82
11.1 11. CRITERI DI RESISTENZA La verifica di resistenza ha lo scopo di stabilire se lo stato tensionale dell'elemento strutturale analizzato è tale da provocarne il cedimento inteso come rottura o snervamento. Il problema fondamentale è quello mettere in relazione i parametri critici del materiale, la tensione di snervamento s s o quella di rottura s r , ottenuti con le semplici prove monoassiali di trazione o compressione, con la resistenza dell'elemento soggetto ad uno stato di tensione in genere biassiale o triassiale. A questo scopo, sulla base delle osservazioni sperimentali basati sul meccanismo fisico con cui il materiale giunge allo stato limite, sono state sviluppate diverse teorie che prendono il nome di criteri di resistenza. In particolare, i criteri di resistenza forniscono delle combinazioni delle tensioni effettivamente agenti (principali o cartesiane), dette tensioni equivalenti, ( s ss s e f = 1 2 3 , , o ( s s s s t t t e x y z xy yz zx g = , , , , , (11.1) che possono essere confrontate con le tensioni di snervamento e rottura del materiale. Per molti criteri la tensione equivalente dipende solo dalle tensioni principali massima e minima. Per ciascun un criterio di resistenza, il cedimento in un punto della struttura si verifica se la tensione equivalente raggiunge il valore limite di rottura o snervamento, cioè se: s s e l = con l=s,r. (11.2) Nella pratica, salvo casi particolari, le strutture sono progettate affinché le tensioni massime agenti si mantengano sufficientemente al di sotto di quelle critiche. Si definisce tensione ammissibile una frazione opportuna della tensione che provoca il danneggiamento. La definizione si ottiene introducendo un fattore n>1 come segue: s s amm l n = (11.3) Il valore n è detto coefficiente di sicurezza e il suo valore (tipicamente 1.3n2, in alcuni casi n=4) è imposto da normative o scelto dal progettista in base a considerazioni riguardanti: l'incertezza sull'entità del carico e sulla modalità di applicazione (urti, sollecitazioni di montaggio e trasporto), l'incertezza sulle proprietà del materiale (proprietà iniziali, variazioni dovute alla lavorazione, usura e temperatura in esercizio), l'imprecisione del modello matematico per il calcolo delle tensioni (uso di teorie semplificate), la possibile presenza di altre tensioni (dovute alla lavorazione o al montaggio), pericolosità del cedimento, costo. Per verificare se un elemento di geometria nota è in condizione di sicurezza, si calcola il valore della tensione equivalente e si confronta con la tensione ammissibile tramite una disequazioni di questo tipo: s s e amm (11.4) Questo tipo di calcolo è detto di verifica. In alcuni casi è possibile scrivere la s e in funzione di un parametro geometrico della struttura (D) e ricavare quest'ultimo imponendo che la s e eguagli il valore ammissibile: ( s s e amm D = (11.5) Questo tipo di calcolo è detto di progetto. Teoria della massima tensione normale o di Rankine-Navier Questa teoria afferma che il cedimento si verifica quando la massima tensione principale agente eguaglia la tensione di snervamento o la tensione di rottura del materiale. In pratica solo la massima tensione principale produce il cedimento e le altre possono essere trascurate. Siano s st e s sc rispettivamente le tensioni di snervamento in trazione e in compressione e s rt e s rc le analoghe tensioni di rottura tutte considerate con il segno appropriato (negativo per quelle di compressione): se s 1 è la maggiore delle tensioni principali e s 3 la minore, il cedimento per snervamento o rottura avviene quando: s s 1 = lt o lc s s = 3 (se s 3 <0) l=s,r. (11.6a,b) Introducendo il rapporto tra le tensione limite a trazione e a compressione r lc lt r s s = (11.7)

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11.1

11. CRITERI DI RESISTENZA

La verifica di resistenza ha lo scopo di stabilire se lo stato tensionale dell'elemento strutturale analizzato è tale daprovocarne il cedimento inteso come rottura o snervamento.

Il problema fondamentale è quello mettere in relazione i parametri critici del materiale, la tensione disnervamento σs o quella di rottura σr, ottenuti con le semplici prove monoassiali di trazione o compressione, con laresistenza dell'elemento soggetto ad uno stato di tensione in genere biassiale o triassiale.

A questo scopo, sulla base delle osservazioni sperimentali basati sul meccanismo fisico con cui il materialegiunge allo stato limite, sono state sviluppate diverse teorie che prendono il nome di criteri di resistenza. Inparticolare, i criteri di resistenza forniscono delle combinazioni delle tensioni effettivamente agenti (principali ocartesiane), dette tensioni equivalenti,

( )σ σ σ σe f= 1 2 3, , o ( )σ σ σ σ τ τ τe x y z xy yz zxg= , , , , , (11.1)

che possono essere confrontate con le tensioni di snervamento e rottura del materiale. Per molti criteri la tensioneequivalente dipende solo dalle tensioni principali massima e minima.

Per ciascun un criterio di resistenza, il cedimento in un punto della struttura si verifica se la tensione equivalenteraggiunge il valore limite di rottura o snervamento, cioè se:

σ σe l= con l=s,r. (11.2)

Nella pratica, salvo casi particolari, le strutture sono progettate affinché le tensioni massime agenti simantengano sufficientemente al di sotto di quelle critiche. Si definisce tensione ammissibile una frazione opportunadella tensione che provoca il danneggiamento. La definizione si ottiene introducendo un fattore n>1 come segue:

σσ

amml

n= (11.3)

Il valore n è detto coefficiente di sicurezza e il suo valore (tipicamente 1.3≤n≤2, in alcuni casi n=4) è imposto danormative o scelto dal progettista in base a considerazioni riguardanti:• l'incertezza sull'entità del carico e sulla modalità di applicazione (urti, sollecitazioni di montaggio e trasporto),• l'incertezza sulle proprietà del materiale (proprietà iniziali, variazioni dovute alla lavorazione, usura e

temperatura in esercizio),• l'imprecisione del modello matematico per il calcolo delle tensioni (uso di teorie semplificate),• la possibile presenza di altre tensioni (dovute alla lavorazione o al montaggio),• pericolosità del cedimento,• costo.

Per verificare se un elemento di geometria nota è in condizione di sicurezza, si calcola il valore della tensioneequivalente e si confronta con la tensione ammissibile tramite una disequazioni di questo tipo:

σ σe amm≤ (11.4)

Questo tipo di calcolo è detto di verifica.In alcuni casi è possibile scrivere la σe in funzione di un parametro geometrico della struttura (D) e ricavare

quest'ultimo imponendo che la σe eguagli il valore ammissibile:

( )σ σe ammD = (11.5)

Questo tipo di calcolo è detto di progetto.

Teoria della massima tensione normale o di Rankine-NavierQuesta teoria afferma che il cedimento si verifica quando la massima tensione principale agente eguaglia la tensionedi snervamento o la tensione di rottura del materiale. In pratica solo la massima tensione principale produce ilcedimento e le altre possono essere trascurate.

Siano σst e σsc rispettivamente le tensioni di snervamento in trazione e in compressione e σrt e σrc le analoghetensioni di rottura tutte considerate con il segno appropriato (negativo per quelle di compressione): se σ1 è lamaggiore delle tensioni principali e σ3 la minore, il cedimento per snervamento o rottura avviene quando:

σ σ1 = lt o lcσσ =3 (se σ3<0) l=s,r. (11.6a,b)

Introducendo il rapporto tra le tensione limite a trazione e a compressione r

lcltr σσ= (11.7)

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11.2

che, si noti, è un numero negativo, le (6) possono essere sintetizzate come segue:

ltr σσσ =31 ,max (11.8)

La (8) consente di definire una tensione equivalente da confrontare con la sola tensione ammissibile a trazioneσamm=σlt/n come segue:

31 ,max σσσ re = (11.9)

Considerando tensioni principali non ordinate, ma tali che σ1 e σ3 siano lamassima e la minima o viceversa, nel piano σ1-σ3, gli stati di tensione limiteespressi dalle (6) sono rappresentati da un quadrato (vedi fig.1). Questarappresentazione può essere utilizzata anche in caso di stato di tensione biassialecon σ2=0. Se le tensioni sono ordinate (σ1>σ3) l’area segnata in grigio nellafigura (per la quale sarebbe σ1<σ3) non deve essere considerata.

Nello stato di tensione tangenziale puro, rappresentato dalla linea tratto-puntoin fig.1, si ha σ1=-σ3 con τmax=(σ1-σ3)/2=(σ1+σ1)/2=σ1. Applicando il criterio diNavier (6) a questo caso si ottiene che il cedimento si verifica quando σ1=σs cuicorrisponde τmax=(σs+σs)/2=σs. Dati sperimentali mostrano che questaeventualità può essere considerata realistica per i materiali fragili, mentre nelcaso di materiali duttili lo snervamento si verifica per valori della tensionetangenziale molto minori.

Nel piano σn-τn ciascuno stato di tensione è rappresentato mediante i 3cerchi di Mohr di cui quello esterno è relativo al piano in cui agiscono letensioni principali più elevate in modulo. In fig.2, ad esempio, sono riportatiin linea tratteggiata, i cerchi limite a trazione e compressione semplice e conlinea punteggiata il caso di σ1=σlt e σ2=σlc. In particolare, per il criterio diNavier, gli stati di tensione limite sono rappresentati da cerchi di Mohrtangenti alle rette parallele all'asse τ aventi equazione σ=σlt e σ=σlc mostratein fig.2. Sul piano di Mohr è possibile definire una curva limite datadall’inviluppo di tutti i cerchi di Mohr che rappresentano stati di tensionelimite. Per il criterio di Navier tale curva limite è la circonferenza tangentealle rette σ=σlt e σ=σlc rappresentata con linea punteggiata in figura.

Questo criterio:• può essere utilizzato per materiali con comportamento non simmetrico,

tipicamente fragili, per prevedere la rottura σlt=σrt, σlc=σrc,• è spesso in contrasto con i dati sperimentali, risultando eccessivamente conservativo, nelle zone dove le tensioni

σ1 e σ3 sono di segno discorde e la tensione di compressione è la maggiore in valore assoluto,• considera solo le tensioni massime in valore assoluto, trascurando l'effetto di quelle intermedia e minima,• indica che la tensione tangenziale di snervamento è pari a σs,• fallisce nel caso di compressione idrostatica pari a -σs prevedendo il cedimento.

Teoria della massima tensione tangenziale o TrescaQuesta teoria afferma che il cedimento (per snervamento) si verifica quando lamassima tensione tangenziale nell’elemento diviene uguale alla massimatensione tangenziale nel provino di trazione al momento dello snervamento. Sisuppone che la crisi del materiale sia dovuta alla sola tensione tangenziale. E'una teoria facile da usare ed è spesso in accordo con i risultati sperimentali; essaè usata per predire lo snervamento ed è quindi valida per i materiali duttili. In unprovino soggetto a trazione semplice la tensione tangenziale massima allosnervamento è data da:

( ) sss σστ21

21 0 =−= (11.10)

Per uno stato generale di tensione le tensioni di taglio massime agenti neipiani principali sono date da

( )jiij σστ −=21 jiji ≠= ;3,2,1, (11.11)

Lo snervamento si verifica quando τmax=τs, cioè, considerando tensioni principali non ordinate,

( ) sji σσσ21

21max =− , (11.12)

σ1

σ3

σst

σst

σsc

σsc

σst

Fig.11.1 - Criterio di Navier nel piano σ1−σ3 (τραττεγγιατο περ σst= σsc) .

σ1

σ2

σs

σs

σs

σs

σs/2

Fig.11.3 - Criterio di Tresca.

τn

σnO

Fig.11.2 – Rappresentazione del criterio di Navier nel piano di Mohr.

σlc σlt

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11.3

nella quale || significa valore assoluto, da cui:

sji σσσ =−max jiji ≠= ;3,2,1, . (11.13)

La tensione equivalente è da confrontare con σamm=σs/n è data da

jie σσσ −= max jiji ≠= ;3,2,1, . (11.14)

Nel caso biassiale con σ3=0 e tensioni agenti nel piano 1-2 la (14)diventa

( )2121 , ,max σσσσσ −=e (11.15)

In questa espressione si nota che la massima tensione tangenziale nelcaso piano è quella agente nel piano 1-2 solo se le tensioni σ1 e σ2 sono disegno opposto.

La fig.3 mostra una rappresentazione grafica degli stati limite descrittidalle (15) nel piano σ1-σ2. Nello spazio σ1, σ2 e σ3 con le tensioni nonordinate, le (13) sono le equazioni dei piani di un esagono avente per asse disimmetria la trisettrice degli assi.

Nel piano σn-τn (fig.4) gli stati di tensione limite sono rappresentati dacerchi tangenti alle rette parallele all'asse σ aventi equazione: τ=±σs/2. Lecurva limite è rappresentata dalle stesse rette di equazione τ=±σs/2.

Questo criterio:• considera solo le tensioni massima e minima, trascurando l’effetto di quella intermedia,• indica che la tensione tangenziale di snervamento è pari alla metà di σs (eq.10),• vale per materiali con comportamento simmetrico, tipicamente duttili,• fallisce nel caso di trazione tripla pari a σs prevedendo la resistenza.

La teoria dell'energia di distorsione o di Von Mises-HenckyQuesta teoria afferma che lo snervamento del materiale si verifica quando l'energia di deformazione immagazzinataraggiunge un valore critico. Tale valore può essere determinato con la prova di trazione ed è pari all’energia dideformazione relativa alla tensione monoassiale di snervamento. Essa è meno semplice da utilizzare rispetto allateoria della massima tensione tangenziale, ma per i materiali duttili è quella che dà i risultati più aderenti allesituazioni reali. Questa teoria può essere impiegata solo per definire il campo di snervamento. Essa prende originedall'osservazione che i materiali duttili caricati idrostaticamente (tensioni principali di uguale valore e segno), per iquali lo stato tensionale provoca localmente una variazione di volume, ma non di forma, hanno una resistenza allosnervamento superiore rispetto al valore ottenuto dalle semplici prove di trazione.

Per ottenere il criterio di Von Mises si determina il lavoro di distorsione Ud come differenza tra il lavoro totale Ue quello che provoca una variazione di volume Uv e lo si confronta con quello relativo al caso di trazione semplice.

Valutazione del lavoro di distorsioneLa valutazione del lavoro di distorsione si effettua nei seguenti passi:• si valuta il lavoro di deformazione totale U,• si calcola la tensione media σm agente e si valuta il lavoro da essa compiuto Uv,• il lavoro di distorsione si valuta come differenza Ud=U-Uv.

Il lavoro per unità di volume compiuto dalle tensioni principali è dato da:

U iii i= =

σ ε2

1 2 3 dove , , ; (11.16)

sostituendo ε mediante la legge di Hooke, l'energia totale di deformazione totale è:

( )[ ]U U U UE

= + + = + + − + +1 2 3 12

22

32

1 2 1 3 2 3

12

2σ σ σ ν σ σ σ σ σ σ . (11.17)

La sollecitazione agente sul cubetto unitario in ciascuna direzione può essere considerata come la somma di unatensione media, definita come

σσ σ σ

m =+ +1 2 3

3, (11.18)

τν

σν

Fig.11.4 – Rappresentazione del criterio di Tresca nel piano di Mohr.

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11.4

e della tensione ∆σi (i=1,2,3) data dalla differenza tra la tensione effettivamente agente e la tensione media stessa,cioè ∆σ σ σi i m= − . E' evidente che la σm provoca solo una variazione di volume dell'elemento mentre le ∆σi

producono la distorsione di forma del cubetto.L'energia di deformazione dovuta alla sola variazione di volume si ottiene sostituendo alle tre tensioni principali

la componente media:

[ ] ( ) ( ) ( )2321

222

621

32

2163

21

σσσν

σν

νσσ ++−

=−

=−=EEE

U mmmv (11.19)

ovvero:

( )[ ]UEv =

−+ + + + +

1 26

212

22

32

1 2 1 3 2 3

νσ σ σ σ σ σ σ σ σ (11.20)

L'energia di distorsione si ottiene eseguendo la differenza tra U e Uv:

( )[ ]32312123

22

213

1σσσσσσσσσ

ν++−++

+=−=

EUUU vd ; (11.21)

si noti che l'energia di distorsione è zero se σ1=σ2=σ3.

Lavoro di distorsione nel caso di trazione sempliceNel caso della prova di trazione, allo snervamento si ha σ1=σs, σ2=σ3=0, da cui l'energia di distorsione risulta:

UEd s=

+13

2νσ (11.22)

Determinazione del criterioEguagliando le eq.(21) e (22) si ottiene

( ) 2313221

23

22

21 sσσσσσσσσσσ =++−++ (11.23)

dalla quale si deriva la condizione limite allo snervamento:

( ) sσσσσσσσσσσ =++−++ 31322123

22

21 (11.24)

Tensioni equivalentiLa relazione (24) permette di definire la tensione equivalente (detta di Von Mises) per lo stato di tensione triassialeda confrontare con quella ammissibile:

( )31322123

22

21 σσσσσσσσσσ ++−++=e ( ) ( ) ( )2

312

322

212

1 σσσσσσ −+−+−= . (11.25)

Due stati tensionali definiti da diversi valori delle componenti del tensore degli sforzi, ma aventi lo stesso valoredella σe data dalla (25) sono equivalenti ai fini dell'energia di deformazione (e quindi dello snervamento).

La (25) può essere riscritta per un sistema di assi non principale e fornisce:

( ) ( )222222 3 zxyzxyyzzyyxzyxe τττσσσσσσσσσσ +++++−++= (11.26)

Per stato tensionale piano con σ3=0 la (25) si trasforma in

2221

21 σσσσσ +−=e (11.27)

e la (26) a sua volta diventa

222 3 xyyxyxe τσσσσσ +−+= (11.28)

Le espressioni (25-28) possono essere utilizzate mediante le relazioni (4) e (5) per fini di verifica o progettotenendo conto che la σl che può essere inserita è solo quella di snervamento. Sostituendo nelle (25-28) σs al posto diσe si ottengono le situazioni limite per i vari casi di stato tensionale. Nel caso di stato di tensione puramentetangenziale con σ1=τ e σ2=- σ1, utilizzando la (28), allo snervamento si ottiene:

ss στ 577.0= . (11.29)

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11.5

La (29) può essere ottenuta utilizzando anche la (28) che in questo caso si riduce a sxy στ =23 . Il confronto con

l'analoga relazione ottenuta con la teoria della massima tensione tangenzialemostra che il criterio dell'energia di distorsione indica una resistenza allosnervamento a taglio apprezzabilmente più alta (del 15.4%).

Nello spazio σ1-σ2-σ3 l'eq. (24) rappresenta un cilindro avente per asse latrisettrice degli assi di riferimento. Nel piano σ1-σ2 (con σ3=0) la sua tracciaè una ellisse di eq.(27) (vedi fig.5).

Questo criterio:• vale per materiali con comportamento simmetrico,• considera tutte le tensioni principali,• indica che la tensione tangenziale di snervamento è 0.577 quella intrazione,• fallisce nel caso di trazione tripla prevedendo la resistenza.

Criterio della tensione ottaedricaQuesto criterio afferma che lo snervamento nei materiali duttili avviene quando la tensione ottaedrica raggiunge il valorecritico. Le tensioni equivalenti ottenute con questo criterio coincidono con quelle ottenute col criterio di Von Mises(25-28). I 4 piani ottaedrici (fig.6) sono caratterizzati dal fatto che i versori delle normali n formano con gli assi principali 3angoli uguali. In particolare chiamati detti angoli α, β e γ, si ha:

°=== 74.54γβα 577.03

174.54cos ==° (11.30,31)

Utilizzando le equazioni che consentono di ottenere le tensioni per assegnata giacitura si può mostrare che letensioni normali e tangenziali agenti sui piani ottaedrici (dette tensioni ottaedriche) sono rispettivamente

3321 σσσσ ++=h ( ) ( ) ( )231

232

2213

1 σσσσσστ −+−+−=h (11.32,33)

La (33) può essere scritta anche come

( )31322123

22

213

2 σσσσσσσσστ ++−++=h (11.34)

σ2

σ1

σ3

σhτh

γ α

β n

Fig11.6. - Uno dei 4 piani ottaedrici.

τn

σn

σ1=σs

Fig.11.7 – Tensioni ottaedriche allo snervamento.

σh ,τh

σn

τn

Fig.11.8 – La curva limite di Mohr e cerchi limite pertrazione tripla, trazione, torsione e compressione.

σptrazione

torsione

compressione

Nel caso di stato di compressione idrostatico, per il quale non si verifica snervamento nel materiale, le tensioniprincipali coincidono con la σh mentre la τh risulta nulla. Questo fa ritenere che quest’ultima sia la causa dellosnervamento. In particolare in un provino soggetto ad uno stato di tensione monoassiale le tensioni ottaedriche allosnervamento (fig.7) diventano:

331 s

hσσσ == ssh σστ 4714.0

32 == (11.35,36)

Nel caso multiassiale lo snervamento si verifica quando la tensione ottaedrica (33) raggiunge il valore critico:

( ) ( ) ( ) sh σσσσσσστ322

312

322

2131 =−+−+−= (11.37)

e la tensione equivalente, che coincide con quella di Von Mises (25), può essere espressa come:

( ) ( ) ( )231

232

2212

1 σσσσσσσ −+−+−=e (11.38)

σ1

σ2

σs

σs

σs

σs

σs/2

Fig.11.5 – Criteri di Navier, Tresca, e Von Mises.

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11.6

Criterio di MohrIl criterio di Mohr ipotizza che la crisi del materiale si verifichi nel piano in cui si realizza una combinazione criticadi tensioni tangenziali e normali. Tali combinazioni vengono identificate sul piano di Mohr σn-τn imponendo perogni σn una τn che provochi la rottura e tracciando il corrispondente cerchio Mohr; la curva limite di Mohr, specificaper il materiale analizzato, è l’inviluppo dei cerchi ottenuti (fig.8). Ovviamente gli stati tensionali i cui cerchi diMohr maggiori sono tangenti alla curva limite sono stati tensionali limite.

I punti di tangenza dei cerchi limite con la curva di Mohr rappresentano lo stato tensionale agente nel piano incui avviene la rottura. Sfruttando le proprietà dei cerchi di Mohr che è possibile determinare la direzione di tali piani(fig.9).

Per tracciare le curve di Mohr sarebbe necessario effettuare almeno le prove di trazione, compressione, torsione,più una prova in stato triplo di sollecitazione caratterizzato dallo stato tensionale σ1=σ2=σ3=σp. Nonostante lapresenza di qualche punto relativo a stati triassiali, le curve di Mohr trascurano l’effetto della tensione intermedia.

Le curve di Mohr hanno le seguenti caratteristiche:• sono simmetriche rispetto all'asse σ, perché la rottura non dipende dal segno delle τ,• dalla parte delle σ negative tendono a diventare parallele all'asse σ, perché percompressione idrostatica non si ha rottura,• dalla parte delle σ positive le curve intersecano l'asse σ nel punto σp, che, per imateriali fragili, tende a coincidere con σrt,• in questo punto la tangente alla curva deve essere verticale perché il cedimento atrazione avviene per distacco.

Se la curva di Mohr per il materiale considerato è disponibile, questo criterio è,probabilmente, il più efficace. La verifica deve essere effettuata confrontando ilmaggiore dei 3 cerchi di Mohr rappresentativi dello stato di tensione agente con ilcerchio limite relativo allo stesso stato (fig.9). Quest’ultimo si ottiene amplificando di

un fattore n crescente tutte le tensioni principali σ1l=nσ1, σ2l=nσ2, σ3l=nσ3 fino a quando il cerchio ottenuto nonrisulta tangente alla curva limite: il fattore n per cui si ottiene il cerchio limite è il coefficiente di sicurezza. Il puntodi tangenza di coordinate σl, τl (fig.9) determina la giacitura del piano in cui si verifica la crisi del materiale; lanormale al piano forma l’angolo φl/2 con la direzione 1. Poiché per n=0 il cerchio di Mohr degenera in un puntocoincidente con l’origine, tracciando la congiungente tra l’origine e il punto limite, l’intersezione con il cerchio dellostato tensionale agente permette di determinare graficamente il punto di coordinate σ=σl/n, τ=τl/n come in fig.9.

σlc σltτl

τn

σn

τ λτ ι

αφ

τ ν

σ ν

σ2

σ1

σlt

σlt

σlc

σlc

τl

τl

(a) (b) (c)

Fig.11.10 – Teoria di Coulomb Mohr: a) curva limite, b) la retta tangente ai cerchi limite di trazione e compressione e relativi parametri, c) laspezzata limite nel piano σ1-σ2 a confronto con quello della massima tensione normale.

Criterio di Coulomb-MohrLa curva limite di Mohr può essere approssimata utilizzando solo i cerchi di Mohr limite a trazione e compressionee la retta tangente ai suddetti cerchi come mostrato in fig.10. Tale retta sul piano di Mohr ha equazione

iτµστ =+ (11.39)

nella quale τi è l’intersezione con l’asse τn e µ=tanα è il coefficiente angolare. La retta di Coulomb ha pendenza pariad α=π/2-φ e i cerchi limite sono tangenti ad essa in punti la cui congiungente con il centro del cerchio (il raggio)forma un angolo pari a φ=π/2-α. Sussiste la seguente relazione:

φφπµ 1tan2

tan =

−= (11.40)

Se non si ordinano in senso decrescente le tensioni principali, in base a considerazioni geometriche sul piano diMohr, il criterio può essere espresso dalle seguenti equazioni (equivalenti a 6 per la presenza del valore assoluto):

σ,τ σl, τl

σn

τn

φl

Fig.11.9 – Verifica diresistenza utilizzando lacurva limite di Mohr.

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11.7

( ) lm τσσσσ 22121 =++− ( ) lm τσσσσ 23232 =++− ( ) lm τσσσσ 21313 =++− (11.41a-c)

nelle quali le costanti τl (che è la coordinata τn del punto di tangenza del cerchio limite del caso di stato di tensionepuramente tangenziale alla retta limite – fig.10) ed m possono essere espresse in funzione dei diametri dei cerchilimite a trazione e compressione, coincidenti con σlt e σlc rispettivamente, mediante le seguenti relazioni

ltlc

ltlcl σσ

σστ−

=ltlc

ltlcmσσσσ

−+= (11.42,43)

Le 6 equazioni (41) rappresentano 6 piani che nello spazio formano un vertice nel punto σ1=σ2=σ3=τl/m.Nel caso piano, considerando σ3=0 e non ordinando σ1 e σ2, le (41) assumono la seguente forma:

( ) lm τσσσσ 22121 =++− lm τσσ 222 =+ lm τσσ 211 =+ (11.44a-c)

Queste espressioni possono essere utilizzate anche nel caso triassiale se σ1 e σ2 sono la massima e la minimatensione agenti o viceversa.

Per m=0 (σlt=-σlc) il criterio di Coulomb-Mohr è equivalente a quello di Tresca.Nel primo e terzo quadrante dove σ1 e σ2 hanno lo stesso segno la teoria di Mohr e quella di Navier coincidono.

La condizione limite può essere espressa semplicemente come

ltσσσ =21,max lcσσσ =21,min (11.45a,b)

Nel secondo e quarto quadrante dove le tensioni hanno segno opposto, le due teorie differiscono. In particolare lele combinazioni σ1 e σ2 limite sono espresse dalla seguente relazione:

1,min,max 2121 =+

lclt σσσ

σσσ

(11.46)

Ordinando le tensioni principali in modo che σ1>σ2>σ3 e introducendo il rapporto r tra le tensioni limite atrazione e compressione (7), in base alle (45-46) la tensione equivalente da confrontare con quella ammissibile atrazione σamm=σlt/n, è data dalla seguente espressione:

3131 , ,max σσσσσ rre += (11.47)

La linea avente pendenza σ1/σ3=-1, che rappresenta lo stato di tensione puramente tangenziale, interseca ilcontorno del rombo nel punto di coordinate σ1=-σ3=τl<σlt. L’analoga intersezione con la linea rappresentativa dellateoria di Navier fornisce, invece, τl=σlt, che è una caratteristica di molti materiali fragili. In questi materiali, nei casiin cui le tensioni sono discordi e la tensione di trazione è la massima in valore assoluto o è comunque vicina a quelladi compressione (nel caso di stato di tensione puramente tangenziale sono uguali), la rottura avviene in piani normaliad essa. Per sollecitazioni di questo tipo il criterio di Coulomb-Mohr risulta eccessivamente conservativo e vienemodificato opportunamente.

Criterio di Coulomb-Mohr modificatoIl criterio di Coulomb-Mohr modificato è rappresentato in fig.11 a confronto con quello originale. Il valore σi

rappresentato in figura è il valore di compressione per il quale la rottura atrazione prevale ancora su quella per scorrimento e dovrebbe essere determinatosperimentalmente; tuttavia, operando in modo conservativo si assume σi=σlt e laspezzata limite utilizzata è quella rappresentata con linea spessa in fig.11.

In questo caso, nel primo e terzo quadrante valgono ancora le (45), nelsecondo e quarto quadrante, se la tensione positiva è maggiore in modulo diquella negativa, la condizione limite è ancora espressa dalle (45), viceversa(σ1>0 σ2<0 e |σ2|>|σ1| oppure σ1<0 σ2>0 e |σ1|>|σ2|) la condizione limite èrappresentata da:

11,min,max 2121 =++

lcltlc

ltlc

σσσ

σσσσσσ (11.48)

Operando come nel caso precedente, ricordando la definizione (7) e tenendoconto delle (45) e della (48), l’espressione delle tensione equivalente è data da:

( ) 3131 1 , ,max σσσσσ rrre ++= (11.49)

σ2

σ1

σlt

σlt

σsc

σlc

σi,σlt σlt

σlt

σlt,σi

Fig.11.11 – Il criterio di Coulomb Mohr modificato.

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CAPITOLO 1 ANALISI PRELIMINARE

1.1 DEFINIZIONE DELLA GEOMETRIA

La definizione della geometria di un ponte strallato è il primo passo di un lungo iter costellato da ripetuti cambiamenti dovuti a fattori che si presentano con le varie fasi del progetto, questo perché il progetto di un ponte strallato, così come di molte altre strutture, è legato a fattori economici costruttivi e negli ultimi anni anche estetici. Soprattutto quest’ultimo è spesso prevalente sugli altri. Qui vengono riportati dei metodi, molte volte dettati dall’esperienza maturata con ponti strallati realizzati in passato, che permettono di definire alcune grandezze essenziali per poter dimensionare il ponte. 1.1.1 PASSO DEGLI STRALLI Nei primi ponti strallati erano utilizzati pochi stralli con ampi spazi, es. Ponte di Maracaibo in Venezuela, Polcevera a Genova realizzati da RICCARDO MORANDI, il che portava ad avere grandi sforzi nei cavi i quali richiedevano complicati congegni di ancoraggio nonché spessori notevoli dell’impalcato per la grande distanza che c’era fra i pochi cavi. Attualmente si utilizzano molti stralli con spazi molto più ridotti. I vantaggi dell’utilizzo di una strallatura diffusa sono:

• il grande numero di supporti elastici che porta a moderate flessioni longitudinali dell’impalcato sia durante la costruzione che in esercizio, rendendo possibile l’utilizzo di semplici ed economici metodi di costruzione;

• cavi di diametro più piccolo rispetto a strutture con stralli

concentrati, il che semplifica la loro installazione, il loro ancoraggio e soprattutto la loro sostituzione;

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• la possibilità di poter utilizzare impalcati sottili con enormi vantaggi dal punto di vista della stabilità aerodinamica.

Il passo degli stralli è generalmente mantenuto costante, orientativamente 6-15 metri, ma potrebbe decrementare andando dal pilone verso la parte centrale in modo che le forze non siano molto differenti tra uno strallo e il successivo. 1.1.2 INCLINAZIONE DEGLI STRALLI L’altezza del pilone influenza molto la rigidezza del sistema strutturale, infatti con l’aumento dell’inclinazione del cavo diminuisce la tensione nello stesso, oltre che non linearità e gli sforzi nell’impalcato. L’inclinazione degli stralli può essere messa in relazione con l’abbassamento del nodo che funge da collegamento fra l’impalcato e lo strallo più inclinato.

Su tale grafico si vede che l’inclinazione ottimale dei cavi è 45° ma può variare nel ragionevole limite di 25°-65° (figura 1.1). I bassi valori dell’angolo di inclinazione corrispondono ai cavi esterni, mentre i valori più alti corrispondono ai cavi più vicini al pilone.

Figura 1.1

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1.1.3 ALTEZZA DELLA TORRE L’altezza della torre come funzione della lunghezza an ⋅ dei pannelli può essere espressa da:

ananh ⋅⋅=°⋅⋅= 465.025tan

dove n è il numero della campate che insistono fra la torre e lo strallo più inclinato. Più in generale possiamo scrivere (figura 1.2):

°⋅= 25tancLh

Tale relazione ci fornisce l’altezza minima della torre al di sotto della quale sarebbe opportuno non andare.

1.2 SCELTA DELLO SCHEMA STRUTTURALE Gli schemi strutturali tipici dei ponti strallati possono suddividersi in due categorie fondamentali che si differenziano sostanzialmente soprattutto nei riguardi del comportamento statico, mentre la loro differenziazione formale è legata solo alla disposizione geometrica degli stralli, precisamente (figura 1.3):

1. schema con stralli ad arpa;

2. schema con stralli a ventaglio.

Figura 1.2

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In merito alla natura dei vincoli esterni ed interni della struttura, gli esterni di ogni strallo si possono ipotizzare dalle cerniere, senza però che queste costituiscono degli snodi delle membrature cui fanno capo. Dal punto di vista statico, considerando due ponti strallati: ad arpa uno e a ventaglio l’altro di uguale caratteristiche geometriche, il ponte ad arpa induce nell’impalcato uno sforzo normale doppio rispetto a quello a ventaglio. Se supponiamo che il passo ∆ fra gli stralli sia piccolissimo, considerando lo schema a ventaglio (figura 1.4), si ha:

xLHTan

dNdxq

−==⋅ α

dNH

dxxLq =⋅−⋅ )( dxxL

HqdN ⋅−⋅= )( ∫

⋅−⋅=x

dxH

xqH

LqN0

Hxq

HxLqN

2

2⋅−⋅⋅= HLq

HLq

HLqLxN

22)(

222

max⋅=⋅−⋅==

Figura 1.3

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Schema a ventaglio

HLqN

2

2

max⋅=

Per lo schema ad arpa (figura 1.5), si ha, invece:

LHTan

dNdxq ==⋅ α

dNH

dxLq =⋅⋅ dx

HLqdN ⋅= ∫

⋅=x

dxH

LqN0

Figura 1.4

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HxLqN ⋅⋅=

HLqLxN

2

max )( ⋅==

Schema ad arpa

HLqN

2

max⋅=

Ipotizzando una strallatura diffusa ( ∆ piccolissimo) lo sforzo normale

nell’impalcato è pari a: HLq 2⋅ per lo schema ad arpa e

HLq

2

2⋅ per lo

schema a ventaglio. Quindi a parità di sforzo normale nell’impalcato lo schema ad arpa richiede altezze delle antenne pari a due volte quella dello schema a ventaglio. Lo schema ad arpa anche se non è il migliore dal punto di vista statico ed economico è attraente per i suoi innegabili vantaggi estetici.

Figura 1.5

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Lo schema a ventaglio è stato molto usato recentemente e può offrire diversi vantaggi, oltre a quello visto precedentemente:

• il peso totale dei cavi è sostanzialmente minore rispetto al tipo ad arpa;

• l’inflessione longitudinale dei piloni resta moderata;

• maggiore stabilità;

• minore inflessione del pilone e dell’impalcato se gli stralli di

ormeggio sono ancorati a terra. Il tallone d’Achille della soluzione a ventaglio risiede nel progetto e nella costruzione della testa dei piloni verso il quale tutti i cavi, teoricamente, sono condotti. Una convergenza ideale in pratica non può essere realizzata e per questa ragione è necessario estendere l’ancoraggio ad una zona più o meno estesa. Si realizza pertanto una soluzione intermedia fra il tipo ad arpa e quello a ventaglio che unisce i vantaggi ed elimina gli svantaggi dei due. Grazie alla diffusione degli stralli nella parte superiore del pilone è possibile un buon progetto degli ancoraggi senza apprezzabili riduzioni dell’efficacia del sistema strallato. I cavi situati vicino al pilone sono più inclinati di quelli di un tipo ad arpa, ciò rende possibile ridurre la rigidezza delle connessioni orizzontali tra i piloni e l’impalcato.

1.3 SCELTA DEL SISTEMA DI SOSPENSIONE Il sistema di sospensione può essere sostanzialmente di due tipi: centrale e laterale. La sospensione centrale offre considerevoli vantaggi, il principale è sicuramente quello di natura estetica. L’uso quasi obbligatorio, in tale sistema, di un impalcato torso-rigido contribuisce inoltre alla riduzione dei momenti del secondo ordine come pure ad una maggiore stabilità dinamica & aerodinamica del tutto. Questo metodo di sospensione è caratterizzato inoltre, da un basso carico di fatica dei cavi, dato che un impalcato torso-rigido ha una grande capacità di

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diffusione per i carichi concentrati, così limita la variazione di tensione negli stralli. Gli svantaggi di un tale sistema risiedono, se utilizzato, nel pilone centrale che posto al centro della carreggiata porta inevitabilmente ad un aumento della larghezza dell’impalcato. Inoltre, quando si ha a che fare con impalcati molto larghi, come nel caso di ponti stradali con due carreggiate, i momenti torcenti diventano eccessivi e pertanto potrebbe non essere adatto. La sospensione laterale è utilizzata nella maggior parte dei ponti strallati costruiti finora. Il piano degli stralli può essere verticale o inclinato, in quest’ultimo caso si utilizzano piloni a forma di A, i quali:

• migliorano la rigidezza e la stabilità della struttura;

• riducono spostamenti dell’impalcato in quanto fa sì che i carichi eccentrici vengono assorbiti da tutti gli stralli (figura 1.6).

• migliorano la stabilità aerodinamica nel caso di impalcati molto lunghi.

L’uso di piani di sospensione inclinati può dar origine a problemi di spazio nella direzione trasversale che possono però essere risolti o incrementando la larghezza dell’impalcato o utilizzando sbalzi su cui installare gli ancoraggi.

Figura 1.6

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La sospensione laterale in generale introduce momenti flettenti trasversali che sono massimi nel centro della sezione, mentre le forze di taglio lo sono all’estremità. In queste zone possono sorgere dei problemi specialmente se l’impalcato è in calcestruzzo, in quanto l’ancoraggio dei cavi può scontrarsi con gli eventuali cavi della precompressione trasversale.

1.4 SCELTA DELLA CONFIGURAZIONE DEL PILONE La scelta della configurazione longitudinale e trasversale del pilone è legata allo schema strutturale adottato, al tipo di sospensione, agli effetti provocati dai carichi nonché a fattori estetici. Lo schema strutturale, ad arpa a ventaglio o misto, pone un grosso vincolo alla libertà di scelta, in quanto, mentre per lo schema a ventaglio o misto ci si può orientare indifferentemente verso un pilone ad un solo braccio (ma anche 2) o ad A, per lo schema ad arpa il pilone ad uno o due bracci è quasi d’obbligo, in quanto usandone uno ad A il piano degli stralli non sarebbe più verticale. Con gli stralli nello schema ad arpa i carichi accidentali non simmetrici possono essere bilanciati solo al costo di una significante flessione longitudinale nel pilone (figura 1.7).

creare vincoli orizzontali alla testa del pilone usando stralli di ancoraggio concentrati. Questo conferisce una grande rigidezza a tutta la struttura. Per quanto riguarda l’influenza del tipo di sospensione sulla scelta del tipo di pilone, dove è prevista la sospensione laterale il progetto dovrebbe essere basato tenendo conto delle seguenti condizioni:

• sagoma limite per il transito dei vincoli;

Questo quindi, deve avere non soloun’adeguata resistenza a flessione, mainoltre, anche una sufficiente rigidezza perridurre la deformabilità dell’impalcato, inparticolar modo se questo è flessibile. L’uso del tipo a ventaglio offre per glistralli innegabili vantaggi dal punto di vistadelle forze nel pilone, nel quale è possibile

Figura 1.7

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• comportamento trasversale del pilone. Si deve fare in modo di instaurare uno stato di equilibrio stabile e permanente, prendendo in considerazione anche l’influenza del creep sotto l’azione dei carichi permanenti. Se necessario la snellezza trasversale dei bracci dovrebbe essere mantenuta entro ragionevoli limiti per mezzo di aste trasversali.

Per la sospensione centrale occorre tener presente che porta ad un’aumento della larghezza dell’impalcato, per cui occorre tener conto anche di fattori economici oltre che strutturali. Per quanto riguarda la snellezza trasversale questa può essere mantenuta entro ragionevoli limiti dalla presenza di una forza orizzontale introdotta dai cavi. La stabilità trasversale del ponte è legata quindi anche alla forma del pilone, così come la capacità di ridurre gli effetti torsionali nell’impalcato. Un pilone ad A è senza dubbio il più adatto per far fronte a questo tipo di sollecitazioni, anche se dal punto di vista economico non è altrettanto competitivo, come si può vedere dal grafico seguente che esprime la relazione fra l’incremento di costo e la geometria del pilone (figura 1.8).

Figura 1.8

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Una grande influenza sulla scelta della geometria del pilone si ha nel caso dei ponti strallati asimmetrici, con la campata di riva più corta della campata principale. In questi casi è conveniente inclinare il pilone verso la campata più corta in modo da far lavorare il pilone a compressione sotto carichi permanenti ed aumentare in questo modo la rigidezza della struttura (figura 1.9).

1.5 SCELTA DELL’IMPALCATO

L’impalcato come forma e dimensione dipende da vari fattori i quali vanno ad influenzare anche la scelta del materiale da utilizzare. Il numero degli stralli influenza l’altezza dell’impalcato anche se tale altezza è limitata inferiormente dalla dimensione degli apparecchi di ancoraggio. Se il tipo di sospensione è centrale l’impalcato deve possedere un’elevata rigidità torsionale il che ci dirige verso impalcati a cassone in C.A. o in acciaio. I metodi di costruzione e soprattutto l’economia sono fattori importanti al pari degli altri, infatti se da una parte un impalcato in acciaio può arrivare a pesare 1/5 di uno equivalente in cemento armato, dall’altro lato esso è 2-4 volte più costoso di uno equivalente in calcestruzzo. Quindi la riduzione del peso proprio dell’impalcato deve comportare un risparmio in altre parti della struttura (stralli, piloni e fondazioni) per poter essere competitivo con un impalcato in cemento armato. Nel caso dei ponti di grande luce la riduzione del peso diventa vitale e possono essere presi in considerazione solo impalcati molto leggeri, come quelli in acciaio. Per gli impalcati in cemento armato l’altezza si aggira su 1/100-1/200 della luce.

Figura 1.9

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Esempio di impalcato in CA

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BIBLIOGRAFIA [1] Walther R., Cable stayed bridges, Thomas Telford, London, 1999. [2] Troitsky M.S., Cable-stayed Bridges, Theory and Design, Crosby Lockwood Staples, London, 1977. [3] De Miranda F., I ponti strallati di grande luce, Ed. Scientifiche A. Cremonese, Roma, 1980. [4] Gimsing N.J., Cable Supported Bridges, Concept & Design, John Wiley & Sons, Chichester, 1996.

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15

CAPITOLO 2 ANALISI STATICA

2.1 PREDIMENSIONAMENTO

La fase di predimensionamento è senza alcun dubbio la fase con più incertezze, in quanto occorre stabilire le dimensioni, molte volte di tentativo, da dare ai vari elementi strutturali. In questa fase è possibile utilizzare modelli molto semplici ed espressioni semplificate che non tengono conto di effetti del secondo ordine e a lungo termine. 2.1.1 PILONE L’altezza del pilone dall’impalcato può essere stabilita, nel caso di sistema a ventaglio o misto, con la seguente relazione: °⋅= 25tancLh (2.1) con Lc lunghezza della campata principale, nel caso di ponte asimmetrico o della semicampata principale nel caso di ponte simmetrico.

2.1.2 PASSO STRALLI Utilizzando una strallatura molto fitta si potrebbe ridurre notevolmente lo spessore dell’impalcato, comunque generalmente è compreso fra i 6 e i 15 metri, per gli impalcati in cemento armato, maggiore di 20 metri per gli impalcati in acciaio.

La sezione può essere stabilitaconsiderando uno sforzo normale parialla sommatoria delle componentiverticali degli sforzi negli stralli(figura 2.1). Figura 2.1

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2.1.3 SPESSORE IMPALCATO Lo spessore generalmente oscilla, nel caso di impalcati in cemento armato fra 1/100 & 1/200 della luce della campata maggiore, anche se occorre tener conto dello spessore minimo imposto dalle connessioni, generalmente 1 metro. 2.1.4 STRALLI Nel predimensionamento degli stralli occorre tener presente degli eventuali sforzi di pretensione e dei fenomeni di fatica. In questa fase è opportuno riferirsi ad uno schema a ventaglio puro equivalente ad uno schema misto arpa-ventaglio. L’altezza del pilone equivalente è pari a: anpa hhH 3

2+= (2.2) dove hpa è la distanza da terra dell’ancoraggio più vicino, mentre han è la distanza su cui vengono distribuiti gli stralli sul pilone (figura 2.2).

Figura 2.2

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2.1.4.1 STRALLI DI CAMPATA Per il predimensionamento degli stralli di campata si può utilizzare la

seguente espressione: amm

iscisc

TA

σ∆= ,

,

con iPTRii

iiscs

iisc TlA

dPqgT ,,, cossinsin30

+⋅

⋅⋅+∆⋅

⋅++≈

ϕϕγ

ϕ

e ammamm σσ ⋅=∆ 30.0 , come risulta da numerose prove a fatica. Dividendo ambi i membri per ammσ∆ , si ottiene:

ammiPTR

ii

iiscs

iisc

amm

isc TlAd

PqgAT

σϕϕγ

ϕσ ∆⋅

+

⋅⋅⋅+∆⋅

⋅++≈=

∆1

cossinsin30 ,,,,

ammiPTR

iii

is

amm

iscisc T

dPqglA

Aσϕϕϕ

γσ ∆

+∆⋅

⋅++=

⋅⋅⋅

∆− 1

sin30cossin ,,

,

Figura 2.3

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ammiPTR

iammii

isisc T

dPqglA

σϕσϕϕγ

∆⋅

+∆⋅

⋅++=

∆⋅⋅

⋅−⋅ 1sin30cossin

1 ,,

∆⋅⋅

⋅−⋅∆

+∆⋅

⋅++

=

ammii

isamm

iPTRi

isc l

Td

PqgA

σϕϕγσ

ϕ

cossin1

sin30 ,

, (2.3)

Occorre fare un’osservazione per quanto riguarda i carichi concentrati. Essi vengono divisi per d⋅30 , con d spessore dell’impalcato, per tener conto, in modo approssimato, dell’influenza degli stralli vicini. Una tale ipotesi si può giustificare col fatto che se l’impalcato fosse infinitamente rigido, il carico P dovrebbe essere ripartito fra tutti gli stralli, in parti più o meno uguali, mentre se l’impalcato avesse rigidezza flessionale nulla il carico P graverebbe interamente sullo strallo su cui è applicato. 2.1.4.2 STRALLI DI ORMEGGIO Per il predimensionamento degli stralli di ormeggio occorre tener conto, in modo particolare, dei carichi accidentali, perché alcuni stralli potrebbero essere soggetti a sforzi di compressione che, oltre a portare ad una diminuizione di rigidezza, risultano particolarmente dannosi in relazione ai fenomeni di fatica. Questi sforzi di compressione sono molto grandi negli stralli di ormeggio quando è caricata la campata di riva, come risulta dalla figura 2.4.

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19

Per evitare i problemi su accennati è bene che:

25.0maxmin ≥=

ac

acac T

TK (2.6)

2.1.4.3 PRETENSIONE STRALLI Per far si che sotto l’azione dei carichi permanenti l’impalcato si comporti come una trave continua su appoggi fissi, si regola la tensione negli stralli applicando opportuni sforzi di pretensione. Lo sforzo di trazione Ti nella generica fune quindi dovrà essere tale che la sua componente verticale sia pari proprio alla reazione Ri dovuta ai carichi permanenti che si avrebbe nella trave continua equivalente:

Ri = Ti sinαi Il diagramma dei momenti provocato dai carichi permanenti è allora quello di figura 2.5 e si vede come per un numero di stralli elevato esso tende praticamente a zero e la trave è soggetta solo a sforzo normale.

( )ac

n

i

n

jjjjii

ac h

aPGaGT

φcosmin 1 1

⋅+−⋅=

∑ ∑= = (2.4)

( )

ac

n

i

n

jjjiii

ac h

aGaPGT

φcosmax 1 1

⋅−⋅+=

∑ ∑= = (2.5)

Figura 2.4

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20

Figura 2.5

Gli sforzi di pretensione possono essere determinati anche seguendo un’altra via, un po’ più laboriosa, e diversa a seconda della tipologia: a ventaglio, ad arpa o misto. Il problema viene definito sfruttando condizioni di congruenza in relazione agli spostamenti che si vogliono annullare, quindi:

=

+

=

0

01

1

1111

!

!

!

!

!

!

"""

!#!

!#!

!#!

"""

!

!

!

nnnn

n

n DD

DD

N

N

δ

δ

dove: Ni = sforzo normale dello strallo i-esimo; [D] = matrice di flessibilità; δi = spostamento del nodo i-esimo. Per la tipologia a ventaglio il sistema di equazioni di congruenza risulta generalmente determinato. Per le tipologie ad arpa o miste il

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problema diventa più complesso, infatti il numero degli spostamenti da annullare è quello relativo all’impalcato, con gli spostamenti verticali, ed all’antenna, con gli spostamenti orizzontali. Il problema è indeterminato in quanto si ha un numero di equazioni maggiore del numero di incognite. La risoluzione del problema può essere ottenuta tramite una diminuzione delle equazioni, oppure facendo entrare in gioco altre grandezze finché il sistema risulta determinato. Tutto ciò implica in molti casi soluzioni che sono solo il risultato di un procedimento analitico che induce spostamenti e tensioni inammissibili da un punto di vista pratico. Inoltre con tale procedimento, che si appoggia alla teoria del 1° ordine, non teniamo, in alcun modo, in considerazione gli effetti delle non linearità, sia geometriche che meccaniche.

2.2 L’ELEMENTO CAVO 2.2.1 STRALLO SOTTO SFORZI ASSIALI Le funi sono degli elementi strutturali che hanno una rigidezza flessionale e tagliante bassissima, hanno viceversa una elevata rigidezza assiale. Consideriamo una fune soggetta ad un carico uniformemente distribuito q, che rappresenta il peso proprio, e ad un tiro H .

Figura 2.6

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22

Scriviamo il funzionale Energia Potenziale Totale:

∫∫ =−⋅⋅−⋅⋅=Πll

uHdxwqdxN00

21 minε (2.7)

ovvero:

∫∫ =−⋅⋅−⋅⋅=Πll

uHdxwqdxA00

221 minεE (2.8)

scriviamo la variazione prima del funzionale EPT:

∫∫ =−⋅⋅−⋅⋅=Πll

uHdxwqdxA00

0δδδεεδ E (2.9)

ovvero:

00 0

=⋅−⋅⋅−⋅⋅=Π ∫ ∫ uHdxwqdxNl l

δδδεδ (2.10)

considerando la deformazione al 2° ordine: 2,2

1, xx wu +=ε si ha:

xxx wwu ,,, δδδε +=

che sostituita nell’espressione (2.10), fornisce:

( ) 00 0

,,, =⋅−⋅⋅−⋅+⋅=Π ∫ ∫ uHdxwqdxwwuNl l

xxx δδδδδ (2.11)

00 00

,,, =⋅−⋅⋅−⋅⋅+⋅⋅=Π ∫ ∫∫ uHdxwqdxwwNdxuNl ll

xxx δδδδδ (2.12)

integrando per parti la (2.12), si ottiene:

( ) 00 00

,,0,,0=⋅−⋅⋅−⋅⋅−⋅+⋅⋅−⋅=Π ∫ ∫∫ uHdxwqdxwwNwwNdxuNuN

l ll

xxl

xxl δδδδδδδ

(2.13)

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23

Dalla (2.13) otteniamo le cosiddette Equazioni di Eulero:

00

, =⋅⋅− ∫l

x dxuN δ → 0, =xN

( ) ∫∫ =⋅⋅−⋅⋅−ll

xx dxwqdxwwN00

,, 0δδ

( )[ ] 00

,, =⋅+⋅− ∫l

xx dxwqwN δ → ( ) 0,, =+⋅ qwNxx

che possiamo riscrivere come:

dalla prima espressione si evince che N=costante, pertanto la seconda espressione:

( ) qwNxx −=⋅

,, diventa: qwN xx −=⋅ , (2.14) Dalla (2.13) otteniamo anche le condizioni al contorno:

0

0,0=⋅−⋅+⋅ uHwwNuN l

xl δδδ (2.15)

ma 0, =⋅ wwN xδ se ( )( ) 0

00==

lww

, quindi 0, =⋅ xwN e la (2.15) si

semplifica in: 0=− HN HN = uδ∀

Al di là delle espressioni differenziali, si evidenzia il fatto che per una fune la soluzione in campo lineare non esiste, inoltre, per essere valide le relazioni precedenti, la fune deve essere molto tesa.

( )

−=⋅=

qwNN

xx

x

,,

, 0

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24

Alla luce di quanto visto precedentemente, consideriamo un filo in tensione, in equilibrio sotto il suo peso e supponiamo che le sue estremità siano fisse e che la tensione sia sufficientemente elevata, in modo che la sua configurazione di equilibrio y(z) sia molto poco discosta dalla configurazione rettilinea. L’equazione di equilibrio è: qwN xx −=⋅ , (N=cost.) (2.16)

mentre le condizioni al contorno sono: ( ) ( ) 00 == lww .

Riscrivendo la (2.16) come Nqw xx −=, e integrando, si ha:

1, CxNqw x +⋅−=

212

2CxCx

Nqw +⋅+⋅−= (2.17)

Imponendo le condizioni al contorno, otteniamo:

( ) 00 2 == Cw

( ) 02 1

2

=⋅+⋅−= lCNlqlw →

NlqC

21⋅=

sostituendo C1 e C2 nella (2.17), si ha:

( ) xNlqx

Nqxw ⋅⋅+⋅−=

222 (2.18)

dividendo numeratore e denominatore della (2.18) per l’area A della fune, otteniamo:

( ) x

ANA

lq

x

ANAq

xw ⋅

+⋅−= 222 (2.19)

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25

introducendo il peso specifico del materiale di cui il filo è costituito:

γ=Aq

e la tensione nel filo:

σ=AN

la (2.19) diventa:

( ) xlxxw ⋅⋅+⋅−=σ

γσγ

222

ovvero:

( ) ( )xlxxw −⋅⋅=σγ

2 (2.20)

La lunghezza L del filo nella sua configurazione di equilibrio è pari a:

( ) dxwLl 2

1

0

2'1∫ += (2.21)

con ( )σ

γσ

γσγ

σγ xlxxlw ⋅−⋅=⋅−−⋅=

222' e tenendo conto dello

sviluppo in serie di Taylor ...82

112

+−+=+ ααα arrestato al

secondo termine, si ha:

( ) =

⋅−⋅+=

+≅+= ∫∫∫

lll

dxxldxwdxwL0

2

0

221

0

2

2211

2'1'1

σγ

σγ

=

⋅+⋅⋅−⋅+=

⋅+⋅⋅−⋅+= ∫∫ dxxxlldxxxll ll

02

22

2

2

2

22

02

22

2

2

2

22

2281

4211

σγ

σγ

σγ

σγ

σγ

σγ

⋅+⋅=⋅+⋅⋅−⋅⋅+= 2

22

02

32

2

22

2

22

241

648 σγ

σγ

σγ

σγ llxxlxlx

l

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26

quindi la lunghezza L del filo nella configurazione di equilibrio è:

⋅+⋅=

2

2611

σγ llL (2.22)

Supponiamo ora di applicare un incremento dN di tiro al filo, esso assumerà una nuova configurazione di equilibrio e le quantità l, L, rispettivamente distanze tra le estremità del filo lungo x, e la lunghezza del filo, assumeranno i valori l+dl, L+dL. Calcoliamo, in funzione di dN, il valore dL.

2322

32

241

241 −⋅⋅+=⋅+= σγ

σγ llllL

differenziando otteniamo:

σσ

γσ

γ dldlldldL 3

32

2

22

121

81 ⋅−⋅+= (2.23)

essendo la ε costante lungo il filo, l’incremento dε della deformazione può valutarsi come:

LdLd =ε

risulta, quindi:

⋅+

⋅+

⋅+=

2

3

32

2

2

22

2611

121

2611

811

σγ

σσ

γ

σγ

σγ

ll

dl

ll

ldl

LdL

⋅+

⋅+

⋅+==

2

3

22

2

2

22

2611

121

2611

4211

σγ

σσ

γ

σγ

σγ

εl

dl

l

lldl

dL

dL

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27

⋅+

⋅+

⋅+

=2

3

22

2

2

2611

121

2611

2211

σγ

σσ

γ

σγ

σγ

εl

dl

l

lldl

d (2.24)

la quantità 2

2

σγ l è molto piccola rispetto all’unità, nei casi che

interessano, si ha pertanto:

σσ

γε dlldld 3

22

121 ⋅−= ma εσ dEd ⋅= , quindi:

εσ

γε dElldld ⋅⋅−= 3

22

121

ldlEld =

⋅+⋅ 3

22

γε

ldl

Eld

3

22

1

1

σγ

ε⋅+

=

un incremento di tensione dσ può allora esprimersi come:

ldl

ElEdEd

3

22

γεσ

⋅⋅+=⋅=

Se consideriamo come parametro della deformazione la quantità

ldl al posto di quello effettivo L

dL , dovrà, allora, considerarsi il

modulo fittizio, detto di DISCHINGER

3

22*

γ ElEE

⋅⋅+= (2.25)

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28

quindi *** εσ dEldlEd ⋅=⋅= .

La quantità dε* costituisce un parametro fittizio della variazione della deformazione del filo; se infatti aumentiamo di dN il tiro, a parte l’incremento della estensione del filo, questo assumerà un nuovo assetto di equilibrio sotto l’azione del suo peso e quindi una nuova curva più tesa.

Il modulo di elasticità di DISCHINGER può così definirsi, per un valore assegnato di σ, come il valore del modulo tangente sulla curva tensione-deformazione fittizia. Il modulo tangente E* permette di valutare la relazione tra piccoli incrementi di tensione e deformazione, a partire da una assegnata configurazione del cavo. Per incrementi finiti di tensione ∆σ e deformazione ∆ε*, si opera mediante la relazione globale:

( ) =

⋅+=

⋅⋅+

===∆ ∫∫∫∫2

1

2

1

2

1

*2

*1

3

22

3

22

***

121

121

σ

σ

σ

σ

σ

σ

ε

ε

σσ

γ

σγ

σσσεε dl

EEl

Ed

Edd

Figura 2.7

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29

−⋅+−=⋅−=⋅⋅+= ∫ ∫

22

21

2212

2

22322 11242412

2

1

2

1

2

1

2

1σσ

γσσσ

γσσσγσσ

σ

σ

σ

σ

σ

σ

σ

lE

lE

dlE

d

La relazione precedente può essere messa nella forma più conveniente:

**

Esσε ∆=∆

dove Es* è il modulo secante e vale:

( )21

222

221

22

22

21

2212

12*1

*2

12*

24111

24σσ

σσγ

σσγσσ

σσεεσσ

−⋅⋅⋅⋅+

=

−⋅+−

−=−−=

ElE

lE

Es

poniamo 12 σβσ ⋅=

( ) ( )ββσ

γσβσβσ

γ +⋅⋅⋅⋅+

=⋅+

⋅⋅⋅⋅+

=1

241

241 23

1

22

11241

22*

ElE

ElEEs

231

22*

21

121

ββ

σγ

⋅+⋅

⋅⋅⋅+

=El

EEs (2.26)

L’espressione (2.26) mostra che per valori elevati di β, l’uso del modulo tangente alla DISCHINGER può comportare errori sensibili.

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2.3 MODELLAZIONE DELLA STRUTTURA La simulazione di una struttura con un modello, consiste in una sua idealizzazione con un sistema, di appropriati membri, che permette di analizzare il suo comportamento con sufficiente accuratezza e con una ragionevole quantità di calcoli. A seconda della complessità della struttura e della fase progettuale a cui si è giunti possono essere usati diversi modelli. Questi possono essere piani o spaziali. I piloni e l’impalcato possono essere modellati con elementi di tipo BEAM, nel caso di modelli piani, anche con elementi di tipo SHELL nel caso di modelli spaziali. I cavi possono essere rappresentati da elementi BEAM dando loro una piccolissima inerzia flessionale e un modulo ideale di elasticità (MODULO DI DISCHINGER) per tener conto degli effetti dovuti all’inflessione del cavo. Questo modello di simulazione è possibile specialmente quando abbiamo a che fare con strutture i cui cavi sono sufficientemente tesi sotto i carichi permanenti, in modo da non avere sforzi di compressione, ma solo una riduzioni della tensione iniziale sotto i carichi accidentali. In questo modo l’analisi può essere condotta utilizzando semplici programmi lineari. 2.3.1 MODELLI PIANI Il comportamento dei ponti strallati sotto l’azione dei carichi accidentali è difficile da descrivere per mezzo di semplici metodi intuitivi. E’ cosi vantaggioso, durante la fase iniziale di progettazione avere disponibile un modello semplificato, in cui tutti gli elementi sono rappresentati da elementi di tipo BEAM (figura 2.8). In tal caso una difficoltà giace nella rappresentazione delle connessioni tra piloni & impalcato, in quanto potrebbe essere causa di fenomeni di instabilità numerica nel caso ci si affidi ad un elaboratore elettronico. Per la semplicità con cui vengono introdotti i dati e la velocità alla quale vengono eseguiti i calcoli, il modello piano può servire non solo come base per dimensionare la struttura, ma anche come parametro per approvare il progetto stesso. Inoltre, anche quando si prepara il calcolo finale utilizzando un modello spaziale, il modello piano può servire per verificare l’ordine di grandezza dei risultati e mettere in

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evidenza errori numerici presentati dal programma per una errata modellazione spaziale della struttura.

2.3.2 MODELLO SPAZIALE Anche se alcune volte è sufficiente un modello piano, nel caso di ponti di una certa importanza è necessario ricorrere ad un modello spaziale (figura 2.9), in modo da eseguire un’analisi più dettagliata. Ci sono aspetti, infatti, che un modello piano non può cogliere come ad esempio gli effetti torsionali provocati dai carichi eccentrici o quelli provocati da alcuni modi di vibrazione.

Figura 2.8

Figura 2.9

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2.4 FENOMENI DI FATICA L’esperienza mostra che, se soggetto a sforzi variabili, un elemento strutturale può giungere a rottura anche se i valori di picco si mantengono sempre al di sotto del limite elastico. Il numero di cicli necessario è in genere notevolmente elevato, ma non sempre tale da eccedere quello delle ripetizioni di carico previste nella vita della struttura. Il fenomeno, noto come rottura per fatica, rappresenta a volte la situazione di crisi su cui va basato il dimensionamento. Anche in materiali duttili esso si verifica senza evidenziare segni di apprezzabili deformazioni plastiche e presenta quindi caratteristiche tipiche della rottura fragile. Lo studio teorico della resistenza a fatica presenta difficoltà considerevoli e solo negli ultimi anni sono stati proposti approcci analitici basati sulla Meccanica delle Fratture. Allo stato attuale, tuttavia, la base per la comprensione del fenomeno continua ad essere l’interpretazione e la classificazione dei dati sperimentali, dal cui insieme si cerca di ricavare indicazioni operative. Indicazioni che possono essere attinte dai diagrammi di hleroW $$ , dal nome dello studioso che per primo si occupò del fenomeno. E’ innanzitutto necessario introdurre i parametri che caratterizzano la sollecitazione ciclica. Si consideri un provino soggetto a stato di sforzo uniassiale, variabile ciclicamente tra σmax e σmin (figura 2.10). L’esperienza mostra che la particolare legge di variazione all’interno di questi valori estremi è di fatto ininfluente. Lo stesso può dirsi per la frequenza con cui susseguono i valori di picco, almeno nell’intervallo di rilevanza applicativa. Questa caratteristica riveste importanza notevole, perché consente di operare sperimentalmente con variazioni anche molto rapide e quindi assoggettare il provino a un numero elevato di cicli in tempi relativamente brevi. Un ciclo di ampiezza costante è definito dalle quantità (figura 2.10)

2

minmax σσσ +=m minmax σσσ −=∆ (2.27a, b)

note, rispettivamente, come tensione media e ampiezza del ciclo. Si vedrà che la rottura dipende non solo dall’intervallo di variazione per

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gli sforzi ma anche dal valore attorno a cui essi oscillano simmetricamente.

In alternativa alle (2.27a, b), il ciclo può essere caratterizzato dal valore σmax e dal rapporto

max

min

σσρ = (2.28)

noto come coefficiente di asimmetria del ciclo o, brevemente, rapporto di fatica. Nel caso in cui sia σmin =-σmax, risulta ρ=-1 e il ciclo è detto simmetrico (figura 2.11a). Per ρ=0 si ha un ciclo pulsante (figura 2.11b) mentre per ρ=1 corrisponde al caso limite di sforzo costante (figura 2.11c). Il rapporto di fatica è definito in modo che risulti sempre -1≤ρ≤1, invertendo se necessario il secondo membro della (2.28).

Figura 2.10

Figura 2.11

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34

Il caso di interesse è quello pulsante, in quanto lo strallo non reagisce a compressione. Le prove sono condotte tenendo fissi i valori di ρ e σmax (o, equivalentemente, di σm e ∆σ ) e si propongono di determinare il numero N di cicli che il provino può sopportare prima di giungere a rottura, a volte indicato come vita a fatica. I risultati sono riassunti dai diagrammi di hleroW $$ (figura 2.12a); essi riportano, per un dato ρ, il valore di σmax in funzione della corrispondente vita a fatica ( di regola rappresentata in scala logaritmica, essendo N un numero molto elevato). Il valore di σmax diminuisce all’aumentare di N, ma spesso la diminuzione cessa una volta raggiunto un certo numero N di cicli (per gli acciai pari a circa 6102× ), al di la del quale σmax si assesta su di un valore costante ( )ρσ , noto come resistenza a fatica ( l’indice ( )ρ distingue il particolare valore del rapporto (2.28) cui la prova si riferisce: per un ciclo pulsante, la resistenza a fatica si indica con

( )0σ ). Se ( )ρσσ <max , il provino è in grado di sopportare senza giungere a rottura un numero anche illimitato di cicli. La figura 2.12b confronta schematicamente i diagrammi di

hleroW $$ relativi a diversi valori di ρ. Per 1=ρ (sforzo costante) la resistenza a fatica coincide ovviamente con il limite di rottura del materiale ( )( )Rσσ =1 . Per un certo valore di N, una qualunque sollecitazione ciclica ( )1<ρ provoca rottura per un σmax inferiore a σR. A parita di σmax , la vita a fatica diminuisce con ρ. Il rapporto di fatica è quindi un indice della severità del ciclo: la situazione più sfavorevole corrisponde al ciclo simmetrico 1−=ρ .

Figura 2.12

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35

E’ opportuno fare un’osservazione sul numero N di cicli su cui si stabilizza la resistenza a fatica. Una semplice analisi indica che sarebbe completamente assurdo assumere che il carico accidentale totale possa essere applicato due milioni di volte, come richiesto dai codici per i tests da fatica. Se, per esempio, la vita attesa per il ponte è fissata in 100 anni, questo carico dovrebbe aversi più di 50 volte al giorno, per raggiungere quel numero di cicli ( )6102× . Questo mostra chiaramente che bisogna prendere in considerazione solo una frazione del carico accidentale totale quando controlliamo la resistenza a fatica. Sulla base di quanto detto precedentemente è possibile dimensionare il cavo a fatica. Detto qg NNN += il massimo valore dello sforzo assiale in un generico cavo, la sua area A è pari a:

( )Fa

NAσ

= (2.29)

dove:

( ) ( )ρ

σσ−

∆=1

Fa

a (2.30)

è la tensione ammissibile a fatica, funzione del rapporto

( )qgg σσσσσρ +≅= // maxmin fra i valori minimo e massimo della tensione nel cavo e del valore caratteristico ( )aσ∆ della resistenza a fatica del materiale e del tipo di cavo adottato (a fili paralleli, o a trefoli, ecc.). La (2.30) è un’iperbole con asintoto verticale di equazione 1=ρ , i cui punti al di sopra del punto di incontro della curva stessa con la retta di equazione: ( ) ( )S

aF

a σσ = (2.31) (essendo ( )S

aσ la tensione ammissibile statica), non hanno alcun interesse nella pratica tecnica, in quanto la curva: ( ) ( )xf=F

aσ dopo tale punto deve intendersi completata dalla (2.31) (figura 2.13).

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Poiché in base ai risultati di un grandissimo numero di prove a fatica sui cavi ed ai dati di varie Normative, risulta generalmente: ( ) ( )S

a30.0 σσ ≅∆ a (2.32) se nella (2.30) poniamo il valore (2.32), dalla stessa si ricava immediatamente l’ascissa x del punto di incontro fra la (2.30) e la (2.31) che risulta: 0.70x ≅ . Soltanto se nelle condizioni di esercizio del ponte i valori delle tensioni nei cavi sono tali che risulti:

17.0 ≤≤ ρ , si utilizza completamente l’elevata resistenza dei cavi e la riduzione di E* rispetto ad E è la minima possibile. Abbiamo detto che, per motivi statistici, bisogna prendere in considerazione solo una frazione del carico accidentale, pertanto il rapporto di fatica, determinato strallo per strallo, è pari a:

qg

g

qg

g

NNN

5.05.0 +≅

+=

σσσ

ρ (2.33)

in cui al valore effettivo di qg σσσ +=max si sostituisce il valore ridotto: qg σσ 5.0+ .

Figura 2.13

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37

Si ottiene così un valore ( )Faσ un po’ maggiore di quello che si

otterrebbe con il valore effettivo ( ) ( )qggqgg NNN +=+= // σσσρ , ma naturalmente nel dimensionamento della sezione del cavo attraverso la (2.29) si introduce l’intero valore di maxN . Specificatamente alla resistenza a fatica degli stralli si può dire che essa è sempre condizionata dalla resistenza degli ancoraggi, inferiore di quella del singolo elemento costituente la fune. Ciò per due motivi:

• l’acciaio dei fili ( o dei trefoli) in prossimità dell’ancoraggio è alterato dai morsetti, nel caso di cavi tipo C.A.P.. Nel caso di teste fuse, quali sono quelle che ancorano le funi spiroidali, l’alterazione è dovuta a fatti termici conseguenti alla fusione;

• alla ∆σ dovute alle variazioni di tiro negli stralli se ne

aggiungono altre dovute alla flessione del cavo che, nella realtà, non è totalmente privo di rigidezza flessionale come schematizzato nei calcoli.

Queste tensioni di flessione, a tutti gli effetti parassite, dipendono dall’angolo α di cui ruota lo strallo in servizio a causa dei carichi accidentali, dei fatti termici e delle vibrazioni della fune provocate dal vento. Esse si smorzano rapidamente appena aumenta la distanza dall’ancoraggio.

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38

2.5 CONSIDERAZIONI SULLE LINEE DI INFLUENZA Durante la fase finale del progetto le linee di influenza rendono possibile conoscere accuratamente quella parte degli sforzi normali negli stralli dovuti ai carichi accidentali distribuiti e concentrati. Ciò nonostante l’uso di queste linee caratteristiche è possibile solo se il comportamento statico della struttura può essere assunto come elastico lineare (principio di sovrapposizione degli effetti). Sebbene il comportamento di un ponte strallato è non lineare, è possibile fare le seguenti semplificazioni.

• Le non linearità dovute alle inflessioni degli stralli possono generalmente essere superate con una via sufficientemente accurata usando il modulo di Dischinger. E’, tuttavia, necessario stimare in anticipo le tensioni estreme in ciascun cavo, il che conduce a diverse iterazioni.

• L’influenza delle non linearità geometriche del comportamento

dei piloni e dell’impalcato (effetti del secondo ordine) sulle forze normali negli stralli generalmente rimangono moderate nella fase di esercizio.

• L’influenza delle non linearità del materiale del

comportamento dei piloni e dell’impalcato è generalmente limitata negli stati limite di servizio agli effetti del ritiro e del creep del calcestruzzo. Questi due casi possono essere simulati utilizzando anche programmi elastici convenzionali, considerando il ritiro come un carico dovuto ad un gradiente termico negativo e introducendo moduli di elasticità ridotti per simulare il creep.

Le linee di influenza ci aiutano a disporre i carichi nelle peggiori posizioni. C’è da dire, però, che tali disposizione nella realtà sono molto improbabili e la loro influenza è di solito modesta.

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2.6 L’ANALISI STRUTTURALE CON IL METODO DEGLI ELEMENTI FINITI Il metodo degli elementi finiti, o più sinteticamente FEM, è un metodo di analisi che ha avuto negli ultimi anni una notevole diffusione, grazie alla possibilità di utilizzare programmi di calcolo, su di esso basati, anche su personal computers. Il metodo non è però altrettanto recente, in quanto quasi cento anni fa era stata avanzata l’ipotesi di una suddivisione astratta del mezzo continuo, ma la mancanza di mezzi di calcolo automatico fece suscitare un limitato interesse a causa del notevole onere computazionale che la sua applicazione comportava. In effetti il metodo nasce nella seconda metà degli anni ’50, in quanto nella prima metà fu reso disponibile il primo linguaggio simbolico: il FORTRAN. Ciò ha segnato una svolta nell’utilizzo pratico dei mezzi di calcolo. Se prima essi erano riservati a specialisti in grado di operare con gli strumenti logici dettati dalla macchina, l’avvento dei linguaggi simbolici ha consentito a un gran numero di utenti di interloquire con il calcolatore attraverso un simbolismo matematico sostanzialmente standard. Il metodo degli elementi finiti e il suo straordinario successo sono quindi legati alla disponibilità di potenti mezzi di calcolo. Più che su di un rinnovamento dei fondamenti meccanici del problema strutturale, esso si basa su di una riorganizzazione che li adatta alle esigenze dell’automazione del processo risolutivo. Ne è risultato un procedimento estremamente potente e versatile, che in linea di principio consente la soluzione di qualunque problema, non solo strutturale, affidando quasi per intero alla macchina l’onere di calcolo. La disponibilità sul mercato di moltissimi codici basati sul FEM ha dato la possibilità a tutti di analizzare strutture molto complesse, anche in campo non lineare. E’ sbagliato, però, affidarsi ciecamente al codice di calcolo senza conoscere i fondamenti del metodo, non solo per evitare errori nella modellazione della struttura, ma anche per avere la capacità di controllare e interpretare i risultati che il codice fornisce.

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2.6.1 FASI OPERATIVE

1. Definizione dello schema discreto. Occorre operare una suddivisione in elementi finiti, tra loro connessi in alcuni punti, o nodi. Questa suddivisione definisce lo schema oggetto di calcolo. Gli spostamenti locali vengono approssimati da combinazioni lineari di funzioni assegnate, di regola polinomi.

2. Definizione delle proprietà dell’elemento. Il modello viene

espresso in funzione dei valori assunti dagli spostamenti locali nei nodi. A tali valori (spostamenti nodali u) corrispondono, tramite un’equivalenza in termini di lavori virtuali, le forze nodali p. Il comportamento dell’elemento isolato è descritto da un legame tra queste quantità, cui si risale dalla legge costitutiva del materiale. Nel caso elastico lineare questo si esprime attraverso la relazione ukp ⋅= , dove p contiene anche le soluzioni di incastro perfetto dei carichi eventualmente agenti sull’elemento. In questa fase è spesso conveniente operare in riferimenti locali, dettati dalla particolare geometria dei singoli elementi. Le proprietà dell’elemento vengono poi trasferite nel riferimento globale mediante opportune leggi di trasformazione.

3. Assemblaggio. L’operazione ricostruisce la continuità della

struttura. I vari elementi vengono tra loro collegati imponendo che gli spostamenti dei nodi che hanno in comune assumano lo stesso valore. Dal momento che questi sono ora tutti rappresentati nello stesso riferimento, risultano direttamente sovrapponibili e l’assemblaggio si riconduce ad una procedura di identificazione, che viene effettuata automaticamente a partire da poche e semplici informazioni. L’assemblaggio comprende l’eliminazione degli spostamenti impediti dai vincoli esterni (o l’imposizione di cedimenti vincolari, se diversi da zero).

4. Calcolo della soluzione. Ad assemblaggio effettuato, le

equazioni risolventi si presentano, nel caso elastico lineare, nella forma UKP ⋅= , dove K è simmetrica e, una volta eliminati eventuali moti rigidi residui non impediti dai vincoli, definita positiva. La soluzione numerica non presenta difficoltà

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41

particolari, se non per il numero di incognite, spesso elevato. Accorgimenti specifici, che sfruttano proprietà del tutto generali della matrice di rigidezza, consentono peraltro di risolvere efficacemente sistemi di dimensioni anche molto grandi.

2.6.2 L’APPROCCIO AGLI SPOSTAMENTI 2.6.2.1 Il modello cinematico Consideriamo un elemento finito isolato dal contesto strutturale cui appartiene. Al suo interno, gli spostamenti locali vengono approssimati mediante polinomi di grado opportuno. Per la generica componente di spostamento si si scrive quindi, per domini monodimensionali ( ) %++++= 3

42

321i xaxaxaaxs 2.34) Il modello di spostamento risulterà tanto più ricco quanto più elevato è il grado del polinomio approssimante. In forma compatta, la (2.34) si esprime ( ) ( )a xNxs *= (2.35) dove ( )xs raccoglie le componenti di spostamento locale, la matrice

( )xN* i monomi approssimanti e il vettore a i coefficienti moltiplicativi. Il legame deformazioni-spostamenti ( ) ( )sxε ∂= , dove ( )∂ indica l’operatore di congruenza per il problema in considerazione, permette di risalire dalla (2.35) all’andamento delle deformazioni sull’elemento. Simbolicamente si scrive ( ) ( )a xBxε *= (2.36) Il metodo richiede che i coefficienti ai dei polinomi approssimanti siano sostituiti dagli spostamenti nodali u, vale a dire dai valori che gli spostamenti locali assumono in corrispondenza degli r nodi

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42

dell’elemento. Indicando con xj le coordinate del nodo j, dalla (2.36) si ottiene ( ) ( )a xNxsu j*jj == ( )r,1,j %= (2.37) Le posizioni

=!

!

juu ( )

=

!

!

j* xNΓ (2.38)

permettono di scrivere compattamente la (2.37) come segue Γau = (2.39) se la (2.39) è invertibile, è possibile esprimere i coefficienti del polinomio in funzione degli spostamenti nodali scrivendo uΓa 1−= (2.40) Introducendo la (2.40) nelle (2.35)(2.36) si ottiene ( ) ( )uxNxs = ( ) ( )uxBxε = (2.41a, b) ( ) ( ) 1

* ΓxNxN −= ( ) ( ) 1* ΓxBxB −= (2.42a, b)

Le componenti della matrice ( )xN sono le funzioni di forma dell’elemento finito. Perché esse possano essere definite attraverso il procedimento indicato occorre poter invertire la (2.39); un’ovvia condizione è che il numero di termini dei polinomi approssimanti eguagli quello degli spostamenti nodali dell’elemento. La matrice Γ è allora quadrata e, con l’eccezione di casi patologici legati a un cattivo posizionamento dei nodi, risulta non-singolare.

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43

Sulla base di quanto è stato appena detto passiamo a determinare le funzioni di forma per un elemento di trave, sotto le seguenti ipotesi:

1. legame ε-u lineare (ipotesi di piccoli spostamenti), in modo da poter considerare i problemi assiali e flessionali disaccoppiati;

2. trave di Bernoulli-Eulero.

Problema assiale. Modello di spostamento (lineare) (figura 2.14):

( )

=

+=

2

121x a

alx1

lxaaxs ( )

==

2

12x a

al10

l1axε

E’ quindi

( )

=

lx1x*N ( )

=

l10x*B

Gli spostamenti nodali sono i valori agli estremi e si esprimono

( ) 11 a0uu == ( ) 212 aaluu +==

Figura 2.14

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44

La matrice della trasformazione è

=

1101

Γ

e la sua inversa

=−

11011Γ

Applicando le (2.42) risultano

( )

−=

lx

lx1xN ( ) [ ]11

l1x −=B

Problema flessionale. Se le deformazioni taglianti vengono trascurate, la rotazione della sezione si identifica con la derivata di w. Si ha allora

( ) ( )xwxs = ( ) ( ) 2

2

dxwdxχxε −==

La congruenza peraltro richiede sempre la continuità delle rotazioni. Perché questa condizione possa essere imposta in sede di assemblaggio è necessario che tra gli spostamenti nodali siano ancora presenti quelli illustrati in figura 2.15. L’approssimazione per w(x) deve quindi contenere almeno quattro costanti. Il modello più semplice che soddisfi questi requisiti è il polinomio di terzo grado

( ) 3

3

42

2

321 lxa

lxa

lxaaxw +++=

Figura 2.15

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45

Da esso si ottiene, per successive derivazioni

( ) ( )

++==ϕ 2

2

432x, lx3a

lx2aa

l1xwx

( ) ( )

+−=−=

lx6a2a

l1xwxχ 432xx,

( )

= 3

3

2

2

lx

lx

lx1x*N ( )

−−= 32 l

6xl200x*B

Gli spostamenti nodali ora si esprimono

( ) 11 a0wu == ( ) 22 al10u =ϕ= ( ) 43213 aaaalwu +++==

( )4324 3a2aal1u ++=

La matrice della trasformazione è

=

l3

l2

l10

1111

00l10

0001

Γ

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46

e la sua inversa

−−−−

=−

l2l2l32l3

00l00001

Γ 1

Applicando le (2.42) risultano

( )

+−

+−

+−= 3

3

2

2

3

3

2

2

3

3

2

2

3

3

2

2

232231xNlx

lxl

lx

lx

lx

lx

lxl

lx

lx

( )

+−

−=

lx62l

lx126

lx64l

lx126

l1xB 2

Figura 2.16

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47

2.6.2.2 Forze nodali Si consideri un generico elemento finito, come quello tratteggiato in figura 2.17a e rappresentato isolatamente in figura 2.17b. Nel caso generale, il suo contorno si presenta suddiviso in tre parti. La prima, indicata con Su, appartiene alla superficie vincolata della struttura e su di essa sono noti gli spostamenti. La seconda SF appartiene invece al contorno caricato ed è soggetta a trazioni superficiali f note. La terza infine, indicata con Γ, costituisce l’interfaccia con gli elementi adiacenti; su di essa non sono noti né gli spostamenti né le trazioni, queste ultime costituite dalle componenti vettoriali σσσσn di sforzo sulla giacitura identificata dalla normale uscente da Γ. In un elemento interno, completamente circondato da altri, il contorno è esclusivamente di questo tipo.

Si immagini di attribuire all’elemento una variazione virtuale di spostamento sδˆ , con conseguenti εδˆ . Indicando con F le forze di volume e ricordando che 0sδ =ˆ su Su, i lavori virtuali esterno e interno si scrivono ∫∫∫

Γ

Γ++= dsdSsfdVsF tn

S

t

V

te

F

ˆˆˆ δδδδσσσσδδδδδδδδLLLL ∫=V

ti dVεεεεδδδδσσσσ ˆLLLL (2.43a, b)

(le tensioni trasmesse dagli elementi adiacenti sono infatti viste dall’elemento isolato come carichi applicati). La condizione di equilibrio per l’elemento si ottiene imponendo l’uguaglianza tra le (2.43) limitatamente alle variazioni virtuali compatibili con il modello di spostamento.

Figura 2.17

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48

Vale a dire, per ogni uδδδδ e us ˆNˆ δδδδδδδδ = uBˆ δδδδεεεεδδδδ = (2.44a, b) In virtù delle (2.44), le espressioni (2.43) dei lavori virtuali esterno e interno divengono

( ) uppudfdSFdV t0

t

nt

S

t

V

te

F

ˆˆNNN δδδδδδδδσσσσ +=

Γ++= ∫∫∫Γ

LLLL (2.45)

udVt

V

ti ˆB δδδδσσσσ

= ∫LLLL (2.46)

Nella (2.45) si è posto ∫

Γ

Γ= dp nt σσσσN ∫∫ +=

FS

t

V

t0 fdSFdVp NN (2.47a, b)

La condizione di equilibrio pertanto si esprime

0udVppt

V

t0 =

−+ ∫ ˆB δδδδσσσσ uδδδδ∀ (2.48)

e richiede l’annullamento del termine in parentesi. Si ottiene 0

V

t pdVp −= ∫ σσσσB (2.49)

I vettori definiti dalle (2.47) sono noti come forze nodali e le loro componenti sono le quantità statiche associate, attraverso il modello cinematico, agli spostamenti nodali. In particolare, p0 è il vettore (noto) delle forze nodali equivalenti ai carichi esterni applicati sull’elemento, mentre p rappresenta il contributo delle tensioni all’interfaccia con gli elementi adiacenti.

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49

Problema assiale Consideriamo un’asta soggetta ad un carico assiale distribuito n=cost. In tal caso, la (2.47b) fornisce

( ) ( ) ( )∫∫ ==l

0

tl

0

t0 dxxndxxnxp NN

dove N(x) è sempre la matrice di forma che in questo caso è pari a

( )

−=

lx

lx1xN

quindi

=

= ∫ 11

2nldx

x/lx/l1

npl

00

Le componenti di questi vettori sono forze dirette secondo l’asse dell’elemento e applicate nei punti dove si collocano i corrispondenti spostamenti nodali. Problema flessionale Consideriamo un’asta soggetta ad un carico trasversale q=cost. In tal caso, la (2.47b) fornisce

( ) ( ) ( )∫∫ ==l

0

tl

0

t0 dxxqdxxnxp NN

dove N(x) è sempre la matrice di forma che in questo caso è pari a

( )

+−

+−

+−= 3

3

2

2

3

3

2

2

3

3

2

2

3

3

2

2

lx

lxl

lx2

lx3

lx

lx2

lxl

lx2

lx31xN

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50

quindi

t22l

0

3

3

2

2

3

3

2

2

3

3

2

2

3

3

2

2

0 12ql

2ql

12ql

2qldx

lx

lxl

lx2

lx3

lx

lx2

lxl

lx2

lx31

qp

−=

+−

+−

+−

= ∫

2.6.3 ANALISI ELASTICA 2.6.3.1 Proprietà elastiche di un elemento finito In questa fase viene introdotto il legame costitutivo, che nel caso elastico lineare si esprime ( )ϑϑϑϑ−= εdσ (2.50) dove d è la matrice (simmetrica e definita positiva) delle costanti elastiche e ϑϑϑϑ il vettore delle deformazioni anelastiche o iniziali (ad esempio termiche) eventualmente presenti. Il legame puntuale (2.50) si traduce facilmente in una relazione che governa il comportamento dell’elemento finito in termini di variabili nodali. Sostituendo la (2.41b) per εεεε e introducendo il risultato nella (2.49), si ottiene infatti

( ) 0V

t

V

t dV dV pdBuBdBp −

= ∫∫ ϑϑϑϑ (2.51)

La matrice simmetrica ∫=

V

t dV BdBk (2.52)

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51

è nota come rigidezza elastica dell’elemento finito. Il vettore ( )∫=

V

t dV ϑϑϑϑθθθθ dBp (2.53)

definisce le forze nodali equivalenti a deformazioni e sforzi iniziali. Con tali posizioni, la (2.51) si scrive ( )θθθθppkup +−= 0 (2.54) Problema assiale Legame costitutivo, uniassiale

εεεεσσσσ E=

dxA dV = dove A è l’area della sezione trasversale.

dx EA tl

0

BBk ∫= ( ) [ ]11l1x −=B

−=

1111

lEAk

Problema flessionale Legame costitutivo, uniassiale

εεεεσσσσ E=

Elemento infinitesimo di volume dx dV = .

∫=V

t dV BdBk con d=EJ

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52

( )

−−= 32 l

6xl200x*B

−−−−

−−

=

22

22

3

4l6l2l6l6l126l12

2l6l4l6l6l126l12

lEJk

La matrice di rigidezza dell’elemento finito di trave, nel sistema locale è pertanto:

−−−

=

lEJ4

lEJ60

lEJ2

lEJ60

lEJ6

lEJ120

lEJ6

lEJ120

00l

EA00l

EAlEJ2

lEJ60

lEJ4

lEJ60

lEJ6

lEJ120

lEJ6

lEJ120

00l

EA00l

EA

22

2323

22

2323

k

2.6.3.2 Cambiamento di riferimento Motivi di convenienza suggeriscono spesso di formulare il modello di spostamento in coordinate locali. Ad esempio, l’asse x è spontaneamente identificato con la linea media di un elemento monodimensionale. I riferimenti locali dei vari elementi che costituiscono la struttura si presentano in generale diversamente orientati, di modo che gli spostamenti nodali non risultano sovrapponibili.

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53

In vista della successiva operazione di assemblaggio, è opportuno trasformare le componenti uL di spostamento nodale nel riferimento locale x nelle componenti u rispetto a un riferimento globale X, comune a tutti gli elementi. La legge di trasformazione si esprime simbolicamente come segue

uTu L = (2.55)

Le componenti di T dipendono dall’angolo tra i due riferimenti. Se in ogni nodo j le componenti di spostamento locale e globale sono numerate consecutivamente, tale matrice si presenta diagonale a blocchi. Precisamente

( )tt00t

T diag=

=

dove la sottomatrice t governa la trasformazione delle componenti di spostamento relative al j-simo nodo. Se indichiamo con α l’inclinazione della linea d’asse rispetto al sistema di riferimento globale, possiamo scrivere

=

1000cossen-0sencos

αααααααααααααααα

t

e quindi

=

1000000cossen-0000sencos0000001000000cossen-0000sencos

αααααααααααααααα

αααααααααααααααα

T

che viene chiamata matrice di rotazione.

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54

La (2.54) era stata determinata supponendo che il sistema di riferimento era unico. Le fasi per passare ad un sistema di riferimento globale, sono:

( ) L0V

tL

V

tL dV dV pdBuBdBp −

= ∫∫ ϑϑϑϑ

dove: GL pTp = GL uTu = G0L0 pTp = quindi

( ) G0V

tG

V

tG dV dV pTdBuTBdBpT −

= ∫∫ ϑϑϑϑ

moltiplicando ambo i membri per T-1 , si ottiene

( ) G01

V

t1G

V

t1G

1 dV dV pTTdBTuTBdBTpTT −−−− −

= ∫∫ ϑϑϑϑ

( ) G0V

t1G

V

t1G dV dV pdBTuTBdBTp −

= ∫∫ −− ϑϑϑϑ

inoltre ∫=

V

tL dV BdBk e ( )∫=

V

tL dV ϑϑϑϑθθθθ dBp

pertanto G0L

1GL

1G ppTuTkTp −−= −−

θθθθ Essendo la matrice di rotazione una matrice ortogonale, la sua inversa è uguale alla sua trasposta

T1 TT =−

G0LT

GLT

G ppTuTkTp −−= θθθθ

G0LT

GGG ppTukp −−= θθθθ

( )LT

G0GGG θθθθpTpukp +−= (2.56)

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55

2.6.3.3 Assemblaggio In questa fase si crea la matrice di rigidezza di tutta la struttura, come somma delle matrici locali, riferite al sistema di riferimento globale, dei singoli elementi e:

( )eT

e0ee θθθθpTpUkp +−= N1e ,,!=

( )∑∑∑===

+−=N

1ee

Te0

N

1ee

N

1ee θθθθpTpUkp (2.57)

Ponendo

∑=

=N

1eekK ( )∑

=

+=N

1ee

Te0 θθθθpTpP

La (2.57) si scrive PUK = (2.58) C’è da dire che la matrice K e le matrici ke hanno dimensioni diverse. Quest’ultime vanno collocate in K nelle posizioni corrette, in modo che le componenti di spostamento dei singoli elementi vengono identificate con le corrispondenti nella struttura assemblata. 2.6.3.4 Vincoli e spostamenti assegnati La matrice di rigidezza K è stata assemblata ignorando i vincoli, essa è quindi non definita positiva, in quanto sono presenti modi rigidi. Per eliminare questi modi occorre imporre i vincoli, andando a modificare la matrice di rigidezza K e il vettore dei carichi P. Il vettore degli spostamenti nodali è decomponibile in due parti, il sottovettore U* che raccoglie le M componenti libere e il sottovettore U0 che contiene quelle di valore assegnato. Al primo corrisponde il vettore delle forze nodali P*, note, mentre la parte associata a U0 è costituita dalle reazioni vincolari R. Simbolicamente si scrive

=

RP

UU

KKKK **

*

**

000T

0

0 (2.59)

o anche, sviluppando i prodotti matriciali e riordinando i termini

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56

00UKPUK **** −= 000

T0 UKUKR ** += (2.60a, b)

La (2.60a) consente il calcolo degli spostamenti liberi U*, che vi compaiono come uniche incognite. Una volta valutato U*, le reazioni vincolari possono essere calcolate sostituendolo nella (2.60b). 2.6.4 EFFETTI DEL SECONDO ORDINE (non-linearità geometriche) 2.6.4.1 Approccio energetico Consideriamo un elemento monodimensionale privo di carichi distribuiti, sia trasversali che assiali e scriviamo per esso il funzionale energia potenziale totale: [ ] { }∫ +=

l

2221 dxEJχEAεuΠ (2.61)

la deformazione al 2° ordine e la curvatura sono 2

x21

x0 wu ,, ++= εεεεεεεε xxw ,=χχχχ (2.62) che sostituite nella (2.61) danno [ ] ( ){ }∫ =+++=

l

2xx

22x2

1x02

1 dxwEJwuEAuΠ ,,,εεεε

( ){ }∫ =++++++=l

2xx

2xx

2x0x0

4x4

12x

202

1 dxwEJwuwu2wuEA ,,,,,,, εεεεεεεεεεεε

[ ] ∫∫∫∫ ++++=l

x0l

4x8

1

l

2x2

1

l

202

1 dxuEAdxwEAdxuEAdxEAuΠ ,,, εεεεεεεε

∫∫∫ +++l

2xx2

1

l

2xx2

1

l

2x02

1 dxwEJdxwuEAdxwEA ,,,,εεεε

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57

Ponendo 00 EAεN = , si ha: [ ] ∫∫ ++=

lx0

l002

1 dxuNdxNuΠ ,εεεε

{ }∫ +++++l

2xx

2xx

4x4

12x0

2x2

1 dxwEJwuAEwEAwNuEA ,,,,,,

[ ] { } +++++= ∫∫∫

l

2xx

2x0

2x2

1

lx0

l002

1 dxwEJwNuEAdxuNdxNuΠ ,,,,εεεε

∫∫ ++l

4x24

1

l

2xx6

1 dxwAE3dxwuAE3 ,,,

Lo sviluppo in serie di Taylor di [ ]uΠ nella configurazione 0 è

[ ] [ ] [ ] [ ] [ ] [ ]uΠuΠuΠuΠuΠuΠ ''''024

1'''06

1''02

1'00 ++++=

dove [ ] ∫=

l002

10 dxNuΠ εεεε

[ ] ∫=l

x0'0 dxuNuΠ ,

[ ] { }∫ ++=l

2xx

2x0

2x2

1''02

1 dxwEJwNuEAuΠ ,,,

[ ] ∫=l

2xx6

1'''06

1 dxwuAE3uΠ ,,

[ ] ∫=l

4x24

1''''024

1 dxwAE3uΠ ,

I termini [ ]uΠ0 e [ ]uΠ '

0 sono nulli perché partiamo da una configurazione indeformata, l’energia di deformazione è pertanto pari, trascurando, inoltre, i termini di grado superiore al secondo, a

[ ] [ ] { }∫ ++=≅l

2xx

2x0

2x2

1''02

1 dxwEJwNuEAuΠuΠ ,,,

[ ] [ ] ∫∫∫ ++=≅l

2x02

1

l

2xx2

1

l

2x2

1''02

1 dxwNdxwEJdxuEAuΠuΠ ,,, (2.63)

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58

Poniamo HpN0 −= (figura 2.18) , con H sempre positivo se di compressione e la (2.63) diventa [ ] [ ] ∫∫∫ −+=≅

l

2x2

1

l

2xx2

1

l

2x2

1''02

1 dxwHpdxwEJdxuEAuΠuΠ ,,, (2.64)

Se sostituiamo nella (2.64) le funzioni di forma determinate precedentemente e cioè

( ) ( )x alxa

lx1xu a

t21 Na=+

−=

( ) +

+−+

+−= 23

3

2

2

13

3

2

2

flx

lx2

lxlf

lx2

lx31xw

( )x flx

lxlf

lx2

lx3 f

t43

3

2

2

33

3

2

2

Nf=

+−+

−+

ed eseguendo derivazioni e integrazioni, la (2.64) diventa

[ ] [ ] ( ) ( )ukkufkkfaka GfEft

21

GfEft

21

at

21''

021 ppuΠuΠ −=−+=≅

Figura 2.18

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59

dove si è posto

−== ∫ 11

11l

EAdxEAl

0

taaa'' NNk

−−−−

−−

== ∫22

22

3

l

0

tffEf

4l6l2l6l6l126l12

2l6l4l6l6l126l12

lEJdxEJ '''' NNk

−−−−

−−

== ∫22

22l

0

tffGf

4l3ll-3l3l363l63l-3l4l3l3l633l36

l30HdxH '' NNk

=

Ef

aE 0

0k

kk

=

GfG 0

00k

k (2.65a, b)

Le (2.65) definiscono le matrici di rigidezza elastica e geometrica dell’elemento di trave. La prima congloba i contributi assiali e flessionali, che si presentano disaccoppiati, e coincide con l’espressione ottenuta precedentemente (2.6.3.1) operando in piccoli spostamenti. La (2.65b) incorpora gli effetti dell’azione assiale sulla rigidezza, che diminuisce in elementi compressi ( )0H > . Questi effetti intervengono solo attraverso lo spostamento trasversale, cioè per w(x)≠0.

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2.6.4.2 Lo studio dei ponti strallati in regime elastico con il metodo degli elementi finiti tenendo conto degli effetti del secondo ordine. Un ponte strallato è una struttura che, a rigore, andrebbe studiata in campo non lineare. Come è stato già detto precedentemente per una fune la soluzione in campo lineare non esiste, sembrerebbe ovvio che l’analisi andrebbe condotta considerando anche le non linearità geometriche. L’utilizzo del modulo di elasticità di DISCHINGER ci permette di condurre l’analisi in ambito lineare, senza commettere grossi errori se le non linearità sono modeste, non-linearità che possono essere messe in relazione con il rapporto q/gη = fra i carichi accidentali e i carichi permanenti. Se questo rapporto è basso ( 300200η .. ÷= per ponti con impalcati in calcestruzzo) la divergenza dalla linearità è moderata, se viceversa il rapporto è alto ( 002001η .. ÷= per ponti con impalcato in acciaio) il modulo di DISCHINGER ci porta a commettere grossi errori, almeno quello tangente, il modulo secante, anche se formalmente più corretto, non sembrerebbe di facile ricerca in quanto occorre utilizzare un procedimento iterativo che potrebbe anche non convergere, inoltre l’approssimazione alla curva *εεεεσσσσ− è molto grossolana. L’utilizzo del metodo degli elementi finiti e della matrice geometrica KG ci permettono di scavalcare questi problemi, in quanto la matrice di rigidezza viene aggiornata ad ogni passo o iterazione per tener conto dell’irrigidimento dei cavi dovuto agli sforzi di trazione. Si pone il problema dell’avvio del processo iterativo, in quanto, essendo nulli gli sforzi normali negli stralli, è nulla per tali elementi la matrice geometrica del primo passo di calcolo. Solitamente, per innescare il procedimento, si attribuisce un valore iniziale di pretensione alle funi oppure si applica il peso proprio alle funi dopo aver applicato alla travata una parte del carico, di modo che le funi ricevono il peso proprio quando hanno già una conveniente pretensione. Tale calcolo non ha, però, alcun interesse pratico perché al fine di limitare le frecce dell’impalcato, gli stralli devono essere convenientemente pretesi. Tuttavia tale calcolo fornisce utili indicazioni per definire l’entità delle pretensioni necessarie per limitare adeguatamente l’inflessione della travata.

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C’è da dire, inoltre, che gli sforzi complessivi negli stralli non sono influenzati, in misura apprezzabile, dai valori iniziali delle pretrazioni. Per poter effettuare l’analisi non-lineare è, in genere, necessario fare ricorso a metodi di calcolo iterativi. Per tali metodi lo schema di calcolo si articola nelle seguenti fasi:

1. Con i carichi assegnati si svolge il calcolo della struttura con la teoria del 1° ordine; vale a dire considerare nulla la matrice di rigidezza geometrica di ciascuna asta. Si determinano in tale modo i valori degli sforzi normali { }1N .

2. Si ricalcolano le matrici delle rigidezze delle varie aste,

valutando i coefficienti di rigidezza delle matrici geometriche con i valori degli sforzi normali { }1N .

3. Si risolve nuovamente la struttura con gli stessi carichi assegnati e si calcolano gli sforzi normali, in generale diversi da quelli ottenuti con il primo calcolo. Sia { }2N l’insieme dei valori così calcolati.

4. Si aggiornano nuovamente i valori dei coefficienti della

matrice di rigidezza geometrica.

5. Si ripercorre il calcolo descritto al passo 3, e così di seguito. S’intende che il calcolo si arresta quando gli sforzi normali calcolati al passo i sono poco dissimili da quelli calcolati al passo i+1. L’onere di calcolo, ovvero il numero delle iterazioni, dipende dal criterio di convergenza adottato e dal grado di approssimazione che si intende raggiungere. Esistono vari criteri di convergenza, fra questi il più ricorrente consiste nel verificare, ad ogni iterazione, che:

{ }{ } εεεε≤∆

2i

2i

NN

100

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dove: εεεε è l’errore percentuale massimo ammesso, { }iN∆ è la differenza fra i valori degli sforzi normali calcolati al passo i-1 e quelli calcolati al passo i. { }

2iN∆ { }2iN sono le norme euclidee.

C’è da osservare che un criterio di convergenza analogo al precedente potrebbe essere applicato sul vettore degli spostamenti nodali. Metodi risolutivi per problemi non-lineari: il metodo di Newton-Raphson. E’ un metodo iterativo molto semplice, che permette di risolvere problemi non-lineari, sia di natura geometrica che del materiale. Consideriamo il seguente sistema di equazioni non-lineari ( )UψP = (2.66) che possiamo equivalentemente scrivere come ( ) ( ) 0PUψUΦ =−= (2.67) dove P e U indicano i vettori delle forze e degli spostamenti nodali. Supponiamo che le componenti di ΨΨΨΨ siano funzioni differenziabili in U, supponiamo, inoltre, di conoscere una soluzione approssimata Un della (2.67). Sviluppando la (2.67) in serie di Taylor attorno a Un e troncando al termine del primo ordine si ottiene

( ) ( ) { } 0UUUΦUΦUΦ =−

∂∂+≅ ++ n1n

U

n1n

n

(2.68)

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La (2.68) rappresenta un sistema lineare che consente il calcolo di un valore aggiornato Un+1 per gli spostamenti nodali e si configura come elemento di un processo iterativo per la soluzione della (2.67). Introduciamo la seguente matrice

( )

∂∂=

∂∂=

UΦUKT

j

i

j

iTij UU

K∂Ψ∂=

∂Φ∂= (2.69)

La matrice KT(U) altro non è che la matrice tangente a ΨΨΨΨ nel punto U. Per semplificare la scrittura delle relazioni successive poniamo ( )nn UΨΨ = ( )nn UΦΦ = ( )n

TnT UKK = (2.70a, b, c)

n1nn UUΔU −= + (2.71) La (2.68) si scrive, simbolicamente ( ) ( ) ( )n1n

Tn1n

Tn ΨPKΦKΔU −=−= −− nn1n ΔUUU +=+ (2.72a, b)

Il processo viene iterato aggiornando ogni volta le (2.69) e le (2.70) e termina (figura 2.19a) quando il vettore PΨΦ −= nn (2.73) diviene sufficientemente piccolo. Vale a dire, quando risulta αααα<nΦ (2.74) dove nΦ è un’opportuna norma del vettore (tipicamente, il suo

modulo o il massimo valore assoluto delle sue componenti) e α un’assegnata tolleranza. Gli spostamenti nodali (2.72b) rappresentano allora la soluzione della (2.66), a meno di un errore controllato da α. L’applicazione del metodo di Newton-Raphson nella sua veste originale può rivelarsi onerosa in quanto ogni iterazione richiede di ridefinire la matrice dei coefficienti n

TK e quindi di risolvere un diverso sistema di equazioni lineari. Ciò può essere evitato ricorrendo ad una versione modificata del metodo (figura 2.19b), che consiste

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semplicemente nell’assumere, indipendentemente dall’iterazione corrente 0

TnT KK = (2.75)

per cui la (2.72a) diventa ( ) ( )n10

Tn ΨPKΔU −=

− (2.76) In questo modo ad ogni iterazione si aggiorna solamente il vettore dei termini noti e non si decompone la matrice n

TK , aumenta però il numero delle iterazioni. La convergenza del metodo di Newton-Raphson non è garantita in ogni circostanza, come vedremo in seguito, ma normalmente si verifica se il vettore di partenza non è molto discosto dalla soluzione.

Figura 2.19

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Metodi risolutivi per problemi non-lineari: metodo di calcolo incrementale. Il problema può essere risolto oltre che con dei metodi iterativi anche con dei metodi incrementali, in cui si può osservare il comportamento della struttura man mano che viene caricata. Supponiamo di conoscere le equazioni di equilibrio nell’incognita α [ ] FL =αααα (2.77) Sia inoltre α0 la configurazione nota relativa allo stato iniziale A. Se, anziché applicare i carichi complessivi, si suppone di effettuare un caricamento progressivo con incrementi di carico ∆F sufficientemente piccoli, è lecito ritenere che per il primo incremento di carico la struttura passi dallo stato iniziale A allo stato A+∆A sufficientemente vicino a quello iniziale e definito da una piccola variazione ∆α del movimento. Sviluppiamo in serie di Taylor la (2.77)

[ ] [ ] FRddLLL

A00 ∆=+∆

+=∆+ αααααααα

αααααααααααα (2.78)

dove R è il resto, trascurabile se 2αααα∆ è trascurabile rispetto a ∆α. In questo modo linearizziamo il problema e l’equazione da risolvere diventa

[ ] FddLL

A0 ∆=∆

+ αααααααα

αααα (2.79)

Risolta il sistema di equazioni lineari (2.79) il passo successivo consiste, ovviamente, nell’applicare un nuovo incremento di carico e ripetere il procedimento assumendo però come configurazione iniziale della struttura quella, nota, ottenuta al termine del primo passo. Nel nostro caso alla fine di ogni passo dobbiamo aggiornare la matrice di rigidezza geometrica della struttura . Ovviamente ad ogni passo si commette un errore che si somma a quelli dei passi precedenti e di cui è difficile stimarne l’entità. Il procedimento di calcolo si arresta quando si è raggiunto l’ultimo incremento di carico { } 2F∆ ed è allora evidente che i movimenti e le

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azioni interne complessive sono dati dalle seguenti relazioni: { } { } { } { } n21 αααααααααααααααα ∆++∆+∆= ! (2.80) { } { } { } { } n21 SSSS ∆++∆+∆= ! (2.81) La soluzione di un problema non-lineare viene così trasformata nella ripetuta soluzione di problemi lineari (figura 2.20).

Metodi risolutivi per problemi non-lineari: il metodo incrementale-iterativo di Newton-Raphson. Con tale metodo si evitano i problemi di convergenza del metodo di Newton-Raphson descritto precedentemente. Si tratta, in parole povere, del metodo incrementale in cui si innesta, ad ogni passo, il metodo di Newton Raphson classico o modificato (figura 2.21a, b).

Figura 2.20

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Il metodo descritto, sia nella forma originale, sia in quella modificata, è in genere molto valido per l’analisi di strutture che presentano legami carico-spostamenti del tipo di figura 2.21, ossia con abbattimento della rigidezza della struttura al crescere del carico. Nel caso dell’analisi di un ponte strallato, ma in generale di qualunque struttura realizzata con sistemi di funi, il legame carico spostamenti, per gli stralli, è del tipo di figura 2.22. Se la rigidezza iniziale della struttura è molto minore di quella che la stessa struttura raggiunge quando è sottoposta a carichi di qualche rilevanza si possono avere problemi di convergenza. Tali problemi possono essere evitati innescando il calcolo con incrementi iniziali di carico relativamente piccoli. La figura 2.22 mostra, infatti, che la prima forza non equilibrata risulta negativa, e di intensità paragonabile a 1F∆ , se il primo incremento di carico non è sufficientemente piccolo. Il problema, che è molto insidioso, può anche essere evitato iniziando il calcolo non con la matrice tangente ma con una matrice secante.

Figura 2.21

(a) (b)

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Osservazioni sul concetto di matrice di rigidezza tangente nel riferimento generale. Per un asta, facente parte di una struttura, l’espressione che lega, in un generico stato A nel sistema di riferimento generale, le variazioni delle azioni { }S alle variazioni dei movimenti { }ββββ è { } [ ] { }δβKδS At= (2.82) dove [ ]AtK è la matrice di rigidezza tangente dell’asta nel riferimento generale. Le variazioni { }δS sono legate alle variazioni { }Sδ , nel sistema locale, dalla seguente espressione: { } [ ] { } [ ] { } A

TA

TA SRSδRδS δδδδ+= (2.83)

Figura 2.22

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Nella (2.83) compare la variazione della matrice di rotazione in quanto tale trasformazione dipende dagli stessi valori di { }ββββ e quindi dalle loro variazioni. Nel sistema di riferimento locale possiamo scrivere { } [ ] { }βδKSδ At= (2.84) che sostituita nella (2.83) fornisce: { } [ ] [ ] { } [ ] { } A

TAAt

TA SRβδKRδS δδδδ+= (2.85)

ma { } [ ] { }δβRβδ A= (2.86) sostituendo la (2.86) nella (2.85) si ottiene { } [ ] [ ] [ ] { } [ ] [ ] { } AA

TAAAt

TA SRRδβRKRδS δδδδ+= (2.87)

La (2.87) mostra che le variazione delle azioni { }S è legata alla variazione dei movimenti { }β da due trasformazioni. La prima fornisce la variazione delle azioni { }S a seguito delle variazioni dei movimenti { }β , quindi a seguito dell’insorgere di deformazioni nell’asta. La seconda trasformazione trae origine essenzialmente dalla circostanza che le azioni { }S affioranti all’estremità dell’asta nello stato A cambiano direzione rispetto al riferimento locale a seguito delle variazioni di movimenti { }β . Il metodo iterativo di Newton-Raphson converge, come abbiamo visto, anche se si utilizza una matrice diversa da quella tangente, quindi la parte finale della (2.87) può venire trascurata.

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Osservazioni sul metodo incrementale-iterativo di Newton-Raphson. Abbiamo detto precedentemente che il metodo di Newton-Raphson nella sua veste modificata è meno oneroso, dal punto di vista computazionele, del metodo nella sua forma originale, in quanto si va ad operare una sola volta sulla matrice di rigidezza. Alcune volte, però, il numero delle iterazioni aumenta a tal punto da rendere nullo il vantaggio di iterare sempre con la stessa matrice (figura 2.23a). E’ opportuno, quando le iterazioni diventano elevate, calcolare la matrice tangente alla fine del passo e continuare con quest’ultima l’iterazione (figura 2.23b).

(a) (b)

Figura 2.23

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Valutazione Approssimata degli effetti del secondo ordine: il metodo dei tagli fittizi (effetto P-∆∆∆∆). Il metodo è iterativo e molto semplice ed offre il vantaggio di operare soltanto sulla matrice di rigidezza elastica [ ]EK della struttura. Tale metodo è di solito usato per tener conto, in qualche modo, degli effetti del secondo ordine nelle strutture intelaiate degli edifici. Sembrerebbe non adatto all’analisi dei sistemi di funi, ma viene utilizzato in molti codici di calcolo, tra cui anche quello che abbiamo utilizzato per l’analisi elastica e dinamica del nostro ponte strallato asimmetrico. Il sistema di equazioni risolventi il problema è:

LuFKu += dove L è unamatrice che contiene solotermini ii hw / (tagli fittizi).

LKK* −= con K* nonsimmetrica. Si eseguono ripetuti calcolielastici fintanto che ladifferenza fra i tagli fittizi didue successive iterazioni èpiccola.

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2.6.5 EFFETTI DEI TRATTI RIGIDI Le matrici di rigidezza determinate precedentemente sono valide nell’ipotesi che le dimensioni delle sezioni siano trascurabili rispetto alla lunghezza degli elementi. Se le dimensioni non sono trascurabili l’ipotesi di nodo puntiforme non può essere accettata. In questi casi si può operare inserendo all’estremità degli elementi dei tratti rigidi di lunghezza opportuna (figura 2.24) .

Le matrici di rigidezza del nuovo elemento assumeranno, quindi, una forma diversa da quelle viste precedentemente:

−−−

=

21212

123123

12212

123123

DlEJ4D

lEJ60B

lEJ2D

lEJ60

DlEJ6

lEJ120C

lEJ6

lEJ120

00l

EA00l

EA

BlEJ2C

lEJ60C

lEJ4C

lEJ60

DlEJ6

lEJ120C

lEJ6

lEJ120

00l

EA00l

EA

k

dove:

lc21C1 +=

+=

lc1

lc3C2

ld21D1 +=

+=

ld1

ld3D2

++

+=

lc1

ld3

ld1

lc3B

Figura 2.24

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2.6.6 EFFETTO DELLA DEFORMABILITA’ TAGLIANTE La matrice di rigidezza determinata in 2.6.3.1 è riferita alla trave di Eulero-Bernoulli, non tiene conto, quindi, della deformabilità tagliante. Questa può essere introdotta in due modi:

1. tramite coefficienti correttivi;

2. ricalcolando la matrice di rigidezza tenento conto anche degli scorrimenti angolari.

Tramite coefficienti correttivi.

( ) ( )

( ) ( )

+−+

−−−

+−+

=

2212112

123123

1122212

123123

λDφl

4EJφDl

6EJ0λBφl

2EJφDl

6EJ0

φDl

6EJφl

12EJ0φCl

6EJφl

12EJ0

00l

EA00l

EA

λBφl

2EJφCl

6EJ0λCφl

4EJφCl

6EJ0

φDl

6EJφl

12EJ0φCl

6EJφl

12EJ0

00l

EA00l

EA

k

con

12β1φ+

= β1λ1 −= 2β1λ2 +=

GAχ

l6EJβ 2 ⋅=

e dove C1 C2 D1 D2 B sono i coefficienti che tengono conto dei tratti rigidi.

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Ricalcolando la matrice di rigidezza tenento conto anche degli scorrimenti angolari. La trave è quella di Timoshenko, il problema è, quindi, governato da due componenti di spostamento e deformazioni. Precisamente

( ) ( )( )

=xxw

ϕϕϕϕxs ( ) ( )

( )

−=

=ϕϕϕϕw

1d/dxd/dx0

xtxχ

dove w è lo spostamento trasversale della linea media e ϕ è la rotazione della sezione, mentre χ e t indicano, rispettivamente, la curvatura flessionale e lo scorrimento medio. Usando un’approssimazione lineare per entrambe le componenti di spostamento, si ha:

( )lxaaxw 21 += ( )

+=

lxbb

l1x 21ϕϕϕϕ

da cui si ottiene

( ) 22 bl1xχ −= ( )

−−=

lxbba

l1xt 212

e quindi:

( )

−=

x0xl00x0xl

l1xN ( )

−+−−−

=x1xl11010

l1xB

∫=l

0

dxB dBk t

= *d

GA00EJ

−+

−−−

=

1010000010100000

lEL

3l

2l

6l

2l

2l1

2l1

6l

2l

3l

2l

2l1

2l1

lGA

22

22

*

k

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BIBLIOGRAFIA [1] Troitsky M.S., Cable-stayed Bridges, Theory and Design, Crosby Lockwood Staples, London, 1977. [2] Walther R., Cable stayed bridges, Thomas Telford, London, 1999. [3] Gimsing N.J., Cable Supported Bridges, Concept & Design, John Wiley & Sons, Chichester, 1996. [4] Petrangeli M.P., Progettazione e costruzione di ponti, Masson, Milano, 1998. [5] De Miranda F., I ponti strallati di grande luce, Ed. Scientifiche A. Cremonese, Roma, 1980. [6] Majowiecki M., Tensostrutture: Progetto e verifica, Edizioni CREA, Genova, 1994. [7] Corradi Dell’Acqua L., Meccanica delle strutture, la valutazione della capacità portante, McGraw-Hill, Milano, 1994. [8] Corradi Dell’Acqua L., Meccanica delle strutture, le teorie strutturali e il metodo degli elementi finiti, McGraw-Hill, Milano, 1994. [9] Capalbo C., Appunti di Scienza delle Costruzioni, Rende, 1996. [10] Pozzati P., Ceccoli C., Teoria e tecnica delle strutture, UTET, Torino, 1995. [11] SAP2000, Geometric stiffness and P-Delta effects, Computers and Structures Inc., Berkeley, California, 1999.