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Interazioni Interactions - Nuovo Realismo · Quello che cambia è soltanto l’ordine di «un chilo» e di «mezzo ... dere rilievo il fatto che «un mattone è composto di due metà

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Reti, saperi, linguaggi – 2/2014 – pp. 165-178 ISSN 2279-7777 © Società editrice il Mulino

PERCHÉ COMMETTIAMO L’ERRORE DI PLATONE?

Paolo Legrenzi

Abstract:

Keywords:

1. INTRODuzIONE: TRE STORIE

Secondo Antonino Pennisi (2014, 11-15) l’errore di Platone è il tenta-tivo di «ingegnerizzare la governabilità politica delle menti e dei corpi degli aggregati umani». Più precisamente: «È la credenza stessa che sia possibile ingegnerizzare l’azione politica e presupporre scenari com-pletamente controllabili sulla base di principi fondati esclusivamente sulla cognizione umana a determinare “l’errore di Platone”». Cerche-rò qui di illustrare i meccanismi psicologici collegati alla genesi dell’er-rore di Platone.

La psicologia sperimentale ha studiato molti tipi di errori. Per gli scopi che qui mi propongo, possiamo suddividere gli errori in due grandi categorie: gli «errori skinneriani» e gli «errori da intuizione». Gli errori skinneriani sono quelli che possono venire eliminati in se-guito alla consapevolezza delle conseguenze dell’errore. Con le parole di Skinner, che paragona questi errori al funzionamento della selezione naturale:

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La selezione sulla base delle conseguenze funziona nella selezione naturale, ma rende conto anche del formarsi e del mantenersi di comportamenti individuali [...] essa sostituisce le spiegazioni del tipo causa-effetto [...] la sostituzione viene for-temente contrastata, privandoci di un aiuto per la soluzione dei problemi odierni [...] (1981, 501).

La selezione naturale funziona grazie a un inconsapevole mec-canismo che procede per «prove ed errori». Nella vita delle persone, invece, l’apprendimento utilizza un meccanismo consapevole che eli-mina gli errori e ci permette di raggiungere l’inconsapevolezza perfe-zionando gli automatismi. Questo succede in tanti casi: quando im-pariamo a guidare una vettura, quando riusciamo a padroneggiare un percorso, senza pensarci su, in una nuova città, lungo vie prima scono-sciute, quando impariamo a preparare la prima colazione per nostro figlio, come nel film Kramer contro Kramer.

Skinner ha mostrato sperimentalmente le innumerevoli ramifica-zioni e possibilità generate dal meccanismo della «selezione sulle base delle conseguenze». E tuttavia l’idea fondamentale non è nuova per-ché risale al 1892, quando William James scrive:

La coscienza non sfugge alla legge dell’adattamento biologico, anzi, ne costituisce il massimo esempio: essa emerge quando il comportamento è ostacolato da eventi problematici per la sopravvivenza dell’organismo, e, una volta svolto il proprio ruolo adattivo, tende a eclissarsi e a farsi sostituire dagli automatismi comporta-mentali.

Poi c’è un secondo tipo di errori, gli «errori da intuizione». A differenza dei precedenti, non impariamo mai veramente a superarli: tornano a riemergere perché dipendono da come funziona la mente umana, dalla sua architettura. Le illusioni ottiche appartengono a que-sto tipo di errori. L’errore di Platone, però, è un’illusione ottica solo in senso metaforico, in realtà è un errore di prospettiva, insomma è un abbaglio del pensiero. Per illustrare la natura di questo tipo di errori racconterò una storia della mia giovinezza.

In secondo luogo, l’errore di Platone si fonda, come dice Pen-nisi, sulla presupposizione di «scenari completamente controllabili da noi». Per analizzare tale assunto, è bene capire come funziona la nozione cognitiva di «controllo». Come mai riteniamo che, in alcuni casi, le cose siano sotto il nostro controllo e che, in altri casi, le cose siano «fuori controllo»? L’errore di Platone si origina da una tendenza a presupporre una capacità di controllo del mondo che ci permetterà

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di trasformarlo, immaginando realtà diverse da quelle in cui viviamo o abbiamo vissuto. Per illustrare la nostra capacità di immaginare mondi diversi racconterò una storia della mia maturità.

Infine cercherò di esplorare la natura più filosofica dell’errore di Platone. L’errore di Platone è difficilmente eliminabile, ed emerge sia a livello micro (progettazione delle vite degli individui) che a livello ma-cro (progettazione delle società), avendo il grande vantaggio (illusorio) di eliminare l’incertezza. Per noi umani, eliminare l’incertezza è molto vantaggioso perché ci fa credere di saper plasmare e padroneggiare il futuro. E siccome l’errore di Platone, secondo la citazione iniziale, parla di menti e di corpi, cercherò di sostenere la tesi che la duplica-zione corpo/mente è favorita dalla tendenza a pensare i corpi come dotati di menti, in un’ottica anti-riduzionista, perché, attribuendo una mente con caratteristiche permanenti ai corpi, possiamo agevolmente spiegare e rendere prevedibili i comportamenti altrui.

In sintesi, cercherò di sviluppare tre punti: gli errori del pensiero (le intuizioni che ci illudono), il controllo (che cosa pensiamo che sia modificabile di una storia), e la tecnica d’eliminazione dell’incertezza tramite la moltiplicazione delle menti. Intendo analizzare gli ingre-dienti fondamentali dell’errore di Platone allo scopo di ricondurre a meccanismi mentali la sua origine, il suo funzionamento e la sua forza illusoria.

2. LA STORIA DELLE INTuIzIONI fuORvIANTI

Molti anni fa incontrai a Trieste Gaetano Kanizsa, un professore che poi sarebbe diventato importante nella mia vita. Kanizsa sapeva che avevo studiato la psicologia del ragionamento a Londra. Mi pose subi-to questo indovinello:

Un mattone pesa un chilo più mezzo mattone. Quanto pesa il mattone?

Provate a presentare questo indovinello ai vostri amici. Per la maggioranza delle persone, non sono sufficienti tre minuti per risol-verlo. E alcuni non ne vengono neppure a capo, e rinunciano. Il pro-blema diventa molto più facile se lo presentate in questo modo:

Un mattone pesa mezzo mattone più un chilo. Quanto pesa il mattone?

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È lo stesso problema. Però, nella seconda versione, diventa chia-ro che l’intero mattone è fatto di due mezzi mattoni, e che una delle due metà pesa un chilo. Se una delle due metà corrisponde a un chilo, allora tutto il mattone peserà due chili. Con questa seconda versione la maggioranza delle persone risolve l’indovinello in meno di tre minuti.

Quello che cambia è soltanto l’ordine di «un chilo» e di «mezzo mattone» nella prima frase. La struttura del problema è la stessa:

a. c’è un mattoneb. un mattone è fatto di due metàc. una metà pesa un chilod. quanto pesa tutto il mattone?

Se il rompi-capo viene trasformato in una storiella che segue le tappe a-b-c, le difficoltà svaniscono.

Secondo Kanizsa, la prima versione del problema è difficile da risolvere perché porta a concentrare l’attenzione sul mezzo chilo, la-sciando sullo sfondo il mezzo mattone. Nella seconda versione, invece, il problema si dissolve giacché fa concentrare l’attenzione sul mezzo mattone. Insomma è un alternarsi figura-sfondo delle informazioni cruciali per risolvere il problema. Per essere comprensibile, deve pren-dere rilievo il fatto che «un mattone è composto di due metà e che ogni metà pesa un chilo».

Nel 1969 ero andato a Londra. Avevo conosciuto la «nuova» psicologia britannica del ragionamento, appena nata grazie a due pro-fessori che sarebbero diventati celebri, Peter Wason e Philip Johnson-Laird (Evans, Newstead 1995). In precedenza, a Padova, avevo studia-to i classici cari a Kanizsa, per esempio, il testo di Kurt Koffka (1935).

Non feci commenti all’indovinello di Kanizsa. Mi limitai a ribat-tergli con un altro rompi-capo menzionato nel testo di Koffka:

Sotto un ponte passano nuotando due anatre davanti a due anatre, due anatre dietro a due anatre, e due anatre in mezzo. Quante anatre ci sono in tutto?

La descrizione dell’indovinello si traduce immediatamente in un’immagine spaziale, dove le tre posizioni (davanti, dietro, in mezzo) si riferiscono a coppie di anatre. Ci sono, «a prima vista», sei anatre:

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A AA AA A

Il nostro pensiero è pigro, e si adagia sulla prima cosa che ci viene in mente. La stessa risposta «sei anatre» risulta spontanea anche quando l’indovinello è presentato con questa domanda più specifica:

Quale è il numero minimo di anatre compatibile con questa descrizione?

In questo caso la risposta esatta, che non viene subito in mente per la forza dell’immagine visiva basata su coppie di anatre, è «quattro anatre in fila indiana» (Legrenzi, 1994):

AAAA

Kanizsa apprezzò il mio commento e capì che la nuova psico-logia britannica era uno sviluppo di quella che lui conosceva (così mi chiamò a Trieste).

Daniel Kahneman – l’unico psicologo, nel senso stretto del ter-mine, che ha avuto il premio Nobel per l’economia – ha recentemente scritto quello che è considerato oggi il più importante libro sul pen-siero umano (2012). Egli riprende da Frederick (2005) un problema analogo a quello delle anatre (2012, 49):

Una mazza da baseball e una palla costano un dollaro e dieci.La mazza costa un dollaro più della palla.Quanto costa la palla?

Ti viene in mente un numero – dice Kahneman – e il numero è naturalmente dieci, dieci centesimi. Risposta facile, intuitiva, e sba-gliata. Esegui il calcolo matematico e vedrai. Se la palla costasse dieci centesimi, il costo totale sarebbe un dollaro e venti (dieci per la palla e uno e dieci per la mazza), non uno e dieci. La risposta esatta è cinque centesimi.

Kahneman conclude:

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Si può assumere senza timore di sbagliare che la risposta intuitiva sia ve-nuta in mente anche a chi ha finito per dire il numero corretto: in qualche modo egli ha resistito all’intuizione.

L’indovinello di Kanizsa, e il rompi-capo della palla, si collocano in un quadro teorico più vasto già delineato da Kahneman in occasione del conferimento del premio Nobel, nel 2002.

Il nostro pensiero funziona in due modi: uno rapido e intuitivo, e l’altro lento e approfondito, tramite controlli e ragionamenti. Tutto il saggio di Kahneman mostra che noi siamo troppo sicuri delle nostre intuizioni.

Torniamo all’errore di Platone. Mi sembra che esso sia parago-nabile, nella sua genesi e nella sua struttura psicologica, agli «errori da intuizione» descritti sopra. Risulta infatti spontaneo commetterlo, presumere cioè d’avere sotto controllo le cose anche quando questo non è vero. Da questo punto di vista è un errore molto adattivo, perché riduce l’incertezza del futuro. Certo, ripensandoci bene, ci accorgiamo che molto meno dipende da noi rispetto a quel che ci appare intuitiva-mente in un primo tempo, prima che abbiamo maturato una riflessio-ne più attenta, quando riusciamo a renderci conto che non possiamo modificare le cose più di tanto. E tuttavia l’illusione del controllo è sempre in agguato. E qui entra in campo la seconda storia.

3. LA STORIA DELL’ILLuSIONE DEL CONTROLLO

Trovatomi nel 1973 a Trieste, pensai spesso alle vicende narrate nel pa-ragrafo precedente, e al fatto che erano stati necessari tutti gli episodi della storia che aveva preceduto il mio arrivo a Trieste. Sarebbe bastata l’assenza di uno solo dei tanti anelli della catena:

– Se solo non mi fossi laureato con Paolo Bozzi, allievo di Ka-nizsa, il migliore professore che, secondo me, c’era all’università di Padova, dove allora studiavo...

– Se solo a Padova non mi avessero bocciato più volte, quando cercavo di entrare nell’università dove mi ero laureato...

– Se solo non fossi andato all’University College di Londra, per imparare la psicologia del pensiero...

– Se solo un generale turco della Nato non mi avesse dato i fondi sufficienti per restarci...

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– Se solo Kanizsa non avesse apprezzato la nuova psicologia del pensiero...

Ciascuno di questi episodi era stato, a modo suo, indispensa-bile all’interno della catena di eventi che mi aveva portato a dirigere l’istituto di Kanizsa. E tuttavia: eventi tutti necessari allo stesso modo, oppure c’era una gerarchia d’importanza? C’era stata una «vera» causa del mio trovarmi a Trieste? Mi sembra che questa domanda sia molto importante per l’illusione/errore di Platone. Se fossimo fatti in modo tale da credere spontaneamente che è il caso ad aver plasmato il no-stro destino, noi saremmo meno vittime, nella vita quotidiana, dell’il-lusione di Platone. Quest’ultima, a livello personale e autobiografico, si traduce nell’idea che siamo stati noi, e non le circostanze esterne, a progettare la nostra esistenza.

Proprio mentre pensavo a tutti i «se solo...» della mia biografia precedente, mi capitò di leggere un passo di Ernst Bloch (1969), nella sua classica Apologia della storia:

Immaginiamo un uomo che cammini su un sentiero di montagna. Fa un passo falso e cade in un precipizio. Perché quell’incidente accadesse, ci volle il concorso di molti elementi. Quali, tra gli altri: la legge di gravità, la presenza di un rilievo, risultante a sua volta da lunghe vicende geologiche, il tracciato di un sentiero destinato, per esempio, a collegare un villaggio ai suoi pascoli estivi. Sarà dunque perfettamente legittimo dire che, se le leggi della meccanica celeste fossero differenti, se l’evoluzione della terra fosse stata un’altra, se l’economia alpina non si fondasse sulla transumanza stagionale, la caduta non sarebbe avvenuta. Domandiamo però quale fu la causa? Ciascuno risponderà: il passo falso [...] Fra tutti gli antecedenti, ecco che si distingue per parecchi caratteri che colpiscono: è stato l’ultimo a verificarsi, il più eccezionale nell’ordine generale del mondo [...] (1969, 161, 108 nella versione originale, in rete).

Senza dubbio quasi tutti, di primo acchito, condividono l’intui-zione di Ernst Bloch. Io però mi domandavo: la causa della caduta nel precipizio andava individuata nel passo falso perché quello era stato l’evento più eccezionale oppure quello accaduto per ultimo?

A me non sembrava che le cose fossero andate proprio così, al-meno nella mia vita. Supponevo che fosse importante tenere in consi-derazione – oltre alla posizione dell’evento nella sequenza temporale e alla sua probabilità – anche un altro fattore. E cioè che in alcuni casi avrei potuto agire in modo diverso, essendo quella decisione sotto il mio controllo. Se avessi voluto immaginare un altro percorso di vita, in

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cui non fosse successo tutto ciò che mi aveva portato a Trieste, avrei in primo luogo modificato quella che ritenevo fosse stata una mia libera scelta, come la decisione di andare nel 1969, un po’ alla cieca, all’Uni-versity College di Londra, su invito di Peter Wason.

Nel 1984, cercai, come di consueto, di risolvere la questione con un esperimento. M’ispirai al passo di Bloch, e utilizzai la tecnica del «se solo». Diedi da leggere la seguente storia e chiesi di completare la frase finale:

Il Sig. Bianchi era responsabile di un passaggio a livello lungo una linea ferroviaria molto isolata, a mezz’ora dal villaggio dove abitava. Per pru-denza egli vi si recava ogni giorno, mezz’ora prima del passaggio dell’uni-co treno per quella linea, così da essere sicuro di poter chiudere il passag-gio a livello per tempo. Il giorno della catastrofe, Bianchi era uscito di casa addirittura un’ora e mezza prima e, non avendo nulla da fare, si stava recando al punto di controllo. Trovò però per strada un suo amico carissimo che l’invitò al bar. Bianchi, essendo in anticipo, l’accompagnò per lasciarlo mezz’ora dopo, con l’orario consueto. Bianchi si mise in cammino, ma a metà strada sentì un boato e vide crollare di fronte a sé il ponte di legno. Le travi di soste-gno, troppo vecchie, per fatalità avevano ceduto proprio in quel momen-to. Bianchi cercò di attraversare la valle a piedi, ce la mise tutta, ma arrivò con cinque minuti di ritardo. Era appena successo un incidente: un carro e un contadino erano stati travolti dal treno presso il passaggio a livello incustodito. Come capita dire in queste occasioni: «se solo...».La preghiamo di completare questa frase.

E Lei, lettore, una volta letta la storia, immaginandosi di essere il Sig. Bianchi, come completerebbe la frase che inizia con «se solo...»? Secondo le intuizioni Bloch, potremmo forse aspettarci che le persone, dopo il «se solo…», menzionino l’ultimo evento o quello più eccezio-nale, cioè la caduta del ponte. Le risposte dei partecipanti all’esperi-mento sono però diverse.

Solo due persone su trenta completano così la frase finale: «Se solo il ponte non fosse crollato...». Quasi tutti evitano l’incidente mor-tale supponendo che Bianchi faccia qualcosa di diverso. Costruiscono una storia alternativa in cui è stata modificata un’azione che era sotto il controllo di Bianchi. Nella grande maggioranza delle risposte, l’even-to su cui s’interviene è la sosta al bar (questo risultato fu replicato, in modo più rigoroso, nel 1991, in un articolo con Vittorio Girotto e Antonio Rizzo).

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Il lavoro del 1984 si basa sulla tecnica di completamento del «se solo...». Si tratta d’immaginare, meglio simulare, un mondo diverso cambiando un solo elemento della storia del Sig. Bianchi. Fu Philip Johnson-Laird a parlarmi per primo di questa tecnica inventata da Da-niel Kahneman e Amos Tversky (1982). Tversky, insieme a Kahneman, sosteneva originariamente una tesi simile a quella di Bloch, e cioè che, nell’immaginare una storia differente, si sarebbero fatti dei cambia-menti minimi. In effetti, quando si tratta d’incidenti evitati per mira-colo, le cose stanno così. Provai a costruire una versione della storia in cui il Sig. Bianchi riusciva ad arrivare sul posto pochi minuti prima del passaggio del treno. In questi casi, alla maggioranza delle persone, viene spontaneo dire: «Se solo il Sig. Bianchi fosse arrivato cinque mi-nuti dopo...».

Questa differenza tra quando capita un guaio, e quando invece riusciamo a evitarlo per un pelo, è comprensibile (Legrenzi 2007). Nel primo caso andiamo a cercare se c’è qualcosa che avremmo potuto fare in modo diverso, così da imparare per il futuro. Quando invece il gua-io non è capitato per un pelo, e non è dipeso da noi, ci sentiamo fortu-nati pensando che bastava poco per farlo succedere. In termini molto generali, l’errore di Platone si origina dal credere che sia controllabile qualcosa che non lo è (Byrne, Girotto 2009).

Il 19 agosto 2014 due Tornado dell’aeronautica militare si sono scontrati sopra i monti disabitati nei pressi di Ascoli Piceno. Siccome i due caccia volavano a bassa quota, i frammenti degli aerei hanno cau-sato molti incendi nei boschi. Data la vicinanza ad Ascoli, il sindaco della città, Guido Castelli, ha dichiarato:

Una questione di secondi, e tutti avremmo rischiato il peggio [...] Per chi è credente è fuor di dubbio che Sant’Emidio (patrono della città e protet-tore dai terremoti) ha voluto, ancora una volta, proteggere la nostra città (Ansa, 20.8.14).

Quest’episodio è un caso puro di assenza di controllo, per lo meno dal punto di vista degli abitanti della città, che non potevano fare nulla se non provare un senso di sollievo per lo scampato pericolo e, eventualmente, ringraziare il patrono. La differenza tra ciò che è sotto il nostro controllo e ciò che è «fuori controllo» emerge anche dall’analisi delle emozioni coinvolte.

Se, per evitare un guaio, avremmo potuto fare qualcosa di diver-so, proviamo sensi di colpa e rimpianti. Se invece abbiamo fatto tutto

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il possibile, e le cose sono andate male, l’emozione che proviamo è la delusione, il disappunto, o lo sconforto. Quando, come nel caso del sindaco di Ascoli Piceno, non si poteva fare nulla, e il dramma è stato evitato per un pelo, subentra un senso di sollievo (e, forse, di gratitu-dine a Sant’Emidio).

Queste differenze stanno sullo sfondo di quello che è il consiglio personale di Kahneman (2012, 389) per difendersi dalle insidie del senno del poi e dai sentimenti di rimpianto e rammarico:

La mia personale politica «anti-senno del poi» è di essere molto minuzioso o del tutto noncurante quando prendo una decisione con conseguenze a lungo termine. Il senno del poi è peggiore quando si riflette un poco ma non tanto, solo quel che basta per dirsi in seguito: «Per un pelo non ho fatto una scelta migliore».

Maneggiare sapientemente la tecnica mentale della simulazione ci insegna a evitare rimpianti e rammarichi, facendoci diventare saggi. Purtroppo corriamo anche il rischio di essere presuntuosi, illudendoci d’avere troppe cose sotto controllo, e finiamo così per commettere l’er-rore di Platone. L’errore di Platone è il contrario della vera saggezza che consiste nell’imparare a preoccuparsi soltanto delle cose di cui val la pena preoccuparsi, cioè di quelle dipendenti dal nostro controllo.

Non è sempre evidente che cosa sia sotto il nostro controllo e che cosa non lo sia, soprattutto quando sono coinvolte altre persone. Nelle storie del Sig. Bianchi e del sindaco di Ascoli Piceno, la separazione è netta: fermarsi oppure no al bar è una decisione di Bianchi, mentre la caduta del ponte o quella degli aerei non è dipesa né da Bianchi né dal sindaco. Capita però di prendere delle decisioni credendo d’avere sot-to controllo eventi che poi ci sfuggono, prendendoci la mano. Proprio le persone sicure di sé sono spesso quelle che fanno le più clamorose sciocchezze. Poi non ammettono di averle fatte, e finiscono per peg-giorare le cose (Legrenzi 2011). Al contempo, il senso del controllo degli eventi, e la sicurezza di sé, sono buoni ingredienti per affrontare la vita in modo ottimistico, proprio per l’impasto e l’intreccio di co-gnizioni e emozioni di cui abbiamo parlato sopra. In misura moderata questa miscela è un buon viatico, in misura eccessiva produce l’errore di Platone.

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4. LA RIDuzIONE DELL’INCERTEzzA E LA PERvASIvI-Tà DELL’ERRORE DI PLATONE

A ben vedere, tutta la storia del progresso delle scienze umane e so-ciali è costellata di errori di Platone, nel senso che l’auspicata inge-gnerizzazione della società, e del ruolo dell’individuo al suo interno, è basata su tentativi di interpretare le azioni umane come ampiamente plasmabili dall’esterno. Di qui la costruzione sociale di una concezione dell’individuo che permette ed esalta l’errore di Platone. In genere tale concezione è basata su semplificazioni e presunzioni di modificabilità degli altri.

All’inizio del secolo scorso, Sigmund Freud crede di aver capito il funzionamento dell’inconscio, dimostrando così che «l’uomo non è padrone a casa sua», e che lo può diventare solo se si analizzano i meccanismi della vita mentale di cui non siamo consapevoli. Oggi, a un secolo di distanza, abbiamo scoperto che le operazioni mentali inconsce sono molto più numerose e complesse di quanto non sospet-tasse Freud. La natura inconscia di molti processi mentali non è un limite, ma un vantaggio perché rende possibili operazioni simultanee, a più livelli, liberando spazio per quello che facciamo in modo consa-pevole (ricordate la già citata prima colazione del film Kramer contro Kramer?). Abbiamo anche scoperto, purtroppo, che, nei nostri modi «automatici» di vedere le cose, si annidano le intuizioni fuorvianti di cui ho già parlato (per l’approfondimento dei vantaggi degli automa-tismi e degli errori connessi, cfr. il capitolo sull’attenzione in Legrenzi, Papagno, Umiltà 2012, 89-116). E tuttavia la prontezza nel prendere una decisione deve essere stata vitale negli ambienti ostili in cui erano costretti a muoversi i nostri progenitori, e le intuizioni fuorvianti sono il prezzo che paghiamo oggi per vantaggi antichi, come ci spiegano gli psicologi evoluzionisti (cfr. Workman, Reader 2014).

La stessa storia dell’economia contiene un gigantesco «errore di Platone», e cioè il mancato riconoscimento di quella componente dell’agire collettivo che sono i costi di transazione, i costi cioè che van-no pagati per raggiungere accordi allo scopo di collaborare a un’im-presa comune.

Pennisi, nella sua definizione che abbiamo riportato all’inizio, parla giustamente di «aggregati umani». L’errore di Platone si radica su una presunzione indebita di controllo, ma si allarga alle problematiche dell’interazione tra individui. È a questo livello che dobbiamo quindi

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spostare l’analisi. I nostri antenati, confrontandosi con ambienti ostili, furono costretti a condizioni di vita più cooperative che ci hanno reso «unicamente umani» (Tomasello 2014).

La comprensione dei meccanismi di coordinamento è cruciale per spiegare quel prevalere dell’azione di comando gerarchico che è parsa indispensabile per «ingegnerizzare l’azione politica». L’econo-mista Ronald Coase, negli anni Trenta del secolo scorso, ha colto per primo il nodo cruciale degli ostacoli all’ingegnerizzazione sotto forma di «costi di transazione», intesi come costi di natura essenzialmente psicologica.

Quando il 3 settembre 2013, a 102 anni, il corpo (ma non le idee) di Ronald Coase ci ha lasciati, raccontai questa storia per Repubblica:

Il 10 ottobre 1932 Coase scrive all’amico Fowler: [...] se ogni transazione che implica l’uso del lavoro avvenisse sul mercato, non ci sarebbe bisogno di alcuna organizzazione. In altre parole, potremmo immaginare una so-cietà di operatori economici individuali, di lavoratori autonomi con una partita IVA. Tramite patti e contratti tra loro potrebbero produrre qualsia-si bene. E tuttavia mettersi d’accordo è faticoso, e questa fatica si esprime nei cosiddetti costi di transazione. Per ridurli nascono le aziende, dove non c’è bisogno di mettersi d’accordo perché un’autorità comanda ai sot-toposti. Domanda successiva, sempre all’amico Fowler: se i costi diminui-scono, eliminando le transazioni di mercato, perché continuano a esistere imprese separate? Potremmo pensare che le società industriali dovrebbe-ro finire per ridursi a un’unica azienda, come in una sorta di comunismo sovietico perfetto. E invece, nella realtà, si raggiunge un punto di equili-brio tra il costo di attingere al mercato e il costo di un’organizzazione, fa-ticosa anch’essa da far funzionare. Risulta più conveniente comprar fuori alcune cose, altre è meglio farsele dentro, e tenersele strette, perché spesso coincidono con quello che ci fa essere meglio dei concorrenti. Negli anni successivi, Coase procede alla verifica empirica della sua intuizione. Con una lettera di presentazione di Ernest Bevin, importante sindacalista ingle-se, Coase va a trovare Edsel Ford, che lo riceve di persona. Studia i confini della casa automobilistica, o meglio l’equilibrio tra i costi delle decisioni centralizzate e quelli del ricorso al mercato. Si tratta essenzialmente di co-sti psicologici. Se noi fossimo capaci di comunicare e accordarci leggendo istantaneamente le menti altrui, allora potremmo avvicinarci all’ideale di una società senza gerarchie. Un mondo utopico, in cui l’empatia sarebbe perfetta, e nessuno comanderebbe agli altri.

Com’era stato possibile per decenni cadere in questa sorta d’errore di Platone, consistente nel presumere di controllare il com-portamento economico delle persone, trascurando un aspetto così

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fondamentale come i costi di transazione, e rendendo inspiegabile la dinamica tra aziende e mercato? Per la verità, in un articolo del 1918, l’economista John Maurice Clark (1884-1963), che sarebbe diventato nel 1935 presidente dell’American Economic Association, e che ora viene rivalutato da studiosi come Eldar Shafir (allievo di Amos Tver-sky), aveva messo in guardia i colleghi:

Il solo modo con cui un economista può evitare di duplicare il lavoro degli psicologi consiste nello studiare la psicologia degli specialisti. Affidarsi semplicemente alle scelte degli individui, senza capire i motivi che ci stan-no dietro, può sembrare agli economisti un modo per liberarsi della psico-logia [...] Qualsiasi definizione di natura umana implica delle assunzioni psicologiche, implicite o esplicite. Solo se l’economista prende a prestito la concezione dell’uomo dagli psicologi, la sua costruzione teorica potrà avere un carattere esclusivamente economico. Se però non lo farà, non eviterà per questo la psicologia. Piuttosto sarà costretto a fidarsi della «sua psicologia», e questa sarà una cattiva psicologia (4).

E tuttavia, l’intuizione immediata e, ancora una volta, fuorvian-te, ci suggerisce di descrivere il comportamento economico «affidan-dosi semplicemente alle scelte degli individui». C’è forse un modo più sicuro di procedere per un economista? Osserva e registra quello che le persone fanno, e ricava da queste osservazioni le preferenze degli individui! Semplice e intuitivo, tant’è vero che è un modello che ha funzionato per decenni. Solo a posteriori, l’intuizione di Ronald Coase è parsa altrettanto semplice e intuitiva.

Come avrebbe scritto Franco Romani, parlando delle radici in-tellettuali di «law and economics»:

La soluzione proposta da Ronald Coase fu molto semplice e come tutte le buone idee sembra ovvia. In molte situazioni, dice Coase, è meno costoso comandare (che ci sia un imprenditore) che perdere tempo a fare contratti e a farli rispettare. L’impresa è cioè un’organizzazione in cui non ci si serve del sistema dei prezzi per coordinare le attività [...] In fondo la lezione di Coase è che i modelli di concorrenza perfetta degli economisti non ten-gono conto dei costi negoziali e che, qualora se ne tenesse conto, molte delle istituzioni sociali, dall’impresa al diritto, potrebbero venire spiegate come tentativi di minimizzare tali costi, e cioè come un perseguimento di efficienza (2014, 16-17).

In sintesi, i costi di transazione spiegano i confini delle imprese, intese come isole nel mare del mercato. Questa intuizione, una volta

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perfezionata, sembra ovvia, ma, a ben vedere, si tratta di un passaggio che deve superare l’intuizione immediata, e fuorviante, che tutto possa essere regolato dai prezzi o, all’opposto, che il mondo possa trasfor-marsi in un’unica impresa, come in una sorta di socialismo realizzato e perfetto. Quando questa seconda utopia ha prevalso, questo è succes-so perché tale utopia era compatibile con un unico comando dall’alto, come in una mega-impresa, e questa visione ha affascinato e sedotto perché è apparsa come il modo di realizzare un mega-errore di Plato-ne, cioè una completa ingegnerizzazione della società.

5. CORPI, MENTI, ELIMINAzIONE DELL’INCERTEzzA

Giustamente Pennisi, nella sua definizione dell’errore di Platone ci par-la di «corpi e di menti», tenendo separati questi due aspetti. E in effetti, se volete ridurre l’incertezza e portare il mondo sotto il vostro presun-to controllo, dovete attribuire, per quanto è possibile, caratteristiche mentali permanenti agli eventi che ci circondano, non solo nel caso di persone. Se il mondo esterno, anche quello fabbricato da noi, viene ar-ricchito di entità dotate di una loro personalità, possiamo pensare che tali personalità siano permanenti, e che la loro persistenza nel tempo ci permetta di prevederne il comportamento. Di qui il mistero tale per cui – in un mondo e in una cultura in cui tutti siamo in linea di principio riduzionisti, e crediamo che il nostro comportamento dipenda dal fun-zionamento del cervello – continuiamo, nel corso della vita quotidiana, a pensarci come dotati di corpi e di menti, e moltiplichiamo le menti proiettandole anche in entità artificiali (avete forse visto il film Her di Spike Jonze dove il protagonista si innamora di un sistema operativo?).

Fritz Heider e Marianne Simmel sono stati i primi che hanno posto le basi per risolvere questo mistero. Questi due studiosi nel 1944 costruiscono un breve filmato della durata di un minuto e 32 secondi (facile da trovare in rete digitando su Google: «Heider Simmel demon-stration»).

All’inizio del filmato compare, su sfondo bianco, un triangolo nero rinchiuso dentro i confini di un rettangolo. Il rettangolo ha un lato che si apre, quasi fosse una porta incernierata. Dopo pochi secon-di compaiono, in movimento, un triangolo piccolo e un cerchio delle stesse dimensioni. A prima vista sembrano oggetti che si muovono a caso, senza meta. E tuttavia, ben presto, tutte le persone descrivono

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quel che succede sullo schermo più o meno come fa Daniel Kahne-man, nel suo, già classico, libro:

Gli spettatori vedono un triangolo grande, un triangolo piccolo, e un cer-chio girare intorno a una forma che sembra l’abbozzo schematico di una casa con la porta aperta. Hanno l’impressione che un triangolo grande e aggressivo intimidisca un triangolo più piccolo e terrorizzi un cerchio, e che il cerchio e il triangolino uniscano le forze per sconfiggere il prepo-tente; vedono anche molte interazioni intorno a una porta e poi un finale esplosivo. La percezione dell’intenzione e dell’emozione è molto forte; solo gli individui affetti da autismo non la provano (Kahneman 2012, 86).

Il finale esplosivo, per chi non avesse guardato nel frattempo il film, avviene quando il triangolo cattivo riesce a frantumare il rettan-golo che, a quel punto, si è trasformato in una prigione dove lui non vuole essere rinchiuso.

La descrizione in termini antropomorfici di quello che succede è talmente ovvia e spontanea che uno spettatore che non sappia nulla di scienze cognitive non coglie neppure il punto del filmato. Il tutto sembra banale. In realtà, questa descrizione, in cui le figure geometri-che acquisiscono intenzioni ed emozioni, nasconde un problema. La nostra psicologia ingenua, conferendo un profilo psicologico diverso a ciascuna delle tre figure, arricchisce di senso e di coerenza tutto l’epi-sodio trasformandolo in una storia.

Come sottolinea Daniel Kahneman (2012, 86-88), noi non de-scriviamo quello che succede davanti ai nostri occhi come urti, rimbal-zi, spinte tra oggetti in movimento, quasi si trattasse di bocce o, me-glio, di boccette di un biliardo. Siamo fatti in modo tale da identificare, appena è possibile, attori che agiscono con uno scopo. Il risultato è che si vedono i movimenti dei triangoli e del cerchio come il risultato di scelte intenzionali fatte da figure dotate di una loro personalità.

Si può anche assumere un atteggiamento più prudente, soste-nendo che per noi è più economico immaginare un mondo popolato di menti che funzionano in quanto dotate di una personalità. Questa è appunto la posizione di Kahneman:

I triangoli e i cerchi di Heider non sono realmente agenti: semplicemente è molto facile e naturale pensare a essi come se lo fossero. È una questione di economia mentale. Assumo che tu (come me) trovi più facile riflettere sulla mente se si descrive che cosa succede al suo interno in termini di personalità e di intenzioni [...]

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Kahneman ci fa sorgere il dubbio che sarà sempre più «econo-mico» attribuire menti a oggetti inanimati. È un’affermazione che na-sconde un paradosso. Allo scopo di fornire una descrizione più econo-mica e facilmente comprensibile, invece di togliere – come per solito si fa quando si semplifica, dobbiamo aggiungere qualcosa. Dobbiamo cioè arricchire le ombre che si muovono sullo schermo di intenzioni, trasformandole in protagoniste di una storia. Questo noi non lo fac-ciamo solo con oggetti inanimati in movimento, dotati ai nostri occhi di una personalità, per così dire di un’anima. Lo facciamo anche con i nostri simili, le organizzazioni sociali, le aziende, le società. Di qui trae origine quella catastrofica versione dell’errore di Platone che è l’errore fondamentale di attribuzione, cioè la tendenza a spiegare i comporta-menti altrui basandosi su caratteristiche permanenti, e non sugli scena-ri contingenti in cui ci si muove. Questa è la fonte dei pregiudizi, degli stereotipi ostili su cui si basano i processi di disumanizzazione, della discriminazione nei confronti d’interi gruppi, società, culture (Legren-zi 2014). E tuttavia, anche in questi casi, come in quello di Heider e Simmel, questa illusione cognitiva presenta il perverso vantaggio di semplificare il mondo riconducendolo a pochi modi di classificare gli altri.

Avrete infine notato che ho preferito analizzare l’errore di Plato-ne basandomi su alcune storie in cui ho narrato alcune classiche idee ed esperimenti. Ho usato tale artificio per mostrare che la tendenza a trasformare pochi fatti, nudi e crudi, in storie è irresistibile. Il caso limite è costituito dalle narrazioni dei quotidiani finanziari. Si appic-cicano sentimenti ed emozioni – come, «euforico» «depresso» «ner-voso» – non a oggetti privi di cervello, come in Heider e Simmel, ma addirittura a semplici numeri. E il bello è che le persone prendono per vere queste storie basate sul «sentimento» del mercato. Così fa-cendo le storie s’inverano (cfr. il capitolo Narrazioni in Akerlof, Shiller 2009). Di questo meccanismo narrativo si alimentano le insidie insite nell’errore di Platone, incrementandone il fascino perverso. Gli erro-ri di Platone, se ben confezionati, semplificano e seducono proprio perché sembrano spiegare la realtà delle cose, la realtà «vera» dietro un mondo di apparenze. Finiscono così spesso per diventare profe-zie auto-avverantisi che, invece di causare bolle economiche, hanno disseminato di tragedie il secolo scorso. Per fortuna oggi siamo più resistenti a questi virus.

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6. CONCLuSIONI

L’errore di Platone, come ci ricorda Pennisi, risale a uno scritto di Popper il cui titolo originario parla di «incantesimo di Platone», mentre il titolo della traduzione italiana di questo saggio fa riferimento a un «Platone totalitario» (1966, trad. it. 1973). Credo che abbia fatto bene Pennisi a parlare più in generale di «errore di Platone». L’errore di Platone nasce da un incantesimo che si avvale della potente e sedu-cente illusione del controllo, per innescare la vertigine dei totalitari-smi, che sono una delle tante conseguenze indirette di questo modo collettivo di pensare. Popper definiva così l’errore (44-45):

L’ingegnere sociale crede che l’uomo sia il padrone del proprio destino e che, in conformità con i nostri fini, noi possiamo influenzare o cambiare la storia dell’uomo precisamente come abbiamo cambiato la faccia della terra.

Insomma l’errore di Platone non ha alle spalle solo le precondi-zioni psicologiche, che ho cercato di descrivere, ma anche potenti idee filosofiche.

In un avvincente saggio, Maurizio Ferraris (2014) narra la storia di Nietzsche, i suoi vagabondaggi tra l’Engadina e la Riviera, dalla To-rino della sua triste fine alla Sassonia delle origini, e le idee che l’hanno accompagnato o ossessionato nella sua breve e ambiziosa vita. Ferraris mostra come le tragedie di chi ha creduto di cambiare la storia, vadano ricondotte, almeno per il secolo scorso, soprattutto al mondo «senza verità» di Federico Nietzsche, che ci ha parlato della «volontà di domi-nio che suscita l’eroe», come recita la targa in suo ricordo in via Carlo Alberto 6, a Torino. Ferraris (2014, 127-131) ricorda come Nietzsche anticipi l’idea della fabbricazione di mondi nuovi, alternativi, di cui si è qui parlato:

In un mondo senza verità può fiorire rigogliosamente la volontà di po-tenza come arte, come fabbricazione di mondi [...] Ancora una volta, la vertigine del «non ci sono fatti, solo interpretazioni» è controbilanciata dalla verticalità dell’«Io, Platone, sono la verità».

Se subito ci vengono in mente i totalitarismi del secolo scorso, tragiche espressioni dell’errore di Platone, smascherati nella loro gene-si da Coase e Popper, non dobbiamo dimenticare che la «vertigine» è

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sempre in agguato. L’errore di Platone non finisce mai di tentarci, nel difficile equilibrio tra ciò che è effettivamente sotto il nostro controllo e ciò che ignoriamo essere fuori dal nostro controllo. Tale ignoranza si fonda su illusioni profondamente radicate nell’individuo, e su velleita-rie presunzioni d’ingegneria sociale non facilmente smascherabili.

Gli Stati Uniti si trovano oggi davanti a una situazione geopoli-tica in Medio Oriente assolutamente imprevista pochi anni fa, quando ritenevano di poterlo «controllare» riconducendo alla «loro» raziona-lità (Dixon 1994; Johnson 2004). Ma gli eventi sono andati «fuori con-trollo» a causa di un modo di affrontare le cose che è ben esemplificato dalle parole di Karl Rove, autorevole membro dell’amministrazione Bush. Ferraris ricorda:

La risposta a un giornalista inglese che gli chiedeva conto dell’attività politica e militare degli Stati Uniti: «Noi siamo l’impero e quando agia-mo creiamo la nostra realtà. E mentre voi state studiando questa realtà, giudiziosamente, noi agiremo ancora, creando altre nuove realtà, che voi potrete soltanto studiare, e nient’altro».

È paradossale che le varianti pseudo-imperialiste dell’errore di Platone abbiano continuato a causare danni all’inizio di questo secolo. La vera rivoluzione scientifica del Novecento, infatti, è stata l’afferma-zione dell’evoluzionismo darwiniano, e cioè di una storia naturale del-la specie che è segnata essenzialmente dal caso, e da una visione dello sviluppo umano determinato da circostanze esterne.

Peter deMenocal (2014) ha ricostruito in dettaglio come il Lago Turcana, nell’Est dell’Africa, sia scomparso e ricomparso molte volte mentre i nostri antenati, abitanti sulle sue sponde, cercavano di adat-tarsi a questi shock climatici. Bernard Wood (2014) sostiene che quan-to più capiamo della faticosa e graduale scissione tra scimpanzé e uma-ni, tanto più è difficile rintracciare quelli che potrebbero essere stati i nostri parenti/antenati. Diventa sempre più complesso individuare un nostro preciso albero genealogico. Questo è arduo oggi, ma proba-bilmente lo sarà in maggior misura con il rinvenimento di sempre più numerose tracce fossili di un lontano passato, nostro e dei nostri «pa-renti». Questo complesso e cangiante albero genealogico, ricco di rami di difficile decifrazione, è stato determinato essenzialmente da rapidi cambiamenti climatici locali, a cui solo alcuni dei nostri progenitori sono riusciti ad adattarsi. Scrive a questo riguardo Peter deMenocal (2011; 2014):

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È sparita la vecchia idea dei nostri progenitori venuti dalle foreste per im-porre un dominio sulle altre specie nelle pianure verdi dell’Africa. I nuovi dati mostrano che si è susseguita una rapida sequenza di cambiamenti climatici e che alcuni dei nostri progenitori sono riusciti fortunosamente a adattarsi ad essa.

Procede così questa ricostruzione affascinante della storia del nostro incerto e avventuroso passato. Ci rendiamo progressivamente conto che esso è stato prodotto da una serie di eventi casuali, per lo più climatici, totalmente al di fuori del nostro controllo. Proprio nel Novecento, quando abbiamo cominciato a intravedere questa storia delle nostre origini, l’uomo ha esaltato la nozione di controllo per l’in-gegnerizzazione sociale, e ha cercato di trasferire l’errore di Platone dall’ambito delle filosofie e delle utopie, in cui era nato, alla proget-tazione di nuove società. Speriamo che le conoscenze sulle nostre ori-gini, grazie al lavoro minuzioso dei biologi e dei climatologi, insieme alla descrizione sperimentale del funzionamento insidioso della mente umana, allontanino per sempre le nefaste conseguenze delle varie ver-sioni dell’errore di Platone1.

Paolo Legrenziuniversità Ca’ foscari

Dipartimento di Filosofia e Beni CulturaliDorsoduro 3484/D

30123 venezia [email protected]

NOTE1 Ringrazio Antonino Pennisi per avermi invitato all’ultima riunione del Codisco

a Noto, dove si sono dibattuti questi temi, Carlo Umiltà per aver scritto con me il saggio Perché abbiamo bisogno dell’anima (2104), da cui è tratta la tesi sulla riduzione dell’incer-tezza a partire da Heider e Simmel, l’editore Raffaello Cortina per la pubblicazione futura di un saggio che conterrà le due storie iniziali, quella delle intuizioni fuorvianti e quella del controllo.

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