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7/26/2019 Il viaggio dei balestrucci http://slidepdf.com/reader/full/il-viaggio-dei-balestrucci 1/20 1 «Going where the weather suits my clothes» dalla canzone Everybody’s talkin’  di Fred Neil  A Pontarolo è tradizione che l’estate finisca con la prima tramonta- na di settembre. All’arrivo di quel vento gelido dalle montagne che sovrastano il paese verso nord, chi è per strada e ne viene lambito, sospirando pensa “È finita l’estate!”. Nelle coppie che passeggiano per il breve corso c’è sempre chi per primo sospirando dice “È fini- ta l’estate!”, e se è l’uomo a farlo, la donna si stringe al suo braccio; se è la donna, l’uomo le passa un braccio intorno alle spalle come uno scialle.  Anche fra gli amici ai tavolini dei bar c’è sempre chi pronuncia quella frase, e gli altri fanno di sì con la testa, e qualcuno aggiunge sottovoce “La tramontana...”, e tutti si sfregano le mani o tirano su il colletto della camicia per far vedere che hanno freddo. Poi uno di- ce “Beh, io quasi quasi vado dentro”, oppure chiama a gran voce il padrone e gli fa “Lascia perdere la birra, portami un ponce al man- darino!”, e tutti a ridere, come se non avessero mai ascoltato prima certe spiritosaggini.  Viveva in quei tempi a Pontarolo un ragazzo di ventun anni, di nome Mauro. Orfano prima di padre e poi di madre, abitava una ca- setta mezzo diroccata ai margini del paese. Non era né bello né brutto, né alto né basso, più magro che grasso. Pare che non fosse molto intelligente, ma nessuno l’avrebbe definito sciocco. Aveva

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«Going where the weather suits my clothes»

dalla canzone Everybody’s talkin’  di Fred Neil

 A Pontarolo è tradizione che l’estate finisca con la prima tramonta-na di settembre. All’arrivo di quel vento gelido dalle montagne chesovrastano il paese verso nord, chi è per strada e ne viene lambito,sospirando pensa “È finita l’estate!”. Nelle coppie che passeggianoper il breve corso c’è sempre chi per primo sospirando dice “È fini-ta l’estate!”, e se è l’uomo a farlo, la donna si stringe al suo braccio;

se è la donna, l’uomo le passa un braccio intorno alle spalle comeuno scialle.

 Anche fra gli amici ai tavolini dei bar c’è sempre chi pronunciaquella frase, e gli altri fanno di sì con la testa, e qualcuno aggiungesottovoce “La tramontana...”, e tutti si sfregano le mani o tirano suil colletto della camicia per far vedere che hanno freddo. Poi uno di-ce “Beh, io quasi quasi vado dentro”, oppure chiama a gran voce il

padrone e gli fa “Lascia perdere la birra, portami un ponce al man-darino!”, e tutti a ridere, come se non avessero mai ascoltato primacerte spiritosaggini.

 Viveva in quei tempi a Pontarolo un ragazzo di ventun anni, dinome Mauro. Orfano prima di padre e poi di madre, abitava una ca-setta mezzo diroccata ai margini del paese. Non era né bello nébrutto, né alto né basso, più magro che grasso. Pare che non fossemolto intelligente, ma nessuno l’avrebbe definito sciocco. Aveva

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smesso di studiare dopo le medie, non perché incapace, ma perchéla scuola superiore più vicina distava un’ora di corriera, e non gli

andava di viaggiare per quelle strade tutte curve che gli davano il vomito. Suo padre era già morto, e a sua madre non importavagranché che studiasse: lavorava tutto il giorno come commessa inuna merceria, e le faceva comodo che suo figlio badasse alla casa ealle galline.

Quando anche sua madre morì, Mauro aveva appena compiutodiciott’anni. Ebbe in eredità la casetta mezzo diroccata e pochi ri-sparmi su un libretto postale. In paese si davano di lui giudizi con-

trastanti: chi lo disprezzava come fannullone, chi lo compativa perle disgrazie subite. Non di rado i membri delle due fazioni avviava-no accese discussioni al riguardo, esercitandosi a sviscerare com-plesse questioni filosofiche come la responsabilità, il destino, il libe-ro arbitrio, la natura matrigna, la volontà. Talvolta i più ragionevolisi facevano delle concessioni a vicenda, del tipo “È un nullafacente,ma bisogna dire che ha avuto una vita infelice”, oppure “Sì, ne ha

passate di ogni colore, ma di base è uno scansafatiche”. Quandonon si arrivava a una sintesi soddisfacente si passava alle ingiurie, etalvolta alle mani, ma di solito nemmeno queste due rispettabiliforme dialettiche permettevano di venire a capo del problema.

Mauro conosceva l’opinione che ciascuno dei suoi compaesaniaveva di lui, e in parte concordava con i suoi detrattori, in parte dis-sentiva dai suoi difensori. “Ognuno ha le proprie ragioni e i propritorti”, pensava; ma certi pensieri se li teneva per sé: aveva notato

che, finita una discussione, ciascuno continuava a vivere come avevasempre fatto, e si convinse che i ragionamenti non valevano il tem-po che s’impiegava a farli.

Essendo Mauro maggiorenne alla morte di sua madre, nessunopoté metterlo sotto tutela, anche se molti temevano che non fossein grado di badare a sé stesso, e lui non faceva nulla per smentirli:sperperava soldi in sciocchezze, passava giorni interi per boschi incerca di more e funghi che poi in gran parte marcivano nei cesti in

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cucina, lasciava accumulare la posta nella cassetta, e aveva mille altrebizzarre abitudini che lo rendevano un corpo estraneo alla paciosa e

laboriosa comunità pontarolese.Un giorno di settembre Mauro si svegliò, e prima ancora di a-

prire gli occhi pensò “È finita l’estate!”. Un freddo spiffero di tra-montana si era fatto strada dalla finestra mal sigillata fino al suo visosmunto per dargli la notizia. Mauro si alzò subito e andò ad aprirel’armadio che si ergeva di fronte al letto. Tanto era grande l’armadio,quanto striminzito il suo contenuto, che si riduceva, con riguardo al-la biancheria, a tre lenzuola e quattro federe, accompagnate da due

coperte e due cuscini. C’erano poi alcune scatole che contenevanobottoni e altri articoli da merceria, trafugati negli anni da sua madreperché “possono sempre servire”. Infine, i suoi vestiti, la cosa piùmiserevole di tutte: due magliette di cotone a maniche corte, un paiodi jeans, un paio di pantaloni di tela mangiucchiati, un maglioncinodi lana logoro e stinto, due paia di scarpacce mezzo sfondate.

Non era stato sempre così: Mauro aveva posseduto tutti gli in-

dumenti di cui aveva bisogno, ma a causa della sua vita randagia a- veva finito per rovinarli uno ad uno, strappando i pantaloni controrami e rovi, bucando le scarpe su speroni di roccia, lasciando infel-trire le maglie di lana sotto la pioggia. Sua madre, poverina, faceva ilpossibile per rammendare e salvare il salvabile. Morta lei, tana liberatutti: Mauro lasciava che un buchino diventasse un cratere, che unfilo penzolante si tirasse dietro un’intera camicia, finché arrivava ilmomento che buttava via, a volte ritagliando qualche brandello per

infilarlo nelle crepe dei muri o sotto le finestre, nel tentativo di argi-nare gli spifferi.

Nel giro di tre anni Mauro aveva dilapidato i pochi soldi eredi-tati ed era rimasto con quelle quattro robette nell’armadio. In quellecondizioni non sarebbe sopravvissuto al freddo inverno pontarole-se, e di chiedere aiuto ai suoi compaesani non c’era nemmeno dapensarlo: se n’era sempre tenuto lontano quando riusciva a cavarsela

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da solo, gli pareva una cosa da vigliacchi farsi vivo nel momento delbisogno.

Si rimise a letto, a seguire con gli occhi le crepe del soffitto, leuniche che non avesse ancora rimpinzato di stracci. D’un tratto sen-tì distintamente, da qualche parte sopra quelle crepe, un intenso“prit prit”. Era uno stormo di balestrucci. Si alzò di scatto e uscì sulbalcone. Li vide volare e cantare sulla sua testa, schierati in quel lorogeometrico ordine mutevole. Pochi attimi, prima che sparissero ol-tre il tetto di casa sua. Erano diretti a sud, dove andavano a sverna-re. “Chissà dove arrivano”, si chiese, come ogni anno. Non era mai

riuscito a darsi una risposta, né in verità ci aveva mai provato. A- vrebbe potuto chiedere al professor Ballaroni, un pontarolese cheinsegnava scienze a Carollo e tornava al paese per le ferie estive. Luidoveva saperlo di sicuro, anche perché era lui stesso un migratore.Ma ogni volta che lo incrociava per strada e stava per fermarlo, sidiceva che saperlo non serviva a nulla, e così tirava diritto, a testabassa, e nemmeno salutava.

Rientrò nella sua stanza, e si buttò di nuovo sul letto. “Ah, sepotessi andarmene anch’io al sud come i balestrucci! Lì i vestiti cheho mi basterebbero e non morirei congelato!”. Stava per piangere,avvilito per la sua disgraziatissima condizione, quando d’un trattopensò: “E chi m’impedisce di farlo?”. In fondo, a Pontarolo nonaveva nulla da fare, e amici non ne aveva. C’erano i boschi che ama-

 va, certo, e il torrentello dove faceva il bagno, e i rovi carichi di mo-re, ma sapeva per certo che di boschi e fiumi e rovi ce n’è dapper-

tutto; e altrove c’erano anche il mare e i deserti, che mai aveva visto,e mai avrebbe visto se non avesse lasciato le sue terre.

Quello di andare a vedere il mondo era un pensiero che avevafatto altre volte, ma sempre l’aveva accantonato, perché non riusci-

 va a convincersi che potesse servirgli a qualcosa. Stavolta però avevaun motivo validissimo: non aveva nessuna voglia di crepare.

Balzò in piedi, preso da un’incontenibile euforia, come se aves-se atteso quel momento per tutta la vita, come se il sangue che ave-

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 va lasciato rapprendersi nelle vene si fosse improvvisamente sciolto,e riprendendo a circolare lo solleticasse e gl’impedisse di star fermo.

Riaprì l’armadio, e poi tutti i cassetti, il ripostiglio, la credenza,la cassapanca e un numero imprecisato di scatole, e girava di qua edi là per decidere cosa avrebbe portato con sé, e quello che sceglievalo accatastava sul grande tavolo della cucina. Alla fine aveva accu-mulato tanta di quella roba che un carretto non sarebbe bastato percontenerla. Allora andò all’attaccapanni vicino alla porta e ne liberòil sacco nero che usava per le sue sortite nei boschi. Qualunque cosaavesse scelto, doveva riuscire a ficcarla lì dentro. Così com’era, però,

il sacco era inutilizzabile per un lungo viaggio; bisognava trasfor-marlo in uno zaino. Si avvicinò al muro e cavò fuori dalle crepe tuttigli stracci. Scelse due robuste strisce di jeans per farne le armaturedegli spallacci, e un mucchietto di pezzuole di morbido cotone perricoprirle. A forza di stare intorno a sua madre, aveva imparato a fa-re qualche semplice operazione di cucito; e così, provando e ripro-

 vando, facendo e disfacendo, riuscì finalmente a creare lo zaino che

lo avrebbe accompagnato in quella nuova avventura. Se lo accomo-dò sulle spalle, e gli parve comodissimo. Restava ora da riempirlo,pescando dal mucchio sopra il tavolo. Per prime v’infilò le cianfru-saglie della merceria, che pensava di vendere o barattare lungo lastrada, poi quel che restava del suo guardaroba, e tre saponette cheaveva ritrovato in fondo ai cassetti dove sua madre teneva il corredoda sposa. Quelle non le avrebbe vendute: gli servivano per lavarsi,ché c’era da sudare parecchio. Tagliò in due una coperta, e ve ne

ficcò dentro una metà. Aggiunse due coltelli a serramanico, una pic-cola bussola, due lacci di rame che usava come trappole e una cannada pesca telescopica col suo corredo di ami e galleggianti. Infineraccattò tutto quello che gli era rimasto di commestibile: un salame,un pezzetto di prosciutto, tre pomodori, quattro mele, due finocchi,una forma di pane e una di formaggio. Aggiunse una bottigliad’acqua da due litri, e lo zaino fu bello che pieno. Ne chiuse per be-ne l’apertura con un cordino e si sedette a riposare.

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Con calma mise a punto il suo piano: sarebbe partitol’indomani mattina; all’alba, perché doveva attraversare il paese e

non voleva incontrare troppa gente. C’era da risolvere ancora ilproblema delle galline. Stabilì che la sua preferita l’avrebbe lasciatanel terreno di un vicino, all’altra avrebbe tirato il collo quel giornostesso per farci il brodo e mettersi in forze per il viaggio, che poichissà quando l’avrebbe mangiata più, una squisitezza del genere.

*

 A sera era andato a dormire sazio e sereno, e all’alba riaprì gli occhisenza sforzo. Indossò i jeans, un paio delle sue scarpacce, una ma-glietta e il maglioncino di lana. Si calcò in testa il suo berretto nero euscì nel cortile, dove fu sfiorato dal tocco freddo della tramontana.Raccolse le due uova che la sua gallina preferita aveva deposto erientrò in cucina per berle. La stanza era fredda quasi come fuori: li-berate le crepe dagli stracci, gli spifferi fluttuavano liberi fra il tavolo

e i fornelli. Mauro aveva ancora una cosa da fare, prima di partire. Aveva pensato che prima o poi i suoi compaesani, accortisi della suascomparsa, l’avrebbero cercato, fino a quando qualcuno non avreb-be aperto la porta di casa per accertarsi che non fosse lì dentro,morto. Così prese un pezzo di cartone che era stato il coperchio diuna scatola, e con un carboncino vi scrisse un messaggio: “NON VI

PROCUPATE PER ME. SONO ANDATO A SUD PER LINVERNO. TORNO

 A PRIMAVERA. MAURO.”. Poi vi posò sopra due bicchieri, perché gli

spifferi non se lo portassero via.Si ricordò di una cosa che aveva visto in una scatolina in fondo

all’armadio e aveva tralasciato. Corse a prenderla, perché aveva deci-so di portarla con sé. Era l’armonica di suo padre, che tante volte,da bambino, gli aveva sentito suonare. Non era più splendente co-me un tempo, e c’erano qua e là delle macchioline di ruggine, mapareva in buone condizioni. Vi soffiò dentro, e ne ottenne una notastridula, come di sorpresa. Nella stessa scatolina c’era anche un oro-

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to era freddo ma leggero. Il suo viaggio non poteva cominciare me-glio. Tanti pensieri reclamavano attenzione nella sua testa, l’uno

provava a scacciare l’altro, e Mauro non sapeva a chi dar retta.Quanti chilometri al giorno poteva fare? Dove avrebbe dormito?

 Avrebbe avuto nostalgia di Pontarolo? Come avrebbero giudicatosuo padre e sua madre la sua condotta? Provò a zittirli tutti: avevatempo per occuparsene, un passo alla volta. E poi, di sicuro non a-

 veva lasciato la sua casa e il suo paese per farsi mangiare da pensieriche non servono a nulla.

 Tirò fuori l’armonica. Provò a ricordare le melodie che suo pa-

dre suonava, ma non vi riuscì: erano passati troppi anni. Che poi, sepure le avesse ricordate, non sarebbe stato capace di suonarle. C’erastato un tempo che la portava con sé in strada e nei boschi, e vi sof-fiava dentro solo per spaventare un cane randagio, un uccellino po-sato su un ramo, una gallina che razzolava beata. Poi aveva smesso,quel gioco non lo divertiva più. Perché l’aveva presa con sé, allora?Perché voleva imparare. Lo aspettava un lungo viaggio in cui non

doveva far altro che camminare, aveva tutto il tempo e l’agio di riu-scirvi. Poi si sarebbe fermato nelle piazze dei paesi e avrebbe suona-to per tirar su due lire. Con quel sistema confidava che non avrebbemai avuto problemi di soldi, per quello che gli servivano.

Cominciò a soffiare nei fori a casaccio. Aveva in mente la me-lodia dei Fiori della malga , che al suo paese conoscevano tutti, ma ot-tenne solo una sequenza di suoni sgraziati, a metà fra il gracidio deiranocchi e lo schiamazzo delle oche. “Credevo fosse più facile”,

pensò, ma non si diede per vinto. Sapeva distinguere i versi di deci-ne di uccelli, ci sarebbe riuscito anche con le poche notedell’armonica.

Erano passate tre ore dalla partenza, quando un’automobile sifermò accanto a lui, che camminava lungo il ciglio della strada.

− Mauro!Era Giuseppe, un vecchio amico di famiglia. Faceva il rappre-

sentante di vini, a quell’ora era già in giro per cantine e negozi.

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− Buongiorno − rispose Mauro, e continuò a camminare.

− Ma come “buongiorno”?! Che ci fai qua? Dove vai?

Mauro non aveva pensato a una scusa se avesse incontratoqualche conoscente.

− Vado al mercato in città, ho un po’ di cose da vendere − eindicò lo zaino.

− Ma oggi non è giorno di mercato − ribatté Giuseppe.

−  Ah, davvero? Beh, qualcuno che vorrà comprarle lo trovocomunque.

− Come vuoi, ma... fatti dare un passaggio, la strada è ancora

lunga. Posso portarti fino al bivio per Grottana.

− Grazie, non si disturbi.

− Macché disturbo! Dai, sali.Mauro fu preso da un’improvvisa avversione per quell’uomo,

che già non gli era mai stato simpatico. Entrare nella sua auto e fareun tratto insieme a lui, e magari subire un interrogatorio al quale a-

 vrebbe risposto confusamente, beh, era l’ultima cosa che desiderava.

− Grazie, preferisco andare a piedi. È una bella giornata, e poiho dei pensieri in testa che se perdo il filo non lo trovo più.

− Sei strano, tu! − disse Giuseppe, ridendo. − Come preferisci,allora. Buon viaggio!

− Grazie, e buon lavoro a lei.Giuseppe ripartì. Mauro ne fu molto sollevato, anche perché

ormai doveva essere a quindici chilometri da Pontarolo, e le possibi-

lità di incontrare altri suoi compaesani, a mano a mano che si allon-tanava, si riducevano sempre più.

Cominciò a sentire fame, e appena il bosco che costeggiava lastrada si aprì in un campo erboso, si fermò. Era la prima volta che siliberava dello zaino, e solo allora gli parve di sentirne il peso, comequando d’un tratto cessa un rumore di fondo e ci fanno male le o-recchie. Mentre pranzava fece il punto della situazione. A parte la

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non secondaria circostanza di non avere più una casa, concluse chela sua vita nei mesi a venire non sarebbe stata molto diversa dal soli-

to. Intanto il sole cominciava a scaldare l’aria; una goccia di sudoregli scivolò giù da una tempia, e decise di togliersi il maglione. Glisembrò un ottimo auspicio.

La piccola città capoluogo gli apparve quando il sole era quasial tramonto. C’era stato pochissime volte in vita sua, l’ultima pocodopo la morte di sua madre, per sbrigare certe faccende burocrati-che. Non amava le città: troppi palazzi che toglievano il respiro,troppa gente che si affannava in attività per lui incomprensibili.

L’attraversò con timore, come un cittadino attraverserebbe una fo-resta, in linea retta, da nord a sud, con l’aiuto della bussola. Erastanco, i piedi gli facevano male. Oltrepassò il centro e la prima pe-riferia, finché non arrivò a un grande parco, ricco di platani e lecci, efinalmente si sentì a casa. Si fermò sotto un platano, si tolse le scar-pe e i calzini e sfregò i piedi sull’erba fresca. “Ah, che bello!”, pensò.Fece una cena sostanziosa, riempì la bottiglia a una fontanella e si

preparò per la notte, rimettendosi i calzini e le scarpe per stare piùcaldo. Infine si avvoltolò nella mezza coperta e sistemò lo zaino amo’ di cuscino.

*

Si risvegliò alla fioca luce dell’alba, mezzo ricoperto dalle foglie ca-dute nella notte. Una gli si era appiccicata alle labbra e dovette spu-

tarla via. Sentiva freddo e dolori dappertutto, soprattutto al collo,per colpa dello zaino troppo alto e duro. Decise di rimettersi subitoin movimento, per scaldarsi e dare sollievo a muscoli e ossa. Diedeun’occhiata all’orologio, che segnava le quattro e cinque. Si era fer-mato, la sera prima aveva dimenticato di dargli la carica. Beh, pocomale, avrebbe chiesto a qualcuno lungo la strada. Bevve un lungosorso d’acqua e ripartì. Appena fu sulla provinciale fece colazionecon una mela e un finocchio, senza fermarsi. Poi prese l’armonica e

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tornò a cercare il motivo dei Fiori della malga , che il giorno prima,dopo ore di tentativi, aveva cominciato a indovinare.

Mentre percorreva un tratto in salita, sentì come un canto cheproveniva da un punto invisibile della strada davanti a sé. Posòl’armonica e stette ad ascoltare meglio. Era proprio un canto, e acantarlo pareva che fossero in tanti. Quando scavalcò la sommitàdella salita scorse a qualche centinaio di metri un gruppo di unatrentina di persone che procedevano nella sua stessa direzione, se-guendo un alto gonfalone. L’idea di raggiungerli e passare in mezzoa loro lo deprimeva, ma non aveva alternative. Così accelerò, per la-

sciarseli dietro il prima possibile, e in pochi minuti raggiunse la codadel corteo. Erano perlopiù donne e uomini dai cinquant’anni in su,ma c’erano anche dei giovani. Tutti cantavano lamentosi canti sacriintervallati da accorate preghiere. Il gonfalone esibiva il rozzo dipin-to di una Madonna con Bambino. Mauro si spostò verso il centrodella strada, sfilando accanto al gruppo. Qualcuno gli disse “Buon-giorno”, lui restituì il saluto bofonchiando, con gli occhi alla strada.

Poco più avanti, un ragazzo sui sedici anni gli disse “Ciao”, maMauro non si curò di rispondergli, e proseguì. Il ragazzo però eratestardo: lasciò il suo posto e gli tenne dietro.

− Vai anche tu al monastero?

− No.

− E dove vai, allora?

− Non lo so. Cammino.

− Come fai a non saperlo? Mica sei un vagabondo!

− E chi te l’ha detto?Il ragazzo gli sorrise.

− Si vede. Ma non hai freddo?

− Un po’, ma l’aria si sta scaldando.Poi si ricordò che l’orologio era fermo.

− Sai che ore sono?

− Aspetta che chiedo a mia madre.

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Il ragazzo tornò indietro, mentre Mauro rallentava il passo: eragià arrivato alla testa del corteo, subito dietro al prete che guidava i

canti e al chierichetto che a fatica teneva ritto il gonfalone.− Le sette e trentacinque − disse il ragazzo.

− Grazie − disse Mauro, e già allungava di nuovo il passo.

− Aspetta! − fece il ragazzo. − Tieni −. Gli tese una sciarpa di

lana nera, lavorata all’uncinetto. − L’ho chiesta a mia madre per te.

− No, grazie, non posso accettare.

− Mia mamma me l’ha data con piacere.

− No, grazie, sto bene così.

Mauro aveva notato che quel ragazzo aveva un accento diversodal suo, un po’ per la cadenza, un po’ per l’apertura della e , un po’per le doppie consonanti, che gli parevano più deboli rispetto allaparlata del suo paese.

− Conosci la canzone I fiori della malga ?

− Uhm, no, mai sentita. Vuoi che chiedo a mia madre?

− No, lascia perdere... Qual è la canzone più famosa, da questeparti?

− Uhm... Forse La treccia dell’Ornella .

− Questa non l’ho mai sentita io. Come fa?Il ragazzo prese a cantargliela sottovoce, anche perché era una

canzone, se non licenziosa, di sicuro troppo profana per quella pro-cessione; ma la sua voce fu sovrastata dal vocione del prete che,amplificato dal megafono, aveva attaccato a cantare, seguito da tuttoil gruppo: Ti salutiamo o vergine, o madre tutta pura. Nessuna creatura è bel- 

la come te ...

− Lascia perdere, grazie lo stesso − disse Mauro al ragazzo, eaccelerò il passo.

− Ma sei sicuro che la sciarpa non la vuoi?Mauro nemmeno sentì, o fece finta. Il ragazzo tornò accanto

alla madre, le restituì la sciarpa, e dimenticando l’Ornella e la sua

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bionda e lunga treccia si accodò al canto del gruppo: Di stelle risplen- 

denti in ciel sei coronata. Tu sei l’Immacolata e madre di Gesù ...

Mauro detestava quella canzone, perché le amiche di sua madrel’avevano cantata al funerale. Si allontanò di buon passo, ma quellamelodia, sempre più indistinta, gli restò attaccata alla schiena ancoraa lungo.

Per distrarsi sistemò l’orologio, poi prese un’altra mela dallozaino e l’addentò fino a spolparla tutta; poi raccattò un rametto dalciglio della strada, tirò fuori un coltello e si mise a ripulirlo e a farglila punta. Tutto inutile, il ricordo di quel giorno doloroso stava lì e

non se ne voleva andare. Mauro finì per arrendersi, e lo ripercorsein tutti i dettagli. Poi ripensò alla morte di suo padre. Il ricordo eramolto più sbiadito: erano passati quasi dieci anni! Tutto era statoscatenato da quella canzone, ma... finché aveva vissuto nella sua ca-sa, nella sua terra, dove tutto gli parlava della sua famiglia, non ave-

 va sentito il bisogno di riandare a quegli episodi, che ora invece glirivelavano quello che non voleva ammettere: si sentiva solo.

Il tappo saltò: ricordò la prima ragazza di cui si era innamorato,che poco dopo aveva lasciato il paese per trasferirsi con la famigliain città, quella che aveva attraversato il giorno prima senza che il ri-cordo di lei affiorasse alla sua mente. Ripensò a quando suo nonnogli insegnava a tendere le trappole ai conigli; a quando ci fu il grandeincendio nel bosco e dovettero abbandonare la casa per venti-quattr’ore, accampandosi nella scuola elementare insieme ad altrefamiglie.

Quando fu stanco di quei pensieri riprese in mano l’armonica.La faccenda dei Fiori della malga  gli aveva fatto capire che nel temponecessario a imparare una canzone delle terre che attraversava, lastrada percorsa l’avrebbe resa straniera e ignota ai più. Dovette ri-conoscere che l’orecchio e la bocca erano in lui assai più lenti dellegambe, e così non gli restava che impararne una che chiunque pote-

 va riconoscere, dovunque fosse arrivato. Scelse ’O sole mio, che glievocava quel Sud che non aveva mai visto e che forse, a furia di

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mettere un piede dopo l’altro, avrebbe raggiunto. L’aveva ascoltatatante volte al mercato, da un napoletano che vendeva articoli per la

casa. Aveva una voce potente e intonata, e con quella attirava iclienti, compensando la pochezza dei suoi prodotti. Eraun’impostura, certo, ma aveva una sua bellezza. Oltre al titolo, ne ri-cordava solo il primo verso: “Che bella cosa una giornata di sole”,che gli evocava il calore verso il quale si stava muovendo, pieno disperanza, per sfuggire a un gelo irrimediabile. Ecco, avrebbe suona-to quella, nelle piazze di città e paesi, e in tanti gli avrebbero lasciatouna moneta per ringraziarlo di averli rallegrati.

 Trascorse tutta la giornata camminando e provando a indovi-nare quella melodia, ma coi modesti polmoni che si ritrovava le duecose non gli riuscivano bene insieme, e subito le note gli uscivanosfiatate, o le gambe gli s’intrecciavano minacciando di precipitarlo aterra; e così, non potendo fermarsi, sacrificò l’armonica, che il gros-so del tempo se ne stette a riposo in fondo a una tasca dei calzoni.

 A sera si fermò in un boschetto alle porte di Strofello. Aprì lo

zaino per prepararsi da mangiare e ne uscì un’orrenda zaffata: era ilformaggio che andava a male e aveva impestato tutto. Mauro urlòqualche bestemmia, sapendo che nessuno avrebbe avuto da ridire, esubito svuotò lo zaino, spargendone il contenuto sull’erba per fargliprendere aria. Poi sezionò la forma in modo da recuperarne quantoc’era di ancora commestibile, e ne fece la sua cena. Il resto finì giùper un dirupo, per non attirare animali, tranne un pezzettino chestabilì di usare come esca per i pesci. Infine accese un fuoco, protet-

to da un ampio cerchio di pietre, e si mise a dormire, accomodando-si sotto la testa un cumulo di morbide foglie.

*

 Ancora una volta s’incamminò di buon mattino. Un dolore pungen-te sotto il piede sinistro non lo lasciava tranquillo e gli rallentava ilpasso, per quanto da dietro lo spingesse un vento gelido che pareva

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tale e quale la tramontana di Pontarolo; tanto che d’un tratto ebbepaura che il freddo si muovesse più in fretta di lui, e che mai sareb-

be riuscito a lasciarselo alle spalle.Quel vento gl’infilò nel naso un odore rancido che veniva dalla

sua pelle e dai suoi vestiti. Solo allora si rese conto che da quandoera partito non si era mai lavato. Al prossimo lago o fiume dovevaimmergersi fino a farsi arricciare i polpastrelli, e a furia di saponescrostare quella patina di selvatico che gli si era attaccata addosso.

Entrò a Strofello zoppicando, per via di quel piede che non glidava tregua, e s’incamminò per le sue vie, contorte fin dalla periferi-

a, aiutandosi con la bussola a tenere la rotta verso sud. Aveva biso-gno di una pomata e di cerotti, e si guardava intorno in cerca di unafarmacia. Non aveva una lira, però. Avrebbe rubato? L’idea lo in-quietava, e decise di fermarsi a ragionarci su. Era arrivato ormai alcentro della cittadina. Scelse una piazzetta assolata e andò a sederesu una panchina. Si liberò del berretto, per far prendere aria alla te-sta, e se lo rigirò in mano come per aiutarsi a mettere ordine nei

pensieri. Fu proprio il berretto a ricordargli qual era il modo che a- veva immaginato per sostentarsi: suonare l’armonica in strada affi-dandosi alla generosità dei passanti.

Lasciò cadere il berretto a terra, a rovescio, poi con la punta diun piede l’allontanò da sé. Di ’O sole mio aveva imparato, e maluccio,soltanto le prime battute, ma alla vista dei passanti che solcavano

 veloci la piazza, presi dall’urgenza di arrivare al lavoro o di sbrigarealtre noiose faccende mattutine, un po’ si rincuorò, pensando che in

pochi sarebbero rimasti nei paraggi per più di qualche secondo, in-cluso il tempo di cercare una moneta e fargliene dono. Fece un so-spiro e attaccò a suonare, gli occhi ficcati nel berretto come in unbuco nero. Le note uscivano incerte, per un misto di inesperienza eimbarazzo, ma andò avanti fino a dove sapeva. Poi fece una pausa, ecominciò daccapo. “Ti stai solo esercitando”, pensò. “Non c’è nien-te di male”. Ma quando una prima moneta finì nel berretto, quellafinzione non resse più. Avrebbe dovuto alzare gli occhi e ringrazia-

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re, e invece continuò a suonare, mettendoci ancora più forza, comeper stordirsi. Vide le gambe del suo ignoto benefattore che si allon-

tanavano, e quando scomparvero decise che ne aveva avuto abba-stanza. Raccattò il berretto e la moneta e lasciò la piazza, prose-guendo nella direzione per cui era venuto.

Si sentiva umiliato, triste e solo. Per scacciare quei pensieri sidedicò alla ricerca di una farmacia. Ne trovò una, grande e moderna,ed entrò.

− Sto camminando da tre giorni e ho una bolla sotto un piede

che non mi dà pace. Cosa posso fare? − chiese alla giovane e grazio-sa farmacista che stava dietro al bancone nel suo immacolato camicebianco. Qualunque cosa gli avesse proposto, non poteva permetter-sela, ma desiderava almeno un consiglio e un po’ di conforto.

− Dovrebbe farla scoppiare con un ago sterile e liberarla del li-quido, poi usare una pomata antibiotica e ricoprire il tutto con unagarza. Ovviamente, il piede va tenuto il più possibile a riposo. Devecamminare ancora a lungo?

− Eh, temo di sì: qui fa ancora freddo...

− Già... − confermò la farmacista, che non aveva ben compre-so, ma sentiva il cattivo odore di Mauro e giudicò prudente non im-pegnarsi in una conversazione con lui.

− Beh, grazie, ci penso... Intanto magari do un’occhiata.

− Prego, faccia pure.Mauro si mise a girellare fra gli scaffali, oltrepassando un im-

piegato, un omone in camice verde che stava sistemando alcuni fla-coni di crema. Arrivò alla zona dei cerotti e delle garze. Si mise a os-servare le diverse confezioni, se le rigirava in mano e poi le rimette-

 va a posto.Quando fece per uscire, l’omone gli si parò davanti, allungando

una mano.

− Dovrebbe restituirmi quello che ha preso, o andare alla cassae pagarlo. Lo faccia, e non sarà denunciato.

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Il suo sguardo era severo eppure mite, come fosse il primo a voler risolvere bonariamente quella faccenda, quasi rammaricato che

gli toccassero certe spiacevoli incombenze. Mauro si sentì più con-solato che intimorito da quelle parole; senza indugio tirò fuori dallatasca un rocchetto di garza e lo posò nella grossa mano dell’uomo.

− Mi dispiace − mormorò − Chiedo scusa − e fece per usciredalla farmacia, a testa bassa.

L’uomo s’impietosì di quel ragazzo malridotto che non aveval’aria del ladro incallito.

− Forse ha bisogno di aiuto?Mauro si voltò verso di lui e lo guardò serenamente negli occhi.

La giovane farmacista si stava avvicinando con cautela, interrogandocon gli occhi il suo dipendente.

− No, grazie, non ho bisogno di nulla − rispose Mauro in tuttafretta, e uscì.

Riprese a camminare con ostinazione, e più il dolore si facevaintenso, spandendosi fino alla caviglia e oltre, più se ne beava, come

nell’esaltazione mistica dei penitenti. Tornato sulla Provinciale, tro- vò un ramo lungo quasi quanto era alto lui. Lo ripulì e lo usò comebastone, per alleviare il peso del corpo sul piede malato.

Dopo un’ora che procedeva a rilento aveva le lacrime agli oc-chi. Vide davanti a sé un ampio fiume che scorreva placido taglian-do in perpendicolare il suo percorso. La Provinciale deviava per se-guirne il corso, ma la bussola gli confermava che il sud era propriooltre la riva opposta, nella direzione di un viottolo che

s’intravvedeva dietro la boscaglia, lì di fronte. Ponti in vista non cen’erano, e con quel dolore che ora gli arrivava alla testa, anche ilpensiero di camminare per un metro in più lo atterriva. Decise cheavrebbe nuotato, e il suo piede avrebbe fluttuato leggero nell’acqua,grato di quella tregua, e ne sarebbe uscito riposato e fiducioso.

Scese piano alla riva, ripida e scabrosa di sassi. Valutò la lar-ghezza del guado in un centinaio di metri, lanciò un bastoncino più

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lontano che gli riuscì in mezzo al fiume e lo vide muoversi appena verso valle. La traversata dunque era fattibile. Arrivato di là, avrebbe

sciacquato tutto per bene, si sarebbe finalmente insaponato, e tuttiinsieme, lui, i vestiti, ogni oggetto che aveva con sé si sarebbero ste-si al sole che si annunciava generoso, fino a tornare asciutti fin nellapiù intima fibra. Avrebbe trascorso quel tempo pescando, e il suopranzo sarebbe stato una trota arrostita allo spiedo, o forse un luc-cio. Poi, sazio e pulito, si sarebbe rimesso in marcia.

Si tolse le scarpe e i calzini, e insieme all’armonica, all’orologioe alla bussola li infilò nello zaino, che in quei giorni si era liberato di

parte del suo carico. Strinse il cordino più forte che poté intornoall’apertura, se lo accomodò sulle spalle e fu pronto. Entrò in acquacamminando, ogni passo una sofferenza. Era fredda, ma meno diquella in cui si tuffava di solito. Staccò i piedi dal fondo e prese anuotare. Il piede gli sembrò rinascere, come addormentato dalla fre-scura in cui sguazzava. Si sentì pieno di forze, e dava bracciate mai

 viste; ma mentre si godeva quel trionfo, l’acqua zitta zitta gli gonfia-

 va la maglia, infiltrava lo zaino, inzuppava i pantaloni. Non eranemmeno a un terzo del guado, che già le sue braccia faticavano adalzarsi; pareva che il suo corpo avesse cambiato forma, e i muscoli ei nervi non sapevano più come guidarlo, mentre una forza misterio-sa voleva risucchiarlo giù.

Lo prese il panico. Si liberò dello zaino, tenendolo per uno de-gli spallacci. Provò a nuotare così, mezzo storto, annaspando conun braccio solo, finché la mano che stringeva lo spallaccio, a furia di

strattoni, mollò la presa, e lo zaino, già appesantito, e forse stancoanche lui di tanto lottare, affondò di schianto, portandogli via gli a-nimali che avrebbe catturato, i pesci che avrebbe pescato, le canzoniche avrebbe suonato, gli affari che avrebbe concluso, la direzioneesatta da seguire...

Mauro non ebbe nessuna reazione: non era ancora il tempo dipiangere quella perdita, se lui stesso era in pericolo di vita. Si sentìintrappolato, come un coniglio preso al laccio, come una trota che si

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dibatte invano nel retino. Per sgusciare via e salvarsi doveva liberarsidel gonfio peso che aveva mutato il suo corpo, che lo aveva reso ir-

riconoscibile e inutilizzabile. Si sfilò la maglia, e la maglietta che por-tava sotto si sfilò con lei. Le lasciò andare con la corrente, poi si tol-se i pantaloni, dibattendo le gambe per restare a galla, e le sue vec-chie mutande dall’elastico allentato scivolarono anch’esse via.

Si ritrovò nudo, nel mezzo del fiume, ma era di nuovo padronedi sé. Le bracciate tornarono ad essere bracciate, le gambe battevanol’acqua come sapevano fare, la forza che gli era abituale tornò ariempirgli i muscoli. D’un tratto sentì un “prit prit” di balestrucci in

 volo, come il beffardo saluto a un compagno ritardatario. Li invidia- va e detestava insieme: anche loro guadavano i fiumi, ma senza di-battersi nell’acqua; anche loro attraversavano i campi, ma senza cheil peso del loro stesso corpo fosse motivo di dolore.

In breve fu sull’altra riva, salvo. Ora la disperazione potevaspandersi liberamente dentro di lui, e come un veleno lo fece con-torcere e gridare, finché non cadde addormentato, forse per un mi-

nuto, forse per un’ora. Al risveglio provò un’inspiegabile lucidità,una calma irragionevole. “Andiamo avanti!”, pensò. Risalì la sponda,e gli sembrò che il piede gli dolesse di meno. Ogni passo lo rianima-

 va, e con più intensità si andò convincendo che il suo viaggio sareb-be continuato. In breve fu su quel viottolo solitario che aveva intra-

 visto dall’altra sponda. In fondo, a un paio di chilometri, vide trequattro casette sparpagliate.

Il sole tiepido gli batteva sulle spalle, e senza un motivo appa-

rente pensò a Giuseppe che gli aveva offerto un passaggio, al ragaz-zino della processione e a sua madre, al passante che gli aveva getta-to una moneta, all’omone della farmacia che lo aveva lasciato anda-re. Forse erano dei messaggeri, portatori di notizie o enigmi che siostinava a non comprendere.

Il brecciolino gli tormentava i piedi, e il dolore tornò a punger-lo. Sentì un bruciore a un braccio, dietro al gomito, e vi trovò unlungo taglio, costellato di polvere e sangue rappreso.

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Ripensò ai balestrucci che aveva intravisto uscendo sul balconedella sua stanza. Erano loro che l’avevano spinto a quel viaggio, ma

solo adesso capiva che oltre a indicargli la via da seguire, volevanodirgli ben altro coi loro misteriosi “prit prit”: che certi viaggi non sifanno da soli, che se le forze non ti bastano c’è bisogno che qualcu-no t’incoraggi e ti sostenga, e ti venga a cercare se ti sperdi, e dividacon te i suoi pasti, e ti chiami soltanto per essere chiamato.

Per distrarsi da quegli inutili pensieri − era solo, e nessuno po-

teva farci nulla − guardò verso le case in fondo al viottolo. Con unagiornata così bella, di sicuro qualcuno doveva aver steso il bucato incortile. Se la sorte l’avesse assistito avrebbe potuto staccarne deipantaloni e una maglia come frutti da un albero, e proseguire rifu-giandosi per un po’ nel folto della boscaglia che si estendeva a un la-to del viottolo. Ma se il dolore non si fosse calmato, se non avessetrovato nulla di che rivestirsi, nient’altro gli restava da fare se nonstrappare dei rametti frondosi da un cespuglio, coprirsi alla menopeggio avanti e indietro, bussare alla prima porta, e con l’umiltà che

ancora non sospettava di possedere, a chi gli avesse aperto mormo-rare: “Ho bisogno di aiuto”.