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INHABITANT EXPERIENCE - BASED URBAN PLANNING Else Caggiano

Inhabitant Experience-based Urban Planning. E.C

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Verso una città a misura umana. L'intento di questo lavoro è di offrire attraverso spunti e riflessioni condotti da diversi studiosi e urbanisti dagli anni '50 ad oggi, un metodo per sopperire alle discrepanze troppo spesso presenti tra idee pianificatorie e necessità della popolazione. Con la speranza di stimolare studenti e progettisti a coinvolgere gli abitanti nei processi di progettazione urbana, in quanto la città è l’insieme dei suoi abitanti, il cui risultato non è la loro somma numerica, ma qualcosa di più, quella scintilla che scaturisce dallo scopo comune dei cittadini e che costituisce l’anima della citta.

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INHABITANTEXPERIENCE - BASEDURBAN PLANNING

Else Caggiano

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A mamma e papà

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ELSE CAGGIANO

INHABITANT EXPERIENCE- BASED URBAN PLANNING

Le città hanno la capacità di beneficiare tutti, se e solo se sono create per tutti.Jane Jacobs

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INDICE

Premessa 11

1. Psico-analisi urbana: un progetto di Laurent Petit 17A.N.P.U. 17Metodo 20Giuste domande per una giusta città 19

2. Jane Jacobs: vita e rischio di morte delle metropoli 23 Modi di affrontare la crisi dell’ordine urbano 24Caratteristiche urbane e comportamento sociale 25L’aspetto organico delle funzioni urbane 26La sicurezza e i contatti umani 29Il buon governo è l’autogoverno 31Cenni sulle funzioni dei parchi di quartiere 32Conclusioni 33Biografia. Pensiero. Bibliografia. 34

3. Giancarlo De Carlo: l’architettura della partecipazione 37L’architettura della partecipazione 38Differenza tra progettare “per” gli utenti e progettare “con” gli utenti 39Il senso frainteso della partecipazione, oggi 41La responsabilità del progetto 42Il passaggio da “progettazione”a “processo”di architettura partecipata 43Il processo dell’architettura della partecipazione 44Biografia. Pensiero. Bibliografia. 46

4. Kevin Lynch: l’immagine della città 49 La percezione dello spazio 49La pianificazione “bottom-up” 50Spazio esistenziale e immagini ambientale 51Percezione e rappresentazione dello spazio sensibile.

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Le mappe mentali 55 Uso del metodo 59Conclusioni 60Intervista 61Biografia. Pensiero. Bibliografia 62

5. Yona Friedman: «I was not present» 65 Lotta alle nuove mafie 65Spazio e utopia 66L’autodeterminazione dei singoli 69Le teorie di Friedman e il Principe di Machiavelli 70Yona Friedman secondo Franco Purini 70Conclusioni 73Biografia. Pensiero. Bibliografia 74

6. Per una città a misura umana 77I danni del delegare 77Le città contemporanee non sono amiche dei bambini 78Il bambino e lo spazio pubblico 79Il coinvolgimento dei bambini nei processi di trasformazione territoriale e urbana 82I bambini come indicatori ambientali 84La scala di partecipazione dell’infanzia secondo Hart 84Italo Calvino: Le città invisibili 85Il place-based creative problem solving 87Combattere il degrado con la creatività 88Esperienze concrete 89Change makers 89

7. Psicologia ambientale 91L’importanza dell’aspetto psicologico nella concezione, progettazione e recupero degli ambienti urbani 91

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La città pensata 93La percezione della qualità ambientale 96Il concetto di luogo 99La consulenza psicologico-ambientale nella progettazione architettonica e urbanistica 101Cos’è la psicologia ambientale 102Misurare il benessere dei cittadini 103Bibliografia 105

8. Verso la progettazione urbanistica 107Preliminari metodologici 107Strumenti di interazione guidata 111La comunicazione pubblica 111Alcuni metodi di coinvolgimento 112

9. L’aspetto partecipativo nella riqualificazione urbana 119Nuove visioni e soluzioni per il governo del territorio 119Partecipazione reale e retoriche della partecipazione 120Tra fine della città e creatività diffusa 121Vantaggi della progettazione partecipata 124Lo stato d’investimento sociale 125

10. Considerazioni finali 127

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PREMESSA

Quel che più conta nella teoria dell'urbanistica è l'esperienza umana dell'ambiente: l’abitare.Un tema sempre più discusso dal panorama culturale internazionale, grazie allo sviluppo delle politiche urbane rivolte alla sostenibilità, riguarda la correlazione tra la qualità urbana e la qualità della vita rispetto all’ambiente urbano. La psicologia applicata all’urbanistica, la sociologia dell’abitare e la progettazione urbanistica studiano tale relazione. Il loro principale contributo, nonché obiettivo, è quello di analizzare l’influenza dell’ambiente sul nostro comportamento e sulla nostra mente e viceversa capire come l’uomo, con la sua mente e il suo comportamento, possa modificare l’ambiente. Risulta quantomai importante oggigiorno ragionare olisticamente sulle pratiche che riguardano il rinnovamento del territorio e adottare criteri multidisciplinari e di contatto con gli abitanti per sopperire alle discrepanze troppo spesso presenti tra le idee pianificatorie e le necessità della popolazione. L’intento di questa ricerca è analizzare i contributi maggiori che le suddette discipline rivolgono alla pianificazione urbanistica attraverso studi e ricerche in ambito nazionale ed internazionale e trovare un

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metodo che sintetizzi criticità ed esigenze individuate dagli addetti ai lavori e dagli abitanti che risiedono negli ambiti di trasformazione urbana.

Considerando come l’ambiente condizioni il comportamento umano, un caso estremo ed impressionante è riscontrabile da un esperimento sulla percezione del bello, effettuato dal violinista Joshua Bell nella metropolitana di Washington. L’uomo, in un freddo mattino di gennaio, si siede in una stazione della metropolitana e inizia a suonare col violino sei pezzi di Bach per 45 minuti. Si è calcolato che durante tale lasso di tempo, scelto nell’ora di punta, vi sia stato il transito per la stazione di almeno 1100 persone che andavano a lavorare, tra queste solo sei si trattengono un po’, circa 20 danno dei soldi, ma continuano a camminare normalmente. Alla fine dell’esibizione nessuno applaude, né ci è alcun riconoscimento nei suoi confronti; chi presta più attenzione è un bambino di tre anni, la madre lo invita a sbrigarsi, ma il ragazzino si ferma a guardare il violinista. Nessuno lo sapeva, ma il violinista era uno dei musicisti più talentuosi del mondo e due giorni prima aveva fatto il tutto esaurito al teatro di Boston, dove i posti costavano in media 100 dollari. Questo esperimento è denso di riflessioni su cosa è e cosa è diventata la nostra percezione, se non abbiamo un momento per fermarci ad ascoltare un musicista tra i migliori del mondo, che suona la migliore musica mai scritta – quante altre cose ci stiamo perdendo? La ricerca affronta la riflessione su come il cittadino debba vivere nello spazio urbano e su come oggi il senso del bello stia drasticamente cambiando ed evolvendo verso qualcosa a cui non siamo abituati e preparati. Come oggi non si ha più tempo di sostare un attimo in una metropolitana per ascoltare un grande virtuoso di musica classica così non si ha più tempo per scambiare due parole con il vicino di casa o per guardare il panorama sia nel piccolo che nella grande scala della propria città. La progettazione urbanistica deve tenere in considerazione queste riflessioni poiché essa stessa, attraverso i suoi disegni e la strutturazione della città, concorre a modificare il comportamento e la qualità della vita del cittadino. Soprattutto, la città ha bisogno di essere pensata, ha bisogno di noi tutti. La città costruita dal pensiero e dalla partecipazione, può dare origine ad una nuova qualità della vita. Alla sua realizzazione sono necessari, la condivisione di spazi e luoghi, idee ed obiettivi e una sorta di educazione al vivere sociale e al senso del bello. È opinione condivisa ormai che il significato di città non può limitarsi alla

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definizione da vocabolario come «aggregato di abitazioni»: «La città è un centro non solo abitato ma da rendere abitabile nel miglior modo possibile, con edifici disposti più o meno regolarmente, in modo da formare vie di comoda transitabilità, fornite di servizi pubblici e di quanto altro sia necessario per offrire condizioni favorevoli alla vita sociale (il concetto di città è legato a quello di una molteplicità di funzioni economiche, sociali, culturali, religiose, amministrative, sanitarie, ecc. riunite in un solo luogo). (…) Con varie specificità, può indicare un agglomerato urbano, contraddistinto da caratteristiche proprie sotto l’aspetto storico, costruttivo, urbanistico, o di destinazione e fruizione, ecc.». Sostanzialmente parlando, la città è l’insieme dei suoi abitanti, il cui risultato non è la loro somma numerica, ma qualcosa di più, quella scintilla che scaturisce dallo scopo comune dei cittadini e che costituisce l’anima della città. Il termine città non è un concetto astratto e non esprime un’utopia, è invece una forma concreta. Laddove ciò che viene pensato può quindi essere realizzato.

L’idea di questo studio nasce in un primo momento verso la fine del mio percorso accademico in Scienze dell’Architettura, quando fui colpita dalla lettura di un articolo pubblicato su “La Repubblica” intitolato “Le città sul lettino di Freud”; si trattava di una ricerca di psico-analisi urbana, promossa dall’ingegnere e performer francese Laurent Petit. Quest’ultimo, insieme alla sua associazione ANPU, partendo dal concetto che anche le città hanno un subconscio e soffrono, esattamente come gli esseri umani, di nevrosi, angosce, complessi e paure recondite, indaga sul rapporto che intercorre tra quella che gli psicologi chiamano «self identity» e «place identity», l'identità individuale e l'identità del luogo, costantemente minate dal degrado urbano e dalla spersonalizzazione dei luoghi. Aiutati dagli strumenti della psico-analisi, intervistano gli abitanti della città oggetto di studio e ne ripercorrono la storia, attraverso i loro miti e le leggende popolari, analizzano i dati raccolti risalendo ai danni causati dalla progettazione urbana e infine mettono in scena una performance sulle condizioni esistenziali della città e dei suoi abitanti in una cornice di surrealismo e provocazione. L’ANPU si prende la briga anche di assegnare delle terapie per risanare la città o, se non altro, per gettare negli abitanti il seme del cambiamento. Questo loro dialogo con gli abitanti e l’adozione di un approccio artistico e tecnico allo stesso tempo (il gruppo di lavoro è composto da figure professionali quali architetti e psicologi) per puntare il dito sui problemi di una città,

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riportandone alla luce la progettazione inadeguata su cui si sono formati, mi ha fatto riflettere sul come effettivamente noi cittadini siamo la cartina tornasole della pianificazione urbanistica e quanto potremmo fare la differenza se fossimo coinvolti in quest’ultima facendo rispettare le nostre reali esigenze.

In seguito, durante il periodo di tirocinio presso la sede del Comune di Napoli di Largo Torretta, dove si sta lavorando al Grande Progetto del Centro Storico di Napoli - valorizzazione del sito UNESCO, nel cui programma si legge: “sono compresi interventi nell'insieme finalizzati al recupero e alla valorizzazione del centro storico di Napoli, non solo attraverso il restauro di monumenti e di edifici storici, ma anche attraverso un'articolata serie di interventi sul tessuto urbano del centro storico (dagli impianti tecnologici ai sottoservizi, all'arredo urbano) e sulla gestione degli spazi pubblici. La possibilità di conseguire questo obiettivo è legata alla qualità dei progetti di diversa natura messi in campo e, soprattutto, alla loro organica integrazione”. Ho riflettuto molto sull’agenda messa a punto dal Comune e non vi ho trovato in essa un punto di collegamento con la realtà della città, anzi ho avvertito una quasi estraneità tra le loro intenzioni programmatiche e le esigenze degli abitanti. Non interessarsi di ciò è come parlare di piante senza considerare il terreno o la sua collocazione, perciò ho iniziato a ragionare sulle modalità possibili per colmare questo gap tra tecnici e fruitori – ovvero il nucleo del mio progetto di tesi. In questo lavoro di tesi viene messa in luce la correlazione tra la qualità della vita e la qualità dell’ambiente, cosi come è studiata dalla psicologia applicata alla urbanistica, la psicologia ambientale (disciplina praticamente sconosciuta in Italia). Inoltre si è voluto fare una raccolta di alcuni metodi di analisi sulla vita pubblica basati sia sul metodo scientifico sia innovativi, per l’approccio ad una progettazione centrata sull’utente, focalizzando l’attenzione sulle modalità di architettura partecipata ed alcuni esempi sperimentali. Viene ripercorsa la storia delle questioni sulle necessità e problemi legati alla vita cittadina dagli anni ’50 ad oggi. Infine si analizzano le maggiori correnti artistiche sensibili al tema urbano e il contributo di alcuni utopisti. L’insieme dei temi proposti è legato dal fine comune di voler stimolare e risvegliare i consueti e consolidati processi di pianificazione urbanistica e avvicinarli all’esperienza di chi abita.

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1. Psico-analisi urbana: un progetto di Laurent Petit

A.N.P.U.

Fra il serio e il faceto, la verità è che anche le città hanno un subconscio. Soffrono, come gli esseri umani, di nevrosi, angosce, complessi e paure recondite. Ogni città ha i suoi miti, incubi, luoghi simbolo. Attraverso un mix di tecnica, surrealismo e provocazione, il team di Laurent Petit: ANPU ( Associazione Nazionale di Psico-analisi Urbana) propone una “terapia” per elaborare le nevrosi collettive e girare pagina.

I soci del team sono, oltre Laurent Petit (l’ideatore di questo processo), Charles Altorferr (architetto, esperto di urbanistica e “regista” degli show-presentazioni), Fabienne Quéméneur (ricercatore di antropologia e responsabile delle relazioni esterne), il collettivo di architetti Exyzt e - soprattutto - un gruppo di psicanalisti urbani che entrano in scena per il momento clou: quello delll’“opération divan”; il lettino con cui si interrogano gli abitanti (fisicamente attraverso una serie di enormi cuscini sparsi fra le strade della città), per riuscire a cogliere punti dolenti e ferite aperte.

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METODO

Si parte con delle visite mirate dal centro alle periferie; incontri con esperti e rappresentanti delle categorie presenti sul territorio (politici, storici, giornalisti, artisti, rappresentati del mondo degli affari e del sociale); raccolta di documenti e immagini. Tutti i dati raccolti vengono analizzati e rielaborati alla ricerca di un approccio curativo in quattro punti:

a) la creazione di un “albero mitogenealogico” del territorio-paziente. Il santo patrono, una serie di antenati famosi e le celebrities del momento, un grande ex-sindaco, un fiume o una montagna vicina.

b) la classificazione delle “prove della storia” e l’analisi di come la città ha saputo uscirne. Gli eventi felici o traumatici, le guerre e le crisi economiche, i terremoti, gli omicidi che hanno fatto parlare o gli incidenti diplomatici.

c) la messa in evidenza di un “Pnsu” (Point névro stratégique urbain), ovvero di un luogo simbolico in cui si concentrano le nevrosi del territorio, ma dal quale si possa anche ripartire.

d) la proposta di un “Tru” o un “Tra”, trattamento radicale urbano o archi- tettonico, che altro non è che la messa nero-su-bianco della diagnosi.

Petit scrive: «Dalla nostra esperienza possiamo dire che c’è un 5-10% della popolazione pronta a fare sacrifici per curare i luoghi in cui vive. Da questo zoccolo duro, da queste energie, bisogna partire. Non per fare la rivoluzione, ma almeno per gettare il seme del cambiamento. Così noi tocchiamo il tasto emozionale e usiamo l’ironia e la provocazione, altrimenti questa psicanalisi urbana diverrebbe un corso di morale pubblica. O l’ennesima occasione per alimentare l’antipolitica. Sarebbe triste. E inutile»20

20 “La Repubblica” del 20 Luglio 2013, pp. 53-56.

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“GIUSTE DOMANDE PER UNA GIUSTA CITTÀ”

«La prima missione della psicoanalisi urbana è di trascinare gli abitanti della città paziente nell’iper-poesia»21.

Approccio al sondaggio: accomodati sul divano, mettiti a tuo agio e rispondi alle domande lentamente ma inesorabilmente, immergiti in uno stato di ossessivo torpore, come in una sorta di bambagia...

Se la tua città fosse un frutto o un ortaggio..Se la tua città fosse un animale...Se la tua città fosse una persona, quale sarebbe la sua età..Inoltre, la tua città è un lui o una lei?Se la tua città fosse una qualità.Se la tua città fosse un difetto.

Quale sarebbe ???....

Se la tua città avesse un compleanno, quale sarebbe il suo giorno di nascita..Se la tua città fosse un tipo di musica o una canzone.Se la tua città fosse una pianta.Se la tua città fosse un colore.Se la tua città fosse un pasto

Quale sarebbe ???....

Se la tua città fosse il titolo di un film....Se la tua città fosse una macchina...Se la tua città fosse un nemico... Se la tua città stesse andando in vacanza...

Quale/dove sarebbe ???....

Se la tua città avesse una madre e un padre...Se la tua città avesse fratelli e sorelle....

21 James Lawson, Contributo alla grande storia della psicoanalisi urbana, p. 1 (trad. it. di Else

Caggiano).

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Cose le/gli piacerebbe per il suo compleanno....Lui/lei ha figli....Da crescere sì/no...

Quali sono le tue risposte ???....

«La ricerca di una verità assoluta è solo la forma più fine di una bugia, soprattutto dal momento in cui il passaggio attraverso le apparenze è solo l’apparenza di un passaggio»22.

22 James Lawson, Contributo alla grande storia della psicoanalisi urbana, p. 421 (trad. it. di Else

Caggiano).

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2. Jane Jacobs: vita e rischio di morte delle metropoli

«La programmazione urbanistica è davvero la soluzione per i problemi delle grandi metropoli? O non è piuttosto una prospettiva intellettualistica, viziata di utopismo, dimentica della natura concreta e del modo di interagire delle città reali?». Questa è la domanda chiave che Jane Jacobs ci rivolge nel suo saggio Vita e morte delle grandi città edito nel 1961 a New York. L’autrice è una giornalista, perciò l’argomento è trattato da un punto di vista sociologico, ma le sue osservazioni portano inevitabilmente a conclusioni che gli urbanisti dovrebbero tenere in considerazione Rispetto alla pianificazione urbanistica, J. Jacobs propone di verificare come le città funzionino nella vita reale. In questo modo, i tradizionali principi urbanistici vengono rovesciati: all'ortodossia della disciplina ella predilige i dati eterodossi di una misura umana, perché l'organismo reale della città deve valere più delle regole astratte. I pianificatori, invece, condizionati dai loro codici operativi e da una vera e propria ideologia avulsa dai fatti, finiscono per separare

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la progettazione dalle esigenze della comunità: si creano cosi degli squilibri che, aggravandosi, rischiano di portare le metropoli alla morte11.

MODI DI AFFRONTARE LA CRISI DELL’ORDINE URBANO

Si può affrontare il problema della crisi urbana partendo da una idea della città (qualunque essa sia) o dalla osservazione della vita reale. Nel primo caso l’oggetto della riflessione è precostituito. E non basta. Siccome non può non avere, nello stato presente del pensiero, che il carattere di una tipologia storica, esso presenta anche una grande complessità culturale e un alto livello di astrazione. In particolare questo metodo seleziona, prima ancora di averli presi direttamente in esame, i comportamenti sociali degli abitanti delle città, cioè il dato nel quale si manifesta la crisi urbana. Nel secondo caso, invece, ciò che costituisce l’oggetto primario e preliminare dell’indagine sono proprio questi comportamenti. Ne segue che la prima fase dell’indagine ha, di per sé, un carattere empirico e descrittivo; e come scopo, quello di far entrare nel campo dell’esame, per sottoporla poi alla investigazione teorica, una realtà bene osservata, e non solo intuita o, peggio, prefigurata.

È questo l’orientamento di Jane Jacobs; ed è su questo terreno che essa si è scontrata con le concezioni urbanistiche dominanti. Essa ritiene che l’urbanistica si trovi ancora «nello stesso stadio di dotta superstizione in cui si trovava la medicina agli inizi del secolo scorso» e la paragona alla «scienza del salasso»: «Occorrevano a quel tempo anni di studi per sapere con esattezza quale vena dovesse essere aperta, e con quale tecnica, in relazione a certi sintomi. Su questa base si formò una complicata sovrastruttura tecnica, così presuntuosamente minuziosa da far apparire ancor oggi plausibile il metodo in questione». La sua conclusione è questa: «Come nel caso del salasso, così nel caso della ristrutturazione e della pianificazione urbanistica è sorta, su fondamenti inconsistenti, una pseudo-scienza che richiede anni di studio e una pletora di sottili e complicati dogmatismi… La pratica del salasso – che solo in casi eccezionali o fortuiti poteva risultare utile – venne infine abbandonata e sostituita

11 Jane Jacobs, Vita e morte delle grandi città, Piccola Biblioteca Einaudi,1961

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da una pratica ben più ardua e complessa, consistente nell’elaborare, applicare e verificare, passo per passo, interpretazioni fedeli della realtà dedotte non da come essa dovrebbe essere, ma da come essa è. Al contrario, la pseudo-scienza dell’urbanistica e la sua gemella, l’architettura urbana, non hanno ancora rinunciato alle comode illusioni, ai pii desideri, alle espressioni simboliche, e non osano ancora avventurarsi nell’impresa di esplorare il mondo reale».

J. Jacobs si è effettivamente avventurata nella difficile ma utile impresa di esplorare il mondo reale. Proprio per questo essa ha potuto vedere ciò che di solito si cela dietro la cecità dell’abitudine, cioè dietro la tendenza a confondere il noto con il conosciuto. Lei stessa scrive: «Secondo me il modo migliore per riuscire a capire come funziona il mondo apparentemente misterioso e contraddittorio delle città è quello di esaminare da vicino e con la minor prevenzione possibile gli spettacoli e gli eventi più comuni, cercando di afferrarne il senso e di trovare gli eventuali fili conduttori che li colleghino a qualche principio». E ancora: «La maggior parte delle idee che sono alla base di questo libro provengono da osservazioni fatte o raccolte in altre città [rispetto a quella dove abita, New York]… Quasi sempre il materiale per queste riflessioni era già presente sotto le finestre di casa; ma forse è più facile notare per la prima volta le cose lì dove esse non sono rese ovvie dall’abitudine».

CARATTERISTICHE URBANE E COMPORTAMENTO SOCIALE Sul piano empirico il risultato più importante ottenuto da Jane Jacobs è stato il riuscire a mostrare che esiste uno stretto collegamento tra alcune funzioni urbane essenziali (urbane in senso largo perché non dipendenti solo dal fattore urbano) ed alcune caratteristiche della città come quadro fisico ed organizzativo (urbane in senso stretto perché dipendenti soltanto dal disegno della città e dalle destinazioni d’uso). Le funzioni in questione — più precisamente: quelle inquadrabili subito in questo schema — sono: la sicurezza, lo sviluppo dei contatti umani, l’assimilazione dei ragazzi, mentre le caratteristiche urbane corrispondenti riguardano in primo luogo le strade e i marciapiedi, o per meglio dire, il loro ruolo al di là del semplice fatto di consentire lo scorrimento dei veicoli e il transito dei pedoni.

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Il dato di fatto osservabile è questo: se c’è una netta separazione tra spazi pubblici e privati, in particolare tra i marciapiedi come sedi di vita collettiva e le case come luogo della privacy (separazione che non esiste più nei complessi edilizi residenziali dove si ha in comune con gli altri tutto o niente, e quindi, in ultima istanza, niente), se le strade sono sorvegliate dai loro «naturali proprietari» come i negozianti ecc. (cioè se esiste un numero sufficiente di negozi e di altri luoghi pubblici), e se i marciapiedi sono frequentati con sufficiente continuità lungo tutto l’arco della giornata (sia per la varietà dei luoghi pubblici e della rete commerciale, sia perché una strada animata «costituisce di per sé un’attrattiva per altra gente» che non solo la frequenterà, ma starà spesso alla finestra, sosterà sulle panchine se ci sono ecc.), allora la strada è sicura, l’intero potenziale dei contatti umani si realizza e i ragazzi acquisiscono naturalmente le forme di vita e il costume della città.E non basta. Questo rapporto tra questi comportamenti sociali (esaminati nel quadro della città, cioè come funzioni urbane) e le caratteristiche urbane menzionate, può e deve essere esteso a tutta la vita cittadina. In effetti Jane Jacobs intitola il capitolo del suo “Vita e morte delle grandi città” nel quale svolge questa analisi «la natura specifica delle città». E, di fatto, su questa base essa è riuscita a chiarire la questione dei parchi urbani (in senso lato, comprensivo anche delle piazze alberate), che possono avere una funzione positiva solo nel quadro urbano già delineato (con precisione: se si trovano nel raggio d’azione della rete che garantisce la sicurezza dei marciapiedi e delle strade) e ad impostare in modo realistico la funzione del vicinato (distinto in vicinato di città, di quartiere e di strada).

L’ASPETTO ORGANICO DELLE FUNZIONI URBANE

Se si considera la vita cittadina con questo punto di vista si trova che essa è composta da un insieme di comportamenti (le funzioni urbane) la cui possibilità o impossibilità dipende dall’assetto urbano, e che presentano due aspetti fondamentali: quello dell’unità organica e quello della spontaneità. Si riesce inoltre, con l’esame di questi aspetti, ad attribuire un primo contenuto concreto alla differenza tra ciò che è urbano in senso largo (perché non dipende solo dal

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fattore urbano) e ciò che è urbano in senso stretto (perché dipende solo dal fattore urbano).I comportamenti urbani messi in evidenza costituiscono una unità organica perché, pur essendo perfettamente distinguibili e pur avendo ciascuno, per sé considerato, una sua natura peculiare, si manifestano tuttavia solo insieme. E’un fatto, come è un fatto che – a prescindere da condizioni che non sono quelle della vita quotidiana di tutti – essi non possono manifestarsi ad uno ad uno, separatamente, se non in forme precarie, insufficienti o distorte. Bisogna però tener presente che questa unità non scaturisce direttamente dalle disposizioni che stanno alla base di questi comportamenti, ma dal fattore urbano, e più precisamente:

a) dal fatto che senza un quadro cittadino adeguato questi comportamenti non possono manifestarsi (senza sicurezza non c’è fiducia, senza occasioni sistematiche per ampi scambi di esperienze non c’è ampio scambio di esperienze ecc.)

b) dal fatto che questo quadro urbano non fornisce ambienti e occasioni separate per ciascuna di queste disposizioni, ma solo, come si è visto, un solo ambiente organico e unitario per tutte (la città nel suo insieme).

È dunque il fattore urbano in senso stretto che, avendo a questo riguardo il carattere dell’unità organica, la proietta sulle disposizioni umane nel momento in cui si traducono in comportamenti effettivi ed acquisiscono la caratteristica di funzioni urbane. Questo è il campo dei fatti che dipendono dal reticolo urbano, e questo dovrebbe essere l’oggetto dell’urbanistica come scienza. Questa osservazione permette in effetti di stabilire una netta linea di confine tra ciò che deve essere in primo luogo studiato (o esaminato, o progettato ecc.) sul piano urbanistico (il disegno della città e le destinazioni d’uso, che svelano a questo punto il loro carattere di struttura materiale di certi comportamenti umani); e ciò che, pur avendo una dimensione urbana (cioè carattere urbano in senso largo) deve essere invece studiato, in primo luogo, sul piano psicologico, sociologico, morale, storico ecc.Ciò che impedisce di controllare il pensiero quando si pensa la città – e trattiene ancora la cultura urbanistica nello stato della «dotta superstizione» – è proprio la confusione tra questi due piani. In quanto tale, nella sua concreta realtà, la città è

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sia lo stretto fatto fisico e organizzativo urbano (in un certo senso l’elemento sincronico), sia la vita che scorre in questo reticolo (in un certo senso l’elemento diacronico). Ma è evidente che non si può né conoscere questo reticolo con gli strumenti teorici che servono per lo studio dello scorrere storico della vita nella città, né conoscere la vita storica della città con gli strumenti teorici che servono per lo studio del reticolo urbano, anche se ogni operazione reale sulla città si deve servire dei risultati dell’uno e dell’altro esame.

LA SICUREZZA E I CONTATTI UMANI

Nell’analisi di Jane Jacobs del problema della sicurezza viene messo in luce l’aspetto della spontaneità delle funzioni urbane. Ciò che si è detto circa il rapporto tra le caratteristiche urbane e i comportamenti sociali dei cittadini (funzioni urbane) mostra che la sicurezza urbana — cioè la sicurezza anche nei confronti degli sconosciuti — dipende, almeno in parte, dall’esistenza di una rete di sorveglianza spontanea e, per molti aspetti, inconscia. Si tratta della rete costituita dai negozianti e dai passanti che frequentano la strada lungo tutto l’arco della giornata.

Va osservato che questa rete di sorveglianza è spontanea non solo nel senso che non è organizzata, ma anche nel senso che non comporta alcuna specializzazione. Jane Jacobs scrive: «Noi abitanti di Hudson Street, come gli abitanti del North End di Boston o di qualsiasi altro quartiere vivo e vitale delle grandi città, non siamo stati dotati da madre natura di una particolare abilità nel garantire la sicurezza delle strade; né più né meno di coloro che cercano di vivere in un ambiente urbano privo di auto-sorveglianza, fuori dalla precaria tregua del turf [per territorio recintato, come certi quartieri]. Siamo soltanto i fortunati detentori di un ordine urbano che è relativamente facile mantenere in quanto la strada è popolata di sguardi. Si tratta tuttavia di un ordine quanto mai complesso, composto da un numero enorme di fattori, la maggior parte dei quali possono ritenersi, in un modo o nell’altro, specialistici, e la cui azione si combina nel marciapiede. Quest’ultimo invece non ha in sé nulla di specialistico: e appunto in questo sta la sua forza».

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Va inoltre osservato che non esiste alcuna alternativa a questo tipo di sorveglianza. Basta, per rendersene conto, confrontarla con quella che potrebbe essere assicurata dalla sola polizia. Ancora Jane Jacobs: «La prima cosa da capire è che l’ordine pubblico nelle strade e sui marciapiedi della città non è mantenuto principalmente dalla polizia, per quanto questa possa essere necessaria: esso è mantenuto soprattutto da una complessa e quasi inconscia rete di controlli spontanei e di norme accettate e fatte osservare dagli abitanti stessi. In certe zone urbane – come ad esempio in molti vecchi complessi di case popolari e in molte strade con rapido ricambio di popolazione – il rispetto della legge e il mantenimento dell’ordine sui marciapiedi è affidato quasi interamente alla polizia e a guardie speciali: ebbene, queste zone sono vere giungle, perché non c’è polizia che basti a garantire la civile convivenza una volta che siano venuti meno i fattori che la garantiscono in modo normale e spontaneo».

È dunque lecito affermare che nel quadro di un assetto urbano efficace la sorveglianza urbana, cioè il controllo del comportamento della gente, si attua in gran parte (la parte per la quale la polizia non è necessaria e non sarebbe efficace) con il concorso di tutti e senza che alcunché sia prescritto ad alcuno: cioè solo in forza delle disposizioni umane nella loro espressione spontanea e occasionale.

Ed è anche lecito affermare che questa osservazione vale in genere per tutte le funzioni urbane importanti, che sono anch’esse – almeno in parte – la risultante di comportamenti e atti spontanei (nel senso che non hanno bisogno di essere programmati). E quando ciò sia chiaro, basta tener presente che tra questi comportamenti ci sono quelli relativi ai contatti umani e alla assimilazione dei ragazzi per intravedere in termini concreti il rapporto tra città e cultura. In effetti la città è una delle grandi strutture materiali della cultura proprio perché l’assetto urbano (a patto che sia fisiologico) è il mezzo indispensabile sia per stabilire il contatto tra il numero maggiore possibile di esperienze diverse, sia per perpetuare questo processo razionale nel tempo con l’assimilazione dei ragazzi, sia per garantire a questo processo la dimensione della spontaneità, e perciò della novità, senza costringere lo scambio di esperienze entro limiti precostituiti (come, ad esempio, nelle stesse istituzioni culturali).

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IL BUON GOVERNO È L’AUTOGOVERNO

Si è visto che la sicurezza come funzione urbana è una specie di controllo di tutti su tutti senza alcuna divisione tra chi controlla e chi è controllato (e senza sacrificio della privacy grazie alla separazione tra spazi pubblici e privati). In termini politico-sociali ciò significa che il controllo del comportamento della gente nelle strade e nei marciapiedi è in gran parte esercitato da una forma limitata ma reale di democrazia diretta, di autogoverno informale. E ciò che aggiunge rilievo a questa osservazione è che anch’essa può essere generalizzata.

Come senza sorveglianza spontanea sono possibili solo forme insufficienti e distorte di sicurezza, così senza autogoverno informale, cioè spontaneo, non è possibile un buon governo formale della città. La dimostrazione è semplice. Il punto iniziale da considerare è questo: «Non esiste nessun ‘qualcuno’onnipotente e onnisciente che possa sostituire gli interessati nell’autogoverno locale… Il fatto che spesso i capi responsabili dell’amministrazione cittadina siano male informati è inevitabile, perché le grandi città sono veramente troppo vaste e complesse per essere comprese nei loro aspetti particolari da un unico punto d’osservazione (sia pure il più elevato) o da un’unica persona; d’altra parte, gli aspetti particolari hanno un’importanza essenziale».

Il problema riguarda dunque in primo luogo l’informazione e la comunicazione, e in secondo luogo il potere. Il buongoverno delle città (ivi compresi tutti gli atti di pianificazione urbana) è in effetti impossibile senza:

a) un flusso di informazione spontanea che riguardi tutti, cioè che scaturisca direttamente dai contatti e dalle azioni della vita quotidiana

b) una situazione di potere che sia tale da non escludere la possibilità di far coincidere le decisioni del governo formale con i bisogni e i problemi resi noti da questo tipo di informazione.

Dunque, si constata subito che parlando di questa informazione spontanea e di questo potere diffuso si parla di qualcosa che è molto simile a ciò di cui si parla

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quando si usa il termine «vicinato». E questa impressione si consolida se, seguendo Jane Jacobs, ci si rende conto che è proprio con l’idea dell’autogoverno che si può precisare la natura del vicinato.

L’autogoverno del vicinato presenta tre livelli: 1. di strada (base dell’informazione);2. di quartiere (prima base del potere, mediazione tra i vicinati di strada e la città ecc.);

3. di città (potere).

Si constata subito, d’altra parte, che questa classificazione del vicinato non smentisce affatto la sua realtà esistenziale, che di fatto si manifesta per tutti a livello di strada, e per altri anche al livello del quartiere o a quello della città (come vita di relazione di coloro che si incontrano abitualmente a livello della città). Va invece tenuto presente che, a questo riguardo, la precisazione in termini di ordine urbano permette di stabilire che solo con l’integrazione dei tre livelli di vicinato (unità organica dell’assetto urbano) ciascuno di essi può svolgere il suo ruolo, anche attraverso i canali diretti costituiti da coloro che appartengono a un vicinato di strada per l’abitazione, ma a quello di quartiere o di città per la vita di lavoro e di relazione. Jane Jacobs aggiunge anche, a ragione, che solo se la strada non è isolata, fisicamente e psicologicamente, dal quartiere e dalla città, si forma un vero e proprio vicinato di strada, con sentimenti di identificazione.

CENNI SULLE FUNZIONI DEI PARCHI DI QUARTIERE

Jane Jacobs ritiene che parchi e spazi aperti piuttosto di essere considerati come beni elargiti alle derelitte popolazioni urbane, come luoghi “in cerca di autore”, abbandonati, bisognosi di essere apprezzati e vitalizzati; poichè sono gli utenti a decidere le modalità d’uso, frequentandolo o evitandolo. Bisogna fare in modo che la gente possa usarli e tranne vantaggio, per fare ciò non basta che essi esistano. Inoltre, mette in evidenza come ogni parco generico di quartiere, che si trovi circoscritto in un ambiente privo di varietà funzionale, sia condannato a

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restare vuoto per gran parte della giornata. Ossia, l’uso del parco dipende da una serie di fattori che vanno oltre la sua configurazione formale, uno di questi è l’uso urbano esistente all’esterno del parco stesso. Il successo di un parco sta invece nell’avere un design adeguato ad attirare le più diverse categorie di persone coi più svariati orari, scopi ed interessi e deve essere ben collocato nell’ambiente urbano circostante.

I quattro caratteri essenziali che dovrebbero essere rintracciati in un parco degno di essere vissuto sono; la complessità della forma, la presenza di un centro, un conveniente soleggiamento, la presenza di quinte architettoniche di delimitazione.

Inoltre, la Jacobs, conclude il suo pensiero sui parchi urbani dicendo che quanto meglio una città riesca a mescolare nella vita quotidiana delle sue strade, usi e utenti, tanto meglio i suoi abitanti potranno animare e mantenere vitali dei parchi ben collocati; i quali a loro volta conferiranno ai quartieri circostanti, più diletto e meno desolazione.

CONCLUSIONI

In Vita e morte delle grandi città, testo di riferimento per tutto lo scritto, J. Jacobs scrive sulla situazione vigente negli anni ’50 e il campo di studio sono gli USA e prevalentemente una metropoli, New York, oltre ad altre città sempre e comunque di grandi dimensioni, quindi con una realtà temporale e fisica molto diversa da quella di oggi e da quella dell’Italia e dell’Europa. Ma ciò nonostante, basta escludere parti specifiche decisamente datate e localizzate, le considerazioni svolte potrebbero essere riferite ad una qualsiasi città europea e, in alcuni casi, come il tema della sicurezza su cui si insiste molto, addirittura sembrano scritte in funzione della nostra quotidiana cronaca.Jane Jacobs è nota per aver analizzato la crisi urbana partendo dall’osservazione del tessuto urbano e delle sue relazioni con la vita quotidiana. In polemica con le concezioni urbanistiche dominanti la Jacobs sostiene che l’urbanistica si trova ancora ad uno stadio di elaborazione scientifica rudimentale, paragonabile a quello in cui si trovava la scienza medica nel secolo scorso. Il suo approccio, pur

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trascurando i problemi posti dall’evoluzione storica del fenomeno urbano e del rapporto della città con il territorio, rappresenta tuttora un importante contributo nel dibattito sulla crisi dell’ordine urbano.Tra le tattiche di intervento più importanti ed attuabili, suggerite dalla stessa Jacobs; c’è che ogni zona della città debba essere pianificata in modo da servire a più funzioni primarie, possibilmente più di due. Queste funzioni debbono assicurare la presenza di persone che popolino le strade a diversi orari e possano godere in comune delle attrezzature presenti sul posto. Inoltre i riferimenti riportati in precedenza, entrano nel campo visuale dei dati di fatto che meriterebbero di essere attentamente analizzati. Lo scopo di questo contributo è infatti quello di attirare l’attenzione ancora una volta sul fatto che l’insediamento umano sul territorio è un processo che sembra sfuggito al controllo politico, sia sul fatto che il pensiero di Jane Jacobs è uno dei primi passi efficaci fatti sulla via della elaborazione dell’atteggiamento scientifico necessario per sottoporre al controllo della ragione la crisi urbana.

BIOGRAFIA

Jane Jacobs (1916- 2006) è stata un'antropologa e attivista statunitense naturalizzata canadese. Le sue teorie hanno influito profondamente sui modelli di sviluppo urbano delle città (1961) criticò fermamente il modello di sviluppo delle città moderne e fu accesa sostenitrice del recupero a misura d'uomo dei nuclei urbani, enfatizzando il ruolo della strada, del distretto, dell'isolato, della vicinanza e della densità, della eterogeneità degli edifici.Criticò la concezione della città come spazio costruito per essere attraversato dalle automobili e fu nemica dichiarata delle autostrade urbane. Fu Presidente di vari comitati per impedire la costruzione di grandi arterie stradali urbane, sia negli Stati Uniti che nel Canada, paese dove si trasferì ne1969 e dove visse fino alla morte.Decise di abbandonare gli Stati Uniti nel 1969 per la sua opposizione alla guerra del Vietnam.

IL PENSIERO

L’assunto da cui parte Jane Jacobs con la sua critica alla pianificazione urbanistica vigente negli anni sessanta, purtroppo a tratti riconducibile ai metodi attuali di gestione del territorio, è che l’ambiente urbano sia fatto di cose assolutamente concrete. Da questo, per comprendere come funzionano le

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città, dovremmo cercare informazioni utili osservando ciò che accade concretamente in esse, invece di prendere il volo verso ideologie astratte.

BIBLIOGRAFIA

Jane Jacobs, Vita e morte delle grandi città, Einaudi, Torino, 1961.Allen Max, Ideas that Matter: The Worlds of Jane Jacobs, Ginger Press, 1997.

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1. Giancarlo De Carlo: l’architettura della partecipazione“Va nella tua città, uomo, e collabora con chi vuol renderla più simile a te”1

Nel 1973, scrivendo L'architettura della partecipazione Giancarlo De Carlo si interrogava su come favorire la partecipazione ai processi di progettazione, in modo da coinvolgere le persone nelle decisioni che avrebbero comportato, tra l'altro, la progressiva trasformazione delle loro città. Già allora, l'architetto di origine genovese, allertava sul pericolo per quella che stava manifestandosi come una sempre più marcata separazione tra il progettista, detentore di saperi via via più settoriali, e i bisogni del pubblico, avviando così un faticoso percorso di ricerca per superare i sospetti e riconoscere le differenze e le zone di conflitto.Le lezioni di De Carlo diventano una piattaforma da cui partire alla ricerca di un nuova prospettiva, un invito alla “rivolta” e a superare l’assuefazione ai luoghi comuni. Per di più oggi in cui la cultura della condivisione è protagonista, i suoi

1 Affermazione estrapolata dalla parte conclusiva del cortometraggio “Una lezione di urbanistica” presentato alla X

Triennale di Milano nel 1954. La regia è di Gerardo Guerrieri, sceneggiatura di Giancarlo De Carlo, Gerardo Guerrieri,

Jaques Lecoq, Maria Luisa Pedroni, fotografia di Mario Damicelli.

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ragionamenti potrebbero essere un interessante punto di partenza per un dibattito sull’architettura della partecipazione al tempo di Internet.

L’ARCHITETTURA DELLA PARTECIPAZIONE

«La verità è che nell'ordine c'è la noia frustrante dell'imposizione, mentre nel disordine c'è la fantasia esaltante della partecipazione».

De Carlo utilizza l’arma della partecipazione per ascoltare, accogliere, annettere quelle che sono le tensioni della città e dei suoi abitanti, permeando il processo progettuale con la vita e le istanze dei suoi utenti futuri, impegnandosi su un piano più profondo.La partecipazione veniva proposta attraverso la metodologia del workshop, in cui l’utente è da subito coinvolto nel processo decisionale, dando rilievo e sostanza alle sue aspettative. Egli poneva a se stesso precisi confini operativi: come tecnico si limitava a far convergere i singoli ‘desiderata’verso un comune interesse per la qualità complessiva, funzionale, tecnico-economica ed estetica. In tale modo egli ribalta, fin dall’impostazione, la metodologia di chi sostiene l’autonomia disciplinare e il primato del linguaggio; una logica autoreferenziale che, spesso, tiene poco conto dei bisogni reali dei fruitori e che porta a una trasformazione urbana poco condivisa.

L’obiettivo dell’architettura della partecipazione è quello di coinvolgere nel processo di decisione tutti coloro che ne subiscono le conseguenze, direttamente o indirettamente. Se uno spazio diviene un luogo quando la gente incomincia a usarlo, allora la definizione dello spazio acquista tutti i suoi significati attraverso la vita che in esso si svolge. L’architettura quindi deve configurare un luogo che sia effettivamente usato, che abbia una dimensione esistenziale data dalle persone che inscrivono nel proprio mondo lo spazio definito da essa e dove gli utenti e l’architettura possano interagire. Il ruolo dell’architetto è quello di assecondare l’interazione tra l’architettura e le persone che la utilizzano. Questa interazione è resa possibile da una progettazione fatta “con” gli utenti invece che “per” gli utenti.

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LA DIFFERENZA TRA PROGETTARE “PER” GLI UTENTI E PROGETTARE “CON” GLI UTENTI

La prima grande differenza tra progettare “per” gli utenti e progettare “con” gli utenti, viene individuata nella qualità del consenso su cui deve basarsi l’evento architettonico progettato. Nel primo caso il consenso, una volta raggiunto, si congela in un dato di fatto permanente e può influire sull’ideazione del progetto ma non sulla sua gestione e sulla vita concreta dell’evento architettonico progettato. Nel secondo caso, invece, il processo consensuale rimane permanentemente aperto e si rinnova ogni volta confrontandosi con l’evento architettonico lungo l’intero arco della sua esistenza in una continua reciproca influenza. La seconda grande differenza viene individuata invece nel tipo di approccio. Nel progettare “per” gli utenti l’atto di progettazione è autoritario, nell’altro caso è democratico e liberante perché stimola una partecipazione molteplice e continua, la quale non solo fornisce legittimazione politica all’evento progettato ma lo rende anche resistente al logoramento delle circostanze e del tempo. Per dirla con parole di De Carlo: «la differenza fondamentale tra l’architettura autoritaria e l’architettura della partecipazione è che la prima nasce dal presupposto che per risolvere un problema bisogna ridurre le variabili al minimo per poterle controllare mentre la seconda fa entrare in gioco tutte le variabili possibili in modo da avere un risultato multiplo, aperto al cambiamento, ricco di significati accessibili a tutti».2

Inoltre, ne L'architettura della partecipazione, saggio premonitore scritto da De Carlo, per una conferenza a Melbourne nel 1971 sul futuro dell'architettura e dell'urbanistica, egli definisce l’architettura partecipata in questi termini – «quando tutti intervengono in egual misura nella gestione del potere, oppure, quando non esiste più il potere perché tutti sono direttamente ed egualmente coinvolti nel processo delle decisioni»3 – ossia quando possa costituire un’utopia realistica, cioè compiutamente realizzabile, e l’architettura si pone al centro tra l’uomo e l’ambiente, con il solo obiettivo di definire un grado di trasformabilità

2 Tafuri Manfredo, Storia dell’architettura italiana 1944- 1985, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1986, p. 116.

3 De Carlo, Giancarlo. “Altri appunti sulla partecipazione (con riferimento a un settore dell’architettura dove

sembrerebbe più ovvia)”, in “Parametro”, n. 52, 1976, p. 50.

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compatibile. Va sottolineato che egli rifiuta categoricamente l’idea dell’architettura come pura astrazione, difatti indirizzò la sua ricerca verso un paziente lavoro di relazione tra approccio teorico e concretezza del fare, verso una semplificazione che conservava i valori della complessità, coniugando razionalmente e poeticamente il concetto di ‘forma aperta’.

IL SENSO FRAINTESO DELLA PARTECIPAZIONE, OGGI

Per De Carlo, la salvezza della progettazione, architettonica o urbanistica che sia, risiede nel farla divenire parte integrante del processo culturale di una comunità, nel fare della partecipazione un mezzo con il quale la società possa costruire il suo orizzonte di esistenza, il suo “spazio”. Il suo concetto di architettura partecipata è valido tutt’oggi, tuttavia, la pratica della partecipazione rischia di diventare abusata e la parola stessa “partecipazione” viene usata come scudo mediatico per vestire di falsa trasparenza attività più o meno speculative. La partecipazione infatti, pionieristica negli anni in cui scriveva De Carlo, è diventata sempre più un’arma nelle mani delle amministrazioni, per allargare indiscriminatamente la rosa degli attori potenzialmente coinvolgibili in un processo urbano, dilatando di molto i tempi della decisione ma costruendo una forte base di consenso. Questa “istituzionalizzazione” della partecipazione, in contrasto con la sua originale componente anarchica, l’ha resa parte integrante del processo economico contemporaneo costringendola in una cella normalizzante, facendo entrare in crisi la nozione romantica di partecipazione e rendendola un processo fortemente verticale.

La disillusione con cui oggi sono percepite le scelte politiche, il senso di subalternità con il quale si confrontano i cittadini di fronte alle modificazioni della città porta con sé la necessità di fare un ritorno alla componente originale di partecipazione, ristabilendone così l’orizzontalità tra amministrazioni, progettisti e cittadini per consentire di ridurre le possibilità di errore nell’operare, in particolare nei processi di trasformazione urbana.

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Abbandonare il desiderio egocentrico di autoreferenzialità vuol dire abbracciare un processo profondo, che ridona valore e riconoscimento alle competenze e alle abilità tecniche. Allora l'architettura della partecipazione non è un escamotage facilitante, ma come già detto, un processo di interpretazione, ascolto, progetto, sperimentazione, conflitto, discussione, gestione e arricchimento collettivo. È crescita per il tecnico e per l'individuo. E magari capiterà ancora di vedere, una volta completata l'opera, qualche progettista osservare la vita della "sua" creatura e misurarne i limiti e le inadeguatezze4.

LA RESPONSABILTÀ DEL PROGETTO

Nell’analisi che De Carlo compie del modo in cui vengono di solito affrontati gli interventi di nuova costruzione, volendolo applicare il suo pensiero all’oggi, potremmo ipotizzare che si tratti piuttosto di interventi di recupero o semplicemente di arredo urbano, si osserva come l’utente non sia assolutamente coinvolto a meno che coincida con il committente. De Carlo individua tre momenti fondamentali nello svolgersi di un’operazione d’architettura:

1) la definizione del problema

2) l’elaborazione della soluzione

3) la valutazione dei risultati

Nel primo di questi momenti le procedure usate per la definizione del problema non mirano a identificare le reali esigenze degli utenti ma danno per scontati gli

4 Testimonianza di De Carlo sulle case a ballatoio che aveva realizzato nel 1950 a Sesto San Giovanni (la città operaia alle porte di Milano):

“Il progetto si articolava su un cardine che mi pareva sicuro: fornire ad ogni alloggio le migliori condizioni obbiettive di abitabilità e

assicurare ad ogni nucleo familiare, malgrado il forte addensamento, la più grande possibilità di isolamento. Per questo le stanze di soggiorno

e da letto e le logge erano state portate verso il sole e il verde, i servizi e i ballatoi a nord sulla strada. I ballatoi stessi, perché fosse

sgradevole sostarvi e perché il passaggio della gente non disturbasse gli alloggi, erano stati ridotti a nastri distaccati dalla facciata. Ho passato

qualche ora di domenica, in primavera, ad osservare da un caffè di fronte il moto degli abitanti della mia casa; ho subito la violenza che

mettevano nell’aggredirla per farla diventare la loro casa; ho verificato l’inesattezza dei miei calcoli. Le logge al sole erano colme di panni

stesi e la gente era a nord, tutta sui ballatoi. Davanti ad ogni porta, con sedie a sdraio e sgabelli, per partecipare da attori e spettatori al teatro

di loro stessi e della strada. (...) Ho capito allora quanto poco sicuro era stato il mio cardine, malgrado l’apparenza razionale. Conta

l’orientamento e conta il verde e la luce e potersi isolare, ma più di tutto conta vedersi, parlare, stare insieme. Più di tutto conta comunicare”.

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obiettivi. Nell’elaborazione della soluzione la progettazione tende a rappresentare un oggetto unico che non ammette alternative (al massimo dal committente, ma non dall’utente) e il progetto viene consegnato all’utente una volta eseguito, quando non può essere più cambiato. L’uso non deve avere influenze sull’ggetto prodotto, anzi, l’oggetto architettonico è considerato tanto più riuscito quanto più si rivela resistente ai sovvertimenti dell’uso. La valutazione dei risultati diventa così praticamente irrilevante perché l’architettura viene considerata un’opera d’arte rendendo impossibile la definizione di alcun criterio di giudizio: in questo modo neanche la terza fase tiene conto degli utenti. Normalmente, fa notare De Carlo, viene considerato come “progetto” unicamente il secondo momento dell’operazione, quello che corrisponde alla scelta delle forme, delle tipologie e delle tecnologie che dovranno materializzare l’architettura. Le decisioni da prendere nel primo momento dell’operazione, quelle riguardanti il luogo dove collocare l’opera, la costruzione del programma e la determinazione delle risorse da impegnare, vengono assunte dal progetto come dati di fatto di esclusiva competenza del committente. Non si tiene neanche conto delle implicazioni riguardanti il terzo momento (quelle riguardanti l’utilizzo, la manutenzione, l’adeguamento a nuove circostanze), che vengono considerate irrilevanti oppure imprevedibili. De Carlo ritiene che svincolare in questo modo il progetto, da una parte dalle proprie motivazioni e dall’altra dalle sue conseguenze, lo destituisca di responsabilità civile e politica.

IL PASSAGGIO DA “PROGETTAZIONE” A “PROCESSO” DI ARCHITETTURA PARTECIPATA

L’impegno di De Carlo fu quello di fare in modo che l’architettura assumesse nuovamente le proprie responsabilità. A questo scopo propose di fondare la progettazione sulla partecipazione degli utenti che sono coinvolti in tutto il corso dell’operazione. Ogni momento diventa una fase del progetto e la partecipazione degli utenti ai vari momenti dell’intervento trasforma la progettazione in un processo.

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a) la definizione del problema: diventa parte del progetto nel senso che gli obiettivi stessi dell’intervento diventano argomento di discussione con i futuri utenti.

b) l’elaborazione della soluzione: tende non più a un prodotto finito in se stesso ma è caratterizzato da una “progettazione tentativa”; una sequenza di ipotesi che continuano a svilupparsi e correggersi attraverso i contributi degli utenti, che siano critiche o suggerimenti.

c) la verifica dei risultati: acquisisce grande importanza perché è riferita al modo in cui il prodotto è utilizzato; il giudizio è più o meno positivo a seconda che le esigenze degli utenti siano soddisfatte o meno. In questa fase di gestione l’esperienza, anziché concludersi, si riapre in un susseguirsi ininterrotto di verifiche e riproposizioni che retro agiscono sia sui bisogni, sia sulle ipotesi.5

Il “progetto”, nell’architettura della partecipazione, non è più lineare, a senso unico, ma diventa un processo continuo integrando tutti i momenti in un sistema coerente6. In questa concezione l’architetto non solo non viene annullato nel processo di coinvolgimento degli utenti ma deve anzi essere capace di integrare nel sistema della progettazione numerose variabili complesse che devono essere ricomposte in una situazione di equilibrio.

IL PROCESSO DELL’ARCHITETTURA DELLA PARTECIPAZIONE

FASE UNO: definizione del problema: consiste nello “svelamento” dei bisogni degli utenti e nella definizione delle scelte essenziali. Optare per un’idea astratta di utente, con la conseguente operazione tecnica che mira all’individuazione e classificazione di esigenze fisiologiche, ergonomiche ed eventualmente spirituali, significa giungere alla formulazione di una scala universale che, pretendendo di riassumere tutte le esigenze umane, finisce invece per rispecchiare, secondo De Carlo, gli interessi, i valori e i codici del potere. Optare invece per l’identificazione dell’utente all’interno di una concreta condizione della società richiede una

5 Una metafora adeguata è quella associata alla “risacca” del mare6 De Carlo Giancarlo, ”L’architettura della partecipazione“, in L’architettura degli anni ’70, Il Saggiatore, Milano,

1973.

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ricerca più complessa. Innanzi tutto, l’identificazione dei bisogni richiede un’attività preliminare con l’utente concreto che disarticolando i sistemi di valori convenzionali provochi una reazione che riveli delle nuove informazioni. Dall’altro lato ciò comporta il coinvolgimento in prima persona di chi innesca l’azione, che può anche vedere rimessi in discussione i propri valori. “Svelare” i bisogni degli utenti significa dunque fare emergere con chiarezza i loro diritti, “provocare una partecipazione diretta e confrontarsi con tutte le conseguenze eversive che essa comporta; mettere in crisi tutti i sistemi tradizionali di valore, che essendo stati edificati sulla non partecipazione debbono essere revisionati o sostituiti quando la partecipazione entra nel gioco a scatenare energie inesplorate”7.

FASE DUE: formulazione delle ipotesi: si caratterizza da una continua messa a punto delle ipotesi nel corso del processo stesso. La proposta di De Carlo è quella di definire gli obiettivi attraverso un confronto continuo tra problemi reali e immagini di configurazioni spaziali, che affini le esigenze e perfezioni il progetto dello spazio fino al raggiungimento di un equilibrio. La funzione di questa “progettazione tentativa” non è più quella di congelare la soluzione di un problema in una figura immobile ma, al contrario, di aprire la strada ad un percorso dialettico tra la realtà e l’interpretazione che si fa di essa attraverso le configurazioni spaziali proposte. Questo processo si sospende quando si è raggiunto un punto di equilibrio che consente l'attuazione e la materializzazione dello spazio fisico. Dopodiché il processo si rimette in moto nella gestione e nell’utilizzo ripartendo con tutta una nuova serie di esperienze.

Dal momento in cui l’oggetto architettonico viene realizzato il progetto - processo ricomincia secondo una nuova linea di sviluppo che è in continuità con quella precedente ma è caratterizzata da diverse qualità. I conflitti si spostano sul rapporto tra l’oggetto architettonico e chi lo usa. Segnala De Carlo che è necessario, affinché questo rapporto sia proficuo, che l’oggetto architettonico possa trasformarsi attraverso i cambiamenti che l’utente impone per adattarlo al variare delle sue esigenze e che l’utente stesso venga sollecitato dalla qualità e dalle possibilità di fruizione che l’oggetto architettonico gli propone.

7 De Carlo Giancarlo, “Il pubblico dell’architettura”, in “Parametro”, n. 5, 1970, p. 10.

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FASE TRE: verifica dell’attuazione fisica tridimensionale avviene attraverso l’utilizzo «ed è perciò affidata all’utente che si confronta con l’ambiente edificato esperendolo. Il corso di questa esperienza, che sottrae, aggiunge, cambia e sostituisce è ancora parte del progetto»8.

BIOGRAFIA

Giancarlo De Carlo (1919 - 2005), genovese di nascita, si laurea in ingegneria strutturale nel 1943 a Milano e si iscrive alla Facoltà di architettura poco prima della chiamata alle armi in marina. Rimpatriato nel 1944, aderisce al Movimento di unità proletaria. Negli anni tra il 1945 e il 1948 è redattore di «Domus» e completa la sua formazione nello studio di Franco Albini, laureandosi in architettura nel 1949 all’Istituto universitario di architettura di Venezia. Nel 1951 è tra i curatori della mostra dell’architettura spontanea alla IX Triennale di Milano, e autore (con Ludovico Quaroni e Carlo Doglio) della provocatoria mostra di urbanistica nell’edizione del 1954. Delegato italiano ai Ciam (Congrès internationaux d’architecture moderne) dal 1952, è tra i partecipanti al precongresso di La Sarraz del 1955, preludio alla formazione del Team X - un gruppo di giovani architetti attivo tra gli Anni Cinquanta e Settanta che operò la prima vera rottura con il Movimento Moderno e le tesi funzionaliste di le Corbusier. Membro dal 1953 dell’msa (movimento studi architettura), ne diventa presidente nel 1956. Dal 1954 al 1957 è redattore nella rinata «Casabella - continuità» di Ernesto Nathan Rogers. Nel 1960 viene nominato direttore dell’Ilses (Istituto lombardo di scienze economiche e sociali) per il progetto di ricerca sulla struttura urbanistica metropolitana. Insegnerà per diversi anni allo IUAV di Venezia ed è visiting professor in numerose università oltreoceano. Dall’1983 al 1989 si trasferisce a Genova come titolare della cattedra di Composizione architettonica. Nel 1976 fonda e dirige l’Ilaud, International Laboratory of Architecture and Urban Design, stage progettuale che conta annualmente la collaborazione di dieci università europee e americane. Nel 1978 fonda la rivista «Spazio e Società», di cui è direttore. Fin dal 1950 De Carlo si muove verso una visione sociale dell’architettura, esito degli studi su William Morris (1974). Attraverso il rapporto, ricco di attriti, con Rogers, conduce su «Casabella» una critica interna al movimento moderno, puntando al recupero di un originario messaggio sociale, tradito a suo parere tanto dall’involuzione formalista dell’International style quanto dagli «urbanisti sacerdoti» della Triennale del 1954.Durante la seconda metà degli anni ’50, progetta il primo nucleo dei collegi universitari al colle dei Cappuccini (1962-66), parallelamente agli esemplari studi per l’Ilses e al piano regolatore di Urbino (1958-64). Nei due decenni seguenti la città marchigiana diventa un autentico laboratorio urbano, nel quale De Carlo fa confluire esperienze e sperimentazioni; in particolare l’approfondimento della questione della rivitalizzazione e risanamento del centro storico attraverso il confronto continuo con le istituzioni e i cittadini, mirando innanzi tutto al recupero di un’identità dei luoghi e degli spazi urbani e di un senso collettivo di appartenenza. Il sistema flessibile dell’università-territorio, messo a punto con la partecipazione al concorso per l’università di Dublino (1964), è di riferimento per numerosi progetti, tra i quali il piano di sviluppo dell’università di Pavia (dal 1972). Il villaggio Matteotti di Terni è l’esito di un’articolata procedura di legittimazione sociale del progetto con

8 De Carlo Giancarlo, “Il pubblico dell’architettura”, in “Parametro”, n. 5, 1970, p. 12.

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l’utenza. Nel piano per Rimini (1970-72) il riordino del centro, in chiave di superamento dello zoning, è proposto con l’avanguardistica adozione del trasporto pubblico su minirotaia e una rete di «condensatori», edifici-cerniera di interscambio disposti strategicamente. Negli anni Ottanta prende avvio una serie di progetti di riqualificazione per aree dismesse o sottoutilizzate in cui egli coniuga architettura e urbanistica.

IL PENSIERO

De Carlo si pone criticamente nei confronti dell’architettura moderna, evidenziando la poca flessibilità del pensiero teorico che spesso si traduceva in regole talmente rigide da sfiorare il dogmatismo e la riduzione della discussione architettonica ad un fatto di linguaggio, se non, in modo ancora più riduttivo, di forma, come facevano coloro i quali aderivano allo “stile internazionale”. Con questa critica De Carlo non si collocò in una situazione antagonistica rispetto all’eredità del Movimento Moderno, bensì di continuità, mostrandosi sempre contrario a quello sforzo di superamento del Movimento Moderno che non andava oltre un ripensamento del linguaggio e delle tipologie, contribuendo così ad allontanare la discussione da quelli che secondo lui dovevano essere gli obiettivi dell’architettura. La ricerca di De Carlo nella quale alcuni come ad esempio Christian Norberg-Schulz hanno visto una terza alternativa9 rispetto al Post-Modernismo, fu indirizzata a riportare l’attenzione a quelle che egli riteneva le intenzioni originarie dell’architettura moderna: “svincolare l’architettura dalle esigenze del potere, depurarla dalle distorsioni opportunistiche provocate da un lungo esercizio accademico, restituirle immediatezza di rappresentazione e di espressione per renderla comprensibile e utilizzabile da parte di tutti”10 in uno sforzo di democratizzazione dell’architettura.

BIBLIOGRAFIA

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9 Norberg-Schulz Christian, “La terza alternativa”, in Rossi Lamberto, Giancarlo De Carlo. Architetture, Arnoldo

Mondatori Editore, Milano, 198810 De Carlo Giancarlo, “Corpo, memoria e fiasco”, in “Spazio e Società”, n. 4, 1978, p. 4.

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3. Kevin Lynch: l’immagine della città

Lynch ha il merito di aver offerto uno sguardo nuovo, per il suo tempo, su alcune questioni particolarmente importanti per ogni azione di pianificazione e progettazione. Inoltre egli giunge all’ideazione di un nuovo linguaggio di rappresentazione e codifica per il disegno delle città. Lo scopo di questo contributo è mettere in luce come una rivisitazione del metodo di Kevin Lynch sull’immagine della città possa essere utile alle pratiche urbanistiche contemporanee, unitamente al discorso dell’attivazione dei cittadini nella trasformazione dell’ambiente.

LA PERCEZIONE DELLO SPAZIO

Il pensiero di Lynch pone la percezione -della città, del territorio, del paesaggio, del paesaggio urbano - al primo posto nell’attività di pianificazione; secondo

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Lynch, il primo passo fondamentale per pianificare e progettare è l’analisi approfondita di come le persone comuni vedono la città e il territorio in cui vivono, in opposizione al tradizionale e consueto modo di progettare in quegli anni, in cui urbanisti e architetti lavoravano separatamente, senza sentire i bisogni della gente e senza considerare i modi di vedere e di vivere, senza sentire e percepire la città e i suoi spazi da parte delle persone che li abitano. Il progresso dei suoi studi, sta difatti proprio nell’individuazione di nuovi metodi per la valutazione della genesi dei fatti urbani, rispetto agli schemi tradizionali di derivazione naturalistica o tecnicistica.Sul piano della città percepita, l’insegnamento di Kevin Lynch ha fornito una metodologia che ha formalizzato alcuni protocolli cognitivi della percezione dello spazio urbano. Egli usava lo strumento delle interviste per verificare la concreta e soggettiva percezione della città e si è impegnato a formulare un « indice di immaginabilità », vale a dire ha tentato di individuare la qualità di un oggetto fisico che produce nell'osservatore un'immagine forte e vivida. L’intento di Lynch era quello di utilizzare la percezione per retroagire sulla pianificazione urbana e sull’architettura, nel tentativo di scegliere forme adeguate a rendere semplice l’orientamento e riconoscibile il proprio ambiente.

LA PIANIFICAZIONE “BOTTOM- UP”

Negli anni Novanta, dunque, il contributo di Lynch ha permesso ai personaggi coinvolti nei processi di pianificazione e conoscenza del territorio, di fare un notevole passo avanti, grazie all’affermazione della centralità di un’azione interattiva. Il confronto esplicito tra acquisizioni di valore alternativi, ampliando l’arena della partecipazione alle scelte urbanistiche a diversi sostenitori di proposte diverse, sovvertiva la piramide dirigista dei modelli di pianificazione convenzionali che informavano le pratiche correnti nei diversi contesti nazionali, e in particolare di quello italiano del secondo dopoguerra. Un approccio che apriva a un diverso processo di decisione pubblica, non solo improntato sulle scelte sostantive ma anche sulle forme di interazione tra i soggetti che potevano essere mediate da forme di conoscenza e di comunicazione in grado di colmare la discrepanza, spesso utilizzata come strumento di controllo, tra sapere tecnico e sapere comune.

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L’interesse di Lynch alla lettura, analisi, interpretazione della città e del territorio non si limita all’oggetto città e territorio ma può essere esteso anche ad ambiente e paesaggio e in generale a tutte le attività di pianificazione e progettazione (pianificazione urbanistica, territoriale, ambientale, paesaggistica).Il suo modo di porre alla base dell’azione pianificatoria e progettuale, l’interpretazione dei bisogni ambientali delle persone, avveniva secondo un approccio di pianificazione dal basso (bottom-up). Lynch “[...] partiva sempre dal luogo e dalla gente che lo usava. Credeva nel diritto e nella capacità degli individui e delle collettività di formare e gestire il proprio ambiente, con gentilezza e fermezza, sollecitava gli enti e gli amministratori pubblici che si rivolgevano a lui, a riconoscere quel diritto. [...] Riteneva che le idee costituissero una proprietà comune da condividere, da utilizzare, da discutere e migliorare, non da custodire gelosamente”12.

SPAZIO ESISTENZIALE E IMMAGINE AMBIENTALE

Il primo sostenitore della condizione spaziale dell’esistenza è stato Heidegger, secondo il quale l’uomo non può essere separato dallo spazio perché lo spazio “ non è né un oggetto esterno, né un’esperienza interiore. Non ci sono gli uomini e inoltre “spazio”13 ma l’uomo “è” nello spazio. Norberg-Schulz definisce lo spazio esistenziale un “sistema relativamente stabile di schemi percettivi o di immagini tratti dall’ambiente”14. La questione dello spazio come parte necessaria della struttura dell’esistenza, spiega, presenta due aspetti fondamentali: uno astratto e uno concreto. L’aspetto astratto è stato studiato dalla psicologia e consiste nella creazione di schemi generici attraverso i quali l’intelletto capisce lo spazio. L’aspetto concreto riguarda l’organizzazione degli elementi dell’ambiente in un’immagine di riferimento che si compone in termini di fondo e figura in base a centri, direzioni e domini, che sono gli elementi indispensabili all’individuo per orientarsi. Quando centri, direzioni e domini si combinano in un’“immagine

12 Vincenzo Andriello op. cit., in “Urbanistica”, n. 108, 1997, pag. 163.13

Heidegger Martin, “Costruire, abitare, pensare”, in Vattimo Gianni (a cura di), Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1976

(ediz. orig. Heidegger Martin, Vorträge und Aufsäge, Verlag Günther Neske Pfullingen, 1954) p. 104.14

Norberg-Schulz Christian, “Esistenza, spazio e architettura”, Officina Edizioni, Roma, 1982 (ediz. orig., “Existence,

Space and Architecture”, Oslo, 1971) p. 25.

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ambientale”, “lo spazio diventa una vera e propria dimensione dell’esistenza umana”15. In questo contesto, lo spazio architettonico “può essere inteso come una concretizzazione di immagini o di schemi ambientali, inerenti all’orientamento generico dell’uomo, o più appropriatamente, alla condizione umana di essere al mondo”16.

Il concetto di “immagine ambientale” è sviluppato da Kevin Lynch, che unisce alla sua formazione in architettura anche studi di psicologia e antropologia, studia le basi della percezione dell’ambiente urbano, limitandosi volutamente al campo visuale, a partire di una ricerca sulla “forma percettiva della città” eseguita a Los Angeles, Boston e Jersey City con lo scopo di individuare le costanti che possano essere utili alla progettazione. L’immagine ambientale, secondo Lynch, è il “quadro mentale generalizzato del mondo fisico esterno che ogni individuo porta con se”17. L’ambiente urbano, data la sua estensione e complessità, non può essere percepito in una sola volta ma solo attraverso l’esperienza. L’immagine ambientale è il prodotto sia della percezione immediata che delle esperienze passate che si stratificano nella memoria e viene usata dagli abitanti di una città o un quartiere per interpretare le informazioni che arrivano dall’ambiente. Un ambiente ordinato, in cui ci si può orientare, può funzionare, secondo Lynch, come un ampio sistema di riferimento e può organizzare la conoscenza. L’ordine che cerca l’individuo quando inconsciamente compone la propria immagine ambientale è un ordine non chiuso ma aperto, che può essere modificato per accogliere nuovi schemi di attività, nuovi sviluppi. L’immagine ambientale, come l’adattamento, è un processo continuo di interazione tra l’osservatore e il suo ambiente: l’ambiente suggerisce possibili differenze e relazioni tra le sue parti e l’individuo osserva, sceglie, organizza e attribuisce loro dei significati.

Le qualità visive dell’ambiente urbano, che sono determinanti nella configurazione di un’immagine ambientale chiara che permette all’individuo

15 Norberg-Schulz Christian, “Esistenza, spazio e architettura”, Officina Edizioni, Roma, 1982 (ediz. orig., “Existence,

Space and Architecture”, Oslo, 1971) p. 40.16

Norberg-Schulz Christian, “Esistenza, spazio e architettura”, Officina Edizioni, Roma, 1982 (ediz. orig., “Existence,

Space and Architecture”, Oslo, 1971) p. 7.17

Lynch Kevin, L’immagine della città, Marsilio Editori, Venezia, 1964, 200411 (ediz. orig., The Image of the City,

Massachusetts Institute of Technology and the President and Fellows of Harvard College, Harvard, 1960) p. 26.

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d’istaurare un rapporto armonioso con l’ambiente, sono due: la leggibilità e la figurabilità.

a) La leggibilità: è la facilità con cui le varie parti dell’ambiente urbano possono venire afferrate per conferire un’identità e una struttura all’ambiente. Questa chiarezza non ha a che vedere con un ordine geometrico ma con il fatto che l’osservatore possa individuare dei riferimenti e organizzarli in un sistema coerente.b) La figurabilità: si riferisce ai singoli elementi ed è la qualità che conferisce a un oggetto fisico un’elevata probabilità di evocare in ogni osservatore un’immagine vigorosa.

Lo sviluppo dell’immagine ambientale è un processo di interazione tra l’ambiente urbano e l’osservatore. E’possibile quindi rafforzare l’immagine ambientale sia ristrutturando l’ambiente fisico che rieducando gli abitanti. Lynch propone una serie di qualità sulle quali può operare il designer per progettare o ristrutturare un ambiente urbano in modo di contribuire alla sua figurabilità. Esse sono:

1. chiarezza di sfondo e figura2. semplicità di forma3. continuità4. preminenza di una parte sulle altre5. chiarezza di connessione6. differenziazione direzionale7. profondità di visione8. consapevolezza del movimento9. serie temporali 10. toponimia.

Per rafforzare l’immagine mentale attraverso la rieducazione degli abitanti, invece, sarebbe necessario proporre dei processi di partecipazione che stimolino la loro creatività per arricchire l’ambiente e che insegnino loro a vedere la propria città e a osservarne le forme.

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PERCEZIONE E RAPPRESENTAZIONE DELLO SPAZIO SENSIBILE. LE MAPPE MENTALI

La ricerca di Lynch parte dal tema della rappresentazione dello spazio sensibile, con attenzione all’esperienza sensibile attraverso i cinque sensi (vista, udito, olfatto, odorato e tatto), mira a concentrarsi e a mettere a fuoco l’orientamento come esperienza cognitiva. La percezione delle persone attraverso tutti i sensi è esperienza che porta alla costruzione di immagini mentali dell’ambiente, di mappe mentali che sono la rappresentazione di un linguaggio simbolico della conoscenza acquisita attraverso il contatto diretto, l’osservazione, il dialogo con i luoghi e le persone. Lo stesso linguaggio simbolico utilizzato per esprimere la conoscenza, è poi utilizzabile anche per orientare la pianificazione e quindi la progettazione. L’immagine ambientale è il risultato di un processo reciproco tra osservatore e cosa osservata, tra osservatore e suo ambiente di vita. Il riferimento diretto agli abitanti è un modo per poter pianificare e progettare la città e il territorio in modo pratico, fattivo e fattibile, il più realistico possibile, in sintonia con le condizioni esistenti al contorno. L’ambiente fornisce stimoli, indicazioni, segnali, relazioni; l’osservatore seleziona, organizza, interpreta, ricorda, attribuisce significati a ciò che vede.

Secondo le ricerche teorico-pratiche condotte da Lynch, le persone si costruiscono quasi inconsapevolmente le suddette mappe mentali dei luoghi, utilizzando un insieme di elementi raggruppabili in cinque categorie: percorsi, margini, quartieri, nodi e riferimenti.

La città, o meglio, l’immagine mentale che le persone hanno di una data città o di parti di essa, può essere considerata come la sovrapposizione e l’intersezione di queste categorie.

a) I percorsi sono i canali che le persone seguono nei loro spostamenti; sono le strade lungo le quali le persone si muovono – abitualmente o occasionalmente. Per esempio strade, sentieri, percorsi pedonali, linee di trasporto pubblico, linee ferroviarie, canali.b) I margini sono tutte gli altri elementi lineari che non sono percorsi; sono confini, barriere più o meno penetrabili, interruzioni di continuità, elementi di

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separazione tra realtà differenti. Per esempio, rive, coste marine, margini di sviluppo edilizio, mura.c) I quartieri sono le zone in cui può essere suddivisa una città riconoscibili perché in essi è presente e diffusa una qualche caratteristica particolare che li connota e li rende particolari, distinti gli uni dagli altri (nel caso di un territorio si può pensare di trasferire l’idea di quartiere all’idea di frazione).d) I nodi sono punti dai quali e verso i quali ci si muove; sono punti strategici dove c'è una particolarità vistosa o una concentrazione di caratteristiche della città. Per esempio, spesso sono piazze o incroci importanti, congiunzioni, luoghi di intersezione nei trasporti, attraversamenti, punti di convergenza di più percorsi, luoghi caratterizzati dalla concentrazioni di usi e funzioni.e) I riferimenti sono landmark, capisaldi all’interno del paesaggio urbano; sono oggetti fisici rilevanti ed evidenti, che colpiscono la vista e l'immaginazione; sono elementi spesso utilizzati per orientarsi all’interno delle città, sono indizi di identità e di ruolo. Possono essere un monumento, ma anche un grande magazzino o una scuola, emergenze che servono da orientamento nel percorrere e attraversare la città. Per esempio, edifici particolari per funzione, tipologia architettonica, altezza, forma, o anche insegne luminose, cartellonistica, negozi e ancora la cupola di una chiesa, un campanile, una torre.

Non si tratta di oggetti, piuttosto di rapporti tra cose all’interno di un reciproco legame strutturale, per Lynch dinamico e variabile. Qualcosa può essere – a seconda dei casi, del giorno e della scala – nodo o quartiere, percorso per alcuni e margine per altri”18. Nel paesaggio urbano il riconoscimento di questi elementi non è univoco: un percorso può anche essere un riferimento per l’orientamento all’interno della città; in un quartiere ci sono anche nodi, riferimenti, margini eccetera... L’insieme, la sovrapposizione e soprattutto l’interrelazione, l’intreccio tra questi cinque elementi è il paesaggio urbano, o meglio l’immagine del paesaggio urbano.

Nei suoi studi rivolti alla città, al territorio, ai luoghi, rinuncia dichiaratamente alla possibilità di arrivare a una conoscenza completa e totalizzante del mondo, e

18 Vincenzo Andriello, op. cit., in “Urbanistica”, n. 108, 1997, pag. 163.

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rinuncia anche all’osservazione da uno sguardo esterno alle cose; ritiene invece che la forma di un luogo (sia esso una parte di città o di territorio) si basi su una conoscenza parziale e debba costruirsi a partire dall’osservazione diretta, dall’interno, dal contatto con le persone che abitano e vivono quel luogo; tale forma si costruisce proprio dal mescolarsi di persone, azioni, spazi e tempi. La conoscenza della forma e la ricerca di un’immagine dell’ambiente non mira a trovare un ordine fisso delle cose, ma al contrario cerca di ricostruire un ordine che però è aperto: aperto ai cambiamenti, delle persone e dell’ambiente stesso. Quel che conta è quindi l’esperienza individuale quotidiana (tutti elaborano la propria immagine mentale; l’immagine mentale è un fatto, un’esperienza soggettiva e individuale); i luoghi non sono qualcosa di simultaneamente percepibile e di percepibile in modo totalizzante, ma sono percepiti, osservati, vissuti da soggetti che a volte sono isolati e a volte sono in gruppo, che a volte relazionano tra loro e a volte abitano i luoghi in diversi momenti o condizioni e quindi percepiscono i luoghi in uno spazio, anche temporale, che è parziale. La forma di un luogo e l’immagine mentale non descrive e rappresenta una totalità, ma è parziale in quanto riferita a soggetti, a spazi e a tempi variabili e dinamici. Questo chiaramente rappresenta un limite ed una difficoltà nell’adozione del metodo.

Quindi, come vengono osservati, percepiti, selezionati e organizzati dalla mente i materiali e i caratteri di un luogo, i suoni, le luci, i colori, i movimenti, i ritmi? Come vengono elaborati in immagini mentali gli elementi che caratterizzano un luogo? L’immagine mentale dell’ambiente è frutto dell’osservazione, della percezione, dell’orientamento e dell’esperienza; è “prodotto di un processo costruttivo in cui operano memoria e forme simboliche, elaborate culturalmente e suscettibili di articolazione strutturata [...]. Questo costrutto [l’immagine mentale], più dei singoli elementi percettivi, può essere oggetto di confronto, scambio e accordo tra individui. Ogni giorno tutti veniamo a capo della complessità di stimoli [...] [nel paesaggio], in definitiva con un’operazione di orientamento: strutturare e identificare l’ambiente, trovarvi il proprio posto, dare uno schema di senso all’universo, o anche, banalmente, trovare la strada di casa”19.

19 Vincenzo Andriello, op. cit., in “Urbanistica”, n. 108, 1997, pag. 162.

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Lo spazio urbano deve prevedere spazi di temporalità diverse, di attraversamento veloce, ma anche di sosta,

spazi di condivisione, spazi gratuiti e non di consumo, spazi in cui esercitare l’otium e il potlach.

Tiziana Villani

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L’obiettivo di lavorare per mappe mentali è quello di costruire un’immagine pubblica o quanto meno collettiva (che non significa totalizzante e omni-comprensiva), un quadro mentale comune che molti abitanti portano con sé, immagini di gruppo. L’obiettivo non è la descrizione inconfutabile di una realtà obiettiva, ma è la costruzione di un ragionevole accordo tra un certo numero di persone (si tratta quindi di un accordo parziale) che è punto di partenza per la costruzione di un consenso ulteriore o al contrario per l’evidenziazione di punti di divergenza e contrasto, in un dialogo e confronto democratico e “costruttivo” sulla città e sul territorio. Inoltre, le mappe mentali sono l’iniziale risposta alla domanda che accompagna l’intera attività professionale e accademica di Lynch sul tema della forma: che cos’è la forma della città e del territorio e da cosa nasce? Che cosa significa effettivamente per i suoi abitanti la forma di una città o di un territorio? La forma urbana e territoriale, così come intesa da Lynch, riguarda la comprensione dei caratteri e dell’identità di un luogo (sia esso città, territorio, paesaggio) per l’individuazione e la costruzione di “proposizioni di strumenti e successivamente di schemi, regole e dimensioni prestazionali per la verifica del corretto funzionamento (in termini di leggibilità, immagine pubblica e figurabilità) di città o di territori esistenti o per la realizzazione di nuove forme urbane e territoriali.

USO DEL METODO

Un esempio di uso del metodo per la costruzione dell’immagine della città è stato portato avanti da Lynch per tre città americane – Boston, Jersey City e Los Angeles – attraverso il metodo dell’intervista* di un campione di cittadini. Per arrivare all’individuazione dei cinque elementi e alla loro mappatura per costruire l’immagine mentale della città di Boston, Lynch ha proceduto coinvolgendo direttamente le persone che vivono la città e che quindi possiedono una loro percezione del paesaggio urbano, attraverso interviste dirette sull’immagine che le persone hanno del proprio ambiente. L’intervista si è svolta in diverse fasi: la richiesta di schizzare una pianta della città, di descrivere un certo numero di itinerari attraverso il paesaggio urbano, di elencare e descrivere brevemente gli elementi avvertiti come più distintivi e più vividi nella mene delle persone. Alcuni

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punti dell’intervista riguardano il tracciare una rapida pianta della città (nel caso specifico, del centro di Boston), come se si dovesse fornire a un estraneo una rapida descrizione della città; indicazioni su un tragitto abituale all’interno della città, immaginando di compiere il percorso e descrivendo – immaginando – la sequenza delle cose che si incontrano e che si vedono (che quindi rimangono particolarmente impresse nella mente delle persone) e i riferimenti lungo il percorso diventati importanti per l’intervistato; gli elementi della città diventati più distintivi, che le persone individuano e ricordano meglio.

Quello che è emerso dalle interviste, è un’immagine pubblica della città data dalla la sovrapposizione e l’interrelazione delle molte, se non infinite, immagini individuali. L’individuazione- con l’aiuto del coinvolgimento dei soggetti nel paesaggio urbano - degli elementi che compongono l’immagine ambientale, può poi portare a ulteriori specificazioni nella lettura della città e del territorio; per esempio, può portare all’individuazione di elementi critici da affrontare durante il processo di pianificazione e progettazione e anche di punti forti e potenzialità da sfruttare come elementi-opportunità nel progetto del paesaggio urbano. Possibili elementi critici, riportati nella carta delle difficoltà e dei problemi nell’immagine della città.

CONCLUSIONI

Nel corso degli anni sono state mosse alcune critiche al lavoro di Lynch, soprattutto per la non esaustività del campione utilizzato e perché gran parte delle persone intervistate non aveva familiarità con il disegno (come del resto la maggior parte degli esseri umani). Inoltre, si suppone che Lynch non abbia tenuto conto di fattori quali il senso profondo del luogo, della distruzione della creatività dei city planners.Il risultato? Soluzioni troppo semplicistiche. Esse sembrano corrette, ma è anche vero che Lynch stesso ha sostenuto che il suo lavoro è lontano dall’essere concluso e, prima della suaprematura scomparsa (1981), era consapevole che il suo metodo permetteva di capire solo una piccola parte della “città” come oggetto di studio.

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Tuttavia, qualsiasi azione di pianificazione e progettazione potrebbe prendere spunto dal metodo proposto da Lynch, con appositi aggiustamenti e adattamenti che riguardano oggetto, scala, dimensione dell’intervento. Lynch si è occupato principalmente della percezione, dell’osservazione, dell’esperienza della città e del territorio; ma di percezione si parla oggi frequentemente e in senso anche più ampio. Nella pianificazione, in generale, (pianificazione territoriale, urbanistica, ambientale, paesaggistica, eccetera...) si parla spesso di percezione, ma come poi la percezione rientra realmente e realisticamente all’interno delle strategie e delle scelte pianificatorie e progettuali? Come la percezione rientra all’interno della pianificazione e progettazione paesistica? Come si percepisce il paesaggio? E’da queste domande che si possono (ri)leggere in modo critico e attuale i testi di Lynch.

*Intervista (da Kevin Lynch: L’immagine della città, Marsilio Editori, Padova 1975).

1. Che cosa le viene in mente anzitutto, che cosa simbolizza la parola « Boston » per lei? Come potrebbe approssimativamente descrivere Boston sotto l'aspetto fisico?

2. Vorremmo che lei tracciasse una rapida pianta del centro di Boston, all'interno o downtown rispetto a Massachussetts Avenue. La tracci come se dovesse fornire ad un estraneo una rapida descrizione della città, che ne contempli tutte le principali caratteristiche. Non ci attendiamo un disegno accurato - solo un rozzo schizzo. [L'in- tervistatore deve prendere appunti sulla sequenza in cui viene disegnata la pianta].

3a. Prego, mi fornisca istruzioni complete ed esplicite sul tragitto che lei compie di solito per andare al lavoro da casa sua. Immagini di compiere effettivamente tale tragitto, e descriva la sequenza delle cose che lei vedrebbe, udirebbe o fiuterebbe lungo la strada, includendo i riferimenti di percorso che sono diventati importanti per lei, e le indicazioni che sarebbero necessarie ad un estraneo per prendere le medesime decisioni che prende lei. A noi interessano le caratteristiche fisiche delle cose. Non importa se lei non riesce a ricordare i nomi di strade o di luoghi. [Nel corso dell'esposizione del tragitto, l'intervistatore, ove necessario, deve insistere per descrizioni più dettagliate].3b. C'è alcuna emozione particolare che lei prova nelle varie parti del tragitto? Quanto tempo le prende? Vi sono parti del tragitto nelle quali lei si sente incerto sulla sua ubicazione? [La domanda 3 deve quindi venir riproposta per uno o due tragitti che sono fissati per tutti gli intervistati, cioè: « si rechi a piedi dal Massachusetts Generai Hospital alla South Station », oppure «vada in auto da Faneuil Hall a Symphony Hall»].

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4. Ora noi desidereremmo sapere quali elementi del centro di Boston lei considera maggiormente distintivi. Possono essere grandi o piccoli, ma ci dica quali sono per lei i più facili da individuare e ricordare. [Per due o tre degli elementi elencati in seguito, l'intervistatore continua rivolgendo la domanda 5].

5a. Vorrebbe descrivermi...? Se la conducessero là ad occhi bendati, quando le togliessero la benda, di quali indizi lei si servirebbe per identificare con certezza il posto in cui si trova?5b. C'è alcuna particolare emozione, che lei prova riguardo a...?5c. Vorrebbe indicarmi sulla sua pianta dove si trova...? [e se applicabile] Dove sono i confini.

BIOGRAFIA

Kevin Lynch (1918 - 1984) è vissuto negli Stati Uniti negli anni successivi alla Grande Depressione, in anni segnati da battaglie per l’integrazione sociale e raziale. Si è diplomato nel 1935. Si è quindi iscritto alla scuola di architettura all’Università di Yale, che ha però abbandonato per lavorare nello studio di Frank Lloyd Wright a Talliesin, dove è rimasto per un anno e mezzo. Nel frattempo, ha continuato a studiare discipline diverse in varie università, frequentando corsi di ingegneria civile e biologia, convinto della necessità di sapersi occupare di più campi disciplinari per affrontare varie questioni, risolvere più problemi. La pianificazione non è infatti monodisciplinare, ma coinvolge materie differenti: si tratta di una pianificazione ad ampio raggio, una pianificazione territoriale, urbanistica, ambientale, paesaggistica.Dopo aver partecipato alla Seconda Guerra Mondiale, nel 1947 si è laureato in urbanistica al MIT a Cambridge, dove ha anche svolto attività accademica come docente dal 1948 al 1978. La sua esperienza al MIT come docente è stata affiancata dalla pratica professionale, durante la quale Lynch ha formulato nuove teorie, che ha sperimentato proprio grazie all’esperienza diretta.Al MIT ha incontrato il teorico Gyorgy Kepes, che in quegli anni stava indirizzando le sue ricerche nel campo del paesaggio e comunque da sempre interessato al fenomeno visivo. Tra Kepes e Lynch nasce una fervida e produttiva collaborazione. Nel 1957 Kepes e Lynch ottengono un finanziamento dalla Rockefeller Foundation per studiare la perceptual form of the city: l’idea è venuta probabilmente a Lynch dopo un soggiorno di studio in Italia, “trascorso ad osservare, domandare, discutere con amici e colleghi la natura essenziale dell’esperienza della città, sondare gli altri sulle loro reazioni ai contesti urbani italiani, e a interpretare le proprie intuizioni e i propri sentimenti su quello che vedeva e esperiva”.La ricerca sulla forma della città è portata a termine da Lynch solo e il risultato è stato pubblicato nel 1960 nel suo libro più famoso, The image of the city.

IL PENSIERO

L’importante «è che nel contesto del paesaggio che si rinnova, resti incastonata la testimonianza del passato, l’oggetto della storia, come riferimento di una evoluzione che, pur continuando ad aumentare lo spessore storico del paesaggio, non perda il filo di questo crescere e ne salvaguardi la peculiarità» (Lynch, 1964).

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L’interesse di Lynch è sempre orientato all’attenzione particolare dedicata alla percezione, all’attività sensoriale dell’uomo e quindi alla ricerca il più realistica possibile dell’immagine della città e del territorio per come essa si organizza nella mente degli abitanti del luogo, che sfocia nella costruzione delle mappe mentali. Nei suoi scritti non si troveranno suggestioni progettuali immediatamente edificabili e neppure specifici criteri di costruzione, bensì modelli di interlocuzione con la popolazione, modelli di indagine della realtà sensibile e anche modelli gestionali.

Le questioni riguardanti le azioni di pianificazione e progettazione, su cui Lynch focalizza la sua ricerca, sono:

a) La dimensione estetica della città e dei luoghi e il ruolo nella vita quotidianab) Il ruolo degli abitanti nella comprensione dei luoghic) La partecipazione delle personed) I materiali e sensazioni della scena urbanae) L’osservazione diretta dei luoghi e dei comportamenti nei luoghif) L’esperienzag) L’ideazione di un nuovo linguaggio di rappresentazione e codifica da utilizzare per il disegno delle mappe mentali

h) Il tema dell’immaginabilità, della leggibilità, della figurabilità

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5. Yona Friedman: «I was not present»

L'architetto franco-ungherese Yona Friedman (classe ’23) si è a lungo occupato dei conflitti tra le libertà individuali e l'organizzazione spaziale nella città. Friedman è un pensatore libertario che ha coniugato la ricerca sui temi della flessibilità e dell'autocostruzione in architettura con più ampie riflessioni in ambito sociologico, filosofico e artistico.

LOTTA ALLE NUOVE MAFIE

In Utopie realizzabili, pubblicato in Francia nel 1975, Friedman esprime la sua massima la tensione etica e civile; in tale testo è sviluppata un’idea di ristrutturazione della società in senso compiutamente democratico, volta a fuggire ogni elitarismo, attraverso la teoria del gruppo critico. Il libro è anche una feroce critica al mito della comunicazione globale. Vi si può leggere infatti: «L’analisi delle utopie sociali presentate in questo libro comporta, in maniera

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implicita, l’atto d’accusa e la critica di quei due ‘ cattivi’dei nostri tempi che sono: “lo Stato mafia” e la “mafia dei media” (stampa, televisione ecc.)». L’esistenza di uno Stato mafia deriva dall’impossibilità di conservare la forma dello Stato democratico classico non appena le sue dimensioni oltrepassano certi limiti e la “mafia dei media” ne è una diretta conseguenza dovuta all’impossibilità della comunicazione globale (mondiale) di esplicarsi come dovrebbe. Internet può essere portato ad esempio del fatto che questa impossibilità non è il risultato di difficoltà tecniche, ma deriva invece dalla fondamentale inabilità umana alla comunicazione generalizzata (di tutti verso tutti). Il fallimento di queste due utopie generose – la democrazia e la ‘comunicazione globale’tra gli uomini – comporta logicamente il formarsi di mafie che agiscono in nostro nome, contro i nostri interessi. Questo fallimento di aspettative ha trascinato nel crollo anche la base di valori morali sulle quali si fondavano generando, inevitabilmente, questi gruppi di pressione che in nome di un’idea lavorano per i propri interessi.

Oltre che un atto di accusa, Friedman ci tiene ad incoraggiare l’individuo a non dare il proprio aiuto né il proprio tacito consenso a queste due mafie. Il suo non è un invito alla rivoluzione, bensì, come esso stesso dice, un invito alla resistenza.

SPAZIO E UTOPIA

«Non garantisco di avere la soluzione. Io non voglio rendere la gente felice, difendo soltanto il principio che voi stessi siete in grado di decidere. Contro il relativismo sociale assoluto, get people to think».

La personalità di Friedman viaggia trasversalmente tra arte, filosofia, architettura e sociologia. Per lui lo spazio deve poter essere modificato nello stesso modo con cui si sposta una sedia. L’artista usa strumenti leggeri che richiamano l’aspetto infantile dell’essere, attraverso uno sguardo visionario e oggettivo, utopistico e reale. I cambiamenti che produce e riproduce attraverso i suoi schizzi e progetti vogliono incidere nel tessuto sociale e culturale dello spazio, della città, del mondo.

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Durante il Corso Superiore di Arte Visiva ha pensato a un’architettura per bambini all’interno dell’Asilio Sant’Elia costruito sui disegni di Giuseppe Terragni tra il 1934-1937. Si trattava di architetture provvisorie, mobili, rifugi, luoghi di incontri, spazi sociali. Il progetto colorato e trasparente era un monumento nato dalla leggerezza e dalla differenza.

I suoi disegni sono presenti in gran parte delle riviste degli anni '60 in cui utopia diviene un principio di vita e un bisogno d'espressione degli studenti di architettura. I tralicci che coprono le città storiche diventano la città contemporanea sovrapposta all'antica senza che esistano conflitti tra di loro.

Oggi, le reti visibili e invisibili attraverso le quali si svolge la comunicazione ed il movimento tra diversi sistemi di individui e di oggetti, sta rimodellando il pianeta intero come una sorta di villaggio globale.

A partire dalla metà degli anni Sessanta, con le prime avvisaglie della contestazione giovanile, inizia a serpeggiare un certo sarcasmo se non critica aperta nei confronti del candido entusiasmo con il quale le generazioni precedenti avevano pacificamente assorbito il mito della tecnologia e della comunicazione entro una visione lineare della società, una visione che non aveva poi del tutto rotto con lo spirito riformista della prima modernità. All’opposto delle utopie di massa evocate dagli Archigram e da Constant e dai loro seguaci, iniziano a prendere forma le utopie individuali; al sogno di un continuum urbano senza soluzioni di continuità, viene contrapposta l’idea di una progressiva discretizzazione dello spazio in parti separate, isole dove sia possibile una transazione diretta tra diversi individui senza l’influenza omologante dei media e della tecnologia e dove, perciò, sia immediatamente realizzabile l’utopia di un capovolgimento istantaneo della realtà.

Insomma all’utopia totalizzante dei flussi e della comunicazione globale viene contrapposta l’utopia realizzabile entro i limiti nei quali la sua istituzione dipenda esclusivamente dalla volontà degli individui stessi.

Sebbene l’iconografia infantile dei suoi progetti sembri tradire la tipica facilità dei grandi sogni di carta, Friedman ha sviluppato nel suo lavoro un vero e proprio

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approccio tecnico e scientifico ai problemi della città e della sua costruzione, non nel senso pretenzioso del determinismo statistico al quale i vari datascapes odierni ci hanno abituato ma come tecnica dell’immaginazione come – parafrasando Gianni Rodari – visionaria grammatica della fantasia.

Friedman si sforza di trovare le modalità entro le quali sia possibile la realizzazione di una utopia, non nel senso letterale del termine, vale a dire un luogo che non esiste, ma nel senso che ha storicamente acquisito, ossia un luogo ove sia possibile colmare pienamente la distanza tra progetto di una realtà desiderata e la sua costruzione, tra desiderio e soddisfazione. Egli chiaramente Non garantisce di avere la soluzione, ma difende strenuamente la facoltà che ha ognuno di decidere.

L’AUTODETERMINAZIONE DEI SINGOLI

La radicalità del suo pensiero, che riporta nel suo testo Utopie realizzabili, riesce a proporsi ancora fresca e suscettibile di sviluppi effettuali.

La possibilità indicata da Friedman è quella dei piccoli gruppi: «ognuno di noi – dice – è l’unico esperto delle questioni che lo riguardano», non solo, ma è anche l’unico capace di individuare gli strumenti per trovare la soluzione. Dunque, l’uomo comune può modificare la realtà urbana con i suoi spostamenti quotidiani, le abitudini, l’elezione di poli aggreganti. Una materia fluttuante dai risvolti imprevedibili. Volendo riportare una sua celebre frase con cui spiega ciò: «Il miglior modo di fare architettura è che gli abitanti trovino loro stessi le soluzioni».

Un’architettura spaziale, caratterizzata da infrastrutture il più possibile neutre, è infine l’espediente concreto per attivare la capacità di realizzare autonomamente le città. Il discrimine è nel numero di individui radunabili in comunità, il gruppo critico, una soglia oltre la quale la maggioranza degli uomini diventa cattiva, oppure passiva. O meglio, una piccola comunità in grado di autoregolarsi che presenta una dimensione-limite oltre la quale essa si dissolve Su questa linea, in una prospettiva globale, Friedman incoraggia lo sviluppo di un’Europa delle città

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(sul piano amministrativo, beninteso) che si contrapponga allo schieramento di stati, necessariamente indifferenti alle aspirazioni individuali.

LE TEORIE DI FRIEDMAN E IL PRINCIPE DI MACHIAVELLI

Per quanto il paragone possa sembrare strano, Gramsci ci ha insegnato a comprendere che l’assolutezza e il rigore del trattato non erano solamente strumentali alla presa del potere da parte di un capo, ma servivano a rendere palese l’esistenza di un progetto inteso come criterio dell’agire, la cui comprensione costituisce la garanzia di una sua realizzabilità da parte di chi partecipa e non soltanto subisce questo progetto. Ma al malinconico pessimismo dell’intelligenza che spinge Machiavelli a far ricorso al potere assoluto di un individuo pur di dar forma concreta alla passione politica di una collettività, Friedman oppone l’ottimismo della volontà di credere che è la collettività stessa a darsi una forma riconoscibile; ed anche se questa è generata da ciò che fino ad oggi è rimasto un mito impossibile, l’auto-organizzazione, la sua realizzazione presuppone paradossalmente l’esistenza di un principio progettuale.

YONA FRIEDMAN SECONDO FRANCO PURINI

Friedman appartiene a una generazione di architetti che ha avuto un compito particolarmente difficile. Essa ha ultimato infatti la sua formazione nel momento in cui l'architettura moderna si era definitivamente affermata costruendo una mitologia centrata su figure leggendarie come Frank Lloyd Wright, Le Corbusier, Walter Gropius, Ludwig Mies Van der Rohe. Tuttavia tale vittoria, resa possibile da una intensa attività propagandistica, non aveva nascosto, ma anzi reso più evidenti, i limiti insiti nella rivoluzione figurativa e tecnologica che aveva trovato il suo culmine nell'azione delle avanguardie. Limiti consistenti non solo in un carattere astratto delle metodologie di intervento e in una evidente rigidezza del linguaggio, che aveva incorporato come principale ingrediente il modello della macchina, ma soprattutto in uno schematismo deterministico che rendeva le soluzioni progettuali prive di una vera complessità e di quella capacità di interpretare i luoghi che ogni edificio dovrebbe possedere. In più il progetto

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moderno, prevalentemente razionalista, si configurava come qualcosa di intrinsecamente autoritario che faceva cadere dall'alto analisi e conseguenti previsioni sovrapponendole alla singolarità delle realtà locali. Tali limiti erano poi amplificati dalla natura intrinsecamente «autoreferenziale» del progettare moderno. Quasi per riequilibrare la tendenza a pervadere ogni aspetto della realtà con un’ossesiva presenza prescrittiva si chiedeva all'architetto di proporre uno stile il più personale possibile, che si riteneva tanto più valido quanto più rescindeva ogni legame con le convenzioni comunicative proponendosi come sorprendente e incomprensibile. Seguendo in questo la pittura, la scultura e la musica, l'architettura moderna non cercava la popolarità pur proponendosi come un sapere che voleva risolvere ogni problema della città e dei suoi abitanti.

Nei confronti dell'essenza astratta e totalizzante del progetto moderno e dell'esigenza dell'autografia la generazione di Yona Friedman ha cercato di opporre una maggiore considerazione delle differenze che attraversano e segnano l'abitare nonché una concezione meno soggettiva del linguaggio. La preoccupazione per un maggiore radicamento dell'architettura nella società, interrogata nelle sue manifestazioni più autentiche e nei suoi processi aggregativi primari, è stata al centro di una ricerca volta a una estesa revisione dei fondamenti del progetto. Assenti dalla ricostruzione postbellica perché troppo giovani, ma segnati in profondità dalla tragedia della seconda guerra mondiale, gli architetti di questa generazione salgono alla ribalta quando, riedificate le città distrutte, si pone il problema di una loro nuova espansione. Alla fine degli anni cinquanta le città diventano metropoli e queste si trasformano in megalopoli: nascono nuove funzioni urbane, si fa strada la necessità di connettere ambiti prima separati, emergono forme nuove di cittadinanza. La proliferazione delle infrastrutture, l'inquinamento, la dimensione abnorme degli insediamenti, la grandezza dei quartieri popolari, spesso segregati in aree prive di collegamenti, disegnano un quadro problematico che costringe gli architetti a un improvviso e radicale salto conoscitivo e creativo. È la stagione delle grandi utopie urbane che vede i progettisti allestire scenari prossimi all'immaginario fantascientifico nei quali labirintiche megastrutture, colonizzate come barriere coralline da incrostazioni edilizie che si avvicendano in ravvicinati cicli vitali, si dispongono in uno spazio territoriale completamente edificato, che coincide con intere regioni.

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È in questo momento che Yona Friedman conquista una meritata notorietà con la sua ipotesi di «Città spaziale». Si tratta di un'idea insediativa basata su strutture tridimensionali aeree, derivate dalle ricerche svolte da Konrad Wachsmann sulle coperture metalliche reticolari, poggianti su piloni che ospitano i percorsi verticali e gli impianti. Questi piloni, disposti secondo maglie di cinquanta per cinquanta metri, sostengono una intelaiatura in acciaio destinata ad essere riempita per la metà del suo volume. Questa città spaziale sorvola il territorio e la città configurandosi cosi come una sorta di «cielo urbanizzato». L'intenzione è quella di offrire agli abitanti un suolo artificiale da utilizzare liberamente per mezzo di una attività edilizia che recupera i modi dell'architettura spontanea, un costruire libero che riflette i ritmi biologici della città.

CONCLUSIONI

Friedman si può dire che abbia la “pecca” di avere elaborato circa trent’anni fa, e persevera nel portarli avanti, concetti che oggi rischiano di essere un “verosimile critico”23, vale a dire un repertorio di abusati luoghi comuni critici tra cui il concetto di utopia stesso e l’idea di comunità che sempre con più insistenza viene evocata come una sorta di soluzione finale di tutti i guai causati dalla globalizzazione. Tuttavia la sua visionarietà ci riporta ad un mondo che vuole rinunciare a quel fatalismo al quale il mito della dispersione e della crescita incontrollata dello spazio urbano ci hanno abituati.

Come tutte le teorie potentemente sintetiche, inoltre, anche quella espressa da Yona Friedman si espone a molte critiche. Essa sembra non tener conto della differenza di culture tra i diversi gruppi sociali che abitano le città, tende a ridurre le relazioni tra persone e gruppi sociali a pure forze vettoriali, come in un teorema di meccanica razionale; non contempla la presenza in ogni processo urbano degli imprevisti, vale a dire di quei fattori di discontinuità che regolano i normali funzionamenti della società determinando scarti improvvisi. Nonostante tutto, rileggendo i suoi scritti, si può sicuramente aumentare la conoscenza della società e della città. Una conoscenza non certo accessoria ma determinante per

23 Roland Barthes, Critica e verità, Einaudi, Torino, 1970.

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aumentare la possibilità di vivere la città partecipando in modo diretto e creativo alla sua evoluzione.

BIOGRAFIA

Yona Friedman nasce a Budapest nel 1923, è un architetto, designer e urbanista ungherese naturalizzato francese. Divenuto celebre fra la fine degli anni cinquante e i primi sessanta, età detta della “megastruttura”. Ha attraversato la II Guerra Mondiale sfuggendo ai rastrellamenti nazisti ed è vissuto per circa un decennio in Israele nella città di Haifa prima di trasferirsi stabilmente a Parigi nel 1957. Nel 1956, al X Congresso Internazionale di Architettura Moderna di Dubrovnick, il suo “Manifeste de l’architecture mobile” contribuì a mettere in discussione definitivamente le ardimentose volontà pianificatorie della progettazione architettonica e urbanistica. Proprio durante quel congresso, e grazie soprattutto ai giovani del Team 10, si cominciò a parlare di “architettura mobile” nel senso di “mobilità dell’abitare”. Con l’esempio della Ville spatiale, Friedman ha esposto – per la prima volta – i principi di un’architettura capace di comprendere le continue trasformazioni che caratterizzano la “mobilità sociale” e basata su “infrastrutture” che prevedono abitazioni e norme urbanistiche passibili di essere create e ricreate, a secondo dell’esigenza degli abitanti e dei residenti. La sua attenzione per l’autoregolazione degli abitanti nasce dalla sua esperienza diretta di profugo e senzatetto, dapprima nelle città europee disastrate dalla guerra e poi in Israele, dove nei primi anni di vita dello Stato sbarcavano ogni giorno migliaia di persone con conseguenti problemi di alloggio.Nel 1958 ha fondato il Groupe d’études de architecture mobile (GEAM), scioltosi nel 1962. Nel 1963 ha sviluppato l’idea di città ponte e ha partecipato attivamente al clima culturale e utopico dell’architettura degli anni ’60 nota come “ Età della megastruttura”. Dalla metà degli anni ’60 ha insegnato presso numerose università americane. Nel decennio successivo ha lavorato intensamente per le Nazioni Unite e l’Unesco, attraverso la diffusione di alcuni manuali di auto-costruzione nei Paesi africani, sudamericani e in India. Nel 1978 gli è stata commissionata la progettazione del Lycée Bergson ad Angers, in Francia, completato nel 1981. In questa occasione ha pubblicato un procedimento secondo il quale la distribuzione e la disposizione di tutti gli elementi architettonici erano pensate e decise dai futuri utenti. Perché anche i non professionisti dell’architettura potessero comprendere e applicare il suo metodo, ha scritto anche aiutandosi attraverso fumetti. L'interesse per il tema della partecipazione ha avvicinato Friedman ad architetti come Giancarlo De Carlo e Bernard Rudofsky.

IL PENSIERO

«I was not present».

Non essere presenti significa per Friedman che chiunque può costruire e dare forma alle sue idee. Rendere l'architettura libera, alla portata di tutti dove l'architetto è semplicemente un consulente a disposizione degli abitanti di una città. Con questa frase, "I was not present", Yona Friedman sintetizza

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uno tra i principi fondamentali della sua ricerca. Questa frase vuole liberare l'architettura dall'incombente peso della tecnicità e della specialisticità. L’obiettivo di Friedman infatti è quello di ricondurre la produzione artistica al di fuori del campo specialistico nel quale si trova, per metterla in contatto con la vita di ogni giorno e con i bisogni di tutti.

BIBLIOGRAFIA

Caterina Maria, Carla Bona, Il futuro del passato e il ‘presente’delle visioni avanguardiste, accademia.eu 2013. Pier Vittorio Aureli, Oltre il fascino discreto dell'utopia, in «Arch'it Books Review» 2003.Yona Friedman, L'architettura mobile, Alba, Edizioni Paoline 1972.Yona Friedman, Utopie realizzabili, Quodlibet, Macerata, 2003.http://yonafriedman.blogspot.com/ more

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6. Per una città a misura umana

I DANNI DEL DELEGARESuggerimenti per il recupero della misura umana

Di pari passo al processo di industrializzazione ha camminato il processo di delega, tanto da non essere più capaci di un senso critico e ciecamente incanalarci nelle proposte di organizzazione sociale che il capitale, attraverso politici e media, ci propone. Tutti abitiamo. Tutti dobbiamo pianificare il futuro dei luoghi in cui viviamo. Il ruolo degli urbanisti dovrà essere quello di essere aperti e interrogare gli abitanti sui loro desideri, svegliarli dal sonno in cui sono stati costretti per lungo tempo e dare loro la possibilità di essere operativi quindi partecipativi nella pianificazione. I responsabili di quest’ultima dovrebbero fare un passo indietro e allontanarsi dai dettami eurocentrici o, quantomeno adottarli con cautela, visto che sotto l’illusione della modernità tendono sempre più ad estirpare le nostre radici. Fondamentalmente si tratta di un problema culturale. È perciò necessario modificare gli stimoli culturali per ottenere una progressiva seppur lenta

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acquisizione di consapevolezza e di mutazione della coscienza collettiva. La conoscenza conduce alla consapevolezza e alla presa di coscienza; conduce al miglioramento della qualità del pensiero e con esso al miglioramento della qualità di partecipazione e della qualità delle scelte. È guida di comportamento e quindi conduce anche allo sviluppo, inteso in senso ampio, in quanto vero benessere, che dovrebbe essere il principale obbiettivo di ogni azione urbana.Una possibilità potrebbe essere quella di creare una piattaforma di idee aperta a tutti per iniziare una forma di urbanistica partecipata. Inoltre proporre dei seminari per riportare alla luce autori, poeti, artisti, scrittori, architetti degli anni passati, le cui idee sono scivolate in secondo piano perchè troppo utopiche per alcuni ma che col senno di poi forse avrebbero evitato questo capovolgimento di valori il cui effetto è una dilagante perdita di identità.Le città negli ultimi hanni non hanno retto l’aumento demografico e ora si trovano a fare i conti con delle psicosi ingestibili. Bisogna recuperare il bagaglio immateriale su cui si sono fondate le nostre città. Miti, legende, rituali, tutte le forme artistiche dalla danza, alla pittura, alla musica, alla cucina, all’artigianato che hanno collaborato alla creazione di una identità unica e magnifica, la nostra forza.

LE CITTÀ CONTEMPORANEE NON SONO AMICHE DEI BAMBINI

La forma e l’organizzazione della città contemporanea, infatti, continuano ad essere ostili nei confronti dell’infanzia24 e, anzi, a diventarlo, in molti casi, sempre di più, rendendo quanto mai prima d’ora urgente la necessità di intervenire concretamente per promuovere uno sviluppo urbano davvero attento alle istanze dei bambini, anche in un’ottica di sostenibilità del processo stesso di sviluppo. Sottolinea, a questo proposito, Lamedica25:

«Da qualche anno siamo abituati a sentir parlare di città dei bambini o di città sostenibile delle bambine e dei bambini; come già avvenuto per altri concetti, dopo un po’che li abbiamo sentiti ripetere sono diventati dei modi di dire, delle frasi che vanno ripetute per potersi considerare persone attente ai cambiamenti, come se si trattasse di slogan di moda da introdurre come premessa nei programmi politici di Comuni, di enti locali, di agenzie territoriali e di scuole, ma anche nelle

24 Così come nei confronti di altri gruppi sociali deboli.25

Ippolito Lamedica, pianificatore Territoriale ed Urbanista esperto in tematiche di partecipazione e sostenibilità

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conversazioni sulla città. [...] Solo un esiguo insieme di persone pensa alla città dei bambini (o città sostenibile delle bambine e dei bambini, secondo la dicitura più estesa utilizzata dal Ministero dell’Ambiente) come a un principio che deve orientare in modo forte e deciso la politica dello sviluppo urbano»26.

Pecoriello27 afferma a sua volta:

«Questo mettere in gioco il bambino come attore nel processo di pianificazione per cambiare la città, troppo spesso sbandierato come progetto politico dalle amministrazioni e svuotato poi di contenuti effettivi, ridotto a pura operazione di immagine che spesso ha strumentalizzato i bambini invece di liberarne le energie, richiede di essere condotto seriamente [...]».28

È indicativa, in tal senso, la lettura del testo di Ward29 The child in the city del 1979: egli, anche avvalendosi di fatti di cronaca, testimonianze, racconti e immagini, documenta il processo di trasformazione che, a partire dal secondo dopoguerra, ha reso le città sempre più ostili alla presenza dei bambini; in particolare, l’autore sottolinea come i bambini siano stati progressivamente privati dell’opportunità di esperire la città e, con essa, della possibilità di accrescere la propria autonomia di pari passo con il loro sviluppo.L’autore individua nella diffusione dell’automobile la causa principale alla base di questa crescente ostilità; egli sostiene, infatti che la città sia andata modificandosi sulla base di scelte di carattere urbanistico basate esclusivamente sulle esigenze degli automobilisti e a promozione dell’autonomia di movimento di questi ultimi, a discapito delle esigenze e dell’autonomia di movimento degli altri cittadini, primi fra tutti i bambini.

IL BAMBINO E LO SPAZIO PUBBLICO

Fino ad un recente passato gli spazi pubblici della città erano i luoghi privilegiati dell’incontro, dello scambio, dell’apprendimento, del confronto; nella città

26 Ippolito Lamedica, “La cittadinanza dei bambini”, Atti dell’omonimo Convegno internazionale presso l’Università

degli studi di Urbino, Facoltà di Sociologia, 1997.27

Annalisa Pecoriello, dottore di ricerca in Progettazione urbana territoriale e ambientale, si occupa di partecipazione

con un’attenzione particolare al riconoscimento dei bambini come attori nella trasformazione della città.28

Pecoriello A. L. (2006), “La città in gioco”.29 Colin Ward (1924-2010) è uno scrittore anarchico britannico, tra i primi ad individuare le varie forme di crisi della

città post-bellica

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contemporanea, al contrario, sempre più frequentemente e diffusamente la vita sociale prende forma e si sviluppa prevalentemente in luoghi chiusi e privati, primo fra tutti l’abitazione.I bambini, più rapidamente e sistematicamente di qualunque altra categoria di popolazione, sono stati allontanati dagli spazi pubblici e, così, privati dell’opportunità di esperire la città, se non in spazi dedicati, con modalità fortemente controllate e nei tempi imposti dai genitori, spesso rigidamente scanditi.Ward sottolinea come, in questo modo, sia «andata perduta una parte preziosa della varietà di esperienze accessibili ai bambini nell’ambiente che li circonda»30. È evidente infatti quanto i bambini crescano sempre più in luoghi chiusi, dove svolgono attività organizzate e controllate dagli adulti; hanno una mobilità autonoma estremamente limitata e ritardata rispetto alla loro età, non hanno la possibilità di cercarsi degli amici per giocare o per condividere l’avventura della progressiva scoperta di luoghi nuovi. Sono sempre di meno e sempre più soli, sempre più curati e protetti, dotati di opportunità che prima non avevano, ma sempre più in una condizione di segregazione domestica, privati delle fondamentali esperienze di crescita e di conoscenza. Nel testo The child in the city Ward sottolinea l’importanza del gioco libero e autonomo nel processo di crescita e apprendimento del bambino e rileva come, mentre la città storica si offriva ai bambini interamente come spazio e strumento di gioco – pur non essendo progettata per questo scopo -, la città contemporanea nella sua interezza è inaccessibile e inutilizzabile dai bambini.

Secondo Ward, questa tendenza dei bambini a rendere giocabile la città tutta, piuttosto che utilizzare esclusivamente gli spazi in essa ritagliati appositamente per loro, può essere letta come una forma di contestazione che i bambini mettono in atto per affermare il loro dissenso nei confronti degli spazi pianificati incapaci di dare una risposta al loro bisogno di autonomia e libertà.Pertanto – suggerisce Ward – occorre guardare ai bambini concentrandosi proprio sulla loro capacità di trasformare la città attraverso l’esperienza eversiva e, al contempo, creativa del gioco per riuscire a immaginare una città possibile davvero amica dei bambini e di tutti i cittadini.

30 Collin Ward, The child in the city, Penguin Books, 1979.

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Non voglio una città dei bambini. Voglio una città dove i bambini vivano nello stesso mondo dove vivo io. Se il nostro obiettivo è una città condivisa, e non una città dove zone non necessarie vengono messe da parte per trattenervi i bambini e le loro attività, allora le nostre priorità non sono le stesse di quelle delle crociate a favore dei bambini [...] Se la richiesta dei bambini di condividere la città viene accettata, l’intero ambiente deve essere progettato e modellato tenendo conto delle loro necessità.31

Molti autori – tra cui lo stesso Ward – sostengono che partire dal riconoscimento del bisogno e del diritto dei bambini di poter fruire autonomamente e liberamente della città sia un presupposto indispensabile per avviare percorsi efficaci e durevoli di ridemocratizzazione delle strade e degli spazi pubblici della città contemporanea, a vantaggio di tutti i cittadini.

In sostanza, ridare autonomia ai bambini, riportarli nelle strade e nelle piazze è probabilmente uno dei percorsi più sicuri per il recupero della città e per il suo sviluppo sostenibile.

IL COINVOLGIMENTO DEI BAMBINI NEI PROCESSI DI TRASFORMA-ZIONE TERRITORIALE E URBANA

Il coinvolgimento degli abitanti nei processi di definizione e attuazione di politiche e progetti territoriali e urbani è considerato, da numerosi studiosi che, a diverso titolo, si occupano del progetto del territorio e della città, uno strumento o - meglio - una consuetudine in grado di favorire l’efficacia e la sostenibilità delle azioni pubbliche. La garanzia di una efficacia e una sostenibilità maggiori dei processi inclusivi rispetto alle procedure top-down è legata principalmente a due fattori; il coinvolgimento degli abitanti nei processi di gestione o trasformazione territoriale e urbana consente di integrare le conoscenze e competenze tecniche dei progettisti con le conoscenze e competenze, che potremmo definire esperienziali, delle diverse popolazioni di abitanti: si tratta, in entrambi i casi, di saperi esperti la cui messa a sistema permette:

31 Collin Ward, The child in the city, Penguin Books, 1979.

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a) di individuare e definire meglio i reali bisogni e le potenzialità cui il progetto deve riferirsi

b) di elaborare soluzioni progettuali più calzanti e maggiormente condiviseCosì come suggerisce lo stesso Ward, particolarmente fruttuosa si rivela, in questo senso, la scelta di dare spazio e voce anche ai bambini, la cui visione ed interpretazione della realtà e le cui conoscenze e competenze specifiche – differenti e non inferiori rispetto a quelle degli adulti – possono, qualora vengano prese in considerazione, contribuire ad aprire il progetto a nuove ed inedite possibilità.Il presupposto di partenza di qualunque percorso di coinvolgimento dei bambini nei processi di definizione e attuazione di politiche e progetti territoriali e urbani è, dunque, il riconoscimento del valore del loro specifico punto di vista sulla forma e l’organizzazione della città, un punto di vista non convenzionale, alternativo, originale.Lo sguardo dei bambini sulla città è uno sguardo corporeo, legato ai luoghi, concreto: è uno sguardo naturalmente ecologico, orientato al benessere ambientale; è uno sguardo relativamente libero da pregiudizi, da interessi mediocri, da aspettative economiche e di profitto; è infine uno sguardo immaginoso, desiderante, sognatore, aperto al futuro, alla sperimentazione, all’innovazione e attuazione degli stessi.

Questo percorso di acquisizione di consapevolezza e di responsabilizzazione individuali che accompagna qualsiasi esperienza di coinvolgimento reale degli abitanti assume una valenza educativa maggiore e di più ampia portata quando ad essere coinvolti sono i bambini. È principalmente durante il corso dell’infanzia, infatti, che gli individui definiscono le cornici entro le quali poi stabiliranno le proprie consuetudini di vita e costruiranno le proprie convinzioni. È possibile affermare, dunque, che coinvolgere i bambini di oggi nei processi di trasformazione e gestione territoriale e urbana è – di fatto – il modo migliore affinché gli adulti di domani siano in possesso della consapevolezza, della responsabilità e della sensibilità adeguate per affrontare i gravi problemi sociali ed ecologici del pianeta e orientarne lo sviluppo in un’ottica di sostenibilità.Benché non vi sia la possibilità di avere conferma empirica, molti autori sostengono, che un territorio o una città a misura di bambino – capaci cioè di garantire ai bambini, al contempo, una buona qualità di vita e l’opportunità di

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costruire la propria autonomia ed esercitare la propria libertà – siano più vivibili per tutti i cittadini, e in particolare per coloro che, come i bambini, vivono oggi una condizione di marginalità (anziani, portatori di handicap, immigrati, ecc.).

I BAMBINI COME INDICATORI AMBIENTALI

Ward afferma che la maggior parte delle politiche ambientali che avessero intenzione di migliorare la vita dei bambini di città garantirebbero benefici anche per gli adulti. I bambini sono capaci di interpretare ed esprimere i bisogni e i desideri che la città di oggi non riesce a soddisfare. e le necessità e i desideri che i bambini possono esprimere rappresentano correttamente i bisogni di altre categorie sociali inascoltate come ad esempio gli anziani, i portatori di handicap, i poveri, gli stranieri. Ma in realtà rappresentano anche quelli degli adulti che per avere qualche privilegio in più per la loro auto, per la loro fretta, per il loro bisogno di guadagnano, hanno rinunciato alla serenità, alla tranquillità, alle relazioni.. Quindi, il bambino è un sensibile indicatore ambientale e quando il bambino starà bene significherà che la città avrà ritrovato la sua funzione naturale di luogo di esperienze condivise, cooperative e solidali. Questo è un modo corretto di proporre lo sviluppo sostenibile.

LA SCALA DI PARTECIPAZIONE DELL’INFANZIA SECONDO HART

Hart, architetto e psicologo statunitense, ha definito, a partire dalla scala della partecipazione proposta da Arnstein, una scala della partecipazione dell’infanzia che rappresenta le diverse modalità tramite cui i bambini possono essere coinvolti nei processo di definizione e attuazione di politiche e progetti territoriali e urbani.La scala comprende otto gradini: i primi quattro possono essere definiti di non-partecipazione e rappresentano esperienze ambigue nell’ambito delle quali i bambini non hanno nessuna reale possibilità di esercitare influenza sulle scelte e, anzi, vedono sfruttata la loro immagine da parte degli adulti nell’intento di confermare decisioni già prese e rafforzare relazioni di potere preesistenti;

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i secondi quattro descrivono processi di partecipazione veri e propri nell’ambito dei quali (in misura crescente) i bambini influenzano le scelte di piano.

ITALO CALVINO: LE CITTÀ INVISIBILI

“D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda.” Nel suo libro del 1972, Le città invisibili, Italo Calvino narra il viaggio di Marco Polo in terre esotiche e incantate. Le esplorazioni di Marco Polo si svelano attraverso i dialoghi con un vecchio imperatore, Kublai Khan, che riceve regolarmente i viaggiatori per ascoltarne le storie ed essere così aggiornato sulle condizioni del suo vasto impero. Mentre molti mercanti arrivano al palazzo con i tesori scovati durante i loro viaggi, le ricchezze di Marco Polo, per la gioia dell’imperatore, altro non sono che le storie sui luoghi che ha attraversato. Quelle che descrive sono destinazioni oniriche, evanescenti: luoghi dove niente è come sembra. per questo il racconto segue filoni misteriosi, come «le città e i desideri», «le città nascoste», «le città e i ricordi”. C’è Bersabea, città dove una torre, che fluttua alta nel cielo, ricorda agli abitanti a cosa possono aspirare; Isidora, dove i desideri sono istantaneamente trasformati in ricordi è la città del sogno, del progetto giovanile, che non delude, cui però si arriva in “tarda età”, e ancora Ottavia, città ragnatela, sospesa sull’abisso, dove gli abitanti (noi?) sanno “che più di tanto la tela non regge”; dunque quale viatico migliore per noi, arroganti viaggiatori della vita, costantemente alle prese con l’ostentazione di certezze?

Anche se i luoghi descritti da Marco Polo non esistono su nessuna mappa, Le città invisibili possiamo considerarlo ancora una chiave di ingresso all’ineffabilità delle città. L’idea che alcune di esse siano invisibili (o che conservino tanti aspetti ancora da scoprire) rappresenta una prospettiva efficace per analizzare non solo ciò che di una città diamo per scontato nel comune sentire, ma anche quello che, attraverso di esso, escludiamo. Citando lo stesso Calvino, nell’introduzione leggiamo che per Marco Polo è importante svelare l’elemento misterioso che spinge le persone ad abitare una città, quello che rappresenta una motivazione così forte da reggere l’urto di qualsiasi crisi32. Il libro di Calvino è attuale in fondo,

32 Italo Calvino, Le Città invisibili [1972], Mondadori Editore, Milano 2002.

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poichè le città che viviamo, in continua crescita e trasformazione, sono il frutto tanto di lotte, rivendicazioni e progettazione, quanto delle nostre speranze ed intuizioni.

In questi anni, il corso dell’urbanizzazione è andato evolvendosi sempre di più, la concomitanza di una serie di eventi e fattori – tagli alla spesa pubblica, crescita del debito, successione di catastrofi naturali, nuovi movimenti di protesta, nuove teorie sulla decrescita, non è necessario entrare nella finzione letteraria per rendersi conto che le città nascoste esistono davvero.

Crisi e sistemi al collasso sono a quanto pare la normalità. Ragionare sulla estensione dei fenomeni citati potrebbe essere un esercizio fine a se stesso, non utile a individuarne la possibile via di uscita. Va invece considerato che, proprio perchè il mondo nel suo complesso sta cambiando, bisogna trovare un punto di svolta, individuare soluzioni collaborative in risposta a ciascuno dei problemi.

In che modo?

Gli autori che cito in questa tesi sono legati da un filo comune rappresentato dalla fondamentale centralità dell’uomo nelle decisioni, nell’importanza di avviare processi creativi che sprigionino i desideri nascosti delle persone. Liberare la immaginazione di ognuno, svegliare tutti dal sonno a cui da un lato sono stati costretti e dall’altro si sono voluti adagiare. Ciacuno a suo modo introduce domande e provocazioni per guidare verso un impegno più critico nei confronti della gestione del territorio, che coinvolge e tocca tutti noi nel presente quotidiano e futuro.

Il PLACE-BASED CREATIVE PROBLEM SOLVING

La “creatività territoriale applicata” rappresenta un particolare approccio alla partecipazione che fa leva sull’immaginazione e l’inventiva di cittadini, esperti e attivisti che, con impegno condiviso, rendono le città più inclusive, innovative ed interattive.

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Perché è importante tutto ciò? Le nostre città si trovano a fronteggiare sfide enormi che spaziano dalla crescente urbanizzazione all’esaurimento delle risorse: il modo in cui sceglieranno di affrontare queste sfide – e gli attori che decideranno di coinvolgere – sono fattori che influenzeranno irreversibilmente il futuro del pianeta.

Il concetto di cittadinanza attiva è particolarmente stimolante per il suo carattere di inclusività, creatività, interdisciplinarità e partecipazione e le “comunità creative” rappresentano un buon antidoto all’erosione diffusa di pratiche e culture locali e, al tempo stesso, sono un mezzo innovativo e tempestivo per fronteggiare questioni sociali sempre più interconnesse. Si tratta di processi di trasformazione collettiva che prendono forma dal basso e su base democratica: attraverso il dialogo, l’apertura e la collaborazione e la riscoperta della quotidianità. La creatività inoltre favorisce apertura mentale e pensiero innovativo, aiutando le comunità ad articolare i propri bisogni e le proprie visioni in modi che valorizzano gli spazi e i luoghi già al centro della loro realtà quotidiana.

COMBATTERE IL DEGRADO CON LA CREATIVITA’

La visione della società e della politica sull’arte di strada da qualche anno risulta mutata, l’onda “street” è passata e passa attraverso molti territori, riqualificandoli, con budget limitati e effetti stupefacenti tali da combattere spesso e volentieri il degrado urbano. La concezione di mera azione di “imbrattamento” viene superata da sempre più persone; una volta bistrattata ed emarginata, ora la street art è dai più, amata, acclamata e addirittura richiesta da ogni parte del mondo, da quelle stesse autorità che fino a poco tempo fa la ripudiavano. Numerose amministrazioni comunali in giro per il mondo stanno rivalutando gli street artists, per il loro potere di riqualificare zone disagiate con bombolette e stencil. In Italia, Roma è uno dei tanti esempi, avendo quartieri come Ostiense o San Lorenzo che sono letteralmente “rinati” grazie all’arte contestuale. M.U.Ro., il Museo Urbano di Roma, situato nel quartiere Quadraro che, attraverso una vera e

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propria collezione di Street Art a cielo aperto, combatte, ormai da anni, il degrado con la creatività.

ESPERIENZE CONCRETE

Era il 1988 e durante la settimana Santa, ogni notte Ernest Pignon, artista di origine francese, tappezzava i vicoli e i muri dei palazzi in centro storico con disegni su carta di giornale, spesso ispirati alle tele del Caravaggio, Luca Giordano, Ribera o Stanzione. Inserendoli nel contesto urbano, l’autore ricercava le radici della cultura mediterranea, interrogando il rapporto tra la vita e la morte, così forte e presente nella cultura partenopea.«I miei disegni nascono dal mio approccio ai luoghi. Non si tratta di disegni esposti per strada. Sono disegni che quando metto in relazione con un luogo, devono in qualche modo riattivare, esacerbare il potenziale suggestivo, interagendo con la forza del luogo stesso. Devo precisare che le mie opere non sono i miei disegni». Le sue opere provocatorie e profonde mirano un po’a re-inscrivere nella vita quotidiana, nei luoghi in cui la gente vive ogni giorno, alcune grandi questioni come la morte, i riti sacri, la storia. «Bisogna prendere in considerazione i luoghi, perché sono carichi di storia. Si tratta di associare, di far sì che l’immagine sia indissociabile dalla storia del luogo».

CHANGE MAKERS

Siamo noi gli “attori del cambiamento” con l’obiettivo di rendere le città più vivibili, inclusive e residenziali.

Molte figure a livello nazionale e non, stanno sviluppando modelli concettuali e strumenti di azione che promuovono la cultura della co-creazione e della partecipazione, che incoraggiano l’impegno pubblico e permettono di re-immaginare, in maniera dinamica, il potenziale “abilitante” delle città. In questa tesi sono state individuate e studiate le moltissime idee e iniziative nel panorama mondiale che rafforzano e sostengono le reti attive per il cambiamento dal basso.

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Ormai è chiaro che l’innovazione non nasce esclusivamente nel mercato e che i cittadini sanno fare molto più che esprimere la propria preferenza politica in tempo di elezioni; infatti sempre più spesso vediamo artisti che collaborano con i politici, politici che collaborano con i cittadini e cittadini che aiutano le amministrazioni a mettere a fuoco i problemi con accuratezza maggiore di quanto queste ultime da sole riuscirebbero a fare.

Quella che emerge è una nuova comunità, dove la dimensione locale si integra con quella globale all’interno della città e dove le risorse e il saper fare delle persone sono valorizzati, perché si considerano strumenti importanti per la soluzione dei problemi legati alla sostenibilità urbana e culturale. Qui l’innovazione diventa un catalizzatore di cambiamento sociale, un processo collaborativo attraverso il quale i cittadini partecipano attivamente alla definizione e alla realizzazione dei progetti, dei programmi e dei servizi a loro rivolti. Il passaggio dall’ottica del controllo a quella dell’abilitazione trasforma le città in veri e propri incubatori per il potenziamento delle comunità, grazie all’opportunità viene data a tutte le persone di far sentire la propria voce.

È sorprendente come semplici passeggiate possano rendere i quartieri più vitali e come nuove forme artistiche possano trasformare monotoni incroci stradali in spazi allegri e sicuri per la comunità. È interessante scoprire che attraverso interventi creativi si possono aprire spazi per la riflessione collettiva e la partecipazione e che la condivisione in rete si può trasformare in collaborazione nella vita reale.

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7. Psicologia ambientale

L’IMPORTANZA DELL’ASPETTO PSICOLOGICO NELLA CONCEZIONE, PROGETTAZIONE E RECUPERO DEGLI AMBIENTI URBANI

Perché una piazza, una chiesa, dei giardinetti, un colore, ma anche degrado, sporcizia e cementificazione selvaggia, possono cambiare il carattere e la psiche di una persona? È questo lo stretto, quanto innegabile rapporto, che intercorre tra psiche e contesto in cui si vive, quella che gli psicologi chiamano «self identity» e «place identity», l’identità individuale e l’identità del luogo, costantemente minate dal degrado urbano e dalla spersonalizzazione dei luoghi, il cui importante passato cade nell’oblio della contemporaneità. La morfologia del luogo, i suoi spazi, così come i suoi suoni e i sui colori o magari i non colori, hanno un peso significativo sull’identità delle persone che lo abitano, sul loro comportamento e sul loro benessere psico-fisico.

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Non dovremmo più pensare a una conoscenza ‘obiettiva’ del fenomeno urbano che non si lasci contaminare attivamente

dall’interesse esplicito per valori e aspettative degli abitanti, che non cerchi di interrogarli esplicitamente, per quanto arduo sia

il cammino che ci si apre e talvolta elusivi ne siano gli esiti. Non potremmo più accontentarci di definizioni monche della forma

urbana che tengano scissa la vita, che la percorre e la trasforma, da un residuo ‘fisico’... per quanto difficile possa essere il

passaggio da quest’affermazione alla pratica di modi comprensi-bili e completi di descrivere e rappresentare. Non potremmo più

pensare ad una costruzione di proposte e programmi d’azione che si chiudano nell’autoreferenzialità della loro coerenza tecnica

senza misurarsi con la discussione e senza tentare di scalfire l’opacità dei linguaggi in cui questa avviene, che separano coloro

che comunicano proprio mentre li mettono in contatto

Vincenzo AndrielloLa forma dell’esperienza, 1997

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L’evidente intreccio multi causale, di questa situazione di disagio e degrado, richiede e riconnette livelli micro e macro di spiegazione, con un approccio necessariamente multidisciplinare. È in quest’ottica che Psicologi e Urbanisti, devono incontrarsi per giungere ad un progetto di lavoro teso ad identificare gli strumenti di riqualificazione e, soprattutto, migliorare la qualità della vita dei suoi abitanti. Soffermandosi sulla tesi secondo cui la crescita psichica dell’individuo è sempre connessa al suo abitare in un ambiente favorevole.33

LA CITTÀ PENSATA

La psicologia urbanistica è la disciplina che studia il benessere umano in riferimento ai rapporti che intercorrono tra gli individui e l’ambiente socio- fisico in cui vivono. L’ambiente urbano, in questa prospettiva, è considerato come l’insieme delle caratteristiche fisiche unitamente alla sua dimensione sociale e politica. Tra i settori in cui la psicologia si è recentemente affermata apportando il suo contributo e che si rafforzerà in futuro è quello urbanistico, inerente il modo di pensare la città.

La psicologia, in quanto disciplina in grado di cogliere i bisogni di chi vive lo spazio urbano può fornire, in funzione delle aspettative, indicazioni progettuali realizzabili affiancandosi a materie tradizionali di ambito. È un contributo operativo quello che la psicologia può fornire alla progettazione attraverso la lettura di variabili quali la percezione e il vissuto, l’esperienza e l’identità, occupandosi di come la mente umana ed il suo comportamento cambino in funzione del contesto ambientale. Non interessarsi di ciò sarebbe come parlare di piante senza considerare il terreno o la sua collocazione. La correlazione tra la qualità dell’abitare la città e la qualità della vita rispetto all’ambiente urbano è il tema della psicologia applicata all’urbanistica, della sociologia dell’abitare e della progettazione urbanistica, nella consapevolezza del contributo che può portare una scienza che si occupa di come l’ambiente tende ad influenzare il nostro comportamento e la nostra mente e di come viceversa l’uomo, con la sua mente e

33 http://www.campaniasuweb.it/story/23429-recupero-urbano-porta-capuana-parte-rapporti-sociali

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il suo comportamento, può modificare l’ambiente; ed il modo in cui viene cambiato costituisce, per lo psicologo, un indizio interessante sul funzionamento della mente umana. Ad esempio, nella costruzione degli edifici tendiamo a considerare attraenti quelli che si sviluppano in altezza, piuttosto che orizzontalmente. Gli edifici più visitati nelle città sono infatti costituiti da cattedrali e grattacieli. Ciò deriva dal fatto che a livello neurale esistono più neuroni nelle aree sensoriali che scaricano selettivamente in corrispondenza di stimoli orientati verticalmente rispetto a stimoli orizzontali, dunque la verticalità, nel nostro sistema percettivo, è privilegiata rispetto alla orizzontalità. Inoltre, nel 1992 Giacomo Rizzolatti, neuroscenziato di fama mondiale, scoprì i neuroni a specchio: questi sono i neuroni che portano un bambino a imitarci se gli facciamo le linguacce, ad esempio. A seconda di quello che vedono e vivono producono dei pensieri adeguati allo stimolo; cioè se vivono un contesto degradato producono pensieri di degrado. Siamo neurologicamente predisposti a provare empatia, dunque, così come per le persone, anche per i luoghi che viviamo. Il degrado urbano non è solo intonaci scrostati, aiuole mal curate, ma anche il sistema di vita e di relazioni che le persone producono: non si può recuperare uno spazio urbanisticamente se non si recupera il sistema psicologico di chi vive nello spazio in oggetto.

Il modo in cui modifichiamo l’ambiente ci fornisce anche indizi sulla personalità e sulla psicologia di una persona o di una organizzazione. Ad esempio, i regimi totalitari tendono a costruire edifici grandiosi, dalle linee fredde e solenni, allo scopo di incutere soggezione e un senso di oppressione misto ad ammirazione. A un livello più personale, il modo in cui arrediamo le stanze in cui viviamo, il tipo di abitazione che scegliamo, sono indizi che parlano di noi e della nostra personalità. Occuparsi di psicologia ambientale è importante anche perchè le modificazioni dell’ambiente possono andare in una direzione distruttiva. Non basta disporre cassonetti di differenti colori per fare in modo che la gente effettui una raccolta differenziata. Occorre anche e soprattutto modificare gli atteggiamenti mentali, creare una coscienza ecologica, motivare le persone a modificare i propri comportamenti anche se questo implica dei sacrifici come ad esempio rinunciare a un po’di libertà individuale nel sostituire l’utilizzo dell’auto privata con mezzi pubblici o con mezzi non inquinanti come la bicicletta. Non

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mettere in atto ciò che la ricerca della psicologia ambientale ha messo in evidenza da tempo può avere conseguenze catastrofiche.

L’uomo è l’essere che più è in grado di modificare l’ambiente per adattarlo ai propri scopi e bisogni. E questo è peraltro competenza dell’architettura in quanto «Arte di costruire la città». Un’architettura che pensi lo spazio urbano. Una città pensata dagli uomini per gli uomini dove etica, estetica ed economia siano gli elementi fondanti.

La psicologia ambientale in Italia è ancora poco conosciuta, è dunque importante promuovere la ricerca e la conoscenza in questo ambito. Dalla testimonianza documentata da ricerche effettuate sulla politica urbanistica nel Nord Europa e in Giappone è ormai noto come l’ambiente psicologicamente pensato influenzi la mente e il comportamento, e c’è un crescente numero di piani urbanistici affidati ad architetti che sono affiancati da psicologi che servono la propria comunità.34 Il nostro comportamento e il nostro modo di pensare dipendono più di quanto immaginiamo dal contesto che ci circonda. Ad esempio, in un ambiente caotico e rumoroso tendiamo a camminare più velocemente, a muoverci più in fretta, a esplorare meno l’ambiente circostante, siamo meno interessati agli altri individui che ci stanno attorno, a ragionare in modo più superficiale. Al contrario, in un ambiente raccolto e silenzioso, come all’interno di una cattedrale, tendiamo a camminare più lentamente, a parlare sottovoce, a stare più in silenzio, siamo più rispettosi degli altri e manteniamo maggiori confini interpersonali. Un altro caso quotidiano è quello che avviene nelle spiagge: in spiaggia è ammesso stare seminudi, persone estranee possono stare molto vicine fra loro, fare conversazione molto più facilmente ed in modo più rilassato, la gerarchia sociale, il livello di istruzione, la professione svolta assumono una rilevanza inferiore, mentre l’aspetto fisico e altre caratteristiche superficiali divengono importanti rispetto ad altri contesti, mentre appena nella spiaggia litoranea bisogna rivestirsi e le distanze interpersonali sono decisamente maggiori.

34 Gehl Architects, con sede a Copenaghen, sono un esempio di studio di consulenza urbanistica il cui metodo di lavora si

fonda sulla base della relazione tra l’ambiente costruito e la qualità della vita delle persone. Invitano gli abitanti al dialogo e si lasciano ispirare per profilare una progettazione urbanistica incentrata sule persone. La loro visione di una progettazione strategica si basa inoltre su una visione olistica della realtà, per di più i componenti dello staff, sono professionisti in diverse discipline tra cui psicologia, sociologia, architettura, design.

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Rispetto all’esperimento di Joshua Bell alla stazione metropolitana di Boston, dove il talentuoso violinista suonò per circa quarantacinque minuti durante l’ora di punta, ottenendo scarsi sguardi sfuggenti e solo qualche spicciolo; una delle possibili conclusioni di questa esperienza potrebbe essere: se non abbiamo un momento per fermarci ed ascoltare uno dei migliori musicisti al mondo suonare la miglior musica mai scritta, quante altre cose ci stiamo perdendo? Ma una spiegazione in chiave psico-urbanistica non può non attribuire il mancato riconoscimento della bellezza musicale alla dimensione sotterranea della metropolitana, luogo non luogo di veloce passaggio, di incroci multipli. Il teatro o le chiese sono luoghi appositamente riservati all’ascolto dell’arte musicale. A seconda degli ambienti la selezione dell’attenzione cambia, considerando lo spazio costruito in base alle esigenze rinnovate di interessi consumistici o intellettuali che siano.

LA PERCEZIONE DELLA QUALITÀ AMBIENTALE

L’interesse primario di tale disciplina è rivolta allo studio della valutazione della qualità ambientale, in termini di gradevolezza estetica, di cura ed utilità. Tale studio ha rivolto l’attenzione al modo in cui le caratteristiche percepite dell’ambiente intrattengano relazioni con la soddisfazione e il benessere dei fruitori, in termini di qualità percepita. Ai fini della valutazione, predittrice degli stati psico-comportamentali, un’estesa ricerca si occupa della componente cognitiva della valutazione, ricollegandosi alla teoria degli schemi mentali, definibili come strutture cognitive caratterizzate da contenuti e processi dell’esperienza che mediano la percezione e l’elaborazione delle informazioni. A questo livello la valutazione è incentrata sui seguenti criteri di preferenza:

a) L’armonia, in quanto responsabile della facilità con cui una struttura ambientale può essere organizzata cognitivamente;b) L’interattività, intesa come proprietà dell’assetto ambientale di mantenere attiva la persona allo scopo di esplorare l’ambiente stesso;c) La comprensibilità, o chiarezza della disposizione fisica, che rende l’ambiente facilmente ed efficacemente esplorabile e comprensibile;

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d) L’interessabilità, come proprietà di richiamo a scoprire l’ambiente e ad interagire il più possibile con esso.

Di questi aspetti riguardanti la percezione e cognizione dell’ambiente bisogna essere consapevoli se si vogliono costruire progetti che risultino funzionali in termini di leggibilità e semplicità di fruizione della città. Le mappe cognitive35

costituiscono la rappresentazione mentale dello spazio e sono indispensabili per l’orientamento e la valutazione delle distanze e la pianificazione dei percorsi. Se la locazione delle strade e degli oggetti non rispecchia queste nostre tendenze, la conseguenza è che l’orientamento nello spazio risulta più problematico e difficoltoso.

All’interno degli studi riguardanti la valutazione ambientale ha assunto una notevole centralità anche la componente affettiva, sempre meglio integrata in un processo di valutazione basato su meccanismi cognitivo-affettivi. L’importanza dei luoghi come veicoli di emozioni e lo studio delle connotazioni affettive che caratterizzano l’interazione con essi ha ricevuto una naturale attenzione fin dagli esordi della psicologia ambientale. Tra gli studi che si sono occupati della dimensione affettiva vanno citati quelli che, elaborando le valutazioni di vari ambienti espresse da un gruppo di soggetti attraverso delle liste di aggettivi, hanno evidenziato un’organizzazione complessa delle emozioni. Essa risulta rappresentabile da uno spazio delimitato da due dimensioni bipolari, definite rispettivamente in termini di piacevole/spiacevole (pleasant/unpleasant) e attivante/soporifero (arousing/sleepy). Sulla base dei risultati di studi trans-culturali in diversi contesti nazionali sono emerse evidenze empiriche a sostegno dell’assunzione da parte di differenti culture degli indicatori verbali relativi alle qualità affettive dei luoghi.

35 cnf. Kevin Lynch, The image of the city, mental maps, cit.

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L’assillo quotidiano sull’orrore del mondo e dell’ uomo suona alle mie orecchie come solfa del malaugurio. Basta, mi dico.

Ringrazio chiunque mi porti una parola luminosa. So quanto sia difficile farlo senza cadere in un’Arcadia di retorica e miele ma,

mi pare, non si può fare a meno di questa nominazione del bene. Non si può più rimandare.

Teatro Valdoca, Mariangela GualtieriPaesaggio con fratello rotto

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IL CONCETTO DI LUOGO

Con lo svilupparsi della psicologia ambientale, i ricercatori si sono progressivamente allontanati dal concetto di setting nell’analizzare l’interazione tra il comportamento umano e l’ambiente, in quanto costrutto troppo incentrato su fattori sociali di tipo coercitivo, verso un olistico costrutto di luogo, maggiormente orientato alla variabilità individuale dei processi emotivi e cognitivi. Attraverso la concettualizzazione dell’ambiente in termini di luogo, viene riconosciuta la centralità degli aspetti psicologici come regolatori del rapporto tra le persone e l’ambiente socio-fisico, inteso nella sua complessità. Attraverso questo nuovo costrutto, si assiste ad una riaffermazione del ruolo attivo ed intenzionale del comportamento umano nell’ambiente. Il concetto di luogo sottolinea l’importanza degli aspetti intenzionali dell’attività individuale nel luogo, cioè gli aspetti di azione attiva, guidata da scopi, cognitivamente organizzata e mediata da processi di tipo affettivo- motivazionale. Gli aspetti intenzionali (misurabili in termini di scopi, obiettivi, aspettative, intenzioni di comportamento, etc.) costituiscono dunque il cardine stesso del comportamento umano nell’ambiente. Questa attività intenzionale si costruisce attorno alla ricerca di una integrazione tra aspetti della funzione cognitiva ed emotiva, attraverso un’analisi sul comportamento che l’essere umano assume per sua stessa natura in relazione a variabili contestuali e ambientali.

Dal punto di vista degli sviluppi disciplinari, il concetto di analisi integrata che concerne il costrutto di luogo sembra generare un ponte di congiunzione tra psicologia ambientale e psicologia sociale. In particolare tale prospettiva afferma la necessità di integrare la definizione di luogo con i più recenti risvolti della psicologia sociale orientati in senso ambientale. Lo scopo diviene quello di collocare i fenomeni psico- socio- ambientali entro una cornice interpretativa multidimensionale, che tenga conto delle variabili situazionali e contestuali proprie delle interazioni sociali.

Il concetto di luogo designa una unità dell’interazione tra uomo e ambiente. Questo approccio allo studio degli ambienti umani, ed alle percezioni che

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suscitano, si costruisce attorno all’interazione di tre componenti proprie di qualsiasi assetto ambientale- umano: le caratteristiche fisiche, le attività che le persone svolgono all’interno di esso, le rappresentazioni cognitive che caratterizzano le persone che si relazionano con l’ambiente. Non si può allora pensare pienamente il luogo se non se ne conoscono le dinamiche legate a:

a) Le attività che si pensa avvengano in un certo posto, incluse le ragioni per cui avvengono.

b) Le concezioni valutative, ossia le rappresentazioni che si possiedono relativamente al verificarsi di tali attività nel luogo, sia in termini di aspettative su di esse, sia in termini di giudizi o valori sulle stesse.

c) Le proprietà fisiche del luogo, così come esse sono rappresentate in relazione all’attività che ne caratterizza il comportamento umano al suo interno.

Le valutazioni della persona circa il luogo sono sempre correlate agli obiettivi sociali (connessi alla pratica dell’interazione sociale) e fisici (accessibilità spaziale, funzionalità delle strutture e comfort). All’interno di questa cornice di riferimento, la valutazione diventa quindi espressione del grado in cui i luoghi risultano facilitare il raggiungimento di tali obiettivi d’azione.

Trovare luogo significa anche trovare il proprio posto nel mondo, trovare pace. Sulla base delle esperienze maturate in un ambiente si strutturano dei condizionamenti per cui certi aspetti dell’ambiente vengono mentalmente messi in relazione con determinate emozioni, avvenimenti, persone. Il fatto di trascorrere dei momenti con noi stessi, come mangiare o dormire, ci porta a percepire la nostra abitazione come “casa”, un luogo in cui ci sentiamo rilassati, sicuri e nostro agio. La simbiosi con l’ambiente può essere anche di tipo negativo. Ad esempio, in un’area sporca e cosparsa di rifiuti quali cartacce, bottiglie e cicche, gettare l’ennesima cicca, psicologicamente si pensa che non possa danneggiare più di tanto un ambiente già deturpato. Le ricerche dimostrano che in luoghi curati, soggetti ad illuminazione notturna, è altamente improbabile la

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frequentazione delinquenziale, anzi costituirebbero funzione preventivante36. In tal senso per il tossicodipendente risulta impossibile uscire dalla dipendenza rimanendo nel territorio in cui ha assunto e assume la droga. Di fatto ogni qual volta si muove nel suo ambiente si riattivano i condizionamenti per cui, ad esempio, una panchina o un parco possono risultare associati al procacciamento della sostanza, o un certo luogo può essere associato al rito dell’assunzione. A ciò contribuisce la trascuratezza di certe zone urbane, suscettibili di criticità. In definitiva, dal punto di vista umano, per poter avere la dignità di luogo uno spazio deve soddisfare certe condizioni. Come esiste una psicopatologia individuale, così esiste anche una psicopatologia urbana, corrispondente ad entità di non luoghi nella nostra città37; ne sono un esempio quelle zone abbandonate al decadimento o all’isolamento e suscettibili di delinquenza, soprattutto nelle ore notturne, i mega centri commerciali fuori misura umana, e quelle enormi costruzioni edili che, fatte per strafare architettonicamente e a scopo di lucro, risultano in definitiva fuori luogo rispetto al contesto.

Gli attrezzi per gli esercizi ginnici sono disponibili pubblicamente oppure fanno parte di spazi condominiali accessibili. Ciò contribuisce a creare un senso di unione tra i passanti, aumentandone il significato della condivisione dei beni pubblici di utilità psicofisiologica messi gratuitamente a disposizione di tutti (Phnom Pehn, Cambogia).

LA CONSULENZA PSICOLOGICO-AMBIENTALE NELLA PROGETTAZIONE ARCHITETTONICA E URBANISTICA

È necessario oggi mettersi in linea con una filosofia progettuale che sia centrata sull’utente.Periodiacamente, agenzie e associazioni ambientaliste, sia pubbliche che private, pubblicano rapporti sulla “vivibilità” ( o qualità della vita) delle città, a vari livelli di scala. In Italia, ad esempio, il Censis, l’ISTAT, l’Eurispes e Legambiente pubblicano annualmente classifiche che ottengono una notevole copertura mediatica. Di 36

Jane Jacobs fu una delle prime ad approfondire questo aspetto nel suo saggio Vita e morte delle grandi città, cit.

37 Laurent Petit e il suo studio di Psicoanalisi Urbana ( ANPU) indagano specificamente sulle psicopatologie degli spazi urbani.

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conseguenza, la posizione occupata dalla propria città (sia in assoluto, sia in relazione alla posizione occupata in precedenza) rappresenta un elemento che può avere un certo peso nell’arena politica e, dunque, gli amministratori saranno inclini a prendersi il merito in caso di miglioramento della posizione o peggioramento della stessa. Tali graduatorie possono infatti influenzare le scelte decisionali in materia di urbanistica da parte degli amministratori, anche perchè termini quali “sostenibilità urbana” e “città sostenibili” sono sempre più utilizzati e dibattuti tra gli addetti ai lavori e nei media.Le classifiche in questione sono tipicamente basate sulle performance espresse su un paniere di indicatori, di natura geo- ambientale ( es. qualità dell’aria), socio- economica (es. tasso di occupazione) e socio-sanitaria (es. tasso di tossicodipendenti).L’elemento che accomuna questi indicatori è quello di riferirsi a valutazioni “ oggettive”, cioè misurabili e quantificabili in maniera univoca sulla base di criteri accettati e condivisi. Il limite di queste ultime consta nell’assenza assoluta del versante “ soggettivo”, che riflette la valutazione da parte di coloro che vivono ed esperiscono un determinato ambiente urbano. Tuttavia c’è sempre una porzione di soggettività presente nelle valutazioni oggettive, ma andrebbero integrati con i criteri proposti e condivisi dalla psicologia ambientale, disciplina che sin dalla nascita ha sottolineato l’esigenza di una progettazione basata sull’evidenza empirica in merito alla soddisfazione delle esigenze e delle aspettative dei fruitori.

COS’E’LA PSICOLOGIA AMBIENTALE

Questa, è la branca della psicologia che si propone di studiare il rapporto dell'individuo con l'ambiente fisico. La sua nascita è da collocare alla fine degli anni Sessanta, per il convergere di interessi maturati sia all'interno che all'esterno della psicologia. Tuttavia, ciò che ha dato un impulso specifico all'emergere della p.a., e soprattutto al suo rapido sviluppo, è l'interesse crescente che varie ''scienze ambientali'', quali le scienze della progettazione ambientale (architettura, urbanistica, design ambientale) e quelle dei processi ambientali (geografia, ecologia), hanno rivolto verso le scienze umane e verso la psicologia in

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particolare, per essere aiutate a meglio considerare la ''variabile umana''sempre più chiaramente connessa a ogni processo ambientale.il campo della p.a. si presenta articolato in una pluralità di filoni di ricerca, che per necessità di schematizzazione si possono raggruppare a seconda che studino:gli effetti che le diverse caratteristiche assunte dall'ambiente hanno sui possibili comportamenti degli utilizzatori di questi stessi ambienti; le modalità con cui gli aspetti individuali (di atteggiamento, personalità, esperienza ambientale) influenzano il tipo di rapporto e di comportamento che l'individuo stabilisce con aspetti specifici o generali dell'ambiente stesso.In riferimento alla prima prospettiva troviamo studi che riguardano: l'impatto dell'ambiente costruito, in particolare di quello residenziale in genere o di specifici assetti istituzionali (ospedali, scuole, musei), sui suoi utilizzatori; l'effetto di particolari condizioni ambientali possibili fonti di stress (quali il rumore, l'affollamento, il traffico, l'inquinamento atmosferico) sull'adattamento dell'individuo all'ambiente stesso. In riferimento alla seconda prospettiva, troviamo il filone che, dopo le prime ricerche di Lynch, si è ampiamente sviluppato con varia terminologia intorno al tema delle ''cognizioni ambientali''(mappe cognitive, rappresentazioni cognitive ambientali, percezione ambientale), così come gli studi circa gli atteggiamenti sociali riguardanti aspetti o problemi concernenti l'ambiente, e le ricerche riguardanti il problema del rapporto tra personalità e ambiente, nel tentativo di delineare caratteristiche modalità individuali nell'entrare in relazione con l'ambiente.

MISURARE IL BENESSERE DEI CITTADINI

Negli anni più recenti l’idea di valutare statisticamente lo stato di benessere della popolazione ha guadagnato l’attenzione di molti paesi a livello nazionale, internazionale e mondiale e tecnici a-tecnici e professionisti di diversi settori si sono adoprati a individuare un sistema per formulare delle statistiche sul benessere delle persone.

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Ma perché le città dovrebbero dunque misurare il benessere? Secondo Juliet Michaelson38, ci sono cinque motivi principali:

1. Gli indicatori di benessere catturano in modo diretto informazioni sulla vita delle personeE’ormai dimostrato che il modo in cui le persone giudicano la propria vita può essere misurato attraverso indicatori che integrano una più ampia gamma di dati. Queste misure ci danno un’informazione diretta su come procede la vita delle persone in campi che gli indicatori indiretti – come ad esempio il dato sulla spesa in prodotti e servizi - non riescono a fornire.

2. Misurare il benessere amplia il raggio di azione delle politiche, altrimenti troppo ristrettoI politici sono abituati ad essere giudicati in relazione all’andamento economico del paese perciò il loro raggio di azione è diventato estremamente circoscritto.Massimizzare la crescita del PIL non è la stessa cosa che ridurre le grandi ineguaglianze economiche. La crescita economica, infatti, non si traduce automaticamente in un miglioramento delle condizioni di lavoro né in un sistema formativo di qualità, aperto e accessibile a tutti.

3. Le persone sostengono il benessere come un obiettivo per i governi e per se stesseLe persone pensano che il benessere sia un obiettivo importante che dovrebbe essere perseguito dai governi. Un sondaggio della BBC, già nel 2006, ha rilevato che l’81% delle persone nel Regno Unito pensa che l’obiettivo primario per il governo dovrebbe essere la maggiore felicità possibile e non la maggiore ricchezza possibile. Un sondaggio simile in Francia, nel 2012, ha evidenziato che l’89% della popolazione pensa che il benessere debba rappresentare un obiettivo condiviso per il futuro. E i dati raccolti recentemente dall’oCsE rivelano che le persone giudicano la soddisfazione per la vita che conducono e lo stato di salute come le dimensioni più rilevanti dell’esistenza.

38 Direttore di ricerca, Centre for Wellbeing di nef, è direttore di ricerca e Coordinatrice di programma al

Centre for Wellbeing del nef. Coordina progetti di ricerca sulla misurazione del benessere in relazione

alle politiche amministrative, tra cui il National Accounts of Wellbeing e l’happy planet index.

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4. Misurare il benessere permette di prendere migliori decisioniLe decisioni dei governi hanno un impatto sulle nostre vite e i decisori dovrebbero avere accesso alla migliore documentazione possibile a riguardo. Le misure del benessere rendono evidenti i collegamenti tra il benessere e tutti quegli aspetti della vita che sono influenzati dalle decisioni politiche, dall’occupazione alle condizioni abitative all’inquinamento dell’aria. Una fonte governativa britannica, in occasione del lancio del programma di benessere nazionale scriveva: «la prossima volta che impostiamo una spending review facciamo in modo che gli effetti delle politiche sul benessere delle persone non siano presunti. Facciamo in modo di conoscerli».

5. Misurare il benessere delle persone è un approccio democraticoLa misurazione del benessere dei cittadini porta la voce delle persone nel cuore della politica. Gli indicatori del benessere, infatti, permettono alle persone di soppesare le dimensioni della propria vita e comporre un giudizio personale piuttosto che attenersi a quella che gli esperti governativi valutano come “una vita soddisfacente”. Concentrarsi esplicitamente sul benessere delle persone può aiutare le città a decidere come allocare le proprie risorse e migliorare, nel concreto, la vita dei cittadini.

BIBLIOGRAFIA

Bonnes, M., Secchiaroli, G., Psicologia ambientale, Carocci, Roma, 1998.Bonnes, M., Bonaiuto, M., Lee, T., Teorie in pratica per la psicologia ambientale, Raffaello Cortina, Milano, 2004. Costa, M., Psicologia ambientale ed architettonica, FrancoAngeli, Roma, 2009.Lukacs Arroyo, Intervista agaf.grosseto.itTreccani, Vocabolario della lingua italiana, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1987.

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8. Verso la progettazione urbanistica

PRELIMINARI METODOLOGICI

A partire dall’inizio degli anni Novanta si è manifestata un’attenzione crescente verso le problematiche dello sviluppo sostenibile e più in generale verso le problematiche ambientali ed ecologiche nella pianificazione urbanistica.La nuova generazione dei piani si pone nella condizione e nella necessità di dover superare la vecchia impostazione di natura prevalentemente socio-economica per prendere nella dovuta considerazione l'elemento ambientale.La sempre più diffusa attenzione ai problemi ambientali richiede un maggiore sforzo di adeguamento conoscitivo della disciplina urbanistica attraverso attività di monitoraggio e valutazione ex post dei progetti realizzati39.Emerge una nuova urbanistica che cerca di aiutare le amministrazioni locali a governare per quanto possibile modi e tempi delle trasformazioni in corso e si preoccupa anche di indirizzare queste ultime verso il perseguimento degli obiettivi di qualità urbana, di sostenibilità paesistico-ambientale e di coesione sociale, attraverso l’attivazione di politiche di intervento basate sulla

39 Giovannini P., “Il progetto urbano per lo sviluppo sostenibile”, Atti Convegno Internazionale “Dalla città diffusa alla città diramata”,

Torino, 2001.

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cooperazione tra gli attori e sulla visione partecipata dei processi di uso e trasformazione del territorio.Nel passato i piani hanno prodotto rigidità e attese, gli indici sono stati la causa dell’attenzione solo quantitativa allo sviluppo urbano e i vincoli hanno prodotto immobilismo e abusivismo. Questi strumenti sono lontani dalla comprensione diretta del cittadino, sia per la loro complessità tecnica, sia per la difficile correlazione con i livelli reali di qualità della vita40.In Italia, il D.Lgs. n° 1444/1968 ha disposto che gli strumenti urbanistici generali ed attuativi definissero i cosiddetti standard urbanistici, ossia delimitassero le aree destinate o destinabili ad attrezzature e servizi urbani, nella misura minima richiesta dal D.Lgs. o dalle successive Leggi Regionali di recepimento. Purtroppo il D.Lgs. si limita a pretendere il solo soddisfacimento quantitativo della dotazione, condizione che oggi la maturata coscienza ecologica ed ambientale della comunità giudica del tutto insufficiente. «Si può dedurre che il D.Lgs. del 1968 ha fatto fare alla pianificazione urbanistica un salto di qualità ma non è riuscito a migliorare la qualità di vita nelle città; tant'è che, pur se la maggior parte dei PRG vigenti osserva ormai scrupolosamente gli standard, la dotazione di servizi nelle nostre città permane insoddisfacente per qualità e quantità. [...] Occorre quindi superare gli angusti spazi operativi dello standard quantitativo tradizionale e considerare altri possibili aspetti (funzionali, estetici, ambientali ed ecologici) sinora trascurati. [...] Ormai, ben più dell'aspetto quantitativo, conta l'aspetto qualitativo delle scelte pianologiche, e con scelte adeguate lo standard urbanistico può diventare l'elemento fondante dell'organismo urbano, il fattore caratterizzante del progetto di PRG»41.Nel passato gli obiettivi delle Amministrazioni Locali si sono limitati al controllo delle quantità volumetriche e dell’applicazione quantitativa degli standard, senza alcuna attenzione ai problemi di contesto, di conservazione delle identità locali, e alle implicazioni che il progetto di piano poteva avere sul paesaggio urbano e ai suoi effetti sull’ambiente e soprattutto sull’uomo.Ci si trova quindi di fronte ad un rinnovato “bisogno di qualità” della configurazione spaziale dei luoghi in cui si svolgono le attività e la vita dell’uomo; una qualità che possa essere verificata attraverso meccanismi di valutazione

40 Mascarucci R., Complessità e qualità del progetto urbano, Meltemi Editore, Roma, 2005, p. 11.

41 Colombo G., “Qualità urbana, principio fondamentale per vivere meglio” ne “Il Giornale dell’Ingegnere”, 2002, n. 14/2002.

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capaci di garantire il controllo degli esiti finali in tutti quei processi decisionali che inducono modificazioni dello spazio territoriale e urbano.Allo stato attuale infatti non si prendono sufficientemente in considerazione gli esiti formali delle azioni e degli interventi sul territorio: le decisioni vengono prese sulla base di valutazioni preventive (di impatto, di fattibilità, di convenienza) che però non tengono efficacemente in conto le conseguenze che possono avere gli interventi valutati sugli abitanti.Lo scopo dei nuovi paradigmi disciplinari è l’introduzione nei processi decisionali di nuovi approcci e nuovi comportamenti che riconoscano l’importanza di specifici momenti di valutazione e controllo sugli esiti finali degli interventi.La qualità dell’ambiente urbano discende in primo luogo da uno sviluppo progettuale che sia coerente con le esigenze di carattere socio- funzionale, poste alla base dell’ideazione e del monitoraggio del processo pianificatorio.42

La formazione di un qualsiasi strumento di pianificazione richiede, in primo luogo, una conoscenza approfondita dei parametri che caratterizzano l'area; e’evidente che ogni situazione territoriale richiede un'analisi diversa, in quanto caratterizzata da situazioni particolari e puntuali e pertanto da indicatori diversi: questa semplice considerazione porta a dire che non è possibile definire l'indicatore o gli indicatori universali, ma che sia altresì indispensabile procedere all'esame dell'insieme degli indicatori riferito alla situazione ambientale e territoriale oggetto di piano, per essere in grado di fornire elementi certi ed essenziali di confronto e di incrocio dei dati, tali da consentire le scelte di piano e gli indirizzi normativi per la formazione dello strumento di pianificazione.In quest’ottica l’obiettivo della tesi è la definizione di suggerimenti e linee guida per il progetto urbanistico che consentano di derivare da una conoscenza approfondita del contesto, ottenuta tramite l’esperienza diretta e la percezione degli abitanti sull’area oggetto di trasformazione, elementi utili per la progettazione. Inoltre ricerca un metodo, attraverso l’uso di check list di indagine, orientato ad una lettura attenta delle emergenze del territorio e le priorità nell’ordine degli interventi previsti, individuate dagli stessi abitanti.Tramite supporti e procedure informatiche per la comunicazione online, orientate alla gestione della conoscenza e alla condivisione di informazioni, sono state pensate metodologie di analisi e di gestione dei dati che mirano al

42 Mascarucci R., “Complessità e qualità del progetto urbano” Maltemi Editore, Roma, 2005, pp. 11-17.

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coinvolgimento di Amministrazioni Locali, cittadini e associazioni, tutti coloro che si sentono coinvolti e vogliono intervenire a loro modo, per supportare le azioni di recupero e riqualificazione del territorio.

STRUMENTI DI INTERAZIONE GUIDATA

Gli strumenti di interazione guidata facilitano il dialogo, promuovono la collaborazione nella ricerca di soluzioni e consentono produrre risultati concreti.

Le tecniche che si possono utilizzare per facilitare l’interazione sono molte e occorre saper individuare le più adatte agli obiettivi e ai contesti in cui si interviene. È fondamentale che tutti i processi si sviluppino da una buona base di partenza, con una fase di indagine preliminare basata sull’ascolto attivo. Solo dopo aver raccolto tutti i punti di vista su un dato argomento, sarà possibile coinvolgere e mettere a frutto le competenze esistenti, dai saperi delle comunità locali alle conoscenze tecniche degli esperti. Di seguito una selezione di alcune tecniche particolarmente efficaci.

LA COMUNICAZIONE PUBBLICA

Per quanto riguarda le trasformazioni, questa si basa sull’ascolto del territorio, in modo da indagare preventivamente quali siano i soggetti locali con cui relazionarsi, per definire una strategia comunicativa appropriata, capace di dialogare con la cittadinanza comunicando i valori positivi del progetto ma al tempo stesso recependo le indicazioni che possono contribuire ad una sua migliore accettazione.Qualsiasi soggetto privato o pubblico che avvii un processo di trasformazione urbana di rilievo oggi non può fare a meno di coinvolgere il territorio circostante in un processo aperto di comunicazione e condivisione. Adottare un approccio di comunicazione “classico”, incentrato esclusivamente sulle qualità proprie

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dell’opera, espone infatti il cantiere al rischio di rallentamenti e conflitti imprevisti, anche quando propone al territorio ricadute positive.

ALCUNI METODI DI COINVOLGIMENTO DEI CITTADINI NELLA PROGETTAZIONE URBANA

Ascolto Attivo

L’ascolto “attivo” è alla base di una comprensione reciproca tra persone appartenenti a culture diverse. Ma anche nella stessa cultura, di fronte ad una situazione complessa in cui le dimensioni del problema e gli interessi sono interdipendenti, è fondamentale osservare la realtà in modo “polifonico”, vale a dire: ascoltare tutte le voci per arricchire la visione del problema e le strategie per affrontarlo.Nella progettazione partecipata l’ascolto attivo è fondamentale, perché consente di adottare uno sguardo esplorativo, che aiuta a valorizzare la ricchezza dei punti di vista di tutti coloro che abitano un territorio o che hanno un interesse in un problema. L’ascolto attivo richiede di passare da un atteggiamento passivo (io ho ragione-tu hai torto) ad un atteggiamento attivo, in cui si accetta che tutti possano avere ragione.L’ascolto attivo è la base di tutti gli strumenti di indagine partecipata, siano essi volti ad un territorio o alla comprensione di un problema. Le interviste in profondità, le interviste su base storia di vita, lo shadowing, le camminate di quartiere, e i pali d’ascolto sono gli strumenti di ascolto più utilizzati nella progettazione partecipata.

Open Space Technology

La tecnica Open Space (OST) è una modalità innovativa per l’organizzazione di incontri di partecipazione per ampi gruppi – da 100 a 500 persone – e ha l’obiettivo di rispondere collettivamente ad una domanda suscitando creatività e responsabilità nei partecipanti.

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Basato sull’idea che i momenti informali siano i più proficui in termini di creatività, l’OST ribalta gli schemi classici dei convegni e dei seminari cambiando temporaneamente le regole di comportamento. La guida della giornata è affidata ad un facilitatore centrale e i partecipanti, riuniti in un grande cerchio, sono chiamati fin dalla prima sessione a costruire insieme l’agenda dei temi di discussione, a partire da una domanda centrale. La giornata si snoda in un’alternanza di discussione per piccoli gruppi e momenti di plenaria e si conclude con la distribuzione di un instant report contenente i principali esiti del lavoro svolto.L’OST è particolarmente adatto per rafforzare le relazioni fra gli attori di un territorio o di un’organizzazione perché stimola la creazione di un clima di lavoro in cui sono fortemente valorizzate l’autorganizzazione, la capacità di essere propositivi e la capacità cooperativa dei singoli partecipanti.

Electronic Town Meeting

Il Town Meeting elettronico (ETM) è uno strumento di confronto deliberativo che permette il coinvolgimento di grandi gruppi di persone – da qualche decina a diverse centinaia – nella discussione su un tema nel corso di un’unica giornata, con persone partecipanti anche da sedi diverse e in diverse lingue.Il metodo coniuga il vivo della discussione per piccoli gruppi con l’elettronica, e permette una gestione fluida e tempestiva delle informazioni. I partecipanti, seduti in piccoli gruppi, sono aiutati a discutere da un facilitatore. Ogni tavolo ha un computer collegato in rete con gli altri, grazie al quale vengono inviati i commenti dei gruppi ad una regia centrale, che li sintetizza e li presenta all’intera sala. Inoltre, grazie alla tecnologia, è possibile esprimere le preferenze individuali, con un sistema di televoto elettronico, che permette ai partecipanti di rispondere alle domande che vengono proiettate sui maxischermi. La giornata si conclude con un instant report, contenente tutti gli esiti dei lavori e delle votazioni. Viene spesso realizzato su varie politiche regionali sanità, legge partecipazione, sicurezza, paesaggio, turismo, rifiuti, cambiamenti climatici ecc.. Nella versione integrata, il TMPlan, lo strumento è integrato con i laboratori progettuali per affrontare meglio le questioni territoriali. L’associazione Avventura Urbana ad esempio lo ha realizzato a Firenze nel 2011 per la formazione del Piano strutturale comunale.

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Laboratori Progettuali

Il laboratorio progettuale è uno strumento di progettazione partecipata che consente di elaborare, attraverso il confronto tra tecnici e cittadini, delle ipotesi di trasformazione di spazi fisici.Coinvolge solitamente un gruppo limitato di persone (non più di 20-25) selezionato in modo da rappresentare tutti i punti di vista, anche tecnici, sull’argomento in discussione. Viene svolto con l’utilizzo di materiali manipolabili e di facile comprensione, in modo che le ipotesi di modificazione di spazi urbani definiti (piazze, giardini, strade etc.) siano facilmente comprensibili e condivisibili con i partecipanti.Il laboratorio progettuale si colloca in genere nella fase conclusiva di un processo partecipativo finalizzato ad una trasformazione urbanistica complessa, ed è preceduto da una fase di ricerca sul campo e da alcuni eventi più generali di partecipazione che permettono di far emergere le criticità e le priorità di intervento ritenute dai cittadini più importanti.

Future Search Conference

La Future Search Conference (FSC) è uno strumento di visioning per coinvolgere, nella fase di impostazione iniziale di un progetto, i principali attori di un territorio nella costruzione di una visione del cambiamento.Si tratta di un incontro della durata complessiva di due giorni, possibilmente residenziale, che coinvolge un gruppo di circa 35 persone, selezionate per la loro capacità di rappresentare una pluralità di punti di vista, e finalizzato a mettere a fuoco collettivamente delle strategie di cambiamento e le modalità per realizzarle.Il gruppo lavora come “comunità indagante” e costruisce insieme lo scenario del futuro desiderabile a medio-lungo termine, a partire da alcuni elementi: il passato, il presente ossia le tendenze in atto, il futuro probabile, e il futuro desiderabile. Si conclude con una fase di action planning per identificare le azioni per realizzare lo scenario.

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Giurie dei Cittadini

La giuria dei cittadini è uno strumento di democrazia deliberativa in cui un gruppo di cittadini estratti a sorte (20-25) è chiamato, al termine di un percorso di più incontri di discussione, ad esprimere delle raccomandazioni su un dato problema di interesse collettivo.La discussione è supportata da esperti, scelti in modo da coprire tutti gli orientamenti, compresi i pro e i contro, su quel dato tema; il confronto è moderato da facilitatori in modo tale da garantire l’ascolto reciproco, il dialogo e la formulazione dei quesiti agli esperti. Tutto lo sforzo è orientato a far crescere la consapevolezza dei partecipanti verso l’argomento da trattare, sia attraverso il confronto con punti di vista diversi, sia attraverso l’acquisizione di dati e informazioni.La giuria dei cittadini, analogamente a quanto accade nella giuria di un tribunale, si conclude con un responso che non è un verdetto ma è un orientamento, non necessariamente unanime, sulle azioni da intraprendere in relazione al tema oggetto della discussione.

Dibattito Pubblico

Il dibattito pubblico è un percorso di informazione, discussione e confronto pubblico su un’opera o una decisione di interesse generale, che permette al proponente di far emergere le osservazioni critiche e le proposte sul progetto da parte di una pluralità di attori, anche singoli cittadini.Lo scopo è quello di raccogliere i diversi argomenti con i pubblici interessati e non di pervenire alla decisione su una soluzione finale. Lo strumento è nato in Francia, dove è stato istituito con la legge Barnier del 1995, per rispondere alla crescente conflittualità delle comunità locali verso le grandi opere.Sono tre le fasi fondamentali di un dibattito pubblico:

I) la presentazione pubblica del progetto, che è resa possibile da un approfondito dossier illustrativo del progetto in linguaggio non tecnico. II) discussione aperta e il più possibile estesa sui punti critici del progetto, garantendo che tutti i punti di vista siano ascoltati e che si possa ricorrere ad expertise tecniche.

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III) conclusione del processo, che avviene con la redazione da parte della commissione di una relazione finale; La diffusione dell’informazione è garantita ad un pubblico il più possibile ampio.

Facilitazione dei Processi

La facilitazione è l’attività centrale di un processo di democrazia partecipativa e corrisponde all’intervento di una figura esterna ad un gruppo, chiamata a gestire in modo efficace l’interazione fra i partecipanti e migliorando la loro comunicazione e capacità produttiva.Si ricorre alla facilitazione per aiutare il gruppo ad utilizzare le occasioni di dialogo che si presentano in un percorso partecipativo in modo che siano produttive, vale a dire evitando le frustrazioni o le perdite di tempo tipiche degli incontri non strutturati, come ad esempio le assemblee pubbliche. La facilitazione produce due principali effetti sui processi partecipativi:

a) permette di risparmiare tempo e di migliorare la qualità degli esiti prodotti.b) produce il miglioramento delle relazioni che spesso diventano più distese e collaborative.

Gli elementi chiave per facilitare l’interazione all’interno di un gruppo sono tre:

c) favorire l’ascolto attivo fra i partecipanti,d) suscitare un confronto basato su argomenti, e) attingere ad una solida base informativa.

Una buona interazione si sviluppa infatti quando la discussione si allontana da una dissertazione sui principi generali per esaminare il problema su un piano pratico e sostanziale.

Mediazione dei Conflitti

La mediazione dei conflitti (in inglese: public consensus building) è un metodo sviluppato negli Stati Uniti alla fine degli anni ’80, che può essere molto efficace

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quando si vogliono costruire scelte condivise con attori che hanno interessi divergenti o in contrasto fra loro.È un approccio particolarmente adatto per i casi che rischiano l’escalation del conflitto e offre grandi opportunità se è possibile costruire alternative rispetto all’opzione inizialmente prospettata. La potenzialità di questo approccio risiede nella sua capacità di esplorare, insieme ai principali attori interessati, tutte le possibilità per risolvere un problema, allo scopo di pervenire ad un accordo.

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9.L’aspetto partecipativo nella riqualificazione urbana

NUOVE VISIONI E SOLUZIONI PER IL GOVERNO DEL TERRITORIO

Al di là dei nomi che vengono attribuiti ai programmi complessi, figli della cultura urbanistica degli anni Novanta, possiamo provare a elencarne i principali caratteri distintivi, rintracciandoli nell’apparato normativo e regolamentare che ne costituisce il contesto istituzionale:

- l’azione prevalente sulla città consolidata e quindi il primato del recupero;- l’attenzione alla qualità del progetto;- la presenza di funzioni differenti;- l’integrazione di azioni di riqualificazione che investono la dimensione sociale, culturale e ambientale dell’ambito individuato;- la partecipazione di risorse private alla realizzazione degli interventi.

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Omettendo volutamente valutazioni sull’efficacia dei programmi complessi, su quanto questi siano stati congruenti alle dichiarazioni di principio contenute nei testi normativi e nei bandi, su quante iniziative private, sorte sulla scorta dei finanziamenti pubblici connessi all’attuazione dei programmi, abbiano superato con successo la fase di startup. Sostanzialmente il problema a cui questi ultimi cercano di dare soluzione è il fallimento delle politiche tradizionali di governo del territorio; come possibilità di innalzare la qualità della vita degli abitanti e di mantenere inalterato il capitale di beni comuni di cui disponiamo.Le soluzioni che possiamo rintracciare nelle pieghe delle norme, negli obiettivi dei programmi di incentivi e finanziamenti sono riconducibili ad alcune parole chiavi: integrazione, sostenibilità, partecipazione nelle scelte.Nel mio percorso vorrei focalizzare l’attenzione su uno dei specifici punti forza di questi programmi di riqualificazione urbana, l’aspetto partecipativo.

PARTECIPAZIONE REALE E RETORICHE DELLA PARTECIPAZIONE

Una delle innovazioni più importanti, forse uno dei principali punti di discontinuità con la pratica urbanistica tradzionale, è proprio l’inserimento, nella formazione e gestione dei programmi di riqualificazione, della voce dei destinatari dell’azione. Anche se l’introduzione del principio di condivisione degli obbiettivi è stato determinato in parte dagli obblighi derivanti dalle regole di ammissibilità ai finanziamenti comunitari, oltre che dalla sensibilità di alcuni responsabili delle politiche, è comunque servito a comprendere quanta distanza tra decisori e destinatari dell’azione si fosse accumulata in anni di politiche governate esclusivamente dal principio di efficienza. Il linguaggio istituzionale non era più comprensibile dai cittadini.L’introduzione nella formazione e nell’attuazione di programmi complessi della voce dei destinatari dell’azione, in un contesto come quello italiano poco avezzo alla gestione democratica della pianificazione territoriale, è stata determinata anche dalla necessità di superare conflitti sociali non altrimenti governabili e di evitare che i costi di realizzazione di intervento poco condivisi crescessero fino a diventare insostenibili, sia per il dilatarsi dei tempi di conclusione dei procedimenti, sia per l’aggravio dovuto alle spese legali per ricorsi e contenziosi.

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Anche in questo caso le ragioni del conflitto sono da rintracciare nella lontananza esistente, sia nel linguaggio che nell’impostazione concettuale, tra istituzioni e comunità rappresentata.

Una politica pubblica, in questo caso di riqualificazione urbana, si può dire efficace, quando riesce ad ottenere risultati adeguati agli obbiettivi che si è prefissata, partendo però da una costruzione condivisa degli stessi. La partecipazione offre vantaggi riconoscibili nel percorso di condivisione e nell’adeguamento degli esiti del processo alle ipotesi iniziali.«il processo di partecipazione rappresenta un potente strumento di monitoraggio in quanto stabilisce un canale di comunicazione tra chi attua la trasformazione e chi ne subisce gli effetti. Attraverso questo collegamento l’amministratore può cogliere i segnali di conflitto, di inefficacia e reindirizzare la sua azione».43

La partecipazione diventa quindi lo strumento per la mediazione, offre parole riconoscibili alla relazione tra istituzione e comunità rappresentata. Importante è evitare che questa occasione diventi il fine e non il mezzo, quindi che non si concluda in sè.Bisognerebbe perciò che l’informazione, il controllo e il supporto al programma divenga stabile.

TRA FINE DELLA CITTÀ E CREATIVITÀ DIFFUSA

La vasta letteratura sulla crisi e sulla fine della città ha analizzato a fondo i processi che investono i centri urbani e le metropoli contemporanee di molte parti del mondo, mostrando i tanti volti dolenti e le diverse letture apocalittiche che si intrecciano. C’è tuttavia la crescente presa d’atto che i contesti urbani siano spazi opportuni per svariate transizioni identitarie e per il risveglio di una creatività che spesso si insinua proprio tra le ferite e gli abbandoni dei territori. Gli abitanti, per conto proprio, si stanno prendendo una rivincita come spesso accade sulle dimensioni rimosse.

43 Ecosfera, USPEL-Comune di Roma. Le ragioni della partecipazione nei processi di trasformazione urbana. I costi

dell’esclusione di alcuni attori locali,2001,p.68

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Si assiste oggi a una moltitudine di sperimentazioni legate alla riappropriazione degli spazi urbani con diverse declinazioni. Spazi e luoghi significativi per la città che sono stati occupati, re-inventati, in forza del dissenso e convertiti nuovamente in spazi pubblici. Mettendo al centro idee diverse come il bene comune, l’importanza della sostenibilità del vivere in città e la consapevolezza del limite delle risorse del pianeta, il principio di giustizia sociale, la critica ai processi di globalizzazione selvaggia, la necessità di rendere accessibili a tutti gli spazi dell’abitare, molti soggetti stanno agendo un’autorialità che riscrive il testo sociale.

I processi di globalizzazione e le crisi economiche ad essi legate stanno spingendo sempre più luoghi verso l’abbandono e l’oblio. Un contagioso rifiuto a non affrontare i problemi relativi a queste zone considerate ingestibili, quindi difficilmente recuperabili, sta provocando una trasformazione del paesaggio urbano, costellandolo di strutture che invece di proporre scambi culturali, generare reddito, offrire servizi, restano malinconicamente chiuse e inutilizzate. Per fortuna in questo clima di sfacelo perpetuo, gruppi di cittadini, studenti, lavoratrici e lavoratori dell’arte e dello spettacolo specialmente ma non solo, si attivano sempre di più nella riappropriazione degli spazi pubblici e talvolta privati inutilizzati, per sperimentare forme condivise sotto forma laboratoriale, di arte, di spettacolo e più in generale di attività culturali, da rendere disponibili a tutta la città.

Anche attorno alle idee di sostenibilità del vivere e del limite delle risorse, hanno preso piede svariate iniziative (a Napoli per esempio sono sorti collettivi come Clean Up, Friarielli Ribelli, Ciclofficina Massimo Troisi e molti altri).

I soggetti coinvolti in queste tattiche del quotidiano sono quelli che nel disfacimento e perdita d’identità della città, cercano di ricomporla, la città svuotata e ferita si guarisce riabitando e ripopolando, assieme agli spazi, il senso di appartenenza e di partecipazione per re-inventare la città e la qualità del vivere e dell’abitare.

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VANTAGGI DELLA PROGETTAZIONE PARTECIPATA

Una progettazione basata sul principio di partecipazione, di collettività, produce dei vantaggi in termini sia economici che pratici ed emotivi; contribuisce a creare un circolo virtuoso che invoglia le persone ad investire nel proprio luogo di appartenenza e a non doverlo abbandonare. Soldi, tempo e capacità personali vengono investiti nella propria città, dunque le persone non devono necessariamente lasciare la terra natìa per realizzare le proprie aspirazioni. Condizioni in cui versano la maggior parte delle persone oggigiorno.

Con “partecipata” si intende un tipo di progettazione che tiene conto di un programma condiviso, volto alla trasformazione del territorio, costruito con quelli che saranno gli utenti, i fruitori, i consumatori dell’oggetto o del programma medesimo. I potenziali vantaggi che si potrebbero generare con un atteggiamento aperto alle forme di coinvolgimento e partecipazione da parte dei gestori del territorio sono:

a) la possibilità di anticipare i conflitti, disinnescando le potenziali opposizioni attraverso il coinvolgimento nelle decisioni

b) la possibile emersione di elementi migliorativi di piani e progetti già nel corso delle fasi preliminari del processo decisionale.

c) l’occasione di innescare un cambiamento sano perchè non imposto autoritariamente

Inoltre facilitano:

d) l’emergere dei reali bisogni dei cittadini (inclusi quelli delle fasce più deboli) e) l’avvicinamento e la fiducia reciproca tra istituzioni pubbliche e cittadini

Da notare: alcune amministrazioni si presentano al confronto pubblico dopo che si sono chiarite le idee ed hanno raggiunto qualche conclusione sufficientemente solida. L’apertura del processo decisionale inclusivo invece dovrebbe avvenire ad uno stadio precoce del percorso progettuale, quando le alternative sono ancora possibili da attuare.

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LO STATO DI INVESTIMENTO SOCIALE

Se nell’età industriale la convinzione imperante era che “di più è meglio” e che il progresso andava principalmente definito in relazione alla crescita del PIL, oggi ci interessa sempre di più una concezione non materialistica di benessere in cui la definizione stessa di progresso tiene conto dello stato di salute del pianeta e dei suoi abitanti, ci abilita ad auto-realizzarci, incoraggia il potere locale e promuove una responsabilità sociale condivisa.

«I governi hanno bisogno di diventare più permeabili, aprendo le porte ai loro cittadini, precedentemente esclusi da sistemi politici chiusi».

Sophia Parker, nel suo influente saggio «Porous Government: Co-design as a Route to Innovation” (Governo permeabile: il design collaborativo come via per l’innovazione), presenta l’idea di uno “stato di investimento sociale” parlandone come di “un’opportunità per immaginare una realtà in cui l’amministrazione consideri le esperienze e le vite delle persone come luoghi potenziali di apprendimento e di innovazione».

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10. Considerazioni finali

La valutazione delle attuali potenzialità del patrimonio urbanistico ed edilizio della città consolidata, va accostata alla necessità di prendersi cura e proteggere il passato, incluso quello “umano”, conservato nella memoria popolare e nei miti. Per fare ciò, in un contesto di riqualificazione e recupero del territorio, assume un ruolo importante, nella ricerca disciplinare delle politiche di gestione territoriale, l’in-dividuazione di strumenti attuativi idonei e rispettosi di una serie di parametri. Per dare un giudizio di qualità della vita in una città, non basta parlare di innovazione, efficienza ed efficacia degli strumenti urbanistici, come spesso si sente dire attualmente, e neppure focalizzarsi sulla sperimentazione di nuove tecniche di valutazione con raffinati indicatori di sostenibilità ambientale; bisogna piuttosto, soffermarsi sui caratteri degli spazi pubblici urbani e del tessuto sociale che plasma i luoghi e li rende reali. Ogni intervento, che si ponga come obiettivo quello di migliorare la qualità urbana, deve cercare di dare risposte che non facciano riferimento ad archetipi tradizionali ma individuino nuovi criteri operativi per il perseguimento degli obiettivi di riqualificazione, a partire dalle persone.

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Non bisogna dimenticare che la città o un suo quartiere sono spazi architettonici in cui vivono delle persone. Le persone, se non vivono in uno spazio adeguato ai loro bisogni, alle loro necessità basilari, primarie, sono stressate, infelici, psicopatologicamente segnate. Oggi molte politiche di sviluppo urbano stanno puntando sul miglioramento del livello generale della qualità, che è direttamente influenzato dalla qualità dell’ambiente urbano. Nel contesto di tali politiche di sviluppo “sostenibile”, il miglioramento della qualità urbana risulta senza dubbio di importanza strategica.La trasformazione di una via, la creazione o la riprogettazione degli spazi pubblici, la creazione di zone verdi, influenzano significativamente la qualità urbana delle città. Qualità che investe aspetti che riguardano competenze pluridisciplinari, ed è oggi ampiamente riconosciuta come aspetto chiave per ogni città economicamente competitiva.La gestione incontrollata e inorganica dei programmi di riqualificazione della città è conseguenza non solo della speculazione, ma anche della palese astrattezza che la disciplina manifesta nel rispondere alle esigenze e alle aspettative degli abitanti. I cittadini fruitori, estranei alla formulazione degli obiettivi e dei programmi, esclusi dalla redazione e dall’attuazione dei progetti, totalmente privati del senso di appartenenza al territorio in cui vivono, sono stati forzatamente portati alla indifferenza rispetto alla gestione del proprio ambito urbano e si rivelano incapaci di reclamare efficaci strumenti decisionali per incidere sui processi di trasformazione. Ciò è causa di degrado: degrado fisico perché interessa le strutture e le infrastrutture, gli spazi urbani e il patrimonio edilizio e architettonico; degrado ambientale perché in relazione con risorse naturali in progressivo deterioramento; strutturale perché connesso all’uso dell’organismo urbano dominato da congestioni alternate a vuoti delle sue diverse parti, e soprattutto degrado sociale per la crescita di luoghi senza qualità e insediamenti che producono emarginazione.Si arriva a questi livelli di degrado in un modo molto semplice, e tra l’altro, scientificamente provato. Nel 1992 sono stati scoperti infatti i neuroni a specchio; a seconda di quello che vediamo e viviamo essi producono pensieri adeguati allo stimolo, cioè vivendo ad esempio in un contesto degradato si producono pensieri di degrado. La nostra predisposizione neurologica ci rende in grado di provare

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empatia, dunque, così come per le persone, anche per i luoghi che viviamo. Inoltre il progressivo affievolirsi del senso di appartenenza ad un intorno, il non riconoscersi in ciò che è al di fuori dello spazio privato, comporta una totale abdicazione delle singole e comuni responsabilità.Allo stato attuale ciò che si può auspicare è la nascita di una nuova coscienza nei confronti degli spazi comuni, delle attrezzature di uso pubblico, degli insiemi residenziali, del patrimonio storico, ambientale e culturale, ossia, in definitiva, di tutti i fattori costitutivi della città e delle sue parti, che sono da valorizzare, da acquisire, da tutelare, da conservare, da riqualificare. Solo in tal modo può nascere una nuova coscienza che non distingua più tra beni personali e beni altrui e che favorisca la riappropriazione dell’insieme da parte di ciascuno.La rigidità dell’approccio tradizionale alla pianificazione è riconducibile alla pretesa di far dettare con certezza assoluta le linee di sviluppo e le decisioni dal planner piuttosto che dalla comunità insediata.Vanno prese come modello le esperienze più recenti di progettazione e di programmazione complessa, condotte in ambito nazionale e internazionale, che stanno rivolgendo una maggiore attenzione alle procedure e agli attori coinvolti nella trasformazione e nella riqualificazione dello spazio della città e del territorio, puntando sempre di più sull’affiancamento dei saperi esperti ai saperi comuni dei soggetti destinatari dell’intervento.La qualità non è un puro attributo del sistema urbano, valutabile in maniera oggettiva e univoca, ma è dotata anche di una componente soggettiva, in quanto la sua determinazione avviene a partire dalla percezione che i cittadini e gli amministratori locali hanno della città in cui vivono e operano.Da un diretto coinvolgimento non può che derivare un senso di proprietà e da ciò consegue che i singoli cittadini si ritrovino responsabilmente e attivamente inseriti nella collettività, e la città sia una partecipata espressione sociale e urbanistica.Perché questo accada è necessario che le politiche di piano adottino opportuni strumenti di sensibilizzazione e comunicazione, per trasferirla a tutti in termini di consapevolezza; occorre individuare sedi e modalità appropriate per il confronto utile a prefigurare una società che assuma coscienza del collettivo, e occorre ipotizzare un progetto che sia in grado di riformulare lo spazio che sia uno spazio di tutti, con un nuovo, meno elitario e più condiviso, approccio ai problemi.

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INHABITANTEXPERIENCE - BASEDURBAN PLANNINGCittà a misura umana

La conoscenza conduce alla consapevolezza e alla presa di coscienza;

conduce al miglioramento della qualità del pensiero e con esso al

miglioramento della qualità di partecipazione e della qualità delle scelte

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Grazie infinite a mamma, papà, Rudy e Lory per avermi insegnato ciò che sono, per avermi fatto crescere tra i sogniper essere fonte sconfinata di amore e protezione.

A tutta la mia famiglia per le loro continue manifestazioni di affetto e sostegno.

A Gabriele per essermi vicino, per ispirarmi e stimolarmi nella scoperta di nuovi mondi.

A tutti i mei amici.