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BOLLETTINO DELLA SOCIETÀ GEOGRAFICA ITALIANA ROMA - Serie XIII, vol. VIII (2015), pp. 179-199 MARIATERESA GATTULLO IMPLICAZIONI GEOGRAFICHE SULLA NATURA DEI BENI COMUNI ALCUNE RIFLESSIONI INDOTTE DALLA LETTURA DI GOVERNING THE COMMONS DI ELINOR OSTROM Introduzione. – Dalla fine degli anni Novanta del XX secolo l’attenzione del- la società civile si è focalizzata su alcune «battaglie» per i beni comuni (com- mons) esplose in varie parti del mondo. Si potrebbero citare moltissimi esempi: primo fra tutti la «guerra dell’acqua» a Cochabamba (Bolivia) nel 2000; poi la lot- ta di milioni di contadini in India e in America Latina contro l’appropriazione privata dei semi; la mobilitazione indigena in Ecuador contro lo sfruttamento delle risorse minerarie e la rivolta contro la messa all’asta della foresta amazzo- nica; la lotta dei campesinos sem terra del Chiapas eccetera (Mattei, 2011). Nel nostro paese i beni comuni hanno ottenuto una improvvisa notorietà al- l’interno del dibattito culturale e mediatico: nel 2008 la Commissione Ministeria- le Rodotà, con il disegno di Legge Delega per la Riforma del Codice Civile, for- mula una definizione giuridico-legislativa di «beni comuni» e propone la salva- guardia e le modalità di fruizione collettiva. Nel 2011 la locuzione guadagna po- polarità con il referendum sulla privatizzazione del servizio idrico e, grazie allo slogan di successo «acqua bene comune», entra nel linguaggio corrente e diviene di gran moda, anche in virtù della stampa e dei media digitali che fungono da amplificatori (Antelmi, 2014). Dal 2011 in poi, oltre all’acqua, tutto o quasi sem- bra poter essere accompagnato dall’etichetta «bene comune» per dar vita a cam- pagne tese a sensibilizzare l’opinione pubblica e a mobilitare la società civile: il lavoro, la scuola, la cultura, l’università e il sapere, il trasporto pubblico, la mu- sica e l’arte sono beni comuni, ma anche i beni demaniali, i servizi pubblici, la sanità eccetera (Antelmi, 2014; Mattei, 2013). La governance dei beni comuni acquista di conseguenza un ruolo cruciale per assicurare e garantire l’ordine sociale democratico, la conservazione e salva- guardia di una serie di risorse naturali, materiali e immateriali. Tuttavia, l’uso del lemma beni comuni in situazioni discorsive più disparate e la sua interpretazio- ne plurima può tradursi in una modificazione e banalizzazione del suo significa-

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BOLLETTINO DELLA SOCIETÀ GEOGRAFICA ITALIANAROMA - Serie XIII, vol. VIII (2015), pp. 179-199

MARIATERESA GATTULLO

IMPLICAZIONI GEOGRAFICHE SULLA NATURA DEI BENI COMUNI

ALCUNE RIFLESSIONI INDOTTE DALLA LETTURA

DI GOVERNING THE COMMONS DI ELINOR OSTROM

Introduzione. – Dalla fine degli anni Novanta del XX secolo l’attenzione del-la società civile si è focalizzata su alcune «battaglie» per i beni comuni (com-mons) esplose in varie parti del mondo. Si potrebbero citare moltissimi esempi:primo fra tutti la «guerra dell’acqua» a Cochabamba (Bolivia) nel 2000; poi la lot-ta di milioni di contadini in India e in America Latina contro l’appropriazioneprivata dei semi; la mobilitazione indigena in Ecuador contro lo sfruttamentodelle risorse minerarie e la rivolta contro la messa all’asta della foresta amazzo-nica; la lotta dei campesinos sem terra del Chiapas eccetera (Mattei, 2011).

Nel nostro paese i beni comuni hanno ottenuto una improvvisa notorietà al-l’interno del dibattito culturale e mediatico: nel 2008 la Commissione Ministeria-le Rodotà, con il disegno di Legge Delega per la Riforma del Codice Civile, for-mula una definizione giuridico-legislativa di «beni comuni» e propone la salva-guardia e le modalità di fruizione collettiva. Nel 2011 la locuzione guadagna po-polarità con il referendum sulla privatizzazione del servizio idrico e, grazie alloslogan di successo «acqua bene comune», entra nel linguaggio corrente e divienedi gran moda, anche in virtù della stampa e dei media digitali che fungono daamplificatori (Antelmi, 2014). Dal 2011 in poi, oltre all’acqua, tutto o quasi sem-bra poter essere accompagnato dall’etichetta «bene comune» per dar vita a cam-pagne tese a sensibilizzare l’opinione pubblica e a mobilitare la società civile: illavoro, la scuola, la cultura, l’università e il sapere, il trasporto pubblico, la mu-sica e l’arte sono beni comuni, ma anche i beni demaniali, i servizi pubblici, lasanità eccetera (Antelmi, 2014; Mattei, 2013).

La governance dei beni comuni acquista di conseguenza un ruolo crucialeper assicurare e garantire l’ordine sociale democratico, la conservazione e salva-guardia di una serie di risorse naturali, materiali e immateriali. Tuttavia, l’uso dellemma beni comuni in situazioni discorsive più disparate e la sua interpretazio-ne plurima può tradursi in una modificazione e banalizzazione del suo significa-

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to che potrebbe ridurne il potenziale innovativo e far perdere al concetto il le-game con le radici storiche e sociali (Antelmi, 2014; Rodotà, 2012).

I beni comuni non costituiscono una categoria economica nuova, ma «pergenerazioni si è supposto che i commons fossero una specie estinta […] Dopo ilsaggio di Hardin (1968) sono stati riscoperti», ma è Elinor Ostrom che ha trasfor-mato questo campo di indagine (Berge e van Laerhoven, 2011, p. 161), ottenen-do per questo il premio Nobel per l’economia nel 2009. Le riflessioni sui benicomuni della politologa statunitense, e in particolare il suo libro Governing theCommons. The Evolution of Institutions for Collective Action, pubblicato nel 1990e tradotto in italiano solo nel 2006, «hanno cambiato completamente la prospet-tiva della ricerca e delle pratiche relative ai beni comuni» e «hanno schiuso nuo-vi orizzonti» per approfondire lo studio dei commons da parte di molte discipli-ne (van Laerhoven e Berge, 2011, p. 1; si veda anche Zamagni, 2014). Gover-ning the Commons «propone un paradigma analitico alternativo per studiare fe-nomeni che prima della sua pubblicazione erano difficili da comprendere» (vanLaerhoven e Berge, 2011, p. 3) e apre la via a un approccio interdisciplinare chesupera le teorie sui commons elaborate sino a quel momento.

Il presente contributo propone una lettura in chiave geografica del noto libroGoverning the Commons. The Evolution of Institutions for Collective Action poi-ché nel governo dei beni comuni lo spazio e il territorio hanno la loro parte daprotagonisti. Talvolta, però, questo ruolo è lasciato in secondo piano, sacrifica-to, per lo più, all’attenzione verso quei processi socio-politico-economici chesembrano considerare le categorie geografiche come soggetti neutri, come sce-nari all’interno dei quali ci si può muovere in maniera indifferenziata. L’obiettivoè individuare quale contributo potrebbe essere dato dalla scienza geografica neldefinire le possibilità e i limiti connessi all’uso dei beni comuni. La geografia, in-fatti, ha «capacità di fornire rappresentazioni multiscalari della territorialità [lega-ta ai beni comuni] e dei relativi processi, che [connettono] e fanno [interagire]positivamente (cioè progettualmente) tra loro le visioni parziali, tipiche degli al-tri approcci disciplinari» (Governa, 2007, p. 335).

Da Hardin a Ostrom. – Le riflessioni sui commons acquistano rilievo in unpreciso momento storico che non può essere ignorato per capire a fondo per-ché Hardin nel 1968 parla di «tragedia dei beni comuni» (1) volendo descrivere,come sostiene la Ostrom, «il degrado dell’ambiente che è lecito attendersi quan-

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(1) Il saggio di Hardin ha portato alla riscoperta e al recente dibattito sui commons. Prima diHardin, altri economisti si erano interessati ai commons. Nel 1911 Coman pubblicava sull’«AmericanEconomic Review» un articolo sui problemi legati alla gestione dell’acqua; nel 1954 usciva l’articolodell’economista Gordon The Economic Theory of a Common-Property Resource: The Fishery. Anterio-ri all’articolo di Hardin sono anche altri due importanti lavori: quello di Samuelson (1954) dedicatoai beni pubblici e quello più corposo di Olson (1965) sulla logica dell’azione collettiva. Negli anniSessanta, intorno a questi lavori, si strutturano quattro filoni di ricerca economica sui commons, ma

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do molti individui utilizzano una risorsa scarsa» (2006, p. 13). Le sue valutazioni,come quelle di altri studiosi, nascono in seno a una profonda crisi del rapportouomo-ambiente che induce a un sostanziale ripensamento sull’organizzazionedelle attività umane nello spazio finito del geosistema e che, alla fine degli anniSessanta del XX secolo, spinge verso la ricerca di nuovi paradigmi di sviluppo.

Il lavoro di Hardin si inserisce in questo contesto storico, nel quale prendecorpo un dibattito teorico-culturale ampio che va sotto il nome di ambientali-smo (Cencini, 1999). La sua teoria pone in luce la sostanziale incapacità digruppi e/o comunità di darsi regole per usare in modo sostenibile le risorse co-muni (2). Il porre l’accento da parte di Hardin sulla finitezza delle risorse natura-li (egli parla di «risorse scarse») e sul degrado cui vanno incontro quando moltiindividui le utilizzano in comune, richiama da vicino le istanze ambientaliste. Ilritenere l’individuo tragicamente «non libero» nelle scelte di massimizzazione delproprio interesse come singolo, poiché inserito in un contesto che fissa limiti al-la sua azione a causa degli «stocks costanti», è invece il condizionamento deri-vante dalla definizione neoclassica di benessere in cui l’ottimizzazione dell’uti-lità individuale è l’obiettivo prioritario di ogni azione per la massimizzazionedel benessere collettivo.

La soluzione alla «tragedia» proposta da Hardin è riportata sul piano della di-cotomia pubblico (Stato)/privato (mercato, privatizzazione). Tale soluzione,però, da sola non è capace di rendere conto di un continuum di esperienze at-tuate per la conservazione delle risorse collettive naturali. Un continuum, in so-stanza, di «forme di governo dei beni comuni» che emergerà grazie alla teoriadella Ostrom. Questa è formulata all’inizio degli anni Novanta nell’ambito di unquadro epistemologico profondamente mutato.

In primis, Elinor Ostrom evidenzia come la «tragedia dei commons» non ri-guardi solo ed esclusivamente le risorse naturali di uso comune: «gran parte delmondo dipende da risorse che sono soggette alla possibilità della tragedia deibeni collettivi» (2006, p. 14). Con Governing the Commons, l’autrice coglie i limi-ti del pensiero di Hardin e propone un teoria alternativa che affonda le radicinella contestazione della «rozza applicazione del modello dell’homo œconomi-cus – massimizzazione individualista delle utilità di breve periodo, slegato daogni relazione sociale capace di produrre un limite – al problema dei beni co-muni» (Mattei, 2011, p. XI; si vedano anche Bruni 2012b e Turco, 2014b). In tal

è a partire dal 1985 che gli studi sui beni comuni e il dibattito scientifico, politico, economico e me-diatico si fanno più intensi e operativi (per approfondimenti: Bruni, 2012b; Mattei, 2011; van Laerho-ven e Ostrom, 2007; Zamagni, 2014).

(2) Nell’articolo pubblicato nel 1968 sulla rivista «Science», il biologo evoluzionista, per descrive-re la «tragedia dei commons», espone il caso dell’uso del pascolo comune. La parola «tragedia» vuoleevidenziare che, in tale situazione, non esiste una soluzione che sia ottima per tutti quanti e, benchénon sia giusto limitare la libertà di accesso, o si affida la gestione al Leviatano o si segue la via dellaprivatizzazione per non deteriorare definitivamente la risorsa (Bruni, 2012a).

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senso, già il titolo del testo è chiaro: il governo dei beni comuni si oppone allatragedia e alla scelta obbligata Stato o mercato.

Osservando sia la scala globale che quella locale («from small neighborhoodsto the entire planet», Ostrom, 1990, p. 1), Elinor Ostrom comincia i suoi studisulle problematiche relative alla gestione dei commons e alle «azioni colletti-ve» (3). Tali problematiche si presentano molto diffuse alla scala planetaria perl’uso di aria, acqua e terra (intesa come somma di risorse rinnovabili e non rin-novabili) e sono caratterizzate da un forte «egoismo socio-spaziale» (Reynaud,1984) che spesso si traduce in conflitto tra i vari soggetti che detengono il pote-re sulle risorse ubicate. Anche ai livelli più bassi della scala spaziale si pongonoproblemi di gestione sostenibile dei commons, ma si osservano soluzioni chepermettono di formulare un nuovo paradigma. Ostrom, infatti, evidenzia come alivello globale spesso si verifica che «né lo Stato, né il mercato sono in grado digarantire sempre lo sfruttamento produttivo, nel lungo periodo, delle risorse na-turali». Volgendo poi lo sguardo verso la scala locale aggiunge che «non menoimportante deve essere la consapevolezza dell’esistenza di istituzioni, non iden-tificabili in modo netto in base alla dicotomia Stato-mercato, che sono state ingrado di amministrare a livello locale dei sistemi di risorse naturali, conseguen-do successi significativi e per lunghi periodi di tempo» (Ostrom, 2006, p. 12).

In questa nuova cornice paradigmatica l’autrice considera fondamentale ac-quisire «informazioni tratte da numerosi contesti» (ibidem, p. 13). Avvia, così, unsignificativo lavoro di ricerca bibliografica e di osservazione diretta di circa 5.000casi di studio – raccolti in una banca dati – in cui comunità locali di differentiaree geografiche plasmano sistemi per gestire le proprie risorse collettive di tiponaturale (aree di pesca, aree di pascolo, bacini acquiferi). All’interno di tali siste-

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(3) La trattazione delle azioni collettive non può essere affrontata in questa sede in maniera e-saustiva, poiché molto ampia e complessa. Qui ci si limita a evidenziare che «l’espressione “azionecollettiva” possiede una connotazione polisemica, onde ogni concettualizzazione o teoria che si pre-senta sotto questa etichetta non potrà che fare riferimento ad un’ampia serie di riferimenti empiriciche si presentano con caratteristiche e meccanismi di aggregazione e/o organizzazione diversificati»(Daher, 2002, p. 13). In economia «l’azione collettiva è qualsiasi azione che produce e consuma in-terdipendenze indivisibili […] Non basta dunque “fare qualcosa insieme”, affinché si possa parlare diazione collettiva. Occorre di caso in caso verificare se quelle attività danno forma ad un’interdipen-denza indivisibile che, in assenza dell’unione tra i soggetti nel gruppo, si realizzerebbe per nulla o inmodi assai carenti» (Bellanca, 2007, p. 213). Ostrom (2006, p. 63) afferma che quando si usano benicomuni «ciascun individuo deve tener conto delle scelte degli altri in sede di valutazione delle sceltepersonali» perché usando una risorsa collettiva tutti sono influenzati reciprocamente e sono legati daessa in una rete di interdipendenze» (si vedano anche Ostrom, 1998 e 2000). Da un punto di vistageografico ciò che interessa è la dimensione territoriale dell’azione collettiva. Come evidenziato daGoverna (2005a e 2007), ogni azione collettiva è senz’altro localizzata, ma non sempre territorializza-ta. Un’azione collettiva può dirsi territorializzata secondo due prospettive che si integrano fra loro:una in cui i soggetti condividono obiettivi in base ai quali costruiscono azioni (i loro obiettivi posso-no essere disgiunti dalle specificità territoriali); l’altra in cui la condivisione che si stabilisce tra sog-getti riguarda le specificità dei luoghi e punta alla valorizzazione delle risorse territoriali (compresi icommons) (Turco, 2014b).

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mi, assai diversi tra loro, è comunque possibile scorgere delle strategie ricorren-ti (quelle che Ostrom definisce «le costanti») adottate dagli attori coinvolti sullabase delle diverse finalità di uso delle risorse. Tali strategie sono individuate sof-fermando l’attenzione su «1) la struttura dei sistemi di risorse; 2) gli attributi e icomportamenti degli appropriatori; 3) le regole adottate dagli appropriatori; 4) irisultati derivanti dai comportamenti degli appropriatori» (ibidem, p. 6). I dati,opportunamente codificati, hanno permesso di formulare una teoria dei com-mons che supera la «tragedia dei beni comuni» di Hardin (4).

In tutto il libro è esplicito il riconoscimento della Ostrom verso le «capacità diauto-organizzazione e auto-governo delle comunità stanziate in un luogo» (localempowerment), capacità che pur differenziandosi nello spazio sono accomunatedal fatto di essere il frutto di quella interazione società-ambiente che avvia pro-cessi di territorializzazione (Raffestin, 1981). Nei casi descritti, infatti, gli attorinon creano solo istituzioni, ma si appropriano dello spazio, lo forgiano, produ-cono e riproducono territorio al fine di assicurare la conservazione dei beni co-muni a cui si attribuisce valore come comunità. L’attenzione è posta su una seriedi condizioni proprie dei rapporti delle classi socio-spaziali, caratteristiche dellerelazioni di potere tra spazi e collettività, che conducono a forme di territorializ-zazione in cui i portatori di interessi rientrano in un ventaglio molto ampio. Lacapacità della comunità di mantenere e rivitalizzare le risorse collettive contri-buisce allo sviluppo e alla crescita della comunità.

La progettualità proposta dal testo si configura come una progettualità pro-priamente geografica poiché contiene la «rappresentazione di ciò che di nuovosta emergendo dal territorio e su cui si può realisticamente intervenire in datecircostanze per imprimere eventualmente ai processi in atto una direzione piut-tosto che un’altra» (Dematteis, 1995, p. 37). Le riflessioni si incentrano per lo piùsulla scala locale, su comunità medio-piccole e sul gioco di relazioni simmetri-che e asimmetriche tra diversi attori, determinanti del successo e/o fallimentonella gestione di beni collettivi.

Governing the Commons riconosce che la capacità degli individui di auto-or-ganizzarsi e auto-governarsi per la soluzione di problematiche legate all’uso del-le risorse collettive non segue un’unica via, ma varia fortemente nello spazio:soluzioni troppo standardizzate non funzionano nel reale empirico come previ-sto dai modelli. Esistono entità intermedie, rappresentate da aggregati di sogget-ti che nella gestione dei beni comuni si comportano «di fatto come “un soggettocollettivo”: un soggetto che anche se non è formalmente riconosciuto come tale

(4) La sistematizzazione in un archivio di questi studi e di altri provenienti da un’accurata ricercabibliografica, effettuata alla fine degli anni Ottanta secondo precisi criteri tassonomici di selezionedei contributi, ha condotto alla definizione di un quadro concettuale applicabile alle ricerche empiri-che sui sistemi di risorse collettive di differenti discipline (IAD framework, Istitutional Analysingand Development framework; Kiser e Ostrom, 1982; Polski e Ostrom, 1999; Ostrom, 1986 e 2005) eha consentito di individuare una teoria alternativa a quelle convenzionali dei beni comuni.

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(cioè non è né un ente territoriale, né un’impresa, né altro tipo di istituzione),[…] è consapevole della propria identità ed è capace di “comportamenti” collet-tivi autonomi che gli consentono di interagire con l’esterno seguendo “regoleproprie”, largamente informali, ma sufficienti a garantire la riproduzione» (De-matteis, 1994, pp. 14-15).

Commons: una posta in gioco difficile da definire. – Beni comuni/collettivi,risorse comuni/collettive: in una parola commons (5). Nel testo italiano questecoppie di sostantivi e aggettivi sono combinate in maniera indifferenziata poi-ché, come spesso accade, la traduzione italiana di termini anglosassoni proponecome sinonime parole che nel nostro vocabolario non lo sono (6). Non si puòperò ignorare la differenza tra risorse e beni (Dematteis, 2005; Toschi, 1959; Vi-dal de La Blache, 1911), così come va sottolineato che gli aggettivi «comune» e«collettivo» non sono sinonimi. L’intenzione del traduttore, tuttavia, è di voler de-finire una particolare categoria di beni che va tenuta distinta da altre due cate-

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(5) Le locuzioni citate, che nell’ultimo decennio hanno trovato ampia diffusione nella lingua ita-liana in campo economico, giuridico, sociologico e mass-mediatico, corrispondono all’inglese com-mons, parola che si diffuse nei paesi anglosassoni durate il XV secolo. Per approfondire la ricostru-zione storica ed etimologica di «commons» e «beni comuni» si vedano Antelmi (2014); Mattei (2011);Ricoveri (2010); Sachs (2006); Vocaboulary of Commons (2011).

(6) Nella traduzione italiana del testo ci si imbatte più volte nell’uso indifferenziato dei due so-stantivi e aggettivi: il titolo è tradotto Governare i beni collettivi; il curatore dell’edizione italiana af-ferma che il libro si occupa di «risorse comuni»; la tragedia di Hardin è delle «risorse collettive» e dei«beni collettivi» (pp. 12 e 18) e ancora la Ostrom dice che «cercherà di spiegare come alcune comu-nità di individui creino o sviluppino diversi modi di amministrare i beni collettivi» (p. 12), di «identi-ficare le strutture di base delle istituzioni auto-organizzate dei beni comuni» (p. XLV). Zamagni(2014) definisce «curiosa» la scelta di aver tradotto il titolo dell’opera più famosa della Ostrom Go-vernare i beni collettivi considerando collettivo e comune come sinonimi; anche Mattei (2011) fa uncenno alla poco felice traduzione. Come sottolinea Antelmi (2014), nel linguaggio comune vi è una«sostanziale sinonimia» tra le locuzioni beni comuni, beni collettivi e beni pubblici. Talvolta, si usaanche risorsa come sinonimo di bene. «L’uso indifferenziato e indiscriminato dei sintagmi è la conse-guenza della loro “difficile collocazione e definizione” dovuta al diverso significato, “spesso nonequivalente”, attribuito loro all’interno di diversi campi del sapere – politico, economico, giuridico,culturale» (ibidem, p. 46). Poi precisa: «non voglio asserire che la locuzione muti il proprio “signifi-cato” in queste diverse sfere dell’attività umana: gli elementi che la compongono […] appartengonoal lessico di base della lingua italiana. Ma nei dizionari specialistici quei lemmi assumono “sensi” dif-ferenti […] che si traducono in pratiche […] non necessariamente congruenti» (ibidem, p. 47). È dun-que importante chiarire il senso dei termini poiché attorno alle parole beni comuni/collettivi e/o ri-sorse comuni/collettive si organizzano pratiche economiche, politiche, sociali, culturali e territorialiche possono differire significativamente tra loro. Senz’altro però i beni comuni non indicano toutcourt la «proprietà collettiva», che costituisce infatti una categoria di beni che rientra all’interno deicommons (Carestiato, 2008). Benché le differenze lessicali siano significative, i vocaboli «comune» e«collettivo» nel libro italiano tendono a rilevare che vi è un gruppo di persone legate da un interesseo da un fine comune rispetto al consumo/uso di una risorsa scarsa (Antelmi, 2014). Nel presente ar-ticolo si riscontra l’uso dei vari lemmi poiché si rispetta, di volta in volta, la traduzione riportata neltesto consultato; tuttavia nelle parti che esprimono considerazioni proprie della scrivente si è prefe-rita la locuzione «beni comuni».

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gorie, quella dei beni pubblici e dei beni privati. I beni comuni, infatti, sono«beni consumati contemporaneamente da più persone (quella che in economiasi chiama la “non escludibilità” del consumo) e sono anche beni scarsi, rivali: ilconsumo da parte dell’altro riduce le mie possibilità di consumo». Inoltre «le per-sone che usufruiscono di quei beni sono legate tra di esse, sono una comunità»(Bruni, 2012b, p. 113) (7). Da un punto di vista geografico, sulla base stessa delcontenuto del testo, si può affermare che un bene comune è un bene a cui è at-tribuito un valore identitario (non di scambio e non solo d’uso) da parte di ungruppo umano: nel momento in cui un gruppo umano dà valore identitario auna risorsa collettiva si pone il problema di come usarla in comune.

La definizione della Ostrom di «risorsa collettiva» si riferisce a «un sistema diproduzione di risorse, naturale o artificiale, che sia sufficientemente grande darendere costosa (ma non impossibile) l’esclusione di potenziali beneficiari dalsuo utilizzo» (2006, p. 52) (8). Una risorsa collettiva, dunque, come e più di ognirisorsa (Toschi, 1959), «non è una cosa, è una relazione che fa emergere alcuneproprietà necessarie alla soddisfazione di bisogni. Ma non si tratta di una rela-zione stabile; […] Ogni risorsa è in divenire; ogni risorsa è una posta dinamica»(Raffestin, 1981, p. 22).

(7) L’uso degli aggettivi pubblico, privato e comune/collettivo «non hanno nulla (o molto poco ein ogni caso indirettamente) a che fare, nel linguaggio della teoria economica, con la proprietà ocon la natura giuridica del bene» (Bruni, 2012b, p. 123). Secondo la teoria economica i beni comunisi caratterizzano per la rivalità e non escludibilità e, per questo, si differenziano dai beni pubblici(non escludibili e non rivali) e da quelli privati (escludibili e rivali grazie ai diritti di proprietà) (Bru-ni, 2012a; Franzini, 2012). La teoria dei commons classifica i beni in quattro categorie in funzionedella escludibilità e sottraibilità: beni pubblici, non escludibili e non rivali; beni privati, escludibili erivali; beni comuni non escludibili e rivali, beni di club (toll goods) escludibili e non rivali (Ostrom V.e E. Ostrom, 1977); nel 2009 Hess e Ostrom propongono una definizione epistemologicamente piùampia di beni comuni all’interno della teoria dei commons di cui si parla nella nota successiva.

(8) Nel testo in lingua originale Ostrom utilizza l’espressione «Common-Pool Resources (CPRs ocommons)». Come sottolinea Carestiato (2008), accanto alla definizione di Ostrom è possibile indivi-duare diverse classificazioni dei beni comuni. Una li vede distinti in beni comuni immateriali (infor-mazione, saperi, cultura) e beni comuni naturali e ambientali. Possono anche essere suddivisi in be-ni comuni tangibili e intangibili; beni comuni locali e globali, questi ultimi raggruppabili in rinnova-bili, esauribili e inesauribili (Donolo, 2012). Tenendo conto di queste differenti classificazioni Care-stiato (2008, p. 13) propone la seguente tassonomia: «A. beni comuni tradizionali, che una determi-nata comunità gode per diritto consuetudinario (prati, pascoli, boschi, aree di pesca, ecc.); B. benicomuni globali quali aria, acqua e foreste, la biodiversità, gli oceani, lo spazio, le risorse non rinno-vabili […]; C. i new commons, individuabili nella cultura, le conoscenze tradizionali, le vie di comu-nicazione (dalle autostrade alla rete internet), i parcheggi e le aree verdi in città, i servizi pubblici diacqua, luce, trasporti, le case popolari, la sanità, la scuola, il diritto alla sicurezza e alla pace». Nel2011 il Vocabulary of Commons ha proposto il seguente raggruppamento: Natural commons; Urbancommons; Social commons, Knowledge commons, Spiritual and sacred commons. Nel 2009 Hess eOstrom chiariscono cosa si intenda per «beni comuni» all’interno della teoria dei commons: «una ri-sorsa condivisa da un gruppo di persone e soggetta a dilemmi (ossia interrogativi, controversie, dub-bi, dispute ecc.) sociali» (p. 5). Tale definizione acquista particolare importanza alla luce dell’intro-duzione dei «beni della conoscenza» nel panorama dei beni comuni. Inoltre, si tratta di una defini-zione che sembra rispondere all’esigenza sollevata da Mattei (2011) circa il pericolo di mercificazio-ne dei commons connesso a una tassonomia troppo stringente.

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Dove, da chi e come viene giocata tale «posta dinamica» quando è una risor-sa collettiva? «Gli utenti delle risorse collettive [sviluppano] contratti eterogeneiche vengono fatti rispettare attraverso numerosi meccanismi» (Ostrom, 2006, p.33). L’intento del libro «è proporre spunti di riflessione sui meccanismi che gliindividui possono usare per districarsi nei problemi legati all’uso delle risorsecollettive, immaginando modalità diverse da quelle che possono trovarsi nei te-sti di politica economica» (ibidem, p. 34). Tali modalità, infatti, si strutturano sul-la base di relazioni verticali e orizzontali complesse tra comunità e ambiente icui effetti si traducono in segni territoriali non riassumibili solo attraverso lettureeconomico-politiche, ma attraverso un approccio interpretativo multidiscliplina-re (van Laerhoven e Berge, 2011) in cui la geografia dovrebbe avere un ruoloprimario, anche se, come evidenzia Moss (2014), la dimensione geografica espaziale dei commons è, a oggi, poco indagata (9). La Ostrom, invece, si ponesubito un problema di natura geografica per avviare le sue riflessioni sull’usodelle risorse comuni: la scelta della scala, cioè dello spazio geografico al qualevuole limitare la ricerca (Pagnini Alberti, 1974; Reynaud, 1984). Poiché i beni co-muni comportano problematiche di gestione di tipo transcalare, sceglie di con-centrarsi sulla scala locale dove sono più facili da osservare i processi di auto-organizzazione e di auto-governo finalizzati a ottenere vantaggi collettivi perma-nenti da parte di gruppi di soggetti economici. Il locale rappresenta quella scalageografica «che permette le interazioni tipiche della prossimità fisica: relazioniface-to-face, fiducia, reciprocità…» (Dematteis, 2001, p. 17).

Il concetto di «locale», cui ci si riferisce nel testo, non fa tanto riferimento alladimensione o alla gerarchia ma «è più un nostro modo di concepire il territorio,di guardare alle specificità ed alle differenze che lo caratterizzano come stru-menti rilevanti delle analisi. Il locale si configura come uno specifico “sguardo”alle problematiche territoriali» delle risorse collettive (Governa, 1997, p. 15); l’au-to-organizzazione e l’auto-governo si configurano come espressione «di un pro-getto in cui le componenti economiche hanno pur sempre un ruolo importante,ma secondario rispetto a quelle culturali» (Dematteis, 1994, p. 13).

Per il governo di un bene collettivo possono essere costituite anche «istituzio-ni collettive» che risentiranno di una serie di attriti posti dalla differenziazionespaziale dell’ambiente naturale, dalla possibilità di reperire informazioni ma an-che dalla cultura e dalla struttura sociale. Le loro azioni, oltre ad avere funzioni digoverno del bene, avvieranno processi di territorializzazione il cui successo/in-successo va analizzato molto attentamente per cogliere il ruolo che i commonshanno rispetto allo sviluppo locale e globale. Nei casi di studio presentati appare

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(9) L’articolo di Moss, pubblicato nel 2014 sulla rivista «International Journal of the Commons», sisofferma sull’importanza della geografia per i commons e per la loro governance. Moss sottolineacome «problemi di spazio, luogo, territorio o scala siano onnipresenti negli studi dedicati ai com-mons, ma raramente nei lavori di ricerca hanno avuto attenzione prioritaria» (2014, p. 459); inoltre e-videnzia quanto sia esiguo il numero di ricerche in campo geografico dedicate ai commons.

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chiara l’intenzione di sottolineare l’esistenza di variabili che si ripetono ma che sicombinano diversamente, producendo risultati con esiti molto differenti sulle ri-sorse e sulle comunità locali. Inoltre, prima di presentare i casi di studio, il testoevidenzia come sia necessario pensare la realtà in maniera transcalare, considera-re l’interazione tra classi socio-spaziali come un elemento strategico soprattuttoper gestire in modo corretto le informazioni temporali e spaziali relative all’usodelle risorse collettive che «sono quasi impossibili da identificare sulle mappe,senza un’approfondita conoscenza del luogo» (Ostrom, 2006, p. 36).

Il ruolo della comunità. – Fissate queste premesse, in cui si può riconoscereil ruolo decisivo attribuito al territorio come spazio trasformato e organizzatodall’azione sociale (Tinacci Mossello, 1990), il tema centrale dello studio è costi-tuito dal «modo in cui un gruppo di soggetti economici che si trovano in situa-zione di interdipendenza possono auto-organizzarsi e auto-governarsi per otte-nere vantaggi collettivi permanenti, pur essendo tutti tentati di sfruttare le risorsegratuitamente, di evadere i contribuiti o comunque di agire in modo opportuni-stico» (Ostrom, 2006, p. 51). E poiché alcuni gruppi umani riescono in questo in-tento e altri no, il lavoro approfondisce taluni tentativi riusciti e altri falliti.

La ricerca ruota attorno ad alcuni concetti chiave che si rivelano essenziali perindividuare il complesso di attori che gravita intorno alle risorse collettive ubicatein un luogo. Posta la definizione di risorsa collettiva come «sistema di produzionedi risorse naturale o artificiale» (ibidem, p. 52) (10), la Ostrom distingue tra: 1) il si-stema di produzione di risorse, definito come stock di capitale (aggiungerei territo-riale) che in condizioni favorevoli garantisce un flusso di risorse che non deteriorae non pregiudica il sistema stesso; 2) il flusso delle unità di risorse prodotte dal si-stema, ciò di cui si appropriano o fanno uso gli individui. «Il processo di prelievodi unità di risorse da un sistema di produzione» è chiamato appropriazione (ibi-dem, p. 53). Da tale definizione ne segue una relativa agli attori che intessono re-lazioni orizzontali e verticali con le risorse collettive come flusso e/o come siste-ma. Un primo gruppo è rappresentato dagli appropriatori: attori che acquisisconounità di risorse dal sistema con fini differenti rappresentati dal consumo diretto(autoconsumo), dal loro uso come inputs in processi di produzione, dal trasferi-mento della proprietà ad altri; possono essere soggetti singoli (impresa, individuo)oppure gruppi che usano contemporaneamente lo stock.

(10) Il testo specifica che nei beni collettivi le unità di risorse prelevate da un sistema non sonosoggette all’uso congiunto o all’appropriazione congiunta; mentre il sistema di produzione di risorseè utilizzato congiuntamente e non si può escludere alcuno dall’uso congiunto. L’autrice precisa chela distinzione delle risorse collettive come stock e come flusso è particolarmente importante quandoci troviamo di fronte a risorse rinnovabili per le quali è possibile calcolare un tasso di reintegro. Inol-tre sottolinea che gli appropriatori cui ci si riferisce «non hanno poteri sui mercati dei prodotti finali»e le loro azioni non generano «significative conseguenze al di fuori del contesto ambientale in cuiavviene l’uso della risorsa collettiva» (Ostrom, 2006, p. 43).

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Vi sono poi i fornitori e i produttori, soggetti che con le loro attività rendonopossibile e assicurano l’uso di una risorsa collettiva: 1) i fornitori organizzano ilsistema di utilizzo di una risorsa collettiva; 2) i produttori costruiscono, oppurerimettono in funzione, il sistema di produzione delle risorse o pongono in esse-re azioni per garantire la sostenibilità del sistema nel lungo periodo. I problemida affrontare nella gestione dei commons sono prevalentemente legati all’appro-priazione e alla fornitura (Ostrom, Gardner e Walker, 1994).

Prima di presentare i casi di studio, è opportuno evidenziare alcuni aspettirelativi alle scelte degli appropriatori che devono adattarsi a un ambiente in con-tinuo mutamento, incerto e instabile, mettendo in essere scelte razionali forte-mente influenzate dallo spazio geografico. Tra le fonti di incertezza un ruolofondamentale è attribuito dall’autrice alla differenziazione spaziale delle cono-scenze/informazioni relative alle caratteristiche e all’uso delle risorse collettiveche pongono in gioco il delicato equilibrio tra ambiente oggettivo e ambiente dicomportamento (Lloyd e Dicken, 1988). Le risorse collettive, inoltre, hanno lapeculiarità di legare tra loro i co-appropriatori; essi sono congiunti da una retedi interdipendenze (anche se non vi è un’esplicita volontà) fino a che utilizzanola stessa risorsa collettiva; se operassero in maniera slegata potrebbero determi-nare la distruzione della risorsa collettiva. Quest’ultima richiede, dunque, che gliappropriatori si organizzino e agiscano come attori «collettivi sintagmatici», attoricollettivi che realizzano un programma condiviso di uso del commons, che «siintegrano o sono integrati in un processo programmato» e non come attori para-digmatici «che si rifanno ad una classificazione, una spartizione senza integrazio-ne in un processo programmato» (Raffestin, 1981, p. 52). Tuttavia, sottolineaOstrom, «passare dall’azione indipendente a quella coordinata e collettiva non èun problema da poco» (2006, p. 65). Oltre a un problema di costi, si pongonoquestioni di legittimità, di responsabilizzazione e di controllo reciproco in cuientrano in gioco i conflitti tra attori e classi socio-spaziali.

L’autrice rivolge poi l’attenzione su altri due aspetti relativi alle scelte che ri-chiamano implicitamente il territorio e la comunità in cui si muovono gli attoriche utilizzano le risorse collettive. Questi ultimi devono occuparsi sia dell’appro-priazione sia della fornitura affrontando così condizioni assai diverse relativa-mente agli ambiti spaziali e ai valori di base (Ostrom parla di «incertezza geogra-fica», ibidem, p. 77); inoltre, le loro azioni si riferiscono a scale spaziali differen-ti. L’appropriazione e la fornitura sono connotate come attività con una forte va-riabilità geografica, imputata dalla Ostrom solo in parte alle condizioni dell’am-biente naturale. Per l’autrice la variabilità geografica è riconducibile, soprattutto,alla gestione del sistema di produzione e alle condizioni di «accessibilità pianifi-cata» che gli attori vogliono ottenere. Sono queste ultime che portano alla crea-zione di istituzioni – argomento principale della trattazione contenuta nel libro:«insiemi di regole operative seguite per determinare» azioni e restrizioni, aggre-gazioni, procedure, informazioni da fornire; ma quelle indagate nel testo sono le«regole de facto effettivamente adottate in contesti caratterizzati dall’uso concre-

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to di risorse collettive nel tentativo di comprendere gli incentivi e le conseguen-ze che producono» (ibidem, pp. 80-81, e si veda anche Ostrom, 2005). Le regoleoperative, però, sono il risultato di scelte formali e informali fatte da chi presidiail territorio; esse configurano il risultato di un «codice genetico» basato su «princi-pi peculiari del suo funzionamento autoriproduttivo, le sue logiche interne, ilmodo comune di pensare, di comunicare e di agire dei soggetti che lo compon-gono» (Dematteis, 1994, p. 15) che andrebbe approfondito in chiave di analisispaziale dei commons.

Beni comuni e territorializzazione. – I casi di studio presentati in Governingthe Commons ritraggono contesti spaziali locali nell’ambito dei quali, attraversol’osservazione diretta, si può constatare: 1) in che modo gli appropriatori hanno«ideato, applicato e monitorato il rispetto delle regole nate per controllare l’usodelle proprie risorse collettive»; 2) perché i sistemi di produzione delle risorse ele istituzioni sono sopravvissute per periodi di tempo molto lunghi, superandocondizioni sfavorevoli sia di tipo naturale che di tipo sociale ed economico. Gliambiti spaziali esaminati appartengono ad aree geografiche molto differenti emolto distanti fra loro (Svizzera, Spagna, Giappone, Turchia, Filippine, Califor-nia, Sri Lanka, Nuova Scozia). Accanto ad alcuni esempi di successo, se ne af-fiancano altri di fallimento totale e di fragilità delle istituzioni create dagli appro-priatori e un caso di cambiamento istituzionale in ambiente incerto e instabile.

Dalla lettura dei casi di studio si coglie come la dimensione geografica nell’a-nalisi dei beni comuni vada recuperata da un punto di vista non solo metodolo-gico, ma anche epistemologico poiché lo spazio non è un semplice contenitoredell’azione collettiva (Dematteis e Governa, 2005; Giordano, 2003; Moss, 2014;Turco 2014a). I contesti territoriali esaminati, infatti, si configurano come «classisocio-spaziali» (Reynaud, 1984) che si differenziano per la capacità neg-entropi-ca: nei casi di successo il gruppo sociale escogita soluzioni per preservare lespecificità locali legate ai commons, crea ordine espresso dalle istituzioni, dallerelazioni cooperative, dall’uso sostenibile delle risorse, dall’organizzazione dellospazio; nei casi di insuccesso le classi socio-spaziali declinano a causa dell’inde-bolimento progressivo della capacità di organizzazione, legato soprattutto a unascarsa presa di coscienza delle condizioni locali e delle potenzialità legate a unuso sostenibile dei beni comuni di cui dispongono.

In ciascun caso si parte dall’osservazione dello spazio terrestre, reale e con-creto, letto come dato, ma è solo in nuce la sua lettura come spazio prodotto,vissuto e percepito (Dauphiné, 1989). Per ciascuna comunità locale si osserva in-nanzitutto la dimensione fisica ed ecologica sulla quale poggia l’organizzazioneumana connessa alla risorsa collettiva naturale: si descrivono la morfologia, leprecipitazioni, l’esposizione alla luce solare, i microclimi. Si tratta certamente diun’impostazione di metodo fondamentale poiché azione umana e natura non so-no svincolate l’una dall’altra, ma vivono di rapporti reciproci non ignorabili se si

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vuole capire a fondo da dove discende l’organizzazione sostenibile del territorio.Si passa poi all’osservazione dell’azione umana rispetto alle risorse collettive: l’in-dividuazione di strategie finalizzate all’uso e al governo delle risorse porta allacombinazione di mezzi che generano relazioni verticali e orizzontali espressionedella capacità di controllo delle risorse stesse, in cui accanto allo spazio reale (fi-nito e assoluto) si materializza uno spazio simbolico legato all’azione delle orga-nizzazioni che istituzionalizzano le relazioni stesse (Raffestin, 1981; Turco, 1988 e2014b). Nei casi di successo i soggetti possono essere definiti attori poiché sono«dotati di intenzionalità proprie» (Dematteis e Governa, 2005, p. 20) orientate aprodurre e riprodurre relazioni materiali e immateriali. Inoltre «questo aggregatodi soggetti agisce come attore collettivo nel momento in cui si impegna nell’ela-borazione e realizzazione di un progetto condiviso» (Dematteis, 2001, p. 17).

Il risultato è l’evidenza di alcune analogie fondamentali: esse sono espressionedella territorializzazione di un agire collettivo fondato su regole condivise incen-trate sulle peculiarità dell’ecosistema, sui punti di forza delle comunità, sulla mini-mizzazione dei conflitti, sulla sostenibilità e solidità dei processi di appropriazio-ne delle risorse che «generano territorio», innescano percorsi di sviluppo localeduraturi e autocentrati, strutturano sistemi locali a base territoriale (Bonora, 2001).

Da tali analogie discendono regole elaborate nei vari contesti territoriali che,pur differendo in funzione della diversità dei luoghi, possono riassumersi in «set-te principi progettuali che caratterizzano queste istituzioni solide responsabilidelle risorse collettive» (Ostrom, 2006, p. 134): 1) chiara definizione dei confini;2) congruenza tra regole di appropriazione, fornitura e condizioni locali; 3) me-todi di decisione collettiva; 4) controllo; 5) sanzioni progressive; 6) meccanismidi risoluzione dei conflitti; 7) un minimo livello di riconoscimento dei diritti diorganizzarsi. A questi si aggiunge un’ottava regola propria dell’apertura dei si-stemi d’uso locali verso altri sistemi locali e verso altre scale di governo del ter-ritorio: organizzazioni articolate su più livelli.

Nei casi di successo i sette principi sono la base di quel sistema complesso«maglia-nodo-rete» (Raffestin, 1981) che diviene l’essenziale visibile, l’esterioriz-zazione dell’organizzazione delle comunità studiate, finalizzata non solo allaconservazione e uso della risorsa collettiva, ma anche all’interazione politica,economica, sociale e culturale legata ai giochi della domanda e dell’offerta traindividui e gruppi appartenenti e non alle comunità locali.

La chiara definizione dei confini (fisici e funzionali) – espressione nel testodei limiti delle funzioni di controllo, legali e di potere – è indicata come base ir-rinunciabile e prioritaria per avviare l’azione collettiva (11). Essi costituiscono l’e-

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(11) Sul tema del confine la letteratura geografica è molto ampia e articolata. Il concetto di confi-ne è ambivalente, indica un limite ma, al tempo stesso, esprime la necessità di superarlo; ha una du-plice funzione: da un lato escludere e separare; dall’altro unificare e raccogliere (Buzzetti, 1996; Liz-za, 2001). Nella lingua inglese si distingue tra «frontier», «border» e «boundary» (Zanini, 1997). Per l’u-so dei commons Ostrom parla di «clearly defined boundaries» e specifica che «individuals or hou-seholds who have rights to withdraw resource units from the CPR must be clearly defined, as must

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lemento primario di qualunque forma di territorializzazione: l’uso dei commonsda parte del gruppo richiede e «genera immediatamente la delimitazione», circo-scrive una maglia. «Se non fosse così, l’azione si dissolverebbe […] L’azione es-sendo sempre comandata da un obiettivo, quest’ultimo è anche delimitazione ri-spetto ad altri obiettivi possibili» (Raffestin, 1981, p. 158). Il confine è definitoanche in termini di esclusione dai diritti di accesso e appropriazione da parte diestranei, cioè soggetti che non siano appropriatori appartenenti alla comunitàlocale. Nella visione della Ostrom il confine definisce quella che Raffestin chia-ma una maglia voluta poiché «tenta di ottimizzare il campo operativo del gruppolocale» (ibidem, p. 159).

Per l’autrice, tuttavia, il confine è necessario ma non sufficiente. La maglia in-fatti include i nodi – rappresentati da appropriatori, fornitori e produttori (localie sovralocali) – ciascuno espressione di un potere sulla risorsa. Tali attori «non siaffrontano, essi agiscono e di conseguenza cercano di intrattenere delle relazio-ni, di assicurare funzioni, di influenzarsi, di controllarsi, di proibirsi, di permet-tersi, di allontanarsi o di avvicinarsi, e con ciò di creare tra loro delle reti»(Ostrom, 2006, p. 161). Pertanto l’insieme degli altri sei «principi progettuali» vaa cementare reti interne ed esterne, a strutturare quel sistema di relazioni pro-duttive ed esistenziali che animano sia il processo territoriale sia il prodotto ter-ritoriale e definiscono percorsi di sviluppo locale incentrati sui commons.

Le «regole di appropriazione e di fornitura» (principio 2) esprimono le moda-lità di relazioni tra soggetti locali e milieu territoriale nate intorno alla risorsacollettiva (Bonora, 2001; Dematteis, 2001; Dematteis e Governa, 2005). Il richia-mo esplicito del testo alla coerenza delle regole con le condizioni locali e congli attributi specifici della risorsa è il riconoscimento del fatto che i commons so-no legati strettamente alle condizioni dell’ambiente naturale, sono caratterizzatida immobilità, specificità e non esiste un modo unico per gestirli in maniera cor-retta, ma questo va di volta in volta adattato a tali specificità; inoltre tale coeren-za garantisce l’uso sostenibile della risorsa collettiva naturale rispetto ai diversiattori e avvia processi di sviluppo dal basso (Conti, 2012).

«I metodi di decisione collettiva, il monitoraggio, le sanzioni progressive e imeccanismi di risoluzione dei conflitti» (Ostrom, 2006, p. 134) esprimono le mo-dalità con cui strutturare un altro tipo di relazioni: quelle dei soggetti locali, in-

the boundaries of the CPR itself» (1990, p. 91). Tale definizione sembra rimandare in maniera imme-diata alla questione della delimitazione di uno spazio di cui ci si appropria, preservandolo e valoriz-zandolo, attraverso un percorso di costruzione sociale legato ai commons, in cui il confine, insiemeal territorio che delimita, è «esito di azioni collettive mediate dalla materialità dei luoghi» (Dematteise Governa, 2005, p. 26). Infatti, come rilevano Dematteis e Governa (ibidem, p. 25), richiamandoRaffestin, «la questione della delimitazione e della demarcazione di un territorio implica l’idea di ap-propriazione dello spazio: tracciare un confine, includere ed escludere, è l’espressione materiale diun progetto, delle intenzioni e delle volontà che in esso si attuano, dei rapporti di potere che lo sor-reggono. Tracciare un confine contribuisce alla territorializzazione dello spazio e alla strutturazionedel territorio come luogo di un’azione».

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teressati ai commons, tra di loro (Bonora, 2001; Dematteis, 2001; Dematteis eGoverna, 2005). Le buone regole discendono, per l’autrice, dal coinvolgimentonella loro formulazione della maggior parte degli individui interessati dalle rego-le operative stesse. Seguendo questo principio le istituzioni posso adattare me-glio «le loro regole alle circostanze locali, in quanto gli individui che interagisco-no tra loro e con il mondo fisico possono modificare nel tempo le regole, permeglio adattarle alle specifiche caratteristiche locali» (Ostrom, 2006, p. 138). Ilfatto, però, che vi siano buone regole non significa che queste vengano rispetta-te: i soggetti locali sono chiamati anche a monitorare, sanzionare e gestire i con-flitti che nascono all’interno di quello che viene definito «sistema locale».

Gli ultimi due principi progettuali manifestano un chiaro riconoscimento del-l’essenzialità della cooperazione e del dialogo tra componenti locali e livelli discala sovralocali nell’uso e gestione dei commons. Il rapporto delle istituzioni lo-cali con le altre istituzioni di origine politico-economica e la possibilità di agirein autonomia rispetto alla risorsa comune localizzata, insieme al riconoscimentodi più scale spaziali e di più classi socio-spaziali interessate alla gestione deicommons, evidenziano come il governo del territorio vada pensato sempre e ne-cessariamente in una dimensione transcalare. Si afferma, infatti, che «le attività diappropriazione, fornitura, sorveglianza, applicazione forzata, risoluzione deiconflitti e amministrazione sono inserite in organizzazioni articolate su più livel-li concentrici» (ibidem, p. 150); ciò implica il riconoscimento di più forme e tipidi istituzioni coinvolte nella gestione dei beni comuni. La relazione fra tali istitu-zioni e quelle politico-amministrative implicate nella gestione della risorsa co-mune è una chiave di successo poiché, per l’autrice, «stabilire regole ad un livel-lo, senza che esistano regole fissate agli altri livelli, produce un sistema incom-pleto che non può durare nel tempo» (ibidem, p. 150). Si tratta di una visione si-gnificativa che racchiude in sé il concetto di multilevel governance (Scarpelli,2009) rispetto ai beni comuni. Benché localizzati questi richiedono un approccioalla gestione che sia frutto della corresponsabilità e di politiche territoriali di sca-la e che, inoltre, tenga conto del fatto che vi siano azioni e relazioni che non di-pendono dagli attori collettivi locali.

L’insieme di queste diverse categorie di relazioni, individuate dall’osservazio-ne dei casi di studio, suggerisce che per la ricerca geografica intorno ai com-mons uno strumento concettuale utile, da affiancare allo IAD framework, sia ilmodello teorico operativo dei sistemi locali nello sviluppo territoriale (Bonora,2001; Dematteis, 2003) perché «le reti dei soggetti locali sviluppano al loro inter-no relazioni di tipo cooperativo, negoziale, competitivo e conflittuale, attraversole quali si rende possibile una progettazione e un’azione collettiva rivolta aobiettivi di sviluppo condiviso» (Dematteis e Governa, 2005, p. 30).

Nei casi di successo tali relazioni hanno per oggetto la messa in valore dellerisorse collettive appartenenti al milieu territoriale secondo una visione condivi-sa che è salvaguardata proprio attraverso la gestione dei conflitti. Infatti, è dallacombinazione di azione collettiva autonoma e risorse immobili che si ottiene «va-

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lore aggiunto territoriale» (12) che nei casi di successo ha consentito di alimentarepercorsi di sviluppo locale significativi e duraturi nati dalla mobilitazione di atto-ri e risorse locali e localizzate (ibidem). Il risultato dei cambiamenti funzionali eistituzionali genera così forme di territorializzazione in cui «la razionalità territo-rializzante [è] riconoscibile e riconosciuta come una delle modalità attraverso lequali il corpo sociale vive e si riproduce» (Turco, 1988, p. 15). Nei casi di insuc-cesso le asimmetrie tra gli attori coinvolti, la scarsa attenzione alle caratteristichedella risorsa, il conflitto tra appropriatori, fornitori e produttori, la limitata rela-zione tra scale di governo del territorio hanno portato al deperimento della risor-sa comune e a un uso poco coerente che non ha permesso si avviassero formedi territorializzazione auto-sostenibili. Il maggior punto di debolezza nei casi diinsuccesso è la mancanza di una visione condivisa e compartecipata.

Alcune riflessioni conclusive. – Le riflessioni sui beni comuni contenute neltesto Governing the Commons sembrano aprire un vasto campo di azione all’a-nalisi geo-territoriale e in particolare alle più recenti riflessioni sullo sviluppo lo-cale e sulla lettura transcalare dello sviluppo. Tutto il testo, benché concentratoin maniera più ampia sulle istituzioni nate intorno al local empowerment (la pos-sibilità di auto-gestione delle risorse locali da parte delle comunità e l’opportu-nità di definire in maniera autonoma le regole di uso e appropriazione dei com-mons), accende i riflettori su una serie di concetti propri della geografia – qualiil territorio, la territorializzazione dell’azione collettiva, la territorialità, la riletturadell’idea di comunità, l’identità territoriale – e dischiude ampie possibilità di stu-dio e ricerca intorno ai commons non ancora esperite (Moss, 2014).

Nella gestione dei beni comuni proposta nel testo emerge l’importanza delladimensione spaziale dell’agire umano e si riconosce all’uomo la sua qualità dihomo geograficus, «un particolare attore sociale che, pur nella molteplicità deiruoli che esplica in qualche modo e in qualche momento: a) produce territorio;b) usa territorio; c) attiva, sviluppa e conclude relazioni con altri attori» (Turco,1988, p. 52).

In questa prospettiva lo spazio in cui gli attori collettivi si muovono può es-sere interpretato «come un campo d’azione costituito di distanze, superfici edenergia suscettibili di influenzare la trasmissione delle informazioni. I suoi attri-buti sono utilizzati in modo diverso a seconda dei gruppi. Ogni società, in un

(12) Il Valore Aggiunto Territoriale (VAT), «riferito ad un dato territorio, può essere inteso in duemodi diversi: 1) come valore aggiunto del progetto […]; 2) come valore aggiunto del territorio» (De-matteis, 2001, p. 22). Nel caso dei commons il valore aggiunto territoriale va inteso come valore ag-giunto incorporato al territorio dalla realizzazione di progetti condivisi per i commons e come valorein più che si ottiene dalla mobilitazione delle potenzialità dei commons di un dato territorio (Demat-teis, 2001). Per ulteriori approfondimenti si rimanda a Dematteis (2001); Dematteis e Governa(2005); Corrado (2005).

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(13) La territorialità, in senso geografico, «non indica solo la relazione dei soggetti con le “cose”,ma anche le relazioni fra soggetti; non solo, inoltre, il rapporto con gli spazi concreti, ma anche conspazi astratti e simbolici» (Governa, 2007, p. 351). All’interno degli studi sul tema, si può identificarela territorialità passiva (in negativo) «con strategie di controllo e col sistema normativo ad esse asso-ciato, [che] mira ad escludere soggetti e risorse»; la territorialità attiva (in positivo) «discende dall’a-zione collettiva territorializzata e territorializzante dei soggetti locali e si serve di strategie inclusive ecooperative» (Dematteis e Governa, 2005, p. 26). La territorialità passiva nasce da una nozione di ter-ritorialità rigida, plasmata dal controllo e dalla imposizione; consiste nella manifestazione geograficadel controllo dello spazio e del potere sociale esercitato su quello spazio; si sostanzia in strategie at-traverso le quali individui o gruppi influenzano e controllano persone, fenomeni e relazioni, deli-neando e affermando il controllo all’interno di un’area geografica (Governa, 2005b). La territorialitàattiva scaturisce da una concezione in cui «la territorialità è un insieme di relazioni che nascono inun sistema tridimensionale società-spazio-tempo in vista di raggiungere la più grande autonomiapossibile compatibile con le risorse del sistema» (Raffestin, 1981, p. 164).

dato momento storico, produce allora un territorio, cioè uno spazio segnato dal-le creazioni e dai vissuti umani. La territorialità corrisponde all’insieme di rela-zioni che consentono ai diversi gruppi di far valere i propri interessi nello spa-zio» (Bailly e Beguin, 1984, p. 24).

Nel caso dei commons le finalità dell’azione condotta dalle comunità prese inesame è senza dubbio complessa, persegue più obiettivi, produce «territorialità»sia attiva che passiva (13), genera un modello di inclusione/esclusione nell’uso enella gestione delle risorse collettive che è connaturato al bisogno comune dipreservare, utilizzare e patrimonializzare la risorsa collettiva, una risorsa cioèche deve, per la sua natura, essere utilizzata insieme. L’azione collettiva dunquediviene espressione di una peculiarità dei commons: quella di legare tra loro ico-appropriatori, di unirli con una rete di interdipendenze (di cui prendono co-scienza) generate dalla risorsa collettiva stessa. Tale rete, per essere gestita, ri-chiede che si ragioni seguendo la «razionalità del noi» (Bruni, 2006).

Appare anche chiaro che gli attori non possono essere considerati come sog-getti senza territorio, e che il territorio non è un banale supporto di interazionitra istituzioni. Ostrom ritiene essenziale ogni legame che si crea tra specificitàterritoriali connesse a beni comuni e soggetti. L’azione collettiva, nei casi di suc-cesso, esprime l’identità collettiva che, fatta di intrecci di elementi materiali e im-materiali nati intorno ai commons, non è definita in funzione della prossimitàspaziale (questo sarebbe il risultato di una condivisione passiva del capitale ter-ritoriale) ma «deriva dall’agire collettivo dei soggetti, in quanto portatori di prati-che e di conoscenza [reciproca e condivisa], costruttori di territorio e di logichedi riferimento identitarie» (Dematteis e Governa, 2005, p. 22). La territorializza-zione che nasce da tale azione collettiva è espressione di una sinergia «in cui ilterritorio non è unicamente lo scenario in cui si svolge l’azione, ma è matrice edesito di un’azione in cui i diversi soggetti si mobilitano localmente e si organiz-zano in una maniera che non sarebbe possibile se agissero separatamente e sele loro azioni fossero deterritorializzate» (Governa, 2001, p. 40).

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In questa prospettiva, la sinergia tra azione collettiva autonoma e beni co-muni genera quel valore aggiunto territoriale che rende il territorio stesso un in-sieme localizzato di beni comuni che costituiscono il capitale territoriale (De-matteis e Governa, 2005). Capitale in cui risorse immobili, patrimonio storicoculturale e beni relazionali divengono le variabili cruciali della sostenibilità lo-cale e del dialogo transcalare (Moss, 2014). Nello studio geografico dei com-mons la scala di partenza resta essenzialmente quella locale, ma lo sguardo puòallargarsi a osservare come questa scala dialoghi e cooperi con le altre scale peril bene delle comunità locali e sovralocali; può soffermarsi a studiare le relazio-ni materiali e immateriali che la comunità locale intesse attorno ai beni comuni.Tali relazioni diventano portatrici di «valori» in base ai quali il bene stesso è uti-lizzato nel rispetto delle sue peculiarità e delle peculiarità che genera in rappor-to ai territori. Sono proprio le relazioni a essere la chiave del successo e dell’in-successo dell’azione umana (Dematteis e Governa, 2005; Governa, 2007): le re-lazioni tra commons e comunità, le relazioni tra portatori di interessi, le relazio-ni tra storia e futuro eccetera.

Una grande sfida per questo secolo sarebbe proprio di attribuire il valore dibeni comuni non solo alle risorse naturali, ma anche a beni che soddisfino bisognispirituali e immateriali quali ad esempio i beni culturali, il paesaggio, la solida-rietà, le nuove culture d’impresa, la fiducia (Hess e Ostrom, 2009; Vocabulary ofCommons, 2011; Turco, 2014a), al fine di individuare come sono considerati, qua-li strategie cooperative e inclusive potrebbero essere messe a punto dalle comu-nità a tutti i livelli della scala spaziale per utilizzarli insieme senza consumarli.

Ciò che emerge con chiarezza nel testo è che le comunità che hanno gestitocon successo i beni comuni sono quelle che hanno puntato sul dialogo tra gliattori, che hanno reso visibile e leggibile nello spazio la loro identità connessa albene stesso, favorendo lo scambio continuo di idee nell’interesse della salva-guardia dei «beni comuni» e nella prospettiva del «Bene comune» (14). Vi è, infat-ti, «un legame profondo tra beni comuni e Bene comune, un concetto chiavedella tradizione classica di filosofia morale, quella che va da Aristotele a Nus-sbaum. Non c’è infatti Bene comune […] senza l’esistenza, l’accudimento e il mi-glioramento dei beni comuni. E ogni concetto di bene comune (commons) ri-manda necessariamente […] ad un’idea morale di Bene comune, cioè al fattoche le persone che usufruiscono di quei beni comuni sono legate tra di esse, so-no una comunità: comunità, Bene comune e beni comuni sono accomunate traloro da quel cum-munus (cioè dono-obbligo) che è la radice di tutte e tre le pa-role» (Bruni, 2012b, p. 113) e che ci spinge verso una nuova razionalità.

(14) Per approfondire le differenze etimologiche ed epistemologiche tra «Bene comune» e «benicomuni» si vedano Antelmi (2014); Bruni (2012a); Lo Presti (2009); Zamagni (2007 e 2014).

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GEOGRAPHICAL REFLECTIONS UPON THE NATURE OF COMMONS STARTINGFROM THE READING OF GOVERNING THE COMMONS BY ELINOR OSTROM. – This pa-per proposes a geographic review of Elinor Ostrom’s most famous book Governing theCommons. The Evolution of Institutions for Collective Actions. Its goal is to identify whatcontribution geographical science can give to defining the possibilities and limits relatedto the use of commons. In the governance of commons, space and territory play a strate-gic role. Sometimes, however, this role is sacrificed to social, economic and politicalprocesses.

Università degli Studi di Bari «Aldo Moro», Dipartimento di Scienze Economiche e MetodiMatematici

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