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a cura di Filippo Quitadamo Didattica per competenze per cittadini di una società complessa Insegnare, apprendere, valutare per competenze: una triplice rivoluzione “Si tratta di accertare non ciò che lo studente sa, ma ciò che sa fare con ciò che sa.” (Wiggins, 1993). Per inserire in modo efficace bambini e giovani nella dimensione collettiva, per prepararli alla vita adulta, all’esercizio della cittadinanza attiva e responsabile, per far sì che essi possano scegliere e disegnare il proprio futuro, occorre modificare e ripensare i dispositivi scolastici usati finora. La scuola deve accettare le sfide della didattica per competenze, per essere in grado di costruire un ponte con il contesto sociale e contribuire a dotare i giovani di una cassetta degli attrezzi ben piena e ben fatta, dove pescare le giuste soluzioni ai problemi posti dal contesto di vita e garantire l’appropriazione di un apparato strumentale che consenta loro di gestire la propria vita, di relazionarsi con gli altri, di esercitare un controllo sulla dimensione soggettiva e collettiva del loro futuro. Il sistema di istruzione è gestito e abitato da una serie di attori, tra cui i principali sono alunni e insegnanti. I primi sono i “clienti” del sistema, coloro in ragione dei quali il sistema esiste, i secondi ne sono gli operatori principali, coloro cioè che garantiscono che il servizio venga erogato. Storicamente, il sistema di istruzione ha optato per un modello di organizzazione del processo di insegnamento-apprendimento molto semplice, basato sulla centralità dell’insegnamento (centered teaching), sulla didattica trasmissiva (scuola della conoscenza): sono stati definiti elenchi di contenuti (suddivisi in discipline) ritenuti necessari per la condivisione di una “cultura”, si sono scelti, attraverso verifiche mirate a testare la loro preparazione (centrata sulla conoscenza dei contenuti medesimi), degli specialisti di quei contenuti e si è chiesto loro di “spiegarli” a insiemi organizzati di alunni suddivisi in gruppi omogenei per età. Agli alunni si è chiesto di studiare e imparare quegli stessi contenuti e di “ripeterli” agli stessi docenti che li avevano loro spiegati i quali, a loro volta, avrebbero poi assegnato loro delle valutazioni. Un sistema siffatto ha una logica e una ragione di essere in una società stabile e prevedibile, in cui i valori e le conoscenze chiave, le modalità di comunicazione e relazione, le richieste del mondo del lavoro rimangano pressoché immutate per lunghi periodi, il principio di autorità sia riconosciuto come valore, in cui, infine, si ritenga possibile trasmettere una cultura. Oggi, ai sistemi di istruzione è richiesto di modificare il proprio impianto e le proprie modalità, rimanendo immutato il loro obiettivo: consentire alle persone e alle comunità di vivere insieme in un sistema fondato su reciproci diritti e doveri condivisi e dei quali ciascuno sia responsabile. In questi stessi decenni è emerso con forza il concetto di “competenza” come potenziale chiave risolutiva dei necessari cambiamenti. La principale virtù delle competenze consiste nel permettere di porre al centro del processo di apprendimento, la persona, il soggetto che apprende (centered learning). Nel modello tradizionale di istruzione (trasmissivo) i contenuti o “il programma” erano al centro del processo di apprendimento. È ora di voltare pagina. Come sostiene Perrenoud, con lieve ironia, la prima delle competenze oggi necessaria nei sistemi di istruzione riguarda gli insegnanti ed è quella di «organizzare ed animare situazioni d’apprendimento». Scrive il noto studioso: Non è forse questa competenza al centro del mestiere stesso dell’insegnante? […] L’idea stessa di situazione d’apprendimento non presenta alcun interesse per quelli che pensano che si va a scuola per

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� a cura di Filippo Quitadamo

Didattica per competenze per cittadini di una società complessa

Insegnare, apprendere, valutare per competenze: una triplice rivoluzione

“Si tratta di accertare non ciò che lo studente sa, ma ciò che sa fare con ciò che sa.” (Wiggins, 1993). Per inserire in modo efficace bambini e giovani nella dimensione collettiva, per prepararli alla vita adulta, all’esercizio della cittadinanza attiva e responsabile, per far sì che essi possano scegliere e disegnare il proprio futuro, occorre modificare e ripensare i dispositivi scolastici usati finora. La scuola deve accettare le sfide della didattica per competenze, per essere in grado di costruire un ponte con il contesto sociale e contribuire a dotare i giovani di una cassetta degli attrezzi ben piena

e ben fatta, dove pescare le giuste soluzioni ai problemi posti dal contesto di vita e garantire l’appropriazione di un apparato strumentale che consenta loro di gestire la propria vita, di relazionarsi con gli altri, di esercitare un controllo sulla dimensione soggettiva e collettiva del loro futuro. Il sistema di istruzione è gestito e abitato da una serie di attori, tra cui i principali sono alunni e insegnanti. I primi sono i “clienti” del sistema, coloro in ragione dei quali il sistema esiste, i secondi ne sono gli operatori principali, coloro cioè che garantiscono che il servizio venga erogato. Storicamente, il sistema di istruzione ha optato per un modello di organizzazione del processo di insegnamento-apprendimento molto semplice, basato sulla centralità dell’insegnamento (centered teaching), sulla didattica trasmissiva (scuola della conoscenza): sono stati definiti elenchi di contenuti (suddivisi in discipline) ritenuti necessari per la condivisione di una “cultura”, si sono scelti, attraverso verifiche mirate a testare la loro preparazione (centrata sulla conoscenza dei contenuti medesimi), degli specialisti di quei contenuti e si è chiesto loro di “spiegarli” a insiemi organizzati di alunni suddivisi in gruppi omogenei per età. Agli alunni si è chiesto di studiare e imparare quegli stessi contenuti e di “ripeterli” agli stessi docenti che li avevano loro spiegati i quali, a loro volta, avrebbero poi assegnato loro delle valutazioni. Un sistema siffatto ha una logica e una ragione di essere in una società stabile e prevedibile, in cui i valori e le conoscenze chiave, le modalità di comunicazione e relazione, le richieste del mondo del lavoro rimangano pressoché immutate per lunghi periodi, il principio di autorità sia riconosciuto come valore, in cui, infine, si ritenga possibile trasmettere una cultura. Oggi, ai sistemi di istruzione è richiesto di modificare il proprio impianto e le proprie modalità, rimanendo immutato il loro obiettivo: consentire alle persone e alle comunità di vivere insieme in un sistema fondato su reciproci diritti e doveri condivisi e dei quali ciascuno sia responsabile. In questi stessi decenni è emerso con forza il concetto di “competenza” come potenziale chiave risolutiva dei necessari cambiamenti. La principale virtù delle competenze consiste nel permettere di porre al centro del processo di apprendimento, la persona, il soggetto che apprende (centered learning). Nel modello tradizionale di istruzione (trasmissivo) i contenuti o “il programma” erano al centro del processo di apprendimento. È ora di voltare pagina. Come sostiene Perrenoud, con lieve ironia, la prima delle competenze oggi necessaria nei sistemi di istruzione riguarda gli insegnanti ed è quella di «organizzare ed animare situazioni d’apprendimento». Scrive il noto studioso: Non è forse questa competenza al centro del mestiere stesso dell’insegnante? […] L’idea stessa di situazione d’apprendimento non presenta alcun interesse per quelli che pensano che si va a scuola per

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imparare e che tutte le situazioni si presume che servano a questo scopo. […] Questa insistenza può addirittura sembrare pedante, come se si insistesse nel dire che un medico concepisce ed anima

situazioni terapeutiche, piuttosto che riconoscere semplicemente che cura i suoi pazienti, come il maestro istruisce i suoi alunni. Ad eccezione di quelli che hanno familiarità con le pedagogie attive ed i lavori nella didattica delle discipline, gli insegnanti di oggi non si riconoscono spontaneamente come ideatori-animatori di situazioni d’apprendimento. Le dieci competenze che Perrenoud individua come strategiche per gli insegnanti sono: organizzare e

animare situazioni di apprendimento, gestire la progressione degli apprendimenti, ideare e fare evolvere

dispositivi di differenziazione, coinvolgere gli alunni nel loro apprendimento e nel loro lavoro, lavorare in

gruppo, partecipare alla gestione della scuola, informare e coinvolgere i genitori, servirsi delle nuove

tecnologie, affrontare i doveri e i dilemmi etici della professione, gestire la propria formazione continua.

Uno dei temi di questa introduzione all’insegnamento per competenze sarà, allora, la rivisitazione esplicita del ruolo di insegnante e delle nuove competenze (meta-competenze) che gli necessitano. L’insegnamento non è un automatismo: non si entra in una classe, si spiegano i contenuti sacri e immutabili del “programma” e, pertanto, si è insegnato. Per lungo tempo l’azione di insegnare, l’azione di apprendere e l’azione del valutare sono state concepite come momenti separati e distinti. La prima azione, di esclusiva responsabilità dell’insegnante, consiste nel veicolare dei contenuti (responsabilità che si esaurisce nell’aver spiegato attraverso la lezione frontale); la seconda, di esclusiva responsabilità degli alunni, consiste nell’ascoltare, prendere appunti, studiare, ripetere. Il terzo momento è quello valutativo attraverso la verifica: l’alunno ripete (o completa una verifica scritta), l’insegnante soppesa il grado di preparazione (in poche parole, misura il grado di identità tra quanto ha spiegato e quanto gli viene ripetuto) e assegna una valutazione (valutazione dell’apprendimento). Emerge spesso il concetto di cittadinanza che fa leva sulla duplice dimensione del soggetto in quanto portatore di diritti e possibilità individuali (che gli debbono essere garantiti) e in quanto inserito in una rete di relazioni, di responsabilità, di visioni e di doveri sociali (dei quali deve rispondere). La scuola, la formazione, l’orientamento sono i dispositivi che, assieme all’educazione della famiglia, esercitano l’influenza maggiore rispetto ai processi di inclusione e di preparazione all’essere cittadini responsabili: sicuramente, la responsabilità maggiore spetta alla scuola, al sistema di istruzione. Ma, occorre modificarlo. Le modificazioni necessarie riguardano: il piano delle finalità complessive, dei contenuti e dei curricoli, il piano delle pratiche e delle didattiche, il piano dell’organizzazione e della logistica, il piano della valutazione, il piano dei termini e dei linguaggi, il piano dei mediatori e degli strumenti didattici, il piano dei diritti e dei doveri, il piano delle competenze di chi presiede a questi processi e il piano delle competenze intese come output di reale apprendimento. Le competenze di base e le competenze di cittadinanza possono costituire una risposta, se ben utilizzate, agli interrogativi posti dalla necessità di tutte queste modificazioni; le competenze sono, quindi, devono essere trattate in questa prospettiva, non come una “moda” didattica passeggera, che si aggiunge alle tante emerse negli ultimi cinquanta anni di sistema di istruzione italiano, bensì come una sorta di rovesciamento del sistema di istruzione stesso, in cui il recupero della centralità dei soggetti in apprendimento e dell’apprendimento è fattore primario. La scuola, infatti, è a servizio delle persone che apprendono e deve essere intesa in chiave di empowerment, come un lungo processo teso soprattutto a incrementare il potere e il controllo (e la percezione degli stessi) di un soggetto sulla propria vita, sulle proprie scelte, sul proprio futuro, con gli altri, in una comunità di apprendimento.

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Pertanto, valutando gli esiti del sistema d’istruzione bisogna intervenire sui processi per innovarli e renderli più efficaci: occorre cambiare un sistema per alimentare e valorizzare la partecipazione e il coinvolgimento attivo grazie all’introduzione in esso di un modello di apprendimento/insegnamento per competenze. Dal “bagaglio culturale” alle competenze

- Da una testa ben piena a una testa ben fatta

Il concetto di “bagaglio culturale” era latore di un significato preciso. Proviamo ad accogliere pienamente la metafora: nel viaggio della vita un bagaglio particolarmente grande e provvisto di molti contenuti culturali era ritenuto un’attrezzatura indispensabile, che avrebbe permesso a ciascun soggetto di affrontare qualsiasi situazione, attingendo al bagaglio stesso secondo le necessità della vita. Restando nella metafora, un soggetto con un bagaglio pesante, più ampio e voluminoso, sarebbe stato favorito rispetto a un altro con un bagaglio leggero e di modeste dimensioni, in quanto maggiormente preparato ad affrontare i differenti “climi” e le diverse “situazioni” di vita. La metafora funziona in una società stabile, nella quale le “fermate” di quel “viaggio” siano definite, i mutamenti sostanziali, nella vita di un soggetto, si contino sulle dita di una mano, i “mezzi di trasporto” utilizzati relativamente pochi e rendano tutto sommato semplice portare con sé un bagaglio voluminoso, di cui sia possibile prevedere il contenuto. La metafora rovescia il proprio significato qualora le “stazioni” del “viaggio” siano molte, molti i “mezzi di trasporto”, molte le differenze climatiche, molte le modificazioni e i cambiamenti, peraltro, imprevedibili. Affrontare un viaggio pieno di soste, ripartenze, con spostamenti continui, utilizzando, ogni volta, molteplici mezzi di trasporto, portando con sé un bagaglio pesante è faticoso. La condizione migliore per viaggiare è quella di partire con un bagaglio leggero e intelligente, che contenga l’essenziale, cercando poi ciò che serve a ogni fermata, a ogni tappa. Un bagaglio pesante impedisce di navigare nel cambiamento. La continua evoluzione dei saperi richiede, infatti, oggi, il possesso delle competenze essenziali, quelle di base e quelle trasversali e le life skills, che costituiscono il bagaglio leggero al quale ciascuno può, di volta in volta, agganciare le conoscenze e le competenze che gli sono utili per quel tratto di strada. I sistemi di istruzione e di formazione devono essere orientati al futuro, per preparare all’inserimento in una comunità, in una dimensione collettiva e di cittadinanza. Essendo cambiate le condizioni esterne in cui i giovani dovranno inserirsi e il futuro a cui dovranno prepararsi, bisogna modificare anche gli obiettivi di apprendimento e le modalità con cui vengono perseguiti. Le convinzioni che molti ragazzi e ragazze esprimono circa la bassa o assente significatività della propria esperienza di istruzione e la scarsa fiducia che essi nutrono su quanto questa esperienza possa loro essere utile per costruire il proprio futuro sono fondate sul fatto che gli apprendimenti e le esperienze scolastiche sono distanti nei linguaggi, nei contenuti, nella modalità dall’esperienza quotidiana, per cui essi non riescono a percepirne il collegamento con la loro vita, a trarne materiali e strumenti per attribuire senso e significato alla propria esperienza. Oggi, in alcuni campi e a diversi livelli, gli allievi possono essere portatori di un numero di conoscenze e competenze pari o maggiore di quello di alcuni tra i loro insegnanti (o almeno avere maggiore facilità di apprendimento rispetto ad alcune competenze). Le nuove tecnologie non sono l’esempio semplice, sono piuttosto l’esempio strategico, perché quelle conoscenze e competenze sono tra quelle maggiormente utili per il futuro.

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Proviamo a pensare a che cosa sarebbe accaduto se cento anni fa avessimo detto che gli allievi erano superiori ai loro insegnanti nello scrivere correttamente e nel far di conto? Eppure, abbiamo tutti piena coscienza di che cosa significhi digital divide e di come la civiltà digitale intenda per “alfabetizzazione” qualcosa di molto differente dai vecchi concetti di alfabetismo/analfabetismo. L’autorevolezza di un’insegnante non risiede più, oggi, nella conoscenza, pur enciclopedica, della propria disciplina, ma nella capacità che ha, attraverso la propria disciplina, di fornire strumenti e materiali utili alla vita quotidiana e futura dei ragazzi, a incidervi, a far sì che gli apprendimenti che conquistano i propri allievi siano loro utili per diventare maggiormente in grado di scegliere, di controllare attivamente la propria vita e nel renderli consapevoli di ciò che stanno apprendendo. Ancorando gli apprendimenti alla vita quotidiana e ai progetti di vita dei soggetti che dovrebbero essere i protagonisti dei sistemi di istruzione e formazione, potremmo riuscire nel difficile compito di riattribuire ai percorsi di istruzione e formazione significatività e autorevolezza piene, a ridare alla scuola la centralità che merita. Le competenze appaiono, oggi, come il costrutto in grado di favorire questi cambiamenti. Lifelong learning e competenze: storia di due concetti incrociati Il termine lifelong learning si riferisce alla dimensione verticale dell’apprendimento, nella misura in cui esso riguarda la durata dell’intera vita. Il concetto di lifelong learning rappresenta il superamento di una dimensione temporale definita. apprendere continuamente e usare quanto appreso come risorsa è una delle caratteristiche distintive del genere umano, comprendere appieno il concetto di lifelong learning significa aderire a questa prospettiva, nonché credere in questa visione antropologica. Tuttavia, oggi occorre parlare anche di lifewide learning, espressione che si riferisce alla dimensione orizzontale, coinvolge tutti gli ambiti della vita e rappresenta il superamento dei luoghi

deputati all’apprendimento (tradizionalmente, scuola e università, in misura minore, nella percezione sociale, la formazione professionale) e la valorizzazione di ogni esperienza del soggetto in quanto fonte di saperi e competenze e stimolo all’utilizzo di queste ultime (apprendimento formale, non formale, informale). L’espressione completa diventa allora lifelong lifewide learning, con cui i tempi e gli spazi dell’apprendimento si allargano sino a comprendere ogni ambito di vita e ogni momento dell’esistenza del soggetto. In questo contesto diventa fondamentale riuscire a far comprendere come sia cambiata la concezione dell’apprendimento non ai professionisti del sapere, ma alle persone, affinché queste possano riconoscere nei vari aspetti della propria vita le occasioni che favoriscono un tale sapere e ne possano approfittare, poiché dotate di una maggiore consapevolezza.

• apprendimento formale: si tratta di quell’apprendimento che avviene in un contesto organizzato e strutturato (in un’istituzione scolastica/formativa), è esplicitamente pensato e progettato come apprendimento e conduce a una qualche forma di diploma o certificazione

• apprendimento non formale: è l’apprendimento connesso ad attività pianificate, ma non

esplicitamente progettate come apprendimento (quello che non è erogato da una istituzione formativa e non sfocia normalmente in una certificazione, ad esempio una giornata di approfondimento su un problema lavorativo nella propria professione)

• apprendimento informale: sono le molteplici forme dell’apprendimento mediante l’esperienza risultante dalle attività della vita quotidiana, legate al lavoro, alla famiglia, al tempo libero. Questo tipo di apprendimento non è organizzato o strutturato e non conduce a una certificazione (ad esempio si pensi all’appartenenza a un’associazione).

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In queste nuove modalità di definire e denominare tempi, modi e luoghi dell’apprendimento il concetto di competenza, con la sua natura multiforme e difficilmente definibile, è uno degli elementi chiave sui quali si interroga la letteratura delle scienze dell’educazione. Il lavoro comunitario attorno al concetto di competenza ha conosciuto un’accelerazione importante negli ultimi quindici anni. La storia ha inizio negli anni Novanta: nel 1993 Jacques Delors licenzia il noto Libro Bianco.

Crescita, competitività, occupazione, che auspica un forte collegamento tra la formazione di base, gli apprendimenti scolastici e la vita quotidiana. Nel 1995 Edith Cresson, con il nuovo Libro

Bianco, evidenzia come la costruzione di una società cognitiva non possa avvenire per mezzo di un decreto, ope legis, bensì sia necessario un processo continuo. La nota Strategia di Lisbona, definita nel 2000, risulta uno snodo fondamentale, perché per la prima volta in un documento europeo lo sviluppo economico viene messo esplicitamente in relazione con gli investimenti in istruzione e formazione.

Il Consiglio Europeo di Stoccolma individua tra le strategie da utilizzare quella secondo la quale occorre aumentare l’apertura all’esterno dei sistemi di istruzione, risollecitando il collegamento con la vita quotidiana di quanto si apprende. Fondamentale risulta la Raccomandazione denominata Competenze chiave per l’apprendimento

permanente, emanata il 18 dicembre 2006 dal Parlamento Europeo e dal Consiglio dell’UE (e recepita, in Italia, dal Regolamento sull’obbligo di istruzione del 22 agosto 2007): con questa Raccomandazione si richiede a ogni sistema di istruzione e formazione degli Stati membri di «offrire a tutti i giovani gli strumenti per sviluppare le competenze chiave a un livello tale che li prepari alla vita adulta e costituisca la base per ulteriori occasioni di apprendimento, come anche per la vita lavorativa. Le competenze chiave sono quelle di cui tutti hanno bisogno per la realizzazione e lo sviluppo personali, la cittadinanza attiva, l’inclusione sociale e l’occupazione». In questo fondamentale documento vengono individuate otto competenze chiave (che saranno esposte oltre più distesamente):

• comunicare nella madrelingua; • comunicazione in lingue straniere; • competenza matematica e competenze di base in campo scientifico e tecnologico; • competenza digitale; • imparare a imparare; • competenze sociali e civiche; • senso di iniziativa e imprenditorialità; • consapevolezza ed espressione culturale.

I documenti europei invitano i sistemi dell’istruzione, della formazione e del lavoro a dialogare tra loro, a cooperare per il raggiungimento di obiettivi, a pianificare insieme per potenziare i risultati espressi in termini di apprendimento. Negli ultimi anni si è assistito, anche in Italia, all’introduzione di una logica di apprendimento per competenze nel sistema di istruzione (competenze di base contenute negli assi culturali e competenze chiave per l’obbligo di istruzione), nella formazione professionale (attraverso la costruzione di un “sistema per competenze” nella maggior parte dei sistemi regionali di formazione professionale), nell’educazione/istruzione degli adulti e nel lifelong learning in genere. Le competenze sono diventate un costrutto fondamentale, il cuscinetto, l’interfaccia tra le differenti tipologie e i diversi ambiti dell’apprendimento, consentono la leggibilità reciproca tra sistemi differenti, sono la lingua veicolare attraverso la quale «modalità, ambiti e tempi» diversi tra loro possono dialogare. Possono consentire la trasparenza (e leggibilità reciproca) delle varie certificazioni e il dialogo di queste con l’esperienza, sono centrate sul soggetto che le possiede e non su chi ne facilita l’acquisizione o le certifica in quanto debbono mobilizzare il soggetto stesso: la competenza è un comportamento e richiede la collaborazione del soggetto, la sua

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consapevolezza (se non sono cosciente delle competenze che possiedo non saprò nemmeno quali e quando usarle). Essendo un mix integrato di conoscenze, abilità e caratteristiche personali non è esattamente replicabile (la medesima competenza in due persone differenti presenterà alcune caratteristiche differenti). Le competenze sono capaci di integrare conoscenze e capacità, ma anche atteggiamenti (e disposizioni o attitudini). Per competenza si intende la capacità di assumere decisioni e di saper agire e reagire in modo soddisfacente in situazioni contestualizzate e specifiche prevedibili o meno. Tale accezione di competenza è quella alla quale si attinge quando si dice che la competenza è osservabile e verificabile soltanto in situazione: non si trova una competenza squisitamente astratta, la competenza è sempre traducibile in un comportamento. Occorre, infatti, chiarire come, spesso, vi sia una sovrapposizione con l’accezione proposta da Chomsky dei termini “competenza” e “performances”: Chomsky, infatti, mentre assegna al termine “competenza” il significato di una struttura cognitiva (regole e funzioni generali e invariabili necessarie all’articolazione del linguaggio), spiega il concetto di “performances” come una prestazione individuale. Le competenze “Le competenze sono una combinazione di conoscenze, abilità e attitudini appropriate al contesto” “Comprovata capacità di utilizzare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e personale. Nel contesto del Quadro Europeo delle Qualifiche (EQF), le competenze sono descritte in termini di responsabilità e autonomia”. Le competenze possono essere considerate come un insieme integrato di conoscenze (knowledge), abilità (skill), qualità umane (habits). Una competenza è, dunque, un insieme equilibrato di sapere, saper fare e saper essere, per fare riferimento a una vecchia denominazione tanto cara al vocabolario pedagogico italiano. La competenza non è un qualcosa di acquisito o una conoscenza posseduta. Non può essere ridotta né a un sapere, né a ciò che si è acquisito con la formazione. La competenza non risiede nelle risorse (siano esse conoscenze o capacità) da applicare, ma nell’applicazione stessa di queste risorse. Qualunque competenza è finalizzata (o funzionale) e contestualizzata: essa non può, dunque, essere separata dalle proprie condizioni di messa in opera, mobilizzazione, orchestrazione, non è possibile osservare una competenza in modo teorico. La competenza è un saper agire (o reagire) riconosciuto. Qualunque competenza, per esistere, necessita del giudizio altrui, di un certo grado di riconoscimento sociale, almeno all’interno di un gruppo. La competenza è il patrimonio complessivo di risorse di un individuo nel momento in cui egli affronta una prestazione lavorativa, oppure il proprio percorso professionale o la risoluzione di un problema, di una situazione, lo svolgimento di un compito nella sua vita quotidiana. La competenza risulta costituita da un mix complesso di elementi, alcuni dei quali hanno a che fare con la specificità del lavoro e possono essere individuati analizzando compiti e attività svolti; altri invece (ad esempio motivazione, capacità di comunicazione, capacità di problem solving) hanno a che fare con caratteristiche “personali” del soggetto-lavoratore, che sono messe in gioco quando un soggetto si attiva nei contesti operativi. Secondo la Raccomandazione UE/2008 sulla costituzione del Quadro europeo delle qualifiche per

l’apprendimento permanente (EQF - European Qualification Framework) una competenza è «la capacità comprovata di utilizzare conoscenze, abilità e disposizioni personali, sociali o metodologiche in situazioni di lavoro o di studio e per lo sviluppo professionale e personale». Possiamo, come già è stato fatto, suddividere le competenze tra competenze in potenza e competenze in atto:

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• definiamo competenza in potenza la capacità che corrisponde all’esito di un percorso formativo certificato (ovvero che termina con un titolo, un attestato, oggi anche con l’esplicitazione delle competenze acquisite);

• definiamo competenza in atto le prestazioni che possono essere misurate solo nel contesto di una concreta esperienza di lavoro, di vita, in situazione.

L’acquisizione di competenze è il frutto delle esperienze che l’individuo compie nel corso delle diverse tappe della propria esistenza in ambito formativo, professionale, e nella vita in genere. Vi sono alcune competenze che sono ritenute strategiche perché trasversali a ogni ambito della vita e utili in qualsivoglia situazione professionale, sociale e personale. Delle competenze strategiche trasversali possiamo individuare almeno tre aree:

• competenze relazionali (saper comunicare, saper interagire, saper lavorare in gruppo, sapersi confrontare nei contesti multiculturali odierni);

• competenze decisionali (saper risolvere problemi, saper valutare, saper decidere, saper effettuare delle scelte);

• competenze diagnostiche (saper analizzare, saper controllare più variabili, saper reperire e trattare informazioni, saper valutare una situazione in corso d’opera).

“capacità di far fronte ad un compito, o ad un insieme di compiti, riuscendo a mettere in

moto e a orchestrare le proprie risorse interne, cognitive, affettive, volitive e a

utilizzare quelle esterne disponibili in modo coerente e fecondo (Pellerey).

Attributi qualificanti del concetto di competenza

• riferimento a un compito come ambito di manifestazione del comportamento

competente (dimensione operativa del concetto di competenza)

• mobilitazione dell’insieme delle risorse personali (dimensione olistica del concetto di

competenza: triplice alleanza tra cognizione, motivazione e metacognizione, in

prospettiva socio-costruttivistica)

• impiego delle risorse disponibili nel contesto di azione (dimensione situata e

distribuita della competenza)

Le competenze di base Per competenze di base si intendono quelle competenze fondamentali per l’acquisizione di competenze successive di qualsiasi genere e tipo. Nell’ambito del sistema di istruzione esse acquisiscono un significato particolare: le competenze di base, unitamente alle competenze di cittadinanza sono una sorta di “kit minimo” necessario a ogni ragazzo e ragazza per gestire la propria vita quotidiana in maniera efficace e compiuta, con un buon senso di padronanza e controllo, per riuscire a porsi degli obiettivi e fare ciò che è necessario per raggiungerli, per immaginare il proprio futuro come lo si desidera e come ci si augura che sia e per vederlo realizzato. Le competenze, inoltre, non fanno alcuna differenza rispetto ai luoghi di acquisizione, non richiedono di essere acquisite in un solo contesto, si sviluppano e modificano continuamente con l’esperienza di vita, formativa e professionale delle persone. Nella tabella sono elencate le otto competenze chiave di cittadinanza che tutti gli studenti devono acquisire entro i 16 anni.

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Dalle conoscenze alle competenze: Una rivoluzione copernicana. Concretamente che cosa cambia nell’azione didattica di un insegnante che vuole passare da un approccio centrato sui contenuti a un approccio centrato sulle competenze? Nel primo caso ci si centra su ciò che dovrebbe servire per raggiungere gli obiettivi, nel secondo caso ci si centra sugli obiettivi di apprendimento dei soggetti e da lì si parte per individuare le azioni didattiche appropriate. La modalità di più frequente adozione, nella scuola italiana, è, ancora oggi, quella dell’approccio per contenuti mediato dalla lezione frontale. L’approccio per contenuti ha, al proprio centro, il curricolo o, più spesso e secondo una concezione superata, il programma. I soggetti diventano passivi, è richiesto loro di inserirsi in un corpus piuttosto statico di conoscenze, di aderire anche ai valori e ai significati che quelle conoscenze veicolano. L’approccio per competenze ha la caratteristica di includere e pone al proprio centro il soggetto in apprendimento e gli obiettivi che esso dovrebbe raggiungere. Si tratta di una rivoluzione copernicana: la scuola è fatta per gli alunni e le alunne che la frequentano. Una didattica legata alle nozioni e ai contenuti è autoreferenziale: lo studente deve provvedere, in autonomia, a imparare i contenuti una volta che sono stati spiegati, l’insegnante verifica quanto l’allievo ha appreso ponendogli domande sugli stessi contenuti. La valutazione, dunque, servirà a stabilire il grado di ritenzione e, nella migliore delle ipotesi, di comprensione, di quei contenuti medesimi. Se crediamo che l’insegnamento sia una trasmissione di conoscenze che parte dall’insegnante per giungere all’allievo, la valutazione può essere intesa come una misurazione della quantità di conoscenze acquisite: l’insegnante spiega, l’alunno studia, l’alunno ripete, l’insegnante valuta.

La scuola dei contenuti è semplice e rassicurante per gli insegnanti: non mette in discussione in alcun modo la loro autorità conoscitiva, permette la reiterazione delle lezioni un anno dopo l’altro, non prevede negoziazione e confronto, riconduce la relazione a una pesante asimmetria

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conoscitiva, deresponsabilizza, riduce l’impegno in fase di programmazione, di preparazione della singola lezione, di valutazione. Questo approccio scava una trincea, come ciascuno di noi ha avuto modo di vedere, nella propria esperienza di allievo e di insegnante, tra insegnamento e apprendimento (insegnamento muro). L’insegnante ha due doveri soltanto: quello di spiegare tutti i contenuti (magari nel modo più chiaro possibile) e quello di valutare con la maggiore imparzialità possibile. L’apprendimento rimane in carico all’allievo. Si tratta, probabilmente, dell’unica professione in cui un eventuale fallimento è stato estroflesso. A quanti di noi è capitato di aver sentito dire da un collega o una collega: questi ragazzi non hanno imparato nulla? Non sarebbe possibile per un amministratore delegato dire, senza assumersene la responsabilità: quest’azienda quest’anno non ha guadagnato nulla; non sarebbe possibile per un allenatore, in qualsiasi sport, sostenere che la propria squadra è composta da incapaci per cui le sconfitte raccolte sono responsabilità soltanto loro, non sarebbe possibile in alcuna professione attribuirsi i meriti e delegare ad altri la responsabilità degli insuccessi. Occorre ristabilire una base comune di confronto: lo scopo della scuola va ricercato negli apprendimenti obiettivo; questi apprendimenti prevedono il protagonismo degli allievi, ma la responsabilità di costruire attività e situazioni che consentano e favoriscano lo sviluppo degli apprendimenti stessi spetta all’insegnante. In una didattica per competenze vengono definite, in fase di progettazione, le competenze obiettivo. Ogni azione didattica è tesa a produrre apprendimento, ogni azione didattica deve rispondere alle seguenti domande.

• All’acquisizione di quale competenza sto concorrendo? • Come si traduce questa competenza nella vita quotidiana? Sono in grado di fornire degli

esempi concreti? • Quali attività didattiche svolgerò insieme ai miei alunni per favorirne l’acquisizione, per

allenarne l’utilizzo? • Quali strumenti di valutazione (formativa) e di autovalutazione metterò in campo? • Quali informazioni e contenuti sono essenziali allo svolgimento di quelle attività? • Come renderò coscienti i miei allievi del processo che stanno seguendo? • Come si collegano questi nuovi apprendimenti a quanto i miei allievi già sanno e sanno

fare? • Sono in grado di dare ragione circa l’utilità di questi apprendimenti? • In caso di mancato raggiungimento delle competenze obiettivo, ho in mente attività e

azioni didattiche per il recupero delle stesse? Il grado di coinvolgimento degli allievi aumenta esponenzialmente, così come i risultati in termini di acquisizione di competenze. La valutazione diventa allora non più un momento distinto, ma parte integrante del processo, diventa valutazione per l’apprendimento e l’insegnante non si sottrae, a propria volta, alla valutazione e autovalutazione del proprio operato. Insegnare e valutare per competenze

Se assumiamo come finalità complessiva del nostro agire didattico quella di far acquisire, sviluppare o consolidare delle competenze (competenze di base e competenze di cittadinanza si configurano come prioritarie nella scuola secondaria di primo grado e nel biennio della scuola secondaria di secondo grado) occorre impostare una didattica coerente con questa finalità. Il primo requisito è quello di costruire situazioni didattiche che abbiano una vicinanza con situazioni reali, assumendo un’ottica di tipo costruttivista.

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Secondo l’approccio costruttivista, infatti, la realtà non è qualcosa di oggettivo e dato, ma, semplificando, una costruzione del soggetto che la vive. Un sapere è il risultato di un’interazione tra il soggetto che lo apprende e la realtà; secondo questo approccio l’insegnante è una delle risorse (una delle più importanti, certo) per la costruzione di occasioni e situazioni favorevoli all’apprendimento, ma il soggetto non smette mai di imparare e di negoziare, mediante il linguaggio, i significati. Portare all’interno della scuola la logica delle competenze significa mettere le discipline – e gli insegnanti – al servizio della persona e del loro progetto di crescita integrale attraverso il processo di apprendimento. In questo senso, un approccio didattico centrato sulle competenze spinge a un coinvolgimento attivo di tutti gli attori del sistema educativo.

Il momento della valutazione è, in questo approccio, condiviso. Il soggetto che apprende partecipa alla valutazione non soltanto in quanto vi è sottoposto, ma in quanto partecipa alla negoziazione degli indicatori che consentiranno la valutazione medesima. L’idea di oggettività delle prove strutturate di ispirazione quantitativa si è dimostrata poco fondata, in quanto dimentica la partecipazione del soggetto, che, se non diviene consapevole del punto del percorso al quale è giunto, difficilmente coopererà e attiverà le risorse necessarie al completamento del percorso stesso. Se l’obiettivo della valutazione non è limitato a una graduazione numerica, ma assume uno scopo formativo, promozionale, orientativo, sono allora altri gli strumenti da utilizzare per una valutazione autentica e per l’apprendimento: l’intervista, la registrazione (e video-registrazione), le prove di realtà, le griglie di osservazione (e osservazione mutuale), i diari di bordo, le osservazioni con check list (e a intervalli temporali), il racconto, l’autovalutazione, le rubriche, gli esercizi e le prove di riflessività. Alcuni principi per le pratiche di valutazione partecipata e autentica possono essere:

• la valutazione è una parte del processo di apprendimento, non deve essere considerata come un momento separato e come un giudizio definitivo, ma come un orientamento rispetto al situarsi in un punto del percorso negoziato e una pratica di miglioramento delle stesse situazioni e dei contesti organizzati per facilitare l’apprendimento medesimo;

• la riflessività è un valore irrinunciabile: l’integrazione tra sapere, saper fare e saper essere si ottiene solo tramite la conoscenza della propria esperienza e l’osservazione critica della stessa. I pilastri di una valutazione riflessiva sono: essere coinvolti in una nuova esperienza, riflettervi e osservarla secondo differenti prospettive, concettualizzarla con il riferimento a teorie e con la creazione di nuovi concetti, sperimentare attivamente nuove modalità testate tramite azioni e conseguentemente affrontare nuovi problemi per ripartire con nuove esperienze, in un ciclo continuo (la rielaborazione può essere condotta attraverso l’uso di forme narrative, come quelle diaristiche, o tramite conversazioni negoziali con i pari e con gli esperti);

• l’autovaluazione è uno strumento che interviene sul possesso effettivo di una competenza (non si può parlare di reale autonomia competente senza la consapevolezza del soggetto), migliora la motivazione dei discenti (se so di aver appreso, se sono messo in condizione di valutare quanto ho appreso, sarò maggiormente determinato a conseguire ulteriori apprendimenti). Le pratiche di valutazione riflessiva possono attingere a quelle in uso nella ricerca-azione.

• la valutazione deve essere sganciata dal solo scopo di esplicitazione e comunicazione degli esiti di apprendimento di un singolo allievo, e centrata soprattutto sulla promozione dell’apprendimento stesso; questo significa fornire feedback continui con modalità di promozione (non di sanzione), in un clima favorevole e sereno che non metta in discussione le relazioni anche quando il feedback dovesse segnalare una stasi o una retrocessione. Un buon feedback è chiaro, consente al soggetto di attivarsi per un avanzamento e un miglioramento, si riferisce agli obiettivi di apprendimento negoziati in precedenza;

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• le prestazioni richieste al soggetto debbono essere reali, riguardare cioè contesti e situazioni della propria vita quotidiana, attuale o futura (più raramente passata), cooperando così a determinare una percezione di significatività degli apprendimenti scolastici negli studenti;

• i valutatori (insegnanti e allievi) debbono essere preparati, devono condividere un metodo, degli strumenti, degli indicatori (i segnali dell’avvenuta acquisizione di una competenza), dei linguaggi, e comprendere l’importanza di negoziare e cooperare per giungere a una valutazione condivisa;

• quando la valutazione è condivisa, se ne comprendono fasi, modalità e se ne condividono gli esiti, il processo di apprendimento risulta facilitato. Ogni studente dovrebbe conoscere i propri obiettivi di apprendimento e condividere i criteri e gli strumenti che consentiranno la raccolta di adeguati indicatori (noti anch’essi) per determinare i livelli di prestazione (negoziati). Questa caratteristica permette un ulteriore guadagno in termini di apprendimento, rendendo i soggetti capaci di confrontare i differenti sistemi e le diverse situazioni in cui si apprende, di “smontare” un apprendimento e riconoscerne i segnali, di giovarsi maggiormente di sistemi, contesti, esperienze in termini apprenditivi. Ogni percorso dovrebbe iniziare con la condivisione delle competenze obiettivo, con la discussione sulle stesse e con la negoziazione dei livelli di prestazione e degli indicatori e criteri proposti dall’insegnante;

• la valutazione ha la necessità di coinvolgere gli insegnanti e gli studenti. Riflettere sul

contributo che ogni attività, esperienza, informazione ha fornito al proprio processo di apprendimento costituisce un guadagno in termini di consapevolezza e di possibile autoorchestrazione di futuri processi di apprendimento per ciascun soggetto. L’insegnante ne ricava così feedback circa l’adeguatezza delle attività proposte (una sorta di monitoraggio) e la possibilità di migliorarle. La negoziazione attraverso il coinvolgimento permette, inoltre, di attribuire significati uguali o simili a ciò che si sta facendo (generando partecipazione e motivazione, spingendo ciascuno all’utilizzo delle proprie risorse per favorire lo sviluppo di ulteriori apprendimenti);

• usare una pluralità di metodi e strumenti di valutazione permette di attenuare alcune debolezze di sistemi valutativi di tipo qualitativo. Raccogliere dati attraverso più strumenti e da fonti differenti incrementa l’affidabilità del sistema di valutazione.

Ovviamente, la valutazione così strutturata richiede che la didattica che la affianca (non la precede, in quanto la valutazione non è un momento conclusivo di un processo, ma parte integrante dello stesso) sia improntata alle stesse logiche:

• non si possono separare le azioni di apprendimento da quelle di valutazione; • occorre definire e condividere (negoziando) gli obiettivi in termini di competenze di ogni

unità temporale di apprendimento; • occorre ricordare che non vi sono contenuti, nozioni, saperi irrinunciabili se non quelli utili

ai soggetti per sviluppare le proprie competenze; • è da respingere ogni azione didattica tesa a diminuire controllo, potere, autostima,

percezione di efficacia di un soggetto; • l’attività e la produzione stanno al centro dell’azione didattica: “fare” non è opposto a

“sapere”, ma è a esso strettamente collegato (esempio della bicicletta). Domande da porsi Un insegnante che intenda lavorare per competenze deve porsi alcune domande intorno alla propria professionalità, mutuate dall’esperienza sul campo (di insegnamento, ricerca e formazione di insegnanti) e dagli studi di Perrenoud (Dieci nuove competenze per insegnare, Anicia, Roma

2002):

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Sono in grado di esplicitare le mie pratiche didattiche? Ho predisposto un piano di formazione e aggiornamento continuo? Quali sono allora i miei obiettivi di miglioramento professionale? Quali competenze dovrò sviluppare? Sono in grado di suscitare il desiderio di apprendere? Come faccio? Quali strumenti e strategie utilizzo per favorire la motivazione degli alunni? Sono capace di fornire esempi collegati alla vita quotidiana dei miei alunni? Conosco le loro passioni, i loro interessi, le attività che svolgono al di fuori della scuola? Conosco i loro desideri e progetti per il futuro? Sono in grado di definire in forma di competenze gli obiettivi di apprendimento della mia disciplina? So quali sono i documenti normativi di riferimento? Sono in grado di rilevare le conoscenze pregresse dei miei alunni e le competenze di cui sono già in possesso? Sono in grado di far tesoro delle risorse e delle esperienze dei miei alunni e utilizzarle nel loro processo di apprendimento? Conosco le risorse e le esperienze dei miei alunni? Sono in grado di utilizzare gli errori come occasioni di apprendimento? Solitamente stigmatizzo gli errori o li uso come un’occasione? Sono in grado di valorizzare soprattutto le acquisizioni positive? Sono in grado di sviluppare e favorire la cooperazione e il lavoro di gruppo e forme di mutuo insegnamento? Sono in grado di favorire la partecipazione degli alunni al funzionamento della scuola? Sono capace di gestire modalità che simulino la “cittadinanza” all’interno della scuola? So spiegare le funzioni di rappresentanza e le possibilità che gli alunni hanno di incidere nelle decisioni? So usare un linguaggio adeguato a una didattica per competenze? Posso evitare di fare riferimenti al programma, alle scadenze, agli esami? Sono in grado di centrare il linguaggio sugli obiettivi da raggiungere anziché sui compiti da fare o sulle cose da sapere? So integrare i mezzi tecnologici nella mia didattica? Quanti e quali mezzi utilizzo? Li utilizzo in modo appropriato? Ci sono altri strumenti che potrebbero rendere la didattica meglio gestibile e più attraente? Utilizzo multimedia nel mio insegnamento? Mi servo di narrazioni e letture ad alta voce, musica, video, cartoni, film, foto e qualsiasi altro strumento multimediale specie se integrati e usati in modo plurale all’interno della stessa unità di lavoro. So entrare in relazione con tutti gli stake holder (alunni, genitori, colleghi) rispetto alla mia azione didattica? So favorire modalità di relazione non aggressiva e non violenta? Conosco delle tecniche di comunicazione assertiva e non aggressiva? So operare coinvolgimenti dei genitori nella facilitazione dell’apprendimento (e non controllo) dei loro figli? So effettuare un bilancio delle mie competenze? Queste domande possono aiutare lo sviluppo dell’autoriflessività e consentono di individuare le proprie risorse e i punti di debolezza circa un approccio per obiettivi espressi in termini di competenze. Le competenze possono comportare anche confusioni e problemi, non sono la panacea di tutti i mali della scuola, ma costituiscono un importante vettore di cambiamento, accostarvisi per trasformare la propria didattica è un atto di grande professionalità che molti docenti hanno compiuto e altri stanno compiendo. Il passaggio principale che questo approccio comporta è quello di rimettere finalmente al centro dei processi di apprendimento coloro che sono gli unici protagonisti e destinatari dei processi di istruzione: i ragazzi e le ragazze che li abitano. Le competenze sono uno strumento indispensabile per rispondere alle legittime domande di senso degli studenti e per riattivare quel circuito motivazionale che consente lo sviluppo di apprendimenti.

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Lavorare per competenze: quali sfide per l’insegnante?

A partire da un’accezione comportamentista del significato di competenza, intesa come

insieme di abilità possedute dal soggetto, si è assistito negli ultimi decenni a

un’articolazione progressiva del concetto, che possiamo sintetizzare in tre direzioni

evolutive:

• dal semplice al complesso: la competenza viene vista come un’ integrazione delle

risorse possedute dall’individuo, che comporta l’attivazione di conoscenze, abilità e

disposizioni personali relative sia al piano cognitivo, sia al piano socio-emotivo e

volitivo. La sua espressione richiede di mettere in gioco e mobilitare la globalità della

persona nelle sue molteplici dimensioni, non può ridursi a prestazioni isolate e

delimitate;

• dall’esterno all’interno: si afferma una progressiva attenzione alle dimensioni

interne del soggetto, non riconducibili ai soli comportamenti osservabili bensì riferite

alle disposizioni interiori del soggetto e alle modalità con cui esso si avvicina allo

svolgimento di un compito operativo. In questa direzione si colloca la distinzione di

origine chomskiana tra “competenza”, intesa come qualità interna del soggetto, e

“prestazione”, intesa come comportamento osservabile; distinzione ripresa e allargata

ai processi cognitivi da B. G. Bara: «Con il termine competenza intendo l’insieme delle

capacità astratte possedute da un sistema, indipendentemente da come tali capacità

sono effettivamente utilizzate. Con il termine prestazione mi riferisco alle capacità

effettivamente dimostrate da un sistema in azione, desumibili direttamente dal suo

comportamento in una specifica situazione».

• dall’astratto al situato: la competenza perde la sua valenza generale e tende a essere

riferita alla capacità di affrontare compiti in specifici contesti culturali, sociali,

operativi. Il richiamo a specifici compiti evidenzia sempre più la dimensione

contestualizzata della competenza, riconducibile a un impiego del proprio sapere in

situazioni concrete e in rapporto a scopi definiti. Un’efficace definizione del concetto, in

grado di dare conto del percorso evolutivo che abbiamo richiamato, è quella proposta

da Michele Pellerey, il quale definisce la competenza come «capacità di far fronte a un

compito o a un insieme di compiti, riuscendo a mettere in moto (mobilitare) e a

orchestrare le proprie risorse interne, cognitive, affettive e volitive, e a utilizzare quelle

esterne disponibili in modo coerente e fecondo». Essa consente di evidenziare alcuni

degli attributi che tendono a qualificare tale concetto in rapporto ad altri termini affini

o similari:

• il riferimento a un compito come ambito di manifestazione del comportamento

competente, il quale presuppone l’utilizzazione del proprio sapere per fronteggiare

situazioni problematiche. Come afferma Wiggins in riferimento all’ambito scolastico

“non si tratta di accertare ciò che lo studente sa, bensì ciò che sa fare con ciò che sa”, a

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richiamare la dimensione operativa sottesa al concetto di competenza, il suo

indissolubile legame con l’azione;

• la mobilitazione dell’insieme delle proprie risorse personali, che segnala la natura

olistica della competenza, non riducibile alla sola dimensione cognitiva, ma estesa

anche alle componenti motivazionali, attribuzionali, socio-emotive, metacognitive.

Mason parla, a tale riguardo, di triplice alleanza tra cognizione, motivazione e

metacognizione a proposito del processo di apprendimento, in una prospettiva socio-

costruttivistica che rappresenta la cornice più adatta all’accezione di competenza che

stiamo discutendo;

• l’impiego delle risorse disponibili nel contesto d’azione e la loro integrazione con

le risorse interne, intendendo per risorse esterne sia gli altri soggetti implicati, sia gli

strumenti e i mezzi a disposizione, sia le potenzialità presenti nell’ambiente fisico e

culturale in cui si svolge l’azione. Ciò sottolinea il valore situato della competenza e la

prospettiva ecologica attraverso cui richiede di essere analizzata e indagata.

In maniera icastica ed efficace, Le Boterf riassume il percorso di sviluppo che ha

contraddistinto il concetto di competenza nel passaggio dal saper fare al saper agire:

un’espressione che ben sintetizza la natura articolata del costrutto e il suo irriducibile legame

con un contesto d’azione.

Riprendendo una suggestione psicoanalitica, alcuni autori hanno proposto di rappresentare la

competenza come un iceberg, in modo da evidenziare la duplicità delle componenti presenti

nella sua rilevazione: una componente visibile, esplicita, espressa attraverso prestazioni

osservabili che rinviano essenzialmente al patrimonio di conoscenze e abilità possedute dal

soggetto; una componente latente, implicita, che richiede un’esplorazione di dimensioni

interiori connesse ai processi motivazionali, volitivi, socio-emotivi dell’individuo. Tale

immagine, anche nella sua rappresentazione visiva, segnala con evidenza le difficoltà su cui si

misura un lavoro formativo per competenze, inevitabilmente costretto a dotarsi di modalità e

strumentazioni attraverso cui andare “sotto la superficie dell’acqua” e sondare le componenti

soggettive e interne del processo di apprendimento dell’individuo.

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LE 4 DISCONTINUTÀ TRA SAPERE SCOLASTICO E SAPERE REALE

Vi sono alcune differenze strutturali tra l’apprendimento scolastico, fondato su un ordine

logico, e l’apprendimento in situazioni di realtà, fondato su un ordine pratico; differenze

ben riassunte da Lauren Resnick (1995), in un bel saggio sulle discontinuità tra imparare

dentro e fuori la scuola pubblicato in italiano in un volume curato da Clotilde Pontecorvo e

collaboratori:

1. «la scuola richiede prestazioni individuali, mentre il lavoro mentale all’esterno è

spesso condiviso socialmente». Pensiamo alle modalità tipiche della valutazione

scolastica, cartina di tornasole particolarmente efficace nel mostrare un certo modello

di apprendimento: un principio indiscutibile è quello di separare ogni allievo dal resto

del mondo, evitando qualsiasi forma di contatto diretta o indiretta con i propri

compagni/e per tentare di accertare un apprendimento rigorosamente individuale e

solipsistico; una situazione decisamente artificiosa se confrontata con qualsiasi

esperienza reale, in cui ci viene naturale condividere con le persone con cui siamo in

relazione la gestione di un compito di realtà, che sia esistenziale, professionale o

ludico.

2. «la scuola richiede un pensiero privo di supporti, mentre fuori ci si avvale di strumenti

cognitivi o artefatti». Anche in questo caso la valutazione scolastica ben simboleggia

questa discontinuità, nel tentare di accertare un apprendimento puramente mentale,

tutto nella testa del soggetto, per il quale qualsiasi strumento (il dizionario, i propri

appunti, le risorse di Internet, il testo da consultare ecc.) è visto come indebita

interferenza; strumenti che invece risultano pienamente legittimi in un contesto di

realtà nel quale affrontare un determinato compito (scrivere una relazione, preparare

un intervento, elaborare un progetto ecc.) con l’ausilio delle risorse che l’ambiente ci

può mettere a disposizione.

3. «la scuola coltiva il pensiero simbolico, nel senso che lavora su simboli, mentre fuori

della scuola la mente è sempre direttamente alle prese con oggetti e situazioni». Il

sapere scolastico tende a essere astratto, decontestualizzato, prevalentemente

trasmesso attraverso codici simbolici convenzionali e lontani dalla realtà (le parole, i

numeri, le formule, la notazione musicale, in generale i linguaggi delle diverse

discipline); il sapere reale è concreto, situato, composto da dati empiricamente

osservabili e manipolabili, agendo direttamente su di essi.

4. «a scuola si insegnano capacità e conoscenze generali, mentre nelle attività esterne

dominano competenze specifiche, legate alla situazione». Il sapere scolastico

ambisce ad avere una valenza generale, sviluppare conoscenze e abilità ad alta

trasferibilità, impiegabili nelle più differenti situazioni (imparo la moltiplicazione in

modo da usarla per fare la spesa, per organizzare un viaggio, per imbiancare la casa

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ecc.); il sapere reale, proprio in quanto si manifesta in un’azione, si inserisce sempre in

un contesto ed è inevitabilmente determinato dalle specificità di quel contesto (imparo

a guidare la macchina con un dato modello e in una data situazione ambientale, non è

automatico il trasferimento ad altri contesti).

La profonda verità di queste differenze non deve condurci a “descolarizzare la società”, per

dirla con Ivan Illic, bensì vuole far riflettere sui rapporti da instaurare tra scuola e vita, tra

riflessione ed esperienza; in altre parole si tratta di riconoscere i link esistenti tra la

modalità di conoscenza propria della scuola e la complessità del mondo reale. Il problema

non sta tanto nell’appiattire l’imparare dentro la scuola ai modi e alle forme dell’imparare

fuori dalla scuola, in quanto significherebbe eliminare il ruolo di un’educazione formale,

che avviene in un contesto “meta”, separato dalla realtà e in grado di prendere le distanze

da essa per osservarla, comprenderla, analizzarla, manipolarla. La “natura parentetica”

dell’insegnamento scolastico è ciò che lo contraddistingue dall’apprendimento informale,

lo stare tra parentesi – appunto – rispetto ai contesti di realtà, e che consente alla scuola di

sviluppare la propria mediazione tra il soggetto che apprende e i contenuti culturali in

condizioni di sicurezza e di distanza. Ciò rappresenta un vantaggio per la formazione

scolastica, in quanto le consente di spostare la sua attenzione su un livello “meta” di

consapevolezza del proprio apprendimento e della propria conoscenza, ma può divenire

anche uno svantaggio, nel momento in cui si riflette in una conoscenza inerte, puramente

autoreferenziale e separata dai contesti di vita. La sfida per l’apprendimento scolastico non

consiste, quindi, nell’appiattirsi sulla realtà, bensì nel non separarsi da essa, dalle esperienze

di vita; nel non rinchiudersi in se stesso, autolegittimandosi, bensì nel mantenere una

relazione costante con l’esperienza reale, con il vissuto dell’allievo, in grado di restituire un

senso all’apprendimento, anche il più formalizzato, e di ricollegarlo alle esperienze di vita,

alla sua potenziale ricaduta nei contesti di realtà. Il riconoscimento delle differenze

strutturali tra apprendimento in contesti formali e non formali non deve portare a una

divaricazione tra i due piani bensì alla ricerca delle necessarie integrazioni tra scuola e

realtà.

Sapere scolastico Sapere reale

Astratto Concreto

Sistematico Intuitivo

Logico Pratico

Generale Particolare

Individuale Sociale

Rigido Flessibile

Analitico Globale

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SFIDE PER LA DIDATTICA

Il collegamento tra scuola e vita sollecitato dalla prospettiva delle competenze pone una serie

di sfide all’insegnamento, ben riassunte da Philippe Perrenoud nel suo testo Costruire

competenze a partire dalla scuola, tradotto anche in italiano:

1. considerare i saperi come risorse da mobilitare. La conoscenza non deve essere

materia inerte, incapsulata all’interno delle discipline scolastiche, bensì materia viva,

da mettere in relazione con le esperienze di vita e i problemi che la realtà pone. I saperi

scolastici non sono qualcosa di auto-consistente, bensì richiedono di essere sempre

pensati come delle potenziali risorse per affrontare contesti di realtà, non possono

quindi permettersi di perdere questo collegamento vitale;

2. lavorare per situazioni problema. La stretta connessione tra realtà e scuola,

simboleggiata dalla metafora del ponte, si riflette nell’appoggiare il lavoro didattico su

attività in grado di integrare i diversi saperi e di renderlo significativo, proponendo

situazioni problematiche da affrontare, attivando processi euristici in contesti reali.

L’espressione “situazioni-problema” ben sintetizza un approccio esplorativo, di ricerca

aperta, verso la conoscenza coniugata con un riferimento a situazioni reali, a contesti

operativi concreti e definiti, fatti inevitabilmente di risorse e di vincoli;

3. condividere progetti formativi con i propri allievi. Il ruolo di protagonista del

proprio apprendimento affidato agli studenti si riflette nella pratica della contrattualità

formativa, funzionale a una condivisione di senso del lavoro didattico, non solo con gli

studenti, ma anche con gli altri soggetti coinvolti (genitori, interlocutori esterni,

personale ATA, etc.). Il punto focale è la ricerca di significato per il lavoro scolastico da

parte dei diversi attori coinvolti (anche per il docente), un’attribuzione di senso che

promuova una disponibilità ad apprendere e favorisca una finalizzazione riconoscibile

per il proprio impegno e i propri risultati;

4. adottare una pianificazione flessibile. L’aggancio con problemi di realtà richiede una

modalità di progettazione strategica, fondata sulla messa a fuoco di alcune linee

d’azione da adattare e calibrare durante lo sviluppo del percorso formativo; ciò implica

un approccio flessibile, aperto alla progettazione didattica, non riconducibile a un

algoritmo da preordinare, più simile a una ricerca da impostare e adattare in corso

d’opera, avendo chiaro dove si vuole arrivare e i traguardi formativi che si intende

promuovere;

5. praticare una valutazione per l’apprendimento. La pratica consapevole in cui si

esprime l’apprendimento amplifica il potenziale formativo del momento valutativo,

vero e proprio specchio attraverso cui conoscere e riconoscersi, risorsa metacognitiva

per il soggetto che apprende. La valutazione si connette strettamente alla formazione,

non è pensata come un momento terminale e separato bensì come uno strumento

attraverso cui promuovere e consolidare l’apprendimento;

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6. andare verso una minore chiusura disciplinare. La realtà è per sua natura restia a

essere rinchiusa nei recinti concettuali e metodologici delle singole discipline, è quindi

necessaria una pluralità di sguardi attraverso cui osservare e comprendere la propria

esperienza. L’insegnamento-ponte implica necessariamente un superamento dei

confini disciplinari, una capacità di connettere non solo la scuola con la vita, ma anche i

diversi saperi disciplinari, pensati come strumenti di analisi di una realtà unica e

scomponibile;

7. convincere gli allievi a cambiare mestiere. Una diversa modalità con cui avvicinarsi

all’insegnamento non impatta solo con le resistenze e le routine del corpo docente, ma

anche con gli stereotipi, le aspettative, i modelli culturali degli studenti, delle loro

famiglie, della comunità sociale. Un approccio per competenze richiede allo studente di

porsi in modo diverso rispetto all’esperienza di apprendimento: non come ricettore

passivo e riproduttore di un sapere predigerito, bensì come co-produttore di una

conoscenza da costruire e condividere. Per dirla con le parole di uno studioso

americano, richiede di padroneggiare l’incertezza, di imparare a «sapere che cosa fare

quando non si sa che cosa fare».

Quest’ultima avvertenza di Perrenoud segnala con evidenza che la sfida non è solo tecnico-

professionale bensì soprattutto culturale, investendo l’intera comunità sociale che ruota

intorno all’universo scolastico e i significati che ciascuno degli attori attribuisce al fare scuola;

non a caso l’illustre sociologo francese ammonisce: «Se si cambiano solo i programmi che

figurano nei documenti, senza scalfire quelli che sono nelle nostre teste, l’approccio per

competenze non ha nessun futuro» (Perrenoud, 2003).

SFIDE PER LA VALUTAZIONE

Il costrutto della competenza comporta un processo di revisione radicale non solo della

didattica, ma anche della valutazione degli apprendimenti, sulla base di un insieme di

principi guida che connotano la nuova filosofia valutativa e ne marcano inequivocabilmente la

distanza con le pratiche valutative tradizionali.

1. Innanzitutto, la significatività delle prestazioni richieste in rapporto ai traguardi di

apprendimento che qualificano il curriculum scolastico e la formazione delle nuove

generazioni, in contrasto con la valenza quasi esclusivamente riproduttiva che

caratterizza le prove nella valutazione tradizionale.

2. In secondo luogo, l’autenticità dei compiti valutativi in rapporto ai contesti e ai problemi

posti dal mondo reale, in contrasto con il carattere astratto e artificioso delle attività

proposte dalla valutazione tradizionale.

3. In terzo luogo la processualità della valutazione nel cogliere il nesso inestricabile tra la

prestazione e la modalità che l’ha generata, in contrasto con l’esclusiva attenzione al

prodotto di apprendimento tipico della valutazione tradizionale.

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4. In quarto luogo la responsabilità affidata allo studente nella conduzione del processo

valutativo, attraverso il suo coinvolgimento nelle diverse fasi valutative e

l’incoraggiamento di forme autovalutative, in contrasto con la natura

deresponsabilizzante della valutazione tradizionale.

5. In quinto luogo la promozionalità dell’azione valutativa in rapporto allo sviluppo del

processo formativo e al conseguimento dei suoi risultati, in contrasto con il valore

classificatorio e selettivo della valutazione tradizionale.

6. In sesto luogo la ricorsività tra momento formativo e valutativo, per la quale il secondo

diventa parte integrante e “strumento d’intelligenza del primo”, in contrasto con la

tradizionale separazione presente nella valutazione tradizionale.

7. In settimo luogo la dinamicità della valutazione, pensata come processo di

accompagnamento attento al riconoscimento e alla valorizzazione del potenziale di

sviluppo dello studente, in contrasto con il carattere statico della valutazione

tradizionale.

8. In ottavo luogo la globalità del momento valutativo, attento all’integrazione tra le

diverse dimensioni del processo di sviluppo (cognitive, sociali, emotive, conative), in

contrasto con la natura analitica e riduzionistica della valutazione tradizionale.

9. Infine, la multidimensionalità del processo valutativo, come combinazione di molteplici

fonti di dati e prospettive di lettura dell’evento formativo, in contrasto con il carattere

unidimensionale della valutazione tradizionale.

Dai principi richiamati si possono ricavare, analogamente a quanto abbiamo fatto per la

didattica, alcune sfide professionali poste agli insegnanti in rapporto al valutare:

• puntare a compiti valutativi più autentici, ovvero capaci non solo di accertare il

possesso di conoscenze e abilità da parte degli studenti, ma anche la loro capacità di

usare tale sapere per affrontare situazioni poste dal loro contesto di realtà;

• promuovere una maggior responsabilizzazione dello studente nel processo

valutativo, riconoscendogli un ruolo attivo di soggetto della valutazione non solo di

oggetto, e aiutandolo a riconoscere i significati e le potenzialità formative insite nel

valutare;

• integrare la valutazione del prodotto della formazione, la parte emersa

dell’iceberg, con quella del processo formativo, la parte sommersa dell’iceberg, il

“che cosa si apprende” con il “come si apprende”, in modo da recuperare la globalità e

la complessità dell’esperienza di apprendimento;

• oltrepassare i confini disciplinari della valutazione, prestando attenzione e

valorizzando le dimensioni trasversali dell’apprendimento, evidenziate attraverso la

messa a fuoco delle competenze chiave di cittadinanza;

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• riconoscere e sviluppare la valenza metacognitiva sottesa al processo valutativo,

in quanto opportunità di consapevolezza del proprio apprendere e di presa di

coscienza dei propri limiti e delle proprie potenzialità.

Nel loro insieme le sfide richiamate pongono al centro della riflessione il costrutto della

competenza e la relativa esigenza di passare da una valutazione delle sole conoscenze e abilità

a una valutazione delle competenze, ovvero della capacità del soggetto di impiegare

produttivamente il proprio apprendimento per soddisfare i propri bisogni e rispondere alle

esigenze sociali.

LA VALUTAZIONE AUTENTICA

• significatività dei compiti valutativi • responsabilizzazione dello studente • integrazione processo/prodotto • riferimento a problemi complessi

• valenza metacognitiva della valutazione.

“Si tratta di accertare non ciò che lo studente sa, ma ciò che sa fare con ciò che sa.” (Wiggins,

1993).

In genere la valutazione del profitto scolastico è stabilita dal confronto dei risultati ottenuti

dagli studenti con i risultati attesi (obiettivi). È in base alla loro vicinanza o distanza che si

traggono inferenze sul livello di apprendimento. Quando in un’epoca non troppo lontana è

emersa l’esigenza di effettuare misurazioni che fossero rapide e semplici e allo stesso tempo

rigorose e scientificamente fondate si è fatto soprattutto ricorso a prove standardizzate.

Questo modello, il cui scopo iniziale è stato quello di accertare soltanto il successo o

l’insuccesso dell’apprendimento per suggerire interventi di rinforzo o di aiuto, per molti è

diventato anche un sistema di giudizio selettivo. Il suo limite maggiore sta in “ciò” che intende

e riesce a valutare. Infatti, valutando ciò che un ragazzo “sa”, il modello controlla e verifica la

“riproduzione” ma non la “costruzione” e lo “sviluppo” della conoscenza, e neppure la

“capacità di applicazione reale” della conoscenza posseduta.

Alla fine degli anni Ottanta, in particolare negli Stati Uniti, si sviluppa una serie di critiche

riguardo

all’uso diffuso e persistente nella pratica di valutazione di prove standardizzate (grosso modo

quelle che noi chiamiamo “prove oggettive”). Tali critiche nascono nello stesso momento (o

poco prima) in cui in Inghilterra prende avvio la riflessione sulla valutazione per

l’apprendimento, un tipo di valutazione che, diversamente dalla valutazione

dell’apprendimento, mira a individuare le tappe necessarie per promuovere il progresso

dello studente, l’abilità degli studenti di risolvere problemi complessi, di pensare in modo

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creativo, di comunicare con efficacia e di impegnarsi in attività o lavori di collaborazione.

Mentre la valutazione dell’apprendimento (assessment “of” learning) “chiude” un processo di

apprendimento, controlla l’impegno la ricostruzione della conoscenza avvenuta nello

studente, ha a che fare con voti e graduatorie ed è più implicata in questioni di

rendicontazione pubblica, la valutazione per l’apprendimento (assessment “for” learning)

“apre e intende continuare” il processo di apprendimento verso un miglioramento ed è più

interessata a promuovere il successo di tutti gli studenti e a sostenere i processi che lo

rendono possibile.

Le caratteristiche della valutazione autentica

Una valutazione che voglia essere maggiormente “autentica” dovrebbe consentire di

esprimere un giudizio più approfondito dell’apprendimento, e cioè della capacità «di pensiero

critico, di soluzione dei problemi, di metacognizione, di efficienza nelle prove, di lavoro in

gruppo, di ragionamento e di apprendimento permanente» (Arter & Bond, 1996).

La prospettiva di una valutazione alternativa in sostituzione di quella di solito utilizzata

nella scuola è stata proposta da Wiggins (1993) e sta a indicare una valutazione che intende

verificare non solo ciò che uno studente sa, ma ciò che “sa fare con ciò che sa” in una

prestazione reale e adeguata dell’apprendimento.

Le teorie dell’apprendimento/insegnamento autentico, della cognizione situata, del

costruttivismo o del costruttivismo sociale dimostrano che gli studenti comprendono e

assimilano più in profondità quando hanno a che fare con situazioni reali rispetto a quanto

devono apprendere in situazioni decontestualizzate. In linea con il concetto di

apprendimento significativo proposto da queste prospettive, appare sostenibile l’idea di

connettere la valutazione dell’apprendimento a prestazioni creative, contestualizzate.

Parliamo, quindi, di valutazione autentica:

«quando ancoriamo il controllo al tipo di lavoro che persone concrete fanno piuttosto che solo

sollecitare risposte facili da calcolare con risposte semplici. La valutazione autentica è un vero

accertamento della prestazione perché da essa apprendiamo se gli studenti possono in modo

intelligente usare ciò che hanno appreso in situazioni che in modo considerevole li avvicinano a

situazioni di adulti e se possono ricreare nuove situazioni» (Wiggins, 1998).

Oppure, possiamo definire la valutazione autentica come: «la valutazione che ricorre

continuamente nel contesto di un ambiente di apprendimento significativo e riflette le

esperienze di apprendimento reale… L’enfasi è sulla riflessione, sulla comprensione e sulla

crescita, piuttosto che sulle risposte fondate solo sul ricordo di fatti isolati. L’intento della

“valutazione autentica” è quello di coinvolgere gli studenti in compiti che richiedono di applicare

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le conoscenze nelle esperienze del mondo reale. La “valutazione autentica” scoraggia le prove

“carta-e-penna” sconnesse dalle attività di insegnamento e di apprendimento che al momento

avvengono. Nella “valutazione autentica” c’è un intento personale, una ragione a impegnarsi, e

un ascolto vero al di là delle capacità/doti dell’insegnante» (Winograd & Perkins, 1996).

La valutazione autentica o alternativa si fonda, quindi, sulla convinzione che

l’apprendimento scolastico non si dimostra con l’accumulo di nozioni, ma con la capacità di

generalizzare, di trasferire e di utilizzare la conoscenza acquisita a contesti reali. È questo il

motivo per cui in tale tipo di valutazione le prove sono preparate in modo da richiedere agli

studenti di utilizzare processi di pensiero più complesso, più impegnativo e più elevato.

Verificando con maggiore autenticità l’apprendimento, si possono sollecitare negli studenti

livelli più elevati di prestazione e, più in generale, di preparazione, utili a un inserimento di

successo nella vita reale. Non avendo prioritariamente la funzione di classificare (assegnando

un voto o costruendo una graduatoria) o di selezionare, la valutazione autentica cerca di

promuovere e di sostenere il progresso di tutti gli studenti, dando a tutti l’opportunità di

compiere prestazioni di qualità. Ma essa offre anche agli insegnanti la possibilità di migliorare

la propria professionalità consentendo loro un continuo processo di autoriflessione e di

responsabilizzazione riguardo al processo di insegnamento.

La valutazione autentica sottolinea il valore principalmente educativo del processo della

valutazione, strumento per valutare il progresso e lo sviluppo dell’apprendimento. Essa serve

a controllare costantemente il progresso dello studente al fine di adattare meglio l’istruzione.

PROGETTAZIONE A RITROSO

Nell’accezione proposta da Baldacci, il Progetto didattico si presenta, quindi, come l’approccio

progettuale più aderente alla prospettiva delle competenze. In realtà nel lessico scolastico

sono impiegate diverse espressioni per designare una modalità di progettazione che richiama

le caratteristiche del progetto didattico: tra le più diffuse figurano Unità di apprendimento,

Unità di lavoro formativo, Progetti formativi, ecc. Non essendo particolarmente interessati alle

dispute lessicali, preferiamo tentare di definire alcuni attributi che qualificano una modalità di

progettazione per competenze, aldilà del termine che utilizziamo per designare i suoi

prodotti. Il primo di essi riguarda una prospettiva di progettazione a ritroso (Wiggins - Mc

Tighe, 1998), ovvero una schema progettuale che muova dalla risposta a due interrogativi.

• Qual è il profilo di competenza che voglio contribuire a sviluppare con il mio percorso?

• In termini operativi, quale prova di competenza mi aspetto che i miei allievi possano

affrontare a conclusione del percorso?

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Si tratta, come si vede, di anteporre alcune questioni tipicamente valutative alla

strutturazione del percorso progettuale, allo scopo di poterlo traguardare in relazione a

un’idea di competenza definita e articolata. Ciò implica l’esigenza di scegliere un traguardo di

competenza focale, su cui centrare l’attenzione del percorso, pur richiamando altre

competenze correlate; sebbene possa apparire una semplificazione in rapporto alla

complessità di un percorso formativo e alle intersezioni esistenti tra i vari ambiti di

competenza, l’orientare il focus sul singolo traguardo di competenza consente di dotarsi di

una bussola utile a orientare l’intero percorso.

Una volta selezionata la competenza si tratta di analizzarla attraverso l’identificazione delle

dimensioni prevalenti che concorrono alla sua manifestazione; analizzare una competenza

significa, quindi, ricostruire il processo soggiacente alla prestazione del soggetto, allo scopo di

individuare le risorse chiave che devono essere mobilitate per sviluppare la prestazione

richiesta. Uno schema utile a guidare il processo di analisi rappresenta la competenza come

un insieme di cerchi concentrici tra loro interdipendenti: un primo cerchio ci richiama le

risorse cognitive, ovvero le conoscenze e le abilità necessarie per affrontare un dato

compito; un secondo cerchio riguarda il saper agire, ovvero la capacità di mobilitare le

proprie risorse nell’affrontare il compito proposto, e mette in gioco l’attivazione dei processi

logico-cognitivi di base e complessi; un terzo cerchio concerne il poter agire, ovvero la

sensibilità alle risorse e ai vincoli che il contesto operativo pone; un quarto cerchio si riferisce

al voler agire, ovvero all’atteggiamento con cui il soggetto si pone di fronte al lavoro

proposto, in riferimento al compito da affrontare, al contesto d’azione, a se stesso, agli altri

soggetti coinvolti.

L’insieme della figura ci restituisce la competenza intesa come capacità di affrontare un

compito di realtà mobilitando le proprie risorse in modo pertinente alle condizioni del

contesto in cui si opera. Un significato molto vicino a quello contenuto nella

Raccomandazione del Parlamento e del Consiglio Europeo sul Quadro europeo delle Qualifiche

e dei Titoli per l’apprendimento permanente (23 aprile 2008): «La comprovata capacità di

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usare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di

lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e/o personale».

In termini operativi la messa a fuoco della competenza si realizza attraverso la

rappresentazione delle dimensioni implicate nel processo in una mappa concettuale e la

successiva elaborazione di una rubrica valutativa, che consenta di descrivere diversi livelli di

padronanza in rapporto alle dimensioni previste nella mappa. Si tratta inoltre di ipotizzare

una prova di competenza a conclusione del percorso, ovvero la sollecitazione di una

prestazione con la quale si ritiene di poter apprezzare la competenza maturata dal soggetto.

Come si vede, l’espressione “a ritroso” richiama l’andamento del percorso progettuale

proposto: si parte da alcune domande tipicamente valutative, che sollecitano ad analizzare la

competenza che s’intende promuovere, per poi andare a strutturare il percorso formativo,

secondo alcuni passaggi fondanti che riprenderemo nei prossimi contributi.

VERSO UN APPRENDIMENTO CSSC

La didattica per competenze sollecita la creazione di ambienti di apprendimento: attivi, in cui

costruire la conoscenza; situati, attraverso compiti significativi; riflessivi, per promuovere

l’autoregolazione; collaborativi, in un’esperienza sociale.

Negli ultimi decenni si è progressivamente affermato un paradigma di apprendimento da

assumere come riferimento fondante su cui strutturare una didattica per competenze. Tale

paradigma nasce nel solco dell’approccio cognitivista, il quale aveva già spostato il baricentro

sui processi interni al soggetto piuttosto che sui comportamenti manifesti, e fa tesoro del

patrimonio di ricerca e di elaborazione culturale maturato su questo terreno in chiave socio-

costruttivista. Prendendo a prestito l’espressione affermatasi in campo internazionale

possiamo sintetizzare tale paradigma con l’espressione CSSC learning, per sintetizzare i

caratteri che lo contraddistinguono: costruttivo (constructive), autoregolato (self-regulated),

situato (situated) e collaborativo (collaborative).

1. L’attributo che più di altri lo contraddistingue è quello di costruttivo, a denotare un

processo di apprendimento inteso come ri-costruzione di quanto il soggetto già conosce,

rielaborazione degli schemi mentali e delle conoscenze pregresse. In ciò l’approccio

costruttivista si qualifica per un superamento definitivo dell’antinomia soggetto/oggetto

che ha da sempre contraddistinto la ricerca sull’apprendimento, nell’opposizione tra

visioni oggettiviste – centrate sulla realtà esterna, in base a una concezione

dell’apprendimento come adeguamento del soggetto a essa – e visioni soggettiviste –

centrate sulla realtà interna, in base a una concezione dell’apprendimento come

evoluzione delle strutture mentali del soggetto.

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Con il costruttivismo si afferma definitivamente la natura relazionale della conoscenza, come

interazione dialettica tra il soggetto che conosce e l’oggetto della conoscenza, e il suo carattere

dinamico, di progressiva evoluzione generata dalla dialettica indicata. Il concetto di

“cambiamento concettuale” ben esprime queste caratteristiche, a partire dal principio – già

presente in Piaget, Ausubel e nel cognitivismo più recente – che la dinamica di apprendimento

si caratterizza per una progressiva sintonizzazione tra i modelli mentali del soggetto e i

contenuti della conoscenza, tra la struttura psicologica del soggetto e la struttura logica della

conoscenza: l’apprendimento è un dare senso al mondo, integrando e sintetizzando le nuove

esperienze.

2. Ciò evidenzia un secondo attributo dell’apprendimento CSSC, ovvero il carattere auto-

regolato, che sottolinea il ruolo attivo del soggetto nel gestire il processo di costruzione

della conoscenza, anche in relazione con i bisogni del contesto di vita. I processi

d’indirizzo, gestione e monitoraggio d’acquisizione della conoscenza divengono cruciali

per l’efficacia dell’apprendimento, sottolineando la funzione chiave del livello meta-

cognitivo nel dirigere il proprio percorso apprenditivo, non solo in relazione alle

dimensioni cognitive dell’apprendere, ma anche a quelle affettive e volitive.

3. Un terzo attributo riguarda il suo carattere situato, ovvero il suo ancoraggio al contesto

e al contenuto specifico delle attività che lo genera. All’origine di tale sviluppo troviamo

il contributo di uno studioso russo, Leont’ev, in riferimento al ruolo giocato dall’azione –

oltre che dal linguaggio – nello sviluppo di abilità complesse; la stessa prospettiva

lewiniana della ricerca/azione rafforza la natura situata della conoscenza

nell’evidenziare come la dinamica dei processi sociali derivi sempre dalle relazioni che si

stabiliscono tra il soggetto e il contesto sociale entro cui agisce. Nella stessa direzione si

orienta il contributo della psicologia culturale bruneriana, attenta a mettere in evidenza

il ruolo che i sistemi simbolico-culturali giocano nello sviluppo della conoscenza

individuale, sulla base di una dinamica evolutiva tra pensiero individuale e contesto

socio-culturale.

4. Un ultimo attributo che connota il paradigma di apprendimento è quello

di collaborativo, a denotare il ruolo fondamentale che il contesto relazionale e culturale

gioca nel processo di costruzione della conoscenza del soggetto. A partire dai contributi

pionieristici di Vygotskij sul pensiero come dialogo interiorizzato e il conseguente valore

dei processi interpersonali e intrapersonali nello sviluppo del soggetto, si è

progressivamente messo a fuoco il ruolo cruciale dell’interazione sociale e dei modelli

culturali entro cui si sviluppa la costruzione dell’apprendimento. I processi di pensiero

vengono considerati il risultato delle interazioni personali in contesti sociali (piano

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interpsicologico) e dell’appropriazione della conoscenza costruita socialmente (piano

intrapsicologico).

OLTRE LA METODOLOGIA: SETTING ORGANIZZATIVO E CLIMA RELAZIONALE

Accanto alle scelte metodologiche ci sono altre dimensioni dell’azione didattica che ne

influenzano la qualità in rapporto allo sviluppo di apprendimento in chiave socio-

costruttivista. Analizzando il triangolo didattico possiamo infatti individuare alcune

dimensioni dell’insegnamento, ovvero alcuni punti di vista privilegiati da cui osservare

l’evento didattico.

La prima dimensione è quella metodologico-didattica, di cui abbiamo parlato nel

contributo precedente, attenta alle modalità di trasmissione del patrimonio culturale da

parte dell’insegnante, al modo in cui viene gestita la mediazione tra i soggetti che apprendono

e i contenuti culturali oggetto dell’insegnamento: quali metodologie utilizza l’insegnante?

quali strategie didattiche attiva? quali strumenti o materiali? quali azioni di consolidamento o

recupero mette in atto? Sono tutte domande che tendono ad osservare l’insegnamento come

evento metodologico, spazio di relazione tra soggetti ed oggetti culturali. In questa

prospettiva le diverse metodologie (lezione, apprendimento cooperativo, didattica per

problemi, etc.) divengono dispositivi attraverso cui l’insegnante mira a connettere

determinati allievi – con le loro esperienze, le loro preconoscenze, i loro stili di

apprendimento, etc. – con determinati contenuti culturali – ciascuno caratterizzato da una

propria struttura logica e metodologica -.

La seconda dimensione è quella relazionale-comunicativa, attenta alla dinamica

relazionale che si viene a determinare tra l’insegnante e gli allievi e alle modalità di gestione

di tale dinamica: quale stile di conduzione ha l’insegnante? quale clima relazionale tende ad

instaurare in classe? come valorizza il gruppo e l’apporto dei singoli? attraverso quali

modalità gestisce la comunicazione verbale? e quella non verbale? Sono tutte domande che

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tendono ad osservare l’insegnamento come evento comunicativo, spazio relazionale tra un

insieme di soggetti.

Si tratta di una relazione asimmetrica, in quanto strutturata su ruoli ascritti (quello di

insegnante e quello di allievo) differenti per età, status sociale, livello d’esperienza,

patrimonio culturale, etc. e, di conseguenza, fondata su una distribuzione diseguale del potere,

con l’insegnante in posizione “up” e l’allievo in posizione “down”. La qualità della relazione

didattica, pertanto, non si gioca tanto nel renderla simmetrica, in quanto snaturerebbe le sue

caratteristiche strutturali, quanto nel grado di flessibilità con cui viene gestita l’interazione di

tipo asimmetrico, o complementare, tra insegnante e allievo. Ciò che cambia tra le due

situazioni è la maggiore o minore rigidità con cui viene gestita la relazione da parte

dell’insegnante, in quanto soggetto a cui è ascritto il governo dell’interazione. Una relazione

flessibile implica, ad esempio, situazioni in cui si possa trascendere la complementarietà e

superare dinamiche relazionali stereotipate (ad esempio condividendo esperienze che

oltrepassano la relazione insegnante-allievo tipica della dinamica d’aula), possibilità di variare

i setting relazionali entro cui sviluppare la comunicazione didattica (attività di laboratorio,

situazioni extrascolastiche, confronto aperto, etc.), occasioni di sviluppo di una responsabilità

condivisa nella gestione della relazione attraverso un potenziamento dell’autonomia

dell’allievo, forme di valorizzazione dell’allievo e di considerazione del suo punto di vista. La

qualità della relazione comunicativa tra insegnante e allievo si misura, quindi, in rapporto al

grado di flessibilità con cui l’insegnante gestisce la dinamica di interazione strutturalmente

asimmetrica con i propri allievi.

La terza dimensione è quella organizzativa, attenta alla predisposizione del setting

formativo entro cui agire l’azione didattica: come è strutturata l’aula? i materiali sono

accessibili agli allievi? come viene gestito il tempo? in base a quali regole viene condotta

l’attività scolastica? Sono tutte domande che tendono ad osservare l’insegnamento come

evento organizzativo, in quanto contesto specificamente dedicato all’apprendimento. Il setting

formativo (curricolo implicito) è costituito dall’insieme delle variabili che definiscono il

contesto entro cui si svolge la relazione formativa. Tra i più significativi possiamo ricordare:

• lo spazio, come contenitore fisico e materiale entro cui si realizza l’insegnamento.

Entrando in una classe, il modo in cui è organizzato lo spazio, la disposizione dei

banchi, l’uso delle pareti, la posizione della cattedra sono elementi che ci veicolano

immediatamente un certo modo di pensare l’insegnamento e una determinata cultura

didattica; si tratta quindi di elementi che condizionano l’azione didattica e la stessa

relazione educativa che si esercita in quel determinato spazio;

• il tempo, come struttura temporale entro cui viene agita l’azione di insegnamento. La

suddivisione della giornata in ore o in periodi temporali più distesi, la distribuzione del

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lavoro didattico nell’arco della giornata, l’alternanza delle diverse attività,

l’organizzazione dell’orario settimanale sono tutti elementi che influenzano le modalità

del lavoro didattico e che veicolano significati educativi ai diversi attori coinvolti nella

relazione formativa;

• le regole, come insieme di norme implicite ed esplicite che regolamentano la vita della

classe e lo svolgimento dell’azione didattica. Come ogni gruppo sociale anche la classe

deve darsi un sistema di regole per il suo funzionamento, molte sono determinate

dall’organizzazione scolastica più complessiva (e richiamano, quindi, il meso-contesto),

altre sono definite nell’aula e riguardano le modalità di relazione, l’uso dello spazio e

dei materiali, le modalità di spostamento e i movimenti, i ruoli e i compiti, etc.;

• gli attori, come insieme dei soggetti coinvolti nella relazione didattica. Quella che

abbiamo finora chiamato relazione docente-allievi può assumere diverse fisionomie sia

in relazione al ruolo docente (presenza di uno o più docenti, presenza di insegnante di

sostegno, facilitatore o altro), sia in relazione agli allievi (attività individuale,

raggruppamento in piccoli gruppi, gestione del gruppo intero, etc.), sia in relazione ad

altre figure presenti (genitori, esperti, personale non docente, etc.);

• i canali comunicativi, come medium attraverso cui avviene la relazione didattica.

Rimanendo in una situazione formativa in presenza, escludendo quindi forme di

interazione a distanza, possiamo riconoscere forme di interazione giocate

esclusivamente sull’uso del codice orale oppure l’integrazione dell’interazione orale

con il codice scritto (cartelloni, parole chiave, …), con il codice visivo (immagini, slide,

filmati, …), con altri codici (musicale, gestuale, …).

La modalità di gestione dei fattori indicati, infatti, incide fortemente sui significati

dell’esperienza formativa e sulle valenze emotive ed affettive che tale esperienza

assume per i diversi attori; pensiamo a quanto sia differente lavorare in un’aula con i

banchi separati e disposti in file, piuttosto che a ferro di cavallo o disposti a piccoli

gruppi…

CRITICHE ALLA VALUTAZIONE TRADIZIONALE

Il costrutto della competenza comporta un processo di radicale revisione della valutazione

degli apprendimenti in ambito scolastico, evidente a partire dai primi anni Ottanta nei paesi di

lingua inglese attraverso lo sviluppo di molteplici prospettive valutative, accomunate da una

critica profonda alle modalità valutative tradizionalmente impiegate nei contesti scolastici,

con particolare attenzione all’uso inflazionato di test e prove strutturate.

Le modalità valutative tradizionali si limitano ad accertare i processi cognitivi più semplici ed

elementari, in quanto congruenti con le caratteristiche delle prove strutturate, mentre non

sono in grado di apprezzare abilità più complesse quali i processi di analisi e sintesi, la

riflessione critica, soluzioni creative e originali a problemi aperti, etc. Ciò determina uno

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schiacciamento del processo formativo su un sapere di tipo riproduttivo, a scapito di modalità

elaborative e strategiche, in una sorta di circolo vizioso tra percorsi valutativi ed insegnativi.

Inoltre, il sapere scolastico tende a rimanere «inerte», in quanto incapsulato nel contesto

scuola e incapace di connettersi a situazioni di realtà, con conseguenti riflessi sulla

significatività dell’esperienza scolastica e la motivazione degli studenti nei suoi confronti. Tale

incapsulamento si ripercuote anche sulla valutazione, la quale tende a basarsi su compiti

astratti e decontestualizzati, incapaci di agganciarsi a contesti reali e significativi e

comprensibili solo nel contesto della cultura scolastica.

La valutazione tradizionale impiega quasi esclusivamente prove individuali, in sintonia con un

analogo approccio al processo di apprendimento centrato sul rapporto «privato» tra lo

studente e il sapere. Viene attribuito scarso rilievo a prove di gruppo, richiedenti

un’elaborazione e uno sforzo collettivo, e ai correlati processi di comunicazione sociale, di

confronto culturale e di collaborazione, particolarmente cruciali nei contesti professionali e

nelle situazioni reali. Un’altra sua caratteristica è di rimanere implicita nei suoi criteri e di

basare la sua credibilità sulla segretezza delle prove richieste e l’assenza di opportunità di

comunicare con altri o di avvalersi di strumenti di consultazione e di supporto (testi, appunti,

sussidi).

Ciò evidenzia come, aldilà delle affermazioni di principio e delle dichiarazioni di intenti, la

funzione prevalente della valutazione scolastica rimanga quella di classificare gli studenti in

rapporto alla qualità delle loro prestazioni e in particolare in alcuni ordini di scuola a

selezionarli attraverso il successo scolastico. Ciò tende a perpetuare una netta separazione tra

momento formativo e valutativo, impedendo a quest’ultimo di sviluppare la sua funzione

promozionale e orientativa in rapporto al processo di apprendimento. Un’altra separazione

tipica della valutazione tradizionale è quella tra i ruoli di valutatore e di valutato, relegando lo

studente a una funzione passiva di mero oggetto del processo valutativo. Ciò determina una

deresponsabilizzazione da parte dello studente nei confronti della sua valutazione, avvertita

come estranea e minacciosa, evidente nel fiorire di strategie di sopravvivenza tipiche della

cultura scolastica (copiare, aggirare gli ostacoli, «fregare» l’insegnante, etc.). Le critiche mosse

alla valutazione tradizionale e in particolare alla pratica del testing costituiscono il retroterra

da cui muovono i contributi orientati a delineare una nuova idea di valutazione, in una

prospettiva valutativa più autentica e dinamica. Le due proprietà essenziali della valutazione

educativa divengono l’ancoramento a compiti autentici e significativi e l’opportunità di feed-

back immediati per studenti ed insegnanti. Da qui un diverso rapporto tra il processo

formativo e valutativo, che divengono momenti intrecciati e in continuo dialogo tra loro, e una

distribuzione della responsabilità valutativa tra i diversi attori del processo formativo.

Si possono riconoscere un insieme di parole chiave che connotano la nuova filosofia

valutativa e ne marcano inequivocabilmente la distanza con le pratiche valutative

tradizionali.

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1. Innanzi tutto la significatività delle prestazioni richieste in rapporto ai traguardi di

apprendimento che qualificano il curriculum scolastico e la formazione delle nuove

generazioni, in contrasto con la valenza quasi esclusivamente riproduttiva che

caratterizza le prestazioni richieste dalla valutazione tradizionale.

2. In secondo luogo l’autenticità dei compiti valutativi in rapporto ai contesti e ai

problemi posti dal mondo reale, in contrasto con il carattere astratto e artificioso delle

attività proposte dalla valutazione tradizionale.

3. In terzo luogo la processualità della valutazione nel cogliere il nesso inestricabile tra

la prestazione (esito) e la modalità che l’ha generata (processo), in contrasto con

l’esclusiva attenzione al prodotto di apprendimento tipico della valutazione

tradizionale.

4. In quarto luogo la responsabilità affidata allo studente nella conduzione del processo

valutativo, attraverso il suo coinvolgimento nelle diverse fasi valutative e

l’incoraggiamento di forme autovalutative, in contrasto con la natura

deresponsabilizzante della valutazione tradizionale.

5. In quinto luogo la promozionalità dell’azione valutativa in rapporto allo sviluppo del

processo formativo e al conseguimento dei suoi risultati, in contrasto con il valore

classificatorio e selettivo della valutazione tradizionale.

6. In sesto luogo la ricorsività tra momento formativo e valutativo, per la quale il

secondo diventa parte integrante e «strumento d’intelligenza del primo», in contrasto

con la tradizionale separazione presente nella valutazione tradizionale.

7. In settimo luogo la dinamicità della valutazione, pensata come processo di

accompagnamento attento al riconoscimento e alla valorizzazione del potenziale di

sviluppo dello studente, in contrasto con il carattere statico della valutazione

tradizionale.

8. In ottavo luogo la globalità del momento valutativo, attento all’integrazione tra le

diverse dimensioni del processo di sviluppo (cognitive, sociali, emotive, conative), in

contrasto con la natura analitica e riduzionistica della valutazione tradizionale.

9. Infine, la multidimensionalità del processo valutativo, come combinazione di

molteplici fonti di dati e prospettive di lettura dell’evento formativo, in contrasto con il

carattere monodimensionale della valutazione tradizionale.

Da tali parole chiave si possono sintetizzare le sfide più suggestive poste ai significati e alle

pratiche valutative in ambito scolastico:

• puntare a compiti valutativi più autentici, ovvero capaci non solo di accertare il

possesso di conoscenze e abilità da parte degli studenti, ma anche la loro capacità di

usare tale sapere per affrontare situazioni poste dal loro contesto di realtà;

• promuovere una maggior responsabilizzazione dello studente nel processo

valutativo, riconoscendogli un ruolo attivo di soggetto della valutazione non solo di

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oggetto e aiutandolo a riconoscere i significati e le potenzialità formative insite nel

valutare;

• integrare la valutazione del prodotto della formazione, la parte emersa dell’iceberg,

con quella del processo formativo, la parte sommersa dell’iceberg, il «che cosa si

apprende» con il «come si apprende», in modo da recuperare la globalità e la

complessità dell’esperienza di apprendimento;

• oltrepassare i confini disciplinari della valutazione, prestando attenzione e

valorizzando le dimensioni trasversali dell’apprendimento, evidenziate attraverso la

messa a fuoco delle competenze chiave proposta nel secondo capitolo;

• riconoscere e sviluppare la valenza metacognitiva sottesa al processo valutativo, in

quanto opportunità di consapevolezza del proprio apprendere e di presa di coscienza

dei propri limiti e delle proprie potenzialità.

REPERTORIO DI STRUMENTI VALUTATIVI

Le tre prospettive di analisi indicate richiedono strumentazioni differenti, da integrare e

comporre in un disegno valutativo plurimo e articolato: ciascuna di esse, in rapporto alla

propria specificità, può servirsi di dispositivi differenti per poter essere rilevata e compresa.

Lo schema proposto sintetizza un repertorio possibile di strumenti e materiali valutativi che

possono essere messi in gioco; ovviamente nelle specifiche situazioni si tratterà di selezionare

quali strumenti effettivamente impiegare, nel sostanziale rispetto del principio di

triangolazione sotteso, in rapporto alle diverse prospettive di analisi proposte.

Riguardo alla dimensione soggettiva ci si può riferire a forme di autovalutazione, attraverso

cui coinvolgere il soggetto nella ricostruzione della propria esperienza di apprendimento e

nell’accertamento della propria competenza: strumenti quali i diari di bordo, le autobiografie,

i questionari di autopercezione, i giudizi più o meno strutturati sulle proprie prestazioni e

sulla loro adeguatezza in rapporto ai compiti richiesti sono tra le forme autovalutative più

diffuse e accreditate, anche in ambito scolastico. Si tratta di dispositivi finalizzati a raccogliere

e documentare il punto di vista del soggetto sulla propria esperienza d’apprendimento e su

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risultati raggiunti, anche come opportunità per rielaborare il proprio percorso apprenditivo e

per accrescere la propria consapevolezza su di esso e su di sé. Qualsiasi stimolo o materiale

che aiuti a rispondere alla domanda «come mi vedo in rapporto alla competenza che mi viene

richiesta?» si colloca nella prospettiva autovalutativa che caratterizza questo primo punto di

osservazione.

Riguardo alla dimensione intersoggettiva ci si può riferire a modalità di osservazione e

valutazione delle prestazioni del soggetto da parte degli altri soggetti implicati nel processo

formativo: gli insegnanti, in primis, gli altri allievi, i genitori, altre figure che interagiscono con

il soggetto in formazione e hanno l’opportunità di osservarlo in azione. In merito agli

strumenti, questi possono spaziare da protocolli di osservazione - strutturati e non strutturati

- a questionari o interviste intesi a rilevare le percezioni dei diversi soggetti, da note e

commenti valutativi a forme di codificazione dei comportamenti osservati nel soggetto in

formazione. Si tratta di dispositivi rivolti agli altri attori coinvolti nell’esperienza di

apprendimento - docenti, genitori, gruppo dei pari, interlocutori esterni - e orientati a

registrare le loro aspettative verso la competenza del soggetto e le relative osservazioni e

giudizi sui processi attivati e i risultati raggiunti. Qualsiasi stimolo o materiale che aiuti a

rispondere alla domanda «come viene visto l’esercizio della competenza del soggetto da parte

degli altri attori che interagiscono con lui?» si colloca nella prospettiva eterovalutativa che

caratterizza questo secondo punto di osservazione.

Riguardo alla dimensione oggettiva ci si può riferire a strumenti di analisi delle prestazioni

dell’individuo in rapporto allo svolgimento di compiti operativi: prove di verifica, più o meno

strutturate, compiti di realtà richiesti al soggetto, realizzazione di manufatti o prodotti assunti

come espressione di competenza, selezione di lavori svolti nell’arco di un determinato

processo formativo rappresentano esempi di strumentazioni utilizzabili. Si tratta di dispositivi

orientati a documentare l’esperienza di apprendimento, sia nelle sue dimensioni processuali,

attente a come il soggetto ha sviluppato la sua competenza, sia nelle sue dimensioni

prestazionali, attente a che cosa il soggetto ha appreso e al grado di padronanza raggiunto

nell’affrontare determinati compiti. Qualsiasi stimolo o materiale che aiuti a rispondere alla

domanda «di quali evidenze osservabili dispongo per documentare la competenza del

soggetto in formazione» si colloca nella prospettiva empirica che caratterizza questo terzo

punto di osservazione.

Al centro delle tre dimensioni, in rapporto all’idea di competenza intorno a cui ruotano i

diversi strumenti e punti di vista, si pone la rubrica valutativa, come dispositivo attraverso il

quale viene esplicitato il significato attribuito alla competenza oggetto di osservazione e

precisati i livelli di padronanza attesi in rapporto a quel particolare soggetto o insieme di

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soggetti. La rubrica costituisce il punto di riferimento comune ai diversi materiali a cui si è

fatto cenno in rapporto alle tre dimensioni di analisi e assicura unitarietà e coerenza all’intero

impianto di valutazione. Ciascuno degli strumenti richiamati in precedenza rappresenta

idealmente una declinazione operativa, pensata in rapporto a uno specifico soggetto e a un

determinato punto di osservazione, dell’idea di competenza condensata nella rubrica

valutativa; come abbiamo già ricordato solo questa condizione giustifica e legittima l’impianto

plurale di valutazione proposto.

VALUTAZIONE PER L’APPRENDIMENTO

Negli ultimi anni si è assistito a un profondo ripensamento delle modalità della valutazione

didattica, che si è riflesso sia nelle tecniche e negli strumenti valutativi, sia nella «filosofia»

con cui pensare il momento della valutazione e le sue relazioni con il processo di

insegnamento/apprendimento.

Un’espressione che sintetizza efficacemente tali cambiamenti è quella di «valutazione per

l’apprendimento», coniata nell’ambito di un gruppo di lavoro sulla riforma della valutazione

nel Regno Unito in opposizione alla locuzione «valutazione dell’apprendimento»: se con

quest’ultima si assegna al momento valutativo la funzione di accertare e certificare

socialmente gli esiti di apprendimento conseguiti dall’allievo nella sua esperienza scolastica,

con la prima si assume la valutazione come risorsa formativa utile a orientare e promuovere

il processo di apprendimento.

P. Black e D. Wiliam intendono con valutazione per l’apprendimento «tutte quelle attività

intraprese dagli insegnanti e/o dagli allievi che forniscono informazioni da utilizzare come

feedback per modificare le attività di insegnamento/apprendimento in cui sono impegnati»

(Valutazione per l’apprendimento: oltre la scatola nera, 1999). Il loro valore si fonda su alcune

premesse in rapporto al processo di apprendimento, che risulta più efficace se gli alunni:

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• comprendono con chiarezza che cosa ci si aspetta da loro;

• ricevono un feedback sulla qualità del proprio lavoro;

• ricevono consigli su come procedere per raggiungere i traguardi condivisi;

• sono coinvolti nell’esperienza di apprendimento, in un clima di fiducia e di supporto.

Da qui alcuni orientamenti che qualificano l’impiego della valutazione in chiave formativa, o

formante come propongono alcuni autori:

• la condivisione dei criteri valutativi da parte di insegnanti, genitori, allievi;

• l’opportunità di discutere sulla propria esperienza di apprendimento con l’insegnante

e con i pari;

• un feedback costante sui propri processi ed esiti di apprendimento;

• la promozione di strategie autovalutative e di valutazione tra pari;

• l’impiego di un’ampia gamma di prove e strumenti di osservazione e registrazione dei

propri progressi;

• modalità e strumenti per una documentazione ragionata dei processi di

apprendimento;

• verifiche personalizzate in funzione dei percorsi e delle esigenze individuali;

• il coinvolgimento dei genitori nel processo di apprendimento e nella sua valutazione.

• Il principio di fondo sotteso alla valutazione per l’apprendimento richiama il valore dei

processi metacognitivi come strumenti di consapevolezza e controllo del proprio

apprendimento; in tale prospettiva la valutazione diviene una formidabile opportunità

per sollecitare e potenziare l’attività metacognitiva, per «apprendere ad apprendere».

Si tratta di un vero e proprio ripensamento del ruolo e dei significati del momento valutativo,

che inevitabilmente si riflette anche sui modi di pensare l’apprendimento e l’insegnamento, in

quanto i tre momenti non possono essere separati e disgiunti. Ripensamento particolarmente

significativo nel caso di allievi con disabilità o difficoltà di apprendimento, per i quali il

momento della valutazione diviene ancor più problematico e potenzialmente fecondo.

<<INSEGNAMENTO E APPRENDERE PER COMPETENZE: DUE LOGICHE DI INSEGNAMENTO A CONFRONTO>>

IL MURO IL PONTE La conoscenza come prodotto predefinito, materia inerte

La conoscenza come processo elaborativo, materia viva

La conoscenza viene frammentata in parti per facilitare l’assimilazione

La conoscenza viene vista nelle sue reciproche relazioni

Lo studente riproduce la conoscenza Lo studente produce la conoscenza Organizzato intorno a contenuti Organizzato intorno a problemi Strutturato e uniforme Differenziato e regolato sulla persona

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Prevede un percorso lineare insegnante-conoscenza-studente

Prevede un percorso ricorsivo insegnante-conoscenza-studente

Centralità dell’insegnamento (teaching centered), dell’insegnante, didattica trasmissiva, scuola della conoscenza

Centralità dell’apprendimento (learning centered), centralità dello studente, didattica per competenze

Usa il libro come strumento principe Usa fonti e materiali diversi Procede in modo individualistico Procede in modo cooperativo