ti ama. Ed è perfino molto bella! Ma tu non te ne vuoi rendere conto. Ma perché?" Rimase in silenzio per un po’ con aria assorta. "Lo sai, Henry, di ragazze ne ho avute tante. In tutte ho apprezzato qualcosa... ma non ho mai avuto una storia importante. A molte ho voluto bene e sono rimasto in buoni rapporti di amici-zia, ma non ne ho mai amata nessuna". "Nemmeno una?" "Beh, sì, di una sono stato innamorato, se così si può dire, ma ero molto giovane. Avevo diciassette anni. Non ne ha mai voluto sapere di me... E avrei fatto qualsiasi cosa per lei... Tipico... Ma a dir la verità era un’infatuazione: alla fin fine non la conosce-vo affatto. Ma lo capisci solo dopo, quando non sei più innamora-to. Quando ci sei dentro non comprendi che non è amore vero. In realtà amavo quello che mi sarebbe piaciuto trovare in lei. Era molto più bella nella fantasia che nella realtà. Da quella volta non mi sono più innamorato.

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Certo, ti resta sempre il maledetto dubbio che se avessi incontrato quella giusta, se avesse avuto quelle determinate caratteristiche, allora chissà... Ma col tempo ti rendi conto che, alla fin fine, è solo una questione di attrazione fisica. In ogni modo, sono contento di non aver trovato la donna della mia vita, e spero di non incontrarla mai". "Perché dici così?". "Sai come sono fatto. Sai come mi piace vivere. Non mi piacciono le cose fisse, prestabilite... Se la incontrassi, che farei, poi? La sposerei? Darei un calcio a tutto questo? Oppure riuscirei a continuare una storia alla giornata, senza un percorso, senza meta, senza contorni? Aspetterei semplicemente che la routine mettesse la parola fine al nostro rapporto? ". "Ma chi può dire di aver saputo come sarebbe andata a finire una relazione? Domandalo a mille coppie assieme da anni! Tutto è casuale. E poi perché ti spaventa tanto il pensiero di convivere con una donna? Se ti trovi bene il problema non si pone". "Si pone, invece! Dovrei forse abbandonare tutto, rinnegare i miei amici, la mia vita, le mie serate, la mia carriera, lasciare tutto per seguire i capricci di una donna?" "Ma potresti continuare a frequentare i tuoi amici, e continuare la

stessa vita di prima, come hai sempre fatto con tutte le ragazze che hai avuto!" "Dai, Henry, sai bene anche tu che le donne non sono così ragio-nevoli!... Tutte quelle che ho avuto, dopo un primo periodo di ap-parente arrendevolezza, hanno sempre cercato di cambiare qualco-sa in me o nel mio modo di vivere... Dopo non va più bene questo, non va più bene quello... No, una donna mi sarebbe d’intralcio” Si fermò un attimo, aspirando profondamente il fumo dalla sigaretta, abbassò lo sguardo e scosse lentamente la testa con l'aria di chi sa di essere votato ad un impresa troppo grande, al di là della propria portata. "Ci sono troppe cose da fare... troppi luoghi da visitare... troppi momenti da vivere... per fermarsi e rinunciarvi... Io vivo di tutto questo", disse con un ampio gesto della mano. “Hai visto anche tu”, continuò, “molte persone spegnersi e rasse-gnarsi ad una vita alla quale non credevano, lasciandosi trascinare dagli eventi, come se arrivate ad un certo punto mancasse loro la spinta per andare oltre. E adesso siedono in un angolo di un bar a bere e a lamentarsi. E giù ad inventarsi mille scuse... "Ah, mi sarebbe piaciuto fare quella cosa e quell’altra cosa... An-dare in quel tal posto... vivere in quel modo.. Ma, cosa vuoi mai... Sono soltanto sogni... La realtà è ben diver-sa... " Ma come "soltanto sogni"? Maledizione, se una cosa ti piace, im-

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pegnati, sforzati di ottenerla! Se ami un certo modo di vivere, al-meno provaci! Se rinunci hai già perso! La verità è che le barriere più difficili da superare sono quelle nel-la propria testa. No, Henry, non voglio confondermi anch'io nelle grigie schiere di gente senza identità... E mi domando se non ne faccio già parte... Me lo domando davvero...". Non disse più niente. Abbassò gli occhi soffiando fuori il fumo, spense la sigaretta, si girò e cominciò a suonare un notturno di Chopin che esprimeva tutto ciò che si poteva dire sulla vita, anche quello che non era possibile con le parole.

XV

Facevamo di tutto per sfuggire alla monotonia. Fuggivamo dalla vita comune e dalla sua triste e grigia inutilità affaccendata, affan-nata, frenetica. Angosciata. Dalla vana ricerca di produzione, co-me se il prodotto potesse dare uno scopo all'azione. Eravamo perennemente alla ricerca di un’occasione, della mitica Grande Occasione, che, si dice, prima o poi arriva e ti cambia per sempre la vita... La Grande Occasione… Un sogno sempre tre passi davanti a te... Una sera, Dan mi aveva detto: "Sai, Henry, inseguendo il succes-so, a parte i calci nel culo, gli sputi in faccia, e le porte che ti sbat-tono sul grugno, quello che ti abbatte di più sono spesso le persone che hai vicino, parenti, amici, conoscenti che ti punzecchiano, an-che bonariamente, ma che danno un fastidio che nemmeno imma-gini! Magari alcuni non lo fanno con cattiveria, ma ti mandano sempre quelle frecciatine che ti fiaccano, ti fanno proprio arrivare al limite, soprattutto quando sei già sovraccarico. Nessuno di loro capisce lo sforzo per farsi conoscere, inventarsi una carriera, crearsi uno spazio, quando tutti cercano di escluderti. Nessuno capisce i giorni e giorni di bocconi amari che devi man-dare giù.

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Queste non sono come quelle carriere preconfezionate in cui tu en-tri in un’azienda e ne esci dopo trent’anni salendo di gradino in gradino... Qui è molto più difficile, devi inventarti tutto, crearlo dal niente, e non hai falsarighe da seguire. Gli impresari non ti danno udienza, nessuno si arrischia con un e-sordiente, anzi spesso ti dicono proprio che fai schifo e di cambia-re mestiere. Oppure si prodigano nel darti consigli su come stra-volgere la canzone: più ritmo, più sound, un testo più commercia-le… E dopo tutto questo, trovi anche le persone vicine, che invece di incoraggiarti e di sostenerti, sono pronte a renderti la vita più dif-ficile. C’è chi ti tira fuori la storia di uno che ha provato ed ha fallito... di un altro che, correndo dietro al suo sogno, è finito in miseria... di un tale che si è arreso, ha mollato tutti i suoi sogni inverosimili ed “è sceso coi piedi per terra”. E adesso è una persona stimata... ha una moglie, due figli, un bell’impiego statale, la tredicesima, la quattordicesima, le ferie pagate... Magari non racconta a nessuno, nemmeno a sé stesso, che è infelice e frustrato... Ma questo non importa... Il mondo vive solo di facciate... Tutti sono lì pronti a prodigarsi nel narrare questi cento episodi fatti apposta per demoralizzare. Altri ti danno dei consigli del tipo: "…Trovati un posto in banca... Come si fa a vivere così...? ... Ad un certo punto devi mettere la testa a posto... Devi essere realista…". È come se oltre a dover remare contro vento e contro corrente ti si attaccassero addosso anche delle remore. ...e se non bastasse ci fossero pure le malevole vocine delle sirene che ti gracchiano all’orecchio "Non ce la fai, non ce la fai! Arren-

diti! ". Ecco, mi sembra davvero che siano queste voci maligne quelle che danno più fastidio. Nessuno che t’incoraggi mai, nemmeno una buona parola! Nessu-no che ti racconti di qualcuno che ha tenuto duro contro tutti i pro-nostici ed è riuscito... Anzi, se gli fai un esempio, ti vengono a dire che quel tale è riusci-to solo perché ha avuto fortuna!... Fortuna!!! Manco avesse vinto un terno al lotto!!!... E ti fa intendere quanto sono gretti e ignoranti... veramente igno-ranti, che non sanno e non capiscono quanto impegno e quanta fa-tica è stata necessaria per avere successo... Ma io ho imparato ad ignorarli e alcuni ho deciso di evitarli pro-prio fisicamente... E alla fine la pelle mi è diventata più dura. Tutto questo tempra il carattere, t’indurisce, sembra una specie di prova a cui ti sottopone il mondo, come se ti dicesse "vediamo se hai le palle! Vediamo quanti colpi puoi sopportare prima di anda-re a tappeto!". Ma io nonostante tutto, nonostante la mia carriera non sia avanzata d’un passo, nonostante suoni ancora in questi locali da quattro sol-di, nonostante non veda ancora uno sbocco alla situazione, voglio tenere duro... Non voglio trovarmi un giorno a chiedermi cosa avrei potuto di-ventare... Non permetterò che mi capiti. Voglio almeno poter dire: ho pro-vato in tutti i modi... La musica per me è tutto, è la mia realizzazione. Niente mi da al-trettanta soddisfazione. Sarebbe come un suicidio... un suicidio spirituale... Non posso arrendermi...".

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"E fai bene, Dan! Approvo completamente. Non ti devi arrendere per nessun motivo! Questo come regola generale... Per di più le tue canzoni sono molto belle. Devi solo trovare la si-tuazione giusta. Fregatene di quelli che ti hanno rifiutato e ti hanno criticato. Verrà il giorno in cui brinderai alla loro salute!". Mi sorrise e mi guardò con affetto, appoggiandomi una mano su una spalla. "Lo so, Henry, lo so. Sei il solo che mi sostiene e che mi capisce. Non hai neanche idea di quanto te ne sono grato. Non sai nemme-no quanto mi è utile nei momenti difficili..." "Be’, non è vero, non sono il solo, c’è anche Francesca. Anche lei ha sempre creduto in te..." "Ma lei crede in me più per affetto che per altro... Lo fa perché mi vuole bene. Non è obiettiva..." "No, Dan, ti sbagli. Oltre a volerti bene, le piacciono veramente le tue canzoni. Le capisce molto meglio di quanto credi...". "Ok" "Tempo fa”, continuai, “ho letto in un giornale l’intervista ad un grande cantante rock che è riuscito a dispetto di tutti, tra mille dif-ficoltà... Aveva cominciato in locali d’infima categoria, ma lui

suonava come se fosse stato nel posto migliore del mondo, dando tutto se stesso. Gli dicevano che il rock era ormai fuori moda... che solo l’inglese era la lingua giusta ...gli consigliavano di cambiar genere... E mille altre obiezioni simili. Ma lui non ha ascoltato nessuno, ha tenuto duro contro ogni difficoltà... E adesso è una grande rock star, esattamente così come aveva vo-luto e si era immaginato. E ora se lo litigano le case discografi-che... Questo è il potere di una grande forza di volontà, dei sogni, dei de-sideri profondi radicati, che non ammettono vie di mezzo. Diceva anche, che è molto importante non avere successo subito: così l’arte si affina e ha tempo di maturare e perfezionarsi. A volte un successo troppo rapido è più pericoloso d’un insuccesso tempo-raneo. Diceva che nelle cose bisogna crederci, bisogna crederci veramen-te, ciecamente. Bisogna avere Fede. Se si ha Fede davvero e si persevera, si riesce sempre, diceva. Ma la Fede vedo che non ti manca... Sono certo che riuscirai, Dan, al cento per cento. E non te lo dico solo per incoraggiarti". Si rasserenò aprendosi in uno dei suoi sorrisi larghi e raggianti. Riflettendo su quello che mi aveva detto, mi resi conto che diven-tava comprensibile l’atteggiamento astioso, scorbutico, altero di molte persone di successo. Ne avevano passate tante, troppe, ave-vano mangiato troppa polvere e… peggio... Diventavano com-prensibili gli eccessi, le droghe, l’alcool, le stravaganze, le follie, tutti espedienti per soffocare l’ansia, i complessi acquisiti in anni d’insuccessi e di brutti ricordi. Per affogare il ricordo della mise-

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ria; la fame a volte... E molti erano infine arrivati lassù, trainati dall’illusione che fosse la fine di tutti i loro problemi. Ed invece i problemi che si porta-vano dentro irrisolti, col successo diventavano ancora più grandi, smisurati, eccessivi. Alcuni diventavano bramosi, smaniosi di vita e di sensazioni, co-me animali insaziabili. Ingurgitavano, inghiottivano, fagocitavano tutto. Altri si erano guardati intorno ed avevano detto "Tutto qui? È dunque tutto qui? Tanta strada ...per questo?..." E avevano finito per cadere nello sconforto e nella depressione. Nessuno di loro aveva imparato come riuscire ad essere veramente felice. Mi resi conto che il successo è forse una delle cose più pericolose che può capitare ad un uomo. Non è facile sopravvivergli.

XVI

Trascorsi l’intero inverno, desiderando che accadesse qualcosa. Qualcosa... che so... qualche novità, nuove possibilità, un tocco di colore, una trasformazione, un cambiamento... Qualcosa, insom-ma... Non è piacevole quando non sei in grado di far nulla, dover sem-plicemente attendere che qualcosa cambi. La vita è particolarmen-te dura quando sembra opporre quest’inerzia al cambiamento. Sei preso in un tiro alla fune: non riesci a vivere il presente perché è troppo squallido, e il futuro di salvezza è solo un miraggio oltre la tua portata, che non si sa se verrà mai. Così sei lacerato dentro: vorresti essere altrove, e al tempo stesso ti senti in colpa perché stai sprecando il presente... Le cose inevitabilmente mutano prima o poi, ma intanto se ne è andato anche un pezzetto della tua vita. Per aiutare la sorte facevo quel che potevo: uscivo alla sera, fre-quentavo nuove ragazze, andavo a ballare, studiavo. E aspettavo. Ma l’attesa era snervante in quelle lunghe gelide notti stellate con la neve ghiacciata che serrava tutto in un silenzio opprimente. Ancora una volta mi domandavo cosa ci stessi a fare in quel posto. Ero stanco di aspettare passivamente per quasi sei mesi, cioè per metà della mia vita, che il clima si ristabilisse. Odiavo con tutto me stesso l’inverno, il freddo e l’oscurità. Ero

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un figlio dell’Estate, del sole, della luce, del caldo e non riuscivo proprio a farci l’abitudine. Arrivavo sempre provato alla fine dell’inverno. Ogni volta mi ripromettevo che quello sarebbe stato l’ultimo, che mi sarei impegnato al massimo per trovare un modo, e che l'inver-no successivo l’avrei vissuto al tepore di un paese tropicale, senza più essere in balia delle stagioni. Ma intanto ero costretto a subire ancora le ingiurie del clima. Ma il tempo, una volta tanto si può dire per fortuna, non si arresta mai. E finalmente l’inverno mollò la sua morsa. Le giornate si allunga-rono, divennero più miti e luminose e le nuvole si aprirono, la-sciando spazio all’azzurro del cielo. Ed il mio umore col sole tornò a risollevarsi. In una di quelle miti sere limpide e ventose di primavera, leggere e speranzose, in cui veramente tutto appare possibile e realizzabile, e per un istante senti che il mondo esiste anche per te, udii bussare alla porta. Ero sdraiato mezzo addormentato sul divano. Mi alzai trasognato e andai ad aprire senza nemmeno chiedere chi fosse: era certamente il Caso che veniva a farmi visita. Mi trovai davanti Antonella, bella e splendente come un'appari-zione. Mi guardò negli occhi e mi sorrise con un'aria triste. Non dissi niente, la guardai semplicemente nel viso e le sorrisi te-neramente, pensando, "sei soltanto un sogno, ma sono contento lo stesso di sognarti".

Sì, certo, stavo solo sognando... Allungai una mano lentamente per accarezzarle una guancia, in-certo, pensando di vederla svanire all’improvviso. Ma quando le sfiorai il viso, invece di dissolversi come un miraggio, mi si buttò tra le braccia e si strinse a me. Il contatto del suo corpo mi ricondusse alla realtà. Antonella era imprevedibile, arrivava come lo scirocco di prima-vera che soffia miraggi di luoghi esotici e lontani, ti parla d’Africa e di spazi immensi. Per un attimo ti scompigliava la vita, rimesco-lando le carte dei giorni qualunque, riportando violentemente e-mozioni a lungo dimenticate. Così, in un attimo, si riallacciarono tutti i fili che sembravano ir-rimediabilmente sciolti e tornammo intimi amici ed amanti come se non ci fossimo mai lasciati e tutto il tempo trascorso, non signi-ficasse niente. Lasciammo comunicare i nostri corpi col loro linguaggio di baci e di carezze. Avevo voglia di dirle e di chiederle tante cose e forse anche lei, ma avevamo quasi paura di spezzare l’incantesimo e di destarci dal sogno. Fu una lunga notte d'amore, e ci addormentammo solo verso mat-tina. Quando mi risvegliai, d'istinto la cercai con la mano, temendo che se ne fosse già andata come faceva a volte. Ma era ancora lì, e ac-corgendosi del mio gesto, si raggomitolò contro di me, appoggian-do il capo sulla mia spalla. Posai le labbra sulla sua testa respiran-do il profumo dei suoi capelli e rimanemmo così a lungo, in silen-zio. Era tanto tempo che non mi sentivo così bene.

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"Avevo paura che non mi amassi più", disse. La strinsi più forte a me col desiderio di diventare parte di lei. "Come puoi pensarlo? Ti ho amato sempre, lo sai". "Adesso lo so". Si strinse ancora di più. Rimase da me tre giorni. Una mattina, cercandola nel letto, sentii il freddo del vuoto dalla sua parte. Mi destai. Aveva già raccolto le sue cose. Mi guardò tristemente. "Speravo di non svegliarti". "Te ne vai già...?", chiesi. Sorrise senza dire niente. "...tornerai?" "Certo, lo sai", disse con un sorriso triste. Era sincera, lo vedevo nei suoi occhi. Seguì un abbraccio lungo, forte e un po’ disperato, ma meno di quello con cui l'avevo lasciata la volta prima. Stavolta ero sicuro che sarebbe tornata. Quando... era solo un det-taglio...

Saremmo stati legati sempre, anche separati, anche in posti lonta-ni. Ci sono relazioni fatte di durata e altre d'intensità. Ora mi rendo conto che l’intensità del nostro amore risalta su tutte le altre mie memorie. La baciai ancora una volta, poi le nostre mani si separarono, pur cercando il contatto fino all'ultimo, scivolando fino alla punta del-le dita, poi il tocco svanì e, con un rapido movimento dei suoi ca-pelli, l'osservai uscire ancora una volta dalla mia vita.

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XVII Un giorno di metà primavera, giunse inattesa una telefonata. "Henry?..." "Sì? ...Chi parla?" "Sono Elena...”, disse con voce incerta. Quando sentii la sua voce l’emozione mi sopraffece, tanti pensieri si mischiarono e si confusero. “Come va, Henry?... Come stai?..." A lungo avevo atteso quella telefonata e per un certo periodo ogni volta che avevo sentito squillare il telefono, avevo sperato fosse lei. Certo, avrei potuto chiamarla io, ma non ero affatto sicuro che a-vesse voglia di sentirmi, né che riparlarle mi avrebbe fatto bene. Non chiedevo nemmeno notizie a Francesca, che da parte sua cer-cava di evitare ogni riferimento a lei. Sapevo comunque che alla fine era tornata assieme all’ex fidanza-to... I mesi erano trascorsi, e finalmente avevo smesso di pensarci, e

avevo ricominciato a stare bene. E adesso questa telefonata... Le donne, quando meno te l’aspetti, hanno di queste nostalgie im-prevedibili, soprattutto le ex... "Come stai, Henry?" "Bene... E tu?" "Bene..." Parlammo del più e del meno e solo qualche frase e domanda ba-nale interruppero, a tratti, lunghi silenzi imbarazzati, come capita quando si hanno troppe cose da dire, senza sapere da dove iniziare. Dopo qualche giro di parole mi disse: "Henry... io e te ci siamo la-sciati così... su due piedi senza spiegazioni... Avrei voluto parlarti, ma non me ne hai dato la possibilità... non abbiamo mai chiarito... Ci ho pensato a lungo... non so se faccio bene... però preferivo dir-telo di persona. Ti considero una brava persona, matura e ragionevole. Preferisco che tu lo sappia direttamente da me..." Pausa. ..... Non capivo dove volesse andare a parare... "Io... ....

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...Alex e io... ... Io e Alex...” Il silenzio sembrava interminabile. ........ “ ....ci sposiamo..."

......... .......

.... .. . Mi misi a sedere. Le parole mi morirono in gola ed i pensieri si af-fievolirono e svanirono come fumo. "...ci sposiamo tra un mese... Non so se ho fatto bene a dirtelo... ...non vorrei che lo interpretassi male... però... ... ci tengo a te e alla tua amicizia... sei stata una persona importan-te per me... mi hai aiutato e mi sei stato vicino... mi hai ridato la voglia di vivere... la forza di vivere... in un momento molto diffici-le... ... sul serio... ...lo so... non mi sono comportata bene con te... ...ti chiedo scusa, davvero....", disse singhiozzando.

Passò qualche secondo. Si schiarì la voce, ma aveva la voce anco-ra incrinata. "...tu.... ...tu mi hai dato tanto...

....... ...io...

....ho preso e basta...

........... ...lo ammetto... e mi dispiace...

..... ...non sarebbe dovuta andare così... ......però... era un momento duro... Non mi giustifica, lo so... ...però è così che è andata... Sei una gran brava persona.... non meritavi questo... Scusa se te l’ho detto così all’ultimo... ma ci ho pensato a lungo prima di dirtelo... Ho invitato Francesca e Dan e hanno detto che vengono... ...forse è chiedere troppo, e non vorrei che lo interpretassi male... ...ma...

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...vorrei... ...vorrei ...invitarti al matrimonio... ...ti invito come una persona amica che mi ha dato tanto... ....come una persona a cui tengo, che ha fatto molto per me... ...non so... non so se faccio bene... non vorrei che lo interpretassi male... ma è per dirti che non ti ho dimenticato... ... vorrei che restassimo amici... Forse è chiedere troppo... Se non accetti, capisco e non fa niente..." Ci fu una lunga pausa "...Henry?" "...Sì?" "Hai sentito quel che ho detto?..." "Ho sentito..." Non saprei dire cosa mi stava passando per la testa. Cercai di raccogliere i pensieri. "...Elena...non so se riuscirò... devo... ...mi devo liberare da alcuni impegni..."

"Certo... Capisco." "... mi ero messo d’accordo con degli amici per fare una settimana al mare in quel periodo..." "Sì, be’ certo... non ti preoccupare... In fondo te l’ho detto all’ultimo momento... Comunque mi ha fatto piacere sentirti, e spero davvero che non me ne vorrai... ...spero che rimarremo in buoni rapporti... ...sei un gran bravo ragazzo... scusami ancora... ... ti meriti davvero il meglio... Ti voglio bene ...sinceramente", ricominciò a singhiozzare "...scusa.....mi ha fatto piacere sentirti... ...ciao" Riattaccai.

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XVIII Le settimane successive furono tormentate dagli spettri del passato che si rivelavano in tutto il loro grottesco squallore. Tutti i mo-menti trascorsi insieme mi apparivano ora immensamente inutili e assurdi. Mi sembravano il simbolo di un mio ennesimo fallimento, anzi l’ennesima riprova di un unico ripetuto fallimento. Tentavo di trovare un equilibrio, ma il mio umore era troppo sbi-lanciato. Finalmente, come in molti altri casi, fu il tempo a porre termine a quella situazione trascinandomi a ridosso del giorno del matrimo-nio e sbattendomi di fronte alla nuda realtà, inevitabile. All’ultimo momento decisi di andare. Fu forse una mossa stupida, ma volevo dimostrare di essere un ti-po tosto, mica facile da abbattere. E poi volevo vedere coi miei occhi la situazione per farmene una ragione, un po’ come quando si va nella camera ardente a vedere una persona cara... Dan mi passò a prendere alla mattina, togliendomi da una notte a-gitata. Parlammo poco durante il viaggio, entrambi immersi ad ascoltare un album di vecchie, tristi canzoni francesi, di quelle che non si capisce se curino o allarghino le ferite. La chiesa era piena di gladioli rosa e bianchi e il sole entrava pre-

potente da una vetrata con un fiotto di luce che inondava l'altare e gli sposi. Il suo viso era pieno di commozione e d’amore e la rendeva anco-ra più bella, benché sapessi che non era amore per me. Era certo il giorno di suo massimo splendore, l'apice che si sfiora per breve tempo in una vita. Quando sentii suonare la marcia nuziale, mi gravò addosso una ta-le quantità di emozioni inesprimibili, che avrei voluto fuggire lon-tano anni luce. Da quel giorno trovo sempre mille scuse per evita-re i matrimoni. Al rinfresco c'erano molte persone e riuscii ad intravederla solo un paio di volte in tutta la giornata. Me ne stavo in un angolo a bere con Dan. Francesca continuava a cercare Dan con lo sguardo, e a me ogni tanto gettava occhiate compassionevoli. Alla fine, quando la maggior parte della gente se n’era andata, E-lena venne da me. Parlammo poco e restammo lunghi momenti in silenzio a guardar-ci, tenendoci le mani. Lo sposo ci osservava con aria interrogativa da lontano, mentre parlava con alcuni parenti. Chissà che cosa gli aveva raccontato di me... Mi abbracciò forte. Un abbraccio d'addio. "Mi ha fatto piacere Henry. Davvero un gran piacere. Sei una gran brava persona. La ragazza che saprà conquistarti sarà davvero for-tunata". Già, un bel discorso che mi hanno fatto altre volte... proprio iden-tico... pensai tra me e me. ...ma poi, non so perché, va sempre tutto a puttane...

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Aveva gli occhi lucidi, un po’ per l’emozione del momento, e for-se un po’ per ciò che rappresentavo, perché sapeva che si voltava pagina, si chiudeva un altro capitolo della sua vita, e la fine del romanzo lasciava meno spazio all'immaginazione. "Fatti viva ogni tanto" le dissi. "...ma certo...", rispose con voce commossa, asciugandosi gli oc-chi. Non so che ne sia stato di lei: scomparve dalla mia vita, e le nostre strade non si sono incrociate mai più. A volte mi domando perché, così a distanza di tempo, mi ricordi ancora di una ragazza con cui ho avuto una relazione tanto breve... Non so darmi una risposta precisa. Forse perché quello che non avevo vissuto con lei nella realtà l'a-vevo vissuto in molteplici sogni, anche se, per l’ennesima volta, erano finiti in niente. O forse perché ogni persona che si allontana dalla mia vita è come una porta che viene chiusa sulla via che col-lega il presente al passato. E questo avvicendarsi, scandisce una serie di cupi rintocchi che rendono più evidente e drammatico lo scorrere del tempo... Sì, ora me ne rendo conto: mi sono sempre attaccato a cose e per-sone come mi aggrappavo alla vita, temendo che mi sfuggisse, mi scivolasse di mano inavvertitamente, senza essere riuscito a capir-la.

XIX Dan si era accorto del mio periodo giù, anche se non molti l’avrebbero notato. Non sono mai stato il tipo da fare scene tragi-che, e non mi è mai piaciuto far pesare sugli altri i miei problemi: li ho sempre considerati dei conti da regolare in privato con se stessi. Perciò, apparentemente, ero l’Henry di sempre, se ciò significa qualcosa. Dan venne da me il Sabato successivo al matrimonio. Era una giornata bellissima, tersa, con qualche nuvola bianca a forma di piuma. Ero sdraiato sull’amaca e osservavo il cielo tra le foglie del noce. Ci sedemmo al tavolino sotto il ciliegio e ci stappammo un paio di birre. Dopo aver parlato della bellezza del tempo e delle previsioni per la Domenica, finalmente si decise ad affrontare il discorso. "Cos’è che non va, Henry? Mi sembri molto giù. Cos’è succes-so?". Bevvi una lunga sorsata di birra gelata che mi pizzicò tutta la gola. "Eh? Cos’è che non va?", insisté.

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"Cos’è che funziona, mi dovresti domandare! Cosa non va? Tutto a posto! Elena si è sposata, Antonella è sparita completamente, ho un esame tra un mese e non riesco a studia-re...". "Dài non farla tragica! Sono momenti così. Ci vuol pazienza... A proposito, ho conosciuto delle nuove ragazze... Ce ne sono un paio che sono veramente carine... Se vuoi domani sera organizziamo e..." "Ma no, non importa, grazie". "Come sarebbe a dire : non importa...?! Ecco il problema! Non vuoi reagire, non vuoi uscire dal tuo stato! Stai lì a macerarti". "Sta a vedere che sono io che me le vado a cercare... guarda un po’!". "No, le cose capitano... belle e brutte... Semplicemente non vuoi reagire. Anche la ragazza che hai conosciuto un paio di settimane fa, come si chiamava... non era mica male... L’hai più sentita?" "Chi, Barbara?" "Sì, proprio lei". "No, non le ho più telefonato".

"Ecco, e poi dici che non conosci delle ragazze. Sei diventato troppo pessimista, tutto qui. Ed è pure carina". "Allora escici tu, se vuoi ti do il numero". "Ecco che sragioni! Volevo semplicemente dire che mi sembrava una ragazza interessante. Dico male? E’ carina o no?" "Ma sì, è carina. Ma non m’interessa". "Ma se l’hai appena conosciuta! Come fai a dirlo? Frequentala, poi si vedrà..." "Non ne ho voglia Dan, non ho l’umore adatto... Sono stanco... stanco... Mi sembra tutto tempo perso...". "Non dicevi mica così, quando ci siamo conosciuti!". "Sono cambiate tante cose... adesso sono stanco... ...stanco... ...mi sento... ...mi sento ... una spossatezza... ...una stanchezza spirituale... Mi sembra di non essere più padrone della mia vita...". Finii la bottiglia con un’ultima grande sorsata, lanciai il vuoto nel bidone e me ne aprii un’altra.

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"Solo perché ti è andata male un paio di volte?... È vero che ogni tanto ci si sente in balia degli eventi ... Ci sono periodi che sembra proprio di non azzeccarne una... Fai una cosa e va male... Ne fai un’altra e va peggio... Ma poi comincia a girare di nuovo per il verso giusto. "Il futuro non è completamente nostro, ma nemmeno completa-mente non nostro...” Ricordi? Mai disperare! Mai lasciarsi andare!". "Sì, parole sagge... Però quel saggio antico consigliava anche di astenersi dalle passioni amorose, di vivere ritirato, lontano dalle preoccupazioni, dalle passioni violente che turbano l’animo... Mi sembra che abbiamo personalizzato un po’ troppo la sua teo-ria... E poi Elena ed Antonella mi sembrano l’emblema della mia vita sentimentale: un fallimento dietro l’altro..." "Bene, bravo! Crogiolati nella tua autocommiserazione! Non vuoi reagire, ecco il problema! La conosco anch’io, la malin-conia: si autoalimenta. Si accresce da sola, si nutre di se stessa... Scrollatela di dosso! Gettala via! Reagisci!" "Non è che non voglio... ci sono dentro!... Come faccio ad essere felice?... Niente è andato come desideravo!... Non sono riuscito a governare la mia vita... " "E pensi che migliori stando qui a macerarti? Pensi che la situa-zione cambi? Pensi che impersonando la parte del reietto, del ma-ledetto dalla sorte, la tua situazione migliori? Invece di reagire, te la prendi col Destino... come se arrabbiandoti

col Cielo le cose potessero cambiare..." "Senti Dan... tu la fai facile... devi far questo ...devi reagire..." "Non è per criticare, ma solo per farti ragionare... Fai dei discorsi che... ...parli come un uomo finito, un disperato!..." "Senti, facciamola finita con questi discorsi, eh?! Basta!". "Va bene, però pensa a quello che ti ho detto". "Sì, va bene, va bene". "Ora devo andare. Ma tu smettila di pensare a queste stupidaggini. La situazione non è assolutamente drammatica, neanche alla lon-tana. Lo può diventare solo se la vedi così. Allora puoi inciampare an-che su un filo d’erba", mi disse appoggiandomi una mano sulla spalla. "Cerca di reagire. Stare qui da solo non ti fa bene. Capisci cosa voglio dire?". "Sì" "E allora staccati da questi pensieri negativi! Va’ fuori, va a trova-re qualche amico, va a pescare, fatti un giro al mare, va a donne, portatene a letto un paio... Fa quel cacchio che ti pare, ma reagisci, cazzo! Ok?"

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"Ok" "Mi spiace che oggi non posso, ma i prossimi giorni ti porto fuori a forza! E’ una promessa! D’accordo?" "D’accordo". Rimasto solo, con calma, assaporando una sigaretta sul far della sera, che si prospettava molto limpida, ripensai a quello che mi aveva detto. Forse non aveva tutti i torti... Ma che ne sapeva Dan dell’amore? In fondo non si era mai innamorato. Come poteva comprendere? Decisi che non aveva capito niente. Ero troppo sbilanciato per os-servarmi dentro con un’ombra di obiettività.

XX Nei giorni seguenti il matrimonio di Elena il mio umore era in ca-duta libera, e io non potevo, né volevo far niente per fermarlo. Non aveva senso. Niente per me aveva senso. Tutto mi appariva opprimente e sfocato come in un incubo. Non mi importava più niente di niente, della mia vita, del mio fu-turo, di niente. Era andato male tutto troppe volte. Ero come un leone chiuso in gabbia che si avventa assurdamente contro le sbarre, carico di odio e di rabbia verso il mondo intero. Avevo solo un grande furioso desiderio di spaccare tutto. Non potevo continuare così, dovevo reagire. Avevo bisogno di sfogare quella carica di energia negativa. Decisi di andare in palestra. Quando arrivai era presto e non c'era ancora nessuno. Feci un po’ di corda; poi mi misi i guanti, mi piazzai davanti al sacco e comin-ciai a picchiarvi contro, sempre più forte, con tutta la forza che a-vevo, un pugno per ogni sbaglio, un pugno per ogni rimpianto, un pugno per ogni cosa che non andava. E colpivo e colpivo e colpivo. Il respiro diventava affannoso, ma continuavo a colpire. I muscoli mi si intorpidivano, ma continuavo a colpire, il cuore era impazzi-to e lo sentivo martellarmi nelle tempie. Il sudore mi colava negli occhi annebbiandomi la vista, ma continuavo.

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"Ancora, dài, ancora, dài! dài! dài! Avevo voglia di spaccare tutto. Cuore, spaccati, dài! bastardo, spaccati anche tu! così la faccia-mo finita! Dài, bastardo! spaccati, dài! Ancora, ancora, colpisci, COLPISCI, DÀI!". Continuavo a picchiare, ma solo la forza della disperazione mi so-steneva. Diventavo sempre più lento, le braccia sempre più pesanti. " FORZA DAI! Ancora, dài, ancora, dài! dài! dài! Un altro anco-ra... ancora..... ...ancora uno..... Non so per quanto tempo continuai così, ma andai ben oltre il mio limite. Non riuscivo quasi più a respirare. Mi appoggiai con la fronte al sacco mentre tiravo una serie di montanti e di ganci. ...ancora!... .... ...ancora!..... ........ ...ancora uno!..... ..... .........

Cominciavo a vedere nero ...le forze mi abbandonavano... ......... ancora! ...dai!... Abbracciai il sacco. Non respiravo bene. Cercai di aggrapparmici, ma scivolai giù. Vedevo tutto nero. Il cuore mi scoppiava in gola. La tempie martellavano. Mi sdraiai a terra. Rimasi a terra per parecchi minuti. Pian piano il cuore rallentò. Ricominciai a respirare. Finalmente c’era un gran silenzio dentro di me. Non c’erano più pensieri, solo silenzio. E pace. Finalmente. Pace... ..... .... .. Mi sollevai a sedere. Non era ancora arrivato nessuno. Mi alzai a fatica e mi trascinai sotto la doccia. L'acqua fresca lavava via il sudore, e assieme a quello se ne anda-vano gli avanzi della mia collera e della mia disperazione. Tutti i miei pensieri di prima mi sembravano adesso una follia in-

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comprensibile, come se mi fossi svegliato da un brutto sogno. Dopo la doccia rimasi a lungo avvolto nell’accappatoio, sulla pan-ca, curvo, svuotato, coi gomiti appoggiati sulle gambe. Poi mi rivestii e m'incamminai con la borsa sulle spalle verso l’auto, con passo incerto. Tornai a casa e mi sedetti a mangiare, assaporando distrattamente il cibo senza pensare a niente. Poi mi buttai sul divano e mi misi ad osservare un programma qualsiasi alla tivù, lasciando passare le immagini attraverso me senza trattenere nulla, come un vetro, fin-ché mi addormentai. Qualcosa però si doveva essere rotto davvero dentro di me. Nei giorni successivi non ero più depresso, non ero più triste, né angosciato. Mi stavo riprendendo. Non perché le cose effettivamente stessero andando meglio, ma perché, come una rivelazione, si era fatto lar-go in me un pensiero dalla potenza incredibile: la consapevolezza della futilità e dell'assoluta irrilevanza di tutto ciò che riguarda l'e-sistenza, il mondo intero, la mia stessa vita. Era il pensiero supremo e, nonostante non fosse nuovo, in quei momenti lo sentivo veramente con tutta la mia essenza, non come a volte accadeva quando me lo ripetevo stancamente senza con-vinzione. Aveva operato un cambiamento istantaneo di prospettiva. Tutto mi appariva differente e quei problemi che si chiamano denaro, don-ne, carriera, successo e che sembrano più indispensabili dell'aria, in quei momenti mi apparivano meschini e vani. La sofferenza stessa per la mancanza tali cose effimere mi sem-

brava completamente assurda, un vero e proprio auto-inganno. Siamo noi stessi ad inventarci e a coltivare questi desideri, e ci in-coraggiano a nutrirne fin da piccoli per vincere la noia e perché non ci colga mai il terribile, spaventoso pensiero dell'assurdità del-l'esistenza, che ristagna sempre nel fondo. Molto meglio rimanere in superficie, meglio gettarsi nell'azione, nelle cento piccole cose inutili, indispensabili. E non sarebbe criticabile se poi non finissero per prevaricare il proprio compito, così da sembrare lo scopo ultimo dell'esistenza, da perseguire a tutti i costi, e non soltanto un espediente... Assurdità dell'esistenza... Ma perché poi un pensiero terribile? Se l’esistenza non ha scopo, tutto è irrilevante, perfino l'esistere o il non esistere. Ma il vero dono contenuto nella rivelazione era che si poteva addi-rittura ricominciare da capo, perché se niente ha un senso, perde significato anche il problema del fare o del non fare. Si poteva persino ritornare esattamente alla vita di prima, ma con più calma e spirito più leggero, e finalmente ridato il giusto peso alle cose, finalmente liberi dal peso del "fare", poteva diventare pure piacevole, vivere. Allora si poteva restare in pace osservando passare le giornate, con serenità, senza più essere presi dalla smania di agire. Si poteva ritrovare la vita anche lì, proprio in quel momento, in quel luogo, ovunque si fosse... nei colori del cielo, nelle mille sfumature della luce, in ogni odore dell’aria, nel volo casuale degli insetti, nel semplice esistere, finalmente consapevoli dell’eterno movimento

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anche nell’apparente quiete. Mi sembrava così semplice in quei momenti. Credevo davvero che fosse facile perpetuare quel momentaneo stato di Grazia. Ma un simile pensiero non è facile da mantenere, quando tutti sembrano prendere le cose estremamente sul serio. Era solo un luminoso lampo, in mezzo all'oscurità della vita.

XXI

Finalmente dopo tanto tempo, ricominciai a sentirmi in armonia con l’esistenza. I miei pensieri correvano dietro alle rondini. Si libravano lievi e spensierati sulle loro ali, in un cielo vertiginoso d’un blu infinito. Sfrecciavano sui tetti rossi delle case, inseguendosi in spericolate acrobazie tra antenne e camini, sulla cima di antiche torri diroccate coperte di rampicanti, fino a dissolversi nel blu. E poi giù in pic-chiata con le ali tese, ebbre di velocità e di libertà. Era estate. Ancora estate. Un'altra estate. Le rondini collegavano con un esile filo quell'estate con le prece-denti e, anzi, come per incanto, mi sembrava che l’estate non fosse mai terminata. Era sempre stato caldo, sempre sole, luce e armonia e l’inverno era stato solo un brutto sogno. Il tempo trascorso non contava niente. Una sera io e Dan eravamo andati a cercare un po' di fresco in un chiosco di gelati sui colli. Una serata tranquilla senza pretese: un bel gelato, quattro chiacchiere e a dormire. Routine rilassante. Era una bella serata, i tigli in fiore spandevano il loro profumo lungo le strade della notte e le siepi erano colme di lucciole che scintillavano nel buio facendo il verso alle stelle.

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Ad un tavolino vicino a noi erano sedute due ragazze che inizial-mente non avevo notato. Una di loro era molto attraente. Aveva un'espressione sensuale con un piccolo neo all'angolo della bocca. Rimasi incantato a guardarla. Lei se ne accorse e mi buttò di sop-piatto un'occhiata maliziosa con un mezzo sorriso sulle labbra, mentre parlava con l’amica. Subito un turbinio di voci interiori mi affollò i pensieri. "Devi assolutamente conoscerla!". "Ma cosa le dico? " "Vai! Vai! Dì quel che ti pare, la prima cosa che ti viene in mente, ma vai! Non bisogna pensarci troppo, ricordati cosa ti diceva il tuo amico, non devi perdere l'attimo, qualcosa troverai, ma vai subito, accidenti! Altrimenti non la rivedrai più". Una volta tanto, detti ascolto al mio istinto e anticipai Dan, che era generalmente il trascinatore. Infatti notai che rimase un attimo sbalordito, anche perché troncai a metà un discorso. Ma Dan capi-va queste cose e non se ne offendeva. Mi alzai ed andai a sedermi al tavolino delle ragazze. Interruppero la conversazione e mi guardarono e si guardarono sorprese. Le sa-lutai e poi scossi la testa ridendo: "Bene... la verità è che stavo cercando un modo carino per attaccare discorso... Potrei provare a dire tante sciocchezze divertenti... però la verità, riassumendo...", dissi rivolto a quella che mi piaceva, "...è che mi piacerebbe cono-scerti..."

Che brutta partenza! Il disastro era quasi completo. La bella rispose con un mezzo sorriso canzonatorio, "Fai sempre così?" "No, solo quando c’è qualcosa che mi colpisce... C’è qualcosa in te che mi ha attirato... forse il tuo sguardo... o il tuo modo di sorridere... Mi sono detto: devo assolutamente cono-scere quella ragazza... ...be', comunque, io sono Enrico. Henry, se volete", dissi tendendo la mano. "Annalisa", rispose stringendomi la mano. "Marina", disse l'altra. A quel punto intervenne Dan, che presentandosi, rimediò alla par-tenza disastrosa. Tutto sommato l’approccio era andato, anche perché non c’è mai uno stile preciso: effettivamente la cosa veramente importante è cominciare. Poco alla volta, prendendo confidenza, un po’ ridendo, un po’ scherzando, la conversazione cominciò a fluire, aiutata anche dalla tiepida brezza rilassante della notte. Chiacchierando, venni a sapere che Annalisa frequentava l'ultimo anno di lettere. Fu una fortuna, perché cominciai a parlare di romanzi e di scritto-ri, senza fingere di essere interessato all’argomento. Mi fece una buona impressione, e anche io a lei, e alla fine non mi

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fu difficile avere il suo numero di telefono. Da quella sera iniziò un periodo agitato. Era parecchio che non avevo una ragazza, e fino a quel momento, non ne avevo conosciuta nessuna che mi interessasse o accendesse la mia fantasia. Associando questo alla noia, sapevo quanto fosse pericolosa la situazione, perché sono i tipici momenti in cui, alla prima un po' carina che conosci, finisci per prenderti delle perico-lose infatuazioni. Il meccanismo è semplice ed efficace: nei vari tempi morti, per renderti meno pesante l'opprimente nulla quotidiano, non fai altro che pensare a quella ragazza che magari ti ha semplicemente sorri-so un po' quella data sera. E a misura dell'incalzare della noia, pensi a lei sempre più spesso, aggiungendo toni di colore e abbel-lendo quelli che ha già, così che finisci per ridipingerla completa-mente con la fantasia, fino ad averne una bellissima immagine che purtroppo non corrisponde affatto all'originale. Sfortunatamente molto spesso l'innamoramento è solo un fatto strettamente personale. Dopo cominciano le sofferenze. Perciò nei brevi momenti di fredda lucidità, mi rendevo conto del pericolo, visto che pensavo a lei in continuazione. Le avevo telefonato il giorno successivo e c’eravamo messi d’accordo per uscire una sera di qualche giorno dopo. Gigler, mi aveva dato un consiglio da fabbro: "Il ferro va battuto finché caldo!". Sapevo quindi che il tempo giocava a mio sfavore ed il fatto che fosse passato qualche giorno, m’innervosiva.

La sera dell'appuntamento, quando passai a prenderla, ero emo-zionato come non mi accadeva da tempo, quasi un liceale al primo appuntamento. Ma quando la vidi venirmi incontro tutta sorriden-te, ancora più bella di come la ricordavo, mi calmai come dopo un sospiro. La portai in un locale all’aperto con un pergolato di glicine e di gelsomino che ci proteggeva dal vuoto vertiginoso del cielo sopra di noi. Non ricordo di cosa parlammo: ero assorto completamente nei suoi occhi. A volte sviava lo sguardo, un po’ imbarazzata per i miei sguardi forse troppo intensi. M’infuse speranza di piacerle. Un mio amico che se ne intende, sostiene che il momento più dif-ficile è quello del bacio. "Il successo sta nella scelta del momento giusto", diceva, "devi cercare di cogliere un luccichio fuggente negli occhi. Un brillio. Se lo vedi, è fatta! ". Perciò ero agitato da un'altalena di voci interiori che dicevano: "Baciala!". "No, non è il momento giusto" "Sì, invece!" "E dov’è il luccichio?" "Perderai l'occasione!"

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"No, è ancora presto!" Non so scelsi il momento più adatto, non so se vidi quel luccichio veramente o fu solo il riflesso di un’auto di passaggio, però ad un certo punto, non potendone più di quella tensione interiore e ap-profittando di un momento di pausa nel discorso, avvicinai il mio viso al suo e la baciai. Dapprima le sfiorai quasi le labbra e lei rimase immobile come una statua, tanto che temevo mi arrivasse uno schiaffo. Ma poi si rilassò e rispose al bacio. Seguirono altri baci più intensi, abbracci e carezze. Dopo, nel riaccompagnarla, rimanemmo ancora a lungo a baciarci sotto casa sua. Poi ci salutammo. Dapprima ero contento per la riuscita della serata, poi, a mente fredda, mi davo del cretino per non aver nemmeno accennato a chiederle di salir da lei. "Sì, va bene, diamo tempo al tempo, ci saranno altre volte". "Ah, sì, eh? Perdi pure del tempo! L’hai mandata a casa senza nemmeno provarci, non stai giocando bene!". Così mi diceva la mia voce interiore. La sera dopo mi telefonò e mi chiese se avevo voglia di andare a bere qualcosa in un locale dove suonavano jazz. Accettai e anche questa volta, mi limitai a qualche bacio e carezza, senza nemmeno allungare una mano. A mente lucida non mi pare-va vero di aver sprecato un’altra occasione.

La sera dopo le telefonai, ma, le dispiaceva, doveva andare ad una cena da amici di famiglia. "Ecco che ti ha scaricato! Hai perso troppo tempo. Te l'ave-vo detto, fesso!". Il giorno successivo ero nell'indecisione più totale. Pensavo: "Le telefono.. No è meglio di no, non puoi rischiare di apparire appiccicoso

Ma per una semplice telefonata? E’ come negli affari, il primo che parla ha perso!

Uffa, quante complicazioni! Ma non si può esser spontanei? Ci sono delle regole in queste cose, lo sai"... Continuavo a lottare tra di me in questo modo. Per fortuna nel pomeriggio mi telefonò per invitarmi a mangiar qualcosa a casa sua, visto che la sorella era via per il fine settima-na. Non stavo più nella pelle dalla contentezza, e la sera, appena mi aprì la porta, la abbracciai e la baciai senza nascondere la gioia di rivederla. Fu colta un po' di sorpresa, ma poi si lasciò coinvolgere dalla mia felicità. Fu un crescendo senza sosta: ci baciammo appassionatamente, ca-demmo sul divano, cominciarono a volare via camicia e reggiseno,

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e facemmo l'amore sul tappeto. Avevo troppa voglia di lei. Poi la presi in braccio e la portai in camera da letto. Mangiammo la cena, ormai fredda da un pezzo, a notte fonda, quando le nostre pance cominciarono a brontolare troppo. Poi tornammo a letto e ci addormentammo abbracciati. La mattina seguente mi svegliai prima di lei e rimasi a guardarla e riguardarla un po’ stupito: era parecchio che non mi capitava di svegliarmi con una ragazza accanto, e pure molto bella. Quando si svegliò rimase a lungo in silenzio a guardarmi negli oc-chi, sorridente. "A cosa pensi?", le chiesi. "A niente, così..." "Dài, dimmelo!" "Ma no, non è niente d'importante" "Su, avanti, dimmelo", le dissi, facendole il solletico. Cominciò una lotta sghignazzante e arruffata nel letto. "Va bene, va bene, mi arrendo" "Allora avanti!", Poiché esitava, le mimai il gesto di farle il solletico muovendo le mani come due granchi. La cosa la fece ricominciare a ridere.

"Dài basta!", disse con il viso imbronciato, "non vale, Uffa!" "Allora confessa!", dissi recitando con aria cattiva da aguzzino. "Va bene... va bene...” disse ridacchiando. “Non ero riuscita a capire che tipo fossi... Generalmente bisogna tenervi a bada le prime uscite, e non capivo se facevi il gentleman... oppure …" "Oppure…?" "…se eri il tipico bravo ragazzo" "In che senso bravo ragazzo? Cosa volevi che fossi, un criminale?" "Ma no! Dai, il tipico bravo ragazzo... insomma ...nel senso di quello che piace tanto alle mamme… ma non alle figlie..." "Eh???" "Ma sì, dai ...quello che non allunga mai una mano perché ti ri-spetta.... e che appena conosciuta vuole sposarti, fare tre figli, e metterti ai fornelli...". "Azz!... un vero incubo! Ti avevo fatto un’impressione così? Però!..." "Cioè, all’inizio eri venuto da me spavaldo... insomma ti eri pre-

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sentato in un certo modo... e poi... boh, non riuscivo a inquadrar-ti..." "E adesso che impressione ti ho fatto?" "Da bravo ragazzo che piace alle mamme… no!". "E da gentleman? " "Solo finché non ti sale il sangue alla testa. Sei un po’ troppo ca-liente per esserlo davvero". "E ti dispiace? " Mi baciò sorridendo: "No, no, nient’affatto". Dopo quella sera ero proprio spacciato. Generalmente dopo aver fatto l'amore una prima volta con una ra-gazza, mi calmavo. Con lei fu diverso. Ormai pensavo a lei in continuazione e non ve-devo l'ora d’incontrarla. Aspettavo tutto il giorno l'ora dell'appun-tamento e studiavo male. Non desideravo altro che vederla, mi ba-stava anche solo tenerla per mano, passeggiare con lei. Avevo infranto tutti i miei propositi di prenderla con calma e di pensarci bene prima di farmi coinvolgere in una nuova relazione. Ma non mi importava. C'erano dei piccoli gesti di lei che mi facevano impazzire, come ad esempio quando si pettinava i capelli con la mano dietro ad un o-

recchio. In quei momenti avrei voluto abbracciarla così forte da fondere in-sieme le cellule dei nostri corpi. Così il mio spirito tornò a volare in alto, molto in alto, sempre più su. Sapevo che prima o poi mi sarebbe toccata la pena che ha sempre colpito tutti quelli che hanno voluto volare troppo in alto e troppo vicino alla luce... Ma non m'importava, pensavo che fosse sempre meglio qualche giorno di luce abbagliante in mezzo a giorni bui, che un'uniforme grigia monotonia. Ed ero pronto a rischiare anche l'oscurità.

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XXII

Luglio, col canto delle cicale che quietava lo spirito e rendeva più ampio il cielo, aveva riportato la pace e l’armonia. Il sole in quei lunghi pomeriggi torridi sembrava stiracchiarsi, sba-digliando in preda ad un languido torpore, come il mio gatto rosso all'ombra del ciliegio. Passavo i pomeriggi sull'amaca a sonnecchiare e a bere birra ghiacciata, ascoltando vecchi blues. Annalisa mi raggiungeva ver-so sera, appena finito di studiare, si sdraiava sull'amaca di fianco a me, e restavamo abbracciati a dondolarci. Non mi preoccupavo più degli esami, né del tempo che scorreva inesorabile, né del mio futuro. In quei momenti non pensavo a nul-la e credevo di aver raggiunto un buon equilibrio tra l'esistere ed il non esistere. Un sabato, inaspettatamente, mentre ero in giardino sull'amaca con Annalisa, nel languore del dopopranzo, arrivarono Dan e France-sca. Quando li vidi, alzai la testa semiaddormentato e strabuzzai gli oc-chi cercando di mettere a fuoco meglio. Ero molto sorpreso di ve-derli arrivare insieme: credevo che fossero mesi che non si senti-vano. Li salutai goffamente e non riuscivo a smettere di guardare l'uno e l'altra interrogativamente. Ridacchiavano divertiti per la mia espressione assonnata e stralu-

nata, che non nascondeva il mio stupore. "Sì, siamo proprio noi, non fantasmi!", disse Francesca. "Mi fa piacere vedervi, ragazzi. Ero solo un po' addormentato". Presentammo le ragazze, che, stranamente, si trovarono simpati-che. Soprattutto Annalisa non era molto socievole con le altre donne. Passammo buona parte del pomeriggio a chiacchierare piacevol-mente all’ombra del giardino. In città si moriva dal caldo e dall’umido, ma lì sotto le fronde del ciliegio soffiava una brezza delicata che ti sembrava di rinascere. La compagnia di alcuni buoni amici... un po’ di birra ghiacciata... la frescura del verde: mi sentivo davvero in sintonia con la vita. Mi persuasi definitivamente che la chiave della felicità sta nelle cose semplici. "Si sta proprio bene qui”, disse Dan, “Era un po’ che non ci vede-vamo e mi ero quasi dimenticato di quanto era bello stare assieme. Perché non andiamo in vacanza tutti insieme?". "Grande idea!", dissi io. "Perchè no?", rispose Francesca. Guardai Annalisa. "Per me va bene", disse. "E dove andresti?", chiese Francesca

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"Boh?", rispose Dan. “Si potrebbe...” "Aspetta che vado a prendere un atlante", dissi. Tornai con una carta dell’Europa. "Che ne dite della Spagna?" "No, Spagna, no. Troppo casino d’agosto!". "Corsica?" "Bella!" "Sì, però ci vorrebbe una barca". "Uè, adesso! E chi ce l’ha?" "Si potrebbe affittare..." "Bisognava organizzare prima" "Già..." "Andiamo in auto che è meglio". "Si vede che non conosci le strade". "Cos’hanno le strade?"

"Sono strette, piene di curve e di strapiombi. Sarebbe meglio an-darci in moto" "Ad averla..." "Vabbè, niente Corsica. Peccato, perché è bellissima: mare e mon-tagna in pochi chilometri. Sui monti ci sono chiazze di neve anche d’estate. E dalla monta-gna vedi il mare a due passi!". "Allora Sardegna?" "Sì, ad agosto... auguri! Avremmo dovuto prenotare il traghetto tre mesi fa... E poi c’è troppo casino ad agosto. Molto meglio a giugno o a settembre" "Però è sempre bella" "Ci sono già stata dieci volte" "Turchia?" "Dev’essere bella, ma è troppo in là". "Sì è un po’ in là effettivamente..." "Allora.... Grecia!" "Grecia..."

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"Perchè no!" Grecia... Al pensiero fui avvolto dalla nostalgia. “È dalla fine del liceo che non ci vado... Quanti ricordi... Sembra un’altra vita... proprio un’altra vita... ...un bar sulla spiaggia... alla fermata degli autobus... .. c’era una tettoia in riva al mare... Suonavano sempre vecchie canzoni ...Hey Jude!... Yesterday... ...quanto tempo... ...non mi sembra nemmeno di averle vissute io, ‘ste cose... Quanti amici che non vedo da tanto..." "Ecco che Henry è partito coi suoi ricordi!" "Vabbè, come non detto. Però per me va bene, rivedo sempre vo-lentieri la Grecia" "Anche per me va bene" "Idem" "Allora vada per la Grecia!" "In Grecia... ma dove?..." "Beh, se non vogliamo usare l’auto, è meglio andare su un’isola. Là ci si può muovere facilmente con delle moto in affitto o in au-tobus..."

Alla fine scegliemmo un’isoletta dell’Egeo, non lontano da dove ero stato alla fine del liceo. Ci imbarcammo per la Grecia un giorno di fine luglio, entrando subito, come d'incanto, in un'altra dimensione. Ci lasciammo alle spalle il caos e lo stress della vita di città, i nostri abituali modi di pensare, le nostre remore, le preoccupazioni. Per l’ennesima volta compresi quanto sia importante viaggiare per staccarsi dai pensieri ricorrenti, triti e ritriti e vedere che appena dietro l’orizzonte ci sono altre possibilità. Viaggiare è Vita. Rin-novamento. Guardi oggetti nuovi, paesaggi nuovi, facce nuove, con aria stupita, come ritornare bambini, quando tutto appare novi-tà e le cose non sono ancora catalogate in categorie ordinate, né ricoperte di polvere e di noia. E al ritorno appaiono in una luce nuova anche le vecchie cose di sempre, alle quali avevi fatto l’abitudine e davi troppo per sconta-te. L'isola, appariva poco più di un rossastro scoglio brullo, dove sul granito rosa levigato dal vento, spuntavano radi cespugli bruni e gialli in mezzo a tanta luce. Sulla cima della collina un paesino di case saracene, imbiancate a calce, sembrava una spruzzata abbacinante di neve. Attorno un mare d'un blu così scuro da sembrare nero, che mutava in toni di celeste tropicale sui fondali bassi in prossimità della riva. Il maestrale caldo e teso increspava di spuma bianca la sommità

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delle onde e il rovente sole virile ondeggiava sull'acqua sprizzando riflessi gioiosi. La luce schietta e pura accendeva forti chiaroscuri. L’aria era così tersa che il cielo era viola, quasi come ad essere nello spazio. Su un versante protetto dell'isola crescevano ulivi argentati che di-gradavano dolcemente verso una baia di acqua calma e azzurra di trasparenze tropicali. I campi erano divisi da bassi muretti a secco che confinavano greggi di pecore e buffi somari apatici che ap-poggiavano il muso sul muro ad osservarti con le orecchie basse. Trascorrevamo le ore più calde in riva al mare sotto una tettoia di canne intrecciate su cui si arrampicava un'allegra buganvillea vio-letta. Sulle rocce attorno, i fichi d'india e le agavi fiorite si proten-devano nel blu. C’era grande intesa tra noi. Dan e Francesca sembravano aver riallacciato bene la loro relazio-ne. Io e Annalisa andavamo a mille. Le ragazze avevano fatto amici-zia. Era un bel periodo, uno dei migliori della mia vita. Tutto era per-fetto, armonia, purezza: avevo la mia ragazza, una bella ragazza che mi amava, due buoni amici, era estate, faceva caldo, c'era il mare con i gabbiani alti nel cielo, le rondini e le cicale. Era il mio momento. Mi sentivo sereno e nella giusta sintonia con l'esistenza. Un pensiero prese forma in me: che la vita potesse trovare un si-gnificato nel vivere momenti come quello. Raccogliere e collezio-nare momenti belli, completarne l'album, fare della mia vita, nella memoria, un'opera d'arte, una specie di quadro a cui continuare ad aggiungere toni di colore ed abbellimenti, perché non sorga mai il dubbio di non aver vissuto.

Ma un pensiero che dipende dalle cose possedute è estremamente instabile, perché ne subisce le alterne fortune. Mi sono rimaste tante fotografie di quei giorni. Ma ora che è pas-sato tanto tempo, che male che fa riguardarle! Che nostalgia e che malinconia!... Ogni tanto ci riprovo, le osservo e, poco a poco, quel paesaggio entra in me e mi assalgono tutti i vecchi ricordi. Vedo quegli ulivi, quegli alberi di fico e quella luce buona che trapela dalle fotogra-fie: un vecchio marinaio dalla barba bianca che riposa in una car-riola di legno con un fiore dietro all'orecchio, due asini tristi legati ad un fico nel polveroso sole del mezzogiorno estivo, Annalisa che ride alle smorfie che faceva Dan per farla sorridere e la foto con l'autoscatto di noi quattro sulla spiaggia, mentre cerchiamo di dar-ci un contegno, trattenendo le risa. A volte vorrei poter entrare e vivere in quella fotografia, arrestare la mia vita a quel giorno d'estate in riva al mare con Dan, France-sca, e Annalisa, diventare anch'io immagine come gli altri, così che, guardando la foto, si vedrebbero sempre soltanto quattro ami-ci, eternamente insieme.

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XXIII

L’estate finì con venti freddi e umidi e temporali violenti che am-mutolirono le cicale. Giunse settembre, le giornate si accorciarono rapidamente e si riti-rarono fuori le giacche e le felpe. Mi sentivo in un’atmosfera da fine delle vacanze scolastiche, quando ti rendi conto che l’estate è ormai un ricordo e ti riattendo-no i compiti e le interrogazioni. Pensavo a come era cambiata, da quei lontani giorni, la prospettiva da cui osservavo il mondo. Fare la cartella, architettare strategie per evitare le interrogazioni, inventare nuovi scherzi, l'agitazione per i compiti in classe, i festeggiamenti per gli scioperi dei profes-sori. Tutte cose che mi sembravano distanti anni luce. Non riuscivo più ad immedesimarmi in quella mentalità, tanto che a volte non mi sembrava nemmeno vero che mi fosse appartenuta. Inavvertitamente nella vita si cambia, anche se non ce ne accor-giamo. I pensieri trasmutano continuamente, cambiando la nostra percezione del mondo. Solo la mia nostalgia non è cambiata mai. Già al tempo della scuo-la, sul finire delle vacanze, percepivo un'atmosfera da anni che passano, la parte più bella e fresca della vita che si dissolve e sva-nisce. Mille inquietudini mi riassalivano, come un improvviso accordo minore al culmine d'una gioiosa sinfonia.

Però, al rientro in classe, era bello rincontrare i vecchi compagni e le ragazze segretamente amate, che studiavamo attentamente per vedere se fossero diventate più donne... un po' più di seno, una curva più accentuata, un trucco più aggressivo... e per capire se avessero avuto qualche amore durante le vacanze. Poi c'era sempre l'incognita dei nuovi compagni e dei nuovi pro-fessori. Purtroppo, in generale, non avevamo nemmeno la parvenza d'un rapporto umano con gl’insegnanti. Si sentivano molto superiori, ti guardavano con aria di sufficienza e non si poteva assolutamente contraddirli, nemmeno quando erano in torto evidente. Ricordo con piacere solo il professore di filosofia, un simpatico omino con due baffetti neri e occhi azzurri e vispi che si smarriva nei suoi profondi interminabili monologhi parlando di Nietzsche. Mi sarebbe piaciuto incontrarlo per fare una partita a biliardo e be-re un bicchiere tra un discorso e l'altro come un tempo. Ma chissà dov'era... C’eravamo persi di vista qualche anno dopo il liceo. Peccato. Ci pensavo spesso. Era un uomo di grande cultura ed era sempre piacevole conversare con lui. Sapeva prendere la vita con ironia e ridacchiava sempre sotto i suoi baffi. Ci fermavamo spesso a chiacchierare, e seguendo il filo delle sue riflessioni, i grumi dello spirito si dissolvevano e l'animo diventa-va più leggero. Si entrava in una dimensione diversa da quella quotidiana, eppure parallela e coesistente , ma molto più profonda, anche se fuggevole. Ho sempre dentro di me l'eco di tanti discorsi fatti insieme. Sì, come diceva lui, la vita è proprio una gran puttana: paghi per ogni cosa che desideri e spesso molto di più di quel che vale. La paghi nelle notti malinconiche per sentirti meno solo, e ti vende

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speranze e fumo che sale a volute dalle sigarette. Una mattina ti alzi, e vedi che se ne è già andata, portandosi dietro una valigia di sogni... Ma il liceo era ancora il tempo delle grandi speranze. Suonavo la chitarra e le giornate trascorrevano con aria da sabato pomeriggio. Cantavo qualche canzone che avevo scritto per la ragazzina di cui ero segretamente innamorato. Sognavo ad occhi aperti mille avventure che avevano me e lei co-me protagonisti. Sognavo che sentendo le mie canzoni si innamo-rasse perdutamente di me. Ma quando suonavo ero sempre solo... L’avevo conosciuta alle scuole medie. Chissà come sarebbe cam-biata la mia vita se fossi riuscito a baciare quella ragazzina... E' da allora, da quel momento, di fronte ad un campo rosso di pa-paveri in un mare di grano dorato, sotto le fronde d'un albero mos-se da una leggera brezza, è da quell'istante preciso che ho conser-vato un marchio, una specie di difetto di costituzione che non sono più riuscito ad eliminare completamente. Mi vedo là, in un giorno di fine primavera, il momento alto, sospe-so sopra il campo di grano, fissato in tutto quell'azzurro del cielo, una nota di diapason che già vibra ed aspetta solo di essere suona-ta. Una pausa nell'universo, il tempo fermo per un istante... Un battito di cuore... ...e l'attimo che se ne fugge per sempre... E' in quel momento che forse si è giocata la sorte della mia vita sentimentale, in un campo di grano, in un giorno di quasi estate. Ma in verità, è errato dire abbia vissuto quell'attimo. Molti mo-menti, non appartengono realmente al presente, perché la loro im-

portanza e profondità tolgono il respiro e non ci si riesce a rendere conto che si stanno vivendo davvero. E mi continuo a rivedere in una replica infinita: lei che abbassa gli occhi e allontana il viso, si alza e se ne va, ed il momento che pre-cipita rantolando con fragore di specchi rotti, in un'agonia senza rimedio. In confronto, la prima volta che ho fatto l'amore con una ragazza, è stata una sciocchezza. Successe tutto all'improvviso: ci siamo incontrati su una spiaggia d'agosto, ci siamo piaciuti, abbiamo passeggiato un po' tenendoci per mano, ci siamo baciati e abbiamo fatto l'amore in una grotta in riva al mare. Mi sembrò una cosa bella e normalissima, come se l'avessi fatto da sempre, e la cosa che mi stupisce di più è che non ero affatto sorpreso. Poi ognuno è tornato alla propria strada e non ci siamo incontrati mai più. Non so chi fosse quella ragazza, non ricordo il suo nome, né il suo volto... Due ore d'amore in un giorno d'estate, tutto al-l'improvviso, dopo aver sognato e immaginato mille volte come sarebbe stato... Il destino o il caso, che dir si voglia, ha veramente degli ineffabili sentieri con delle variazioni di ritmo improvvise. E nella vita sono tanti gli avvenimenti di cui non riesco a montare i pezzi, come se avessero confuso i fotogrammi di più film e non si riuscisse a ricostruire una storia. Gli anni del liceo erano gli anni leggeri, non c'erano seri problemi: ma i giorni volavano con una rapidità preoccupante. Già allora quando li vivevo, li rimpiangevo, perché li sentivo passare in fretta e sapevo che mi sarebbero mancati. Presto ci saremmo divisi per altre strade, anche se volevamo credere che avremmo continuato

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ad uscire insieme per sempre. Credo che se tutti avessero sentito quello che sentivo io, sarebbe successo davvero. Invece bastò un solo anno dopo il liceo per perdersi del tutto. Alcuni di tanto in tanto li rivedevo, ma posso dire che non ne rico-noscevo nessuno. Quelli che avevo conosciuto io erano scomparsi per sempre, tra-volti dal fiume della vita ad inseguire sogni più adulti, molto più bassi e meno splendenti, e già si facevano ricoprire da un alone grigio di polvere ed inutilità.

XXIV

Alla fine di settembre quando già qualche foglia cominciava a staccarsi dagli alberi ed il sole indugiava in lenti tramonti rossi, Antonella ricomparve all'improvviso come era solita fare. Sentii suonare alla porta e me la trovai davanti. "Ciao Henry, come va?" disse semplicemente, dopo mesi, abbrac-ciandomi, come se ci fossimo visti il giorno prima. La strinsi a me e rimanemmo abbracciati per un po’. Poi piegò in-dietro la testa e mi guardò a lungo negli occhi in silenzio. Avvici-nò il viso al mio e mi baciò sulla bocca. Si staccò da me di colpo. “Che c’è che non va?” Mi baciò di nuovo. "Non sei contento di vedermi? Sei freddo come il ghiaccio! Allora è vero che hai un’altra!... Stavolta ti sei innamorato davvero... Non t'importa più niente di me?...Eh? Non t’importa più niente di me?", disse, accarezzandomi il viso.

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"Lo sai, che ti voglio bene... ma..." "E allora cos'é che non va?", disse riavvicinandosi a me, con aria maliziosa, "E' davvero tanto carina?". Mi prese il viso tra le mani e mi baciò. Non risposi al bacio. Si staccò da me con uno scatto di stizza come se l'avessi morsa e mi guardò con aria furiosa. "Antonella..." riuscii appena a dire, che mi aveva già voltato le spalle e se ne andava sbattendo il cancello. "...ANTONELLA... ASPETTA!! ". Salì sulla macchina e se ne andò. "Anche una pazza, mi doveva capitare! CAZZO!", dissi tra me e me, scuotendo la testa. Nei giorni seguenti provai a telefonarle, ma era sempre occupato. Pensai che sarebbe stato meglio non insistere ed aspettare un po'. Dopotutto non avevo fatto niente di male: era lei la lunatica, mica io. Passarono un paio di settimane. Un pomeriggio Dan mi telefonò per invitarmi ad una festa a casa sua. "Bravo hai avuto un’ottima idea Dan!"

"Beh, a dire il vero..., non è stata una mia idea...” “E di chi...?” “...è stata un'idea …di Antonella". "Antonella?" "Sì" Capii che era il suo modo di fare pace. La sera della festa eravamo una cinquantina di persone e con pia-cere incontrai molta gente che era parecchio che non vedevo. Mi intrattenei un po' a salutare il tal ed il tal altro. Poi, non veden-do Antonella, approfittai d'una pausa della conversazione per al-lontanarmi e domandare a Dan dove fosse. "Sul terrazzo", mi indicò col pollice. Uscii sul terrazzo. L’aria era fresca e un po’ umida. C’era un sentore di aria buona, pulita. Si vedevano le luci di tutta la città: insegne rosse e blu, lucine gialle, semafori, un aereo che passava in lontananza ammiccando. "Antonella" Si voltò. Mi guardò con aria imbarazzata.

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"Ciao, Henry" Ci abbracciammo forte. Restammo in silenzio. Un silenzio che diceva tante cose. "...ho visto la tua ragazza...è davvero molto carina...". Mi staccai a guardarla. Aveva gli occhi lucidi. "Sai, l'altra volta, ...non..." "Ssssh", le dissi mettendole un dito sulle labbra, "non fa niente", la riabbracciai e le baciai la fronte. C’era una sirena in lontananza. Si strinse forte. Lacrime le rigavano le guance. Cercava di trattenersi, ma ogni tanto singhiozzava. Un’auto curvò a tutta velocità facendo stridere le gomme. "Su! Smettila adesso, che mi metti in imbarazzo". "Ok", disse con un sospiro. Parlammo un po’ del più e del meno. Ad un certo punto uscì Dan. "Allora Henry, come va?" "Bene!, bella festa Dan! C’è un sacco di gente che era tanto che non vedevo..."

"Eh sì, se non si creano queste occasioni, finisce che passano i me-si e gli anni senza vedersi mai". "Eh già... Il tempo passa... quasi impercettibile... ma giorno dopo giorno..." "...♫ la vita se ne va... ♪", cantò Dan con aria poco seria. "Già... proprio come nella canzone." Sorrise. "Vabbé, ragazzi adesso devo andare a cambiare musica", e tornò dentro. Ci fu una pausa mentre Dan al microfono salutava e ringraziava tutti per aver partecipato. Seguì un applauso. "Grazie, grazie! Adesso, per un attimo, cambiamo genere... ...Questo brano lo dedico a due cari amici..." Dalla sala giunsero le note d'un tango. "Ascolta! Un tango! Nessuno sa ballare di là... Questo l’ha messo Dan per noi! Dan... è unico!.. Ti va di ballare, Anto?". "Ma no, devo far paura..." "Macché, sei a posto".

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"Sicuro? Devo avere una faccia..." Le sorrisi e le allungai un fazzoletto. "Di là è così buio che nessuno si accorgerà di niente. Vieni". "Ma la tua ragazza non sarà gelosa?". "Per un tango?". "Ma non ha mai visto come lo balliamo noi". "Andiamo", le dissi sorridendo. Il tango faceva parte della nostra storia stessa. Ci aveva fatti cono-scere, ci aveva unito e ci aveva accompagnato... La sua musica nostalgica e profonda ci riconduceva ad una dimensione celata dell'esistenza, che traspariva solo in alcuni rari momenti. Nella sala le luci erano basse, ma nessuno ballava. Qualcuno già mormorava per il cambio imprevisto. Quando ci mettemmo al centro della sala, abbracciati guancia a guancia, tutti ci guardarono sorpresi : erano pochi a sapere che sa-pevamo ballare il tango. C’era un violino leggero.... un crescendo scivolato... Lei abbrac-ciata a me, guancia a guancia, descriveva piccoli cerchi sul pavi-mento con un la punta d’un piede... Seguendo la musica i nostri passi presero a muoversi lentamente. Una pausa, quasi il silenzio.... Il lamento malinconico d’un bando-neon lontano.

Stavamo abbracciati dolcemente con movimenti appena accenna-ti... La quiete si spezzò. Il ritmo cominciò ad incalzare. Percorrevamo la sala ad ampi passi con continui controtempi. I nostri piedi si cercavano, dapprima con amore, poi bisticciavano. Ora i violini e il bandoneon violentavano l’armonia... La gamba di lei scattava indispettita verso l'alto scalciando l'aria sotto la mia gamba... L’allontanavo e tornavo a trarla a me. Quando finimmo abbracciati teneramente guancia a guancia sull’ultima nota che dissolveva, scoppiò un applauso. C’inchinammo al pubblico improvvisato. Annalisa venne da me così stupita che non sapeva se far una sce-nata o no. La anticipai presentandole Antonella. "Ah, è questa la famosa Antonella..." "Sono famosa?" "Sì, ho sentito parlare di te ..." disse con le mani sui fianchi. "Parlare bene... spero...", rispose Antonella. Annalisa frenò un sorriso un po' velenoso e non rispose. "Non mi avevi mai detto che sapevi ballare il tango", rivolta a me.

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"Ci siamo conosciuti a lezione di tango", le rispose Antonella con un sorriso fasullo. "Ciao, adesso devo andare, ci vediamo", disse con un sorriso mali-zioso, accarezzandomi teneramente una guancia, con civetteria. Dentro di me, mi scappava da ridere per questi scambi di simpatia tra donne, ma sapevo che Annalisa non l'avrebbe presa con spirito. Per fortuna intervenne Dan, vecchia volpe, che avendo capito la situazione, chiamò Annalisa a cantare al pianoforte, distraendola e scongiurando scenatacce.

XXV

Ad ottobre, sotto un cielo uggioso, Dan e Francesca si lasciarono un’altra volta. Francesca riprese l’abitudine di venire da me a confidarsi, a chie-dermi di Dan, a piangere a volte. Ci incontravamo quasi di nascosto, perché Annalisa, da quando Francesca non stava più assieme a Dan, era diventata molto gelosa di lei, anche se per me era solo un’amica. Si prendono degli atteggiamenti veramente assurdi in nome della gelosia. Più ci ripenso, più mi convinco che sia figlia più del desi-derio di possesso e dell’istinto di territorialità, che dell’amore. Francesca aveva ricominciato con i soliti pensieri e discorsi dell’inverno prima. Tutte le volte che veniva da me, mi chiedeva sempre le stesse co-se. "Sono brutta?", mi domandava piagnucolando, "eh, Henry? E’ perché sono brutta?" E io le ripetevo ogni volta, accarezzandole la testa : "No, non sei affatto brutta, anzi, sei una ragazza molto attraente e desiderabile". E non lo dicevo solo per consolarla, lo era davvero. Poi riprendeva : "Allora perché Dan fa così? Non capisco dove ho

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sbagliato..." "Non hai sbagliato niente, Francesca. E’ il suo carattere". "Ma ci sarà un motivo!". "No, è il suo temperamento. E’ un solitario, un uomo libero che non ama i legami. Si comporterebbe allo stesso modo anche con la ragazza più bella del mondo". Poi ogni volta provava a tirarmi fuori delle informazioni riservate. "Tu le hai viste le ragazze che frequenta adesso?" "No". "Ma ha un’altra?" "Senti, ti posso dire soltanto con certezza che non ha nessuna sto-ria seria in giro". Un giorno venne da me in lacrime. "Cos’è successo stavolta?". "Ho rivisto Dan", disse, asciugandosi delicatamente il margine in-feriore degli occhi per non stingere il trucco. "E...?".

"Ci siamo incontrati ieri sera, mi ha telefonato lui". Ci fu una pausa dove la si sentiva trattenere il pianto. "Vabbé, vai avanti!". Fece un’altra pausa e ricominciò a singhiozzare. "Cos’è successo insomma?". Cominciava a trasmettermi l’agitazione. "Siamo usciti insieme..." "Bene, sono contento! Ma perché piangi?" "Ma non capisci? Sono una cretina. Mi ero ripromessa di control-larmi, e invece... gli sono caduta tra le braccia come una scema". "Continuo a non capire il problema...". "Chissà che idea ha di me. Ormai mi considererà la ragazza più facile che ci sia!.. Sta senza farsi sentire per settimane, poi mi ritelefona, e io ci vado a letto! Che cretina! Non riesco proprio a controllarmi con lui. Sai come si diverte ad esercitare il potere che ha su di me! Basta che schiocchi le dita e io gli corro dietro. Chissà come parla di me ai suoi amici! Ormai mi considererà una troietta, una di quelle troiette che conosce in giro per locali e si porta a letto per una not-

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te..." E continuava a piangere. "Senti, Francesca, Dan non è il tipo. Non va in giro a vantarsi delle conquiste fatte. E poi, al massimo, si vanterebbe delle nuove con-quiste. Tu non sei una nuova conquista...." Non sapevo bene cosa dire per consolarla, né dove volevo arriva-re. Infatti ne uscì una difesa un po’ ingarbugliata di Dan. In ogni caso penso che il solo fatto di parlare, e che ci fosse qualcuno che l’ascoltava, le facesse bene, a prescindere dai consigli. "Secondo te, perché Dan fa così, perché ritorna, poi se ne va, poi torna di nuovo...". "Non lo so. So solo che non l’ha mai fatto con nessun’altra, nem-meno con Antonella. E’ uno dei suoi cardini, di cui va fiero : "Non sono mai tornato due volte con la stessa ragazza", ha sempre det-to. Secondo me ti vuole bene, anche se non vuole ammetterlo. Do-vrai avere molta pazienza..." Sospirò forte. Dopo essersi ripresa un po’, mi chiese : "Cosa pensi di me? Che sono una stupida? Che mi comporto come non dovrei?". "Penso solo che tu sia innamorata, e ti comporti come si comporte-rebbe qualsiasi ragazza innamorata", le dissi sorridendole con te-nerezza e accarezzandole una guancia. Mi abbracciò teneramente, più serena, ora che le avevo dato

l’assoluzione. "Grazie, Henry. Sei un vero amico. Non ti ringrazierò mai abba-stanza. Vengo sempre ad annoiarti con i miei problemi..." "Non mi annoi". "Sei fin troppo gentile con me". "Siamo amici, no?". "Sì. A volte quando le cose vanno male e comincio a farmi una pessima opinione degli uomini, mi ricordo di te e mi passa..." "Uau!! Se vuoi c’è la chitarra. Puoi farmi anche una serenata, già che ci sei!..." Cominciò a ridere. "Che sciocco!... Era solo per dirti che ti voglio bene", disse ab-bracciandomi.

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XXVI

Dopo un’estenuante, interminabile attesa, alla fine arrivò. Ripensandoci non ci furono grandi indizi rivelatori... Era una serata come tante... ...Dan suonava nello stesso locale come tutti i mercoledì: solito pubblico, solita selezione di canzoni famose, alternate a pezzi suoi... soliti applausi... Un tipo che era stato silenzioso in un angolo tutto il tempo, a fine serata si fece avanti e gli fece un mucchio di elogi e di complimen-ti. Gli fece molte domande su di lui e sulle sue canzoni. Alla fine si presentò e disse che lavorava per una casa discografi-ca. Così, dopo anni ed anni di attesa, dopo innumerevoli serate a suo-nare in piccoli locali, dopo aver inutilmente parlato con cento im-presari, dopo avere riempito cartelle di canzoni, si sbloccò una si-tuazione che sembrava senza uscita. Come spesso avviene, una volta che si è finalmente riusciti a parti-re, il resto accadde molto rapidamente. A metà inverno festeggiammo l'uscita del primo disco. Poi partì per una tournée promozionale in varie città, con un pub-

blico che ad ogni appuntamento cresceva. Fu un grande successo. Dan era a mille, forse un miliardo. Raggiungere lo scopo principale che ci si è prefissi nella propria vita conferisce una coerenza ed una solidità interiore che non ha eguali. Dan era sempre sorridente, disponibile, sempre carico. Dava il massimo. Mi dispiaceva vederlo sempre più di rado, ma al tempo stesso ero molto felice per il suo successo. Seguivo sempre le sue notizie sui giornali e alla televisione. Mi faceva uno strano effetto ascoltare per radio quelle canzoni che avevo sentito suonare nei locali dove lavorava, o quando eravamo tra pochi amici. Ogni volta che ci vedevamo gli dicevo le stesse cose. “Hai visto Dan!?! Hai visto che ce l’hai fatta!?! Ce l’hai fatta!!”, ero veramente felice per lui. Era come se fosse capitato a me. Era una fonte di grande meraviglia e di gioia. Vidi coi miei occhi il sogno di un uomo diventare realtà. Vidi che era davvero possibi-le. Avevo udito molti racconti di seconda mano di gente che aveva avuto successo dopo infinite difficoltà, ma Dan era un esempio concreto, proprio sotto gli occhi, che la possibilità di successo al di là di ogni pronostico, esiste davvero. Anch’io per riflesso mi sentivo pieno di possibilità e di opportuni-tà. Sognavo in grande e la mia vita fluiva in armonia. Scavalcavo facilmente i momenti grigi. Il mio spirito si librava alto nel cielo come un grande aquilone. Era un momento di Grazia. Ero grato per questa vita.

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Non era un sentimento che mi era consueto. Normalmente mi sembrava di subirla, così come capitava. Ma ora mi pareva di avere ancora una tela vergine da poter colora-re e dipingere a piacimento. Mi sembrava che tutto, proprio tutto, fosse ancora possibile.

XXVII Durante la primavera e l’estate successiva io e Dan ci incontram-mo solo tre, quattro volte in tutto, e solo per poche ore, giusto il tempo per due chiacchiere veloci parlando del più e del meno. Io ed Annalisa ci vedevamo tutte le sere e restavamo in casa da so-li. Anche se ciò era contrario ai miei principi, ero andato progres-sivamente ed inavvertitamente isolandomi, chiudendomi sempre più in un rapporto di coppia. L'autunno che seguì fu molto cupo e piovoso e trascorse senza grandi accadimenti. Ripensandoci, quei mesi volarono via come se avessero fatto frusciare rapidamente il calendario tra il pollice e l'indice. Ricordo solo che ci furono due lauree e il battesimo del figlio di un amico, e poi delle percezioni fuggenti colte qua e là ...la scala dei miei nonni pervasa dall'odore del vino nuovo che saliva dalla cantina ...i fumi delle caldarroste nelle strade, la brina scintillante nei prati... l'odore dei clementini tra le bancarelle nelle precoci se-re autunnali ...il piacere di entrare a casa di Annalisa al caldo, do-po aver passeggiato sotto i portici nel buio piovigginoso e ovattato dalla nebbia, e di sdraiarmi sul divano con lei sotto una coperta. Della primavera successiva ricordo solo che fu molto piovosa, quasi un prolungamento dell’inverno. Nelle poche giornate di sole i narcisi ed i tulipani fiorirono e sfiorirono rapidamente come in immagini accelerate.

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Finalmente venne la buona stagione, anche se non riuscii a goder-mela più di tanto, visto che ero impegnato a preparare gli ultimi esami. Solo a settembre riuscimmo a trascorrere una settimana al mare insieme, io e Dan. Andammo a sud dove l’estate era ancora intensa e resisteva all’avanzare dell’autunno. Rispetto a dove abitavamo noi sembra-va di essere ancora in pieno agosto. Alloggiavamo in un grande hotel su una scogliera a picco sul ma-re, ormai spopolato a fine stagione. Si stava veramente bene poiché il caldo afoso era diminuito e le spiagge erano semideserte. Le giornate erano più corte, ma ancora molto luminose. C'erano sere incredibilmente tiepide che si ab-bandonavano a lunghi tramonti rossi e arancio sul mare. Dal salone dell'albergo, si accedeva ad una grande terrazza, appe-na sopra le chiome dei pini del giardino, da dove si vedeva tutta la baia. C'era un grande pianoforte a coda, e a volte verso sera, Dan si met-teva a cantare i tramonti nella brezza delicata che veniva dal mare. Nell'albergo erano rimaste solo alcune coppie di vecchi turisti te-deschi vestiti di bianco che si fermavano ad ascoltare, composti e silenziosi, e alla fine applaudivano soddisfatti. Un giorno mentre camminavamo sulla spiaggia deserta nel tardo pomeriggio, guardando i gabbiani sul mare e la sera che soprag-giungeva rapida da est, mi disse con aria pensierosa: "Passa in fretta, eh?".

"Cosa?" "Tutto". "Meglio così", gli risposi, un po' cinicamente, mentre facevo salta-re dei sassi sull'acqua, "se no ci annoieremmo a morte". "Sì, forse hai ragione. Ma mi sembra tutto così veloce... troppo ve-loce. Non c'è tempo per ragionare, per capire..." "Non c'è niente da capire”, risposi lanciando un sasso, “Tutto è e-stremamente semplice. Siamo solo noi che complichiamo le cose e cerchiamo significati anche dove non ci sono", dissi lanciando con forza un altro sasso. Non disse niente. Si accese un sigaretta, si sedette su una barca ro-vesciata e continuò a guardare i gabbiani. Era stranamente taciturno. Sembrava preoccupato. Ormai lo cono-scevo, sapevo che aveva i suoi tempi ed i suoi ritmi per affrontare i discorsi. Pensavo che avrebbe dovuto essere contento: le sue canzoni e la sua carriera stavano andando a gonfie vele. Attribuii il problema a un po’ di stanchezza accumulata durante la tournée. Infine, azzardai : "Che c’è Dan?" "Come?" "Cosa c’è che non va?"

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"Niente" "E allora? Stai lì serio e pensieroso. Non sei contento? Tutto sta andando bene" "Dici?" "Ma certo. Stai avendo un successo davvero insperato". "Sì, ma per quanto?" "Cosa?" "Quanto pensi possa durare?". "Non so, sei appena all’inizio..." "Mah?... Ho ben presente gli scaffali di dischi anche degli autori più famosi, con sopra due dita di polvere... Non mi faccio illusio-ni. La polvere inesorabilmente ricopre tutto... E già è una fortuna se avviene dopo che sei morto. Pensa a quanti autori osannati e acclamati dal pubblico come degli dèi sono finiti nel nulla dopo qualche stagione soltanto. E le nuove generazioni non ne hanno mai sentito parlare. Ne ho conosciuto vari personalmente. Fanno una pena... Non hanno più un pubblico. Nessuno li ascolta più. Immaginati a passare in un bar in un giorno d’estate, e all’improvviso sentire per radio la propria canzone.... e tutti i ri-cordi e i sogni di gloria svaniti... Magari alcuni sono quasi in mise-

ria... Sono peggio di pugnalate. Meglio per loro se fossero morti nel pieno splendore ". "Ma succede anche a quelli che non sono stati famosi, Dan! Ci so-no canzoni che sono pugnalate e sono sovraccariche di ricordi an-che senza averle scritte di persona. Rimangono legate inscindibil-mente a periodi della propria vita e rammentano anni ormai passa-ti, ragazze perdute, sogni caduti ... tutto quello che avrebbe potuto essere e non è stato..." Mi guardò e mi sorrise. "È la vita che è così", continuai, "Tutto passa. Anche noi... Ogni successo è destinato al fallimento. Anche la più grande vittoria, anche la più grande guerra vinta è destinata ad essere persa. Lo sappiamo fin dall’inizio, ancor prima di combattere la battaglia. È per questo che ci appassioniamo tanto alle vittorie degli eroi. Per-ché sappiamo che inesorabilmente sono degli sconfitti come tutti noi, nonostante i loro grandi trionfi. Sono destinati ad essere scon-fitti dal tempo e dagli anni. La vecchiaia incombe su di loro e la polvere li aspetta implacabile. Le nostre vite finiscono. Non ci vogliamo pensare, non ne voglia-mo diventare consapevoli, ma lo sappiamo bene nel profondo. Sia-mo uomini... soltanto uomini... inesorabilmente destinati alla sconfitta. Il tempo ci passa come in un tritacarne. Di noi non reste-rà nemmeno la polvere... Eppure andiamo avanti, andiamo avanti lo stesso. Il nostro urlo arriverà fino al cielo. Si commuoveranno fin lassù, prima o poi. Se c’è qualcuno, lo faremo piangere..."

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Mi guardò serio. Mi accesi una sigaretta. Sbuffai fuori il fumo. "Comunque, ogni cosa a suo tempo! C’è un momento per ogni co-sa. Le cose vanno godute quando ci sono, finché ci sono. Ora è il momento di festeggiare. Sei appena all’inizio Dan, non ti avvele-nare anche questi momenti" Mi appoggiò una mano sulla spalla, sorridendo. "Sono contento di essere in vacanza con te". "Anch’io" risposi con una pacca sulla schiena. "Andiamo a bere qualcosa".

XXVIII

Durante l’inverno uscì un nuovo album di canzoni di Dan che eb-be subito grande successo. Per il resto, non ci furono avvenimenti degni di nota. Da tempo avevo smesso di andare a ballare, di uscire alla ricerca di divertimenti e non facevo più nemmeno tardi. Piano piano ave-vo perso lo slancio del cacciatore. La mia vita aveva acquisito una regolarità insolita. Mi alzavo al mattino, facevo colazione, studiavo, pranzavo, tornavo a studiare, cenavo e alla sera andavo da Annalisa. È proprio nella consuetudine e ritualità quotidiana che la vita se ne va un giorno in fila all’altro. Tra lavoro, famiglia, portare a spasso il cane, e innumerevoli altre piccolezze, la vita si dissolve inavver-titamente. Gli esempi attorno non sono di grande aiuto. La gente vive di abi-tudini, avanza per inerzia, senza sapere il perché di ciò che fa. Forse non c’è davvero niente da capire. Eppure non mi abbando-nava la maledetta sensazione, che dovesse esserci qualcosa di più, sotto sotto. Ad ogni modo, mi ero adagiato e tutto sommato mi trovavo bene nella vita che conducevo. Credevo di aver trovato un buon equili-brio tra i miei desideri e la realtà. Era solo quando mi fermavo a guardarmi indietro che mi prendeva un senso d’inquietudine per il tempo già trascorso.

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Ma cercavo di non farci troppo caso, mi rigiravo e guardavo avan-ti. L’unico vero cambiamento fu che a inizio primavera finalmente mi laureai. Da un certo punto di vista fu una liberazione. La mia lunga vita da studente volgeva finalmente al termine. Stavolta si scriveva davve-ro la parola fine ad un periodo della mia vita che forse era durato fin troppo. In un certo senso ero contento. Ma al tempo stesso ero preso dall’inquietudine. Si apriva una nuova fase, piena d’incertezze. Mi sarei dovuto cercare un impiego, e avrei dovuto cambiare comple-tamente modo di vivere. Sapevo bene che il lavoro trasforma la vita e modifica la prospet-tiva. Finché ero studente potevo sognare liberamente... ma ora... ...ora finiva il tempo dei sogni...

Cominciava la realtà. Ma alla realtà che mi si prospettava e che vedevo concretizzarsi nella vita delle persone attorno a me, non ero affatto sicuro che sa-rei riuscito ad abituarmi. E il mio aquilone cominciava rapidamente a perdere quota... Un giorno che sentiva l'estate arrivare e la pioggia aveva lasciato il posto al sole e al profumo dei fiori, rividi Dan. Parlammo del più e del meno, come un giorno qualunque. Però notai che aveva un'aria inquieta. La attribuii alla stanchezza che lo

accompagnava in quel periodo stressante di concerti. “Dimmi Dan, ti vedo inquieto... cos’è che non va?” Si accese una sigaretta. Aspirò una boccata di fumo come per rac-cogliere i pensieri. "Sono perplesso... Ti ho mai parlato della mia compagnia di amici d’un tempo?". "Sì, me ne hai accennato..." Era sempre stato evasivo al riguardo. Capivo che c'era stato qual-cosa di spiacevole. "Era la mia compagnia storica... C'eravamo conosciuti da bambini. Abitavamo nello stesso quartiere alla periferia della città. Abbia-mo fatto la scuola assieme, abbiamo amato le stesse ragazzine... Siamo stati compagni di monellate... dalle battaglie a colpi di cer-bottana... alle gite al fiume di nascosto... dai primi motorini fregati ai fratelli maggiori... alle automobili sottratte ai genitori senza a-verne l'età, per fare i freno a mano sulla neve fresca..." Sorrideva con nostalgia quando ne parlava. "Quando eravamo più grandi facevamo delle scorribande a caccia di ragazze in giro per i locali di tutta la regione... Che casini che abbiamo combinato! Cose da film! Ci divertivamo un sacco. Che ricordi!...

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Insomma siamo cresciuti insieme. I miei amici avevano la passione delle auto e delle moto e nel gruppo non si parlava d'altro. Io amavo la musica. Trovavamo un interesse comune soltanto nelle donne. Su quello andavamo perfettamente d'accordo", disse con aria iro-nica. "Sì, insomma c’erano delle differenze, ma si stava bene insieme lo stesso. L’amicizia prendeva il sopravvento”. Poi divenne più serio. "Però una cosa che non ho mai sopportato sono i comportamenti contrari all'amicizia. Se c'era qualcuno che non si comportava be-ne, glielo dicevo chiaramente in faccia... Ma la lealtà è raramente apprezzata se, pur dicendo cose vere, dice cose sgradevoli... E' più apprezzato quello che, pronto ad assecondarti, ha sempre un sorrisetto falso sulle labbra, anche se poi magari ti frega quando meno te l'aspetti. E così, vengono preferiti quelli che fanno i sim-paticoni, anche se alla fin fine non sono amici di nessuno. Forse ero eccessivamente severo, troppo polemico, però per me l’amicizia è una cosa seria. Perciò, a volte dicendo quello che pen-savo, davo fastidio. Così col tempo è finita che mi chiamavano di meno per uscire, ed è capitato addirittura che cambiassero programma senza nemmeno avvertirmi. Una volta che se ne sono andati senza aspettarmi, ho deciso di smettere di frequentarli. E nessuno si è più fatto vivo... Così, amaramente, ho capito che avevo sognato ad occhi aperti e

l'amicizia era stata solo un'illusione... Nessuno si è più fatto sentire per quasi quattro anni. Fino a ieri... Ieri uno di loro mi ha telefonato. Sono rimasto così sorpreso dopo tanto tempo che non sapevo cosa dire... Proprio non me l’aspettavo più... Mi ha invitato ad una festa per sabato sera ...una rimpatriata con tutti i ragazzi... Ho risposto che non sapevo se sarei riuscito a liberarmi dagl'impe-gni. Ora, la domanda è questa: perché mi hanno telefonato? Vogliono vedermi solo perché un pizzico di celebrità ha colorato la mia vi-ta? Oppure che alla fine abbiano sentito nostalgia, nostalgia di noi, e del passato trascorso insieme?..." Si accese un'altra sigaretta. "Che dici, devo andare?" "Ma sì", gli risposi, "anche a me è successa una cosa simile con amici che non rivedevo da anni. Ricordi? Te ne ho parlato. Anch'io avevo delle perplessità ed ero molto disilluso, ma ti posso assicurare che mi hanno fatto una grande festa e c'era un'atmosfera nostalgica e commossa il giorno che ci siamo rincontrati. Ogni tanto accadono anche i miracoli. E' stata davvero una sera indimenticabile, una di quelle rare volte che traspare l’animo umano. Poi ciascuno è ritornato alla propria vita, come prima... Ma è stata una serata incantata. Forse i tuoi amici si sono ricordati quali siano le cose davvero im-portanti".

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Sorrise. "Ma sì hai ragione, forse è davvero il mio momento... Forse tornano perfino vecchi amici che credevo perduti..."

XXIX Dan mi chiese di accompagnarlo alla festa dei suoi amici di un tempo. Era nel parco d'una elegante villa sui colli, non lontano da dove ci eravamo conosciuti qualche anno prima. Quando arrivammo la festa era già iniziata da parecchio, e tutti rimasero sorpresi perché pensavano che ormai Dan non sarebbe più arrivato. C'era un certo imbarazzo tangibile nell’aria e tutti si limitavano a salutarlo, a sorridere e a chiedere come va? Poi, come se si fosse cambiato tempo e scena, cominciarono a par-lare e scherzare normalmente, quasi si fossero visti il giorno pri-ma. Il mio senso di discrezione mi fece allontanare e rimanere un po' in disparte a bere e a mangiucchiare qualche tartina, osservando la gente che ballava. Ogni tanto gettavo un'occhiata a Dan che parla-va coi suoi amici. Passati i primi momenti vidi che le espressioni per un po’ si fecero più serie. Ma poi tornarono a sorridere. Credo che avessero semplicemente deciso di passare sopra tutto, più che cercare di spiegare i perché, come è meglio fare in questi casi. Non so come mai queste cose accadano, ma accadono, anche con i veri amici. Forse fa parte dell’innata difficoltà degli esseri

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umani a volersi bene. D'un tratto vidi Francesca, agitata, che mi veniva incontro. Era parecchio che non la vedevo e l'incontro non poteva essere ca-suale... Ci eravamo sentiti alcune volte per telefono e sapevo che l'ultima volta che aveva rotto con Dan, si erano lasciati male. Gliene aveva dette di tutti i colori. Poi ovviamente passata la sfuriata, se n'era pentita e non sapeva più che fare. Telefonargli sarebbe stato umiliarsi troppo. Io stesso la sconsigliai di farlo: l'orgoglio è sempre meglio lasciar-lo perdere, non ha mai dato buoni frutti, ma la dignità ci vuole. E' una forma di rispetto verso se stessi. Non si erano più sentiti fino a qualche sera prima, quando le aveva telefonato per chiederle se andava alla festa dei suoi amici che e-rano anche amici di lei. Gli aveva risposto che aveva degli impegni e non sapeva se sareb-be riuscita a liberarsi. In realtà era già stata invitata alla festa, ma non sapeva che ci sarebbe stato anche lui. Mi accorsi che era molto agitata. Salutandola, la abbracciai per farle coraggio, poi quando si fu un po' rilassata, la accompagnai da Dan. "Guarda un po' chi c'é, Dan". "Ciao Frenci", disse con un sorriso. "Ciao Dan", rispose con voce un po’ incerta ed un mezzo sorriso imbarazzato. La baciò sulle guance.

Francesca non resse più, e gli si buttò tra le braccia con gli occhi lucidi. Stavolta ero troppo coinvolto dalla storia perché la discrezione po-tesse prendere il sopravvento. Sentii spezzoni di frasi: "...sai non volevo...", e lei, "... perché fai così?... ". Gli altri si erano allontanati ed evitavano di passare di là. Io ero troppo contento e non mi sfiorò nemmeno il pensiero di es-sere di troppo. Avevo sempre pensato che fossero una bella coppia. Credo che Dan alla fine avesse capito che, per quanto negli alber-ghi, durante la tournée, le ragazze non gli mancassero mai, l'amore era un'altra cosa. Quelle erano attratte da lui come falene e cercavano solo la luce che gli splendeva attorno. Lei lo aveva amato quando ancora non era nessuno, per quello che era e aveva sofferto per quell'amore. Forse era l’unica che lo aves-se davvero conosciuto e capito. Questo la rendeva diversa e supe-riore a tutte le altre. "Mi ami ancora?" le chiese guardandola negli occhi bagnati dalle lacrime, col rimmel stinto che le rigava le guance. Lei si ributtò tra le sue braccia e ricominciò a piangere "Certo, scemo! " e non smetteva di singhiozzare. "… sai che sono fatto così... per me la libertà...." A quel punto me ne andai. Passeggiando per il parco, più tardi, da lontano, vidi che si bacia-

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vano. La festa aveva raggiunto il suo culmine. Più tardi, Dan e Francesca mi vennero incontro. Lei mi salutò ab-bracciandomi e baciandomi una guancia col viso stanco e segnato dalle emozioni della sera. Dan andò a salutare i suoi vecchi amici e poi tornò a salutare me. Era raggiante, ma i suoi occhi mi facevano un po’ paura, sembra-vano spiritati. "L'apice", disse, "l'apice, Henry, l'acuto che non si può tenere a lungo..." Sul momento non capii, pensavo che parlasse di musica, e mi limi-tai ad annuire. "Grazie, Henry, sei un amico", mi disse abbracciandomi e dando-mi delle pacche sulla schiena. "Anche tu Dan sei davvero un grande amico, il migliore!" Rispose con un grande sorriso raggiante. Poi più serio, con un sor-riso un po' malinconico, mi disse: "Ciao Henry, non ti dimenticare mai di questa sera. I miracoli accadono davvero, come hai detto tu”. Mi strizzò l'occhio e mi appoggiò una mano sulla spalla. Poi se ne andò senza voltarsi indietro. Accese il motore e l'autoradio, par-tendo a grande velocità. Mi mordevo le labbra mentre se ne andava, ero perplesso, qualco-

sa mi preoccupava nel suo modo di fare...

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XXX Era una valle scura. Un uomo tentava disperatamente di salire su un pendio viscido di fanghiglia, stentando ad avanzare. Si arram-picava affannosamente con tutta la forza della disperazione. In fondo, da una caverna stava uscendo un drago color verde marcio con occhi malvagi e fiammeggianti, e un ghigno feroce sulle fauci. Gli aveva quasi afferrato una gamba, quando giunse sulla cima. Sull'altro versante cominciò a scivolare velocemente sul ventre lungo un ripido fosso sdrucciolevole. Cercò di rallentare, ma non ci riuscì. Precipitò con un salto in un fiume d’acqua scura. La cor-rente lo travolse per minuti interminabili. Annaspando, riuscì a raggiungere la riva. Dalla sponda si estendeva un vasto prato su cui in lontananza si ergeva un’antica torre diroccata. Si trascinò fino alla torre. All’interno c'era una scala di legno peri-colante, senza parapetto, che saliva a spirale. Cominciò ad arram-picarsi. I vecchi scalini gemevano e si deformavano. Era quasi in cima, quando un gradino si schiantò. Si aggrappò disperatamente ad un appiglio, penzolando nel vuoto con uno sforzo immenso, ma sentiva che stava cedendo. Poi un suono improvviso... una specie di allarme...

...forse...

Il telefono. Mi svegliai di soprassalto, sudato, con un sapore di ferro in bocca. “Pronto?...” “...Henry? Sono Anto...” “...Dimmi Anto... che ore sono? ...che c’è?... Che è successo?...” “:..Henry, c’è stato un incidente...” “...che incidente?... come stai?...” “....Bene, bene... io sto bene ...non so... mi hanno telefonato che c’è stato un incidente... Forse è Dan...” Saltai in piedi. “Arrivo subito!...” Mi vestii rapidamente e mi precipitai in auto. Era poco prima dell’alba e c'era un buio da incubo. Tremavo dal freddo e dall'agitazione. Non riuscivo a scaldarmi. Passai a prendere Antonella. Mentre ci dirigevamo sul luogo dell'incidente mi raccontò che le aveva telefonato un amico che era stato alla festa della sera prima e, tornando a casa, aveva visto tutto un andirivieni di pompieri e di polizia che lo avevano incuriosito. Stavano cercando di tirar su da

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una scarpata una macchina tutta bruciata ed ancora fumante che temeva fosse la spider di Dan. Pregavo che fosse un falso allarme. Mi sembrava di vivere un in-cubo peggiore di quello di prima. Ma quando arrivammo sul posto e la polizia ci mostrò la targa del-l'automobile, staccatasi nell'impatto, capii che ogni ulteriore spe-ranza sarebbe stata vana. Il conducente procedeva a velocità troppo elevata, perdendo il controllo della vettura. Precipitava in una scarpata dove il veicolo si incendiava. Non vi sono altri veicoli coinvolti. Non risultano tracce di urti o di frenate. Si ipotizza un colpo di sonno... Questo secondo la ricostruzione della polizia. Ma la spiegazione non mi soddisfaceva... io conoscevo Dan e sa-pevo che guidava bene. E poi se ne era andato via presto, senza nemmeno bere... Non so... ho ripensato infinite volte a quella sera... Ricordo il suo sguardo spiritato... la frase che mi aveva detto pri-ma di partire "..l'acuto che non si può tenere a lungo..." E conti-nuano a risuonarmi nella mente le parole che Dan mi disse una se-ra: "Pensa se la vita finisse in un giorno di grande splendore, pri-ma che ridiscenda l'oscurità. In quegli ultimi istanti ti sembrerebbe di aver sempre vissuto in una luce continua senza ombre..." "Quand'ero al liceo", aveva proseguito, "tra i miei primi maldestri

tentativi di scrivere canzoni, ce n’era una di cui ricordo pratica-mente solo la fine... Diceva: "...e prima di sera, soffiar la luce d'un fiato, fiamma di candela al vento...” Bisognerebbe finire così, nel massimo splendore... un soffio di vento e poi più nulla..." No, non ho mai creduto ad un semplice incidente... Quella sera si era sentito veramente in armonia con la vita, con gli amici, con Francesca, era nel pieno splendore del successo... Quanto poteva durare?... Dopo forse solo il ricordo di fugaci giorni di gloria in mezzo al grigiore o all'oscurità, il baluginare di una lanterna rimasta indietro e non più raggiungibile, la luce di una stella estinta da tempo che continua assurdamente ad arrivare dal passato, e tanta venefica no-stalgia... In quei momenti, di fronte al pensiero del destino dell'uomo, della brevità e fuggevolezza dell'esistenza, che rende insensato assume-re atteggiamenti intransigenti, aveva perdonato tutto a tutti, e in ultimo, cosa più difficile, anche a se stesso. Aveva capito che siamo tutti assillati e travolti dai nostri piccoli problemi che distorcono la nostra visione del mondo, i nostri at-teggiamenti e le nostre azioni, così che ciascuno è sommerso da questa mole più grande di sé e costretto a scelte spesso indesidera-te, che però non si riescono ad evitare. Era un momento di grande armonia. Nell'ebbrezza della velocità e dell'esistere, la morte deve essergli apparsa come qualcosa di nien-t'affatto spaventevole, ma anzi come qualcosa di desiderabile, co-me nella fuga d'una orchestra all'apice di una grande sinfonia che cerca il silenzio vibrante dopo l'ultimo accordo fragoroso.

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L'oscuro abisso vertiginoso ed inebriante deve averlo chiamato con voce imperiosa dal fondo del precipizio al di là dell'ultima curva, in un modo a cui sarebbe stato impossibile resistervi. Allora, mentre un rapido pensiero fuggiva sotto il cielo stellato, inseguendo per l'ultima volta i ricordi, con un ultimo stridore di acciaio e di vita, il silenzio invocato scese su di lui...

XXXI Ci furono vari trafiletti sul giornale e qualche servizio in televisio-ne con immagini di repertorio. Per qualche tempo per radio non trasmisero altro che le canzoni di Dan. Avevo addirittura staccato la spina del televisore per evitare di ac-cenderlo per sbaglio. Poi gli articoli sul giornale si diradarono, le canzoni alla radio fu-rono trasmesse sempre meno, e il mondo cominciò presto a dimenticare. Ma io avevo dappertutto oggetti che mi ricordavano Dan e mi fa-cevano star male. Ormai quando entravo in casa non sapevo più dove guardare: evitavo la foto sulla credenza di noi quattro al ma-re, in camera da letto il poster di un concerto, distoglievo lo sguar-do dai dischi sulla scrivania. Era questo il dilemma: ricordare? E sentirsi male? Aveva senso? Cose finite e lontane nel tempo che non sarebbero state mai più... Dimenticare, cancellando e perdendo anni della mia vita per torna-re a sopravvivere? Un pomeriggio reagii con rabbia a quel senso di malinconia e di nostalgia insopportabile, mi feci forza e raccolsi i dischi di Dan, le fotografie fatte insieme, i poster, le riprese video nonché altri og-getti e ricordi e ne riempii un baule. Lo caricai in auto e mi diressi verso il cassonetto dell’immondizia.

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Ma quando fui là davanti, mi prese una gran malinconia, ancora più forte, al pensiero che, prima o poi, tutti i cocci di una vita fini-scono in una discarica. Rimasi al volante di fronte al cassonetto, indeciso per un gran pez-zo. Pioveva, le lacrime di un giorno grigio come una vita senza ricor-di. Ticchettavano le gocce sul vetro, come un mormorio di vecchie memorie inquiete. No, non era ancora tempo... Sospirai, feci manovra e tornai a casa. Trascinai il baule su in soffitta e lo seppellii in mezzo a vecchie bambole della nonna, antiche macchine da cucire, le gabbie dei canarini del nonno. Assieme all’uniforme da soldato, gli stivali e la gavetta della Grande Guerra, a vecchi album delle colonie d’Africa, ad un manichino da sarta, agli spartiti di mio zio, agli scritti del nonno. Vicino all’albero di Natale finto che non facevo da anni, alle lucine natalizie, al bue, l’asinello e Gesù bambino. Accanto alle mie macchinine, al leoncino di pezza che mi aveva regalato mio padre, alla collezione di conchiglie e di farfalle. Vi-cino ad un vecchio crocefisso, dietro la vecchia macchina da scri-vere del nonno, tra vecchi libri polverosi, bauli pieni di corredi della mamma, ereditati dalla bisnonna. Tra vecchi lampadari av-volti in giornali ingialliti con notizie e previsioni del tempo inutili, e pubblicità di marche dimenticate... ...di fianco ad un vecchio giradischi, alla collezione di riviste di animali e di viaggi, ai vecchi quaderni delle elementari, ai libri del liceo. Tra vetusti abiti in naftalina...

Sorrisi riguardando tutte quelle cianfrusaglie. L’intera storia mia e della mia famiglia in oggetti. Pensai che là sarebbero stati in buona compagnia e sarebbero stati bene. Richiusi la botola della soffitta e finalmente ebbi un po’ di pace.

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XXXII La relazione tra me ed Annalisa durò un altro anno. Tutto era andato ad ali spiegate piene di vento per lungo tempo, con molti alti e pochi bassi; poi, senza una ragione precisa, il no-stro legame si sfibrò. Non saprei dire il perché: in queste cose non è sempre facile capir-lo. I segni rivelatori non furono grandi sfuriate o incompatibilità evi-denti, ma piccole inquietudini, silenzi più duraturi, un solco, dap-prima un segno leggero, che andava aprendosi tra di noi, anche se forse non volevo vederlo ed attribuivo tutto questo solo ad un po' di stanchezza passeggera, dovuta alle vicissitudini della vita. Una domenica di primavera eravamo in giardino. Stavo leggendo un libro sull’amaca, godendomi il tepore del pomeriggio. Annalisa era taciturna e ogni tanto sbuffava in un sospiro. I silenzi diventavano pesanti, e io, presentendo guai, non chiedevo niente. Stavo così bene! Una grande pace mi avvolgeva. Una mite dome-nica di sole in giardino sull’amaca, dopo una bella grigliata. Una birra fresca... una buona lettura... che altro di più? Ma Annalisa bolliva come una pentola. Le donne sono abilissime a costruirsi degli inferni di pensiero...

...poi cercano di gettarci dentro anche gli altri...

Altro sospiro. Che pazienza che ci vuole... perché non può starsene in pace come me, e lasciarmi in pace? Facevo finta di non accorgermi di niente. Non avevo voglia di di-scussioni soprattutto durante la fase digestiva del dopopranzo. Allora si decise a parlarmi. "Henry?" "Henry...". Lungo silenzio. "...io non posso continuare così..." Ci siamo... Smisi di leggere "???" "Così non va" "Cosa?" "Tra noi ...tra me e te"

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"Cos’è che non va?" "Ti sembra che vada bene?" "A te no?" "Quindi va bene secondo te?" "Perché, secondo te cos’è che non va bene?" "Insomma, smettila di rispondere a domande con domande!" "Cosa dovrei dire?" "Insomma, rispondi!" "Ma a cosa?" "Insomma, ti ho chiesto: ti sembra che le cose vadano bene tra noi?" "Ma sì, normale. Secondo te non va bene?" "Secondo me, no". "Perché?" "Non lo so... mi sembra che sia diventato tutto più... più..." "Più?"

"Non so... più piatto..." "Perché "Piatto"? Non stiamo bene qui? C’è il sole, è domenica, ci siamo fatti una bella grigliata... Cos’è che non va?" "Non so... mi sembra che le cose siano cambiate..." "In che senso?" "Non so... non si fanno più progetti..." "Non ne abbiamo già parlato delle vacanze?" "Ma no, tra noi, intendo dire..." "Che progetti?" "Mi sembra che non ci sia più quell’entusiasmo dei primi tempi..." "Beh, non so... le cose non possono sempre andare a mille... Ci sono delle fasi più alte e altre più tranquille..." "Sì, se capita dopo vent’anni... ma se siamo messi in questo modo dopo così poco tempo, cosa sarà tra dieci anni?" "Tra dieci anni? Non so nemmeno se sarò vivo domani!... figurati tra dieci anni!". "Ecco, vedi come sei, tiri sempre fuori dei discorsi assurdi!"

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"Quali discorsi assurdi? È vero: chi può dire cosa sarà domani? Bisogna vivere al presente, che è certo, non al futuro che è un’incognita" "E allora che vuoi fare? Tiri a campare? Vaghi senza una meta, senza obiettivi? Vuoi vivere alla giornata?" "No, a dire il vero, sto provando a vivere all’istante. Vorrei prova-re a vivere momento per momento. Ma non mi riesce bene come vorrei. Continuo a pensare al passato e al mio futuro, anche se mi sforzo di non farlo". "Mi sembra che ti riesca benissimo, invece!". Stetti in silenzio. Bevvi un sorso di birra e ripresi a leggere il libro. "Gli anni passano. Non possiamo continuare a vivere come dei ra-gazzini. Non possiamo andare avanti così. Bisogna che pensiamo anche al nostro futuro... Bisogna che ci chiariamo le idee su cosa vogliamo fare..." Così magari riesci a capire meglio di cosa stai parlando!, pensai tra me e me. "Forse è meglio se non ci vediamo per un po’... ...magari stando un po’ da soli riusciamo a capire meglio la situa-zione "

Uffa che pazienza.!!!.. le donne sono campionesse di rottura di coglioni quando ci si mettono!!!! "Allora che dici?" "Che devo dire? Hai già deciso tutto tu!" "Perché fai così?" "Così come?" "Perché la prendi così?" "???" "Quindi?" Quindi, come si dice in francese: Foute moi la paix! Che pazienza! Che pazienza!, pensai tra me e me. Non sono mai stato il tipo da fare scene madri. Può darsi che con qualche bella frase ad effetto da telenovela, pronunciata con aria drammatica, sarei riuscito a toccare il suo sentimentalismo: le donne apprezzano sempre queste commedie. Ma non è mai stato il mio stile. Inoltre continuavo a pensare che fosse soltanto un tipico capriccio femminile passeggero, magari legato al ciclo... e che le sarebbe passata presto. E poi, forse, ero un po’ stanco anch’io.

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"Come vuoi, Annalisa. ...se credi che sia bene così..." Stette un attimo abbandonata sulla sedia, poi scosse la testa, si al-zò, raccolse le sue cose, mi salutò di sfuggita e se ne andò. Finalmente un po’ di pace: tutto quel che desideravo in quel mo-mento. Forse non compresi bene il senso di quel che stava accadendo. Il sole stava tramontando su una domenica che era cominciata tran-quilla ed era finita quasi in litigio. Mi misi l’animo in pace e decisi di lasciare passare un po’ di tem-po: volevo che riflettesse davvero e si schiarisse le idee. Così, mi dedicai alle cose che avevo un po’ trascurato e ricomin-ciai a frequentare di più i miei amici. Provavo uno strano senso di libertà, come non mi capitava da tempo. Sì, forse un po’ di assenza ci avrebbe fatto bene. I giorni passavano e si accumulavano. Credevo ormai che fosse il solito gioco a chi resiste di più senza sentire l’altra. Infine i giorni, in fila uno dietro l’altro, divennero settimane. Un sabato, visto che la cosa andava per le lunghe e il gioco mi a-veva stancato, le telefonai. Mi accolse molto freddamente. Le chiesi come stava, parlai per un po’ del più e del meno, mentre mi rispondeva a monosillabi. Quando esaurii gli argomenti, visto che non mi veniva in aiuto, ma anzi c’erano pause glaciali dall’altra parte, affrontai la situazione direttamente. "Insomma, hai deciso che non ci dobbiamo vedere più... Eh?"

"Enrico... Non ho visto nessun miglioramento da parte tua..." "Ma quale miglioramento? Cosa devo migliorare?" "Te l’ho già detto: ti sei spento, non hai più entusiasmo, né vitali-tà". "Beh, adesso stai esagerando. Tutto in un colpo, non va più bene un cazzo! Sono io che adesso non capisco più te!!". "È da un pezzo che non mi capisci più". "Senti Annalisa, se vogliamo discutere di niente... ...non so nemmeno esattamente di cosa stiamo discutendo..." "Sì, infatti vedo che non vuoi capire..." Tutto questo mi stava venendo a noia. Mi cresceva dentro una grande nausea, mista ad un senso di fastidio e di stizza. Basta, basta! non avevo più voglia di tutte queste farse da donna. Scene viste e riviste, in una ripetizione infinita, monotona e tedio-sa. Con le donne a un certo punto non va più bene un accidenti e più ti dai da fare e t’impegni per migliorare le cose e per assecon-dare i loro desideri, o meglio, i loro capricci, e peggio va. Ti fai un mazzo così, e poi tutto va a puttane lo stesso. No, non avrei più fatto gli stessi errori. Una coppia va sostenuta in due. "Vabbé Annalisa, io non ci sto capendo un cazzo! E ti dirò che ho

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anche esaurito la pazienza! Quando hai voglia di parlare coeren-temente e se hai voglia di chiarire le cose tra noi, mi telefoni, ma prima è meglio che ti schiarisci le idee, ok?" "Schiarisci le idee? Io le idee le ho chiarissime! Sei tu che non hai le idee chiare!" "Vabbé, adesso non riusciamo a comunicare. Pensa a quel che ti ho detto, e quando hai voglia di parlarmi, mi chiami tu. Adesso ti saluto" Riagganciai. Passò altro tempo, ma non si fece viva. La chiamai un paio di volte senza trovarla e le lasciai dei messaggi in segreteria. Ma non mi richiamò. Ancora una volta restai sorpreso da quanto velocemente si tra-sforma un “Grande Amore”. Ripensai a tutto quello che avevo vissuto con lei i primi tempi, tut-ti i progetti, tutti i sogni... Partiti con miraggi d’eternità...

...e tutto rapidamente nell’immondezzaio.

XXXIII Ormai niente mi tratteneva più lì. Non avevo più legami e i soliti luoghi mi erano divenuti ostili. Dovevo prendere decisioni importanti sulla mia vita e sul mio fu-turo e non ne avevo affatto voglia. Da qualsiasi punto la guardassi, non mi sentivo affatto ottimista. E poi non ne potevo più di sentire le canzoni di Dan trasmesse a tradimento da una maledetta radio di un centro commerciale o da una finestra aperta, mentre passeggiavo in centro, in un giorno di primavera. Era come sale gettato su ferite aperte. Perciò decisi di partire. Intrapresi un lungo viaggio a data aperta per la Vecchia Europa, non per ritrovare me stesso, ma per perdermi. Avevo voglia di dimenticarmi, smarrirmi, confondermi con altre vite, così da non essere più io. Visitai solo i posti dove non ero mai stato: volevo evitare i ricordi legati ai luoghi del passato. Non sempre fa bene ricordare. Vagai a zig zag per l’Europa. Seguivo l’istinto e mi fermavo dove capitava. Mi guidavano un gruppo di alberi, una collina, una chie-sa, vecchie rovine. Conobbi molta gente: un navigatore di terra solitario attira sempre la curiosità. A volte sulle coste della Bretagna mi fermavo nei pascoli a picco sulle falesie in riva all’Atlantico a chiacchierare con vecchi contadini. C’era tanta umidità e paesaggi nebbiosi e scuri come quadri di vecchi pittori

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nebbiosi e scuri come quadri di vecchi pittori fiamminghi. Altre volte nel profondo della notte, mi trovavo in vecchie taverne fumose sul porto a conversare e a bere con dei pescatori. La soli-tudine e la birra, assieme ad una soffusa malinconia, erano il filo conduttore dei nostri discorsi. Così cercai di sfuggire me stesso. Non sapevo ancora quale impresa disperata fosse, perché, per quanto ci sforziamo, siamo destinati a scontrarci contro le pareti anguste del nostro Io e a ricadere inevitabilmente in noi stessi. Mi ritrovavo ovunque; sui canali di Amsterdam, sulle rive della Loira, sulle coste malinconiche della Bretagna, nei bistrot di Pari-gi, sui grandi laghi della Svizzera. Ero io, sempre io, maledettamente io. Non potevo sfuggirvi, il mio io mi perseguitava, era la mia male-dizione, il mio peggior nemico, e anche il bere era un rimedio tem-poraneo che non migliorava di molto il mio umore. C'era di buono che mi faceva addormentare. L'ombra del Console mi era più vicina che mai in quei giorni. A volte davanti alle vette delle montagne scintillanti di neve in lon-tananza, quasi fossero vulcani, mi sembrava di poterlo vedere sor-ridermi compassionevole. Era terribile, fare migliaia di chilometri per ritrovarmi sempre là ad attendermi. Ero lo spettro persecutore di me stesso. No, non si può eludere a lungo la propria natura. A volte, guardando un tramonto sui tetti rossi di Amsterdam, o il lento scorrere della Loira sotto i ponti di Angers, o gli archi ram-panti d'una cattedrale gotica sul blu del cielo spazzato da venti im-

petuosi, o il trapelare della luce dalla vetrina di un bar in un paesi-no francese in un giorno di primavera, oppure sentendo una cor-namusa in lontananza sulle brumose scogliere della Bretagna, o un odore, o le note d'una canzone, mi tornavano in mente altre imma-gini di altri posti e di altre situazioni del passato. L'Europa è un luogo tremendamente malinconico: memorie mille-narie incombono in ogni pietra, in ogni roccia, in ogni metro di terra. Così a volte mi sembrava di essere già stato in quel posto e di aver già vissuto quel momento. Ero stanco di scappare. Spesso il rifugio migliore è l'angolo più buio della tana del nemi-co. Per questo alla fine, quando l'autunno arrivò con tutto il suo de-primente squallore, decisi di ritornare a casa. Sotto quel cielo cupo e tenebroso, inaspettatamente mi sentivo a mio agio, lontano da tutti i ricordi dolorosi che la luce del sole portava con sé. Da allora ho cominciato a scrivere. Non perché credessi di aver qualcosa d’importante o di originale da raccontare, ma semplice-mente perché ho visto che scrivere mi fa bene. Riverso sui fogli tutte le mie malinconie e mi sono accorto che in parte me ne purifico. E' una specie di esorcismo che allontana la tristezza e la nostalgia. Spero in questo modo di riuscire a ricrearmi quell'agognato vuoto interiore. Ma a volte, purtroppo, la malinconia non si riesce a rinchiudere tra

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le pagine d'un diario...

XXXIV Ho giocato e rischiato troppo con la poesia. Ma avevo avuto paura della noia, avevo rifiutato il grigiore, avevo cercato i colori. Ma il verde risalta bene col rosso ed il blu con l'a-rancione... Così, scegliendone uno, ottenevo anche il suo opposto. Spesso era maledettamente malinconico, ma ad ogni modo, servi-va a colorare il nulla, così che mi sembrava di riuscire a trovare uno spessore, una profondità al di sotto della superfluità del quoti-diano. " ...anche se cattiva la poesia è sempre meglio della vita". Così pensavo. L'esistenza, il mondo acquisivano una pregnanza che non avevano e che io donavo loro. Mi rifiutavo di vedere il nudo squallore, la desolante vacuità, la prosaica crudezza della realtà... che poi, in verità, non è niente di tutto ciò, ma è soltanto un semplice susseguirsi di eventi casuali, senza significati particolari. Non facevo nessuno sforzo però. Mi era facile cogliere gli aspetti più romantici, più maledetti, ed abbinarli così da crearmi delle sto-rie struggenti. Ma ero io a creare gli avvenimenti, la mia fantasia: non accadeva niente di particolare nella realtà.

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Perciò molti dei fatti raccontati non sono probabilmente andati come li ricordo, e persino la successione di molti avvenimenti po-trebbe essere variata senza cambiare senso alla storia, se un senso ce l’ha. ...come in fondo è avvenuto nella mia memoria che ha fuso e con-fuso tante cose e ha appallottolato il foglio dei ricordi. Ma non si decide a buttarlo via...

XXXV Un tempo pensavo che i ricordi accumulati negli anni donassero spessore e pienezza all'esistenza. Pensavo che ad aver "vissuto una vita bella" e ad "averne sicuro possesso nella tranquilla gioia del ricordo”, come aveva suggerito un saggio maestro antico, si potesse esser felici. Ma non c'é tranquillità, né gioia. Non avevo fatto i conti con la malinconia che credevo soffusa e facilmente sopportabile, e non struggente. A volte basta poi poco perché le emozioni ti sommergano: un pro-fumo nell'aria, una leggera sfumatura nella luce, ed ecco che il ri-cordo si schiude in un lampo colorato, come i fuochi d'artificio che sbocciavano nelle notti di metà agosto, quand’ero bambino. Di colpo appaiono brevi sprazzi di un’età idilliaca, un lontano tempo mitico... ...le rapide stelle cadenti nella notte di San Lorenzo, i bagni di mezzanotte, l'odore di pece per lo scafo della barca, le reti ad a-sciugare al sole, le giostre sfavillanti nell’oscurità, un vecchio pe-scatore, via di mezzo tra Braccio di Ferro e Mastro Geppetto, che mi portava in barca a recuperare le nasse, e suonava tristi walzer con la fisarmonica, nelle fatate notti di mezz'estate, dense di stelle e d’incanto... Dettagli insignificanti, ma incastonati come gemme nella memo-

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ria. Perché tutti i momenti, anche i più banali e mediocri, una volta relegati irrimediabilmente in un passato intangibile, acquistano un valore per la loro irripetibilità e si colorano presto di un’aura leg-gendaria. Ma a ben pensarci, non sono mai stato un bambino felice e spen-sierato, se non per brevi momenti. Ho sempre avuto l’impressione di avere molti più anni di quelli che avevo. A volte mi sentivo addosso secoli. All'asilo già sapevo leggere e scrivere e la maestra mi faceva eser-citare, quasi avessi dovuto diventare un genio, invece di farmi di-vertire assieme agli altri bambini coi soliti giochi. Così ero spesso solo. Quando uscivo nei freddi pomeriggi invernali, abissi di buio mi sovrastavano, mentre camminavo negli squallidi viali trafficati con la mia cartellina sulle spalle. Questo è uno dei ricordi principali della mia infanzia. Poi un appartamento angusto al settimo piano d’un palazzone di periferia, a cui mi sorprendo a pensare con affetto, dove si svolge-va il resto della giornata. Vi era un balconcino da cui osservavo tristemente la città e le auto che fluivano nelle strade e partivano per chissà dove. L'unico rimedio era la fantasia. Mi creavo grandi avventure fanta-stiche e fregavo il mondo mediocre usando l'immaginazione come una bacchetta magica che mi trasportava in un mondo molto più affascinante e adatto a me. E' un difetto che non ho mai perso del tutto, come accade con le abitudini prese da piccoli. La mia vecchia zia mi diceva che avevo fantasia da vendere. Quando ero all'ospedale, da bambino, la zia m’incantava raccon-

tandomi delle favole che inventava lì per lì. Ma la maggior parte del tempo ero io a raccontare delle favole che inventavo per lei, e che la facevano addormentare. Allora mi fermavo un po', poi la svegliavo per farmi raccontare quello che aveva sognato. Lei iniziava un racconto, poi vinta di nuovo dal sonno, tornava ad assopirsi, e andavamo avanti così tut-to il pomeriggio. La vecchia zia... quanti ricordi... ...vedova da anni, in una stanza in penombra nella sua dimora in-vecchiata assieme a lei, circondata da mille ricordi, riviveva e rin-ventava i "bei tempi", quando abitava col suo amato marito nella villa appartenuta ad un famoso poeta... La rivedo sempre sorridente coi suoi capelli bianchi avvolti da una reticella, i suoi occhiali dorati e lo sguardo bonario e rasserenante. Ne è passato di tempo, ma mi manca sempre tanto. Era l'unica persona che da bambino si occupasse realmente di me. Gli altri erano troppo impegnati. Mi prendeva per mano e mi accompagnava un po' curva e sorri-dente ai giardini a vedere il laghetto. E io lanciavo briciole nell'ac-qua, i pesci e le papere accorrevano ed ero felice e spensierato. Anche se da adulto non ci vedevamo spesso come un tempo, sa-perla sempre là ad aspettarmi, era rassicurante, e rivederla era rivi-sitare i momenti dell'infanzia, quelli belli, una porticina magica che collegava al passato, come se non fosse estinto per sempre. Sì, fu fin da bambino che imparai a fuggire dalla realtà. Non l’ho mai considerato un difetto, ma anzi, un rimedio. Molti, seriosi ed inquadrati, mi guarderebbero con disprezzo come un disertore.

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Ma io mi sono sempre sentito un prigioniero ingiustamente incar-cerato. E poi le fantasticherie non sono dissimili dai ricordi. Anche i ri-cordi sono proprio come favole, perché quando il passato è stato scalzato dal presente, non è più reale d'un sogno. In fondo tutto avviene soltanto dentro di noi: sono solo evanescen-ti immagini prodotte da fragili circuiti di cellule, percorsi da flebili correnti elettriche. Ed è proprio lì e soltanto lì che risiede veramente il passato: sola-mente dentro di noi. Ecco di cos’è realmente fatta la vita d’un uomo: fantasie, vaghe impressioni colte qua e là, fantasmi di oggetti, ombre di paesaggi, sagome di volti, scatti rubati al tempo. Un’accozzaglia di memorie più o meno immaginarie che danno "spessore" alle nostre esisten-ze. Sì, la vita d’un uomo è davvero fatta di niente, piccolo nulla che decora un grande vuoto. Eppure quel niente vibra dentro di noi in memorie inquiete che non vogliono essere dimenticate...

XXXVI Nel periodo in cui gli anni ancora da vivere si stendono davanti a noi come uno sconfinato campo fertile dove seminare le proprie fantasie a volontà, la vita mi appariva come un’immensa, meravi-gliosa giostra di suoni, di luci e di colori, di volti e di paesaggi, e di avventure fantastiche che non avrebbero permesso alla noia e alla malinconia di corrompere il mio animo. Ma la realtà è molto più cruda di qualsiasi incubo, anche perché non ci si può svegliare, e di giorno in giorno mi vedo spingere sempre di più in una parte anonima, dove si annaspa in una palude di trita quotidianità. Il teatro del caso non assegna parti da protagonista a tutti e, a vol-te, è persino difficile capire quale sia la propria parte e quale sia il proprio personaggio. Negli anni passati mi sono domandato spesso se sarei riuscito ad affrontare una monotona vita ordinaria. Chino su una scrivania per tutto il giorno, mentre il telefono squil-la in continuazione ed è la signora comesichiama che mi dice che le mattonelle sono più scure di quello che pensava, o il signor tal-deitali che mi chiede se si può fare un appartamento col bagno in cortile... Aspettare la sera per poter racimolare una misera dose di vita. Guadagnare anche discretamente, ma sempre scarso tempo libe-

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ro... E poi sposarsi? Ma dopo che hai un lavoro e ti sei sposato, che incognite restano nella vita d'un uomo? Mi ero innegabilmente avvicinato al pensiero di Dan. E allora tutte quelle possibilità che hai intravisto leggendo libri, guardando film e studiando? Tutte quelle possibili vite alternative, quei sogni che ti hanno mo-strato: spiagge tropicali, tramonti nel deserto, le grandi foreste del nord, i leoni nella savana, i vulcani scintillanti di neve... Tutte illu-sioni? A cosa è servito conoscere tutte queste cose se devi vivere qui, in questo modo mediocre? Deve pur venire l'occasione giusta, la Grande Occasione! Ora mi rendo conto di come, a volte, tutte le infinite potenzialità d'un uomo finiscano in un angolo d'un oscuro ufficio di provincia. Adesso ho cominciato a lavorare come apprendista presso uno studio privato. Faccio molti disegni e molti calcoli. Non si guada-gna male. Non ho molto tempo libero. Meglio così. Il lavoro mi distoglie per tutto il giorno dai miei pensieri ricorren-ti. E' un rimedio grossolano, ma mi serve pure questo. Quando i sentimenti cercano di sopraffarmi, scrivo.

XXXVII

Da quando la mia storia con Annalisa è terminata, non ho più cer-cato nuove relazioni. Francesca è sempre al mio fianco e ci vediamo spesso. Si è rivela-ta davvero una buona amica, e il nostro legame è molto forte. C'é stato anche un momento in cui ho pensato di mettermi insieme a lei. Dan ne sarebbe stato contento, ne sono certo, ma poi ho pensa-to che sesso e amicizia difficilmente vanno d’accordo, e non ho voluto rischiare di sciupare un bellissimo rapporto. Ci troviamo di sera al tavolo di qualche locale a bere. Cerchiamo gli angoli più bui dove, fra le tenebre, i ricordi fanno fatica a tro-varci. E stiamo là seduti, ognuno solo con se stesso, lo sguardo basso concentrato sui riflessi del bicchiere e sulle mille bollicine che salgono, anche se nel fondo dei pensieri percepiamo la presen-za rassicurante dell'altro. Parliamo poco, quasi niente. Ogni tanto, soffiando il fumo in basso in una specie di sospiro, al-zo gli occhi ed i nostri sguardi s’incrociano. Ci sorridiamo in un modo un po' malinconico come a dire: "Così è l'esistenza", e quando vedo che diventa un po' troppo triste e gli occhi le diven-tano lucidi le accarezzo i capelli. In quei momenti mi fa una tenerezza che le donerei anche tutti quei brevi momenti felici della mia vita per vederla sorridere di gioia. Al terzo, quarto bicchiere, finalmente il malevolo chiacchiericcio

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interiore si quieta e l'umore si risolleva lieve, in un mondo danzan-te di luci fioche, ma buone. Adesso vedo spesso anche Antonella. Compare all'improvviso come è solita fare, ma con una certa frequenza ultimamente. E' diventata quasi una relazione. A volte facciamo l'amore, a volte stiamo abbracciati in silenzio, a volte parliamo, ma le parole escono difficili quando si hanno sen-timenti troppo profondi da esprimere o si ha un peso troppo grosso sullo spirito. Però ci capiamo, ci capiamo sempre. Poi se ne va di nuovo, ma mai troppo lontano o troppo a lungo. E' forse lei la vera donna della mia vita, l'ho capito solo adesso, perché nel profondo siamo molto più simili di quanto appaia, an-che se reagiamo in maniera diversa. Lei sa mantenere la giusta tensione emotiva nella nostra relazione, non lascia spazio alla rou-tine o al prevedibile, e non permette che la stanchezza s’insinui nel nostro rapporto. Antonella sa che amare è giocare a farsi male, giocare a darsi la vita e a togliersela, per poi ridonarsela più bella e più intensa di prima.

XXXVIII

Benché sia già passato parecchio tempo, i sentimenti sono ancora troppo densi, troppo viscosi, ma spero che sprofondando in una vi-ta inerte come quella che conduco ora, si possano diluire così che sia più facile rimuoverli. Adesso sono ancora troppo sbilanciato, ma mi rendo conto che è bene che ritrovi quella saggia e serena indifferenza verso il mondo che mi aveva indicato il Maestro. Ma non è facile eludere la propria natura, e per quanto mi sforzi, ci sono dei momenti che, senza preavviso, i ricordi sgorgano come un fiotto e mi sommergono. Rivedo il passato, ne individuo i bivi, le direzioni alternative, e cerco d’immaginare cosa potrei essere se avessi scelto altre strade. Ma alla fine, di tutte queste storie possibili con finali inventati e sfumati, di tutti i bivi sbagliati per colpa del caso o per colpa mia, rimane solo una serie di inizi abbozzati privi di senso che formano la storia, quella vera, la mia storia. E sotto questo cielo pallido ed umido di primavera verso la sera foschiosa, non è un senso di esaltazione o di mistero, come davanti alle grosse nuvole viola portate dello scirocco, a pervadere l'ani-mo, ma un senso d’incertezza e di smarrimento, come se si fosse perso il contatto con ciò che è vero e non solo possibile. La natura umana è predisposta a cercare il significato anche dove non esiste. Così, a volte, mi sembra d’individuare un filo impalpa-

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bile, un destino in tutto ciò, una specie d’iniziazione per qualche ineffabile scopo... Ma quando alla fine si sarà sgretolato tutto, quando anche l'ultima cosa creduta vera, apparirà come è ...soltanto un ombra ...allora ci apparirà l'uomo nella sua essenza, nella sua nuda realtà, così come è stato creato: solo nel vuoto. In quel momento potremo ricominciare da capo smettendo di cer-care il vero ed il significato nelle cose e potremo osservare la vita con occhi trasparenti senza esprimere giudizi, come se si trattasse d'un film e fossimo soltanto spettatori. E magari, alla fine, riusciremo anche a fare un applauso... Penso spesso alle innumerevoli persone che hanno lasciato dietro di sé storie di vita degne di essere ricordate che sono svanite con la loro esistenza senza lasciare tracce, e mi domando perché mai qualcuno dovrebbe ricordarsi di noi... Un giorno il mio orologio biologico batterà colpi sempre più lenti, sempre più scanditi, finché l'intervallo prima dell'ultimo rintocco sarà eterno. Quel giorno tutti questi piccoli, inutili ricordi saranno finalmente liberi di essere dimenticati, e quelle sottili strisce di molecole che li custodivano gelosamente, saranno libere di scindersi e di essere riutilizzate dall'universo per più alti scopi. In fondo sono soltanto un uomo, uno dei tanti, e questa è solo una delle infinite storie che il mondo scrive ogni giorno, e che il mare del tempo sbiadisce e cancella, come semplici parole segnate sulla

spiaggia dei ricordi.

Bologna, agosto 1986 – Tours – Bologna, agosto 1994.

Rev. 14/02/2015

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