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I supplemento al numero 4 - Anno II - aprile 2010 di Piazza del Grano Da oltre 60 anni abbiamo la fortuna di non conoscere il dramma della guerra. Sono oramai sempre più numerose le generazioni nate e cresciute in tempo di pace e sempre meno sono coloro che ancora conser- vano ricordi di quei periodi tremendi in gran parte vis- suti da bambini. Eppure il mondo è pieno di guerre, alcune violentissi- me e vastissime per le di- mensioni delle aree coin- volte, altre striscianti ma costanti e sempre pronte a riaccendersi. Meno di due decenni fa una guerra violentissima, carat- terizzata da cuspidi di fero- cia inaudita, ha lambito le nostre frontiere devastan- do nazioni che avevano raggiunto livelli di sviluppo economico, sociale e cultu- rale che mai avremmo im- maginato di veder precipi- tare in quegli abissi. Abbiamo la fortuna di non conoscere direttamente la guerra e non ci si può che augurare che questa fortu- na duri per sempre. Questa fortuna, questa non conoscenza diretta, tutta- via, apre a un grande ri- schio, quello della non con- sapevolezza di cosa sia, re- almente e concretamente, una guerra. Nella nostra cultura, o forse è meglio dire nell’odierna sub-cultura mediatica, la guerra è piano piano dive- nuta un video game, ha per- so la sua dimensione uma- na per diventare una eserci- tazione spettacolare o per- sino ludica. La fantaguerra di Rambo è divenuta uguale alla reale- guerra dell’Iraq, le bombe esplodono e distruggono villaggi e città, mutilano persone, uccidono esseri umani tanto nella prima fantaguerra come nella se- conda realeguerra, solo che nella seconda gli attori, cioè le vittime, alla fine del gio- co non si rialzano, le case non sono di cartone, il san- gue è vero. Tutto ciò non è casuale. Nelle nostre televisioni i re- portage di guerra si alterna- no “tranquillamente” ai film di guerra, i Rambo si scam- biano con i marines veri e propri di Falluja o di Kanda- ar, proliferano le rievoca- zioni delle così dette “gran- di battaglie” che, dicono, hanno determinato il corso della storia e così si simula- no, come nel gioco del risi- ko, esiti diversi come se alla fine di una partita conclu- sasi con un certo esito si potessero restituire a cia- scun giocatore le proprie pedine e dare avvio ad una seconda manche. Per chi ricorda i due primi decenni dell’ultimo dopo guerra, quando ancora la seconda guerra mondiale era argomento “tabù” e nel- le nostre scuole i libri di storia si fermavano alla Pri- ma guerra mondiale, quella “Grande”, quella vinta dal- l’Italia, di quella prima grande carneficina mondia- le si ricordavano gli eroi im- molati sui fili spinati delle trincee e il Piave in piena che “fermava lo straniero”. Nulla ci insegnavano della povertà assoluta del sud del nostro paese, aggravata dall’arruolamento coattivo dei suoi giovani più forti strappati ai campi e alle fa- miglie per essere spediti a farsi massacrare nelle steri- li pietraie del Carso. Oggi anche la Seconda guerra mondiale è entrata tra gli argomenti “discutibi- li”, ma in che modo? Onorando i morti. Tutti i morti, semplicemente per- ché sono morti. Ma perché sono morti, per quale ragione, per quale causa e per quale obiettivo, non ha importanza, anzi non deve avere importanza perché: i morti sono tutti uguali e vanno tutti rispet- tati e onorati. Ebbene non c’è nessun ono- re a essere morti. Non c’è nessun onore a es- sere ammazzati o ad am- mazzare. Non c’è nessun onore nella guerra, anche in una guerra così detta “giusta”. La guerra è una attività be- stiale. Chi combatte una guerra, e prima ancora chi la invoca, chi la provoca, chi la guida, ha già rinunziato alla sua dignità umana, è divenuto o è costretto a diventare una bestia. E’ vero, non tutti i morti so- no uguali, ma non perché si muoia in maniera diversa, la morte è sempre la stessa per tutti, ciò che differenzia i morti, ciò che dà un senso a ricordarli e celebrarli, so- no le ragioni per cui sono morti e le ragioni valgono per tutti, sia per quelli che sono morti sapendo il per- ché, sia per quelli che non hanno nemmeno potuto ca- pire perché questo stava accadendo. Solo capendo le ragioni del- le morti, le diverse ragioni delle morti, si può immagi- nare di costruire un futuro in cui queste morti non si debbano più ripetere. Non sarà un’arma, una trincea, uno scudo, anche se spaziale, a impedire il ripetersi delle guerre se le cause che le hanno provo- cate e che possono sempre nuovamente provocarle non vengono indagate, comprese, rimosse o alme- no instancabilmente com- battute. Ma per arrivare alla consa- pevolezza della necessità di questa indagine e di que- sta battaglia politica e cul- turale occorre non dimenti- care cosa significa vera- mente una guerra. E questo è il senso e lo scopo di questo inserto: provare a parlare di cosa sia veramente una guerra, ricordando cosa è accadu- to a Leningrado dove la vi- ta, la vittima predestinata della guerra, ha vinto il suo carnefice. LENINGRADO Il 21 giugno 1941 i nazisti tedeschi, appoggiati dai fa- scisti italiani e rumeni, lan- ciarono l’ Operazione Barba- rossa invadendo l’Unione Sovietica. La superiorità della macchi- na bellica tedesca travolse letteralmente in pochissimi giorni il pur numeroso, ma male attrezzato e imprepa- rato, esercito sovietico. Gli alleati italo-tedeschi ar- rivarono con straordinaria rapidità alle porte di Mosca e si profilò il collasso del- l’Unione Sovietica. Ma è proprio davanti a Mo- sca che i sovietici resistet- tero, vinsero la prima batta- glia e trasformarono una guerra così detta di “movi- mento” in una guerra quasi di “trincea”. Il tempo darà loro ragione e la feroce macchina da guer- ra tedesca consumerà pia- no piano le proprie energie, bloccata sulla via dei giaci- menti petroliferi del Cauca- so dalla resistenza di Stalin- grado, sino a collassare ed essere a sua volta travolta dalla controffensiva sovie- tica che si fermerà solo sul- le sponde dell’Elba dopo avere conquistato Berlino. Ecco descritta in poche ri- ghe la storia della seconda guerra mondiale, almeno quanto al così detto scac- chiere dell’Europa orientale. Mancano all’appello più o meno 20 milioni di morti, sempre con riferimento all’Europa orientale, decine di milioni di vedove, di or- fani, di genitori senza più figli, cinque anni di deva- stazione economica e so- ciale, e decenni ancora di ri- costruzioni e di recupero delle immense energie sperperate nella follia degli anni di guerra. Più d’una generazione am- putata di una parte impor- tantissima della propria vita. Mancano i così detti “effetti collaterali” della guerra, che non sono solo quelli delle bombe intelligenti cadute fuori bersaglio, del fuoco amico o altro, ma quelli di vite, fisiche e morali, sacri- ficate al dio della guerra. Diceva Pasolini: «La guerra non è brutta perché si ucci- de o si è uccisi, la guerra è brutta perché si uccide la pietà”, e la “pietà” era ed è il rispetto della vita». Ma qualche volta la vita è più forte della guerra. L’8 settembre del 1941, po- co più di due mesi dopo l’inizio dell’invasione, le truppe tedesche, congiun- gendosi con quelle finlan- desi, completarono l’accer- chiamento di Leningrado. Da quel giorno, tranne bre- vi periodi di apertura di ta- luni canali di evacuazione e rifornimento, la seconda città della Russia, resterà assediata per 28 mesi, 900 giorni, migliaia di ore e mi- nuti, sino al 27 gennaio 1944. All’inizio dell’assedio Le- ningrado contava da 3,2 a 3,5 milioni di abitanti, alla fine mancheranno all’ap- pello più di 1 milione di persone, in parte cadute nei combattimenti nella difesa della città o sotto i bombar- damenti che hanno martel- lato Leningrado anche per 250 giorni consecutivi, in grandissima parte morte per freddo, fame e malattie da deperimento o comun- que per mancanza di far- maci. Per 900 giorni 3 milioni di leningradesi hanno vissu- to sotto l’incubo costante delle bombe, la paura del- la caduta della città, la mancanza drammatica di alimenti, energia, farmaci e di qualsiasi bene di so- pravvivenza. Eppure per 900 giorni 3 milioni di leningradesi hanno continuato a vivere, anche se a stento, anche se per l’ultimo giorno, ma fino all’ultimo giorno han- no continuato almeno a cercare di vivere una vita “normale”. Nei lunghi anni dell’assedio le fabbriche hanno funzio- nato a ritmo incessante so- stituendosi le donne agli uomini chiamati alla difesa della città, hanno funziona- to le scuole, le università, i centri di ricerca, hanno fun- zionato gli ospedali e i ser- vizi pubblici a misura della disponibilità delle risorse energetiche, ci sono stati matrimoni, nascite e com- pleanni, oltre a tante e tante morti. Quando la straordinaria creazione di una strada e di una ferrovia sulla superfi- cie ghiacciata del lago Lago- da, a metà circa dell’asse- dio, consentì di rifornire Le- ningrado anche di petrolio, per un breve periodo si riaccesero le luci delle stra- de e ripresero a marciare i tram. La radio non smise mai di funzionare e così anche i teatri e la filarmonica che nell’agosto del 1941 eseguì una sinfonia scritta in quei mesi a Leningrado, diffon- dendone il suono non solo per le vie della città, ma an- che lungo le linee difensive della periferia, in faccia agli assedianti tedeschi perché sentissero e vedessero che la città viveva. Per tre anni milioni di per- sone hanno vissuto silen- ziosamente, disciplinata- mente, in qualche modo se- renamente in un incubo, ma hanno vissuto e, alla fi- ne, la loro capacità di vivere ha sconfitto la guerra. Non è stato il Generale In- verno o il generale Zukov a sconfiggere i tedeschi e gli italiani, è stato il popolo di Leningrado che non ha mai perso la volontà di vivere e non si mai arreso alla morte della guerra. E’ a Leningrado e non a Sta- lingrado che è stata vinta la Seconda guerra mondiale, sempre che sia lecito unire il verbo “positivo” vincere al sostantivo “negativo” guerra. Questo avevano sicuramen- te a mente i nostri costi- tuenti quando vollero scol- pire nella Carta Costituzio- nale l’avversione assoluta e pregiudiziale del nostro paese per la guerra ricor- rendo al termine forse più estremo: ripudio. Troppi lo hanno dimentica- to, troppo presi ad “onorare i morti”, anche “a sinistra”. Per quel che possiamo noi cerchiamo di ricordarlo. L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli I 900 giorni di vita che vinsero la morte della guerra La guerra uccide la vita, ma è la vita che sola può sconfiggere la guerra Inserto a cura di Sandro Ridolfi

Inserto "Leningrado" - Aprile 2010

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Mensile d'informazione politica e cultura dell'Associazione comunista "Luciana Fittaioli", via del Grano 11-13 Foligno (PG) Italia

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Page 1: Inserto "Leningrado" - Aprile 2010

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supplemento al numero 4 - Anno II - aprile 2010 di Piazza del Grano

Da oltre 60 anni abbiamo lafortuna di non conoscere ildramma della guerra.Sono oramai sempre piùnumerose le generazioninate e cresciute in tempo dipace e sempre meno sonocoloro che ancora conser-vano ricordi di quei perioditremendi in gran parte vis-suti da bambini.Eppure il mondo è pieno diguerre, alcune violentissi-me e vastissime per le di-mensioni delle aree coin-volte, altre striscianti macostanti e sempre pronte ariaccendersi.Meno di due decenni fa unaguerra violentissima, carat-terizzata da cuspidi di fero-cia inaudita, ha lambito lenostre frontiere devastan-do nazioni che avevanoraggiunto livelli di sviluppoeconomico, sociale e cultu-rale che mai avremmo im-maginato di veder precipi-tare in quegli abissi.Abbiamo la fortuna di nonconoscere direttamente laguerra e non ci si può cheaugurare che questa fortu-na duri per sempre.Questa fortuna, questa nonconoscenza diretta, tutta-via, apre a un grande ri-schio, quello della non con-

sapevolezza di cosa sia, re-almente e concretamente,una guerra.Nella nostra cultura, o forseè meglio dire nell’odiernasub-cultura mediatica, laguerra è piano piano dive-nuta un video game, ha per-so la sua dimensione uma-na per diventare una eserci-tazione spettacolare o per-sino ludica.La fantaguerra di Rambo èdivenuta uguale alla reale-guerra dell’Iraq, le bombeesplodono e distruggonovillaggi e città, mutilanopersone, uccidono esseriumani tanto nella primafantaguerra come nella se-conda realeguerra, solo chenella seconda gli attori, cioèle vittime, alla fine del gio-co non si rialzano, le casenon sono di cartone, il san-gue è vero.Tutto ciò non è casuale.Nelle nostre televisioni i re-portage di guerra si alterna-no “tranquillamente” ai filmdi guerra, i Rambo si scam-biano con i marines veri epropri di Falluja o di Kanda-ar, proliferano le rievoca-zioni delle così dette “gran-di battaglie” che, dicono,hanno determinato il corsodella storia e così si simula-

no, come nel gioco del risi-ko, esiti diversi come se allafine di una partita conclu-sasi con un certo esito sipotessero restituire a cia-scun giocatore le propriepedine e dare avvio ad unaseconda manche.Per chi ricorda i due primidecenni dell’ultimo dopoguerra, quando ancora laseconda guerra mondialeera argomento “tabù” e nel-le nostre scuole i libri distoria si fermavano alla Pri-ma guerra mondiale, quella“Grande”, quella vinta dal-l’Italia, di quella primagrande carneficina mondia-le si ricordavano gli eroi im-molati sui fili spinati delletrincee e il Piave in pienache “fermava lo straniero”.Nulla ci insegnavano dellapovertà assoluta del suddel nostro paese, aggravatadall’arruolamento coattivodei suoi giovani più fortistrappati ai campi e alle fa-miglie per essere spediti afarsi massacrare nelle steri-li pietraie del Carso.Oggi anche la Secondaguerra mondiale è entratatra gli argomenti “discutibi-li”, ma in che modo?Onorando i morti. Tutti imorti, semplicemente per-

ché sono morti.Ma perché sono morti, perquale ragione, per qualecausa e per quale obiettivo,non ha importanza, anzinon deve avere importanzaperché: i morti sono tuttiuguali e vanno tutti rispet-tati e onorati.Ebbene non c’è nessun ono-re a essere morti.Non c’è nessun onore a es-sere ammazzati o ad am-mazzare.Non c’è nessun onore nellaguerra, anche in una guerracosì detta “giusta”.La guerra è una attività be-stiale.Chi combatte una guerra, eprima ancora chi la invoca,chi la provoca, chi la guida,ha già rinunziato alla suadignità umana, è divenutoo è costretto a diventareuna bestia.E’ vero, non tutti i morti so-no uguali, ma non perché simuoia in maniera diversa,la morte è sempre la stessaper tutti, ciò che differenziai morti, ciò che dà un sensoa ricordarli e celebrarli, so-no le ragioni per cui sonomorti e le ragioni valgonoper tutti, sia per quelli chesono morti sapendo il per-ché, sia per quelli che non

hanno nemmeno potuto ca-pire perché questo stavaaccadendo.Solo capendo le ragioni del-le morti, le diverse ragionidelle morti, si può immagi-nare di costruire un futuroin cui queste morti non sidebbano più ripetere.Non sarà un’arma, unatrincea, uno scudo, anchese spaziale, a impedire ilripetersi delle guerre se lecause che le hanno provo-cate e che possono semprenuovamente provocarlenon vengono indagate,comprese, rimosse o alme-

no instancabilmente com-battute.Ma per arrivare alla consa-pevolezza della necessitàdi questa indagine e di que-sta battaglia politica e cul-turale occorre non dimenti-care cosa significa vera-mente una guerra.E questo è il senso e loscopo di questo inserto:provare a parlare di cosasia veramente una guerra,ricordando cosa è accadu-to a Leningrado dove la vi-ta, la vittima predestinatadella guerra, ha vinto ilsuo carnefice.

LENINGRADO

Il 21 giugno 1941 i nazistitedeschi, appoggiati dai fa-scisti italiani e rumeni, lan-ciarono l’Operazione Barba-rossa invadendo l’UnioneSovietica.La superiorità della macchi-na bellica tedesca travolseletteralmente in pochissimigiorni il pur numeroso, mamale attrezzato e imprepa-rato, esercito sovietico.Gli alleati italo-tedeschi ar-rivarono con straordinariarapidità alle porte di Moscae si profilò il collasso del-l’Unione Sovietica.Ma è proprio davanti a Mo-sca che i sovietici resistet-tero, vinsero la prima batta-glia e trasformarono unaguerra così detta di “movi-mento” in una guerra quasidi “trincea”.Il tempo darà loro ragione ela feroce macchina da guer-ra tedesca consumerà pia-no piano le proprie energie,bloccata sulla via dei giaci-menti petroliferi del Cauca-so dalla resistenza di Stalin-grado, sino a collassare edessere a sua volta travoltadalla controffensiva sovie-tica che si fermerà solo sul-le sponde dell’Elba dopoavere conquistato Berlino.Ecco descritta in poche ri-ghe la storia della secondaguerra mondiale, almenoquanto al così detto scac-chiere dell’Europa orientale.Mancano all’appello più omeno 20 milioni di morti,

sempre con riferimentoall’Europa orientale, decinedi milioni di vedove, di or-fani, di genitori senza piùfigli, cinque anni di deva-stazione economica e so-ciale, e decenni ancora di ri-costruzioni e di recuperodelle immense energiesperperate nella follia deglianni di guerra.Più d’una generazione am-putata di una parte impor-tantissima della propriavita.Mancano i così detti “effetticollaterali” della guerra, chenon sono solo quelli dellebombe intelligenti cadutefuori bersaglio, del fuocoamico o altro, ma quelli divite, fisiche e morali, sacri-ficate al dio della guerra.

Diceva Pasolini: «La guerranon è brutta perché si ucci-de o si è uccisi, la guerra èbrutta perché si uccide lapietà”, e la “pietà” era ed è ilrispetto della vita».Ma qualche volta la vita èpiù forte della guerra.L’8 settembre del 1941, po-co più di due mesi dopol’inizio dell’invasione, letruppe tedesche, congiun-gendosi con quelle finlan-desi, completarono l’accer-chiamento di Leningrado.Da quel giorno, tranne bre-vi periodi di apertura di ta-luni canali di evacuazione erifornimento, la secondacittà della Russia, resteràassediata per 28 mesi, 900giorni, migliaia di ore e mi-nuti, sino al 27 gennaio

1944.All’inizio dell’assedio Le-ningrado contava da 3,2 a3,5 milioni di abitanti, allafine mancheranno all’ap-pello più di 1 milione dipersone, in parte cadute neicombattimenti nella difesadella città o sotto i bombar-damenti che hanno martel-lato Leningrado anche per250 giorni consecutivi, ingrandissima parte morteper freddo, fame e malattieda deperimento o comun-que per mancanza di far-maci.Per 900 giorni 3 milioni dileningradesi hanno vissu-to sotto l’incubo costantedelle bombe, la paura del-la caduta della città, lamancanza drammatica di

alimenti, energia, farmacie di qualsiasi bene di so-pravvivenza.Eppure per 900 giorni 3milioni di leningradesihanno continuato a vivere,anche se a stento, anchese per l’ultimo giorno, mafino all’ultimo giorno han-no continuato almeno acercare di vivere una vita“normale”.Nei lunghi anni dell’assediole fabbriche hanno funzio-nato a ritmo incessante so-stituendosi le donne agliuomini chiamati alla difesadella città, hanno funziona-to le scuole, le università, icentri di ricerca, hanno fun-zionato gli ospedali e i ser-vizi pubblici a misura delladisponibilità delle risorseenergetiche, ci sono statimatrimoni, nascite e com-pleanni, oltre a tante e tantemorti.Quando la straordinariacreazione di una strada e diuna ferrovia sulla superfi-cie ghiacciata del lago Lago-da, a metà circa dell’asse-dio, consentì di rifornire Le-ningrado anche di petrolio,per un breve periodo siriaccesero le luci delle stra-de e ripresero a marciare itram.La radio non smise mai difunzionare e così anche iteatri e la filarmonica chenell’agosto del 1941 eseguìuna sinfonia scritta in queimesi a Leningrado, diffon-

dendone il suono non soloper le vie della città, ma an-che lungo le linee difensivedella periferia, in faccia agliassedianti tedeschi perchésentissero e vedessero chela città viveva.Per tre anni milioni di per-sone hanno vissuto silen-ziosamente, disciplinata-mente, in qualche modo se-renamente in un incubo,ma hanno vissuto e, alla fi-ne, la loro capacità di vivereha sconfitto la guerra.Non è stato il Generale In-verno o il generale Zukov asconfiggere i tedeschi e gliitaliani, è stato il popolo diLeningrado che non ha maiperso la volontà di vivere enon si mai arreso alla mortedella guerra.E’ a Leningrado e non a Sta-lingrado che è stata vinta laSeconda guerra mondiale,sempre che sia lecito unireil verbo “positivo” vincereal sostantivo “negativo”guerra.Questo avevano sicuramen-te a mente i nostri costi-tuenti quando vollero scol-pire nella Carta Costituzio-nale l’avversione assoluta epregiudiziale del nostropaese per la guerra ricor-rendo al termine forse piùestremo: ripudio.Troppi lo hanno dimentica-to, troppo presi ad “onorarei morti”, anche “a sinistra”.Per quel che possiamo noicerchiamo di ricordarlo.

L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli

I 900 giorni di vita che vinsero la morte della guerra

La guerra uccide la vita, ma è la vita che sola può sconfiggere la guerra

Inserto a cura di Sandro Ridolfi

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II

“Ascolta! Parla Leningrad

La letteratura ci ha consegna-to la memoria di assedi “me-morabili”, a cominciare daquello più famoso, anche perla sua durata decennale, l’as-sedio di Troia.L’assedio nella storia dell’u-manità ha costituito una pra-tica di guerra che puntava avincere l’avversario colpendola sua popolazione non com-battente; le città venivano cir-condate e chiuse in una mor-sa che piano piano toglievaagli abitanti le risorse per lasopravvivenza, sino al puntodi ottenerne la capitolazioneper fame, sete e malattie dadenutrimento e sovraffolla-mento, a volte anche senzacombattere. La tecnica eradunque quella di “strangola-re” figurativamente la popola-zione civile per indurre i suoicombattenti a cedere le armi.Solitamente seguiva il sac-cheggio della città arresa e lastrage dei civili.Se quello di Troia è stato il più“cantato” assedio della lette-ratura, quello storicamentepiù realistico è stato quello diAlessia, capitale della nazionedei Galli nella quale si eranorifugiati gli armati di Vercin-getorige sotto l’incalzare dei

conquistatori romani guidatida Cesare.Dopo un lungo assedio cheaveva drasticamente ridottole risorse alimentari dellacittà i guerrieri Galli deciserodi far uscire dalle mura forti-ficate la popolazione civile,sicuramente con il fine milita-re di economizzare le residuerisorse alimentari in favoredegli armati, ma anche persottrarre la popolazione civi-le all’ecatombe che sarebbesicuramente seguita alla pro-babile caduta della città.I romani non consentirono ilpassaggio dei civili attraversole proprie linee ed essi mori-rono a decine di migliaia nel-la così detta “terra di nessu-no”, tra le porte chiuse dellacittà assediata e le trincee del-l’accerchiamento dei romani.La crudeltà dei romani fu cosìestrema che alla fine i Galli siarresero; Vercingetorige venneincatenato, portato a Roma do-ve restò nel carcere Mamertinoper sei anni in attesa di sfilarequale preda di guerra incate-nato al cocchio del Cesare vin-citore e, quindi, “normalmen-te” strangolato.Va ricordato che nella guerradi Gallia i soldati del “nobile”

Cesare ammazzarono circaun quinto della popolazioneceltica, un milione su cinquemilioni di abitanti, più o me-no come Pol Pot ma… Cesareè diventato Cesare e questo“piccolo neo” è stato rimossodal suo curriculum militare.L’assedio di Leningrado, siaper la durata che soprattuttoper la dimensione della cittàche contava oltre 3 milioni diabitanti, ha forse superatoogni precedente, anche per lamorte di oltre un milione diabitanti, solo che… Leningra-do non è caduta.Oggi la “pratica” dell’assedio èdivenuta obsoleta ed è statasostituita da quella, molto più“civile”, dell’embargo che, al-la fine, è la stessa cosa solo inscala molto più grande, sino acomprendere un’intera nazio-ne.Con la pratica dell’embargo lanazione “cattiva” (più corret-tamente si dovrebbe dire do-minata da governanti “catti-vi”) viene esclusa da ogni re-lazione di interscambio com-merciale, economico, scienti-fico, ecc. con il resto del mon-do.Le viene interdetto di scam-biare i propri beni con quelli

prodotti da altri paesi e caren-ti nel proprio, di accedere al-le risorse anche scientifiche esanitarie del resto del mondo,normalmente più avanzato e,quindi, viene condannata asopravvivere con le sole risor-se autoprodotte.La popolazione di quella na-zione, normalmente già incondizioni non “floride”, vie-ne quindi condannata ad unprogressivo impoverimentospinto senza remore alla so-glia della fame, aggravata dal-la mancanza di mezzi, stru-menti e prodotti sanitari, allacarestia, alle epidemie.

Dall’assedio di una città all’embargo di una nazioneDue differenti strategie criminali con lo stesso fine: piegare la resistenza dell’avversario colpendone la popolazione civile

“Ascolta, parla Leningrado, parla la città di Lenin…” sono le parole con cui,durante il lungo assedio, iniziavano le trasmissioni della stazione radio di Le-ningrado.�Un’infinità di altoparlanti, di “cerchi neri”, erano disseminati pertutta la città, negli uffici, nelle scuole, nelle fabbriche, sino alla non lontana

periferia in cui si combatteva per la resistenza della città. Per tutto il giornosi susseguivano ai microfoni annunciatori, lettori, artisti, poeti e musicistiche informavano la popolazione sull’andamento della guerra e della vita del-la città, diffondevano parole e musica e con esse l’ostinata invincibile volontà

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Scienziati, ricercatori, genetistiLa guerra alla “fame”

Nei primi giorni dei bombar-damenti, che nel periodopiù intenso durarono sino a250 giorni consecutivi, le ar-tiglierie tedesche colpironoi magazzini Badajev doveerano state stoccate la gran-de maggioranza delle riser-ve alimentari della città.Chiuso l’accerchiamento

con la ricongiunzione delletruppe tedesche provenien-ti da ovest e quelle finlande-si dal nord, Leningrado ri-mase completamente isola-ta dal resto dell’Unione So-vietica per lunghi 900 gior-ni, con due brevi interruzio-ni quando la formazione diun consistente strato di

ghiaccio sulla superficie dellago Ladoga consentì la rea-lizzazione di una strada ca-mionabile e persino di unaferrovia sul ghiaccio.Attraverso quelle due “arte-rie”, che colsero di sorpresai tedeschi che non avevanoimmaginato tanta forza diresistenza, Leningrado rice-vette alimenti e combustibi-li che per un breve periodovidero riaccendersi le luci etornare a funzionare i tram,oltre a riuscire a evacuare laparte della popolazione piùdebole e non utile alla dife-sa della città. Il problema della fame ven-ne in parte risolto seminan-do in città, in ogni luogopossibile, tutto quanto pote-va essere commestibile In ciò gli abitanti di Lenin-grado furono facilitati dalfatto che nella città aveva lasede la “banca dei semi”, ter-za al mondo con oltre200.000 tipi catalogati econservati, guidata da unodei più grandi ricercatori inmateria, il prof. Vavilov.All'Istituto Scientifico di Le-ningrado, il professorSciarkov e la sua équipe sidedicarono a esperimentiper trovare surrogati alimen-tari a base di cellulosa e semidi cotone e, utilizzano i mac-

chinari di una fabbrica di bir-ra, riuscirono a produrre cel-lulosa commestibile.La città venne perlustrata inogni angolo, in ogni cantinae fu recuperato malto dallefessure delle pareti dei mu-lini e circa 2000 tonnellatedi interiora di pecora e scar-ti di pesce.Diversi quintali di semi di li-no, mischiati a olio lubrifi-cante, furono trasformati insalsicce.Si prepararono minestre dilievito, gelatina di sapone;gli animali morti per fame ofreddo furono macellati e leloro carni mischiate a polve-re di cuoio, aglio, pepe furo-no anch’esse trasformate insalsicce.Dalle alghe marine si ricavòbrodo, con la carta da tap-pezzeria mischiata a farinadi segale e colla, si ottennequalcosa di simile al pane.Ben 14 scienziati della ban-ca dei semi, assistenti di Va-vilov, morirono di fame, manessuno di loro pensò dimangiarsi i semi di grano epatate più rari che erano af-fidati alla loro custodia.Erano certi che la guerra sa-rebbe finita con la sconfittadei tedeschi e quindi nonsmisero mai di pensare alfuturo del loro paese.

Ovviamente, non è difficile im-maginarlo, questi “disagi” nonsfiorano i così detti “cattivi”governanti che, proprio per-ché cattivi, continueranno agodere di condizioni di privi-legio, dove il deperimento fisi-co, sanitario e culturale delproprio popolo sarà ulterioreragione di consolidamento delloro potere, anche in odio alnemico accerchiatore.Un aspetto normalmente nonviene mai colpito dall’embar-go ed è quello del commerciodelle armi che, guarda caso,sempre “normalmente”, ven-gono fabbricate da quegli

stessi paesi democratici che“orgogliosamente” impongo-no l’embargo ai popoli e nonai governanti.Leningrado ha resistito a treanni di assedio, Cuba sta resi-stendo a cinquanta anni diembargo, altri paesi, demo-cratici o non democratici que-sto aspetto non riguarda lepopolazioni impoverite ed af-famate, non ce l’hanno fatta esono stati travolti dai fiumi dibombe, pallottole, gas e pro-dotti chimici mortali scarica-ti dagli eserciti dei liberatori.Liberatori di chi?

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III

do, parla la città di Lenin...”

mente e semplicemente, unpersonaggio storico sulle cuiscelte politiche (la condottaumana la lasciamo agli scrittoridelle cronache rosa) abbiamoda sempre espresso il più pro-fondo e motivato dissenso criti-co.Non è questa la sede per ap-profondire le ragioni e le con-seguenze, interne ed esterne,dell’opzione della difesa della“roccaforte assediata” volutada Stalin, che all’epocaprevalse su quella della diffu-sione della rivoluzione bolsce-vica oltre i confini dell’UnioneSovietica propugnata da Trotz-ki.Avremo altre occasioni per ri-aprire questo capitolo impor-tantissimo della storia delnovecento.Ciò che vogliamo fare ora, pub-blicando questo breve articolodedicato alla memoria di Stalin,è ribadire a chiare lettere e a vi-so aperto, proprio affrontandoun tema estremamente diffi-cile, i principi che intendonoispirare questo periodico politi-co e culturale.Scienza e coscienza, verità etrasparenza, analisi critica im-mune da pregiudizi, precon-cetti, opportunismi e, soprat-

tutto, ignoranza.Il diavolo non è solo il partodella codardia, è prima di tuttoil parto della ipocrisia.Il diavolo è il male assolutocontro cui nulla si può, ma è an-che il “migliore” colpevole, l’“utile” responsabile di tutto.Individuare un diavolo su cuirovesciare tutti i mali e tutte lecolpe serve a “lavare” le co-scienze degli altri che: hannoobbedito agli ordini, non pote-vano fare nulla, non c’erano odormivano…A bruciare nei forni crematori 6milioni di ebrei non fu Hitler dasolo o con la sua ristretta cer-chia di psicopatici nazisti, ful’intero popolo tedesco (alquale si aggiunsero poi entusi-astici ungheresi, belgi, france-si, ecc.) che condivise intera-mente l’ideologia della superi-orità della razza ariana.A massacrare con bombarda-menti aerei e gas accecanti gliindigeni abissini, somali, libicie poi gli albanesi, i greci e i rus-si non fu Mussolini da solo ocon la ridicola Decima Mas diBorghese, fu l’intero popoloitaliano che aveva comunque,entusiasticamente od oppor-tunisticamente, in grandissimamaggioranza aderito all’ideolo-

gia della razza italico-romana.Così a commettere quei gravifatti di illiberalità che certa-mente vanno imputati all’U-nione Sovietica di Stalin non fuil solo “Piccolo Padre”, ma un in-tero apparato burocraticopolitico, statale e militare, lostesso dal quale sono poi diret-tamente discesi i “puri” Kr-uscev, Gorbaciov, Eltsin, sinoanche a Putin.Smascherare il diavolo, leg-gerne e indagarne le dimen-sioni umane e le relazioni so-ciali ed economiche nel suocontesto storico significa pen-etrare nei meccanismi politici,economici, culturali e anche re-ligiosi che nei secoli, ripetuta-mente e instancabilmente, han-no generato mostri.Nel 1941 gli eserciti tedesco eitaliano invasero l’Unione Sovi-etica travolgendone le difesecome un tifone, arrivando rap-idamente sino alle porte diMosca, accerchiando Leningra-do e puntando sulle risorse en-ergetiche del Caucaso dietro lalinea di Stalingrado.L’Unione Sovietica, il popolo so-vietico non hanno ceduto, pa-gando il prezzo di circa 20 mil-ioni di morti e cinque anni ditotale devastazione del propriopaese, riuscendo infine a scon-figgere e respingere gli invasoritedeschi e italiani.Se l’Unione Sovietica avesse ce-duto probabilmente i nazistitedeschi e i fascisti italianiavrebbero davvero conquista-to un’Europa, oramai in gran

parte sconfitta e assoggettata,e ben poco avrebbero potutofare i resti del vecchio Imperobritannico e i lontani interessidella più giovane nazione nordamericana.Ma l’Unione Sovietica tutta, daLeningrado a Stalingrado, ha re-sistito, unita, compatta, ostina-ta, sotto la guida del Partito Co-munista e del suo segretarioGiuseppe Stalin.In quegli anni terribili per mil-ioni di cittadini russi, bielorus-si, ucraini e di cento altre etniee nazionalità il grido “Viva Stal-in” ha avuto un significato ben

preciso: ha significato No! alnazismo! No! al fascismo! “VivaStalin” ha significato “Viva laLibertà”.Questo non può e non deve es-sere dimenticato soprattuttodai figli dei figli di coloro chequella libertà hanno cercato disopprimerla seminando violen-za e ingiustizia dall’Africa aiBalcani all’Europa Centrale.La “Storia” va sicuramente giu-dicata e anche severamente,ma non può essere cancellata.

Ricordare la resistenza eroicadella popolazione di Leningra-do all’aggressione nazista efascista conduce di necessità arievocare anche la figura delpersonaggio che, particolar-mente in quegli anni tremendi,incarnò l’identità, non solo po-litica ma anche storica e cultur-ale, dei tanti popoli che costitu-ivano l’Unione Sovietica, il geor-giano Giuseppe Stalin.Ma parlare di Stalin è come evo-care il diavolo. Più facile è par-lare di Hitler e delle sue vicissi-tudini amorose mescolate ai fu-mi dei camini di Auschwitz eancora più facile è parlare diMussolini che, nel dilagare diun revisionismo vile e ipocritache sta riscrivendo la nostrastoria recente “a misura” dellapiccolezza e dello squalloredella politica corrente, forse tranon molto verrà persino riabil-itato al rango di un grande sta-tista italiano.Ma Stalin no! Il suo solo nomecontinua a evocare immediata-mente, quasi istintivamente, gliorrori dei gulag, dei processifarsa, delle fucilazioni, in unaparola della negazione di ognidiritto civile e umano.Sia ben chiaro che non è nostraintenzione di riabilitare, pura-

di resistenza. Alla sera, quando gli annunciatori e gli artisti, stremati dal fred-do e dalla fame, non ce la facevano più, le trasmissioni si interrompevano,ma non il suono, la “voce” di Leningrado continuava a diffondersi per la cittàperché nessuno si sentisse mai solo ed abbandonato. Era il metronomo che

sino alla mattina ticchettava dai “cerchi neri”: «dai rumorosi altoparlanti nonveniva una parola�ma instancabile batteva il ritmo,�familiare, cadenzato, sem-pre nuovo:�non era un semplice metronomo�nelle ore d’allarme aereo,�ma il no-stro inflessibile “Viviamo!”.�Non dorme la città assediata».

"Un'ora fa ho terminato lapartitura della seconda par-te di una mia nuova grandecomposizione sinfonica. Semi riuscirà di concluderlabene, se riuscirò a ultimarela terza e la quarta parte, al-lora quest'opera potrà chia-marsi Settima sinfonia. Dueparti sono già scritte. Ci la-voro dal luglio del 1941. No-nostante la guerra, nono-stante il pericolo che minac-cia Leningrado, ho compo-sto queste due parti relati-vamente in fretta.Perché vi dico questo? Vi di-co questo perché i leningra-desi che adesso mi stannoascoltando sappiano che lavita nella nostra città proce-de normalmente. Tutti noiportiamo il nostro fardellodi lotta. E gli operatori dellacultura compiono il propriodovere con la stessa onestàe la stessa dedizione di tut-ti gli altri cittadini di Lenin-grado, di tutti gli altri citta-dini della nostra immensaPatria. (…)Musicisti sovietici, miei carie molteplici compagni d’ar-me, amici miei!Ricordate che la nostra arteè seriamente minacciata. Manoi difenderemo la nostramusica, continueremo conla stessa onestà e con lastessa dedizione a lavorare.

La musica che ci è tanto ca-ra, alla cui creazione dedi-chiamo il meglio di noi, de-ve continuare a crescere e aperfezionarsi, come è statosempre. Dobbiamo ricorda-re che ogni nota che escedalla nostra penna è un pro-gressivo investimento nellapossente edificazione della

cultura. E tanto migliore,tanto più meravigliosa saràla nostra arte, tanto più cre-scerà la nostra certezza chenessuno mai sarà in gradodi distruggerla. (…)Vi assicuro, a nome di tutti i le-ningradesi, operatori della cul-tura e dell'arte, che siamo invin-cibili e che resteremo sempre al

nostro posto di lotta."Con questo discorso tenutoalla radio di Leningrado il 16Settembre 1941 Dmitri Sho-stakovich, il più grandecompositore sovietico, an-nunciava la creazione dellasinfonia dedicata alla cittàdi Leningrado che fu, in se-guito, definita l’ “Eroica” delpopolo russo.Il 9 Agosto 1942 la Settimasinfonia venne eseguita nel-la Sala della Filarmonica diuna Leningrado ridotta allostremo; per l’occasione ven-nero richiamati dal fronte imusicisti dell’Orchestra del-la Radio diretti da Karl Elia-sberg e vengono sistematidegli altoparlanti nella peri-feria della città, rivolti versoi soldati tedeschi, per farsentire loro che la vita di Le-ningrado continuava a pulsa-re.Pochi giorni prima la sinfo-nia era stata eseguita anchea New York, dove la partitu-ra era giunta in microfilmcon un viaggio avventurosoattraverso la Persia e l’Egit-to, dall’orchestra della NBCdiretta da Arturo Toscanini.Quel giorno i tedeschi nonsapevano ancora di avereperso la guerra, i sovieticierano però oramai certi diaverla vinta.

Scrittori, artisti, poeti e musicistiLa sinfonia “Eroica” di Leningrado

Viva Stalin! Viva la Libertà!Il “diavolo” che “lava” le coscienze. La storia non si cancella

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IV

Linvincibile scrittaAi tempi della guerra, nel 18

in Italia in una celladuna prigione piena di soldati,

di ubriachi e ladriun soldato socialista

con la matita copiativa alla parete scrisse:Viva Lenin!

in alto, molto in alto, che appena si vedevanella cella semibuia,

ma scritto a grandi lettere. E le guardieappena se ne accorsero, mandarono un pittore

con un secchio di calcina, che,legato il suo pennello ad un bastone,impiastricciò la scritta minacciosa.

Ma avendo egli seguitocon il pennello i tratti della scritta,

là in alto nella cella si vedevascritto ora in calce:

Viva Lenin! Un secondo pittore fu chiamato

e ricoperse tuttocon una pennellessa, cosicché

la scritta fu nascosta, ma al mattinola calce si asciugò e di nuovo apparve

Viva Lenin! Fu allora che le guardie procurarono

un muratore con la cazzuola,e lui raschiò per ore

e lettera per lettera la scritta.Quandebbe terminato, nella cella

in alto stava, scolorata è vero,ma incisa ben nel muro,

la invincibile scritta:Viva Lenin!

Levate dunque il muro!Disse quel soldato.

(Bertolt Brecht)

Inserto speciale di Piazza del Grano - Anno II - numero 4 - aprile 2010