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Introduzione ………………………………………………………………………………………………………………………… p. 4 CAP. 1 – La persona ……………………………………………………………………………………………………………… p. 5 CAP. 2 – La pedagogia speciale …………………………………………………………………………………………….. p. 7 2.1. Itard e Victor………………………………………………………………………………………………………….. p. 8 2.2. Maria Montessori: l’educazione tra anormalità e normalizzazione ……………………….. p. 11 CAP. 3 – Dall’esclusione all’inclusione …………………………………………………………………………………. p. 14 3.1. L’esclusione (1920 – 1960) …………………………………………………………………………………... p. 14 3.2. La medicalizzazione (1960 – 1970) ………………………………………………………………………. p. 15 3.3. Inserimento (1970 – 1977) ………………………………………………………………………………….. p. 17 3.4. Integrazione (1977 – 1994) …………………………………………………………………………………. p. 17 3.5. Inclusione (1994 – oggi) ……………………………………………………………………………………… p. 20 CAP. 4 – BES – DSA – ADHD …………………………………………………………………………………………………. p. 22 4.1. BES ………………………………………………………………………………………………………………………. p. 22 4.1.1. Chi usufruisce della legge 104/92? ………………………………………………………………… p. 23 4.1.2. Come includere i BES? …………………………………………………………………………………… p. 24 4.1.3. L’etichetta BES è definitiva? ............................................................................... p. 25 4.2. DSA ………………………………………………………………………………………………………………………. p. 26 4.2.1. La dislessia …………………………………………………………………………………………………….. p. 28 4.2.2. La disgrafia …………………………………………………………………………………………………….. p. 28 4.2.3. La disortografia ………………………………………………………………………………………………. p. 28 4.2.4. La discalculia ………………………………………………………………………………………………….. p. 29 4.2.5. Disturbo specifico della compitazione ……………………………………………………………. p. 29 4.2.6. Adeguate forme di verifica e di valutazione …………………………………………………… p. 30 4.3. ADHD …………………………………………………………………………………………………………………… p. 31 4.3.1. La disattenzione ………………..…………………………………………………………………………… p. 32 4.3.2. L’impulsività ………………………………………………………………………………………………….. p. 32 4.3.3. L’iperattività ………………………………………………………………………………………………….. p. 33 4.3.4. Altri disturbi ………………………………………………………………………………………………….. p. 33 4.3.5. ADHD e scuola ………………………………………………………………………………………………. p. 33 CAP. 5 – Mutismo selettivo …………………………………………………………………………………………………. p. 35 5.1. Cos’è il mutismo selettivo? ………………………………………………………………………………….. p. 35 5.2. Cenni storici …………………………………………………………………………………………………………. p. 35 5.3. Sintomi …………………………………………………………………………………………………………………. p. 36 5.4. Disturbi correlati …………………………………………………………………………………………………… p. 36 5.5. Fattori cognitivi e affettivi …………………………………………………………………………………….. p.38 5.6. La diagnosi ……………………………………………………………………………………………………………. p. 38 5.7. Che cosa è importante sapere? …………………………………………………………………………….. p. 39 5.8. Il mutismo selettivo a scuola …………………………………………………………………………………. p. 40 5.9. Testimonianze ………………………………………………………………………………………………………. p. 41

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CAP. 6 – Sindrome di Down …………………………………………………………………………………………………. p. 46 6.1. Che cos’è? …………………………………………………………………………………………………………….. p. 47 6.2. La diagnosi prenatale ……………………………………………………………………………………………. p. 47 6.3. Caratteristiche fisionomiche …………………………………………………………………………………. p. 50 6.4. Apprendimento ed inserimento sociale ………………………………………………………………… p. 50 CAP. 7 – L’Autismo ………………………………………………………………………………………………………………. p. 54 7.1. Cenni storici ………………………………………………………………………………………………………….. p. 54 7.2. Cause e fattori di rischio ……………………………………………………………………………………….. p. 56 7.3. L’autismo secondo il DSM …………………………………………………………………………………….. p. 56 7.4. Triade del comportamento autistico …………………………………………………………………….. p. 57 7.5. Quando si manifesta l’autismo e come …………………………………………………………………. p. 58 7.6. Strumenti diagnostici ……………………………………………………………………………………………. p. 59 7.7. Strategie d’intervento …………………………………………………………………………………………… p. 59 7.8. Ulteriori terapie …………………………………………………………………………………………………….. p. 62 7.9. Come parlare ad un bambino autistico ………………………………………………………………….. p. 64 7.10. L’autismo e la normativa ……………………………………………………………………………………… p. 64 7.11. Abilità savant ………………………………………………………………………………………………………. p. 65 7.12. Due casi in particolare: Kim Peek e Temple Grandin ……………………………………………. p. 65 CAP. 8 – Metodologie d’insegnamento e didattica affettiva ………………………………………………… p. 68 8.1. Una scuola inclusiva ………………………………………………………………………………………………. p. 68 8.2. Le insegnanti di sostegno ……………………………………………………………………………………… p. 69 8.3. Metodologie d’insegnamento ……………………………………………………………………………….. p. 70 8.3.1. Pet Therapy …………………………………………………………………………………………………….. p. 70 8.3.2. Circle Time ………………………………………………………………………………………………………. p. 70 8.3.3. Role Playing …………………………………………………………………………………………………….. p. 71 8.3.4. Cooperative Learning ………………………………………………………………………………………. p. 71 8.4. Mastery Learning …………………………………………………………………………………………………… p. 75 8.5. La terapia della bambola ……………………………………………………………………………………….. p. 75 8.6. Dall’intelligenza emotiva alla didattica affettiva …………………………………………………….. p. 76 8.7. Dall’emozione alla metaemozione …………………………………………………………………………. p. 79 8.8. Intelligenza emotiva e competenza emotiva: quali differenze? ……………………………… p. 80 8.9. La qualità della relazione insegnante – alunno ………………………………………………………. p. 80 8.10. La dimensione affettiva: attenzione continua alle emozioni, agli stati d’animo e ai sentimenti ..……………………………………………………… p. 81

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Introduzione Il fil rouge di questo lavoro intende essere la persona. Il suddetto progetto parte dall’analisi della pedagogia speciale, termine con il quale si vuole indicare l’insieme delle ricerche e delle tecniche mediante le quali viene presa in esame la situazione educativa del fanciullo che presenta difficoltà nel suo sviluppo normale, al fine di scoprire e mettere a punto i metodi adatti a fornirgli le migliori possibilità di educazione e di integrazione nell’ambiente sociale. La pedagogia speciale è dunque un continuo divenire a compiti esplorativi, deve dare risposte a bisogni che a volte sono già conosciuti e a volte sono da individuare e deve, nello stesso tempo cercare di rendere ordinarie le attenzioni speciali. Le finalità della scuola devono essere definite a partire dalla persona che apprende con l’originalità del suo percorso individuale e le aperture offerte dalla rete di relazioni che la legano alla famiglia e agli ambiti sociali. Ogni alunno è PERSONA, ogni persona è diversa, ma non per questo inferiore, anzi è nella diversità che si trova la ricchezza. La scuola oggi è inclusiva, cioè riconosce la diversità ed agisce tramite interventi personalizzati e individualizzati. Compito di questa scuola è destinare una particolare attenzione al processo di apprendimento per tutti gli studenti che manifestano bisogni educativi speciali o disturbi più gravi tra i quali vengono annoverati autismo, mutismo selettivo, sindrome di Down.

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La Persona

Il termine individuo fa riferimento ad ogni singolo ente in quanto distinto da altri della stessa specie. Il concetto di individuo richiama quello di persona dal momento che Panezio sostenne che l’uomo non portava sulla scena della vita la sola maschera generica dell’essere umano ma anche quella che caratterizzava la propria individualità sin dalla nascita. Per persona, dunque, si indica un individuo dotato di libertà, dignità, diritti, autocoscienza e identità; la persona è un insieme di SE’,ME e ALTRO : SE’: per concetto di sé si intende solitamente la rappresentazione che l’individuo ha di se . Si tratta di una specie di autoritratto, formato da attributi personali di altro genere. ME: È l’idea che ho di me stesso tramite la relazione con l’altro. ALTRO: colui che è altro da me, ciò non significa che sia inferiore o superiore rispetto a me, semplicemente è colui che permette alla società di riconfigurarsi incessantemente. Punto di forza e di partenza allo stesso tempo, per poter conoscere e conoscersi. La storia di un individuo e le esperienze che compie, sia personali che comuni, sono il fondamento sul quale egli costruisce progressivamente la struttura unificata e riconoscibile della sua personalità, che lo rende unico e diverso dagli altri. Il termine personalità si è affermato a partire dagli anni Trenta (dapprima negli Stati Uniti) per opera di alcuni studiosi. In passato, per indicare concetti analoghi si preferiva riferirsi al carattere. Oggi, invece, il concetto di personalità sottolinea l’insieme di elementi che fanno di un essere umano una persona. I punti caratterizzanti della personalità sono: gli aspetti cognitivi (percezione, memoria, apprendimento, intelligenza e pensiero,

creatività); gli aspetti affettivi (emozioni e sentimenti); gli aspetti volitivi (interessi, preferenze e motivazioni).

Le varie fasi dello sviluppo di una personalità possono essere distinte come segue: La prima infanzia: è la fase dai 0 ai 3 anni in cui il bambino deve ricevere le cure materne necessarie per evitare l’insorgere di insicurezze e di ansie. Lo svezzamento: periodo che comporta le prime privazioni e il superamento della dipendenza. L’indipendenza: è il periodo che consente al bambino di allargare il suo mondo e di acquisire quelle capacità di base per far da sé. La fase del no: è la fase in cui il bambino prova il piacere ad opporsi ai genitori. I conflitti: è la fase in cui il bambino si identifica nel genitore del proprio sesso e il desiderio nei confronti del genitore del sesso opposto. Conosciuto come “Complesso di Edipo”. La prima socializzazione: questa fase avviene grazie all’ingresso nella scuola. Qui il bambino riceve il giudizio di soggetti esterni alla famiglia e quindi rafforza l’immagine di sé. La pubertà: questo è il periodo di cambiamenti fisici attraverso i quali il corpo di un bambino diviene un corpo adulto in grado di riprodursi. Con questo processo inizia l’attività delle ghiandole sessuali, che si manifesta nella donna con la prima mestruazione, nell’uomo con la produzione di sperma.

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L’adolescenza: questa fase comporta una forte opposizione al mondo degli adulti, oltre all’insorgere di varie contraddizioni interne e all’insoddisfazione dei valori tradizionali. La vita adulta: in questa fase il soggetto cerca di realizzare il suo progetto di vita (lavoro, famiglia ecc..), definendo il più possibile la sua identità, distaccandosi dal nucleo familiare originario e rendendosi il più possibile socialmente indipendente. L’anzianità: con questo termine ci si riferisce alle età prossime al termine della vita degli esseri umani, l’ultima parte del ciclo vitale umano. Questo periodo della vita comporta importanti cambiamenti nelle attitudini, nello stile di vita e nell’evoluzione psicofisica. L’educazione non solo contribuisce a fornire elementi entro i quali la personalità può manifestarsi, ma è anche direttamente indirizzata a produrre personalità dotate di determinate caratteristiche. La diversità rappresenta il fulcro dell’indagine della Pedagogia Speciale nonché l’anima dell’educazione, perché il rapporto educativo può essere concepito e sussistere solo se ipotizza l’altro da sé e se lo ipotizza come diverso. La diversità su cui si fonda la Pedagogia Speciale è di carattere culturale, ovvero che rimanda sempre alla relazione, alla trasformazione di tutti i fattori coinvolti. È di primaria importanza coinvolgere tutte le differenze esistenti e possibili sulla base del principio inalienabile del rispetto per l’altro a garanzia del riprodursi stesso della diversità. La scuola dovrebbe tutelare quotidianamente questo principio attraverso un’attenzione sempre più consapevole e approfondita della diversità, ovvero una messa a fuoco più funzionale del rapporto educativo e delle metodologie, degli strumenti individuati via via più congrui ed efficaci per l’inclusione di tutte le diversità.

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La pedagogia speciale.

“ La pedagogia è speciale o non lo è” Maria Montessori

La Pedagogia Speciale, anche denominata Pedagogia Psichiatrica, è una branca della pedagogia che interviene, con modalità ben definite, nell’area della disabilità di varia natura (da quella motoria a quella cognitiva, socio-affettiva). In Psichiatria la Pedagogia speciale interviene, in sinergia con altri trattamenti educativi, riabilitativi, rieducativi, anche nelle situazioni di disagio psichiatrico, e quindi tende ad accompagnare la persona nel recupero e nell’attivazione del potenziale evolutivo inibito o arrestato da una crisi verso quella gradualità che caratterizza lo sviluppo e l’evoluzione dell’individuo. La Pedagogia speciale, in generale, ha lo scopo di ricostruire un senso, un significato ove il significato della persona e del suo esistere vacilla a causa di elementi di disagio, devianza, marginalità o handicap che impediscono un pieno sviluppo e una piena espressione del potenziale umano. Fra i padri della Pedagogia Speciale annoveriamo i primi pedagogisti medici, fra cui J.M.G.Itard, Séguin, Maria Montessori. La Pedagogia Speciale evidenzia così la sua funzione di Pedagogia che educa e sostiene l’evoluzione dell’individuo in presenza di condizioni particolari di sviluppo. Per fare ciò mette in campo strumenti, strategie e metodologie speciali poiché pensate, create e progettate per rispondere a esigenze evolutive ben precise, a canali di ricezione e comunicazioni diversi da quelli della media dei soggetti in crescita. La persona diversamente abile ha un peculiare modo di essere nel mondo, la stessa condizione di diversamente abile determina le basi della Pedagogia Speciale, che da scienza del recupero e dell’integrazione approda alla sua connotazione di scienza della diversità ove diversità non è un termine la cui accezione va interpretata come assenza di abilità ma di "abilità presenti in maniera diversa". Compito della Pedagogia speciale non è quello di portare la Persona alla normalità (intesa come la media delle prestazioni nei soggetti), ma di favorire lo sviluppo pieno del potenziale umano che ogni persona porta con sé, l’autonomia, la crescita, la progettazione e la piena partecipazione alla società e alla comunità.

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La pedagogia speciale cerca di rispondere ai bisogni speciali, tali bisogni richiedono un grado di attenzione particolare ed è chiaro che il normale assetto sociale e culturale di un determinato contesto antropico non è sufficiente a darne risposta. La pedagogia speciale, insomma, non è altro dalla pedagogia generale bensì ne è il complemento, infatti, cerca di ricalcarne la logica (quella della crescita delle persone nelle migliori condizioni), di farsi carico della riflessione teorica e della ricerca delle buone prassi per rispondere ai bisogni eccezionali o speciali, e lo specifico del suo oggetto è la ricerca teorica e la concretizzazione pratica delle risposte speciali che tali bisogni sottendono. Si propone un breve excursus storico sullo sviluppo dei metodi e dei materiali educativi per i soggetti con deficit intellettivo, rintracciando alcuni nuclei teorici ed operativi elaborati da due studiosi: Jean Itard e Maria Montessori, ancora attualmente forieri di arricchenti riflessioni.

2.1. Itard e Victor. Agli inizi del 1799, fu catturato, nei boschi della Caune nell’Aveyron, “un bambino di una sporcizia disgustosa, affetto da movimenti spasmodici e spesso convulsi, che si agita instancabilmente come alcuni animali del serraglio, mordendo e graffiando tutti coloro che [lo contrariano, non testimoniando alcuna specie d’affezione per coloro che+ lo accudiscono; infine, indifferente a tutto, e a nulla prestando attenzione.” (Itard, 1801, Des premiers développemens du Jeune

sauvage de l’Aveyron). La comparsa di questo “selvaggio” di 11-12 anni solleva presto curiosità nella società e nella comunità scientifica francese del tempo, pervasa da una cultura sensista. Ad un esame condotto dall’abate Bonnaterre sembrano evidenziarsi in questo soggetto caratteristiche scimmiesche che rimandano al profilo dell’Homo ferus di Linneo. Nel suo preciso rapporto, l’abate descrive un bambino che deambula prevalentemente in modo quadrupede (non cammina, ma trotta), che ama rifugiarsi nella natura e cibarsi di pochi precisi alimenti (carne cruda, patate, noci). Nonostante la sua diffidenza, il bambino lascia trasparire a tratti il desiderio di contatto: ama essere accarezzato ed abbracciato e pur essendo privo di linguaggio articolato (emette solo suoni gutturali) dimostra di avere delle capacità di apprendimento. Il rapporto si conclude tuttavia con il sospetto “di imbecillità”, poiché le

funzioni animalesche sono prevalenti e le sensazioni non danno origine ad alcuna idea (Lane, 1976, p.54). Ancor più implacabile il giudizio dell’illustre psichiatra Philippe Pinel, alle cui indagini verrà successivamente sottoposto il bambino; giudizio che, basandosi su tutto ciò che il soggetto non sa fare o non è in grado di esprimere (non possiede strumenti né intenzionalità comunicativa, è privo di sentimenti morali e dominato dalla necessità di rispondere a soli bisogni istintuali) si conclude fornendogli un’identità di “idiota” ineducabile (Canevaro & Goudreau, 1989). Diversa l’analisi di Jean-Marc Gaspard Itard (1774-1838), secondo la quale il bambino presenta “un’apparente idiozia” (1), dovuta all’aver vissuto in condizioni di isolamento sociale, privato sin dall’infanzia di qualsiasi educazione. Lo studioso è convinto che raccogliendo attentamente la storia di questo “piccolo selvaggio”, avrebbe compreso chi è, ciò che gli manca e avrebbe potuto dimostrare quanto l’uomo debba alla sua educazione le innumerevoli conoscenze e idee che gli sono proprie (Michelet, 1972, p. 16). Egli vuole fornire al bambino tutte le risorse conoscitive per il suo sviluppo fisico e morale, confidando che i contributi riuniti della filosofia e della medicina avrebbero

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consentito enormi progressi. Lo accoglie così a casa sua e gli fornisce un’identità sociale dandogli un nome: Victor. Inizia così una relazione educativa che si avvarrà anche degli importanti apporti di Madame Guerin, la governante grazie al cui maternage il ragazzino acquisirà significativi apprendimenti. Nella Mémoire sur les premiers développements de Victor de l’Aveyron del 1801, Itard descrive chiaramente gli obiettivi educativi perseguiti. Il suo programma di lavoro si rifà a una “teoria della natura umana tracciata da quella filosofia sensista ed ‘ambientalistica’ che aveva avuto i suoi padri in Condillac ed in Helvétius. Il ragazzo dell'Aveyron appariva in pratica la tanto attesa incarnazione vivente della statua di cui aveva parlato il Traité des Sensations: una statua che occorreva, come aveva fatto Condillac, ‘risvegliare’ e ‘riempire’ di affetti e di idee. *…+. Anche nella delineazione dei traguardi da raggiungere Itard mostra di essere tutt'altro che estraneo alle ricerche dei médecins-philosophes del tempo. Il primo traguardo consisterà, certo, nel ‘reinserire entro la vita sociale’ un individuo ch'era stato fin allora condizionato più che allevato dalla natura. Ma il secondo era quello, non lontano dalla fisiologia cabanisiana e dalle pratiche terapeutiche dello stesso Pinel, di riattivare la sensibilità umana, risvegliandola ‘attraverso gli stimolanti più energici’, e qualche volta anche ‘attraverso i vivi affetti dell'anima’. Il terzo era ancora d'ascendenza lockiano-sensista-idéologique: ‘Estendere la sfera delle sue idee, suscitando in lui nuovi bisogni, e moltiplicando i suoi rapporti con gli esseri circostanti’. Il quarto, forse il più ambito e il più ambizioso, era quello di condurre Victor all'uso della parola. L'ultimo consisteva nel riuscire a sviluppare alcune operazioni intellettuali dapprima sull'oggetto dei suoi bisogni fisici e poi su oggetti più astratti e lontani dalla sfera dell'istinto e dell'immediatezza.” (Moravia, 1970, pp. 114-115). Medico di formazione, Itard, convinto che Victor non presenti danni agli organi di senso, ma che essi non funzionino adeguatamente a causa di deprivazione culturale ed educativa (“gli occhi vedevano ma non osservavano, le mani erano utilizzate per afferrare ma non per percepire le forme”) conduce un’osservazione clinica del ragazzino al fine di trovare le modalità adeguate per sviluppare in lui le abilità cognitive fondamentali al vivere sociale, mediante l’educazione dei sensi. Itard stesso scrive: “Devo a Locke e a Condillac l’aver apprezzato l’influenza potente che ha sulla formazione e lo sviluppo delle nostre idee, l’azione isolata e simultanea dei nostri sensi.” (Itard, 1806, Developpement des fonctions des sens in Rapport sur les nouveaux développements de Victor de l'Aveyron). La ricerca per far giungere Victor alla simbolizzazione, durata circa cinque/sei anni e pubblicata nel secondo libro intitolato Rapport sur les nouveaux développements de Victor de l’Aveyron del 1806, pubblicato nel 1807, permette allo studioso di mettere a punto un percorso di educazione sensoriale che ha influenzato gli educatori fino ad oggi. Itard ritiene prioritario sviluppare la sensibilità generale di Victor attraverso esperienze che sollecitino forti reazioni contrastanti nel ragazzino come bagni caldi e freddi, cibi saporiti e disgustosi, … per poi passare allo sviluppo dell’attenzione e all’educazione di ciascun senso. Per lo sviluppo dell’attenzione, si avvale di un materiale semplice: il cibo, facendo appello a uno degli interessi basilari del bambino. Gli dispone dunque davanti, senza alcun ordine, delle piccole coppe d’argento rovesciate sotto alle quali pone una castagna e gli chiede di indicare dove l’ha messa. Man mano che Victor risponde correttamente, Itard rende via via il gioco più complicato. Quando ritiene che l’attenzione sia sufficientemente esercitata, comincia a cercare di sviluppare le funzioni intellettive utilizzando dei procedimenti e dei materiali già elaborati da Sicard per l’educazione delle persone sorde, e che lui via via completerà, modificherà e svilupperà secondo i bisogni educativi del ragazzo (Michelet, 1972, p. 19).Per educare il senso dell’udito, un senso che concorre

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notevolmente allo sviluppo delle facoltà intellettive, Itard ritiene sia necessario in qualche modo isolarlo. Copre così gli occhi di Victor e fa risonare alle sue orecchie suoni forti e diversi. Dopo aver prodotto ogni suono, chiede al ragazzino di produrne uno simile. Il suo scopo è quello di far esercitare sempre più Victor alla discriminazione uditiva; inizia così a chiedergli di distinguere il suono di una campana rispetto a quello di un tamburo; ricevendo una risposta positiva gli chiede di distinguere il timbro di un pendolo, le modulazioni di uno strumento … per poi chiedergli, ma con scarso risultato, di individuare le vocali, sollevando un dito differente a seconda dell’ascolto di ciascuna di esse.Risveglia contemporaneamente il gusto e l’odorato, proponendogli cibi ed odori fortemente caratterizzati, mentre il senso del tatto viene sollecitato mediante il contrasto di temperatura facendo per esempio toccare a Victor delle castagne crude e fredde e delle castagne cotte e calde. Tramite il tatto il ragazzino viene educato a distinguere anche le forme e i volumi dei corpi; Itard inizia a proporgli per esempio di confrontare una pietra con una castagna per poi procedere gradualmente fino alla proposta di individuare le forme metalliche delle lettere dell’alfabeto. Il senso della vista è sollecitato tramite attività di confronto di oggetti per far acquisire a Victor il concetto di dimensione. Lo studioso chiede per esempio al ragazzino di confrontare la dimensione di due libri, di due chiodi, … di individuare quale dei due sia il “più grande” e quale il “più piccolo” e di posizionare sopra ad ogni oggetto un cartoncino su cui è scritto il corrispondente aggettivo comparativo corretto. Ottenuta dal ragazzino una risposta positiva, lo studioso attua lo stesso procedimento per rendere intellegibili le parole che rappresentano le altre qualità sensibili dei corpi come il colore, il peso, la resistenza, … Contemporaneamente introduce lo studio della scrittura cominciando dall’imitazione di movimenti grosso-motori come sollevare le braccia, mettere avanti un piede, sedersi e alzarsi, per poi proporre la ripetizione di numerosi movimenti con le dita, semplici e combinati. Itard sollecita Victor anche ad eseguire degli esercizi preliminari per imparare a impugnare la penna e a copiare la scrittura delle parole, ottenendo in pochi mesi dei risultati. L’obiettivo prioritario dello studioso è tuttavia quello di far comprendere a Victor l’associazione oggetto/parola, al fine di guidare il ragazzino verso l’astrazione mediante l’espressione simbolica dell’oggetto attraverso la parola. Seguiamolo nella descrizione di alcune proposte educative sostenute dalla sua costante riflessione. In una delle sue attività iniziali lo studioso disegna su una tavola nera la figura lineare di oggetti come una chiave, delle forbici, un martello e chiede a Victor, cogliendo il momento in cui il ragazzo lo guarda, di associare ogni oggetto concreto alla sua rispettiva figura. Itard constata presto tuttavia che questo procedimento, così valido per allievi con sordità, non è funzionale nel caso di Victor. Con un atteggiamento di osservazione e di ricerca, lo studioso pensa allora di partire da un’attitudine individuata nel ragazzino: il senso dell’ordine. Egli si era accorto infatti che Victor non era tranquillo se non riponeva nell’ordine convenuto delle figure geometriche in legno appese al muro, precedentemente poste in modo diverso. Aumentando tuttavia il numero degli oggetti in disordine il ragazzino non riusciva più a ricordare la loro posizione iniziale. Lo studioso pensa allora di porre al posto delle figure in legno le loro rispettive impronte disegnate sul muro e di sollecitare Victor sia a confrontare ogni oggetto con la sua rappresentazione grafica sia ad avvalersi di quest’ultima per riposizionare nell’ordine previsto tutti gli oggetti al muro. Dopo aver posto ripetutamente il ragazzino davanti a numerose associazioni tra un oggetto e la corrispettiva rappresentazione, il passo successivo richiedeva di porre accanto al disegno tutte le lettere che compongono il nome dell’oggetto. Anche in questo caso tuttavia, il metodo, che era funzionale per i bambini sordi, non è tale per Victor, perché il ragazzino non riesce ad associare spontaneamente l’oggetto e la sua rappresentazione al corrispettivo nome scritto. Itard ricorre allora a un metodo più analitico che permetta gradualmente, passo dopo passo di condurre Victor a questa associazione. Egli incolla a una tavola tre pezzi di carta, rispettivamente di forma rotonda e di colore rosso, di forma triangolare e di colore blu e di forma quadrata di colore nero, quindi ritaglia

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in cartoni ugualmente colorati le stesse figure e, con dei chiodi, appende le figure rispettivamente sopra ai loro modelli. Dopo qualche giorno, rimuove le figure e chiede a Victor di riposizionarle correttamente, cosa che il ragazzino esegue senza difficoltà. Successivamente sostituisce la tavola con un’altra rappresentante le stesse figure, ma di colore uniforme, per far sì che Victor non possa avvalersi del colore per associare le figure e proceda solo confrontando le forme. Vengono quindi presentate al ragazzino altre tavole con variazioni rispetto alle figure e ai colori (per esempio le figure potevano essere o tutte uguali, in modo che confrontasse i colori, o con forme o colori meno distinti, come un parallelogramma vicino a un quadrato; un blu celeste brillante vicino a un blu grigiastro).Itard osserva continuamente Victor, spesso affaticato e oppositivo, e si pone in un’ottica di costante ricerca modificando, aggiungendo, togliendo, valutando le sue modalità di insegnamento, al fine di condurre il ragazzino alla simbolizzazione. Quando Victor riesce ad effettuare la maggior parte delle associazioni correttamente, Itard ritiene giunto il momento per introdurre le ventiquattro lettere dell’alfabeto, impresse in caratteri maiuscoli, su pezzi di cartone che dovevano essere posizionati nelle rispettive caselle ritagliate su una tavola, appesa al muro. Dopo una lunga educazione dei sensi, il ragazzino viene gradualmente educato a ‘fermare’ l’attenzione sui caratteri e a riconoscerli mediante il confronto delle loro immagini memorizzate. Lo studioso racconta di aver creduto di essere riuscito a far nascere in Victor l’idea del rapporto esistente tra le parole e le cose quando il ragazzino, ricevuta una tazza di latte, lo imita e compone la parola LAIT. Il rapporto segno/oggetto è stato effettivamente colto dal ragazzino, ma si tratta di una mera associazione automatica dovuta a uno stimolo e non a un processo di pensiero. Lo stesso Itard sarà costretto a constatare che Victor, ricevendo il latte, compone la parola, ma non compone la parola per ricevere il latte. Lo studioso è riuscito a focalizzare l’attenzione di Victor e, grazie all’imitazione e a un’intensa esercitazione, ad educare i suoi sensi, ma non è riuscito a far sì che il ragazzino si attivi autonomamente nel mettere in gioco le facoltà intellettive. Édouard Séguin a questo proposito, così scriverà nel suo Traitement moral, hygiène et éducation des idiots et des autres enfants arriéres: “Itard comprese bene con Jean-Jacques Rousseau e l’Abbé de Condillac l’utilità dell’educazione dei sensi, ma i sensi sono per lui l'ultima parola dello spirito; non comprese mai come e perché le idee sono tutt'altro dai sensi, e che la morale è superiore all’intelligenza. Così, confondendo i vari ordini e fenomeni, si precluse la possibilità di guidare il bambino per mano dall’educazione del sistema muscolare a quello del sistema nervoso e dei sensi, da quello del sensi alle nozioni, dalle nozioni alle idee, dalle idee alla moralità.” (Séguin,1846/2002, pp. 23-24 e p. 28).

2.2. Maria Montessori: L’educazione tra anormalità e normalizzazione.

Maria Montessori (1870-1952) si avvicina alla realtà dei bambini con ritardo mentale, cosiddetti frenastenici, durante il suo lavoro di medico, come assistente alla Clinica Psichiatrica

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nell’Università di Roma, presto accorgendosi di quanto “la questione dei deficienti fosse prevalentemente pedagogica, anziché prevalentemente medica” e di quanto fosse necessaria la formazione degli insegnanti (Montessori 1909/2000, p. 113). Il ministro della pubblica istruzione Guido Baccelli la incaricò allora di tenere un corso di lezioni sull’educazione dei bambini frenastenici per le maestre di Roma; corso che si trasformò poi nella scuola Magistrale ortofrenica, diretta dalla stessa Montessori con Giuseppe Montesano. “Rimasi così due anni a preparare, con l’aiuto di colleghi, i maestri di Roma ai metodi speciali di osservazione e di educazione dei fanciulli frenastenici, non solo; ma, ciò che più importa, dopo essere stata a Londra e a Parigi a studiare praticamente l’educazione dei deficienti, mi misi a insegnare io stessa ai bambini e a dirigere l’opera dell’educatrici dei frenastenici nel nostro istituto.” (Montessori, 1909/2000, p. 114). Dal 1898 al 1900, nel suo lavoro, la studiosa applica le indicazioni e le tecniche educative di Itard e, soprattutto, quelle di Séguin, valorizzando, accanto alla cura medica volta a migliorare lo stato di salute e d’igiene del bambino anormale, il metodo fisiologico e l’educazione morale. Montessori vede nel bambino anormale l’uomo che vi è “assopito” e che occorre “risvegliare” attraverso un rapporto empatico e affettuoso. “Io ebbi questa intuizione: e credo che non il materiale didattico, ma questa mia voce che li chiamava, destò i fanciulli, e li spinse a usare il materiale didattico e a educarsi. Mi furono guida il grande rispetto alla loro sventura e l’amore che questi infelici fanciulli sanno destare in chi li avvicina. Ma anche il Séguin si esprimeva analogamente in proposito: leggendo nei suoi tentativi pazienti, compresi bene che il primo materiale didattico da lui usato era spirituale” (Montessori, 1909/2000, p. 120). Con questa cura e attenzione per lo sviluppo globale del bambino anormale, Montessori sperimenta il metodo fisiologico con i relativi materiali, apportandovi un contributo originale. Accenniamo in questa sede, in particolare, agli aspetti riguardanti la lettura e scrittura. La studiosa svolge inizialmente una critica al metodo utilizzato da Itard e Séguin, poiché contiene due errori fondamentali: la preparazione della scrittura mediante lo studio delle forme geometriche e l’uso dello stampatello maiuscolo (Montessori, 1909/2000, p. 498); a comprova di quanto i pregiudizi impediscano di osservare con obiettività: “Séguin insegna la geometria per insegnare a scrivere; e fa eseguire alla mente del bambino l’alto sforzo di intendere le astrazioni geometriche, per ripiombarlo allo sforzo assai più semplice di disegnare un D stampatello. Ma poi: non dovrà il bambino fare lo sforzo di dimenticare lo stampatello, per imparare la scrittura corsiva? E non sarebbe stato più semplice cominciare con la scrittura corsiva?” (Montessori, 1909/2000, p. 502). Montessori propone di sgomberare la mente dal dogmatismo, dallo studio della genesi della scrittura nel passato e di fare proprio lo studio psicofisiologico della scrittura analizzando gli atti di un individuo che scrive. Un metodo a base antropologica che trova origine dall’osservazione condotta durante il suo lavoro con i bambini “deficienti”. A questo proposito la studiosa riporta l’esempio di quando propose a una ragazzina “idiota”, incapace di cucire pur avendo abilità manuali, di esercitarsi preliminarmente sui telai di Friedrich Fröbel a infilare trasversalmente un’asticciola di carta tra altre due asticciole verticali, ottenendo che la ragazzina riuscisse in seguito a trasferire le abilità acquisite grazie alla tessitura nei lavori con l’ago. “Io pensai che il movimento necessario della mano era stato preparato al cucito senza cucire: e che realmente bisogna trovare il modo di insegnare prima di far eseguire: e specialmente trattandosi di preparare movimenti, questi potrebbero essere provocati e anche ridotti in meccanismi di ripetuti esercizi, all’infuori del lavoro diretto pel quale si preparano *…+.” (Montessori, 1909/2000, p. 508). La capacità di scrivere viene dunque preparata da esercizi preliminari relativi al riconoscimento, mediante il tatto, delle forme di tutte le lettere dell’alfabeto e ai meccanismi muscolari necessari alla riproduzione dei segni grafici, all’analisi dei suoni del linguaggio orale e all’associazione tra questi suoni ai corrispettivi segni alfabetici. E’ altrettanto importante tuttavia che il bambino abbia volontà e desiderio di scrivere. Vengono dunque proposti esercizi di disegno di figure geometriche,

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di sovrapposizione delle lettere di legno sui corrispettivi segni dipinti su carta e di individuazione delle vocali e delle consonanti in modi diversi in un contesto di gioco interattivo. Questo procedimento consente ai bambini di apprendere, quasi in modo spontaneo, a scrivere e a leggere, anche se possono evidenziarsi a seconda degli stili di apprendimento individuali delle differenze nell’ordine di acquisizione della scrittura rispetto alla lettura. Maria Montessori promuove l’istituzione delle Case dei Bambini, nel 1907 a Roma, ed elabora via via una pedagogia scientifica nuova, basata sull’osservazione psicologica e antropologica del bambino “naturale”: un bambino che si apre alla vita con energia creativa, non “deviato” e sopraffatto dai pregiudizi dell’adulto che lo considera capace di darsi delle regole e di concentrarsi in attività di apprendimento solo mediante condizionamenti coercitivi. Lo sviluppo di ogni essere umano, anche se condizionato da eventuali deficit o da negative influenze ambientali, non è dato deterministicamente. Esso è il risultato di un processo interattivo, bio-psico-sociale, in cui gioca un ruolo fondamentale l’educazione. L’insegnante, in particolare, nella sua funzione di “educatore dell’umanità”, con la sua ricchezza di competenze tecniche associate a sensibilità sociale, è chiamato ad accompagnare la crescita di ogni bambino mediante l’organizzazione di un contesto funzionale e la proposta di materiali capaci di sollecitare l’attività trasformatrice del bambino stesso. I materiali devono essere progettati e utilizzati perseguendo obiettivi precisi: essi devono essere adeguati allo sviluppo del bambino (è in questa capacità di individuazione del materiale corrispondente al bisogno formativo del soggetto che si trova “il segreto dell’educazione”) ed attraenti, devono consentire l’isolamento di proprietà, devono stimolare l’osservazione attenta delle cose e facilitare l’auto-apprendimento secondo una progressione di difficoltà, ma devono anche attivare l’esplorazione dell’ambiente, l’interazione di gruppo e la collaborazione tra bambini di età diversa . L’insegnante accompagna, guida il bambino, promuovendone l’attività, l’autonomia, la crescita globale senza sostituirsi a lui nelle scelte dei materiali e predisponendo un contesto atto a far sì che egli possa sviluppare positivamente le proprie energie, esprimere al meglio le proprie potenzialità, nel rispetto della sua autenticità. Ogni bambino, infatti, in un ambiente a “sua misura”, rivela di essere capace di concentrarsi, di esercitarsi, di lavorare con ordine, con serietà e insospettate potenzialità di sviluppo. La ricerca di Maria Montessori si pone in continuità con quella di Itard e di Séguin, come lei stessa scrive: il suo esperimento pedagogico condotto per due anni nelle Case dei Bambini si basa su quarant’anni di lavoro di Itard e Séguin a cui possono sommarsi i suoi dieci anni di studio. É dunque la ricerca scientifica svolta lungo cinquant’anni dai tre medici ad aprire la via a una nuova pedagogia. Una pedagogia fondata sulle “indagini positive dell’esperienza” dove centrale è lo sviluppo psichico del bambino aiutato coi “mezzi dedotti dall’osservazione”.

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Dall’esclusione all’inclusione. L’integrazione degli alunni in situazione di handicap è un processo che da quasi trent’anni caratterizza la scuola italiana. Per un lungo periodo, durato secoli, tutte le forme di disturbo psichico furono assimilate alla malattia mentale e gestite negli istituti, nei manicomi o nel silenzio e nella “vergogna” delle famiglie, colpite dal pregiudizio e dal bisogno della società dei “sani” di allontanare da sé una rappresentazione di malattia e di sofferenza. Durante la prima metà del nostro secolo l’intervento dello Stato in favore dei portatori di handicap è stato essenzialmente di natura assistenziale. Durante gli anni ’60 iniziò nel nostro paese il fenomeno della scolarizzazione di massa: le scuole speciali per soggetti minorati aumentarono progressivamente. Con gli anni ’70, che furono gli anni della grande “democratizzazione” della scuola e della società, la figura delle persone handicappate perde la sua “marginalità”: si apre un forte dibattito socio-politico entro il quale matura sempre di più la critica al modo in cui vengono assistiti, curati ed educati gli handicappati negli istituti. Prendono avvio così le prime esperienze spontanee di inserimento scolastico. Durante gli anni ’80 si determinò una consistente evoluzione rispetto al tema dell’handicap: venne superato l’approccio dell’uguaglianza, per cui il bambino handicappato doveva essere il più possibile come gli altri, per assumere l’approccio della diversità come risorsa individuale: ciascun alunno è diverso da tutti gli altri, per stili di apprendimento e per capacità comunicative e cognitive: per questa sua specificità egli vuole essere riconosciuto. Il termine integrazione ha così sostituito quello di inserimento nell’ambito scolastico e sociale, segnando il passaggio del bambino disabile inserito nella scuola, isolato ed evitato, alla fase in cui ci si impegna attivamente perché egli sia pienamente integrato nel gruppo dei suoi coetanei.

3.1. L’Esclusione (1920-1960) Nella storia della legislazione italiana si può dire che il primo intervento fatto dallo Stato in materia di istruzione ai minori “anormali” si ebbe con la Riforma Gentile del 1923, con la quale l’istruzione obbligatoria venne estesa ai ciechi ed ai sordomuti e dalla quale prese avvio l’organizzazione delle classi differenziali o classi speciali. La filosofia che ispirò questo provvedimento è quella dell’esclusione: i comportamenti inadeguati determinano l’allontanamento dell’alunno dall’istruzione normale e il suo inserimento in strutture speciali; in questo modo l’istruzione scolastica risulta “protetta”. Questo tipo di mentalità si esprime attraverso due comportamenti: la delega ed il rifiuto:

1) Una delega del Regolamento Generale dell’Istruzione Elementare del 1928 recita che: ““Quando gli atti indisciplinati derivano da anormalità psichiche, il maestro può proporre l’allontanamento definitivo dell’alunno al Direttore Didattico, il quale curerà l’assegnazione dello scolaro alle classi differenziali”;

2) Il rifiuto determina sia l’assenza dell’handicappato nella scuola pubblica, sia la mancanza di un intervento dello Stato in campo educativo; a questi problemi dovrebbero far fronte altri

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soggetti istituzionali (istituzioni laiche, religiose) ma vista l’evidente assenza sorsero verso gli anni’60 i primi istituti medico-psicopedagogici volti a colmare questa pesante lacuna.

La Caratteristica fondamentale di questa prima legislazione è la separazione dei portatori di handicap dal contesto sociale: nel concetto di esclusione ritroviamo, infatti, varie terminologie come inadatto (inadeguato per uno scopo), disadatto (incapace nel compiere determinati lavori o funzioni) e disadattato (fuori dal proprio contesto, perché non si accettano le condizioni di vita ). Una tappa fondamentale dell’evoluzione legislativa del fenomeno dell’esclusione è rappresentata sicuramente dalla promulgazione della Costituzione (1948): essa sancisce i fondamentali diritti civili della nostra società, come l’uguaglianza effettiva dei cittadini dell’articolo 3. Nonostante la promulgazione della carta costituzionale avesse riconosciuto precisi diritti a tutti i cittadini, nel settore scolastico non si registrarono cambiamenti significativi: la tendenza rimase quella di allontanare gli invalidi dal tessuto sociale e scolastico collettivo e di emanare disposizioni che consentissero la presenza e la crescita vertiginosa di classi differenziali e scuole speciali.

3.2. La Medicalizzazione (1960-1970)

In questi anni, sempre in maggior misura, sentiamo parlare di medicalizzazione della psicologia, della didattica, della pedagogia. La medicalizzazione della pedagogia, in particolare, è una fase fondamentale del processo storico di integrazione/inclusione. Dunque, la medicalizzazione è un processo di superamento da parte della scienza medica dei propri limiti: non più solo arte di guarigione del singolo o sistematizzazione di conoscenze utili per affrontare la malattia dell’individuo, ma sviluppo pervasivo di saperi e di pratiche che a partire dal XVIII secolo incomincia ad applicarsi a problemi collettivi, storicamente non considerati di natura medica. C’è una sorta di coinvolgimento del singolo nel processo di medicalizzazione, che parte da un’identificazione ( il soggetto si identifica in un oggetto malato, quale lo pretende il medico a cui si è affidato) e conduce ad un’aspettativa (nata da un’aspettativa pubblica, secondo la quale la medicina, trattando i sintomi patologici dell’individuo, è in grado di affrancarci dai più vasti problemi sociali). La medicalizzazione è una riduzione del bisogno in malattia, cioè la traduzione in termini medici di problemi che dovrebbero essere affrontati con misure sociali; non a caso si diffondono termini come deficiente, inteso come persona totalmente o parzialmente minorata nella sua attività intellettuale, minorato ovvero persona parzialmente privata delle facoltà fisiche o psichiche e non può inserirsi pienamente nella vita sociale, handicappato inteso come persona che si trova in una situazione di svantaggio rispetto ad altri, disabile inteso come soggetto con minorazione fisica o anche psichica di grado relativamente non grave. Medicalizzazione in Pedagogia Martina Riccio, nel suo articolo "Bambini, Dicembre 2013", afferma che sta prendendo campo una sorta di "medicalizzazione" degli atteggiamenti tipici dei bambini, un fatto che sembra stia dilatandosi in Italia in modo preoccupante, suffragato appunto, dall'utilizzo di questa terminologia in maniera dilagante proprio nella scuola. Certe locuzioni sono sintomatiche e sempre più vengono usate anche nella comunicazione ufficiale delle “liturgie istituzionali”, per esempio, nei Collegi dei Docenti è d'uso ordinario esprimersi con frasi e terminologia di questo tipo: “ Io ho due dislessici, tre disortografici, due autistici….” . Non esiste più Piero, Maria, Simone, il nome del bambino!. La diagnosi ha il sopravvento sulla “persona” ed il bambino rimane nello sfondo. Pure l'editoria riguardante la scuola dell'infanzia, che lavora sui cambiamenti in atto, sceglie tra i titoli dei testi più commercializzati verbi come “preparare”, “allenare”, “potenziare”, e la parola “difficoltà” da cui si intuisce la pretesa di pervenire a delle certezze che rassicurino il potenziale acquirente: “l'insegnante in difficoltà”. Perfino la posizione fisica dell'insegnante di sostegno in molte aule

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scolastiche la dice lunga su “ questo cambiamento di rotta ” della professionalità docente. Infatti spesso o siede vicino al/la bambino/a certificato/a, o è fuori dell'aula con lui/lei e si occupa esclusivamente del soggetto affidatogli. Dato che tutti i docenti della sezione hanno la responsabilità della realizzazione del processo di integrazione e di inclusione scolastica, l'insegnante " di sostegno ”, dovrebbe condividere con tutti gli altri colleghi i compiti professionali e le responsabilità sull'intera classe e ciò lo dovrebbe dimostrare anche da come si muove e sostiene ad organizzare le attività “per tutti e per ciascuno” in aula. Dovrebbe configurarsi come un insegnante "per" il sostegno o, meglio, per attivare le varie forme di sostegno che la sezione necessita. Di conseguenza non dovrebbe avere un alunno “esclusivo” a cui stare accanto, ma essere un “mediatore di relazioni e di contenuti” e, quindi, conoscere una pluralità di strategie didattico metodologiche specifiche, da suggerire alle insegnanti di sezione e non necessariamente contenuti specifici, che molto spesso riguardano schede stereotipate. Medicalizzazione nella scuola Nella scuola di oggi si ritrovano bambini con varie difficoltà: disgrafia, dislessia ecc.., problemi che potrebbero derivare da una mancanza di formazione. Secoli fa il calcolo mentale e l’arte della memoria erano considerati una virtù da coltivare intensamente, mentre oggi cerchiamo di sfruttare al minimo le nostre risorse mentali. Troppi insegnanti mettono l’accento sui sintomi, sulle incapacità e i problemi e non vedono le potenzialità, le capacità e gli interessi dei loro alunni. Nella scuola d'oggi l’educazione è un processo in via di sparizione, quantomeno nel senso di un rapporto tra persone. Esiste soltanto la diagnosi e la terapia. Tutto è ridotto a processi biologici. La società è vista come una gigantesca clinica che ha come “mission” la modellazione degli individui su criteri prestabiliti. Lo scopo della società è quello di confezionare un individuo perfetto fin dalla nascita, tutto sotto la dittatura sempre più soffocante degli “esperti”, psicologi, psichiatri, neurologi, misuratori delle qualità e della scuola. Occorre tornare a educare per sostituire lo sguardo diagnostico con quello pedagogico. Una prima grande vittoria legislativa contro la medicalizzazione dell’insegnamento si è avuta nel 2013. Dopo anni di profondo impegno nella ricerca e nella pratica con i bambini e i giovani, dopo interventi istituzionali e mediatici, nella circolare ministeriale n.8 del 6 marzo 2013 è stata recepita l’istanza di realizzare appieno il “Diritto all’apprendimento per tutti gli alunni e gli studenti in situazione di difficoltà”. E’ stato affermato che ogni Bambino ha bisogni educativi speciali. Nella pratica significa che nella scuola si mettono in campo una serie di strategie di organizzazione della didattica, dei curriculi, dei libri di testo che davvero possano garantire che ogni bambino, ragazzo, per ogni ordine di scuola, possa esercitare il diritto di apprendere attraverso un’appropriata e personalizzata metodologia senza alcuna certificazione diagnostica sanitaria che affermi la presenza di un disturbo. Fin ad ora, infatti, l’educazione personalizzata si era trasformata nella più grave violazione nei confronti dei bambini, e del loro diritto ad imparare. Oggi invece sono previste progettazioni didattiche educative senza la presentazione di una certificazione sanitaria Normativa nel periodo della medicalizzazione 1. La Circolare Ministeriale n. 4525 del 9/7/’62 prevede che: “La segnalazione della minorazione sarà fatta dall’insegnante, con relazione scritta al Direttore Didattico, il quale, dopo che le competenti autorità sanitarie avranno accertato il tipo di minorazione, avvierà l’alunno alla scuola corrispondente”. “Ai maestri che non abbiano una preparazione specifica possono essere affidate soltanto le classi differenziali nelle quali saranno accolti gli alunni le cui anomalie sono tali da prevedere un facile e rapido adattamento alla scuola comune”

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2. La legge n.1073/62 rappresenta il primo intervento organico dello Stato nell'ambito delle scuole speciali, il quale però non riguarda l'ordinamento scolastico, ma lo stanziamento di fondi "per il funzionamento, l'assistenza igienico-sanitaria e le attrezzature per le classi differenziali nelle scuole statali e per le classi di scuola speciale da istituire anche nei comuni minori". 3. Gli articoli 11 e 12 della Legge 1859 del 31.12. 1962 (la legge della scuola unificata) che prevedono rispettivamente l'istituzione di classi di aggiornamento per gli alunni con difficoltà di apprendimento e di classi differenziali per allievi disadattati. 3. La Legge 444/68 che avvia le sezioni speciali presso le scuole materne statali per i bambini affetti da disturbi dell'intelligenza o del comportamento, da menomazioni fisiche o sensoriali (nei casi più gravi è previsto l'inserimento in scuole materne speciali). "Per i bambini dai tre ai sei anni affetti da disturbi dell'intelligenza o del comportamento, da menomazioni fisiche o sensoriali, lo Stato istituisce sezioni speciali presso scuole materne statali e, per i casi più gravi, scuole materne speciali."

3.3. L’Inserimento (1970-1977) L’acceso dibattito pedagogico della fine degli anni ’60 fece sì che la scuola diventasse “di massa”. Presero avvio, all’inizio degli anni ’70, le prime esperienze spontanee di inserimento scolastico. Il nuovo orientamento pedagogico si manifestò anche sul piano legislativo, infatti gli atti normativi dei primi anni ’70 segnarono l’abbandono dell’approccio medico (medicalizzazione) a favore di una politica di inserimento. Con la legge del 30 marzo 1971 n.118 si assistette ad una progressiva affermazione dei diritti civili delle persone con disabilità. Anche se l’ “inserimento” era il nodo centrale della legge, questa non garantiva un vero diritto poiché non erano precisate le modalità di adempimento dell’obbligo a carico della scuola pubblica. Al di là dell’indubbia validità dei cambiamenti apportati dalla legge 118, essa prevede però un limite all’integrazione per i soggetti affetti da handicap gravi. “…l’istruzione dell’obbligo [degli alunni in situazione di handicap] deve avvenire nelle classi normali della scuola pubblica salvo i casi in cui i soggetti siano affetti da gravi deficienze intellettive o da menomazioni fisiche di tale gravità da impedire o rendere molto difficoltoso l’apprendimento o l’inserimento nelle predette classi normali.” Con il D.P.R. n. 416 del 31.05.1974, vengono introdotti nella scuola gli organi collegiali. Nello specifico dell'handicap all'art. 4 si recita: «il collegio dei docenti esamina, allo scopo di individuare i mezzi per ogni possibile recupero, i casi di scarso profitto o di irregolare comportamento degli alunni su iniziative dei docenti di ciascuna classe dopo aver ascoltato gli specialisti». Successivamente il D.P.R. n. 417 stabilisce che il preside deve curare i rapporti con gli specialisti che operano sul piano medico e psico-pedagogico; inoltre deve assegnare gli alunni handicappati alle varie classi sui criteri stabiliti dal Consiglio di Circolo e dal Consiglio d'Istituto e curare l'istituzione delle norme giuridiche ed amministrative relative a tali alunni. La C.M. 227/75 individua gli interventi necessari da realizzare a favore di alunni portatori di handicap ribadendo, comunque, il ruolo delle «scuole speciali statali [...] per l'educazione e la riabilitazione dei casi più gravi».

3.4. L’Integrazione (1977-1994) “Non c'è cosa peggiore che fare parti uguali fra disuguali, se la scuola non è integrante per tutti, non può esserlo neppure per l’allievo disabile" scriveva don Milani molti anni fa e questo pensiero riteniamo che abbia, anche oggi, un significato profondo, di rottura col passato e di apertura al presente e al futuro, chiamando le scienze dell'educazione a rispondere al fatto che in questi cinquant'anni e oltre non sono state date risposte adeguate o almeno sufficienti perché si possa

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parlare di una nuova cultura dell’ “inclusione", dove i disuguali abbiano un loro posto nella storia, dove la "normalità" sia l'insieme di ogni diversità.

- INTEGRAZIONE NORMATIVA Nelle fasi storiche del processo di integrazione/ inclusione, il punto di svolta che segna il passaggio dall'inserimento all'integrazione è la legge 517/77. L'evoluzione terminologica (INSERIMENTO -> INTEGRAZIONE) è di importanza estrema e si evidenzia in particolare nell'ambito scolastico. Da quando la scuola si accontentava di un'educazione differenziale al momento in cui si incominciò a parlare di inserimento, il salto fu già grande. Il concetto di inserimento ha però ingenerato notevoli confusioni: sembrava bastasse "prendere" il portatore di handicap e inoltrarlo indiscriminatamente in una classe per ottenere magicamente il risvolto sperato, risvolto che era un'utopia: con il semplice inserimento, con una didattica "in presenza" non si garantiva certo al portatore di handicap educazione e ancor meno apprendimento. Da una SCUOLA PER TUTTI ad una SCUOLA DIVERSA PER CIASCUNO nella quale l' alunno con handicap sia accettato in via normale. L’integrazione scolastica degli alunni con disabilità, si attua con la presa in carico del progetto di integrazione da parte della comunità scolastica (team docente o Consiglio di Classe),con la prestazione di insegnanti specializzati , l’adeguamento della programmazione , l’apporto di specialisti socio- sanitari. Questo concetto dell'integrazione ha, però, un grande limite: è un concetto "assimilazionista". Si parte infatti dal presupposto che l'alunno disabile debba "adattarsi" a quella che è un'organizzazione scolastica strutturata in relazione agli alunni "normali". La Legge del 5 febbraio 1992, n. 104 “Legge Quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate” raccoglie ed integra tali interventi legislativi divenendo il punto di riferimento normativo dell’integrazione scolastica e sociale. Essa garantisce il diritto all'educazione e all'istruzione della persona handicappata nelle sezioni di scuola materna, nelle classi comuni delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado e nelle istituzioni universitarie. L'integrazione scolastica ha come obiettivo lo sviluppo delle potenzialità della persona handicappata nell'apprendimento, nella comunicazione, nelle relazioni e nella socializzazione. Le principali azioni promosse dalla legge quadro prevedono: - l’integrazione scolastica grazie a progetti d’integrazione in classe; - il sostegno alle famiglie delle persone con disabilità; - l’attuazione della programmazione didattica relativa all’alunno con disabilità. Negli ultimi trent’anni, chi si è trovato ad operare all’interno del mondo della disabilità ha assistito al cambio di diverse parole d’ordine.

- INTEGRAZIONE SCOLASTICA Il termine integrazione indica l'insieme di processi sociali e culturali che rendono l'individuo membro di una società, di un'organizzazione, di una comunità etnica. Una vera integrazione, se deve sostenere tutti gli alunni, deve anche essere sostenuta da tutti. L'integrazione non riguarda solo l'alunno disabile: ciascuno di noi ha bisogno di aiuto e di sostegno. Una scuola che integra -o almeno si propone di farlo- dovrebbe offrire a tutti gli allievi un adeguato sostegno. In questo modello di scuola non sarà soltanto l'alunno portatore di stigma a ricevere attenzioni e cure particolari, ma tutti gli alunni (e gli insegnanti) dovranno essere coinvolti attivamente in qualche forma di aiuto, di supporto, di empatia. Compito della scuola è aiutare ogni alunno della classe a sentirsi parte integrante di un gruppo. Le classi non possono essere delle piccole comunità in concorrenza tra loro: devono avvicinarsi l'una all'altra e sentirsi parte di una comunità più ampia. Questa comunità insegnerà a condividere le proprie esperienze con gli altri, a comunicare adeguatamente, a unirsi, a collaborare per superare pregiudizi. Di questa comunità dovrebbero sentirsi parte tutti, ciascuno con il proprio ruolo e con le proprie mansioni.

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Gli strumenti dell’integrazione scolastica sono: -Il Profilo dinamico funzionale (P.D.F.): è un documento conseguente alla diagnosi funzionale e preliminare alla formulazione del PEI. Con esso viene definita la situazione di partenza e le tappe di sviluppo conseguite o da conseguire. Mette in evidenza difficoltà e potenzialità dell’alunno. – Viene redatto per la prima volta all’inizio del primo anno di frequenza dal c.d. GLH operativo, composto dal Consiglio di classe, dagli operatori della ASL e dai genitori – (art. 4 DPR 22/4/1994). -Il Piano educativo individualizzato (P.E.I.): è redatto all’inizio di ogni anno scolastico dal c.d. GLH operativo (consiglio di classe + ASL + genitori) ed è sottoposto a verifiche ed aggiornamenti periodici. Il PEI non coincide con il solo progetto didattico, ma consiste in un vero e proprio progetto di vita in cui vengono definiti gli interventi finalizzati alla piena realizzazione del diritto all’integrazione scolastica (art. 5 DPR 22/4/1994). -L’Insegnante di sostegno: è un docente, fornito di formazione specifica, assegnato alla classe in cui è presente l’alunno disabile. Non deve essere considerato l’unico docente cui è affidata l’integrazione (C.M. 250/1985; Nota n. 4088 2/10/02). -Assistenza specialistica: nel caso in cui la situazione dell’alunno lo richieda, oltre agli insegnanti curriculari e di sostegno, sono previste altre figure professionali per affrontare problemi di autonomia e/o di comunicazione. Si tratta dei c.d. assistenti ad persona. -Trasporto scolastico: per gli alunni disabili costituisce un supporto essenziale alla frequenza scolastica. Questo servizio è pertanto strumentale alla realizzazione del diritto allo studio. Non esiste il bambino “ideale”, bensì il bambino con la sua storia, le sue caratteristiche fisiche, psichiche, emotive, la sua personalità, i suoi bisogni, i suoi interessi, i suoi limiti e le sue potenzialità. Essere consapevoli di questa realtà , può facilitare lo sviluppo della cooperazione tra i bambini eliminando qualsiasi forma di giudizio nei confronti delle manifestazioni degli stessi, rinforzando e sostenendo le motivazioni, gli interessi e le preferenze che i bambini esprimono. Quando l’adulto imposta la sua relazione educativa mettendo in primo piano la conoscenza della persona, allora tutti i bambini ivi compresi i bimbi disabili hanno concrete possibilità di sviluppare le proprie potenzialità e risorse in un contesto accogliente e sereno. Anche il bambino disabile agisce per ottenere comprensione, approvazione, lode dagli adulti e dai coetanei e, in questa sua ricerca di concreti segni di riconoscimento, trova quasi sempre il modo di fare qualcosa che possa essere apprezzato, di rendersi in qualche maniera utile, di diventare oggetto di attenzione, di autorealizzarsi. La programmazione didattica e l’offerta formativa sono impostate in relazione alle effettive esigenze degli alunni, nella prospettiva globale di vita e di un’integrazione permanente. Sono programmati ed attuati interventi specifici per singoli alunni o per piccoli gruppi, sia dai docenti di sostegno, sia dagli insegnanti curricolari. Nell’ambito dell’individualizzazione degli itinerari di apprendimento, si terrà conto dei ritmi e delle modalità di comprensione di ogni alunno, promuovendo situazioni favorevoli alla maturazione di ciascuno. Inoltre, è dovere della scuola evitare che le “diversità” si trasformino in difficoltà di apprendimento e in problemi di comportamento, poiché ciò, quasi sempre, prelude a fenomeni di insuccesso e di mortalità scolastica e, conseguentemente, a disuguaglianze sul piano sociale e civile. Le competenze dei vari docenti verranno utilizzate ai fini di un’effettiva collaborazione e corresponsabilità, così da raggiungere un’offerta ottimale alla classe. Il docente di sostegno sarà impegnato con gli alunni individualmente o in compresenza nella classe/sezione e nelle attività di recupero secondo gruppi di livello. Le attività saranno svolte in raccordo con la programmazione di classe/sezione e verranno proposte in modo da favorire un’effettiva integrazione dell’alunno, compatibilmente con i ritmi e i tempi d’apprendimento e le potenzialità del bambino stesso.

- INTEGRAZIONE SOCIALE Nel 2004 l’Istat ha condotto un’indagine sulle persone con disabilità che vivono in famiglia per cogliere, da un lato, l’integrazione sociale dei disabili nel loro contesto di vita (rete di relazioni,

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scuola, lavoro, tempo libero, ecc.), dall’altro, i fattori che ostacolano tale integrazione. È prevalente la disabilità nell’area motoria seguita da problemi nella sfera mentale, anche associati a disabilità sensoriale e/o motoria. Tra i più giovani (4-34 anni), raddoppia la quota delle persone colpite da disabilità nella sfera mentale. Sono molte le barriere che un disabile deve abbattere: visibili (marciapiedi o scale) e invisibili (sociali e psicologiche). Le barriere architettoniche sono ostacoli che limitano il movimento di coloro che sono affetti da handicap motorio: gradini, scale, porte, passaggi troppo stretti che sbarrano l'accesso a chi è costretto a muoversi su una sedia a rotelle. Del resto è ciò che accade anche alle mamme quando trasportano un piccolo su un passeggino. E' questa anche per loro una forma di handicap. Purtroppo la situazione reale non coincide con quanto stabilisce la legge. E' ancora difficile per un portatore di handicap vedere riconosciuti i propri diritti di cittadino. Inoltre spesso sono mentalità, atteggiamenti, costumi sociali che portano gli altri, i <<normali>>, a creare ulteriori ostacoli a chi ha un handicap. Le persone con disabilità non anziane sono concentrate soprattutto nella fascia di età più alta e nel Nord del paese. Lo svantaggio è ancora più elevato tra le persone con un alto livello di gravità della disabilità. Un possibile ambito di integrazione è lo SPORT. Quasi tutte le discipline previste dal CONI (Comitato Olimpico Nazionale Italiano) sono ormai praticate anche da società sportive per disabili e a livello internazionale vi è la famosa manifestazione delle Paralimpiadi in cui atleti disabili si fronteggiano in svariate discipline che sta diventando sempre più un evento sportivo di grande richiamo ad opera di Guttman. Esse ebbero tantissimo successo tanto che avvengono ancora oggi e prevedono attività sportive per sei differenti categorie di disabili

3.5. L’Inclusione (1994-oggi) L'inclusione deriva dal lat. inclusio -onis ovvero l'atto, il fatto di includere, cioè di inserire, in campo educativo significa far sentire tutti i bambini parte del gruppo classe. Il concetto di inclusione conduce al riconoscimento di un diritto come forma di contrasto al suo opposto: l’esclusione. Porta ad affermare che le strategie e le azioni da promuovere devono tendere a rimuovere quelle forme di esclusione sociale di cui le persone con disabilità soffrono nella loro vita quotidiana. In particolare, il processo di inclusione si propone di:

• Riconoscere la diversità presente in ciascun soggetto; • Valorizzare la diversità; • Costruire legami che riconoscano la specificità e la differenza di identità.

L’inclusione scolastica presuppone un cambiamento nella struttura scolastica al fine di mettere tutti gli studenti in condizioni di pari opportunità, con adeguati e personalizzati supporti e sostegni. In questo nuovo contesto non ci si limita a riconoscere il diritto della persona ad esistere ed a partecipare adattandosi a regole già poste in essere, ma si mira alla valorizzazione di ogni singolo individuo come risorsa per la collettività, formulando le regole di partecipazione con persone disabili. Integrare le persone diversamente abili è una grande sfida, che può essere vinta puntando sulla competenza e sulla collaborazione. A scuola, prima che altrove, occorre formare alle differenze, accogliendole come eterogeneità, attivando percorsi inclusivi intesi come disponibilità . Inclusione significa che la scuola si adatta ai bambini e tutti i bambini hanno la possibilità di apprendere insieme, indipendentemente dalle difficoltà incontrate da loro. La scuola deve essere indirizzata ai bisogni del bambino e non viceversa. La scuola inclusiva deve riconoscere e rispondere alle diverse esigenze dei bambini, imparando ad armonizzare le differenze, le differenze educative tra i gradi di successo e assicurare

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un’educazione efficace per tutti. Essa comporta una ristrutturazione della scuola sotto molti aspetti. In termini di curriculum si dovrebbe realizzare: lo sviluppo dei programmi che corrispondono alle esigenze dei bambini in relazione alle reali

possibilità di apprendimento, allo stile di apprendimento e al ritmo di ciascuno; adeguare le strategie di insegnamento alle particolarità di ogni bambino; l’organizzazione dell’apprendimento sui principi dell’apprendimento attivo, partecipativo,

cooperativo e dell’aiuto reciproco; la valutazione sociale di ogni bambino, valorizzando la diversità e la sua accettazione. Il sostegno socio assistenziale scolastico provvede a fornire alle scuole di ogni ordine e grado il personale specializzato per l’assistenza necessaria all’autonomia e alla comunicazione personale degli alunni con handicap fisici, psichici e sensoriali. Obiettivo dell’inclusione scolastica è “lo sviluppo delle potenzialità della persona handicappata nell’apprendimento, nella comunicazione, nelle relazioni e nella socializzazione” I vantaggi e i benefici dell’inclusione Il problema dell’integrazione dei soggetti diversamente abili si è posto prima nella scuola che nella società, nella quale molto spesso la condizione generale dell’handicap non viene adeguatamente considerata. L’inclusione scolastica in questo senso assume un significato fondamentale anche in prospettiva sociale. Nella normativa italiana recente, per la scuola dell’infanzia si afferma esplicitamente che “la presenza di bambini in difficoltà è fonte di una preziosa dinamica di rapporti e di interazioni che è, a sua volta, occasione di maturazione per tutti, dalla quale si impara a considerare e a vivere la diversità come una dimensione esistenziale e non come una caratteristica emarginante”. L’inserimento degli alunni portatori di handicap nelle scuole comuni crea una situazione nuova, diversa da quella che si vive fuori dalla scuola, nella realtà quotidiana, per cui sia gli adulti (dirigenti, docenti, genitori, personale non docente etc.) sia gli alunni si trovano a dovere vivere notevoli problemi di relazionalità. Le indicazioni normative fanno dunque centro sulla necessità di generare continui atteggiamenti di accoglienza da parte degli insegnati oltre che da parte degli altri alunni. L’inclusione, ricordiamolo, ha significato soltanto nella misura in cui il diversamente abile non si auto-percepisca come oggetto di emarginazione da parte della classe.

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4.

BES – DSA – ADHD 4.1. BES Come si può facilmente comprendere, non ha senso parlare di “diagnosi BES” perché all’interno di questa categoria rientra un gruppo fortemente eterogeneo di persone, sia con diagnosi molto diverse fra loro, sia senza diagnosi. Ad esempio i bambini/adolescenti affetti dal mutismo selettivo, portatori di disturbi specifici di apprendimento (dsa) oppure di sindrome dal deficit di attenzione e iperattività (adhd). Ma cosa sono nello specifico? Analizziamoli. Con la sigla BES si fa riferimento ai BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI ed in modo particolare a tutti quegli alunni che hanno delle particolari difficoltà e che necessitano di interventi individualizzati. Avere Bisogni Educativi Speciali non significa obbligatoriamente avere una diagnosi medica e/o psicologica , ma essere in una situazione di difficoltà e ricorrere ad un intervento mirato, personalizzato. Nelle scuole infatti vi sono sia alunni con Bisogni Educativi Speciali con diagnosi psicologica e/o medica e alunni con Bisogni Educativi Speciali senza diagnosi.

Nel primo caso vi rientrano tutti gli alunni che presentano il ritardo mentale, i disturbi generalizzati dello sviluppo, il disturbo autistico, i disturbi dell’apprendimento, i disturbi di sviluppo della lettura ecc.. Infine vi sono le patologie che riguardano la motricità, quelle sensoriali, neurologiche o riferibili ad altri disturbi organici.

Nel secondo caso, invece, rientrano tutti quegli alunni che non presentano queste problematiche sopra elencate ma che presentano una situazione meno chiara e più sfumata. Questa tipologia di alunni è però presente all’interno della scuola in modo piuttosto considerevole.

Secondo la direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012: “... ogni alunno, in continuità o per determinati periodi, può manifestare Bisogni Educativi Speciali: o per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta”. Questa direttiva che ha come oggetto “Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica”, delinea e precisa la strategia inclusiva della scuola italiana al fine di realizzare appieno il diritto all’apprendimento per tutti gli alunni e gli studenti in situazione di difficoltà. La Direttiva estende pertanto a tutti gli studenti in difficoltà, il diritto alla personalizzazione dell’apprendimento, richiamandosi espressamente ai principi enunciati dalla Legge 53/2003. Inoltre con la legge 170/2010 vi è un punto di svolta perché essa apre un diverso canale di cura educativa, concretizzando i principi di personalizzazione dei percorsi di studio enunciati nella legge 53/2003, nella prospettiva della “ presa in carico ’’ dell’alunno BES da parte di ciascun docente curricolare e di tutto il team di docenti coinvolto, non solo dall’insegnante per il sostegno. L’area dei Bisogni Educativi Speciali, conosciuta in Europa come Special Educational Needs, rappresenta quell’area dello svantaggio scolastico che comprende tre grandi sotto-categorie:

DISABILITÀ certificata ai sensi dell’art. 3, commi 1 o 3 (gravità) della Legge 104/92, che dà titolo all’attribuzione dell’insegnante di sostegno;

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4.1.1. Chi usufruisce della legge 104/92? Nella norma (art. 3, comma 1) si precisa che "E' persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione". La legge (art. 3, comma 4) "si applica anche agli stranieri e agli apolidi, residenti, domiciliati o aventi stabile dimora nel territorio nazionale".Le Legge 104/92 riconosce e tutela la partecipazione alla vita sociale delle persone con disabilità, in particolare nei luoghi per essa fondamentali: la scuola, durante l’infanzia e l’adolescenza (artt. 12, 13, 14, 15, 16 e 17) e il lavoro, nell’età adulta (artt. 18, 19, 20, 21 e 22). Il MIUR mette in atto varie misure di accompagnamento per favorire l'integrazione: docenti di sostegno, finanziamento di progetti e attività per l'integrazione, iniziative di formazione del personale docente di sostegno e curriculare nonché del personale amministrativo, tecnico e ausiliare. Organi consultivo e propositivo, a livello nazionale, in materia di integrazione scolastica è l’ Osservatorio per l'integrazione delle persone con disabilità. La certificazione delle disabilità: La certificazione di disabilità è il presupposto per l’attribuzione all’alunno con disabilità delle misure di sostegno e di integrazione. Il Decreto Presidente del Consiglio dei Ministri - 23/02/2006 n. 185 "Regolamento recante modalità e criteri per l'individuazione dell'alunno come soggetto in situazione di handicap, ai sensi dell'articolo 35, comma 7, della legge 27 dicembre 2002, n. 289", all’art. 1 individua per la certificazione dell’alunno con disabilità un “organismo collegiale” appartenente al Servizio Sanitario Nazionale. Da sottolineare inoltre l’art. 2 del DPCM in questione, ove si prescrive che le diagnosi funzionali siano realizzate secondo le classificazioni internazionali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) che, tra l’altro, devono indicare l’eventuale particolare gravità della patologia.

DISTURBI EVOLUTIVI SPECIFICI Alunni con disturbi evolutivi specifici, ossia disturbi dell’apprendimento, deficit del linguaggio o della coordinazione motoria (DSA-ADHD) previsti dalla legge 170/2010;

SVANTAGGIO SOCIO-ECONOMICO, LINGUISTICO E CULTURALE la Direttiva dispone che l’individuazione di tali tipologie di BES deve essere assunta da Consigli di classe sulla base di considerazioni di carattere psicopedagogico e, in particolare, la circolare n.8 del 6 marzo 2013, sulla base di elementi oggettivi (come ad es. una segnalazione degli operatori dei servizi sociali), ovvero di ben fondate considerazioni psicopedagogiche e didattiche.

Le Origini dei “BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI” possono essere:

1. Bisogni Educativi Speciali da “CONDIZIONI FISICHE ”difficili : • ospedalizzazioni; • malattie acute/croniche (diabete, allergie, ecc.); • lesioni; • fragilità; • anomalie cromosomiche.

2. Bisogni Educativi Speciali da menomazioni nelle “STRUTTURECORPOREE ” : • mancanza di arti; • mancanza o anomalie in varie parti del corpo.

3. Bisogni Educativi Speciali da difficoltà od ostacoli nella “ PARTECIPAZIONE SOCIALE ” : • difficoltà nel rivestire i vari ruoli nei contesti dell’istruzione. (integrazione nelle attività scolastiche); • difficoltà nel rivestire i vari ruoli nei contesti della vita extrascolastica e di comunità.

4. Bisogni Educativi Speciali da ostacoli presenti nei “FATTORI CONTESTUALI PERSONALI”:

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• problemi emozionali; • problemi comportamentali; • scarsa autostima; • scarsa autoefficacia; • stili attributivi distorti; • scarsa motivazione; • difficoltà nell’identità e nel progetto di Sé.

5. Bisogni Educativi Speciali da deficit nelle “ FUNZIONI CORPOREE ” : • difficoltà cognitive (attenzione, memoria, ecc.) • difficoltà sensoriali • difficoltà motorie

4.1.2. Come includere i BES? Gli interventi non sono più soltanto pensati per il soggetto “speciale”, ma effettuati sul “sistema” che non è più organizzato esclusivamente per i soggetti “normali”. Ogni variabile del sistema, dai libri, alla LIM, ai servizi igienici, alle attività didattiche, è pensata per accogliere tutte le utenze possibili. Creare un ambiente inclusivo, significa porsi dal punto di vista di tutti. In particolare le strategie o le metodologie adottate devono essere volte a:

• ridurre al minimo i modi tradizionali ‘’di fare scuola’’ (lezione frontale, completamento di schede che richiedono ripetizioni di nozioni o applicazioni di regole memorizzate, successione di spiegazione, interrogazioni);

• sfruttare i punti di forza di ciascun alunno, adattando i compiti agli stili di apprendimento degli studenti e dando varietà e opzioni nei materiali e nelle strategie d’insegnamento;

• utilizzare mediatori didattici diversificati (mappe, schemi, immagini); • collegare l’apprendimento alle esperienze e alle conoscenze pregresse degli studenti; • favorire l’utilizzazione immediata e sistematica delle conoscenze e abilità, mediante attività

di tipo laboratoriale; • sollecitare la rappresentazione di idee sotto forma di mappe da utilizzare come facilitatori

procedurali nella produzione di un compito; • far leva sulla motivazione ad apprendere.

Inoltre con la la Direttiva Ministeriale 27.12.2012 e la C.M. n. 8/2013 ci si orienta ad una Didattica Inclusiva in cui il Collegio dei docenti mette in atto diverse condizioni : -Rilevazione delle situazioni di disagio; -Adozione di una personalizzazione didattica -Elaborazione del PDP (percorso individualizzato che consente di definire, monitorare , documentare le strategie di intervento più idonee. Inoltre vi è l’ istituzione del GLI ( gruppo di lavoro per l’inclusione ): gruppo allargato che non comprenderà solo i docenti di sostegno , ma anche funzioni strumentali , docenti disciplinari , assistenti educativi-culturali. Il GLI dovrà :

trattare le questioni relative a tutti gli alunni con BES certificati

programmare un utilizzo funzionale delle risorse presenti nella scuola per la realizzazione di un progetto di inclusione condiviso con docenti e famiglie.

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4.1.3. L’etichetta BES è definitiva? Molte situazioni sono soggette a forti mutamenti nel tempo, a miglioramenti e quindi alla reversibilità. Per esempio un alunno immigrato può manifestare all’inizio dell’ inserimento nella scuola italiana grandi difficoltà nell’apprendimento della nuova lingua e che quindi sia da considerare inizialmente un “Bisogno Speciale”. Tuttavia, una volta avvenuto il processo di alfabetizzazione e di integrazione nel gruppo classe, lo studente non necessiterà più di una didattica personalizzata.Un alunno con disturbo evolutivo specifico,invece, avrà sempre il suo disturbo e i suoi personali bisogni educativi. DSA (Disturbi Specifici dell’apprendimento) All’interno dei Disturbi Evolutivi Specifici rientrano i DSA,acronimo con il quale si identificano i Disturbi Specifici dell’apprendimento, che fanno parte della famiglia dei Disturbi Evolutivi Specifici. I disturbi specifici di apprendimento, sono disturbi dell'apprendimento che interessano alcune abilità specifiche che devono essere acquisite da bambini e ragazzi in età scolare. La definizione di disturbo specifico dell’apprendimento va considerata come il punto d’arrivo di un lungo percorso storico, infatti nel 1990 David Hammil, basandosi sull’intesa a cui erano giunte numerose associazioni di ricerca ed intervento nel campo, ne definiva le caratteristiche generali:“Learning disability (l'espressione corrispondente in lingua inglese) si riferisce ad un gruppo eterogeneo di disordini manifestati da significative difficoltà nell'acquisizione e nell'uso di abilità di ascolto, espressione orale, lettura, ragionamento e matematica, presumibilmente dovuti a disfunzioni del sistema nervoso centrale e che possono verificarsi lungo l’arco della vita. Possono coesistere con la L.D. problemi nei comportamenti di autoregolazione, nella percezione sociale e nell'interazione sociale, ma non costituiscono di per sé una L.D. Le Learning Disabilities possono verificarsi in concomitanza con altri fattori di handicap o con influenze estrinseche (culturali, d'istruzione, ecc.), ma non sono il risultato di quelle condizioni o influenze”. Definire i disturbi dell´apprendimento non è comunque cosa facile; nel corso del tempo sono state date innumerevoli definizioni del problema, ognuna diversa dall´altra a seconda dei parametri che venivano di volta in volta presi come riferimento. La difficoltà maggiore sta nel riconoscere i tratti comuni di questi bambini e soprattutto riuscire a distinguere la cause dagli effetti. Si denotano come “specifici” in quanto la condizione interessa un´abilità circoscritta mentre il funzionamento intellettivo globale è preservato. In altri termini, deve emergere una “discrepanza” tra le capacità intellettive che risultano nella norma, e un´abilità specifica (es. lettura) la quale risulta deficitaria in rapporto all´età ed alla classe frequentata dal soggetto. La normativa italiana richiede che il quoziente intellettivo del bambino sia uguale o superiore ad 80 in modo che il DSA sia specifico e non attribuibile ad un ritardo generalizzato dello sviluppo intellettivo. Le caratteristiche dei DSA sono descritte nelle “Raccomandazioni per la pratica clinica sui disturbi specifici dell’apprendimento” elaborate dalla Consensus,che sono punto di riferimento per il contesto italiano:

- il carattere evolutivo di questi disturbi; - la diversa espressività del disturbo nelle varie fasi evolutive dell’abilità in questione; - la quasi costante associazione ad altri disturbi (comorbilità); - il carattere neurobiologico delle anomalie processuali che caratterizzano i DSA; - interagiscono attivamente nella determinazione della comparsa del disturbo con i fattori

ambientali; - il fatto che il disturbo specifico deve comportare un impatto significativo e negativo per

l’adattamento scolastico e/o per le attività della vita quotidiana.

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4.2. DSA

Per rilevare la presenza di deficit vengono utilizzati test standardizzati (permettono il confronto con un campione di riferimento) che consentono la misurazione sia dell´abilità compromessa sia del funzionamento intellettivo. E´ quindi necessario escludere la presenza di condizioni che possano influenzare i punteggi nei test (criteri di esclusione): - menomazioni sensoriali e neurologiche gravi, disturbi significativi della sfera emotiva; -situazioni ambientali di svantaggio socio-culturale che possono interferire con un´adeguata istruzione. Quando sono presenti altre condizioni od influssi ambientali, la cui influenza non è in grado di spiegare interamente il deficit settoriale è opportuno optare la diagnosi di Disturbo d´Apprendimento (non specifico). L´importanza di distinguere tra disturbi dell´apprendimento e difficoltà scolastiche è evidente se si pensa che se è probabile che un bimbo con disturbi dell´apprendimento abbia problemi a scuola non è necessariamente vero il contrario. Per affrontare i DSA è necessario un lavoro sinergico fra specialisti, docenti, famiglie. ll documento di programmazione con il quale la scuola definisce gli interventi che intende mettere in atto nei confronti degli alunni con esigenze didattiche particolari ma non riconducibili alla disabilità, è il PDP. ll consiglio di classe predispone il Piano Didattico Personalizzato, nelle forme ritenute più idonee e nei tempi che non superino il primo trimestre scolastico, articolato per le discipline coinvolte nel disturbo, che dovrà contenere:

• 1) Dati anagrafici; • 2) Tipologia del disturbo; • 3) Attività didattiche individualizzate; • 4) Attività didattiche personalizzate; • 5) Strumenti compensativi;

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L’alunno con DSA può usufruire di strumenti compensativi che gli consentono di compensare le carenze funzionali determinate dal disturbo. Aiutandolo nella parte automatica della consegna, permettono all’alunno di concentrarsi sui compiti cognitivi oltre che avere importanti ripercussioni sulla velocità e sulla correttezza. A seconda della disciplina e del caso, possono essere:

formulari, sintesi, schemi, mappe concettuali delle unità di apprendimento

tabella delle misure e delle formule geometriche

computer con programma di videoscrittura, correttore ortografico; stampante e scanner

calcolatrice o computer con foglio di calcolo e stampante

registratore e risorse audio (sintesi vocale, audiolibri, libri digitali)

software didattici specifici

computer con sintesi vocale

vocabolario multimediale. Le strutture grafiche (tipo diagrammi e/o mappe) possono servire ai ragazzi con DSA per trasporre e organizzare le loro conoscenze.

• 6) Misure dispensative;

Misure dispensative All’alunno con DSA è garantito l’essere dispensato da alcune prestazioni non essenziali ai fini dei concetti da apprendere. Esse possono essere, a seconda della disciplina e del caso:

La lettura ad alta voce, la scrittura sotto dettatura , prendere appunti, copiare dalla lavagna

Il rispetto della tempistica per la consegna dei compiti scritti

La quantità eccessiva dei compiti a casa

L’effettuazione di più prove valutative in tempi ravvicinati

Lo studio mnemonico di formule, tabelle, definizioni.

Sostituzione della scrittura con linguaggio verbale e/o iconografico.

Strumenti compensativi

• 7) Forme di verifica e valutazione personalizzata. Secondo il Miur, sono circa 70 mila gli alunni con diagnosi di Disturbi Specifici di Apprendimento (DSA), ma i casi non ancora diagnosticati potrebbero essere oltre 200 mila. Con il Decreto n. 5669/11, attuativo della Legge n. 170/10, si riconosce la dislessia, la disortografia, la disgrafia, la discalculia e disturbo specifico della compitazione come DSA e tutela il diritto allo studio puntando su nuove metodologie didattiche e valutative e sulla formazione dei docenti. Al decreto attuativo sono allegate le Linee Guida, con indicazioni elaborate in base alle più recenti conoscenze scientifiche per realizzare interventi personalizzati.In questa direttiva si evidenzia che l’identificazione degli alunni con disabilità non avviene soltanto se vi è una certificazione, ma per individuare i Bisogni Educativi Speciali (BES) degli alunni si deve far riferimento al modello diagnostico ICF (International Classification of Functioning).Il termine speciale,solitamente tende a far pensare ad un qualcosa di negativo, ad un qualcosa che sia diverso, che sia “anormale” e che quindi ha bisogno di sostegno. In realtà bisogna intendere con il termine speciale tutto ciò che ha

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bisogno di competenze migliori, di maggiore attenzione, di risorse più efficaci. Nella classificazione internazionale ICD- 10 dell' Organizzazione Mondiale della Sanità i DSA sono definiti con la sigla F81. 4.2.1. La Dislessia La dislessia è una difficoltà che riguarda la capacità di leggere e scrivere in modo corretto e fluente.Leggere e scrivere sono considerati atti così semplici e automatici che risulta difficile comprendere la fatica di un bambino dislessico. Il bambino dislessico può leggere e scrivere, ma non facendolo in maniera automatica deve impegnare al massimo le sue capacità e le sue energie perciò si stanca rapidamente, commette errori e rimane indietro. La dislessia si manifesta con una lettura scorretta (numero di errori commessi durante la lettura) e/o lenta (tempo impiegato per la lettura) e può manifestarsi anche con una difficoltà di comprensione del testo scritto. Il bambino appare disorganizzato nelle sue attività, sia a casa che a scuola,ha difficoltà a copiare dalla lavagna e a prendere nota delle istruzioni impartite oralmente. Spesso come conseguenza della dislessia il bambino finisce con l'avere problemi psicologici, quale demotivazione e scarsa autostima.

4.2.2. La Disgrafia La disgrafia si inserisce nel quadro delle difficoltà grafo-motorie e come tale può essere considerata una sindrome che rallenta fino ad impedire l’apprendimento, il consolidamento e la conseguente automatizzazione della scrittura. L’incapacità di tracciare correttamente lettere e numeri ha conseguenze rilevanti sul rendimento scolastico ed è spesso presente in ragazzini i cui risultati scolastici sono poco soddisfacenti. Si può manifestare in vari modi:

scarsa leggibilità;

lentezza e stentatezza;

disorganizzazione delle forme e degli spazi grafici;

scarso controllo del gesto;

confusione e disarmonia;

rigidità ed eccessiva accuratezza;

difficoltà nell’atto scrittorio in presenza di crampi o dolori muscolari. Spesso la disgrafia viene scambiata per negligenza, poco impegno, scarsa motivazione all’apprendimento, in realtà è spesso conseguenza di problematiche legate allo sviluppo di abilità cognitive che ne costituiscono i pre-requisiti e che sono fortemente correlate con: – difficoltà evolutiva del linguaggio; – problemi di percezione e discriminazione visiva e/o uditiva; – problemi di organizzazione spazio-temporale; – difficoltà di simbolizzazione grafica. 4.2.3. La Disortografia La disortografia è un disturbo specifico della scrittura che non rispetta regole di trasformazione del linguaggio parlato in linguaggio scritto non imputabile alla mancanza di esperienze o a deficit

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motori o sensoriali. I sintomi possono essere omissioni di grafemi o parti di parola (es. pote per ponte), sostituzioni di grafemi (es. vaccia per faccia) inversioni di grafemi (il per li).Gli indicatori di rischio di questo disturbo sono : -difficoltà nell’associazione grafema/fonema; -mancato raggiungimento del controllo sillabico in lettura e scrittura; -eccessiva lentezza nella lettura e scrittura; -incapacità di produrre lettere in stampato maiuscolo in modo riconoscibile. 4.2.4. La Discalculia La discalculia è un disturbo specifico del calcolo che compare in età evolutiva, caratterizzato da una capacità di calcolo inferiore a quella attesa in base all'età del bambino e al corrispondente grado di istruzione.La discalculia viene suddivisa in primaria e secondaria:

la discalculia primaria rappresenta il disturbo delle abilità numeriche e aritmetiche;

la discalculia secondaria si presenta associata ad altri problemi di apprendimento, quali la dislessia, la disgrafia, ecc.

Bisogna intervenire all'origine del problema e non sul disturbo di calcolo in sé, che da solo non darebbe risultati soddisfacenti. 4.2.5. Disturbo specifico della compitazione Il disturbo specifico della compitazione è uno dei più comuni DSA e consiste nella difficoltà a suddividere le sillabe in parole ed è solitamente associato a problemi di disgrafia. Secondo la definizione dell' OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) la caratteristica principale del disturbo della compitazione è "un disturbo specifico e significativo nello sviluppo delle abilità di compitazione in assenza di una storia di disturbi specifici della lettura, è un disturbo che non è dovuto unicamente ad un'età mentale immatura, a problemi di vista, o inadeguato livello scolastico. Le abilità di pronunciare e scrivere correttamente le parole sono entrambe compromesse". Ciò che caratterizza il bambino con disturbo specifico di apprendimento è la presenza di un impaccio considerevole nello svolgimento di tutte quelle attività che richiedono un’integrazione di più competenze di base; è proprio l’intreccio di capacità diverse che mette a dura prova il soggetto nel suo processo di apprendimento scolastico. Questo tipo di disturbo è in stretta correlazione con il ritmo. competenze, il tutto in uno contesto piacevole e divertente per il ragazzo. Inoltre, lo strumentario si presta ad essere utilizzato come canale di sfogo di tensioni accumulate a scuola, in famiglia. La musicoterapia, attraverso l’utilizzo dello strumentario, consente di strutturare esercizi-gioco che favoriscano l’acquisizione e il consolidamento di queste, nel gruppo dei pari. L’aspetto emotivo del ragazzo pertanto sarà da considerarsi una priorità all’interno del trattamento musicoterapico. L’ organizzazione mondiale della Sanità classifica la dislessia e gli altri DSA ,come disabilità nella capacità di lettura, di scrittura e nel calcolo aritmetico che si manifestano nonostante i normali metodi di insegnamento. Queste indicazioni sono recepite nell’ ambito della classificazione diagnostica dell’ ICD10, nella quale i DSA rientrano nei codici: F81.0 disturbo specifico della lettura F81.1 disturbo specifico della compitazione F81.2 disturbo specifico delle abilità aritmetiche F81.3 disturbi misti delle capacità scolastiche (ove siano presenti più di uno dei disturbi specifici sopra indicati) .

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Si deve garantire il diritto all’ istruzione e i necessari supporti agli alunni con DSA, favorendone il successo scolastico, riducendo i disagi formativi ed emozionali, che, di norma, la legge 104 del 1992 trova applicazione solo nei casi di particolare gravità. Particolare rilevanza nei mezzi riabilitativi e compensativi dei DSA rivestono le nuove tecnologie che possono venire utilizzate fin dai primi anni della scuola elementare (a fini riabilitativi) e sicuramente , dove necessario, dall’ inizio della scuola media (a fini compensativi) fino al mondo del lavoro. Nei paesi anglosassoni la definizione di DSA comprende anche:

- DISPRASSIA :riguarda la coordinazione e il movimento e che può comportare problemi con il linguaggio. Si configura come incapacità a compiere movimento volontari coordinati sequenzialmente in funzione di un preciso scopo. Uno degli esempi classici è la difficoltà ad allacciarsi le stringhe delle scarpe. Spesso i bambini disprassici faticano a mettere in ordine le varie fasi di un racconto, altre volte presentano problemi di annualità che si traducono in problemi ortografici, oppure problemi relativi al movimento oculare.

- DISTURBI SPECIFICI DEL LINGUAGGIO: sono definiti disturbi evolutivi "specifici", in quanto non collegati o causati da altri disturbi evolutivi del bambino. Questo disturbo viene definito condizione in cui l’acquisizione delle normali abilità linguistiche è disturbata sin dai primi stadi dello sviluppo. Il disturbo linguistico non è direttamente attribuibile ad alterazioni neurologiche o ad anomalie di meccanismi fisiologici dell’eloquio, a compromissioni del sensorio, a ritardo mentale o a fattori ambientali. È spesso seguito da problemi associati quali le difficoltà nella lettura e nella scrittura, anomalie nelle relazioni interpersonali e disturbi emotivi e comportamentali. Normalmente è possibile diagnosticare questo disturbo intorno ai 3 anni d'età .

4.2.6. Adeguate forme di verifica e di valutazione Verifica Le prove di verifica devono considerare il fatto che gli studenti con DSA si stancano facilmente: • Differenziare le verifiche (scelta multipla, V/F, verifica ingrandita, testo in digitale, ecc.); • Lettura del testo della verifica scritta dall’insegnante (a tutta la classe); • Dare più tempo o diminuire la quantità di compiti da svolgere; • Non giudicare l’ordine o la calligrafia, ma privilegiare i concetti; • Interrogazioni programmate; • Prove orali al posto di prove scritte; • Uso di mediatori didattici durante le interrogazioni (mappe, schemi, ecc.) Valutazione La valutazione deve tener conto delle caratteristiche personali del disturbo, del punto di partenza, degli obiettivi raggiunti cercando di premiare i progressi e gli sforzi. Deve essere effettuata in base ai progressi acquisiti, all’impegno, alle conoscenze apprese e alle strategie operate: valutazione del contributo che l’alunno ha dato e del percorso effettuato. Inoltre è necessario: •Programmare e concordare con l’alunno le verifiche

Prevedere verifiche orali a compensazione di quelle scritte (soprattutto per la lingua straniera)

Valutazioni più attente alle conoscenze e alle competenze di analisi, sintesi e collegamento piuttosto che alla correttezza formale

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Far usare strumenti e mediatori didattici nelle prove sia scritte sia orali (mappe concettuali, mappe cognitive)

Introdurre prove informatizzate Programmare tempi più lunghi per l’esecuzione delle prove Pianificare prove di valutazione formativa

“Un DSA non sarà mai un limite a quelle che sono le aspirazioni di vita di una persona; di fatto, innumerevoli menti brillanti della storia antica e contemporanea avevano disturbi dell’ apprendimento”

4.3. ADHD. L'ADHD (Attention Deficit HyperactivityDisorder) è l'acronimo inglese comunemente usato per indicare il Disturbo da deficit di attenzione e iperattività (acronimo italiano meno noto, DDAI). L'ADHD è un disordine dello sviluppo neuropsichico del bambino e dell’adolescente, caratterizzato da incapacità a mantenere attenzione prolungata, da impulsività e iperattività. Il soggetto con ADHD è caratterizzato da gravi difficoltà a mantenere l’attenzione e, alcune volte, è accompagnato da difficoltà, ugualmente serie, a regolare gli impulsi e l’attività fisica, con serie conseguenze per il funzionamento socio-emotivo dell’individuo, l’impegno e la realizzazione educativa, e lo sviluppo successivo nel corso della vita.

L’ADHD evolve come risultato di una combinazione tra influenze biologiche e psico-sociali e influenze ambientali. A casa e in classe queste difficoltà portano a non iniziare o non completare i compiti assegnati; la dimenticanza cronica e la mancanza di affidabilità; l’incapacità di rispettare regole di condotta; l’incapacità di rispettare routine stabilite e, alcune volte, un apparente disimpegno generale verso i desideri e i bisogni degli altri. Ha una prevalenza dal 3 al 7% nei bambini in età prescolare, ed è più frequente nei maschi che nelle femmine. La sindrome da deficit di attenzione e iperattività è stata descritta chiaramente da George Still nel 1902. La terminologia per descriverlo è cambiata nel tempo, inizialmente nel 1952, nella prima edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM) veniva conosciuta come "disfunzione cerebrale minima", nel DSM II del 1968 si parlava invece, di "reazione ipercinetica dell'infanzia", il DSM III del 1980 la definiva "disturbo da deficit dell'attenzione con o senza iperattività". La terminologia nel 1987 con il DSM III-R cambia ancora, assumendo il nome che ha tuttora "sindrome da deficit di attenzione iperattività".

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L’ultima descrizione del DDAI appartiene al DSM-IV (1994) dove troviamo la suddivisione dei sintomi in disattenzione, iperattività, impulsività, e la possibilità di individuare dei sottotipi. Tra i fattori predisponenti troviamo: fattori genetici (alterazioni funzionali di specifiche regioni del Sistema Nervoso Centrale), fattori ambientali (nascita prematura, uso di alcool e tabacco da parte della madre, esposizione a elevate quantità di piombo nella prima infanzia, lesioni cerebrali) , disturbi del comportamento nei genitori, disturbi dell’umore soprattutto di tipo depressivo nella madre, fattori traumatici durante l’infanzia: esperienze di allontanamento dalla famiglia, violenze e abusi e modalità educative e relazionali inadeguate. Per quanto riguarda i problemi relazionali, i genitori, gli insegnanti e gli stessi coetanei concordano che i bambini con ADHD hanno anche problemi nelle relazioni interpersonali . Vari studi di tipo sociometrico hanno confermato che bambini affetti da deficit di attenzione con o senza iperattività:

● ricevono minori apprezzamenti e maggiori rifiuti dai loro compagni di scuola o di gioco

● pronunciano un numero di frasi negative nei confronti dei loro compagni dieci volte superiori rispetto agli altri

● presentano un comportamento aggressivo tre volte superiore ● non rispettano o non riescono a rispettare le regole di comportamento in gruppo e

nel gioco 4.3.1. La disattenzione. I sintomi relativi alla disattenzione si riscontrano soprattutto in bambini che, rispetto ai loro coetanei, presentano un’evidente difficoltà a rimanere attenti o a lavorare su uno stesso compito per un periodo di tempo sufficientemente prolungato. Diversi autori sostengono che il deficit principale della sindrome sia rappresentato dalle difficoltà d’attenzione, che si manifestano sia in situazioni scolastiche/lavorative, che in quelle sociali. Dato che il costrutto di attenzione è multidimensionale (selettiva, 4 mantenuta, focalizzata, divisa), le ultime ricerche sembrano concordi nello stabilire che il problema maggiormente evidente nel DDAI sia il mantenimento dell’attenzione, soprattutto durante attività ripetitive o noiose (Dogulas, 1983; Robertson et al., 1999). Queste difficoltà si manifestano anche in situazioni ludiche in cui il bambino manifesta frequenti passaggi da un gioco ad un altro, senza completarne alcuno. A scuola si manifestano evidenti difficoltà nel prestare attenzione ai dettagli, banali “errori di distrazione”, e i lavori sono incompleti e disordinati. Insegnanti e genitori riferiscono che i bambini con DDAI sembra che non ascoltino o che abbiano la testa da un’altra parte quando gli si parla direttamente. Passando vicino al banco di un bambino iperattivo si può rimanere colpiti dal disordine con cui gestisce il materiale scolastico e dalla facilità con cui viene distratto da suoni o da altri stimoli irrilevanti. Malgrado queste osservazioni, le ricerche sono concordi nell’affermare che i bambini con DDAI non sono più distraibili di altri (Barkley, 1998). Sembra quindi che le problematiche attentive diventino evidenti in particolare quando il compito da svolgere non risulta attraente e motivante per il bambino (Millich&Lorch, 1994). 4.3.2. L’impulsività Secondo alcuni autori l’impulsività è la caratteristica distintiva del DDAI, rispetto ai bambini di controllo e rispetto agli altri disordini psicologici (Barkley, 1997). L’impulsività si manifesta nella difficoltà a dilazionare una risposta, ad inibire un comportamento inappropriato, ad attendere una gratificazione. I bambini impulsivi rispondono troppo velocemente (a scapito dell’accuratezza delle

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loro risposte), interrompono frequentemente gli altri quando stanno parlando, non riescono a stare in fila e attendere il proprio turno. Oltre ad una persistente impazienza, l’impulsività si manifesta anche nell’intraprendere azioni pericolose senza considerare le possibili conseguenze negative. L’impulsività è una caratteristica che rimane abbastanza stabile durante lo sviluppo. 4.3.3. L’iperattività La terza caratteristica del DDAI è l’iperattività, ovvero un eccessivo livello di attività motoria o vocale. Il bambino iperattivo manifesta continua agitazione, difficoltà a rimanere seduto e fermo al proprio posto. Secondo i racconti di genitori e insegnanti i bambini con DDAI sembrano “guidati da un motorino”: sempre in movimento sia a scuola che a casa, durante i compiti e il gioco. Molto spesso i movimenti di tutte le parti del corpo (gambe, braccia e tronco) non sono armonicamente diretti al raggiungimento di uno scopo. L’iperattività è considerata una dimensione comportamentale lungo la quale i bambini (ma anche gli adulti) si possono collocare tra il polo calmo-ben organizzato e il polo irrequieto - inattento (Sandberg, 1996; Nisi, 1986; Epstein, Shaywitz et al. 1991): si tratta quindi di un continuum lungo il quale tutte le persone trovano una loro collocazione e in cui, naturalmente, i bambini con DDAI occupano una posizione estrema 5; 4.3.4. Altri disturbi. Sintomi secondari ma non trascurabili sono i disturbi emotivi: il 25% dei casi con DDAI presenta anche una comobilità coi disturbi d’ansia. I bambini con disturbi d’ansia possono infatti manifestare problemi di concentrazione, impulsività e irrequietezza, proprio come quelli con DDAI, nonostante ciò essi, a differenza dei secondi, “sono indebitamente preoccupati riguardo il loro futuro” . Secondo le statistiche i problemi d’ansia si presentano in misura doppia nelle femmine rispetto ai maschi . Un altro 25% di bambini con DDAI riceve una seconda diagnosi di Disturbo dell’Umore. Dal punto di vista clinico non risulta facile discriminare una DDAI da un disturbo dell’umore, in quanto i genitori riferiscono per entrambe le problematiche: difficoltà di concentrazione e iperattività. In realtà, spesso i bambini che vivono un disagio emotivo manifestano il loro malessere attraverso una serie di comportamenti tra cui agitazione e disattenzione. Pertanto è necessario che il clinico conduca un’intervista clinica strutturata ai genitori per indagare la presenza di altri sintomi che non rientrano nel quadro del DDAI, come ad esempio la presenza di interesse in attività prima considerate piacevoli, irregolarità di alimentazione o di sonno, e la presenza di affermazioni negative su stesso e sulle situazioni in generale. 4.3.5. ADHD e scuola Nella scuola dell’infanzia il bambino a differenza degli altri, che dopo alcuni mesi di scuola iniziano il loro processo di “scolarizzazione” tende a mantenere i comportamenti manifestati all’inizio. Nella scuola primaria invece il bambino presenta caratteristiche comportamentali differenti rispetto ai compagni, infatti la scuola primaria differentemente dalla scuola dell’infanzia richiede impegno, responsabilità, competenze ed autonomie ben più complesse, è in questa fascia d’età che il bambino inizia a presentare diversi problemi di relazione e comunicazione con i coetanei e possono iniziare anche processi di esclusione ed emarginazione. Durante le attività proposte può manifestare disinteresse, opposizione ed isolamenti mentre troverà molta difficoltà nello svolgere i compiti per casa. I bambini con DDAI, pur avendo le stesse abilità intellettive. hanno prestazioni scolastiche inferiori ai loro coetanei e sono da 7 a 9 volte maggiormente a rischio di manifestare

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anche un disturbo di apprendimento. Sebbene la natura di questa relazione non sia stata ancora ben definita, l’alta comorbidità può essere il risultato di diversi meccanismi:

1. I comportamenti tipici del DDAI determinano un secondario disturbo di apprendimento: in questo caso le difficoltà di attenzione e l’impulsività interferiscono con l’acquisizione delle competenze scolastiche. In questo il Disturbo di Apprendimento Scolastico (DAS) è un artefatto rilevabile negli ultimi anni della scuola elementare, quando il bambino con DDAI ha prestazioni inferiori ai compagni, ma possiede i prerequisiti neurocognitivi per l’apprendimento della lettura e della scrittura.

2. Il DAS determina l’insorgenza di tratti tipici del DDAI (disattenzione, frettolosità e irrequietezza). Questo potrebbe accadere perché un bambino con DAS colleziona una serie di fallimenti scolastici che lo inducono a perdere ogni interesse nella scuola. Da ciò si possono sviluppare dei comportamenti di esitamento che prendono forme simili ai sintomi del DDAI.

3. La terza possibilità si può verificare quando entrambi i disturbi sono presenti già a 6 anni, non appena il bambino viene inserito nella scuola elementare. In questo caso i due disturbi sono compresenti perché esistono delle compromissioni neurocognitive che determinano l’insorgenza sia del DDAI che del DAS.

I bambini con DDAI presentino una serie di difficoltà scolastiche a causa di un’incapacità nell’uso delle proprie risorse cognitive. In particolare: memoria di lavoro,strategie di apprendimento e inibizione delle informazioni irrilevanti . Questo profilo cognitivo determina conseguenze negative per:la comprensione di testi scritti,lo studio e la soluzione di problemi aritmetici. I protocolli terapeutici che vengono programmati e realizzati per il trattamento dell’ADHD mirano a:ridurre la gravità dei sintomi e a favorire un buon inserimento del bambino nel suo ambiente di vita. L’obiettivo, infatti, consiste nello sviluppare un adeguato benessere nel bambino che dipende anche dalle relazioni con i genitori e con gli insegnanti. Di conseguenza, un trattamento che includa tutte le persone coinvolte nella vita del bambino con ADHD appare essere la risposta più efficace per contrastare le difficoltà innescate dal disturbo stesso. Una tipologia di trattamento che risponde a questa esigenza è quello combinato che comprende sia la terapia psicologica che quella farmacologica. Il coinvolgimento degli insegnanti è parte integrante ed essenziale di un percorso terapeutico per il trattamento del bambino con ADHD. La procedura di consulenza sistematica, prevede incontri regolari durante tutto l’anno scolastico, con una frequenza quindicinale per i primi tre mesi e mensile nel periodo successivo. A questi incontri sarebbe auspicabile la partecipazione dell’intero team di insegnanti per quanto riguarda le scuole elementari, e i docenti col maggior numero di ore settimanali, nel caso delle scuole medie inferiori. Essa deve avere diversi obiettivi: informare sulle caratteristiche del ADHD e sul trattamento che viene proposto e fornire strumenti di valutazione (questionari e tabelle di osservazione) per completare i dati diagnostici, migliorare la relazione con l’alunno e strutturare l’ambiente classe in base ai suoi bisogni e alle sue caratteristiche e spiegare come utilizzare specifiche procedure di modificazione del comportamento con l’ausilio di una serie di informazioni dettagliate sulle caratteristiche del disturbo. L’apprendimento di queste procedure richiede uno stretto contatto con lo psicologo o il pedagogista ed una frequente supervisione. E’ importante sottolineare che ogni terapia va adattata al bambino. Il clinico deve tenere in considerazione diversi fattori che determinano una certa scelta terapeutica, tra cui la comorbidità del bambino, la situazione familiare (in particolare il livello socio-economico e il vissuto dei genitori stessi), la collaborazione con la scuola e la possibilità per i genitori di recarsi frequentemente presso il servizio di riferimento.

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5. Il mutismo selettivo

5.1. Cos’è il mutismo selettivo?

Il Mutismo Selettivo è un disturbo dell'ansia infantile caratterizzato dall' "incapacità" del bambino di parlare in varie situazioni sociali, infatti non è causato da un ritardo mentale, handicap uditivo o altri disturbi organici. I bambini con Mutismo Selettivo non riescono letteralmente a parlare in determinati ambienti, molto spesso il bambino parla liberamente a casa mentre è muto a scuola e in altre situazioni. Non cercano di "attirare l'attenzione", non cercano di tenere una situazione "sotto controllo". Sono letteralmente così ansiosi che non riescono a parlare. L’ansia di bambini o adolescenti, o «reazione fobica a comunicare verbalmente», che è in gran parte al di là del loro controllo, è spesso male interpretata dagli adulti, che possono complicare il problema (Michel Jonas). Nella maggioranza dei casi il mutismo selettivo si riscontra nei bambini introversi, timidi, ipersensibili, che preferiscono la solitudine alla compagnia dei coetanei. Si tratta cioè di bambini per loro natura schivi e taciturni, per i quali smettere di parlare equivale a erigere una barriera protettiva nei confronti del mondo esterno. Il mutismo selettivo per sua precisa caratteristica è transitorio, cioè destinato a risolversi spontaneamente con il passare del tempo. E’ davvero raro che una volta scomparso si ripresenti a distanza di tempo. Resta il fatto che i bambini che lo hanno manifestato tendono a mantenere tratti caratteriali di riservatezza, timidezza o chiusura (anche se non patologica) verso il mondo esterno.

5.2. Cenni storici. Il Mutismo Selettivo fu identificato per la prima volta nel 1877 da Adolf Kussmaul, uno psicofisiologo tedesco, che lo descrisse come un disturbo per cui le persone non parlano pur avendone le capacità; egli lo definì “aphasia volontaria” con la convinzione che fosse causato da una volontaria decisione di non parlare. In seguito, il termine fu sostituito da quello di “mutismo elettivo”, coniato da Tramer (1934), che descriveva il comportamento di alcuni bambini capaci di parlare solo con una cerchia ristretta di persone, perlopiù appartenenti al nucleo familiare e sosteneva che fosse un disturbo tipico di alcuni bambini che sceglievano di non parlare, in quanto il mutismo si verificava specificamente in determinati contesti e con determinate persone, come se questi fossero stati in qualche modo eletti, dal paziente, con un atto di volontà. Entrambi i termini, quindi, evidenziavano e riflettevano l'attribuzione di una volontarietà e di una scelta attiva da parte del bambino della condizione mutacica. Nell'ICD-10 (OMS 1992; WHO 1992) e nel DSM-III-R (APA 1980) si parlava di "persistente rifiuto di parlare" in una o più situazioni sociali (quali la scuola), sottolineando di nuovo la scelta spontanea

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di questi bambini di non parlare. La definizione di "mutismo selettivo" nell'ultima versione del DSM-IV- TR (APA 2000) ha portato non solo ad un cambiamento dell'etichetta diagnostica, ma soprattutto ad una significativa ridefinizione eziologica di questo disturbo. Al concetto di "rifiuto" si è quindi sostituito quello di "incapacità", abbandonando l'idea primordiale che il sintomo abbia una valenza consapevole e determinata e ponendo l'attenzione sul comportamento di selezione che il bambino effettua rispetto ai differenti ambienti e agli interlocutori con cui parlare .Tale selezione si può presentare a diversi livelli di severità e quindi per alcuni la limitazione funziona solo in pochi ambienti, mentre per altri può giungere a quasi tutte le situazioni sociali esterne alla relazione con i genitori e in alcuni casi più gravi il bambino può ridursi a parlare solo con uno dei genitori (in genere la madre).

5.3. Sintomi

A casa parla come una macchinetta, ma a scuola o davanti ad altri adulti fa scena muta. Può sembrare timidezza o un atteggiamento molto riservato da parte del bambino, ma se la tendenza a non parlare fuori di casa è continuativa, si può trattare di mutismo selettivo, un disturbo ansioso dell’età infantile che denota una incapacità del bambino a parlare in alcune situazioni. I primi sintomi di mutismo selettivo si manifestano molto presto fra il primo e il terzo anno d’età. Inizialmente viene associato a un carattere molto chiuso e timido, ignorando il significato dei primi segnali. Il bambino che non parla è difficile da avvicinare, gli insegnanti e gli adulti hanno solo un accesso limitato allo sviluppo sociale ed intellettuale del bambino. A scuola il bambino è spesso considerato testardo, furbo o autoritario, e in alcuni casi gli insegnanti ritengono che sia proprio muto o ritardato, i compagni non lo coinvolgono nel gioco perché rimane isolato; pertanto il bambino si ritira sempre di più socialmente senza avere la possibilità di allenare le abilità sociali essenziali, nello sviluppo armonico della personalità e nella costruzione di una salda autostima.

5.4. Disturbi Correlati Le manifestazioni associate al Mutismo Selettivo possono includere: -ritardi e deficit di linguaggio -timore di imbarazzo sociale -isolamento sociale -tratti compulsivi -eccessi di collera, specie a casa. A scuola può esserci una grave compromissione del funzionamento sociale e scolastico ed è comune che questi bimbi siano presi in giro o usati come capro espiatorio dai coetanei. Occasionalmente può esservi: Disturbo della Comunicazione associato (per es. Disturbo della Fonazione, Disturbo dell'Espressione del Linguaggio o Disturbo Misto dell'Espressione e della Ricezione del Linguaggio) o una condizione medica generale che causa anomalie dell'articolazione. Disturbi d'Ansia (specie Fobia Sociale), Ritardo Mentale, ospedalizzazione o gravissimi fattori psicosociali stressanti possono essere associati al disturbo. I bambini con Mutismo Selettivo quasi sempre ricevono una diagnosi aggiuntiva di un Disturbo d'Ansia, in particolare di Fobia Sociale.

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Il Mutismo Selettivo è un disturbo complesso legato all'ansia: - L'ansia è uno stato di particolare attivazione dell'organismo, a livello psichico e fisico, di fronte a situazioni stressanti e/o preoccupanti. Diventa patologica quando non favorisce la soluzione del problema o è presente in modo eccessivo anche se non vi è un vero pericolo. Causa malessere e disagio. - Per ciò che riguarda i b/r con M.S. l'ansia è presente in modo eccessivo in particolari contesti sociali. I ragazzi con MS.. Sopra i 10 anni riferiscono -Palpitazioni cardiache -Senso di svenimento -Rossore -Tremori e sudore -Mal di testa Tutte manifestazioni neurofisiologiche comuni all’ansia ATTENZIONE!! “Inibizione comportamentale” Quando un bambino deve affrontare situazioni sociali nuove o insolite, può sperimentare cioè un’attivazione neurovegetativa molto intensa. Questa situazione innesca un processo emotivo-cognitivo che lo porta a sentire un intenso disagio. Reazione comportamentale = ritiro fisico e verbale. L’inibizione aiuta il bambino a difendersi dalle sue paure. Non parlare in specifiche situazioni non è un comportamento manipolatorio e controllante, dunque non è un disturbo oppositivo. “Congelamento” della produzione verbale come comportamento istintivo di reazione di fronte ad un pericolo percepito (Lesser e Katz, 1988).

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5.5. Fattori cognitivi e affettivi •Vulnerabilità: il bambino nelle situazioni sociali esterne alla famiglia vive un’attivazione costante di disagio, sentendosi minacciato. •Inadeguatezza: il bambino si vive come incompetente. •Paura del giudizio altrui •Vergogna e metavergogna: timore di mostrare la propria vergogna. Più di frequente il blocco della parola è nei confronti degli estranei (per esempio, educatrici della scuola materna o insegnanti) ma può capitare che si manifesti con i genitori e non, per esempio, con i nonni o con i coetanei. In condizioni favorevoli, cioè evidentemente prive di componenti ansiogene, il bambino parla in modo del tutto normale, utilizzando un linguaggio fluido e appropriato.

5.6. La diagnosi Il Mutismo Selettivo (MS) compare nei bambini piccoli. Di solito i primi sintomi compaiono tra 1 e 3 anni di età. Essi sono la timidezza, il rifiuto di parlare in alcune situazioni, un comportamento riservato, etc. Sebbene il disturbo si instauri prima dei 5 anni di età, esso è riconosciuto in modo chiaro solo dopo questa età, quando il bambino inizia la scuola materna o la scuola elementare, situazioni in cui ci si aspetta che i bambini usino il linguaggio verbale. Prima della scuola, i genitori del bambino e le figure che lo circondano non notano di solito alcun problema significativo nel comportamento relativo al linguaggio, poiché il bambino parla normalmente in casa. I due più importanti manuali, l’americano DSM IV e l’europeo ICD 10, classificano entrambi il problema in modo simile, ma lo denominano in maniera leggermente diversa. Il termine attuale di mutismo selettivo si trova sul DSM IV, mentre precedentemente si usava il termine mutismo elettivo; quest’ultima denominazione è ancora presente nell’ ICD 10, ma è molto meno usata e nella letteratura scientifica si trova prevalentemente il termine di mutismo selettivo. Secondo il DSM-IV, i criteri diagnostici per individuare un bambino selettivamente muto sono i seguenti: 1. Il bambino non parla in determinati luoghi, come la scuola o altre situazioni sociali. 2. Il bambino parla normalmente nelle situazioni in cui si trova a suo agio, come nella propria casa (sebbene alcuni bambini possano essere muti in casa). 3. L'incapacità del bambino di parlare interferisce con la sua capacità di "funzionare" nel contesto scolastico e/o nelle situazioni sociali. 4. Il mutismo dura da almeno un mese. 5. Non sono presenti disturbi della comunicazione (come la balbuzie) e altri disturbi mentali (come autismo, schizofrenia, ritardo mentale).

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5.7. Che cosa è importante sapere?

1.Un bambino timido può parlare poco o con difficoltà in alcuni contesti, ma in genere questo comportamento non è “rigido”, nel senso che può manifestarsi a volte si, a volte no. Il bambino con MS in genere non parla MAI in certi contesti, come ad es. a scuola, oppure non parla se non con poche persone selezionate.

2.Il bambino timido può parlare se gli si rivolge una domanda direttamente, o se viene rinforzato quando lo fa. Il bambino con MS tende a chiudersi ancora di più se viene interrogato in modo diretto o se gli si chiede esplicitamente di rispondere a parole o se viene lodato per aver parlato.

3.A differenza dei bambini timidi, i bambini con MS in genere selezionano in modo “rigido” e costante le persone e i contesti in cui parlano e quelli in cui non parlano.

4.Il bambino con MS non parla non per sua volontà, ma per una difficoltà a gestire emozioni spiacevoli come ansia, frustrazione, tristezza, rabbia.

5.Il bambino avrebbe voglia di parlare, ma è letteralmente bloccato dalla paura di qualcosa che neanche lui sa spiegare e/o delle sue stesse emozioni.

6. Spingere il bambino a parlare non lo aiuta a superare la sua difficoltà anzi: lo fa sentire ulteriormente sotto pressione con il risultato che si chiuda ancora di più nel suo mutismo.

7. Il MS NON E’ UN COMPORTAMENTO OPPOSITIVO. Il bambino non sta sfidando nessuno, la sua è una reale difficoltà a parlare in quel contesto o con quella determinata persona.

- Trattamenti E’ difficile trovare un trattamento valido per tutti i bambini con MS. Ogni bambino è un caso a sé perché le cause del MS sono varie. Le diverse strategie di trattamento includono

logoterapia, terapie comportamentali, psicoanalitiche, psicoterapia familiare e una combinazione di questi approcci. Il trattamento, finalizzato a diminuire l'ansia, aumentare l'autostima e il senso di sicurezza nelle situazioni sociali, dovrebbe essere impostato su una combinazione di: Approccio comportamentale: per esempio, vengono usati rinforzi positivi (figurine, gettoni, punti...) per la verbalizzazione o per i tentativi

di verbalizzazione. Un'altra strategia è la desensibilizzazione: il bambino viene portato dal genitore dentro la scuola quando ancora ci sono poche persone, affinché si "eserciti a parlare", poi, quando il bambino parla normalmente, verrà fatta entrare dentro l'aula l'insegnante e, gradualmente, gli altri bambini.

- Play Therapy: terapisti qualificati usano l'arte della terapia basata sul gioco per far rilassare ed aprire il bambino.

- Terapia Comportamentale Cognitiva: terapisti qualificati in questa terapia aiutano il bambino a modificare il suo atteggiamento aiutandolo a ri-indirizzare le sue paure ansiose e preoccupazioni in pensieri positivi.

- Trattamento farmacologico: gli studi indicano chiaramente che il migliore approccio alla terapia è una combinazione di tecniche comportamentiste e trattamento farmacologico. La terapia farmacologica viene adottata per ottenere il "primo passo". L'obiettivo è che, diminuendo l'ansia tramite l'uso di farmaci, si possano poi attuare le tecniche comportamentali più facilmente e con successo.

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- Autostima: i genitori devono elogiare il bambino per le sue qualità positive. Se ad esempio il bambino sa disegnare o costruire bene, mostrare i suoi lavori, farli "spiegare" da lui ai parenti o agli amici più cari con cui si sente a suo agio.

- Socializzare frequentemente: incoraggiare il bambino alla socializzazione, senza costringerlo. E' consigliabile favorire gli incontri con i compagni di scuola, poiché l'obiettivo è quello di aiutare il bambino a sentirsi più a suo agio proprio con i compagni affinché si verifichi la verbalizzazione.

5.8 . Il Mutismo Selettivo a Scuola

La scuola è l'ambiente in cui il mutismo selettivo più si rivela e dove si riconosce. Il mutismo selettivo rientra tra i Bisogni Educativi Speciali. Gli insegnanti possono essere le prime persone che si accorgono della presenza di tale disturbo. Purtroppo il mutismo selettivo non è conosciuto dalla maggioranza degli insegnanti perché si verifica raramente. Spesso, di fronte ad un comportamento con rifiuto di parlare, gli insegnanti reagiscono punendo, trascurando o minacciando il bambino Riconosciuto il disturbo, a scuola l'insegnante dovrà cercare di proporre modalità comunicative all'intero gruppo classe, per evitare che il bambino che ne soffre si senta "diverso". Cosa fare a scuola:

1.Proporre modalità alternative di comunicazione. Proporre delle modalità comunicative alternative A TUTTA LA CLASSE, per evitare che il bambino si senta diverso. I bambini con MS non amano sentirsi al centro dell’attenzione, per cui proporre al bambino una strategia alternativa alla comunicazione verbale, mettendolo al centro dell’attenzione non lo aiuterebbe, ad es.:“Marco tu durante l’appello puoi anche solo alzare la mano”, lo aiuta poco, mentre invece dare una regola generale del tipo “Chi vuole rispondere può dire ‘ Presente’ oppure alzare la mano” è una strategia molto più “inclusiva”

2.Accoglierlo per quello che è. Cercare di “dimenticarsi” del fatto che lui non parla. Il

compito dell’insegnante non è quello di farlo parlare, rinunciaci, o sentirà la tua aspettativa su di sé. Lui/lei sa già parlare e a casa parla anche tanto! Il compito dell’insegnante è di farlo sentire accolto NONOSTANTE non parli, di dargli la possibilità di apprendere e di dimostrare di aver appreso NONOSTANTE NON POSSA FARLO ORALMENTE

3.Rinuncia all’idea di farlo parlare. Non forzare mai il bambino a parlare! Ricordarsi che i

bambini con MS sono molto molto molto sensibili alle aspettative, questo è il loro problema centrale. Sanno cogliere molto bene la “tensione emotiva” dell’altro, anche positiva, che si aspetta qualcosa da lui. Per cui se tu sei centrato sul fatto che lui non parla e tenti in qualche modo di farlo parlare, anche se non direttamente, lui se ne accorgerà e si chiuderà ancora di più. Rinuncia al desiderio di farlo parlare!

4.Ripetiti che lui va bene così. E’ difficile, lo so, ma importante ripetere a se stessi più e più volte “Non è mio compito farlo parlare, non è un problema il fatto che non parli, o comunque non sono io a doverlo risolvere qui. Lui va bene anche se non parla, lui ha il diritto di essere come è”. Se riuscirai a fare realmente tua questa convinzione, non hai idea di quanto bene starai facendo al piccolo senza parole.

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L'obiettivo principale dovrebbe essere quello di fare tutto il possibile per far sentire il bambino rilassato e a suo agio. L'insegnante dovrebbe lavorare con i genitori per aiutarli ad alleviare quanto più possibile l'ansia. Esistono vari metodi che gli insegnanti possono usare per aiutare il bambino MS a sentirsi più a suo agio dentro la classe: ●l'insegnante dovrebbe cercare di conoscere il bambino in modo assolutamente discreto e con disponibilità. ●Osservare i bambini nel loro territorio consentirà certamente un modo più facile per conoscersi. ●L’insegnante dovrebbe chiedere al genitore di portare il bambino il prima possibile, affinché non si senta "oppresso" quando nella classe è presente contemporaneamente un altro gruppo di bambini. Trovandosi solo con il genitore e il bambino, l'insegnante può cominciare a conversare con la madre e lasciare che il bambino si limiti ad osservare. L'insegnante può indirizzare la conversazione verso il bambino quando questi sembra più a suo agio.

Non esercitare pressioni affinché il ragazzo parli

Individuare modalità di valutazione alternative all’ orale

Dare consegne molto chiare e precise

Posizionare il ragazzo non al centro della classe Una volta che sia stato raggiunto un livello in cui il bambino si sente a suo agio, l'insegnante e il genitore (o genitori) dovrebbero studiare un "piano" comune per aiutare il bambino. Professionisti qualificati, come un medico e/o un terapista, competenti nel trattamento del Mutismo Selettivo, sono uno strumento indispensabile per aiutare a sviluppare un piano per il bambino. Non esiste una cura miracolosa che risolva il Mutismo Selettivo da un giorno all'altro. Tuttavia, la cooperazione tra un professionista di igiene mentale qualificato, i genitori e gli insegnanti, ed una terapia comportamentale concentrata nella scuola e in altri contesti sociali, permetteranno al bambino di emergere.

5.9. Testimonianze Maria,20 anni studentessa universitaria. «Soffrivo molto nel vedere i miei genitori insistere nel farmi parlare, soffrivo quando li sentivo parlare tristemente con i loro amici, quando dicevano che non sapevano perché mi comportavo così, quando cercavano di farmi parlare, ma inutilmente... Ricordo molto bene di aver iniziato a parlare con quelle persone che maggiormente mi trasmettevano un senso di affetto, tenerezza. Ho iniziato a parlare con uno zio con il quale non parlavo mai: lui mi ha sempre considerato normalmente, non ha mai detto come tutti gli altri zii "parla, parla, quando parlerai". No, quando parlava di me e dei miei cugini, mi trattava come gli altri ed era tutto così spontaneo. Una volta ci trovammo per caso a passeggiare insieme (può anche essere che fosse stato organizzato, ma l'importante è che in quel momento non sembrava così)...mi fece qualche domanda e risposi con tono di voce molto basso, ma lui non mi chiese di ripetere o di alzare la voce, andava bene così...wow! era proprio come desideravo! Le parole poi mi sono uscite così spontanee, ero felicissima, davvero!» «Con altre persone invece era diventata come una sfida: ogni volta che mi incontravano dicevano "voglio vedere quando mi parlerai, quando dirai una parola". Questo provocava in me un desiderio di sfida...il MS era come diventata una difesa, un alibi, un mondo nel quale mi sentivo protetta...e non parlare mai alle persone che ogni volta mi provocavano era come vincere la sfida...mi sentivo soddisfatta del fatto che non riuscissero mai a sentirmi...mi sentivo un po' antipatica...ma la trovavo come unica soluzione...iniziare a parlare davanti a quelle persone così prepotenti mi avrebbe fatto sentire ridicola, per questo sceglievo la soluzione del silenzio...sembrava stessero

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aspettando che parlassi come si aspetta che un pappagallo pronunci qualche parola...che cosa imbarazzante!» «Consiglierei davvero di non chiedere al bambino ms "dimmi una parola, dinne almeno una, parla, di' come ti chiami"...davvero, sono delle frasi che mi hanno chiuso tantissimo...queste persone non capiscono che i bambini con il mutismo selettivo non sanno neanche loro come è iniziato il tutto, quindi come si fa a chiedere "perché non parli" NON CHIEDETELO MAI! Ogni volta che mi veniva chiesto "perché non parli" ? ce l' hai la lingua ? " soffrivo dentro, perché il mio desiderio di parlare era davvero grande... I bambini selettivamente muti sono sensibili ed attenti, diventano molto sospettosi, più attenti, riflessivi...ed è facilissimo scoprire ed accorgersi quando una persona fa finta di parlare con loro solo per fargli dire qualche parola !!!» « Ora ho 20 anni, ho capito, pensando a tutto quello che ho passato, che il segreto di tutto sta nel trasmettere al bambino che se lui parlerà, non si troverà di fronte un parente o un amico che esulterà dalla gioia se lo sentirà parlare, che non dirà "finalmente ha parlato": è tutto qui il segreto...se si trova una persona con queste caratteristiche, davvero, il bambino inizierà a parlare e tutto poi verrà spontaneo, inizierà anche a trovare il coraggio di parlare con gli altri e man mano parlerà con tutti.» MIA FIGLIA E IL MUTISMO SELETTIVO Testimonianza di una madre di Daniela Conti Guardami negli occhi, su mamma guardami ti ho detto. Come mi vedi tu? Mi trovi piccola? No, non sono più piccola, io sto crescendo, guardami ti ho detto. A scuola mi chiedono perché le maestre mi trattano in modo diverso. Dicono che fanno le preferenze. Quindi – guardami bene e ascoltami, mamma – loro dicono che mi amano di più, che sono la loro protetta. E mi evitano un po’, per questo. Io le sento bene, lo so che sono messa da parte. Quello che mi fa ridere è che io penso che invece faccio pena. Che io sono una riga sotto, un gradino in basso, un po’ di meno. Non di più. Io sono quella che non parla, sono Muta Selettiva. Però mamma vedi, io salto, canto, rido, corro e disegno. Ho tutta la fantasia e scrivo le storie. Me ne invento tante. Allora vedi che so fare le cose? Tu, mamma, davvero pensi che sono brava lo stesso? Mia figlia ha 9 anni ed è Muta Selettiva: lei, fuori di casa, non riesce a parlare. Dice che le si bloccano le parole nella gola, che proprio non riesce a tirarle fuori, come se ci fosse un ostacolo, una grossa fragola che impedisce di uscire. Dice che si vergogna, che non sa nemmeno alzare lo sguardo, e allora rimane immobile, rigida e fissa. Gli occhi puntano i piedi. Il Mutismo Selettivo è un disturbo legato all’ansia, ed è quindi tutta una questione di paura che sale, sale come la febbre e la blocca. Questo le succede a scuola, o ogni volta che qualcuno le rivolge una domanda, quando ci si aspetta una risposta. A casa no, lei è un torrente in piena di parole, è vivacità e chiacchiere, ti sa spiegare per filo e per segno tutto quel che ha fatto, e anche quel che hanno detto gli altri. Osserva. Ha quella capacità propria di chi affina gli altri sensi, e non le scappa niente. Eppure in

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classe, le insegnanti dicono che è “assente”, “distratta”, che vive in un mondo a parte. Solo perché non risponde. E ha lo sguardo puntato in basso, o altrove. Le si immobilizza anche la faccia. Alla scuola dell’infanzia era “timida e introversa”, sempre in disparte. Poi, al primo anno di primaria è stata considerata “lenta e pigra, assente”. Le passerà, deve crescere, mi dicevano. Sono le nuove maestre, subentrate al secondo anno, a dare l’allarme: dopo quindici giorni mi convocano per un colloquio urgente e dicono che non hanno mai sentito la sua voce. Io mi sento in panico, e spiego che no, non è vero, lei a casa parla troppo! Accavalla le parole, da tante che ne dice! Mi dipingono un’altra bambina: in quel momento loro non credono a me e io non credo a loro, ma poi passano i giorni, chiedo a lei e lei mi racconta: “Io mutisco, mamma. Io mutisco perché… non lo so, perché ho paura. Ho paura della maestra, di tutti quelli che mi fermano per strada, paura di chi non conosco. Io non posso parlare, non è che non voglio, e lo so che non mi capisci, come fai a capirmi? Tu non hai paura delle persone. Io alle volte non so neanche di cosa ho paura, so solo che non ci riesco, e allora sto zitta. Qualche volta parlo, ma è così piano che gli altri non mi sentono. E più mi chiedono di alzare la voce, più io mi sento mutire. Io vorrei parlare, non lo faccio apposta, io ci provo e mi sforzo, e vorrei essere come tutti gli altri, ma non ci riesco. A scuola io non so cosa dire. Mi si svuota proprio la testa di parole, non lo so spiegare e quando i miei amici mi chiedono perché non parlo, io mi sento ancora peggio”. Sono passati tre anni da quel giorno, abbiamo fatto tanta strada ma non siamo arrivati alla fine del nostro percorso. E’ una via fatta di lente salite e ripide discese, scoppi di parole improvvisi che ci fanno tirare respiri di sollievo e altrettanto improvvisi, bruschi ritorni al silenzio. Cosa abbiamo fatto? Mille cose, piccoli accorgimenti che le hanno regalato parole. Sono state intuizioni, improvvisazioni azzeccate, abbiamo usato il cuore e il buon senso, ascoltato i consigli. Mi sono informata attraverso internet e ho conosciuto A.I.Mu.Se. l’Associazione Italiana Mutismo Selettivo, associazione di genitori che fornisce aiuto e supporto alle famiglie e ai bambini con, appunto, Mutismo Selettivo. Questo ha dato una svolta fondamentale alla nostra percezione del disturbo. L’abbiamo iscritta ad un’associazione ricreativa che mira all’inclusione tra bambini diversamente abili e bambini normodotati, il tutto gestito da una psicologa, dei volontari e delle maestre della scuola. La gioia, lo spirito di accettazione e rispetto delle differenze di ciascuno, considerate bagaglio prezioso, sono stati “sentiti” subito da mia figlia che, appena entrata, ha pronunciato le sue prime parole in libertà. Ho cercato di rafforzare il legame con la compagna del cuore, con cui si sente a proprio agio e ho allargato sempre più il “giro” di amichetti, scambiando inviti e spiegando ai genitori, così da non creare eccessive aspettative intorno a lei. Ho imparato a non sentirmi a disagio quando lei non parla, e non sforzarla. Non rispondo più al posto suo quando qualcuno scioccamente le domanda “ti hanno mangiato la lingua?”. Le ho posto piccole sfide quotidiane: “vuoi le figurine? Vai a comprarle nel negozio, io ti aspetto fuori”. In assoluta tranquillità, ho capito che se le abbasso l’ansia, non caricandola ulteriormente ma sdrammatizzando, lei ce la può fare. Ho minimizzato il mutismo, davanti a lei. L’ho portata al gattile comunale del paese che lei ama tanto, facendo circa 380 chilometri, per regalarle una micetta romagnola. Con lei, per esempio, parla tantissimo. Al mare l’ho guardata, appena arrivati, e le ho detto: “qua sei libera, non ti conosce nessuno, tra dieci giorni te ne vai, quindi recita, fai l’altra te, metti via la paura. Prova a conoscere le bambine! Dimenticati del mutismo”. E lei, incredibilmente, inaspettatamente l’ha fatto. E’ salita in piedi sul lettino in spiaggia e ha cercato la sua compagna ideale. Poi si è lanciata e le ha detto: “ciao, vuoi giocare con me?”

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E poi, ancora, ha scoperto la sua passione: il pattinaggio artistico su ghiaccio. Ha trovato la sua dimensione, quello che la fa stare bene, sentire fortissima, imbattibile, valida. “Io sono brava, lo vedi? E posso fare qualsiasi cosa. Se riesco a fare questo, posso anche parlare” sembra dire mentre sorride al suo allenatore. E’ stata seguita da una brava logopedista per un paio di anni e ora, indirizzata da AI.Mu.Se, mi sono affidata a una valida psicologa dell’età evolutiva con cui mia figlia ha immediatamente stabilito un contatto verbale e affettivo. La dottoressa sta riuscendo a creare una collaborazione con insegnanti e Dirigente Scolastica e sta aiutando a comprendere come indirizzare l’attività scolastica e migliorare l’approccio di mia figlia con la scuola e la classe. La difficoltà maggiore che incontriamo, a parte il marcato disagio di mia figlia in classe e il suo silenzio che viene interrotto da poche parole (a volte fiumi ma sono casi eccezionali), sono i problemi di valutazione orale collegati al suo silenzio. In questi anni in cui mi sono avvicinata al Mutismo Selettivo, ho avvicinato molte persone, raccolto tante testimonianze, curato un libro e imparato molte cose. La prima è che sembra essere un disturbo raro ed invece non lo è: i bambini muti continuano ad aumentare, forse perché i ritmi della società in cui viviamo e della scuola sono incalzanti, troppo perché i nostri figli riescano ad adeguarsi, o forse semplicemente perché, iniziando ad essere riconosciuto, il Mutismo Selettivo non è più confuso con altri disturbi. Che è fondamentale il coinvolgimento e la collaborazione tra scuola, professionisti e famiglia per aiutare questi bambini a vincere la propria ansia. Questo, purtroppo, ad oggi non è sempre possibile o semplice da attuarsi. In molti casi mancano le informazioni, la volontà di ascolto e degli strumenti compensativi certi, che siano universalmente accettati o accettabili. Una valutazione scolastica che sappia andare oltre l’espressione orale. Spesso le famiglie si sentono sole, in lotta per far ascoltare e comprendere il proprio disagio. In questo, oltre che nell’informare correttamente, diventa essenziale il ruolo di A.I.Mu.Se. Spesso perfino gli specialisti non sono adeguatamente preparati sull’argomento, e anche in questo caso l’associazione ricopre un ruolo importante, cercando di offrire occasioni di informazione e formazione costante e capillare, rivolta a medici, professionisti e scuole. Ho soprattutto imparato, in questi anni faticosi, a combattere e lottare insieme a mia figlia, a gioire per le sue conquiste e a fidarmi di lei: so che ce la farà. Anzi, ce l’ha già fatta. “LA SFIDA DI RICCARDO”: UN LIBRO PER SPIEGARE IL MUTISMO SELETTIVO AI BAMBINI Un libro non può fare miracoli, un libro non può risolvere tutte le difficoltà e le problematiche infantili ma … può essere molto utile. La sfida di Riccardo è un libro “utile”, sia per i bambini che leggono la storia illustrata, sia per i genitori, gli insegnanti, i terapeuti e tutti quelli che si pongono domande sul mutismo selettivo. Nella prima parte del libro Riccardo racconta la sua storia, vera, per far comprendere a tutti i bambini che soffrono di questo disturbo che non sono soli, e soprattutto che la sfida con il silenzio, e “questo malessere, questa sensazione di vuoto che era più forte di me”, possono essere vinti, come ci spiega perfettamente il nostro piccolo eroe. Nella seconda parte del libro l’autrice Valérie Marschall fornisce

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consigli, spunti e un’idea generale di quello che insegnanti e genitori possono mettere in pratica per aiutare i bambini. Riccardo è un bambino che racconta la sua storia a tutti i bambini che come lui soffrono di mutismo selettivo; una storia a lieto fine perché Riccardo vince la sua sfida con il suo mutismo, la vince e lo urla gioiosamente: se ce l’ha fatta lui, ce la possono fare tutti. Riccardo racconta la sua storia anche ai grandi, a quelli che scambiano il suo mutismo per opposizione, a quelli che credono che sia solo un timido, a quelli che lo giudicano maleducato, a quelli che pensano che abbia genitori incapaci che lo viziano.

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6. Sindrome di Down. Il pregiudizio, un vetro smerigliato; mi chiami down, trisomico financo mongoloide, e t’avvicini come fosse carità, accondiscendente, mortificante, senza veder ciò che è negli occhi miei. Tu che arrossisci vergognoso Per un capello fuori posto, ma ti sei chiesto com’è vivere una vita fuori posto? In un modo Che tutto ciò ignora, perdona, il ritardato non credo essere io.

Paolo Ursaia La sindrome di Down costituisce la più frequente alterazione genetica associata ad un ritardo mentale. Fu identificata per la prima volta nel 1866 da John Langdon Down, un medico inglese il quale pubblicò uno studio sulle caratteristiche di una categoria di persone con grave ritardo mentale, i cosiddetti bambini “mongoloidi”, così chiamati per via della somiglianza somatica che questi condividevano con gli abitanti della Mongolia. Nel 1876 apparve su un libro la prima descrizione clinica di un paziente con questa sindrome e fu di stimolo per medici e antropologi. La conoscenza sul “mongolismo” seguì un’accelerazione e furono effettuate numerose ricerche riguardanti diversi aspetti: caratteri somatici, sviluppo mentale, incidenza statistica e così via. Un primo passo importante fu compiuto da Shuttleworth che nel 1909 svolse un’indagine su 350 casi notando una relazione con l’età avanzata della madre e con il fatto che i bambini Down erano gli ultimi nati di famiglia numerosa, ma non riuscì a individuare quale dei due fattori fosse rilevante: età materna o deterioramento fisico causato dai parti precedenti. Solo nel 1959 grazie a Jérome Lejeune, pediatra e genetista francese si fece un passo decisivo nella storia della sindrome di Down. Egli scoprì che la sindrome di Down era causata dalla presenza di un cromosoma 21 in più (o parte di esso); da qui la definizione di trisomia 21 come sinonimo della sindrome stessa. Nel 1961 diciannove genetisti scrissero al direttore della rivista “The Lancet”, affermando che il termine "mongoloide" avesse "connotazioni fuorvianti", che fosse diventato "una locuzione imbarazzante" e dovesse essere cambiato, sostituendolo con il termine “sindrome di down”.

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6.1. Che cos’è?

La sindrome di Down è una condizione genetica caratterizzata dalla presenza di un cromosoma 21 in più. Naturalmente, nell’ Uomo sono presenti 46 cromosomi in ogni cellula, 23 di origine materna e 23 di origine paterna. Ogni persona possiede quindi, in ogni cellula, due copie di ogni cromosoma. Nelle persone affette da DS il cromosoma numero 21 è presente invece in triplice copia. Condizione genetica non vuol dire ereditaria, infatti nel 98% dei casi la sindrome di Down non è ereditaria. Esistono tre tipi di anomalie cromosomiche nella sindrome di Down:

- Trisomia 21 libera completa (95% dei casi): in tutte le cellule dell’organismo vi sono tre cromosomi 21 invece di due. Questo tipo di anomalia è la più frequente.

- Trisomia 21 libera in mosaicismo (2% dei casi): nell’organismo della persona sono presenti sia cellule normali con 46 cromosomi sia cellule con 47 cromosomi.

- Trisomia 21 da traslocazione (3% dei casi): il cromosoma 21 in più (o meglio una parte di esso, almeno il segmento terminale) è il numero 14, 21, o 22. Solo quest’ultimo tipo di Trisomia può essere ereditaria.

A tutt’oggi non è ancora stato possibile riconoscere con precisione a cosa siano dovute le alterazioni cromosomiche che portano alla sindrome di Down. L’esposizione dei genitori, in particolar modo della madre, a diversi fattori di rischio chimico-fisico (quali residenza in zone prossime a discariche, l’esposizione a radiazioni ionizzanti, al fumo di tabacco e all’uso di contraccettivi orale), non si sono rivelate significative. Si ritiene che l’insorgenza delle anomalie cromosomiche sia un fenomeno “naturale”, in qualche modo legato alla fisiologia della riproduzione umana. Il principale fattore di rischio risulta essere l’età materna al momento del concepimento. Tuttavia anche se la possibilità cresce con l’avanzare dell’età materna, questo non esclude che nascano bambini con sindrome di Down anche da donne giovani. L’altro fattore di rischio dimostrato consiste nell’aver avuto un precedente figlio con la sindrome di Down in caso di mosaicismo o traslocazione.

6.2. La diagnosi prenatale La sindrome di Down può essere diagnosticata prima della nascita grazie ad un insieme di indagini strumentali e di laboratorio. Le più comuni sono:

- BITEST: si esegue su un prelievo effettuato fra l’11° e la 13° settimana di gestazione e prevede il dosaggio nel sangue di due proteine: Free-β-hCG (frazione libera della gonadotropina corionica) e PAPP-A (proteina A plasmatica associata alla gravidanza). Tali valori vengono confrontati con dei valori di riferimento, insieme ad altri parametri, come l’età materna, e rivelano il 65% dei feti affetti da sindrome di Down, con un 5% di falsi positivi.

- TRASLUCENZA NUCALE (TN): consiste in un esame ecografico che si esegue fra l’11° e la 13° settimana di gravidanza, durante il quale si effettua la misurazione dello spessore di uno spazio liquido che si trova in corrispondenza della nuca fetale. La TN di per sé consente di individuare circa il 75% dei casi di sindrome di Down con un 5% di falsi positivi.

- ULTRASCREEN: esso combina, tramite un apposito software, i dati derivanti dal bitest e dalla TN, fornendo un valore di rischio più accurato in grado di identificare il 90% dei feti affetti (con 5% di falsi positivi).

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- TRITEST (o triplo test): consiste in un prelievo di sangue effettuato fra la 15° e la 17° settimana di gestazione. In questo caso si effettua il dosaggio di tre proteine nel sangue materno: l’alfafetoproteina, la gonadotropina corionica e l’estriolo non coniugato. Le concentrazioni rilevate vengono analizzate al computer con un apposito programma che valuta età materna, peso della madre, l’esatta settimana di gestazione (che dovrebbe essere ricavata ecograficamente in prossimità dell’esame), eventuali patologie materne.

Queste indagini sono esami di tipo probabilistico. Non vengono valutati in modo quantitativo, ma sulla base di un “valore soglia” al di sopra del quale il test è considerato positivo e si consigliano analisi più approfondite e il ricorso alle tecniche che permettono di esaminare direttamente il patrimonio genetico del feto. Tra queste ultime:

- VILLOCENTESI: consiste nel prelievo dei villi coriali, una porzione della placenta di origine fetale. Il prelievo si effettua dalla 10° alla 13° settimana di gestazione, tramite l’inserimento di un ago nell’addome della donna, sotto controllo ecografico, o per via transcervicale, tramite l’inserimento di un catetere che, dalla cervice uterina, raggiunge la placenta.

- AMNIOCENTESI: consiste nel prelievo di 15-30 ml del liquido in cui è immerso il feto (liquido amniotico) tramite l’introduzione di un ago apposito (lungo circa 10 cm) nell’addome materno, sotto controllo ecografico per verificare l’esatta posizione dell’ago in ogni momento e per evitare di danneggiare il feto.

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Il liquido amniotico viene inviato al laboratorio per l’analisi. Le cellule vengono fatte crescere su un apposito terreno di coltura, questo richiede un certo tempo (generalmente intorno a 2 settimane). Si evidenzia la presenza di anomalie del cariotipo, quali la sindrome di Down, e la presenza di riarrangiamenti cromosomici visibili al microscopio.

- CORDONOCENTESI: consiste nel prelievo di sangue fetale, che viene eseguito dopo la 18° settimana di gestazione. Si esegue introducendo un ago attraverso la parete addominale materna.

La cordonocentesi ha il vantaggio di dare una determinazione rapida del cariotipo fetale (la risposta si ottiene in circa 48 ore).

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6.3. Caratteristiche fisionomiche La sindrome di Down è generalmente identificata alla nascita dalla presenza di alcuni tratti fisici:

● Viso rotondo con sella nasale larga e appiattita ● Occhi con taglio delle palpebre di tipo orientale ● Piega cutanea all’angolo interno degli occhi (epicanto) ● Orecchie piccole ● Collo tozzo con plica nucale abbondante e lassa ● Mignoli inclinati verso l’interno della mano ● Solco palmare unico in entrambe le mani ● Marcata ipotonia muscolare ● Articolazioni molto flessibili per l’eccessiva lassità dei legamenti

Poiché queste caratteristiche possono essere presenti anche in bambini senza sindrome di Down, viene effettuata un'analisi cromosomica chiamata cariotipo per confermare o smentire diagnosi. L’indagine, indicata anche con il termine di analisi citogenetica, è la sola che autorizza la diagnosi di Trisomia 21. Essa consiste nell’analizzare e fotografare al microscopio, con particolari tecniche, i cromosomi di alcune cellule del sangue, in genere linfociti, prelevate dal bambino e bloccate in mitosi, e rende possibile il riscontro di una trisomia primaria o da traslocazione. Questa indagine deve essere eseguita subito alla nascita se si avanza il sospetto di Trisomia 21 su base clinica, al fine di avere una certezza diagnostica incontrovertibile.

6.4. Apprendimento e inserimento sociale La caratteristica della sindrome di Down si identifica, oltre che per gli aspetti cromosomici, fondamentalmente per un ritardo presente nelle principali funzioni, sia nella fase di sviluppo del bambino, che nell’età adulta. Questo ritardo è in parte recuperabile con un intervento riabilitativo precoce, sistematico, con particolare riferimento alle aree linguistiche, motorie e neuropsicologiche. E’ utile poter fornire a questi bambini prima, ed alle persone giovani ed adulte dopo, tutta una serie di servizi che permettano loro di acquisire e mantenere le competenze per integrarsi nel miglior modo possibile. La maggior parte delle persone con sindrome di Down può raggiungere un buon livello di autonomia personale, sociale e relazionale, riuscendo a svolgere la maggior parte delle attività che i loro coetanei riescono a fare anche se, generalmente, con un po’ di ritardo. Possono fare sport e frequentare gli amici, andare a scuola con tutti gli altri e possono imparare molto anche nel campo didattico. Per quanto riguarda quest’ ultimo punto all'interno del contesto scolastico si deve cercare di mettere il bambino a suo agio, ma contemporaneamente dobbiamo proporgli situazioni standard in modo che la sua prestazione possa essere paragonata a quella degli altri. Dobbiamo cercare il massimo adattamento al bambino: ciò che conta è che egli ragioni, capisca, impari. Chi propone le varie situazioni non deve essere "quasi di sfondo", ma interlocutore attivo (ed attivante). La consegna può essere adattata, ripetuta, modificata, esemplificata. La situazione può essere presentata e ripresentata; considerata prima in un modo e poi in modo diverso; commentata, spiegata. La seduta (usiamo questo termine per riferirci al singolo periodo di tempo in cui si lavora con i bambini) può essere realizzata sia in un rapporto uno ad uno che in piccolo gruppo. Se si privilegia il rapporto uno ad uno fuori della classe, si ritiene che esso non debba mai superare le due o tre

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ore alla settimana, per evitare il rischio di vissuti di emarginazione. Se si lavora con piccoli gruppi è naturalmente opportuna una certa competenza nella gestione dei gruppi stessi. Ogni seduta deve iniziare con un prolungato, esaustivo contatto esperienziale con il materiale. Obiettivo cruciale è presentare quella che in quel momento è per il bambino la "sfida ottimale", cioè la situazione non facile, ma nemmeno troppo difficile. Potremmo dire con Vygotskij che si va a lavorare nell'area dello sviluppo potenziale. Ovviamente nelle prime sedute si proporranno varie situazioni fino a quando si individua quella ottimale. Particolare attenzione deve essere attribuita alla terminologia, in modo da evitare equivoci verbali. Si controlli ad esempio la denominazione delle immagini proposte e dei termini usati. Utile è chiedere "Che cosa ti ho dato?", "Come possiamo chiamare questo?". Se il bambino si dimostra passivo è opportuno aiutarlo motivandolo con domande relative a ciò che vede sulle immagini, commentandole insieme a lui e chiedendo se ha avuto occasione di vedere qualche cosa di simile. Oppure si può proporgli qualcosa di più semplice. In ogni caso non insistere mai se non è sufficientemente partecipativo. Dopo aver imparato ad utilizzare le autoconsegne a livello verbale il bambino tenderà a darsele a livello mentale. Non è bene accelerare questo processo. Anzi, al fine di rafforzare l'uso di queste consegne, può essere opportuno ogni tanto invitarlo ad esplicitare verbalmente il suo pensiero, chiedendo a lui che cosa sta pensando, quali sono i punti che gli sembrano difficili e invitandolo a pensare ad alta voce in modo che i suoi ragionamenti possano essere compresi anche dall'insegnante. Una volta risolti problemi fra loro simili è opportuno non solo cercare di evidenziare la regola che li accomuna, ma anche trovare una breve espressione verbale che sintetizzi, almeno in parte, la regola e che aiuti, in futuro, a condurre meglio il ragionamento. Ad esempio nel caso in cui si debbano attuare delle corrispondenze fra tre bambini di diversa altezza e tre pantaloni di diversa lunghezza, una volta che il bambino è riuscito ad attuare le corrispondenze corrette può essere opportuno fargli verbalizzare una frase del tipo "Se ..... allora". Egli pertanto accompagnerà, o meglio guiderà, il suo ragionamento dicendo: "se questo è il bambino più grande, allora ci metto i pantaloni più lunghi", "se questo è il bambino più piccolo, allora ci metto i pantaloni più corti", ecc. Il problema può essere risolto anche senza usare il "se ... allora" (ad esempio semplicemente dicendo "grande con grande, medio con medio e piccolo con piccolo"), ma è opportuno abituare il bambino ad utilizzare una struttura verbale che può essere utilizzata anche in altre situazioni e quindi utile per aiutare i processi di pensiero. E' utile valorizzare, se possibile, le situazioni conflittuali, impreviste, che sorprendono, in cui le "cose" vanno in modo diverso dal previsto, che aumentano nel bambino la curiosità intellettuale e favoriscono la presa di coscienza (metaconoscenza) di come avviene l'apprendimento e come funziona la mente. Al fine di incrementare la partecipazione da parte del soggetto è opportuno proporre ogni tanto lo scambio dei ruoli. Si chiede pertanto al bambino stesso di porre le domande e l'insegnante assume la parte dell'allievo. Questo permette, tra l'altro, di comprendere se ha veramente assimilato le nozioni in questione. La proposta dello scambio dei ruoli è attuabile solo quando il bambino sembra padroneggiare bene la situazione. Può viceversa risultare controproducente, fonte di disagio e senso di insufficienza, se egli è solo agli inizi del processo di apprendimento. Chiudere sempre la seduta con situazioni in cui il bambino fornisce risposte corrette. In molti casi questo viene ottenuto "scalando" da fasi complesse a fasi precedenti. Per esempio si può riproporre una situazione che era sembrata in un primo tempo difficile e che poi era stata risolta e sottolineare come il bambino era riuscito a risolverla.

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Per quanto riguarda l’inserimento sociale di questi ragazzi c’è da fare ancora tanto perché mancano strutture e cultura anche se si sta cercando di attuare programmi che li aiutino nel distacco dalla famiglia e a essere il più possibile autosufficienti, anche nell'eventualità che i genitori non ci possano essere. Un’associazione che è nata per favorire un corretto atteggiamento sociale nei confronti delle persone con sindrome di Down è la COORDOWN, la quale:

Svolge servizio d'informazione e consulenza;

Opera come Osservatorio e Centro Studi e Ricerca Permanente;

Divulga notizie sulla natura e sul trattamento della sindrome;

Favorisce una migliore politica socio-sanitaria, collaborando ai tavoli di concertazione;

Partecipa alla Formazione ed all'aggiornamento degli Operatori Sanitari e della Scuola che agiscono sul territorio;

Diffonde la conoscenza delle normative vigenti a favore delle persone con disabilità;

Svolge attività di sensibilizzazione dell'opinione pubblica;

Analizza i problemi relazionali, educativi e didattici all'interno della famiglia e delle istituzioni scolastiche e ne consiglia le possibili soluzioni;

Progetta e attua (su richiesta) corsi di formazione professionale per l'inserimento dei giovani con sindrome di Down nei mondo lavorativo;

In più la COORDOWN organizza corsi di formazione e seminari per i soci su temi quali:

il Benessere;

la Salute;

la (Ri)Abilitazione;

la Scuola;

la vita adulta;

l'Educazione affettivo-sessuale;

la legislazione sull'handicap;

la coppia/i germani;

l'inserimento lavorativo.

Organizza spettacoli, manifestazioni e Convegni che si tengono sul territorio Regionale per diffondere le conoscenze sulla sindrome;

Organizza corsi d'autonomia per i ragazzi (su richiesta). Attualmente, un numero sempre maggiore di adulti down vive in modo semi-indipendente all’interno di strutture residenziali e riesce:

a prendersi cura di sé

sbrigare le faccende domestiche

stringere amicizie

partecipare ad attività nel tempo libero

lavora nella comunità. I giovani e gli adulti con sindrome di Down possono apprendere un mestiere e impegnarsi in un lavoro svolgendolo in modo competente e produttivo. Ci sono lavoratori con sindrome di Down in molte professioni semplici ed anche di una certa complessità. Affinché riescano ad inserirsi nel mondo del lavoro è importante avere fiducia nelle loro capacità. Per il loro inserimento nel campo lavorativo è nato il SIL AIPD.

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Il Servizio di Inserimento Lavorativo dell’AIPD – Sezione di Roma è stato attivato per dare una risposta concreta a molte persone adulte con sindrome di Down che non hanno ancora un adeguato supporto dalle istituzioni e dai servizi del territorio. La finalità del SIL AIPD è la creazione di un servizio che, attraverso la raccolta e la conoscenza dei dati, del processo formativo di ogni singola persona con sindrome di Down in età lavorativa o che stia ultimando il proprio percorso scolastico/formativo, riesca a stabilire un rapporto efficace con il mondo del lavoro, creando possibilità concrete di inserimento lavorativo mirato. Tale Servizio si prefigge di accompagnare le persone con sindrome di Down seguendole durante la ricerca del posto di lavoro, il periodo di assunzione e durante il ciclo lavorativo. Gli adulti down sono in grado di lavorare, sia seguendo un programma lavorativo speciale, sia facendo un lavoro “normale”. L'art. 3 della Legge 68/1999 prevede che i datori di lavoro pubblici e privati che occupano almeno 15 dipendenti, sono tenuti ad avere alle loro dipendenze i lavoratori con disabilità, indicati all'art. 1 della legge 68/99, nella seguente misura: a) 7% dei lavoratori dipendenti, se occupano più di 50 dipendenti; b) 2 lavoratori, se occupano da 36 a 50 dipendenti; c) 1 lavoratore, se occupano da 15 a 35 dipendenti. Per i datori di lavoro privati che occupano da 15 a 35 dipendenti, l'obbligo di avere alle proprie dipendenze personale con disabilità insorge solo in caso di nuove assunzioni (legge 68/99 - art. 3, comma 2). I datori di lavoro privati che, al 18 Gennaio 2000 (data di entrata in vigore della Legge 68/1999), occupavano da 15 a 35 dipendenti e che effettuino una nuova assunzione, aggiuntiva rispetto al numero dei dipendenti in servizio, sono tenuti:

ad assumere un lavoratore con disabilità entro i dodici mesi successivi a partire dalla data della nuova assunzione aggiuntiva;

ad adempiere contestualmente all'obbligo di assunzione del lavoratore con disabilità se, entro il termine di dodici mesi, questi datori di lavoro procedono ad una seconda nuova assunzione.

I datori di lavoro pubblici e privati che operano nel settore del trasporto pubblico aereo, marittimo e terrestre non sono tenuti ad effettuare le assunzioni obbligatorie, per quanto concerne il personale viaggiante. Sono inoltre esentati coloro che operano nel settore degli impianti a fune, in relazione al personale direttamente adibito alle aree operative di esercizio e regolarità del trasporto (legge n. 68/99 - art. 5, comma 2).

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7. L’autismo 7.1. Cenni storici Risale al 1800 il ritrovamento e la cattura definitiva nei boschi dell’Aveyron in Francia, di un fanciullo di circa dodici anni, noto come Victor. Il comportamento di questo bambino era molto fuori del normale: non parlava; non rispondeva alle domande; non reagiva ai rumori emessi intorno a lui; non portava vestiti e aveva il corpo pieno di cicatrici. Aspetto e comportamento risultavano completamente asociali. L’abate Pierre-Joseph Bonaterre scrisse un articolo scientifico su questo caso in cui si trovano prove a favore di disturbi specifici dell’autismo (Frith, 1989): “I suoi affetti sono limitati quanto le sue conoscenze…; non ha un suo giudizio, non ha immaginazione, non ha memoria. Non fissa la sua attenzione su nulla”; “Le sue vocalizzazioni sono discordanti, disarticolate e possono essere udite di giorno e di notte. Le grida più acute o i suoni più armoniosi non fanno alcuna impressione al suo orecchio, non mostra alcuna consapevolezza dei rumori vicini”; “cammina sempre al trotto o al galoppo; le sue azioni sono prive di scopo e determinazione”; “Victor è indifferente a tutti i divertimenti dei bambini, non gioca quasi mai. Gli piace passarsi tra i denti dei fili di paglia e succhiarli: questo è il suo divertimento preferito”; “si dondola avanti e indietro e ogni tanto si stende quando non ha fagioli da sgusciare”. Nel 1801 il dottor J.M.G Itard, convinto che gli handicap di questo fanciullo nascessero dal fatto di essere vissuto fin da piccolo isolato da ogni contatto umano, si assunse il compito di educarlo nella propria casa. Itard dimostrò che l’istruzione poteva portare a dei miglioramenti sensazionali nella qualità della vita di Victor. Sebbene rimasto muto, il ragazzo ottenne molti successi come l’aver imparato una lingua dei segni, ma non apprese il significato di alcuni valori sociali fondamentali. Dopo 5 anni Itard scrisse che l’educazione di Victor era incompleta e che sarebbe rimasta tale. Probabilmente Victor era autistico. Si possono, infatti, riscontrare molte prove a favore dell’autismo: disturbo delle interazioni sociali, disturbo intellettivo specifico, disturbo dell’attenzione sensoriale, mancanza di gioco con i bambini e gioco di finzione, stereotipie. Naturalmente non è possibile dare delle risposte definitive per un caso di due secoli fa e non si può nemmeno assumere che tutti i ragazzi selvaggi fossero autistici. La parola "autismo" deriva dal greco αὐτός ([aw'tos] che significa se stesso. I soggetti che presentano un Disturbo Autistico sono caratterizzati dalla presenza contemporanea di quella che viene definita come la triade del comportamento autistico; uno sviluppo notevolmente anomalo o deficitario dell’interazione sociale e della comunicazione e una marcata ristrettezza del repertorio di attività e di interessi. Il primo uomo al mondo al quale fu diagnosticato l’autismo ha 81 anni, è un golfista americano, residente a Forest in Mississipi. Donal Gray Triplett, nato nel settembre del 1933, primogenito di una potentissima famiglia di finanzieri, fin da piccolo aveva manifestato non poche difficoltà nell’interazione sociale. Silenzioso e scontroso con tutti, si fissava su certi oggetti e aveva una capacità di memorizzazione fuori dal comune. Stranezze e curiosità che spinsero i suoi genitori, incapaci di gestirlo da soli, ad affidarlo nel 1937 alle cure di un istituto, con pessimi risultati testimoniati dal peggioramento delle sue condizioni. Per tal ragione, la madre e il padre furono costretti, dopo un anno, a riportarlo a casa. Fu proprio in questo periodo -ottobre 1938- che Donald venne esaminato dallo psichiatra infantile Leo Kanner, presso il Johns Hopkins Hospital di Baltimora. Kanner fu letteralmente stupefatto dai sintomi del ragazzo, e anche se aveva notato alcune somiglianze con la schizofrenia, non era stato in grado di giungere a una diagnosi precisa. Ma non si arrese. Lo visitò più volte, fino a quando nel 1943 si rese conto di trovarsi di fronte a un soggetto affetto da una patologia fino ad allora

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sconosciuta alla scienza. Un’illuminazione che l’ostinato dottore descrisse con dovizia di particolari in un lungo articolo dal titolo “Disturbi autistici del comportamento affettivo”, pubblicato sulla rivista “Nervous child”. Con tale articolo lo studioso fece conoscere al mondo intero l’esistenza della cosiddetta Sindrome di Kanner, oggi meglio nota come autismo. I casi di Kanner presentavano, nei primi anni di vita, disturbi che erano caratterizzati da:

"an extreme autistica aloneness", nel senso di un rimanere mentalmente soli;

"an anxious obsessive desire for the preservation of sameness", osservata nella ripetizione di semplici movimenti o espressioni e pensieri; in elaborate routine; in una estrema limitatezza di interessi;

la presenza di "islets of hability" (isolotti di capacità), quali una memoria meccanica eccellente, la capacità di ricordare strutture e sequenze complesse, un vocabolario stupefacente, fuorchè per l'uso dei pronomi. Lo stesso Donald, come riferisce l’autore: "Era stato incoraggiato dalla famiglia a imparare e recitare poesie corte, e aveva imparato anche i Ventitré Salmi e le venticinque domande e risposte del Catechismo Presbiteriano ...". Kanner, diversamente da Bleuler, psichiatra svizzero, che per la prima volta, nel 1908, aveva utilizzato il termine “autismo” per riferirsi ad una particolare forma di ritiro dal mondo, causata dalla schizofrenia, credeva che “… quei bambini fossero giunti nel mondo con un’innata incapacità di formare il tipico contatto affettivo, biologicamente determinato, con le persone, proprio come altri bambini presentano innati handicap fisici o intellettuali". Quasi contemporaneamente a Kanner, ma indipendentemente da lui, Hans Asperger, nel 1944, utilizzò il termine “autistichen psychopathen” per definire un disturbo che interessava una determinata popolazione infantile con sintomatologia in gran parte simile a quella descritta da Kanner per i suoi soggetti, ma con capacità cognitive nettamente superiori. L’autore, come Kanner, sottolineò le difficoltà nell'adattamento sociale dei suoi pazienti e osservò i loro interessi isolati. Entrambi diedero particolare attenzione alle stereotipie motorie o linguistiche di questi bambini, così come alla marcata resistenza al cambiamento, ma Asperger individuò tre importanti aree nelle quali i suoi soggetti differivano da quelli di Kanner: 1. Linguaggio: i soggetti di Asperger avevano un eloquio scorrevole. Nei soggetti di Kanner, invece, non si aveva linguaggio o esso non era usato in maniera "comunicativa"; 2. Motricità: nell’ opinione di Kanner, i bambini risultavano "impacciati" solo rispetto a compiti di motricità complessa; secondo Asperger essi lo erano in entrambi, motricità complessa e fine; 3. Capacità di apprendere: Kanner pensava che i bambini mostrassero prestazioni più elevate quando apprendevano in maniera meccanica, quasi automatica; Asperger li descriveva invece come "pensatori astratti". Negli anni successivi alle descrizioni fornite da Kanner e Asperger, altri studiosi si occuparono di autismo. Tra questi, Bruno Bettelheim, il quale sopravvissuto ai campi nazisti, assimilò l’isolamento autistico a quello spirituale, che potè osservare nelle vittime dell’olocausto. Così come, nel caso dei soggetti traumatizzati, era un trauma a spiegare l’insorgenza della patologia, nel caso dei bambini autistici era la realtà interna a creare i traumi. Bettelheim riteneva che la causa principale del disturbo autistico era legata ad un'anomalia presente nel rapporto tra la madre e il bambino. Lo studioso diede enorme importanza soprattutto alla fase di allattamento, e ritenne che qualsiasi evento che poteva interferire o alterare questo rapporto, poteva causare rabbia e tensione interna al bambino, e quindi essere individuato come colpevole dell’insorgere dell’autismo. Fu proprio lui a coniare il termine di ‘madri frigorifero’, di cui si servì per indicare quelle madri

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distanti e appunto fredde, che con il loro atteggiamento costringevano il figlio a fuggire dal mondo circostante e ad erigere una ‘fortezza difensiva’. Bettelheim concluse che l’autismo fosse causato dall’assenza di momenti vitali primitivi esperiti dal bambino, di comunicazione con la madre nei primi momenti dopo la nascita, elementi che, secondo l’ottica psicoanalista, stanno alla base del processo di integrazione dell’io nell’evoluzione psichica del bambino. Molti sono stati nel tempo gli autori impegnati a confutare l’ipotesi di Bettelheim, con pieno successo. Anna Freud, figlia di Sigmund Freud, condusse una ricerca su bambini sopravvissuti ai campi di concentramento e dai suoi scritti non è riscontrabile nessuna correlazione tra autismo e bambini sopravvissuti all’olocausto. In un suo articolo del 1951, spiegò e dimostrò che neanche condizioni estreme di privazione di affetto, come potevano essere quelle sperimentate dai bambini nei campi di concentramento, potevano essere imputabili di causare la patologia autistica. Con il tempo e le ricerche, questo concetto, pur restando alla base del modello psico-dinamico, subì delle modifiche, in relazione ai sempre crescenti indizi che sembravano implicare un substrato di tipo biologico nella sindrome. Negli ultimi 20 anni, le ricerche condotte hanno apportato prove consistenti riguardo all’ipotesi che il disturbo autistico sia legato a un funzionamento mentale atipico; una disfunzione, ancora mal definita in termini neurobiologici e/o neuropsicologici, ma comunque legata all’equipaggiamento morfo-funzionale del sistema nervoso centrale. Le spiegazioni di tipo psicodinamico, invece, non hanno ricevuto sostegno a livello sperimentale.

7.2. Cause e fattori di rischio Attualmente risultano ancora sconosciute le cause di tale disturbo ma l’ipotesi che oggi gode di maggiore credito è che esso si sviluppi, anche in assenza di fattori scatenanti, come conseguenza di un’alterazione a livello cerebrale (da qui la definizione di disturbo neurobiologico) influenzata dalla genetica. Uno studio ha, per esempio, osservato alcune anomalie nel cervello di alcuni bambini (in particolare nell’architettura di alcune aree della corteccia) affetti da autismo, che farebbero propendere sempre di più verso l’idea che si verifichino dei problemi durante lo sviluppo fetale. Questo spiegherebbe perché l’autismo nei gemelli monozigoti interessa entrambi nel 70% dei casi. Per quanto riguarda il tipo di alterazione cerebrale, è piuttosto accreditata la teoria che essa sia rappresentata da un problema relativo ai cosiddetti “neuroni specchio”, cellule specializzate del cervello che governano l’empatia (capacità di comprendere gli stati d’animo dei propri interlocutori) e che, soprattutto nei primi anni di vita, consentono l’apprendimento per imitazione. Costituiscono fattori di rischio, oltre a possibili anomalie genetiche e metaboliche: - pregressi episodi familiari di autismo o di altri disordini pervasivi dello sviluppo; - nascita pretermine del bambino, in particolare se alla nascita vi è un peso notevolmente sotto la media; - carenza di vitamina D durante la gravidanza.

7.3. L’autismo secondo il DSM Nelle prime due edizioni (1952,1958) del Diagnostic And Statistical Manual of Mental Disorders (DSM) non compare il termine "autismo" e i disturbi di questo tipo sono raggruppati nel concetto di Reazione Schizofrenica. Nell'edizione DSM III (1980) viene introdotta una nuova categoria diagnostica: il Disturbo Pervasivo dello Sviluppo (DPS) che comprende una forma ad inizio nell'infanzia, l'Autismo infantile l'Autismo atipico.

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L'edizione del DSM- IV (1994), sostanzialmente confermata anche da quella del DSM- IV - TR (del 2000) è particolarmente importante per giungere alla definizione moderna del concetto di Autismo. Infatti nella definizione di autismo scompaiono due parole chiave: Psicosi e Infantile. La scomparsa del sostantivo “psicosi” sancisce la definitiva distinzione dell’autismo come entità clinica dal concetto psicopatologico di sintomo della schizofrenia. La scomparsa dell’aggettivo “infantile” è invece la presa d’atto di un’evidenza: l’autismo non è solo infantile, ma è presente nella persona anche in tutte le epoche della vita: età adulta, maturità, vecchiaia. Nella recente edizione del DSM V (2013) viene abbandonata la dizione di Disturbo Pervasivo dello Sviluppo e viene introdotta quella di Disturbo dello Spettro Autistico, abolendo le precedenti differenziazioni (specialmente la distinzione tra Autismo e Sindrome di Asperger).

7.4. Triade del comportamento autistico I soggetti che presentano un Disturbo Autistico, come già accennato in precedenza, sono caratterizzati dalla presenza contemporanea di quella che viene definita come la triade del comportamento autistico:

1. Compromissione qualitativa dell’interazione sociale reciproca: il bambino non è capace di impegnarsi in una interazione reciproca a due vie, specialmente con i coetanei.

Lorna Wing e i suoi collaboratori hanno cercato di afferrare la qualità di questo disturbo e hanno identificato tre tipi distinti, denominati “riservato”, “passivo” e “strano”. Il tipo “riservato” richiama l’immagine del “bambino in una gabbia di vetro”: a scuola è sempre ritirato in se stesso, non risponde agli approcci sociali o al linguaggio; questo soggetto non parla per niente, non usa il contatto oculare e spesso sembra evitarlo del tutto. Il problema non è lo sguardo o il non-sguardo, ma l’uso di questi strumenti. Per esempio, un bambino può guardare l’adulto per richiedere qualcosa che desidera, ma non lo guarda quando l’adulto gli parla, lo richiama o gli mostra qualcosa. Il tipo riservato rifiuta le coccole, né cerca di essere consolato quando è addolorato. Il bambino “passivo” accetta in modo indifferente gli approcci sociali da parte degli altri. Fa quello che gli viene detto e bisogna stare attenti affinché non si metta nei guai a causa della sua accondiscendenza. Possiede un buon linguaggio e risponde alle domande con totale sincerità. Il contatto con gli altri è accettato, ma non è ricercato come qualcosa di piacevole. Il tipo “passivo” sembra un bonaccione, ma se accade un qualsiasi cambiamento di routine può avere delle risposte emotive che vanno dal pianto agli attacchi d’ira. Il tipo “strano” gradisce stare con gli altri e toccarli. Richiama l’attenzione degli sconosciuti e non è in grado di capire se l’approccio non è gradito o inappropriato. Il suo comportamento viene spesso giudicato come inopportuno o spiacevole e può arrivare anche all’aggressione fisica. In generale questi bambini non sono in grado di sviluppare rapporti con i coetanei e hanno una difficoltà marcata nella condivisione di gioie, interessi o obiettivi.

2. Compromissione qualitativa dello sviluppo delle modalità di comunicazione: il linguaggio può essere assente, ma può anche essere presente con una difficoltà di conversazione con gli altri, oppure può esserci la presenza di un linguaggio personale, ripetitivo o stereotipo con assenza di gioco simbolico.

K.A. Quill riporta alcuni esempi: quando si sente frustato il bambino dice “i treni stanno per partire”; se vuole sedersi sull’altalena dice “non ci sono più arance”. Un esempio di Uta Frith: se si è seduti a tavola e si chiede all’autistico “mi puoi passare il sale?” lui risponde semplicemente “si” senza passarlo. Il nocciolo della domanda è la richiesta del sale, non una richiesta di informazioni (sulla capacità che l’altro avrebbe di passare il sale). Questo comportamento denota una incapacità di usare il linguaggio per comunicare.

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3. Modalità di comportamento, interessi e attività limitati, ripetitivi e stereotipati: il bambino autistico desidera mantenere il suo ambiente costante. Oggetti, abiti, mobili devono mantenere sempre la stessa collocazione e lo stesso aspetto perché il cambiamento gli è insopportabile. La predilezione per l’ordine lo porta ad amare le collezioni e i puzzle, ma anche le ripetizioni, i rituali, le azioni stereotipate. Queste ultime possono essere anche autolesioniste come mordersi le mani, sbattere la testa e tirarsi i capelli. Altre stereotipie sono ondeggiarsi, tamburellare, dondolarsi, andare in su e in giù, canticchiare. Le routine sono comportamenti più complessi delle stereotipie, comprendono sequenze lunghe e possibilmente complesse di pensieri e fissazioni su interessi specifici. Esempi di routine sono: suonare i campanelli, osservare i riflessi sulle finestre, interessarsi in modo ossessivo agli autobus o agli aerei ecc.

7.5. Quando si manifesta l’autismo e come? L’autismo viene riconosciuto in un'età mediamente compresa tra i 15 ed i 20 mesi. In passato si riteneva che i bambini nascessero con questo disordine già acquisito. Oggi, nella maggior parte dei casi, il bambino progredisce normalmente e comincia poi a regredire durante la crescita, perdendo progressivamente (o non riuscendo a sviluppare) linguaggio, capacità di socializzazione e abilità fisiche. L'autismo colpisce i maschi con una frequenza tre volte maggiore delle femmine. Questa differenza tra i due sessi non è peculiare dell'autismo poiché molte disabilità dello sviluppo hanno un rapporto maschi - femmine anche più elevato. I sintomi che fin dall’inizio possono essere osservati sono sostanzialmente:

Difficoltà a stare insieme con altri bambini Manifestazioni di riso inappropriato Contatto oculare scarso o assente Apparente insensibilità al dolore Preferenza a rimanere solo, isolato Ruotare gli oggetti in modo ossessivo Evidente eccesso o estrema scarsezza di attività fisica Mancata risposta ai normali sistemi educativi Insistenza sulla costanza (sameness), resistenza al cambiamento Mancanza di reale paura dei pericoli Gioco bizzarro sostenuto nel tempo Ecolalia (ripetizione di parole o frasi al posto del linguaggio normale) Mancanza di reciprocità nelle "coccole" Mancata risposta alle indicazioni verbali: può sembrare sordo Difficoltà ad esprimere bisogni: uso di gesti ed indicazione al posto delle parole Episodi di ansia-collera (capricci) senza apparente motivo Abilità grosso e finomotorie incongrue (es.: Non giocare a palla ma riuscire nelle

costruzioni)

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7.6. Strumenti diagnostici Gli strumenti con significato diagnostico, maggiormente utilizzati a livello internazionale sono:

- Childhood Autism Rating Scale (CARS): scala di valutazione del comportamento autistico che permette di esplorare, raccogliendo informazioni in contesti vari, 15 aree di sviluppo.

- Autism Diagnostic Observation Schedule (ADOS): è basata sull’osservazione diretta del bambino ed è strutturata in moduli che esplorano il comportamento sociale in contesti comunicativi naturali.

- Autism Diagnostic Interview: Intervista semistrutturata destinata ai genitori, basata su domande relative ai comportamenti.

- Autism Behavior Checklist (ABC): Scala di valutazione del comportamento che fa riferimento a 57 comportamenti "problema", divisi in 5 categorie: linguaggio, socializzazione, uso dell’oggetto, sensorialità e autonomia, in base ai quali fornisce un punteggio.

- Psycho-Educational Profile (PEP-R): scala di valutazione per bambini di età mentale dai 6 mesi ai 7 anni, che permette di ricavare indicazioni mirate all'ottenimento di un profilo di sviluppo dettagliato ed alla pianificazione di un programma d’intervento specifico ed individualizzato. Occorrono 45-90 minuti per la somministrazione.

7.6. Strategie d’intervento Non esistono cure documentate che permettono di guarire dall’autismo, tuttavia attraverso alcuni interventi è possibile pensare ad un miglioramento delle capacità di adattamento, d’integrazione e delle condizioni di vita dei soggetti colpiti. I programmi d’intervento cosiddetti ‘‘comportamentali’ sono finalizzati a modificare il comportamento generale per renderlo funzionale ai compiti della vita di ogni giorno (alimentazione, igiene personale, capacità di vestirsi) e tentano di reindirizzare i comportamenti indesiderati. Tra le tipologie di intervento più diffuse e potenzialmente efficaci nella gestione clinica del disturbo e nella riduzione delle sue conseguenze funzionali, vi sono le logiche Applied behavior analysis (ABA) e il metodo TEACCH. ABA (APPLIED BEHAVIOUR ANALYSIS) L'ABA sta per Applied Behaviour Analysis, cioè Analisi del Comportamento Applicata. L' ABA si basa sull'uso dei principi della scienza del comportamento per la modifica di comportamenti socialmente significativi. Un programma ABA consiste nell'applicazione intensiva dei principi comportamentali per l'insegnamento di abilità sociali (linguaggio, gioco, comunicazione, socializzazione, autonomia personale, abilità accademiche, ecc.) e la correzione di comportamenti problematici (aggressività, autolesionismo, ossessioni, ecc.). Si può fare ABA non intensivamente? Si possono applicare i principi comportamentali per il cambiamento anche di un solo comportamento, come per esempio la riduzione dell'aggressività, incrementare la selezione di cibi, insegnare a farsi la doccia, ecc. Con un programma intensivo, applicato quotidianamente e per un numero adatto di ore,coinvolgendo tutte le persone nella vita del bambino in maniera uniforme e lavorando su tanti comportamenti, i risultati saranno sicuramente maggiori. L'ABA è una cura per l'autismo? No, l'ABA non è una cura per l'autismo. È l'insieme di principi scientifici che, se applicati in campo di autismo, offrono un programma per la riabilitazione educativa del bambino. Alcuni bambini però possono fare talmente tanti progressi da risultare dopo diversi anni indistinguibili da altri bambini in tutte le aree evolutive. Al momento, interventi basati sull'ABA rappresentano l'unico

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approccio educativo scientificamente validato per l'Autismo; tutti gli altri approcci possono essere considerati sperimentali. Quali elementi deve avere un programma intensivo comportamentale per bambini con autismo? La ricerca trentennale ha identificato i seguenti elementi:

- Intervento Intensivo: minimo 25 - 30 ore settimanali - Coinvolgimento massiccio della famiglia - Curriculum individualizzato e comprensivo - Insegnamento strutturato - Insegnamento Incidentale - Generalizzazione programmata - Insegnamento nell’area della comunicazione - Gestione costante dei comportamenti problema - Supervisione frequente e qualificata

PROGRAMMA TEACCH L’approccio TEACCH viene realizzato attraverso un insegnamento strutturato adatto al livello di sviluppo dell’individuo autistico a casa o a scuola; infatti il bambino autistico, come ha dimostrato Schopler nel 1971, impara meglio in una situazione strutturata. Il TEACCH propone un approccio globale attraverso la costituzione di un progetto educativo individualizzato adeguato al livello di sviluppo del bambino; pertanto tale programma prende in considerazione non solo gli interessi e le abilità del bambino, ma anche le necessità dei genitori, le mete e la disponibilità delle risorse; esso tende alla massima integrazione concreta del soggetto in famiglia e in ogni ambiente quotidiano, come può essere la scuola. L’insegnamento strutturato pone in risalto le componenti visive della struttura, in quanto l’elaborazione visivo-spaziale è il punto di forza attraverso cui vengono minimizzati i deficit dell’elaborazione uditiva e gli altri deficit propri del disturbo autistico. Esso favorisce un migliore adattamento bambino-ambiente, cercando di prevenire frustrazioni o problemi di comportamento e permettendo l’instaurazione di routine positive. Le componenti principali dell’insegnamento strutturato sono quattro: l’organizzazione dell’ambiente fisico, i programmi, i sistemi di lavoro, l’organizzazione dei compiti. L’organizzazione dell’ambiente fisico Con questo termine di intende “la disposizione fisica della stanza o dello spazio utilizzato per l’insegnamento, il lavoro, il tempo libero o le attività quotidiane”. Una classe organizzata in modo chiaro mette in evidenza le specifiche attività ed evita distrazioni visive e uditive; infatti questi soggetti sono spesso distratti dagli stimoli visivi e dai suoni presenti nell’ambiente, e ciò rende difficile concentrarsi sugli aspetti rilevanti del compito. Si ritiene dunque utile eliminare il maggior numero possibile di stimoli visivi e uditivi presenti nell’ambiente: ad esempio, possono essere utilizzati divisori, che “rinchiudono” il bambino nell’area di lavoro; altri sistemi sono la riduzione di decorazioni sui muri, l’eliminazione di eventuali specchi e l’utilizzo di tende alle finestre per allontanare le distrazioni provenienti dall’esterno. È opportuno che le diverse aree di lavoro siano vicine a scaffali per agevolare l’accesso ai materiali. Per alcuni bambini il banco di fronte a un muro bianco non causa distrazioni e li aiuta a mantenere l’attenzione sugli aspetti rilevanti delle attività che stanno svolgendo. Un altro aiuto può essere dato da sedie con i braccioli, per fare in modo di contenere meglio i bambini. Una delle caratteristiche del disturbo autistico è il fatto che i soggetti mostrano un’alta insofferenza per i cambiamenti; per questo motivo il metodo prevede un’area di passaggio, detta “area di transizione”, dove vengono esposte le fotografie o le immagini delle attività di routine e che i bambini prendono durante i momenti significativi della giornata, e ripropongono poi nella scatola sottostante al loro termine:

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ciò permette loro di avere dei punti di riferimento. L’area di transizione “è un modo concreto per dare coerenza ai diversi cambiamenti che si verificano nel corso di una giornata scolastica”. Tale area costituisce una concreta strategia che permette di ridurre in maniera consistente i problemi di comportamento legati alle difficoltà nel comprendere la prevedibilità degli eventi. I programmi Spesso l’orientamento temporale delle persone autistiche è scarsamente sviluppato; i programmi pertanto aiutano i bambini a comprendere quando si svolgerà una certa attività, indicando la loro sequenza degli eventi della giornata. Un programma visivo può essere ordinato dall’alto verso il basso o da sinistra verso destra; presentare le immagini accompagnandole alla loro descrizione verbale facilita il passaggio dalle immagini alle parole. È importante che i programmi siano adeguati ai livelli di abilità di ogni bambino; con i bambini non verbali a basso funzionamento viene utilizzato il tipo di programma più semplice, costituito da oggetti fisici: ad esempio si può consegnare a un bambino la bavaglina per fargli capire che è ora di pranzare, o un foglio con i pennarelli per fargli eseguire un’attività didattica; con un livello di funzionamento più alto aumenta il livello di astrazione; con alcuni bambini è così possibile utilizzare non solo oggetti concreti, ma anche foto, immagini, disegni, fino alle parole scritte. Ogni programma individuale deve alternare compiti nuovi o difficili a compiti più facili e divertenti. I sistemi di lavoro Essi vengono utilizzati durante la fase di lavoro indipendente, al fine di aiutare il bambino a organizzare il compito in modo sistematico. I sistemi di lavoro individuali comunicano tre importanti informazioni:

1. Il compito che si deve svolgere, in quanto è possibile vedere facilmente il materiale in ogni scatola di lavoro;

2. La quantità di lavoro che deve ancora essere eseguita, perché le scatole contenenti il materiale di lavoro sono ben visibili, trovandosi sempre a sinistra del banco, sul piano superiore di un mobile a scaffali, numerate e disposte secondo una data sequenza decisa dall’educatrice: così il bambino prende la prima scatola di lavoro, conduce l’attività richiesta, e poi la ripone sul piano di un altro mobiletto posto alla sua destra;

3. Il momento in cui è terminato un compito, in quanto, dopo l’esecuzione, il materiale delle scatole di lavoro, che si trovavano a sinistra, viene spostato tutto nella scatola dei lavori finiti, che si trova sempre a destra.

“I sistemi di lavoro possono essere progettati per soggetti di tutti i livelli di funzionamento evolutivo, variando il grado di complessità del sistema simbolico utilizzato: al livello di funzionamento più basso vengono utilizzati direttamente gli oggetti, mentre i livelli successivi implicano l’utilizzo di un codice di colori, immagini, numeri e parole scritte”. L’organizzazione dei compiti “L’organizzazione dei compiti e del materiale utilizzato nelle diverse sessioni di lavoro fornisce linee guida visivamente chiare dei rapporti tra le esecuzioni parziali e il completamento del compito”; per questi bambini i supporti visivi sono utili in quanto insegnano a riferirsi alle istruzioni, dando così un’organizzazione mentale dello svolgimento del compito, e a completare le attività autonomamente. Anche questa componente può essere adattata ai diversi livelli di funzionamento evolutivo e può includere oggetti, immagini, colori, numeri e parole. Finalità dell’educazione strutturata Le componenti principali dell’insegnamento strutturato rappresentano un adattamento dell’ambiente alle caratteristiche dei bambini autistici, andando incontro alle loro potenzialità e promuovendo così il funzionamento indipendente.

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Lo scopo per cui nel programma TEACCH è stato introdotto il “lavoro indipendente” è quello di insegnare al bambino ad essere indipendente dalle istruzioni e dalla supervisione dell’adulto; il lavoro indipendente ha inoltre una funzione protettiva nei confronti dell’ansia generata dalle situazioni “sociali” che il bambino fatica a comprendere: quanto viene appreso in questa situazione protetta dovrebbe poi essere trasferito, cioè “generalizzato” in contesti più “sociali”. Questo approccio può sembrare un po’ rigido, ma in realtà valorizza le potenzialità di questi bambini e permette di comunicare attraverso il loro canale preferenziale. “Strutturare”, ossia “costruire” o “sistemare” all’interno di un modello definito di organizzazione, non significa “irrigidire”, ma promuovere l’indipendenza neutralizzando in parte i deficit dell’autismo e prevenendo i problemi di comportamento del soggetto. Il punto di forza del programma TEACCH sta nella possibilità di valutare ogni bambino individualmente e nel realizzare un P.E.I. specifico per lui, per il suo livello di funzionamento, le sua abilità, i suoi deficit, le capacità in via di sviluppo e le potenzialità su cui lavorare per raggiungere competenze utili. Il progetto educativo viene quindi “personalizzato” a seconda delle esigenze e delle caratteristiche di ognuno. “L’individualizzazione è una procedura ampiamente riconosciuta come la migliore per la maggior parte dei bambini, ma per gli autistici e gli inabili nel campo dello sviluppo si tratta di una necessità, dato che i particolari modelli d’apprendimento di questi soggetti non possono essere utilizzati produttivamente in nessun’altra maniera”. Nello strutturare un programma individuale si tiene conto non solo del bambino autistico, ma dell’adulto che diventerà, per il quale saranno indispensabili alcune competenze, quali: comunicare, vivere con un certo grado di autonomia, svolgere semplici attività lavorative, occupare il tempo libero, essere capace di avere e mantenere relazioni sociali. Infatti, “il compito dell’educazione, nell’autismo come negli altri handicap, è quello di incoraggiare il bambino ad apprendere sempre nuove abilità per vivere e conoscere il mondo”.

7.8. Ulteriori terapie Nel corso dei decenni numerosi sono stati i trattamenti, farmacologici, riabilitativi, educativi, sociali, che sono stati proposti e attuati per il Disturbo Autistico come ad esempio:

1. Metodo Etodinamico: Si svolge in una stanza spaziosa dotata di attrezzature (tavolo, sedie, divani, giocattoli) in cui il bambino è libero di muoversi e di interagire in attività ludiche con il genitore presente; al terapeuta spetta il compito di stimolare il genitore a essere propositivo verso il figlio.

2. TED: è considerata una terapia di scambio e sviluppo e si basa sull’interazione reciproca tra il bambino e gli operatori (l’ambiente) in modo da favorire le capacità di socializzazione e di comunicazione. Essa si propone di favorire le capacità funzionali del bambino incoraggiandone le iniziative in un clima di tranquillo, disponibile e sereno, termini che non rappresentano solo una modalità generica di approccio trasversale alla maggior parte dei trattamenti riabilitativi ma giocano un ruolo preciso sul versante neurofisiologico.

3. Metodo Delacato: è un programma neuro-riabilitativo che lavora sulla correzione dei disturbi comportamentali presenti nei soggetti affetti da sindrome autistica o da altre patologie che interessano il Sistema Nervoso Centrale. Il metodo consiste nella somministrazione di somministrare esercizi sensoriali e motori per cinque giorni a settimana per circa due ore e mezza al giorno, suddivisi in più momenti della giornata (a scelta dei genitori). Ogni esercizio può essere applicato una o più volte al giorno per un tempo che va da un minimo di trenta secondi ad un massimo di due minuti consecutivi.

4. Psicomotricità: la terapia psicomotoria tende ad aprire alla comunicazione attraverso la relazione col terapeuta: partendo dalle competenze e modalità proprie ad ognuno, il

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terapeuta guida il bambino ad organizzare e integrare le funzioni, a differenziare, ad accedere a nuove modalità di azione e di relazione e al piacere di fare, pensare, conoscere e comunicare. Lo strumento specifico che individua la terapia psicomotoria è il corpo nelle sue dimensioni toniche ed emozionali, nelle sue posture e gestualità. Gli strumenti operativi della terapia psicomotoria sono: la strutturazione di un contenente spazio-temporale costante, la stimolazione tonica sensoriale ed emotiva, la possibilità della condivisione del vissuto del piacere senso-motorio, la proposta di oggetti esperienziali, l'uso della voce e il mettere semplici parole sul vissuto emotivo del bambino.

5. Animal Assited Therapy: in questo tipo di terapia gli animali entrano in scena e diventano co-protagonisti del processo terapeutico.

6. Terapia con il mezzo del cavallo, o ippoterapia, in cui vengono sfruttate alcune caratteristiche fisiche del cavallo, insieme a valenze psicologiche e sociali legate al cavallo ed all'ambiente del maneggio

7. Terapia con i delfini: a questa specie, che vive appunto in ambiente marino, quindi molto diverso dal nostro, è sempre stata riconosciuta una particolare abilità ad entrare in contatto con gli esseri umani, ed a interagire e giocare in modo del tutto spontaneo con loro. I delfini hanno una particolare capacità di comprendere certi tipi di linguaggio umano, come il linguaggio dei segni. Per queste caratteristiche, unite ad una spiccata intelligenza, è stata presa in considerazione l’idea di utilizzare i delfini a scopo terapeutico nell’autismo.

8. TMA: La Terapia Multisistemica in Acqua è una terapia sviluppata in ambiente naturale con un modello teorico di riferimento e una metodologia strutturata attraverso fasi, che utilizza inoltre metodiche cognitive, comportamentali, relazionali e senso motorie. Il fine ultimo della terapia non è l’insegnamento del nuoto, né l’uso di quest’ultimo per svago o ricreazione, anche se il gioco e lo stare bene insieme vengono utilizzati come elemento facilitante la relazione e la gestione delle emozioni. Il nuoto è utilizzato come veicolo per raggiungere obiettivi terapeutici e attuare il processo di socializzazione e integrazione con il gruppo dei pari. Il bambino che impara a nuotare durante l’intervento può ridefinire le relazioni con il terapeuta e con gli altri bambini. Raggiunta l’autonomia, infatti,il soggetto, che nella fase iniziale aveva mostrato soltanto evitamento e allontanamento, ora può dimostrare, in piena indipendenza, un’intenzionalità relazionale con il terapeuta e con l’eventuale gruppo d’integrazione. Il soggetto quando si appresta ad imparare le attività natatorie, si sente libero di esplorare l’ambiente acqua e capace di interagire in quest’ultimo. Utilizzando tali nuove capacità acquisirà autostima e un senso di autoefficacia supportato e rinforzato dal terapeuta e dalla famiglia. In sintesi l’applicazione clinica della TMA, favorisce l’apprendimento e lo sviluppo del bambino autistico a livello emozionale, cognitivo, comportamentale, sensomotorio, sociale e comunicativo.

La continuità e la qualità del percorso terapeutico sono garantite attraverso il coinvolgimento dei genitori in tutto il percorso; la scelta in itinere degli obiettivi intermedi da raggiungere e quindi degli interventi da attivare (prospettiva diacronica); il coordinamento, in ogni fase dello sviluppo, dei vari interventi individuati per il conseguimento degli obiettivi (prospettiva sincronica); la verifica delle strategie messe in atto all'interno di ciascun intervento. L'impiego mirato dei farmaci è volto alla riduzione o all'estinzione di alcuni comportamenti problematici, o di disturbi clinici associati come l'epilessia e i deficit di attenzione, col fine di evitare ulteriori aggravamenti clinici o per migliorare la qualità della vita.

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7.9. Come parlare ad un bambino autistico - PARLA DEI LORO INTERESSI: per avere delle conversazioni senza problemi, trovare la giusta

linea d’onda è fondamentale. - ACCORCIA LE FRASI: se usi frasi brevi riuscirà a processarle più efficacemente. Per ottenere

migliori risultatati prova a mimare, a scrivere le frasi o a fare un disegno. - DAI DEL TEMPO AL BAMBINO PER CAPIRE: è molto importante che il bambino abbia del

tempo per assimilare le informazioni che riceve. Non mettere fretta al bambino se non risponde alla tua prima domanda, non fargliene altre, potresti confonderlo.

- CERCA DI ESSERE SENSIBILE E DI NON PRENDERTELA SE IL BAMBINO RIMANE IN SILENZIO: potrebbe non rivolgerti la parola del tutto ed è molto importante che non interpreti questa reazione negativamente.

- PARLA LETTERALMENTE: potrebbero avere problemi con il linguaggio figurativo. Assicurati di esprimere, specificatamente, i concetti parola per parola. Verrai capito più facilmente.

7.10. L’autismo e la normativa In Italia, secondo la Legge n.104/92 i bambini con Autismo hanno il diritto di frequentare le classi comuni delle scuole di ogni ordine e grado. E’ quindi la scuola che deve farsi carico dell’educazione, e l’educazione, nell’autismo, non può che essere specifica. Inoltre, la Scuola non può operare isolatamente: il Decreto Presidenziale del 24 febbraio 1994 fornisce delle chiare direttive sui passi che vanno compiuti al fine di creare una cooperazione tra la scuola, le istituzioni locali e le famiglie. In seguito alla Diagnosi Funzionale, da parte di un’equipe multidisciplinare, è prevista la stesura del PDF o Profilo Dinamico Funzionale. Quest’ultimo descrive in modo analitico il funzionamento del bambino con autismo, sia in relazione alle sue abilità acquisite (ciò che sa attualmente fare in modo autonomo), sia in relazione al suo sviluppo potenziale (ciò che fa in maniera parziale, ancora imprecisa o con l’apporto di un piccolo aiuto), in base a diversi aspetti: cognitivo, affettivo / relazionale, sensoriale, motorio / prassico, neuropsicologico, autonomia e apprendimento. Dall’incontro di operatori sanitari, insegnati, educatori e genitori, nasce il PEI ovvero il Piano Educativo Individualizzato, un documento in cui vengono descritti gli interventi, integrati ed equilibrati tra loro, necessari al conseguimento degli obiettivi educativi e didattici. Il PEI è un progetto globale che include diverse dimensioni: sanitaria, pedagogica, educativa, didattica, culturale e ricreative. È importante monitorare con costanza gli andamenti degli interventi, attraverso valutazioni specifiche, al fine di verificare i risultati raggiunti e di inserire eventuali aggiornamenti. Il PEI potrebbe essere considerato una guida al lavoro con il bambino, in continua crescita ed evoluzione, per chiunque si trovi a lavorare con lui. Durante l’orario scolastico, i bambini autistici sono affiancati e supportati, oltre che dai docenti di sostegno, dagli assistenti specialistici. Nei casi più fortunati, si tratta di persone molto qualificate, psicologi o educatori, ma purtroppo non è richiesto un titolo specifico per poter svolgere questo lavoro. I bambini e ragazzi autistici, per i quali viene spesso messo a punto un PEI (Piano Educativo Individualizzato) richiederebbero un’attenzione e una formazione specifica proprio per la complessità della diagnosi e per le competenze psicologiche che è necessario mettere in campo nel relazionarsi con loro”.

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7.11. Abilità savant La sindrome del savant, anche detta “savantismo” è una patologia poco comune ma estremamente interessante nella quale persone che soffrono di svariati disordini dello sviluppo, compreso l'autismo, possiedono incredibili «isole» di brillanti capacità in estremo contrasto con il loro generale handicap mentale: studiare questa patologia può essere visto come uno stupefacente viaggio nel cervello umano con i suoi limiti e le sue straordinarie capacità, e fa capire come genio e handicap, possano essere due facce della stessa medaglia. Le capacità dei savant sono sempre associate a una notevole memoria; questa è profonda, focalizzata e basata sulla recitazione abituale, ma non comporta la comprensione di ciò che viene detto. Quali siano le cause della sindrome di savant non si sa ancora, si pensa ad una causa genetica anche se non si escludono possibili eventi traumatici nella fase pre e post natale o nell'infanzia. La spiegazione più appropriata sembra essere quella genetica: una lesione dell’emisfero cerebrale sinistro indurrebbe quello destro a compensare il deficit. I due emisferi, pur separati, sono messi in comunicazione tra loro da un grosso fascio di fibre nervose, il corpo calloso, che permette al cervello di integrare le elaborazioni delle varie aree:

l’emisfero sinistro non è creativo ma in compenso è molto efficiente dal punto di vista tecnico; è l’emisfero della logica, della matematica, del ragionamento, dell’ordine.

L’emisfero destro, invece, è semplicemente l’opposto. E’ l’emisfero del caos, non dell’ordine; della poesia, non della prosa; dell’amore, non della logica.

In ognuno di noi esiste quindi questa lotta continua e quello che noi siamo e il compiere delle nostre azioni è dato dal prevalere di un emisfero sull’altro. I cosidetti “idiotsavant” conosciuti oggi nel mondo sono circa una cinquantina, tutti accomunati da una abilità e una memoria eccezionali.

7.12 Due casi in particolare: Kim Peek e Temple Grandin

Venuto a mancare da pochi anni, Kim Peek1 è tra le persone più conosciute, affetta dalla sindrome dell’idiota sapiente. Kim era dotato di una straordinaria memoria eidetica (vale a dire una sorta di memoria fotografica potenziata) e aveva disturbi dello sviluppo psicologico dovuti a una congenita deformazione del cervello. Kim nacque con una macrocefalia associata a danni al cervelletto e un'agenesia , vale a dire una condizione nella quale manca la rete di fibre nervose che connettono tra loro

gli emisferi cerebrali. Nel suo caso mancavano anche connessioni secondarie come la giuntura anteriore. È stato supposto che i suoi neuroni, in assenza di un corpo calloso, abbiano creato nuove connessioni, il che ha comportato una maggiore capacità mnemonica (la potente memoria fotografica che abbiamo visto poc’anzi). Secondo suo padre Fran, egli era in grado di svolgere attività mnemonica sin dall'età di 16-20 mesi. Imparava a memoria i libri che leggeva, dopodiché, per segnalare che li aveva finiti, li posava rovesciati sulla mensola. Leggeva un libro in un'ora circa, e si ricordava circa il 98% (impaginazione compresa) di tutto quello che aveva letto, memorizzando un'enorme quantità d'informazione nei più disparati campi, dalla storia alla letteratura, dalla geografia alla matematica, dagli sport alla

1 Peek, Fran, The Real Rain Man: Kim Peek, Salt Lake, Harkness, 1996

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musica e alle date. Conosceva a memoria circa 12.000 libri. Kim era in grado di fare a mente anche calcoli complessi, una capacità che gli tornava utile nel suo lavoro quotidiano, che consisteva nello stilare buste-paga. Dal 1969 fu attivo presso un laboratorio di adulti disabili. Kim imparò a camminare solo all'età di 4 anni, e aveva una deambulazione sghemba. Non era in grado di abbottonarsi la camicia ed era in difficoltà in altre attività motorie, probabilmente a causa dei danni al cervelletto, normalmente preposto alla coordinazione di queste attività. Nei test psicologici generali, Kim si era rivelato ben al di sotto della media come QI, ma aveva ottenuto punteggi altissimi in alcuni sotto-test. I discordanti risultati hanno condotto alla conclusione che tali test non fossero gli strumenti adatti per valutare le capacità di Kim. Egli si è dimostrato ben più di un semplice deposito di enormi quantità d'informazione; la sua capacità di associare tra loro le informazioni che aveva memorizzato è stata almeno un segno di creatività. Dimostrava difficoltà con le astrazioni, verificabili nell'interpretazione di proverbi o movenze metaforiche. Benché non sia mai stato un prodigio musicale, le capacità di Kim adulto in questo campo hanno riscosso attenzione da quando ha cominciato a studiare il pianoforte. Dimostrava di ricordare musiche udite decenni prima, e riusciva a riprodurle al pianoforte, compatibilmente con le sue limitate capacità manuali. Era in grado di pronunciarsi scorrevolmente sui pezzi di musica che eseguiva, istituendo ad esempio paragoni tra il brano che stava suonando e un altro già sentito. Durante l'ascolto di registrazioni, era in grado di distinguere a quali strumenti erano affidate le singole parti, e si esercitava nell'indovinare compositori di musica mai sentita, ricorrendo al paragone con le migliaia di pezzi musicali che aveva a mente.

Temple Grandin2 è un esempio di personalità forte che, nonostante il suo disturbo, è riuscita ad essere molto apprezzata per le sue competenze (è infatti una professoressa associata presso la Colorado State University ed imprenditrice). La Temple nacque in un periodo (nel 1949) in cui la sindrome autistica era relativamente poco conosciuta. Essendole stato diagnosticato un danno cerebrale all’età di due anni, fu ospitata in una scuola materna strutturata per tali casi, dove a suo dire fu seguita da buoni insegnanti. Parecchi anni più tardi fu accertata come autistica (formalmente la diagnosi era di Sindrome di Asperger,

versione meno grave dello spettro autistico). Afferma di considerarsi fortunata per aver goduto di un buon supporto sia al tempo in cui frequentava la scuola primaria che successivamente. Temple, negli anni a seguire conseguì una laurea di primo livello in psicologia al Franklin Pierce College (1970), successivamente si laureò in zoologia all’Università Statale dell’Arizona nel 1975, e completò poi il dottorato di ricerca in zoologia presso l’Università dell’Illinois nel 1989. Temple iniziò ad essere conosciuta dopo che Oliver Sacks, un neurologo, la descrisse nel suo racconto “Un antropologo su Marte” il cui titolo riprende la definizione della stessa Temple circa il suo modo di sentire le persone neurotipiche. Sulla base della sua personale esperienza ha invocato l’intervento ed il supporto di insegnamenti che possano risolvere le problematiche dei bambini autistici, combattendo comportamenti inadatti per altri più adeguati. Ha raccontato di essere ipersensibile ai rumori e ad altri stimoli sensoriali e di provare il bisogno di trasformare ogni cosa in immagini visive. Secondo Temple il

2 Temple Grandin, Visti da vicino. Il mio pensiero su autismo e sindrome di Asperger, Collana capire con il cuore,

Centro studi Erickson, Trento, 2014

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suo successo nel lavoro di progettista dipende proprio dalla sua condizione di autistica. È a partire da tale condizione infatti che riesce a soffermarsi su dettagli minutissimi ed è in grado di utilizzare la memoria visuale come fosse un supporto audiovisivo, sperimentando mentalmente le diverse soluzioni da adottare. Grandin è considerata inoltre un’ importante attivista sia del movimento in tutela dei diritti degli animali che del movimento dei diritti delle persone autistiche dai quali a sua volta è frequentemente citata. Il suo merito principale è stato quello di presentare il punto di vista delle persone autistiche, contribuendo in tal modo all’affinamento di metodologie di intervento più adatte a supportare le persone colpite da questa sindrome. Tuttora la Temple assume antidepressivi e utilizza una speciale apparecchiatura (hug machine) da lei ideata all’età di 18 anni: si tratta della cosiddetta “macchina degli abbracci” che l’ha resa famosa. L'idea le venne osservando l'effetto calmante, sugli animali in procinto di essere visitati o vaccinati dal veterinario, di un'arla di travaglio, nel quale l'animale non riusciva a girarsi, e così sperimentò uno strumento analogo sui bambini autistici, scoprendo che, in quella condizione, il bambino si lasciava abbracciare. Per questo la chiamò la macchina degli abbracci.

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8. Metodologie d’insegnamento e didattica affettiva

8.1. Una scuola inclusiva Negli ultimi decenni la vita scolastica è cambiata profondamente. Da una parte le innovazioni tecnologiche hanno consentito lo sviluppo di strumenti, tecniche e strategie del tutto inedite e, con esse, la predisposizione di nuovi ambienti di apprendimento, plurali e flessibili. La scuola è chiamata a diventare laboratorio di formazione, contesto in cui più che trasmettere conoscenze si crei supporto verso la formazione di una cittadinanza attiva. Al centro di essa non è più l'insegnamento ma l'apprendimento, non più le conoscenze, il sapere, ma il saper fare, il sapere agito, che renda capaci di comprendere i costanti cambiamenti e di muoversi agevolmente in essi. La scuola, affermano le recenti Indicazioni Nazionali per il curricolo, deve promuovere lo sviluppo di competenze da spendere nel mondo reale. Il lavoro del docente è perciò cambiato da esperto che dispensa conoscenze è diventato giuda, facilitatore, supporto per un apprendimento autonomo, nella costruzione attiva della conoscenza da parte degli allievi. Solo rispondendo adeguatamente ai diversi bisogni essa può diventare davvero inclusiva e le tante buone intenzioni possono concretamente divenire buone prassi, in termini di individualizzazione e personalizzazione. Diviene una scuola per tutti e per ciascuno se al centro dell'azione didattica non è più il lavoro del docente ma quello degli allievi, le metodologie d'insegnamento dovranno prevedere strumenti, tecniche e strategie focalizzate su di essi e dovranno rendersi flessibili e ricche, in modo da contenere le proposte più adeguate per ciascun allievo, affinché possa seguire le vie più agibili verso il proprio apprendimento. Ben vengano dunque le attività diversificate, i laboratori didattici, gli ambienti di apprendimento costruiti con il supporto delle tecnologie informatiche, i prodotti didattici multimediali, interattivi, ricchi di possibilità di accesso. E, con essi, i lavori di gruppo, l'Apprendimento cooperativo, la ricerca responsabile per la crescita della comunità scolastica in apprendimento, lo scambio di contenuti e conoscenze, la messa a disposizione di abilità diverse, di competenze maturate, a supporto dell'apprendimento altrui e per il rafforzamento del proprio. Ciascun allievo è interno ad un processo e si sforza in esso nei termini delle proprie possibilità per costruire conoscenza insieme agli altri. La differenza, infatti, è essa stessa normalità , è accolta come ciò che è più proprio. «Una scuola siffatta è una scuola inclusiva»

Per accogliere, orientare e comprendere e comprendere i reali i reali “bisogni” del bambino bisogna avere:

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8.2. Le insegnanti di sostegno Ma quale deve essere il ruolo dell’insegnante specializzato di sostegno? L’insegnante di sostegno, oggi, viene ad assumere compiti nuovi, più specifici ed impegnativi, in quanto il passaggio da un’ottica di inserimento ad una di integrazione degli alunni in situazione di svantaggio nella scuola, ha reso necessario ridefinire la figura dell’insegnante di sostegno, delineando una serie di professionalità, conoscenze, competenze e atteggiamenti propri di un profilo professionale complesso. L’insegnante di sostegno non è soltanto l’insegnante dell’alunno disabile bensì un docente di sostegno all’intera classe, che ha il compito di favorire situazioni didattiche, formative e relazionali, mirate a realizzare il processo di integrazione in piena contitolarità con gli insegnanti curricolari. In questo senso è un mediatore attivo e il promotore di una scuola accogliente e inclusiva, in grado di dare risposte adeguate ai bisogni specifici di apprendimento e a quelli sociali di ciascuno alunno; è un insegnante come tutti gli altri, e condivide con tutti gli altri colleghi i compiti professionali e le responsabilità sull'intera classe. Il compito principale dell'insegnante di sostegno è proprio la creazione delle condizioni per socializzare e apprendere o, meglio, imparare a stare con gli altri, "imparare stando con gli altri e facendo con gli altri", nella convinzione condivisa che l'apprendimento non può prescindere ed essere avulso da un contesto relazionale, che si apprende per comunicare e che il rapporto con i pari è, a quest'epoca, determinante per la strutturazione della personalità.

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8.3. Metodologie d’insegnamento

8.3.1. Pet Therapy La Pet Therapy nasce nel 1953 quando lo psichiatra infantile Boris Levinson, alle prese con un piccolo paziente affetto da autismo, scoprì che il bimbo al contatto col suo cane, si mostrava più spontaneo e disponibile all'interazione.Chiamata comunemente pet-therapy, il suo termine italiano è "zooterapia" e si tratta di una psicoterapia dolce per curare diverse patologie fisiche e psichiche, basata sull’interazione delle persone con animali. Viene applicata con i disabili, e soprattutto nei bambini affetti da autismo e sindrome di Down. Le figure professionali coinvolte devono (o dovrebbero) avere una preparazione specifica per quanto riguarda le caratteristiche generali degli animali coinvolti nella pet therapy. Il contatto con un animale può infatti aiutare a soddisfare certi bisogni come mancanza d'affetto, insicurezza, e difficoltà nelle relazioni interpersonali, e aiuta addirittura a recuperare alcune abilità che queste persone possono avere perduto. Gli animali infatti potenziano le cure mediche e alleviano disturbi psichici e la depressione, tipica soprattutto nei bambini che a causa della malattia si trovano ricoverati per lunghi periodi in ospedale ed è stato possibile constatare, negli ospedali dove si pratica la pet-therapy, che i bimbi che sono stati a contatto con gli animali ospitati dalla struttura, hanno superato con maggiore serenità la trafila degli esami e della degenza, riuscendo a riacquistare il sorriso e un po' di tranquillità e stabilità psicologica, abbandonando quella serie di disturbi ( disturbi del sonno, disturbi dell'appetito e del comportamento) che si erano venuti a creare proprio a causa dello stress, della paura e della noia. Da poco tempo, la pet-therapy si sta sperimentando anche nelle scuole italiane ed è rivolta a quei bambini o adolescenti che hanno difficoltà ad integrarsi con gli altri e con l'ambiente circostante serenamente. Si può' trattare di ragazzi con disturbi neuromotori, cognitivi e/o comportamentali o che semplicemente hanno difficoltà a socializzare con i coetanei; gli amici a quattro zampe attiverà la loro curiosità ma non solo, pare che risvegli la voglia di mettersi in gioco e di migliorarsi con ottimi effetti.

8.3.2. Circle time Una delle procedure che aiutano lo sviluppo della funzione personale ed interpersonale è il circle-time. Diviene importante creare il contesto giusto, suggestivo per dare alle parole dei bambini il giusto rilievo e l’accoglienza che meritano. Il circle-time diventa l’“oasi” per i momenti in cui si può ascoltare e farsi ascoltare. Ogni bambino che parla e si esprime all’interno di un gruppo di coetanei ha diritto di essere ascoltato e accolto da tutti, con la massima attenzione. Si è parlato di ascolto empatico, cioè di quella forma di ascolto che coinvolge il bambino non solo a livello intellettuale, ma anche fisico, corporeo, emozionale e spirituale. Ascoltare significa entrare nel mondo dell’altro, mettersi nei suoi panni, condividere le sue emozioni. Ascoltare significa cogliere la comunicazione analogica, non verbale dell’altro, in modo da potersi rispecchiare con quanto l’altro propone. La guida della discussione e del rispecchiamento in gruppo nella forma del circle-time o cerchio magico non è cosa facile; alcuni bambini si possono limitare all’ascolto senza intervenire, altri possono tendere a dominare la scena riempendo il gruppo delle loro parole; si possono avere bambini che tendono a distrarsi ad estraniarsi, altri ancora che magari involontariamente disturbano la concentrazione del gruppo.

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Sta ovviamente all’educatrice saper coinvolgere tutti i bambini, saper attivare l’interesse di ognuno; in particolare predisporre occasioni, precedere e seguire con l’obiettivo di diventare “inutili”.

8.3.3. Role Playing Il role playing consiste nella simulazione dei comportamenti e degli atteggiamenti adottati generalmente nella vita reale, i ruoli sono assunti da due o più studenti davanti al gruppo dei compagni - osservatori. Gli studenti devono assumere i ruoli assegnati dall'insegnante e comportarsi come pensano che si comporterebbero realmente nella situazione data. Questa tecnica ha, pertanto, l'obiettivo di far acquisire la capacità di impersonare un ruolo e di comprendere in profondità ciò che il ruolo richiede. Riguarda i comportamenti degli individui nelle relazioni interpersonali in precise situazioni operative per scoprire come le persone possono reagire in tali circostanze. Il role-playing mira a rendere i partecipanti consapevoli dei propri atteggiamenti, evidenzia i sentimenti e i vissuti sottesi alla situazione creata e rinvia alla dimensione soggettiva, alle modalità di proporsi nella relazione e nella comunicazione. Gli elementi fondamentali del role playing: -si predispone una scena in cui partecipanti devono agire; - i partecipanti sono al centro dell'azione e devono recitare spontaneamente secondo l'ispirazione del momento; - l'uditorio assume particolare importanza poiché il gruppo non funge da semplice osservatore, ma cerca di esaminare e di capire quanto avviene sulla scena; - il docente deve mantenere l'azione dei partecipanti e la situazione scenica, anche sollecitando, suggerendo, facilitando l'azione fino al momento in cui gli studenti protagonisti non agiscono autonomamente; - il docente può avvalersi di collaboratori incaricati di favorire la recita, anche con la loro recitazione.

8.3.4. Cooperative learning Il Cooperative learning deve le sue origini, verso la fine del Settecento, al sistema di mutuo insegnamento tra pari (peer tutoring) ideato e applicato da A. Bell, reverendo ed educatore anglicano in India, e ripreso qualche anno dopo dal suo conterraneo Joseph Lancaster che inaugurò a Londra, nel 1798, una scuola per fanciulli poveri. Non avendo denaro per pagare dei collaboratori, concepì un metodo di insegnamento reciproco fra gli alunni. Questo sistema prese piede in alcuni paesi europei quali la Gran Bretagna, la Francia, la Spagna, e, grazie a Federico Confalonieri, anche l’Italia. Giunse quindi anche oltre oceano negli U.S.A. dove, dal 1900, si sviluppò e ampliò i propri orizzonti trasformandosi in Apprendimento Cooperativo grazie a due correnti di pensiero condotte dal pedagogista John Dewey e dallo psicologo Lewin i quali concordarono sulla necessità, la rilevanza ed il valore dell'interazione e della cooperazione nell'ambito scolastico. Ad essi si unirono anche i pensieri e gli studi svolti dallo psicologo e pedagogista svizzero Jean Piaget, e dallo psicologo russo Lev Vygotsky. Dagli anni sessanta ad oggi molti altri pedagogisti, psicologi e filosofi hanno approfondito ed effettuato studi per sviluppare il Cooperative learning ritenuto oramai elemento essenziale, non solo all'interno del sistema scolastico mettendo l’accento sull’influenza dei fattori sociali nello sviluppo cognitivo, ma anche all'interno di tutto il nostro sistema di interazione sociale. Quando si parla di Cooperative Learning ci si riferisce, prima ancora che a uno specifico metodo di insegnamento/apprendimento, a un vasto movimento educativo che, pur partendo da prospettive teoriche diverse, applica particolari tecniche di cooperazione nell'apprendimento in classe. Tutte le esperienze dimostrano che il rendimento scolastico degli studenti migliora quando si attivano i

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gruppi di apprendimento cooperativo. E gli insegnanti possono aiutare gli studenti a sviluppare la capacità di risolvere i problemi e le capacità sociali di cui avranno bisogno per lavorare con gli altri in aree, quali le comunicazioni, la leadership, i processi decisionali. Il Cooperative Learning è dunque una modalità di apprendimento che si basa sull'interazione all'interno di un gruppo di allievi che collaborano, al fine di raggiungere un obiettivo comune, attraverso un lavoro di approfondimento e di apprendimento che porterà alla costruzione di una nuova conoscenza. L'apprendimento cooperativo utilizza il coinvolgimento emotivo e cognitivo del gruppo come strumento di apprendimento in alternativa alla tradizionale lezione accademica frontale. Questa espressione fa riferimento ad un insieme di principi, tecniche e metodi di conduzione della classe in base ai quali gli alunni affrontano lo studio disciplinare interagendo in piccoli gruppi, in modo collaborativo, responsabile, solidale e ricevendo valutazioni sulla base dei risultati ottenuti individualmente ed in gruppo. Il Cooperative Learning è dunque una modalità di apprendimento che si basa sull'interazione all'interno di un gruppo di allievi che collaborano, al fine di raggiungere un obiettivo comune, attraverso un lavoro di approfondimento e di apprendimento che porterà alla costruzione di una nuova conoscenza. L'apprendimento cooperativo utilizza il coinvolgimento emotivo e cognitivo del gruppo come strumento di apprendimento in alternativa alla tradizionale lezione accademica frontale. Questa espressione fa riferimento ad un insieme di principi, tecniche e metodi di conduzione della classe in base ai quali gli alunni affrontano lo studio disciplinare interagendo in piccoli gruppi, in modo collaborativo, responsabile, solidale e ricevendo valutazioni sulla base dei risultati ottenuti individualmente ed in gruppo. La teoria: il costruttivismo e l’apprendimento centrato sullo studente Secondo il costruttivismo, che fonda le sue radici nell'opera di Piaget, la conoscenza è costruita dall'individuo via via che questi cerca di ordinare le proprie esperienze . Un ramo del costruttivismo è il "costruttivismo sociale”, secondo cui l'intersoggettività tra attori è il prerequisito e il "luogo" per imparare ad elaborare strumenti di comprensione della realtà. Driver et al. propongono una "costruzione sociale" dell'apprendimento scientifico: la conoscenza scientifica viene costruita quando gli studenti sono attivamente impegnati in discussioni e attività riguardanti problemi scientifici. Questa nuova concezione, che vede lo studente attivamente coinvolto nella costruzione della conoscenza, ha sostituito la visione del "comportamentismo" che considerava l'apprendimento centrato sulla struttura stimolo-risposta. Il modello costruttivistico può essere sintetizzato in una singola frase: La conoscenza è costruita nella mente di colui che impara. Secondo Vygotsky , lo sviluppo cognitivo è un processo sociale e la capacità di ragionare aumenta nell'interazione con i propri pari e con persone maggiormente esperte. Alcune definizioni di apprendimento cooperativo

• David W. Roger T. Johnson e Edythe J. Holubec “Cooperare significa lavorare insieme per raggiungere obiettivi comuni. All'interno di situazioni cooperative l'individuo singolo cerca di perseguire dei risultati che vanno a vantaggio suo e di tutti i collaboratori. L'apprendimento cooperativo è un metodo didattico che utilizza piccoli gruppi in cui gli studenti lavorano insieme per migliorare reciprocamente il loro apprendimento” (“Apprendimento cooperative in classe, migliorare il clima emotivo e il rendimento”, 2000, cap. 1 pag. 20):

• M. Comoglio:Un metodo di conduzione della classe che mette in gioco, nell'apprendimento, le risorse degli studenti. Così inteso, si distingue dai metodi tradizionali che puntano invece sulla qualità e sull'estensione delle conoscenze didattiche e di contenuto dell'insegnante. Infatti, diversamente da questi ultimi, questo metodo permette di gestire e organizzare esperienze di apprendimento condotte dagli stessi

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studenti e, insieme, sviluppare obiettivi educativi di collaborazione, solidarietà, responsabilità e relazione, riconosciuti efficaci anche per una migliore qualità dell'apprendimento” (da “Verso una definizione del cooperative learning, Animazione Sociale n. 4,1996):

• R. Slavin, S. e M. Kagan, E. Choen(1983): "É un insieme di piccoli gruppi per attività di apprendimento e ricevono valutazioni in base ai risultati conseguiti".

Gli elementi del cooperative learning Come abbiamo detto in precedenza, l'apprendimento cooperativo (Cooperative Learning, CL) è un metodo che coinvolge gli studenti nel lavoro di gruppo per raggiungere un fine comune. Perché il lavoro di gruppo si qualifichi come CL devono essere presenti i seguenti elementi: a. Positiva interdipendenza. I membri del gruppo fanno affidamento gli uni sugli altri per raggiungere lo scopo. Se qualcuno nel gruppo non fa la propria parte, anche gli altri ne subiscono le conseguenze. Gli studenti si devono sentire responsabili del loro personale apprendimento e dell'apprendimento degli altri membri del gruppo . b. Responsabilità individuale. Tutti gli studenti di un gruppo devono rendere conto sia della propria parte di lavoro sia di quanto hanno appreso. Ogni studente, nelle verifiche, dovrà dimostrare personalmente quanto ha imparato. c. Interazione faccia a faccia. Benché parte del lavoro di gruppo possa essere ripartita e svolta individualmente, è necessario che i componenti del gruppo lavorino in modo interattivo, verificando gli uni con gli altri la catena del ragionamento, le conclusioni, le difficoltà e fornendosi il feedback. In questo modo si ottiene anche un altro vantaggio: gli studenti si insegnano a vicenda. d. Uso appropriato delle abilità nella collaborazione. Gli studenti nel gruppo vengono incoraggiati e aiutati a sviluppare la fiducia nelle proprie capacità, la leadership, la comunicazione, il prendere delle decisioni e il difenderle, la gestione dei conflitti nei rapporti interpersonali. e. Valutazione del lavoro. I membri, periodicamente valutano l'efficacia del loro lavoro e il funzionamento del gruppo, e individuano i cambiamenti necessari per migliorarne l'efficienza. Tipologie di gruppi Si distinguono tre tipi di gruppi di apprendimento cooperativo: formali, informali e di base • I gruppi informali la cui durata va dal tempo di una lezione ad alcune settimane, possono essere utilizzati per insegnare contenuti ed abilità anche molto diversi e assicurano il coinvolgimento attivo degli studenti nel lavoro di organizzazione del materiale e di spiegazione, riassunto e integrazione dei nuovi contenuti nelle strutture concettuali esistenti. •I gruppi formali sono gruppi ad hoc la cui durata va da pochi minuti al tempo di una lezione. Si possono usare durante l'insegnamento diretto (in situazioni di lettura, dimostrazione, proiezione di filmati) per focalizzare l'attenzione degli studenti sul materiale da imparare, creare un clima favorevole all'apprendimento, indurre aspettative sugli argomenti che saranno trattati durante la lezione, assicurarsi che gli studenti elaborino cognitivamente il materiale che viene insegnato e chiudere la lezione •I gruppi di base sono gruppi eterogenei a lungo termine (della durata di almeno un anno) con membri stabili che si scambiano il sostegno, l'aiuto, l'incoraggiamento e l'assistenza necessari per apprendere. Nei gruppi di base gli studenti possono instaurare rapporti di collaborazione e personali durevoli e significativi.

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Ruoli all’interno del gruppo L'idea di fondo dell'apprendimento cooperativo consiste nell'ottenere il coinvolgimento attivo degli studenti nel processo di apprendimento. Ogniqualvolta due o più studenti cercano di risolvere un problema o di rispondere ad una domanda, essi entrano in un processo di apprendimento, motivato dalla voglia di conoscere. Interagiscono l'uno con l'altro, condividono idee e nozioni, cercano nuovi dati, prendono decisioni sui risultati delle loro scelte e presentano i risultati all'intera classe. Possono dare o ricevere assistenza dai compagni. Hanno la possibilità di contribuire a strutturare il lavoro della classe formulando suggerimenti sul tipo di lezione e sulle procedure da adottare. E' un livello di responsabilizzazione che non sarebbe possibile conseguire con le lezioni cattedratiche e nemmeno con un dibattito, tenuto da tutta la classe sotto la guida del docente. Inoltre, le ricerche hanno evidenziato che il cooperative learning riduce il livello di violenza in qualsiasi ambiente. Gli studi sull'aggressività sottolineano che questo metodo è in grado di eliminare la paura e il rancore, di esaltare valori quali l'onore, l'amicizia, la qualità, il consenso. UN METODO DI COPERATIVE LEARNING: LA TECNICA DI JIGSAW La tecnica del Jigsaw (o gioco di incastro) è suddivisa in sei fasi operative che ben si prestano alla formulazione di un obiettivo e alla realizzazione di un compito all’interno del contesto classe. - Fase 1: gli studenti si incontrano come gruppo, esaminano i ruoli cooperativi e sono introdotti all’argomento da imparare. - Fase 2: gli studenti formano i gruppi per uno studio cooperativo e apprendono uno dall’altro in modo da poter comunicare agli altri le parti che hanno esaminato. - Fase 3: gli studenti ritornano al loro gruppo di appartenenza e ognuno ha il compito di comunicare a tutti i propri compagni la parte di propria competenza. - Fase 4: nella quarta fase è previsto il lavoro e la prova individuale. - Fase 5: il gruppo originario si rincontra come gruppo cooperativo per una revisione in vista della prova individuale, aiutandosi l’un l’altro e ripassando l’argomento. -Fase 6: Prova finale individuale Partendo infatti dai passi previsti dalla tecnica originaria del Jigsaw, è possibile integrarla con una diversa connotazione di ruoli che agevola e facilita l’assunzione di responsabilità nei confronti del gruppo. Le fasi sopraelencate permettono di trasmettere il proprio sapere agli altri in un rapporto di interdipendenza, di individuare ed assegnare i compiti prestabiliti, di affidare, da parte dell’insegnante, ruoli prestabiliti all’interno dei gruppi quali:

- il leader, - il facilitatore, - il ricercatore, - l’elaboratore,

Il Leader, si assume il ruolo di chi verifica gli obiettivi e l’aderenza al compito assegnato al gruppo, svolge il suo ruolo in forma democratica, ma è responsabile del buon andamento delle azioni di ricerca, studio e confronto; Il Facilitatore si assume il ruolo di chi modera nelle interazioni di gruppo, facilitando il dialogo e permettendo a tutti di parlare in egual misura; Il Ricercatore, colui in capo al quale sta la raccolta dei materiali che poi i singoli soggetti studieranno autonomamente per poterli presentare nei gruppi di esperti. Generalmente sono più di uno, il loro ruolo è fondamentale, possono, su richiesta, essere coadiuvati nella ricerca dagli altri; è in capo a loro l’individuazione delle fonti; L’Elaboratore, è colui che, nel caso di necessità di relazioni scritte, di elaborati plastici o pittorici, si fa carico della composizione finale del lavoro effettuata grazie al contributo di tutti. Nella tavola

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rotonda di preparazione (dopo i gruppi di esperti) ciascuno si esprime circa l’impronta che gli elaboratori debbono dare al lavoro. I ruoli vengono assegnati dall’insegnante, secondo una turnazione fissata precedentemente, dopo aver chiarito cosa implichi ciascun ruolo, i compiti e le responsabilità ad esso connesse. Ruolo del docente In questa strategia di apprendimento, centrata sullo studente, l'insegnante assume la funzione di facilitatore dell'apprendimento”; egli crea in classe un clima che rispetta l'integrità dello studente, che accetta tutti i suoi scopi, le sue opinioni e i suoi atteggiamenti in quanto espressioni legittime del suo schema di riferimento interno. Accetta i sentimenti e gli atteggiamenti emotivi che sono propri di ogni esperienza educativa o di gruppo. Accetta se stesso come membro di un gruppo di apprendimento, piuttosto che come autorità. Mette a disposizione le risorse necessarie all'apprendimento, con la fiducia che esse saranno senz'altro utilizzate se risponderanno ai bisogni del gruppo. Egli ha fiducia nella capacità dell'individuo di discernere il vero dal falso, applicando la propria esperienza vissuta a tali giudizi. Quali vantaggi presenta? Rispetto ad un’impostazione del lavoro tradizionale, la ricerca mostra che il Cooperative Learning presenta di solito questi vantaggi: • Migliori risultati degli studenti: tutti gli studenti lavorano più a lungo sul compito e con risultati migliori, migliorando la motivazione intrinseca e sviluppando maggiori capacità di ragionamento e di pensiero critico; • Relazioni più positive tra gli studenti: gli studenti sono coscienti dell’importanza dell’apporto di ciascuno al lavoro comune e sviluppano pertanto il rispetto reciproco e lo spirito di squadra; • Maggiore benessere psicologico: gli studenti sviluppano un maggiore senso di autoefficacia e di autostima, sopportano meglio le difficoltà e lo stress.

8.4. Mastery Learning E’ un metodo di istruzione che parte dal presupposto che tutti gli studenti possono apprendere se hanno a disposizione appropriate condizioni di apprendimento. In modo particolare, il Mastery learning, tradotto letteralmente "apprendimento per padronanza", richiede agli studenti di seguire un percorso propedeutico in cui non è possibile passare ad una fase più complessa se prima non si è dimostrato di aver acquisito una sufficiente competenza nell'unità di apprendimento in corso.

8.5. La terapia della bambola La terapia della bambola è una terapia non farmacologica innovativa, dedicata a persone affette da problematiche quali demenza, disturbi psichiatrici, disturbi del comportamento o del tono dell'umore. È una strategia terapeutica utile a migliorare il benessere e la qualità di vita, in adulti o minori, in situazioni di difficoltà : facilita il rilassamento e diminuisce gli stati di agitazione. L'impiego di questa terapia aiuta gli operatori nei loro compiti assistenziali e risulta molto utile anche per i familiari che seguono i loro cari a domicilio, poiché la terapia è applicabile sia in ambito residenziale che domiciliare. La terapia consiste nel ricorso all'oggetto bambola, che riveste gradualmente un significato simbolico in grado di aiutare a migliorare il benessere del malato. Le sue azioni possono realizzarsi sia a livello preventivo che di cura, attraverso il supporto alla salute che può derivare da alcuni benefici dell'intervento organizzato sistematicamente e professionalmente, quali:

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o la modulazione di stati d'ansia e di agitazione e delle loro manifestazioni sintomatiche come aggressività , insonnia, apatia o wandering; o la conseguente possibilità di ridurre sensibilmente il ricorso ai sedativi; o la riduzione di condizioni di apatia e depressione caratterizzata da disinteresse ed inattività totale; o la capacità di rispondere ai bisogni emotivi-affettivi che, malgrado il deterioramento cognitivo, rimangono presenti ma non sono più soddisfatti come in età precedenti; o la possibilità di ostacolare il deterioramento di alcuni abilità cognitive e di sostenere l'utilizzo di prassi motorie che fungono da stimolo delle abilità residue. A partire dall'osservazione delle potenzialità di questa terapia, essa può essere considerata un metodo integrativo, piuttosto che alternativo, ma anche uno strumento di riabilitazione in grado di aiutare a ridurre e compensare le compromissioni funzionali degenerative. Da considerare che la terapia della bambola non è per tutti. Più le donne che gli uomini scelgono una bambola da accudire anche se gli studi dimostrano che gli uomini che le hanno utilizzate ne hanno comunque tratto dei benefici, al punto da non volerli escludere da questo tipo di trattamento. In alcuni casi le bambole vengono sostituite con degli "orsetti" o altri animali con ottimi e analoghi risultati.

8.6. Dall’intelligenza emotiva alla didattica affettiva

Il termine intelligenza deriva dal sostantivo latino intelligentìa proveniente, a sua volta, dal verbo latino intelligĕre che significa “capire”. Secondo alcuni, il vocabolo intelligĕre potrebbe essere il frutto di una contrazione tra il verbo latino legĕre, "leggere", e l'avverbio intŭs, "dentro". Chi aveva intelligentĭa era, dunque, qualcuno che sapeva "leggere-dentro", ovvero "leggere oltre la superficie", comprendere davvero le reali intenzioni. Secondo altri, invece, il termine intelligĕre è da considerarsi il risultato della contrazione tra il verbo latino legĕre e la preposizione ĭnter, "tra"; In tal caso avrebbe indicato la capacità di "leggere tra le righe" o la possibilità di stabilire delle correlazioni tra elementi. Howard Gardner (Scranton,11 luglio1943) fu il primo ad “ampliare” il concetto di intelligenza. Egli scrive: “una competenza intellettuale umana deve comportare un insieme di abilità, consentendo all’individuo di risolvere genuini problemi o difficoltà in cui si sia imbattuto e, nel caso, di creare un prodotto efficace; Inoltre deve comportare la capacità di trovare o creare problemi, preparando in tal modo il terreno all’acquisizione di una nuova conoscenza”. (Gardner H., Formae mentis, Feltrinelli, Milano 1993, p. 80.) Per Gardner l’intelligenza:

NON prevede architetture cognitive pre - concettualizzate e/o univoche;

NON può essere considerata come un “fattore unitario” misurabile tramite il Quoziente Intellettivo;

Prevede diverse forme di intelligenza (formae mentis) che NON sono statiche ma che possono essere sviluppate attraverso l’esercizio in quanto caratterizzate da specifiche abilità;

Gardner, quindi, propone un modello di intelligenza complesso, articolato in una pluralità di forme intellettive così schematizzate:

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Intelligenza Linguistica: “la competenza linguistica è, in effetti, l’intelligenza- competenza intellettuale che sembra più ampiamente e più democraticamente condivisa fra gli esseri umani” (Gardner H., Formae mentis, op. cit., p 98).

Intelligenza Logico-Matematica:“questa forma di pensiero può essere ricondotta al mondo degli oggetti. E’infatti nel confrontare oggetti, nell’ordinarli e riordinarli e nello stimare la quantità, che il bambino piccolo consegue la sua conoscenza iniziale e più fondamentale sull’ambito logico-matematico” (Gardner H., Formae mentis, p. 148).

Intelligenza Spaziale:“svolgono una funzione centrale nell’intelligenza spaziale le capacità di percepire il mondo visivo con precisione, di eseguire trasformazioni e modifiche delle proprie percezioni iniziali e di riuscire a ricreare aspetti della propria esperienza visiva, persino in assenza di stimoli fisici rilevanti” (Gardner H., Formae mentis, p. 193).

Intelligenza Corporeo-Cinestesica:“è la capacità di usare il proprio corpo in modi molto differenziati e abili, per fini espressivi oltre che concreti” (Gardner H., Formae mentis, p. 227).

Intelligenza Intra-personale: riguarda “l’accesso alla propria vita affettiva, all’ambito dei propri affetti e delle proprie emozioni: la capacità di discriminare istantaneamente fra questi sentimenti e, infine, di classificarli, di prenderli nelle maglie di codici simbolici, di attingere ad essi come mezzo per capire e guardare il comportamento” (Gardner H., Formae mentis. Saggio sulla pluralità della intelligenza, Feltrinelli, Milano 1983, p. 260).

Intelligenza Inter-personale “è l’abilità di rivelare e fare distinzioni fra individui e, in particolare, fra i loro stati d’animo, temperamenti, motivazioni e intenzioni” (Gardner H., Formae mentis, p. 260).

Intelligenza Naturalistica: consiste nel saper individuare determinati oggetti naturali, classificarli in un ordine preciso e cogliere le relazioni tra di essi. È l' intelligenza tipica di biologi, astronomi, antropologi, medici ed altri.

Intelligenza Esistenziale: rappresenta la capacità di riflettere consapevolmente sui grandi temi dell'esistenza, come la natura dell'uomo, e di ricavare da sofisticati processi di astrazione delle categorie concettuali che possano essere valide universalmente. È tipica dei filosofi e degli psicologi, e in parte anche dei fisici.

Intelligenza Musicale: normalmente è localizzata nell'emisfero destro del cervello, ma le persone con cultura musicale elaborano la melodia in quello sinistro. È la capacità di riconoscere l'altezza dei suoni, le costruzioni armoniche e contrappuntistiche. Chi ne è dotato solitamente ha uno spiccato talento per l'uso di uno o più strumenti musicali, o per la modulazione canora della propria voce. La possiedono prevalentemente i musicisti e i cantanti.

Ciascuna di queste intelligenze opera indipendente dalle altre e si struttura a contatto con determinati sistemi simbolici. Nel 1995,suggestionato dalle ricerche di Gardner, Daniel Goleman pubblicò un volume dal titolo “ Intelligenza Emotiva”. Sostanzialmente Goleman, prendendo in considerazione le diverse forme di intelligenza indicate da Gardner, focalizzò i suoi studi sull’intelligenza Intra -personale (la capacità di relazionarsi con se stessi) e su quella Inter-personale (la capacità di relazionarsi con gli altri). L’intelligenza emotiva Inter-personale consiste:

Nella consapevolezza di sé;

Nell’autovalutazione obiettiva delle proprie capacità e dei propri limiti;

Nella fiducia in se stessi;

Nel riconoscimento delle emozioni negative;

Nella gestione (e non nel controllo) delle emozioni;

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Nella flessibilità e nell’adattabilità;

Nella capacità di alimentare la propria motivazione;

Nell’ottimismo;

Nello spirito di iniziativa;

Nel raggiungimento degli obiettivi. Gardner, essendo un cognitivista, è particolarmente interessato al comportamento dell’intelletto nei diversi ambiti. L’attenzione, dunque, non si concentra sulle emozioni ma su particolari abilità. Al contrario, Goleman argomenta i suoi studi sul concetto di meta-cognizione, vale a dire sulla possibilità di procedere oltre (meta) il pensiero e sul concetto di meta-emozione, cioè sulla capacità di analizzare le emozioni prescindendo dalle sole analisi intellettive. Secondo Goleman, dunque, per essere emotivamente intelligenti, non è necessario possedere un elevato Quoziente Intellettivo, ma è auspicabile possedere un buon Quoziente Emotivo che sia il risultato delle diverse e soggettive esperienze di vita. Nella prefazione all’edizione italiana Goleman scrive: “Ho scritto Emotional Intelligence in un momento in cui la società civile americana si dibatteva in una crisi profonda, caratterizzata da un netto aumento della frequenza dei crimini violenti, dei suicidi e dell’abuso di droghe – soprattutto tra i giovani. Il mio consiglio per guarire questi mali sociali era di prestare una maggiore attenzione alla competenza sociale ed emozionale nostra e dei nostri figli, e di coltivare con grande impegno queste abilità del cuore. [ …] Oggi è proprio la neuroscienza che sostiene la necessità di prendere molto seriamente le emozioni. Le nuove scoperte scientifiche sono incoraggianti. Ci assicurano che se cercheremo di aumentare l’autoconsapevolezza, di controllare più efficacemente i nostri sentimenti negativi, di conservare il nostro ottimismo, di essere perseveranti nonostante le frustrazioni, di aumentare la nostra capacità di essere empatici e di curarci degli altri, di cooperare e di stabilire legami sociali – in altre parole, se presteremo attenzione in modo più sistematico all’intelligenza emotiva – potremo sperare in un futuro più sereno.” L’intelligenza emotiva è, dunque, la capacità di percepire, di identificare e di ri-conoscere, nello stesso momento in cui sorgono, le emozioni proprie ed altrui. Parlare di intelligenza emotiva significa, indubbiamente, fare riferimento alle emozioni. Ma cosa sono le emozioni? Cosa intendiamo per “emozione”? Tutti sanno intuitivamente cos’è un’emozione, ma trovare una definizione appropriata non è semplice. Concordemente potremmo dire che l’emozione è un insieme di modificazioni fisiologiche, cognitive e comportamentali in risposta ad uno stimolo percepito come importante. Gli stimoli che possono dar luogo a uno stato emotivo sono di due tipi: esogeni ed endogeni. Nel caso dello stimolo esogeno, l’emozione nasce dalla percezione di uno stimolo esterno. Nel secondo caso, l’emozione nasce dall’interno, dalla nostra mente. Più correttamente potremmo definire l’emozione come un costrutto psicologico complesso che comprende diverse componenti:

Attivazione fisiologica: il sistema nervoso autonomo e il sistema endocrino producono una risposta/reazione fisiologica;

Esperienza affettiva soggettiva: legata al vissuto dell’individuo;

Processi cognitivi: situazione-stimolo;

Predisposizione all’azione: cioè la componente motivazionale;

Risposte espressivo - motorie: comportamenti verbali e non verbali;

Regolazione sociale e culturale delle emozioni. E’ chiaro che le emozioni non sono qualcosa di statico e di immutabile, ma costituiscono la dimensione più intima ed interiore di una persona su cui è possibile esercitare un’influenza.

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Ma le emozioni non si limitano ad essere un dominio da controllare, non sono soltanto flussi affettivamente carichi che possono degenerare in manifestazioni psicosomatiche” (Freud, 1992) Parlando di “emozione” come “qualcosa che muta, che cambia” risulta inevitabile la connessione al termine “educazione” perché “Educazione significa sempre cambiamento. Se non ci fosse niente da cambiare, non ci sarebbe niente da educare.” (L.S. Vygotskij)

8.7. Dall’emozione alla metaemozione Riguardo la possibilità di comprendere le proprie emozioni, negli ultimi vent’anni è emerso un altro concetto chiave: la META-EMOZIONE. Parlare di meta-emozione significa avere consapevolezza delle proprie emozioni, comprenderle e di conseguenza comprendere anche quelle altrui. Essa è quindi una COMPETENZA EMOTIVA. Parlare di meta-emozione significa avere consapevolezza delle proprie emozioni, comprenderle e si conseguenza comprendere anche quelle altrui. Lo sviluppo della consapevolezza delle proprie emozione, e quindi la riflessione emotiva, nei bambini avviene per stadi:

Primo stadio: si sviluppa nella prima infanzia. Il bambino comincia ad essere in grado di riconoscere le emozioni sulla base di componenti “esterne”: mimica facciale, movimenti del corpo.

Secondo stadio (tra i 4 e i 7 anni): cominciano ad emergere le componenti “interne”. La comprensione delle emozioni da parte del bambino comincia ad assumere un carattere sempre più “mentalistico”. Il bambino comincia a comprendere che le emozioni dipendono dai desideri e quindi sono controllabili.

Terzo stadio (dagli 8 anni in poi): emergono le componenti riflessive. Il bambino comincia a capire che dietro ogni emozione c’è un’azione morale.

Lo sviluppo della competenza emotiva riconosce l’influenza delle caratteristiche del bambino ma anche dell’ambiente sociale, prima quello più vicino a lui (la famiglia) e poi la scuola. La scuola è quindi chiamata a favorire lo sviluppo della competenza emotiva e a promuoverla. “La competenza emotiva si rivela quando un bambino cerca conforto nel grembo di un genitore quando viene sorpreso da un estraneo troppo amichevole. Si riflette nella capacità dei bambini di 9 anni di rispondere alle provocazioni di un pari in modo tale da mantenere l’amicizia o comunque sollecitare l’assistenza di altri pari. [...] La competenza emotiva si rivela nella capacità di un adolescente di rispondere in maniera appropriata quando apre un regalo che non gli piace. [...] La competenza emotiva è, in breve, l’efficacia nel realizzare traguardi adeguati nelle situazioni emotive che ci circondano” (R. Thompson)

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8.8. Intelligenza emotiva e competenza emotiva: quali differenze? L’intelligenza emotiva riguarda l’abilità di percepire accuratamente, valutare ed esprimere le emozioni, l’abilità di accedere e di generare sentimenti, l’abilità di regolare le emozioni. Focalizza l’attenzione sull’individuo, come singolo, sull’IO e su come esso si relaziona agli altri. La competenza emotiva, invece, focalizza l’attenzione sulle emozioni nel contesto sociale, sull’autoefficacia e sul senso morale. L’articolo “Emotional Intelligence” di Peter Salovey e John Mayer, uscito nel 1990 sulla rivista Immagination, Cognition and Personality, è stato un punto di riferimento per gli studi in campo di intelligenza emotiva. Essi la definivano «come il sottosettore dell’intelligenza sociale che include l’abilità di controllare i sentimenti e le emozioni proprie e altrui, di discriminare tra di esse e di usare queste informazioni per guidare il proprio pensiero e le proprie azioni» Salovey e Mayer evidenziavano la funzione ADATTIVA delle emozioni: esse aiutano l’individuo a trasformare esperienze personali e sociali in esperienze arricchenti. Sulla scia di Salovey e Mayer, Daniel Goleman ha sviluppato una sua definizione di intelligenza emotiva, tenendo conto del rapporto tra Intelligenza Emotiva e ambiente, ma ha messo l’accento soprattutto sulla relazione tra Intelligenza Emotiva e benessere socio-psico-fisico dell’individuo. L’intelligenza emotiva è la capacità di motivare se stessi, di persistere nel perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni, di controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione, di modulare i propri stati d’animo evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare; l’intelligenza emotiva è la capacità di essere empatici e di sperare. E’ possibile allora EDUCARE ALLE EMOZIONI? Nelle Indicazioni Nazionali compare, prevista per tutti i livelli di istruzione, all’interno degli obiettivi specifici di apprendimento per l’educazione alla convivenza civile, l’educazione all’affettività. Dunque la scuola può e “deve” educare alle emozioni che rientrano nell’ambito dell’affettività. Parliamo quindi di DIDATTICA AFFETTIVA. Nel nostro agire educativo - didattico quotidiano, qualunque siano gli obiettivi da raggiungere, dobbiamo muoverci sempre su quattro piani: la relazione con l’alunno, la dimensione affettiva (delle emozioni, degli stati d’animo, dei sentimenti), la dimensione didattica (organizzata in concrete attività orientate da una metodologia) e la gestione delle dinamiche di comunicazione e mediazione didattica rispetto all’apprendimento di obiettivi specifici.

8.9. La qualità della relazione insegnante – alunno Una relazione buona e significativa è la cornice indispensabile di ogni attività di sviluppo e apprendimento e lo è ancora di più se l’alunno presenta qualche difficoltà. Se la relazione è carente o disturbata, anche gli altri livelli di azione sono compromessi, e il disagio che si crea può portare allo sviluppo di disturbi o problemi anche gravi. Un insegnante e un bambino che ridono insieme, o un maestro che coglie un momento di frustrazione del bambino e gli si avvicina con in mano il pezzo che gli manca per completare il puzzle, sono esempi di aspetti quotidiani di interazione che si definisce positiva intrinseca, in quanto genera benessere psicologico, e positiva strumentale in quanto risulta anche utile per raggiungere determinati scopi. In molti casi, però, non è facile instaurare una “buona” relazione con un bambino che presenta una disabilità, soprattutto intellettiva. Si potrebbe però agire su tre leve:

Accettazione incondizionata: accetto l’altro al di là delle sue capacità, competenze, stato di salute, età, comportamento. L’altro vale in sé , non rappresenta un valore positivo per me solo se cambia, se apprende, se procede verso i miei obiettivi attraverso i miei interventi;

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Ascolto attivo ed empatia: non è semplice porsi in ascolto attivo delle comunicazioni, di un bambino con disabilità specie se grave; spesso ci sembra di non capire, o di capire troppo, tanto che i suoi tentativi di comunicazione ci appaiono quasi superflui. L’ascolto attivo è fatto invece di attesa, di silenzio, per permettere la comunicazione dell’altro, ma anche sforzo per costruire un significato condiviso che non è quello che ho capito io, ma quello che tu hai voluto dirmi. Nel caso di alunni con disabilità fondamentale risulta la nostra apertura a molti e vari linguaggi espressivi, sia verbali che del corpo, anche dei comportamenti apparentemente non comunicativi.

A proposito di empatia, Gottman e Declaire scrivevano: “Ecco come funziona l’empatia. Quando cerchiamo di comprendere l’esperienza dei nostri figli, essi si sentono appoggiati da noi. Sanno che siamo dalla loro parte. Quando evitiamo di criticarli, sminuendo i loro sentimenti o cercando di distrarli dai loro reali obiettivi, ecco che ci permettono di entrare nel loro mondo. Ci dicono come si sentono, ci offrono le loro opinioni..”

Proattività, stimolo, aiuto, accompagnamento, azione orientata: Maria Montessori suggeriva di ascoltare il duplice bisogno di ogni persona: ‘’aiutami a fare da solo’’, cioè “dammi sostegno, ma stimola anche la mia autonomia. Stammi vicino quando ho bisogno, ma insegnami anche a conoscere da solo”.

8.10 La dimensione affettiva: attenzione continua alle emozioni, agli stati d’animo e ai sentimenti La vita scolastica quotidiana è ricca di emozioni e di stati d’animo, di atteggiamenti carichi di affettività e dovrebbe esserlo anche di sentimenti. Relazionarsi con i compagni, collaborare o scontrarsi, discutere, fare e disfare amicizie e legami, vivere relazioni anche intense con adulti, è vita affettiva. Ma è vita affettiva anche apprendere, scoprire, insegnare se si connotano queste fasi di “cura affettiva”. Le fasi in cui c’è una maggiore necessità di attenzione, ascolto e soprattutto osservazione (a proposito di questo, il geniale psicoterapeuta Milton Erickson riteneva che la competenza clinica più importante fosse proprio l’osservazione, e questo è vero anche per l’insegnante perché alcuni segni della vita affettiva sono esili, nascosti quasi, ma osservando bene si possono cogliere nello sguardo, nella postura, nelle parole dette e in quelle taciute) sono tre e riguardano:

l’inizio dell’attività, quando in seguito ad un input iniziale si manifestano paure come quella di non essere all’altezza delle difficoltà, o preoccupazione per il cambiamento rispetto alla situazione precedente di cui si conoscevano già difficoltà e rischi. In questa situazione si ha un gran bisogno di ricevere aiuto.

Il cuore dell’apprendimento in cui i sentimenti possono darci l’energia per non mollare, per continuare a voler elaborare, per voler raggiungere un risultato per noi, per i compagni, per l’insegnante, per la famiglia;

Il prodotto finale in cui l’affettività è fortemente coinvolta perché l’azione di chi apprende incontra il feedback dato dall’adulto che commenta, corregge, approva, condanna, ecc. In alcuni casi l’alunno con Bisogni Educativi Speciali attende con molta ansia il nostro feedback, che lascerà un segno affettivo. Dare feedback affettivamente corretti non è semplice, ma quando l’alunno ha finito e ci guarda, ci sta chiedendo un’assunzione di responsabilità diretta sia sul piano dell’apprendimento, che su quello della dimensione affettiva.

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Inoltre mentre ottiene il giusto feedback dovrebbe ricevere anche un insegnamento affettivo su come gestire il suo stato d’animo ed eventualmente la sua emozione: ad esempio la delicatezza di dover dare (e ricevere) un feedback negativo che corregga efficacemente l’azione sbagliata senza mortificare, deprimere o suscitare reazioni di rabbia. Un feedback intenso dal punto di vista emotivo lavora meglio, consolida meglio le tracce di memoria, rende più solido e profondo il processo mentale che ha portato a quell’azione, quindi aiuta ad apprendere.

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L’intero elaborato è stato prodotto dagli studenti del 2° anno del Corso di laurea in Scienze della Formazione primaria AA 2014/2015 attraverso il sistema della Flipped Classroom, lavorando in Cooperative learning e costituendo a principio i seguenti gruppi: Rainbow: Cascone Clorinda Manzo Francesca Milone Antonietta Nido Roberta Porzio Vincenza Nuovi Orizzonti: Cesarano Maria Faraone Giusy Carmen Genovese Francesco Maria Malvone Maria Rosaria Rubino Rosina Smile: Adamo Sabrina Esposito Colomba Furno Federica Somma Annamaria Sorgente Alessia #APPOGGIATIAME: D’Auria Maria Izzo Roberta Marino Amalia Paladino Valeria Santoli Noemi #HAPPYHAND…: Apadula Alessandra Di Dio Noemi Dura Ilenia Muoio Chiara Sorrentino Nunzia Gaia: Ambrosio Angela De Luca Ida Fabbrocini Giuseppina Pagano Anna Taulario Gabriella

Give me five: Adinolfi Giovanna Battipaglia Rosa Bianco Anna Cipolletta Consiglia De Rosa Roberta BESpecial: Borgese Antonio Carafa Davide D’Angelo Angelo La Regina Elena Vingo Rossella The Stars: D’Alessio Nunziata De Filippis Giuseppina Leo Marta Rocco Annarita Santorsa Ilaria Senatore Giuseppina Venerdì 17: Abbate Ornella Eliseo Maria Rosaria Ferrara Mariella Garofalo Marialuisa Russo Elena Smile: Benguardato Laura Ferraiuolo Romina Troisi Margherita Valletta Antonella Zampetti Raffaella Cheir Unisa: Cascone Mariachiara Ceruso Valeria Costanzo Lucia Travino Concetta Travino Roberta

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Light Heart: Annunziata Tonia Casillo Maria Fusco Alessia Giannone Vincenza Prisco Mafalda Las Estellas: Morales Beatrix Perretti Anastasia Polcaro Palma Stella Romano Fosca Villani Maria Antageroma: Caputo Tania Comune Andreana De Sarno Maria Liquidato Rossella Silverio Gerarda 5 Sfumature di Pedagogie: Di Mauro Ylenia Esposito Rossella Libero Morena Longo Marisa Mascolo Sara Le ali della Vita: Cesarano Angela D’Avanzo Elisabetta De Filippo Adriana Gambacorta Ida Lippiello Francesca Special Group: Castorina Antonella Del Prete Angela Lamberti Stefania Parisi Giuseppina Ponticelli Angela Stelle sulla terra: Cortese Monica Grimaldi Maria Rosaria Odore Maria Giovanna Rondinelli Antonia Santillo Anna

True Colors: Auriemma Luigia Cozzolino Maddalena Donniacuo Francesca Iorio Maria Pia Mauro Roberta Nomys: Avigliano Olga Casanova Nicoletta Di Gregorio Ylenia Noemi Lamberti Samantha Luciano Mariagrazia Union: D’Aniello Cristina Di Carluccio Carolina Ricciardi Maria Salzillo Raffaella Varricchi Alessia Delfine: Conforti Annalisa Coppola Marianna D’Albero Santina Ferrari Alessandra Rizzo Delia LiberaMENTE: De Prisco Antonia Gaeta Carmen Morena Simona Senatore Simona Terlizzo Tania Sun: Borrelli Antonella Esposito Luana Migliaccio Ferma Pappacena Marta Paoli Mariarosaria Sammartino Manuela

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“Paideia” Aragosa Anna Nazzaro Caterina Passariello Antonella Pellegrino Cristina Sabbatella Carmen #NOPROBLEM: Febbraro Marta Giorleo Maria Marino Giusi Petrella Patrizia Supino Maria Rosaria Le ali della vita: Cecere Carmela De Masi Mariassunta Di Carluccio Marialuisa Napolitano Rossella Rambaldo Maria Giovanna Equal in diverisity: Garofalo Carolina Garofalo Roberta Graziano Ilaria Graziano Maria Marika Navarra Olimpio Erika

Imperial Sushi Wok: Criscuolo Maria D’Amato Apollonia Grazioso Maria Rita Murino Raffaele Scarpa Vincenza Bambino Felice: Forlenza Concetta Mancini Cristina Meccariello Giulia Napodano Antonio Noviello Armando Gruppo Nocera: Buffardi Annachiara Celotto Annachiara Manfredonia Assunta Perotti Giulia Ruggiero Francesca Ruggiero Rossana Inclusione speciale: Altamura Olimpia Roberta Iorio Carmela Lucia Giuseppe Mannetta Rocco Romano Libero Simona

GMPVZ: Giannattasio Francesca Marino Marta Pacifico Alfonsina Viggiani Arianna Zarone Sara Queen: Cesarano Angela D’Avanzo Elisabetta De Filippo Adriana Gambacorta Ida Lippiello Francesca PETER PAN: De Benedictis Valentina Liguori Anna Laura Miranda Roberta Siano Mariagiovanna

Vangone Rita