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iN copertiNA14 Come saràil Brasile di DilmaThe NationeuropA20 L’Ungheriacancella la libertàdi stampaNépszabadságAfricAe medio orieNte22 Gli erroridi Mubarake la rabbia dei coptiegizianiLibérationAmeriche24 La California dopoSchwarzeneggerLos Angeles TimesAsiA e pAcifico26 Gli studenti cinesidiligenti e pococreativiThe New York Timesvisti dAgli Altri28 La rivoltadei ragazzidell’Europadel sudThe New York TimesgiAppoNe34 Gli operai perfettidi Toyota CityXXIhAiti42 I profeticontro il vudùLe Monde MagazinescieNzA48 La medicinabugiardaThe Atlanticportfolio56 La speranzadel SudanLe fotodi Stefano De LuigiritrAtti62 Hans-RolandRichterL’uomo di gommaDie ZeitviAggi64 Le montagnecolorateFinancial TimesgrAphicJourNAlism68 Cartolineda New YorkKikuo Johnsonpop80 Fateci pagareJohn Lanchester

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Internazionale 879 | 7 gennaio 2011 3

Sommario

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La settimana

7/13 gennaio 2011 • Numero 879 • Anno 18

Il primo articolo che ha scritto per un giornale tedesco era su Angelo Branduardi. “Terribile”. Giovanni di Lorenzo ha 51 anni e gli ultimi sei li ha

passati alla direzione della Zeit, il tempo, uno dei più importanti settimanali tedeschi. Diverso dagli altri in tutto. Tanto per cominciare nel formato: un lenzuolo, come i quotidiani di una volta. E poi perché è uno dei pochi giornali che negli ultimi due anni non ha perso copie. Anzi, ne ha guadagnate. Il 2010 è stato l’anno migliore della sua storia. Mezzo milione di copie vendute ogni settimana, con moltissimi lettori tra i venti e i trent’anni. In un’intervista al quotidiano spagnolo El País, Di Lorenzo spiega il segreto del successo: non dare ascolto ai consulenti, continuare a pubblicare articoli lunghi e spesso diicili, occuparsi di argomenti non necessariamente legati alla stretta attualità. Orientare e approfondire, cercando di diferenziarsi dagli altri. E internet? Die Zeit ha una redazione web di sessanta persone, ma per ora internet non produce utili. “Solo la qualità porta soldi”.Giovanni De Mauro

[email protected]

Qualità iN copertiNA14 Come sarà

il Brasile di Dilma The Nation

europA20 L’Ungheria

cancella la libertà di stampa

Népszabadság

AfricA e medio orieNte22 Gli errori

di Mubarak e la rabbia dei copti egiziani

Libération

Americhe24 La California dopo

Schwarzenegger Los Angeles Times

AsiA e pAcifico26 Gli studenti cinesi

diligenti e poco creativi

The New York Times

visti dAgli Altri28 La rivolta

dei ragazzi dell’Europa del sud

The New York Times

giAppoNe 34 Gli operai perfetti

di Toyota City XXI

hAiti42 I profeti

contro il vudù Le Monde Magazine

scieNzA48 La medicina

bugiarda The Atlantic

portfolio56 La speranza

del Sudan Le foto

di Stefano De Luigi

ritrAtti62 Hans-Roland

Richter L’uomo di gomma

Die Zeit

viAggi64 Le montagne

colorate Financial Times

grAphic JourNAlism

68 Cartoline da New York

Kikuo Johnson

pop80 Fateci pagare John Lanchester

scieNzA e tecNologiA

88 La verità sul fondo della bottiglia

New Scientist90 Il diario della Terra

ecoNomiA e lAvoro

92 Un mondo senza contanti

Frankfurter Allgemeine Zeitung

cultura70 Cinema, libri,

musica, tv, arte

Le opinioni

23 Amira Hass

25 Yoani Sánchez

30 Manuel Castells

32 Noam Chomsky

72 Gofredo Foi

74 Giuliano Milani

76 Pier Andrea Canei

78 Christian Caujolle

85 Tullio De Mauro

89 Anahad O’Connor

93 Tito Boeri

le rubriche13 Editoriali

96 Strisce

97 L’oroscopo

98 L’ultima

XXI Fondato nel 2008, è un trimestrale francese dedicato ai grandi reportage. L’articolo a pagina 34 è uscito a ottobre del 2010 con il titolo Merveilleuse et heureuse Toyota City. The Atlantic Fondato a Boston nel 1857, è un mensile statunitense di politica e cultura. L’articolo a pagina 48 è uscito a novembre del 2010 con il titolo Lies, damned lies, and medical science. The Nation È un settimanale statunitense indipendente e progressista. L’articolo a pagina 14 è uscito il 29 dicembre 2010 con il titolo Dilma Roussef: in Lula’s shadow. The New York Times Pubblicato a New York, è uno dei più importanti quotidiani del mondo.

L’articolo a pagina 28 è uscito il 1 gennaio 2011 con il titolo Europe’s young grow agitated over future prospects. Die Zeit È un settimanale tedesco di centrosinistra. Fondato nel febbraio del 1946, si occupa di politica, economia, cultura e società. L’articolo a pagina 62 è uscito il 18 novembre 2010 con il titolo Der Gummi-Mann. Internazionale pubblica in esclusiva per l’Italia gli articoli dell’Economist.

le principali fonti di questo numero

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“Il miglior modo per difendere una rivoluzione sociale è denunciarla quando divora i suoi igli”

mANuel cAstells, pAgiNA

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Immagini

Sott’acquaQueensland, Australia3 gennaio 2011

Rockhampton, nello stato del Queen­sland, ha 77mila abitanti ed è la città più popolosa tra quelle colpite dalle alluvio­ni delle ultime settimane nel nordest dell’Australia. Le acque del iume Fitz­roy hanno sommerso anche l’autostra­da che collega la città con l’aeroporto. Finora ci sono state tre vittime e 500 persone hanno dovuto abbandonare le loro case. Secondo gli esperti il peggio deve ancora venire. Foto di Mechielsen Lyndon (Afp/Getty Images)

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Immagini

Miscela selezionataBinh Duong, Vietnam3 gennaio 2011

Un operaio controlla il cafè nel magaz-zino di un’azienda statale. A dicembre il Vietnam ha esportato 132mila tonnella-te di cafè, il 10,3 per cento in meno ri-spetto allo stesso mese del 2009. Il pae-se asiatico è il secondo produttore mon-diale di cafè dopo il Brasile, ma il primo nella coltivazione della qualità robusta, usata per il cafè solubile. Nel 2010 la crisi ha fatto calare la produzione, fre-nando le esportazioni. Foto di Nguyen Huy Kham (Reuters/Contrasto)

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Immagini

I guerrieri adultiKilo, Kenya20 dicembre 2010

Il 20 dicembre in un villaggio del di-stretto di Mashuuru, a sud di Nairobi, si è svolta una grande cerimonia per cele-brare il passaggio all’età adulta di un migliaio di guerrieri masai di età com-presa tra i 12 e i 25 anni. Il rito si ripete più o meno ogni dieci anni, quando si raggiunge un numero suiciente di par-tecipanti. Ai festeggiamenti erano pre-senti i leader della comunità masai e il primo ministro keniano Raila Odinga. Foto di Dai Kurokawa (Epa/Ansa)

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10 Internazionale 879 | 7 gennaio 2011

[email protected]

Liberiamo la copertina u All’editoriale di Giovanni De Mauro “Liberiamo” (5 novem-bre) mancava una frase: “Ha colonizzato anche la nostra co-pertina”. Visto che la speranza di liberarcene da qualche gior-no si è aievolita, almeno voi li-berate i vostri lettori dalla sua ricorrente immagine. Barbara Lomonaco

Maxxi attacco nel mondo dell’arte u Leggo su Internazionale (Splendida forma, 10 dicembre) alcuni giudizi fortemente critici di Alessandro Rabottini, giova-ne curatore della Galleria d’Ar-te Contemporanea di Bergamo. Giovane, ma non originale. Il conformismo di molta critica d’arte contemporanea non manca di rilettersi, contro ogni evidenza, dentro istituzioni, vo-lute dalla cosiddetta “Destra” come il Macro e il Maxxi, e i i-nanziamenti loro garantiti. Alessandro Rabottini, parlando di “destra populista”, sembra ignorare le posizioni di destra esplicite di alcuni simboli dell’arte contemporanea, come

Burri e De Dominicis. La mili-tanza del critico coincide con la militanza politica, e determina la inzione di uno stato di asse-dio che vedrebbe l’arte contem-poranea “minacciata”. Da me per esempio. Rabottini ignora che fui io a far partire il cantiere del Maxxi, e considera eviden-temente non contemporanei innumerevoli artisti di cui mi sono occupato. Cos’è contem-poraneo lo decide lui, nel suo fascismo spontaneo, mentre la mia nomina alla Biennale “è una vergogna per l’Italia”. Lui in compenso si specchia in una contemporaneissima Lara Fa-varetto, ignorando Lucien Freud, come ha ignorato Gian-franco Ferroni che a Bergamo ha avuto una fertilissima sta-gione. Peccato che Ferroni di destra non fosse, come non lo è Guccione, altro ignorato da Ra-bottini. In compenso, il mondo ignora gli studi, i libri, le mostre di questo giovane curatore. Es-sere di sinistra, per lui, vuol dire obbedire ciecamente alle leggi del mercato consacrate nelle grandi iere internazionali e a cui si cerca di assoggettare an-che Bergamo, ovviamente go-vernata da una “destra populi-

sta”. Mi chiedo in che modo l’assessore alla cultura di Ber-gamo, Claudia Sartirani, possa conciliare la sua politica cultu-rale con antagonisti politici che usano le strutture della città per i loro interessi di mercato, e ag-gredendo chi, come me, gode della sua iducia. La “vergogna d’Italia” si estende dunque an-che a lei? Rispettabili artisti che lavorano a Bergamo, non sono abbastanza contemporanei, benché viventi, per il giovane curatore senza titoli? Vittorio Sgarbi

Correzioni

u Le foto dell’articolo La gran-de trufa dei fondi europei (17 di-cembre) rappresentano la com-missione europea.

PER CONTATTARE LA REDAZIONE

Telefono 06 441 7301 Fax 06 4425 2718Posta viale Regina Margherita 294, 00198 RomaEmail [email protected] internazionale.it

INTERNAZIONALE È su

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Cara Milana, è possibile che le rivolte degli studenti diventino la base per un’Europa più giusta e più moderna?

Anche in Croazia ci sono state proteste studentesche che hanno attirato l’attenzione de-gli intellettuali più che dei po-litici. Questo perché i partiti sono piuttosto ottusi di fronte a qualsiasi tipo di protesta: credono che sia normale go-vernare seguendo il tornacon-to personale.

È una cosa diicile da cam-biare, ma credo che il futuro

del continente stia nell’eterno procedere verso qualcosa che oggi ci sembra irraggiungibi-le, e magari un giorno riusci-remo tutti a chiamarlo il “no-stro continente”. Faccio molta fatica a capire i rapporti tra i paesi dell’Unione, e non sono in grado di dire se questa Unione si stia veramente sgre-tolando.

Quando leggo le notizie sugli altri paesi europei mi viene da pensare che tutti i po-litici del continente sono per-sone false che fanno fatica a nascondere le loro ambizioni dietro slogan astratti. Questo

si può cambiare? Credo che le manifestazioni studentesche potrebbero accelerare il cam-biamento, come è già succes-so nel secolo scorso. Ma di si-curo, per rendere l’Europa più sana e sincera, bisognerà az-zerarla completamente. Pro-prio partendo da energie fre-sche. In questo senso credo che si possa sognare un’Euro-pa più interessante e diverten-te, dove potremo sentirci libe-ri. u it

Milana Runjic risponde alle domande dei lettori all’indiriz-zo [email protected]

Cara Milana

Forze fresche

un divorzioeiciente

Caro economista

Mia moglie e io stiamo di-vorziando e lottando per dividerci i beni, soprattutto la casa. Purtroppo, però, le continue discussioni stan-no peggiorando le cose. C’è una soluzione? – B. Graham, Kent

Avete tutta la mia solidarietà. Spesso in questi casi entra in gioco il valore sentimentale degli oggetti ed è diicile tro-vare un accordo. In realtà, sta-te mentendo tutti e due sulle vostre reali preferenze, così da manipolare lo scambio e otte-nere più di quel che volete. Gli economisti Robert Gibbons, Peter Cramton e Paul Klem-perer hanno dimostrato che quando un oggetto appartiene a due persone, e una delle due vuole comprarlo, c’è un modo facile per trovare un accordo. Secondo Klemperer, tu e tua moglie dovreste scrivere ognuno un’oferta per metà della casa. Se fai l’oferta più alta ti prendi la casa, com-prando la quota di tua moglie. Il prezzo si ricava facendo la media delle due cifre che ave-te scritto. Ma attento, se scrivi una cifra troppo bassa vende-rai la casa a poco prezzo, men-tre se la cifra è alta la pagherai troppo cara. Questo sistema può essere applicato a ogni oggetto. C’è da dire, però, che il professor Klemperer è feli-cemente sposato e forse di-spensa i suoi consigli diretta-mente dalla sua torre d’avorio.

Tim Harford risponde alle do-mande dei lettori del Financial Times.

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Internazionale 879 | 7 gennaio 2011 13

Editoriali

Bisognerà aspettare una rivendicazione per averne la certezza. Ma le modalità dell’attentato di Alessandria d’Egitto del 1 gennaio (21 morti e circa 80 feriti, a causa dell’esplosione di una bomba davanti alla chiesa copta dei Due santi) sembrano indicare un solo colpevole: Al Qaeda o un gruppo locale sostenuto da questa organiz-zazione.

Decimata dai missili lanciati dai droni statu-nitensi che le danno la caccia nelle sue roccafor-ti pachistane, la galassia terroristica è in una si-tuazione delicata, ma sarebbe molto pericoloso considerarla come moribonda. In novembre la sua “iliale” irachena, lo Stato islamico iracheno, ha decretato i cristiani “obiettivi legittimi” con una strage compiuta a Baghdad, aprendo così un nuovo fronte per i jihadisti.

Finora la denuncia dei “crociati” riguardava solo il detestato occidente. Inglobando nella stessa vendetta le antiche comunità cristiane del Medio Oriente, che tanto hanno contribuito alla ricchezza di questa regione, Al Qaeda cerca di prendere i classici due piccioni con una fava e di usare l’argomento del nemico vicino e del nemi-co lontano. Nei paesi islamici scatenare i kami-kaze contro queste minoranze – che sono spesso trattate come cittadini di secondo ordine – per-mette di evitare l’accusa di itna, la discordia il-lecita tra credenti e in particolare tra sunniti e sciiti. E consente anche di attaccare dei regimi giudicati empi, mettendoli di fronte alle loro

contraddizioni. È il caso dell’Egitto, il fedele al-leato degli Stati Uniti che presiede la (fantomati-ca) Unione per il Mediterraneo di Nicolas Sar-kozy, ma che di fronte al più grave attentato nella storia della minoranza copta si è limitato a sem-plici frasi di circostanza. A loro volta gli alleati europei e americani, grandi difensori dei valori democratici, hanno comunque tollerato la buf-fonata elettorale egiziana di novembre, nel corso della quale il parlamento è stato completamente “ripulito” da qualunque forma di opposizione, sia islamico-conservatrice sia nazionalista.

Ma i calcoli di Al Qaeda non si fermano qui. La galassia terroristica punta anche sull’emozio-ne suscitata in occidente dagli attacchi contro i cristiani in Asia, in Africa e in Medio Oriente per alimentare uno scontro di civiltà nel quale si tro-va a suo agio, perché permette di sradicare ogni traccia di quei valori universali che detesta.

Che l’occidente s’indigni per gli attacchi con-tro i “suoi” cristiani dopo essere rimasto indife-rente di fronte alle stragi irachene, dimostra be-ne la sua doppiezza. Il clima di siducia genera-lizzata verso l’islam che si respira in Europa e negli Stati Uniti e l’irrigidimento verso le comu-nità musulmane che vivono in occidente, alle prese con complessi meccanismi di integrazio-ne, può solo favorire il jihad globale che agisce su internet.

La difesa dei cristiani d’oriente impone di non cadere nelle trappole di Al Qaeda. u adr

La guerra ai cristiani d’oriente

Le Monde, Francia

L’Europa dei populisti

François Sergent, Libération, Francia

Il populismo di sinistra come di destra, a est co-me a ovest, dilaga nel vecchio continente. Che nel primo semestre 2011 l’Europa sia presieduta dall’Ungheria di Viktor Orbán simboleggia l’ir-resistibile ascesa di questi movimenti demago-gici. Anche se ci sono tanti populismi quanti so-no i paesi europei, tutti però attaccano gli stra-nieri, disprezzano le élite, non hanno fiducia nello stato di diritto. Tutte caratteristiche con-trarie ai valori fondanti dell’Europa. L’Unione e i suoi leader hanno però reagito con poca energia alle restrizioni introdotte da Orbán nel suo paese con una legge che vuole imbavagliare la stampa e paralizzare la democrazia.

Questa impotenza dell’Ue simboleggia il fal-limento delle politiche che non hanno saputo

rispondere alle preoccupazioni, alle frustrazioni e alle richieste degli elettorati populisti, quindi popolari, in tempo di crisi.

I cittadini sono stati colpiti in pieno dal crollo delle borse e dei mercati, sono rimasti molto tur-bati nel vedere le banche salvate con le loro tasse mentre la disoccupazione aumentava. Si sono sentiti abbandonati dall’Europa e dai suoi partiti tradizionali. Ma i politici, soprattutto a sinistra, hanno torto quando criticano in modo sprezzan-te questi elettori smarriti. Altri leader, a destra, come Nicolas Sarkozy o Silvio Berlusconi, col-pendo i rom e gli stranieri fanno del marketing populista sperando di catturare quei voti popola-ri. Ma i cittadini europei meritano delle risposte più serie e urgenti. u oda

“Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio,di quante se ne sognano nella vostra ilosoia”William Shakespeare, Amleto Direttore Giovanni De MauroVicedirettori Elena Boille, Chiara Nielsen, Alberto Notarbartolo, Jacopo ZanchiniComitato di direzione Giovanna Chioini (copy editor), Stefania Mascetti (Internazionale.it), Martina Recchiuti (Internazionale.it), Pierfrancesco Romano (copy editor)In redazione Liliana Cardile (Cina), Carlo Ciurlo (viaggi), Camilla Desideri (America Latina), Simon Dunaway (attualità), Mélissa Jollivet (photo editor), Alessandro Lubello (economia), Alessio Marchionna (Italieni), Maysa Moroni, Andrea Pipino (Europa), Claudio Rossi Marcelli (Internazionale.it), Francesca Sibani (Africa e Medio oriente), Junko Terao (Asia e Paciico), Piero Zardo (cultura), Giulia Zoli (Stati Uniti) Impaginazione Pasquale Cavorsi, Valeria Quadri Segreteria Teresa Censini, Luisa Cifolilli Correzione di bozze Sara EspositoTraduzioni I traduttori sono indicati dalla sigla alla ine degli articoli. Sara Bani, Olga D’Amato, Stefania De Franco, Andrea De Ritis, Nazzareno Mataldi, Giusy Muzzopappa, Floriana Pagano, Fabrizio Saulini, Andrea Sparacino, Ivana Telebak, Bruna Tortorella, Stefano Valenti Disegni Anna Keen. I ritratti dei columnist sono di Scott Menchin Progetto graico Mark Porter Hanno collaborato Gian Paolo Accardo, Luca Bacchini, Francesco Boille, Annalisa Camilli, Gabriele Crescente, Sergio Fant, Andrea Ferrario, Francesca Gnetti, Anita Joshi, Jamila Mascat, Odaira Namihei, Lore Popper, Fabio Pusterla, Marta Russo, Andreana Saint Amour, Diana Santini, Laura Tonon, Pierre Vanrie, Guido Vitiello, Abdelkader ZemouriEditore Internazionale srl Consiglio di amministrazione Brunetto Tini (presidente), Giuseppe Cornetto Bourlot (vicepresidente), Emanuele Bevilacqua (amministratore delegato), Alessandro Spaventa (amministratore delegato), Antonio Abete, Giovanni De Mauro, Giovanni Lo StortoSede legale via Prenestina 685, 00155 Roma Produzione e difusione Francisco Vilalta Amministrazione Tommasa Palumbo, Arianna CastelliConcessionaria esclusiva per la pubblicità Agenzia del marketing editorialeTel. 06 809 1271, 06 80660287 [email protected] Download Pubblicità S.r.l.Stampa Elcograf Industria Graica, via Nazionale 14, Beverate di Brivio (Lc) Distribuzione Press Di, Segrate (Mi)Copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Common Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Signiica che può essere riprodotto a patto di citare Internazionale, di non usarlo per ini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Per questioni di diritti non possiamo applicare questa licenza agli articoli che compriamo dai giornali stranieri. Info: [email protected]

Registrazione tribunale di Roma n. 433 del 4 ottobre 1993Direttore responsabile Giovanni De MauroChiuso in redazione alle 20 di mercoledì 5 gennaio 2011

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14 Internazionale 879 | 7 gennaio 2011

In copertina

Dopo la vittoria alle presi-denziali del 31 ottobre 2010 Dilma Roussef, la prima presidente donna del Brasile, ha dichiara-to: “Il mio primo impe-

gno sarà quello di onorare le donne brasilia-ne ainché il risultato elettorale di oggi, che non ha precedenti nella storia del paese, di-venti la norma e si possa ripetere anche nel-le aziende, nelle istituzioni civili e negli or-gani di rappresentanza di tutta la società”. In Brasile l’elezione di una donna è un se-gnale di rottura con il passato, anche se è probabile che il mandato di Dilma Roussef sarà segnato dalla continuità con il prede-cessore, Luiz Inácio Lula da Silva, che ha lasciato la presidenza con un indice di po-polarità dell’87 per cento.

Dilma Roussef è un’economista, è stata capo di gabinetto nel governo Lula ed ex guerrigliera durante la dittatura negli anni sessanta e settanta. Lula l’ha scelta perché voleva qualcuno che seguisse il suo esem-pio. Oltre a ereditare la popolarità di Lula, Roussef può contare sulla maggioranza del suo partito (Partito dei lavoratori, Pt) e degli alleati al senato e al congresso. Neanche

Lula ha mai avuto un sostegno simile.Considerati i progressi economici e so-

ciali ottenuti dai brasiliani durante gli otto anni di governo di Lula, la vittoria della can-didata del Pt non è stata una sorpresa. Con Lula venti milioni di cittadini sono usciti dalla povertà e il salario minimo è più che raddoppiato. Queste conquiste sono state possibili grazie alla crescita economica del paese – favorita in parte dalle esportazioni verso la Cina – ma sono anche il frutto dei programmi sociali voluti dall’ex presidente. Roussef ha promesso di ampliare questi programmi e si è spinta più avanti promet-tendo ai cittadini di sconiggere deinitiva-mente la povertà. “Non ci fermeremo in-ché ci saranno brasiliani che muoiono di fame”, ha detto. Roussef punterà sul pro-gramma Fome zero, introdotto da Lula nel 2003, che fornisce sussidi diretti per i pro-dotti alimentari, e favorirà i programmi per creare occupazione attraverso la realizza-zione di infrastrutture per l’elettricità e l’ir-rigazione. Il programma Bolsa família è stato un altro successo del governo Lula: ha cambiato la vita di 12,4 milioni di nuclei fa-miliari che guadagnano meno di 120 real al mese (54 euro). Per ricevere un aiuto econo-

mico, le famiglie devono mandare i igli a scuola. I ragazzi hanno l’obbligo di seguire almeno l’85 per cento delle lezioni, devono sottoporsi a esami medici e vaccinarsi. Roussef si è poi impegnata a sviluppare il programma Minha casa, Minha vida, che dà aiuti per l’acquisto della prima casa.

I primi appuntamenti della presidente fanno pensare che la continuità con il pre-cedente governo riguarderà soprattutto la sanità e lo sviluppo sociale. Roussef ha no-minato ministra dello sviluppo sociale l’as-sistente di Lula Tereza Campello, incaricata

Come saràil Brasiledi DilmaBenjamin Dangl, The Nation, Stati Uniti

Dilma Roussef è la prima presidente donna del Brasile. Il suo governo proseguirà la politica economica e sociale di Lula. E cercherà di fare di più contro la povertà e per le minoranze

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Internazionale 879 | 7 gennaio 2011 15

Stati Uniti. L’ex presidente ha raforzato le alleanze regionali economiche e diplomati-che come il Mercosur e l’Unasur, ha soste-nuto la resistenza contro le pressioni del presidente George W. Bush per un’area di libero scambio delle Americhe, ha denun-ciato il golpe contro il presidente dell’Hon-duras José Manuel Zelaya e ha appoggiato il presidente boliviano Evo Morales e il presi-dente ecuadoriano Rafael Correa durante i tentativi di destabilizzazione nei due paesi. Dilma Roussef ha nominato ministro degli esteri Antonio Patriota, vicino all’ex mini-stro Celso Amorim. In politica estera il nuo-vo governo farà sentire la sua voce nei nego-ziati sul clima e sul commercio mondiale. Alla ine di gennaio il Brasile parteciperà al Forum economico mondiale di Davos, in Svizzera. Gli occhi del mondo saranno pun-tati sul Brasile anche nel 2014, quando Rio de Janeiro ospiterà i Mondiali di calcio. I preparativi dell’evento, però, sono serviti come scusa per aumentare la repressione della polizia nelle favelas della città.

La comunità internazionale si chiede quale sarà lo stile di governo della nuova presidente. Forse l’attenzione sarà concen-trata soprattutto nei settori in cui Roussef si distinguerà dal suo predecessore, in par-ticolare i diritti delle donne. “Le pari oppor-tunità sono un principio fondamentale del-la democrazia”, ha detto Dilma dopo la sua vittoria.

Ma la prima presidente donna del paese con l’economia più grande del Sudamerica dovrà agire nei limiti economici, ambienta-li e politici del suo predecessore. Almeno per un po’, sarà diicile che Dilma Roussef esca dal tracciato segnato da Lula. u sdf

stinati alla sanità e all’istruzione. Oltre al potenziamento dei programmi sociali, è probabile che Dilma Roussef porterà avan-ti la politica di Lula nel settore agricolo.

Il sostegno dell’ex presidente alle attivi-tà agroindustriali, in particolare ai produt-tori di soia e mais, a discapito delle fattorie e dei contadini senza terra, è stato uno dei suoi maggiori insuccessi. Grazie all’inco-raggiamento di Lula, le multinazionali agroindustriali – tra cui Monsanto, Archer Daniels Midland, Cargill e Syngenta – han-no esteso la loro attività in tutto il paese, potenziando i legami con i grandi latifondi-sti e con i politici brasiliani. “Dal 2003 al 2007”, spiega l’analista politico Miguel Carter, “il sostegno statale all’élite rurale è stato sette volte maggiore di quello oferto alle aziende agricole a conduzione familia-re, anche se queste aziende rappresentano l’87 per cento della forza lavoro rurale del paese e producono la maggior parte degli alimenti consumati dai brasiliani”. Il risul-tato di questo squilibrio è un’infinità di piantagioni di soia, immensi ranch di be-stiame e allevamenti in batteria dannosi, che costringono le famiglie povere a trasfe-rirsi e abbattono grandi zone di foresta plu-viale arricchendo le élite internazionali.

Un’alleataDurante i due governi di Lula, il Movimen-to dei Sem terra (Mst) ha continuato a oc-cupare le terre incolte per protestare contro la politica agricola. L’Mst ha sostenuto la candidatura di Dilma Roussef, perché era convinto che l’elezione del socialdemocra-tico José Serra sarebbe stata una catastrofe per tutto il paese. Il leader del movimento, João Pedro Stedile, ha spiegato la sua posi-zione a un giornalista della Reuters: “I lavo-ratori non si mobilitano contro un presi-dente reazionario”, ha dichiarato. “Con Dilma Rousseff la nostra base sociale si rende conto che mobilitarsi è utile e che possiamo fare progressi”. Con un po’ di for-tuna, l’Mst troverà nella presidente un’al- leata.

Dilma Roussef continuerà sulla strada aperta da Lula per far afermare il Brasile come potenza regionale e aiutarlo a guidare il Sudamerica verso l’indipendenza dagli

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di gestire il programma Bolsa família, e ha scelto come ministra della sanità la consu-lente di Lula Alexandre Padilha. nei prossi-mi anni l’impatto di queste iniziative do-vrebbe farsi sentire di più anche grazie all’aiuto dei soldi che il paese guadagna con il petrolio. Dilma Roussef è stata presiden-te della compagnia petrolifera statale Pe-trobras e ha contribuito a redigere la legge che darà allo stato un ruolo centrale nello sfruttamento delle riserve scoperte da poco al largo della costa brasiliana. Una parte dei fondi che vengono dal petrolio saranno de-

u 14 dicembre 1947 nasce a Belo Horizonte, capitale dello stato di Minas Gerais.u 1970 Viene arrestata per aver partecipato alla lotta armata contro la dittatura militare.u 1973 Si trasferisce a Porto Alegre, dove si laurea in economia.u 1990 Diventa presidente della Fundaçao de economía e estatística del Rio Grande do Sul.u 1993 È nominata segretaria statale delle miniere e dell’energia del Rio Grande do Sul.u 2001 Entra nel Partito dei lavoratori (Pt).u 2002 Viene nominata ministra delle miniere e dell’energia nel primo governo Lula.u 31 ottobre 2010 Vince al ballottaggio le elezioni presidenziali battendo il centrista José Serra.

Biograia

Brasília, 1 gennaio 2011. Dilma Rous sef con la iglia Paula. In basso: un rito sciamanico di buon auspicio per Dilma Roussef il 29 dicembre 2010 a Lima, in Perù

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16 Internazionale 879 | 7 gennaio 2011

In copertina

All’ombra di Lula

Ex guerrigliera, economista e ministra dell’energia nel primo governo Lula, Dilma Roussef è nota per la sua serietà e concretezza. Ma ha poca esperienza politica

Soledad Gallego-Díaz, El País, Spagna

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Luiz Inácio Lula da silva ha cono-sciuto Dilma Roussef nel 2002, quando convocò un gruppo di esperti del Partito dei lavoratori

(Pt) per discutere di politica energetica. Mancava qualche mese al suo insediamen-to come presidente e voleva chiarire alcuni punti fondamentali del suo programma economico. “Dilma”, ha poi raccontato il presidente brasiliano in un’intervista, “si è subito fatta notare per la sua obiettività e per la sua profonda conoscenza del setto-re”. Aveva 54 anni, era un’economista con incarichi dirigenziali a Porto Alegre e si portava sempre dietro un computer dove sembravano esserci tutti i dati, tutti i pro-getti e tutte le domande.

“Ho trovato un ministro del mio gover-no”, pensò Lula. Quando è diventato presi-dente l’ha chiamata per aidarle il ministe-

ro dell’energia, tra lo stupore generale. tre anni dopo, nel 2005, Dilma Roussef è di-ventata capo della Casa civil (una specie di capo di gabinetto). Nel 2008 Lula ha lancia-to la corsa alla presidenza di Roussef, pren-dendo ancora una volta in contropiede tut-ti.

“Lula ha sempre apprezzato Dilma per la sua concretezza, per la sua grande lealtà e forse perché non è mai stata la candidata più quotata”, spiega un dirigente del Pt. “Ogni volta che Lula ha chiara un’idea e gli altri no, alla ine è sempre lui ad avere ra-gione”, ha spiegato tempo fa José Dirceu, uno dei suoi possibili successori.

La militanza e la prigioneÈ da diversi anni che Dilma Roussef si oc-cupa di ministeri e di negoziati, anche se nella maggior parte dei casi si è trattato di imprenditori e non di politici. “È seria, è esigente e mantiene le sue promesse”, sin-tetizza un diplomatico spagnolo, testimone di questi incontri. Ma inora è stato sempre Lula a farsi carico delle trattative politiche. A preoccupare di più gli osservatori è pro-prio la sua mancanza di esperienza politica, perché il Brasile è un paese complicato do-ve c’è sempre bisogno di stringere alleanze

e accordi, non solo tra partito e partito, ma anche tra le fazioni interne ai partiti.

L’esempio migliore è l’ultimo governo Lula: su trentasette ministeri, diciassette sono andati a esponenti di altri partiti. Dil-ma dovrà dimostrare di essere in grado di agire da protagonista prima che altri lo fac-ciano al suo posto, dentro o fuori dal Partito dei lavoratori.

Dilma Roussef ha avuto una vita abba-stanza complicata ed è difficile dubitare che abbia carattere. Figlia di un imprendi-tore e avvocato comunista bulgaro e di una brasiliana, è cresciuta a Belo Horizonte, in un ambiente benestante e politicizzato. Forse a causa di questi precedenti familiari Dilma, in un paese con un forte sentimento religioso, non è nota per la sua devozione. La stampa vicina all’opposizione ha cercato di fare leva su questo punto per metterle contro la comunità evangelica (più del 20 per cento dei brasiliani appartiene a qual-che chiesa evangelica, compresa la candi-data dei Verdi, Marina silva). Lula, che si è sempre dichiarato cattolico, è corso subito in suo aiuto. I consulenti della campagna elettorale hanno tirato un sospiro di sollie-vo quando, pochi giorni prima delle elezio-ni, hanno potuto diffondere una foto di Dilma Roussef che sorrideva in chiesa al battesimo del suo unico nipote, Gabriel, il iglio di Paula, avuta a 29 anni dal secondo marito.

Un altro aspetto del suo passato è la mi-litanza negli anni settanta in un’organizza-zione favorevole alla lotta armata. Dilma ha sempre negato di aver impugnato le ar-mi o di aver partecipato alle azioni violente compiute dal gruppo. In efetti quando ven-ne arrestata a são Paulo, nel 1970, fu con-dannata a poco più di due anni di carcere per attività sovversive, una pena troppo lie-ve per far pensare ad azioni violente. In ogni caso, molti credono che ci siano anco-ra episodi da chiarire su quella fase della sua vita. Un quotidiano di são Paulo ha chiesto che siano resi pubblici i documenti del tribunale militare relativi al suo caso, probabilmente per evitare manipolazioni durante la campagna elettorale. si sa che Dilma fu torturata e, come ha dichiarato lei stessa a un giornalista della rivista Piauí, “nessuno esce da un’esperienza del genere senza esserne segnato”.

Roussef uscì dal carcere a 25 anni, mol-

Brasília, 15 dicembre 2010.Dilma Roussef e Lula

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to magra e senza aver rinnegato le sue idee. Per stare vicino all’uomo che è stato il gran-de amore della sua vita, Carlos Araújo, pa-dre di sua iglia, anche lui militante della stessa organizzazione e anche lui detenuto, si trasferì a Porto Alegre e riprese gli studi di economia. Nel ritratto pubblicato da Piauí, i compagni di prigione di Araújo la descrivono come “simpatica, solidale e molto afettuosa”. Un’opinione un po’ di-versa da quella che hanno oggi i suoi colla-boratori, spesso infastiditi dai suoi modi bruschi.

Dilma Roussef ha vissuto con Araújo quasi trent’anni, ino a quando ha scoperto che lui aspettava un iglio da un’altra donna e l’ha cacciato di casa. Ma sono in ottimi rapporti: Araújo ha passato una settimana al suo ianco quando pochi mesi fa le hanno diagnosticato un tumore linfatico.

Dilma, che tiene al suo aspetto e si è fat-ta due operazioni di chirurgia plastica, si è tagliata i capelli a zero prima che le cades-sero e si è sottoposta con ottimismo alle sedute di chemioterapia. “È stato bello sentire l’acqua scorrere sulla testa”, si è li-mitata a raccontare dopo essere guarita.

Un vantaggio enormeGli amici che la conoscono da più tempo dicono che è più simpatica di quanto sem-bri, è una buona compagna di viaggio (ha visitato l’Europa tre volte e secondo le sue amiche parla inglese, francese e spagnolo) e le piace l’arte. I suoi colleghi la deinisco-no “dura”. Politicamente ha sempre difeso un ruolo importante dello stato, anche se si è opposta alla nazionalizzazione del settore elettrico. Forse per questo ha potuto conta-re sul sostegno di Antônio Palocci, il primo ministro delle inanze di Lula, arteice di un’inattesa politica di austerità, che ha ab-bandonato il governo per uno scandalo ses-suale e di corruzione. Ora, con Dilma alla presidenza, Palocci prepara il suo trionfale rientro alla Casa civil. Tra i suoi sostenitori c’è anche José Dirceu, che Roussef ha so-stituito proprio alla Casa civil.

Come ha spiegato a Piauí il segretario personale di Lula Gilberto Carvalho (un fervente cristiano), negli ultimi due anni Dilma Roussef è la persona che ha visto e ha parlato più spesso con Lula: tutti i giorni, più volte al giorno. E questo ha fatto la dif-ferenza nel momento della verità. “Dilma ha avuto sempre un enorme vantaggio su tutti gli altri potenziali candidati: aveva il sostegno di Lula”. u sb

Sorprenderà tutti

Anche se non sembra, Lula e Dilma Roussef hanno personalità diverse. A lei non piace improvvisare e preferisce stare lontano dai rilettori. Ma troverà il suo stile di governo

Eliane Oliveira e Cristiane Jungblut, O Globo, Brasile

Tutte le persone che lavorano con Dilma Roussef hanno la stessa opinione: solo a partire dal suo insediamento, il 1 gennaio 2011,

il Brasile potrà rendersi conto di come go-vernerà la nuova presidente. Figlia di pa-dre bulgaro e madre brasiliana, da giovane Roussef ha passato tre anni della sua vita in prigione e, molto tempo dopo, ha scon-itto un tumore e gli avversari politici nelle prime elezioni presidenziali a cui si è pre-sentata.

La ministra esigente e dal carattere du-ro, che ha conquistato il presidente Lula, è uscita di scena lasciando spazio a una per-sona che cerca di capitalizzare tutto quello che ha imparato in più di sessant’anni di vita, soprattutto per quanto riguarda la po-litica, di cui ha fatto esperienza negli ultimi due o tre anni.

Lo stile di governo di Dilma Roussef ha cominciato a delinearsi durante la fase di transizione. La nuova presidente ha prefe-rito usare con prudenza le tattiche impara-te nel suo passato da guerrigliera, anche se i suoi interlocutori hanno avuto un’impres-sione diversa.

Informazione sicuraDilma Roussef ha chiarito che non le piac-ciono le riunioni afollate. Preferisce orga-nizzare incontri con due o tre persone al massimo, e possibilmente senza nessuno che aspetti in anticamera. “Così se un’in-formazione iltra, sa da dov’è uscita”, rac-conta uno degli assistenti più vicini.

“È un sistema usato sia dai guerriglieri sia nelle grandi imprese”, spiega Antonio Jorge Ramalho, specialista in strategia mi-litare. Dilma Roussef parla di fatti specii-ci e persone speciiche, un principio che ha applicato con i coordinatori della transizio-ne: Antônio Palocci, scelto per la Casa ci-vil; José Eduardo Cardozo, nominato mini-stro della giustizia; e José Eduardo Dutra, presidente del Pt.

Al di là di come si comporta con i suoi collaboratori, per l’opinione pubblica la nuova presidente brasiliana sarà molto di-

Eliane Cantanhêde, Folha de São Paulo, Brasile

L’opinione

Esce Lula, entra Dilma. Se ne va il mito, arriva la pre-sidente donna che dovrà aumentare gli investimen-ti, dare la priorità a scuola, salute e sicurezza, rifor-mare l’istruzione, elimina-re la povertà e correre con-tro il tempo per fare in mo-do che i Mondiali del 2014 e le Olimpiadi del 2016 siano un successo.

Sarà diicile riempire il vuoto lasciato da Lula, amato per le sue qualità e per i suoi difetti. Dilma è dura e determinata, ed eredita un paese politica-mente ed economicamen-te stabile. Le condizioni sono favorevoli, e le sue caratteristiche di donna e di militante aiutano. Ha un’ideologia e, se serve,

accetterà di perdere con-sensi. Il Brasile le ha dato non solo un voto di iducia, ma anche stimoli, soste-gno e speranze. Itamar Franco, Fernando Henri-que Cardoso e Lula hanno creato un circolo virtuoso, e Dilma dovrà andare ol-tre. Ma senza rischiare tut-to per essere quello che non sarà: un mito. u as

Voto di iducia

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In copertinaversa dal suo predecessore e “creatore” Luiz Inácio Lula da Silva. A Dilma Roussef non interessa la pubblicità: sarà una presi-dente di basso proilo, a cui non piace ap-parire sui mezzi d’informazione. È discreta ma ha bisogno d’imporsi perché è una don-na circondata soprattutto da uomini. Chi ascoltava i discorsi improvvisati di Lula si accorgerà che Dilma è diversa. Secondo i suoi collaboratori, segue alla lettera quello che scrive, probabilmente per evitare di essere prolissa.

Secondo l’analista politico João Paulo Peixoto, per ora Dilma è limitata dall’om-bra di Lula. Ma hanno due personalità molto diverse e questo si capirà bene solo tra qualche mese. “Il 1 gennaio abbiamo assistito all’addio di Lula o all’insediamen-to di Roussef?”, si chiede Peixoto. “Nella storia della repubblica non ho mai visto un presidente calamitare tanto l’attenzione dei mezzi d’informazione ino all’ultimo giorno del suo mandato”, aggiunge.

Disciplinata e metodicaDilma Roussef ci tiene a controllare tutto. Forse ora, come presidente, dovrà comin-ciare a delegare, anche se ha la fortuna di “capire subito cos’è che non funziona”. Ha costruito la sua fama di tecnico nella Fun-daçao de economia e estatística del Rio Grande do Sul e si è guadagnata la notorie-tà a livello nazionale con la crisi dell’ener-gia elettrica scoppiata durante il governo di Fernando Henrique Cardoso, quand’era segretaria statale delle miniere e dell’ener-gia del Rio Grande do Sul, uno stato a cui fu risparmiato il razionamento.

La fama ottenuta in quel periodo l’ha portata nel 2002 nella squadra di governo di Lula. Un anno dopo, quando c’è stata una nuova crisi dell’elettricità, Roussef non era più ministro delle miniere e dell’energia, ma non si è liberata delle cri-tiche che le furono rivolte dagli avversari di governo.

Le persone che hanno lavorato negli ultimi anni con lei la deiniscono “discipli-nata e metodica”. È nota anche per essere molto esigente. Nonostante gli elogi, peri-no i suoi sostenitori ammettono che a volte dà troppa importanza al lavoro. È legata alla famiglia, le piace leggere e studia mol-to. “Dicono che è impaziente, ma non è vero. Quando decide di risolvere una que-stione, ascolta tutte le opinioni prima di arrivare a una conclusione”, sostiene un suo collaboratore. u as

Il 1 gennaio, quando è diventata presi-dente del Brasile, Dilma Roussef de-ve essersi sentita orgogliosa. Sce-gliendo i 37 ministri del suo governo

ha svolto una mediazione ragionevole e ha soddisfatto non solo le richieste contrastan-ti del suo partito e della coalizione, dei bloc-chi regionali e ideologici, ma anche il suo desiderio che un terzo dei ministri fossero donne (ce ne sono nove). Con la nomina a capo della Casa civil di Antônio Palocci, ex ministro delle inanze, Roussef ha dimo-strato di essere sicura di sé: alcuni pensava-no che avrebbe evitato di aidare un ruolo centrale a un personaggio politico così in-gombrante. Questa decisione e la promo-zione di Alexandre Tombini dal consiglio di amministrazione della Banca centrale alla presidenza della stessa banca sono piaciute agli investitori, che chiedevano un segnale

Con i piedi per terra

La nuova presidente eredita un paese con un’economia in pieno boom. Ma con un’inlazione in aumento e pochi investimenti nelle infrastrutture. E una classe politica che vuole stipendi più alti

The Economist, Gran Bretagna

di continuità economica. Ma nei giorni che hanno preceduto il suo insediamento, Dil-ma Roussef ha ricevuto alcuni promemo-ria sulle diicoltà che la attendono. Nel di-scorso pronunciato dopo la vittoria del 31 ottobre, Roussef ha detto che le sue priori-tà saranno eliminare la povertà e migliorare la qualità dell’assistenza sanitaria e dell’istruzione, salvaguardando la stabilità economica e il basso tasso d’inlazione. Ha anche dichiarato che i tassi d’interesse rea-li, oggi più alti che in qualunque altra gran-de economia, dovranno scendere dal 5 al 2 per cento entro il 2014. Ma a novembre l’in-lazione è risalita al 5,6 per cento. Il ministro delle inanze Guido Mantega, che manterrà l’incarico nel nuovo governo, ha irrigidito i requisiti di capitale delle banche nel tenta-tivo di rafreddare l’economia e impedire la crescita dei tassi d’interesse. Anche se la Banca centrale si è doverosamente conte-nuta, dal suo ultimo rapporto trimestrale sull’inlazione pubblicato il 22 dicembre, è apparso chiaro che è una tregua tempora-nea. Molti economisti prevedono per gen-naio una crescita di mezzo punto nei tassi d’interesse delle banche.

Questo sottoporrà a ulteriore pressione una valuta che, negli otto anni della presi-

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Rio de Janeiro, Brasile. Cantiere per restaurare il Cristo Redentor

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Joaquim Falcão, Folha de São Paulo, Brasile

L’opinione

I fatti sono noti: Cesare Battisti è stato condannato per la morte di quattro persone. L’interpre-

tazione è controversa: è un omicidio plurimo o un crimine politico? Se-condo la giustizia italiana, è un omi-cidio plurimo. Quella francese ha parlato prima di crimine politico poi di omicidio plurimo. In Brasile il co-mitato nazionale per i rifugiati, un organo legato al ministero della giu-stizia, ha negato a Battisti lo status di rifugiato. Ma l’ex terrorista ha mobilitato le organizzazioni per i di-ritti umani e il Partito dei lavoratori (Pt), riuscendo a ottenere un avvo-cato in grado di fare la diferenza. Così la situazione è cambiata: il mi-nistero gli ha concesso lo status di rifugiato per persecuzione politica. L’Italia ha fatto ricorso al tribunale federale supremo (Stf ), che ha con-fermato la tesi dell’omicidio pluri-mo e ha accordato l’estradizione, ma senza imporne l’attuazione. L’ultima parola spettava a Lula, che ha negato l’estradizione. E ora?

Per giustiicare la sua scelta, Lu-la ha citato l’articolo del trattato di estradizione che parla di “ragioni per supporre che la persona recla-mata sarà sottoposta ad atti di per-secuzione e discriminazione”. Ma la situazione si è complicata quando Cezar Peluso, presidente dell’Stf, ha dichiarato che il caso può tornare al tribunale.

Lula ha tenuto conto del suo fu-turo. Concedendo lo status di immi-grato a Battisti, l’ex presidente ha cercato di raforzare la sua immagi-ne di leader impegnato per i diritti umani. Anche contro potenze come l’Italia e con decisioni discutibili? Anche con il rischio di essere smen-tito? Ma questa, in fondo, è la sua specialità. u as

Il caso Battisti

denza Lula, ha più che raddoppiato il suo valore rispetto al dollaro. Secondo Tony Volpon, un intermediario di borsa di No-mura Securities, il tesoro del Brasile sta per-dendo intorno ai 40 miliardi di real (18 mi-liardi di euro) all’anno vendendo titoli bra-siliani agli stranieri e investendo il ricavato in strumenti inanziari in dollari statuniten-si che rendono dieci punti percentuali in meno. A ottobre Mantega ha triplicato una tassa sugli investimenti stranieri in titoli a rendita issa per cercare di frenare questa inondazione. Ma il real ha inito l’anno sen-za diminuire di valore.

Se la nuova presidente vuole far scende-re i tassi d’interesse dovrà rallentare l’au-mento della spesa federale. Negli ultimi anni gli stipendi e le pensioni sono cresciuti più rapidamente dei prezzi, e il compito di

tenere sotto controllo l’inlazione è stato aidato solo alla politica monetaria. Negli ultimi tre anni il governo ha incrementato le risorse della banca di sviluppo nazionale, la Bndes, di almeno 210 miliardi di real, consentendole di aumentare i prestiti per i progetti infrastrutturali e una serie di altre iniziative che non sempre sembravano me-ritare il sostegno dello stato. Secondo un gruppo di ricerca legato al governo, l’Ipea, i inanziamenti agevolati della Bndes costa-no ai contribuenti ino a 21 miliardi di real l’anno.

Politici più ricchiDilma Roussef vuole ridurre il debito pub-blico al 30 per cento del pil contro l’attuale 42 per cento. Per questo cerca di resistere alle pressioni del Partito dei lavoratori e dei suoi alleati, che chiedono un aumento del salario minimo. Alla ine di novembre Man-tega ha detto che nel 2011 concederà alla Bndes solo la metà dei inanziamenti extra che ha ricevuto quest’anno. Per incoraggia-re il settore privato a fare la sua parte, taglie-rà le tasse sulle obbligazioni destinate a i-nanziare nuove infrastrutture. Ma fino a quando si potranno ottenere rendimenti così alti sui titoli di stato a breve termine, perino le agevolazioni iscali rischiano di non riuscire a rendere appetibili investi-

menti a lungo termine e più rischiosi.Forse Lula ha scelto Dilma Roussef co-

me suo successore perché le alternative più ovvie erano saltate per colpa degli scandali. Ma in lei ha anche visto una persona che po-trebbe tradurre in realtà i piani più ambizio-si. Da tempo il Brasile investe troppo poco nelle infrastrutture e la crescita economica sta rendendo evidente questa debolezza. Quand’era segretaria statale delle miniere e dell’energia, Roussef ha tenuto le luci ac-cese malgrado la siccità che nel 2001 portò al razionamento dell’elettricità. Poi ha di-retto un gigantesco programma infrastrut-turale del governo, noto come Pac (pro-gramma di accelerazione della crescita): Lula l’ha ribattezzata la madre del Pac. Se fallisce su questo fronte, sa che avrà addos-so gli occhi di tutto il mondo.

Nel 2014 il Brasile ospiterà i Mondiali di calcio. Per quella data sarà chiaro se i lavori per le Olimpiadi che si terranno a Rio de Ja-neiro nel 2016 stanno procedendo a un buon ritmo. Gli aeroporti sono il problema più urgente: il numero dei passeggeri è cre-sciuto del 13 per cento nel 2009 e si prevede un ulteriore aumento. Ma gran parte degli aeroporti operano già al di sopra della loro capacità. Sono gestiti dalla Infraero, una compagnia statale controllata dall’aero-nautica che in Brasile è diventata sinonimo di incompetenza e lentezza burocratica.

Roussef ha valutato la possibilità di sot-trarre la Infraero al ministero della difesa e assegnarla al ministero dei porti, una deci-sione che avrebbe consentito di far aluire più risorse e forse anche di passare a una gestione privata. Ma poco prima di Natale il personale della compagnia aerea ha indetto uno sciopero, evitato per un soio, e la deci-sione è stata rinviata se non addirittura bloccata. Il maggiore ostacolo ai piani di Dilma Roussef per ridurre la spesa corren-te e investire nelle infrastrutture sono i po-litici. Ne ha preso atto il 15 dicembre, quan-do i deputati del congresso si sono aumen-tati lo stipendio del 62 per cento. Molte amministrazioni municipali e statali hanno seguito il loro esempio. Se lo facessero tut-te, il costo sarebbe di 2,2 miliardi di real l’an-no.

Negli aeroporti i manifestanti mostra-vano striscioni in cui chiedevano come mai ai politici vengono concessi aumenti di sti-pendio così alti e a loro no. Non è escluso che nelle prossime settimane ci siano altri scioperi, che potrebbero riportare Dilma Roussef con i piedi per terra. u gc

Nel 2014 il Brasile ospiterà i Mondiali: il problema più urgente sono gli aeroporti

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Europa

Il 1 gennaio 2011, con l’entrata in vigo-re della nuova legge sui mezzi d’in-formazione, in Ungheria è inita la libertà di stampa. Lo diciamo anche

nelle altre ventidue lingue ufficiali dell’Unione europea, in modo che tutti ca-piscano. È un’afermazione molto grave, la più grave sottoscritta negli ultimi vent’anni dal nostro quotidiano, che non ha mai usa-to un simile strumento di protesta. La no-stra iniziativa richiede delle spiegazioni.

Siamo convinti che questa legge, nono-stante tutte le rassicurazioni del governo, favorisca un disegno autoritario, creando le condizioni per controllare e punire chiun-que non condivida l’opinione di chi è al po-tere. Oggi tutti assicurano che le ammende previste dalla legge saranno inlitte in mo-do equilibrato. Uno dei delegati alla cultura di Fidesz, il partito del premier Viktor Or-bán, ha detto che nessun giornale sarà san-zionato per le sue opinioni politiche. Ma se

è solo un malinteso, allora perché, conside-rate anche le reazioni internazionali, non si cancella questa parte della legge?

Di fatto i cinque membri del nuovo con-siglio dei media, scelti esclusivamente tra le ila di Fidesz, potranno inliggere multe alle redazioni per qualunque motivo: per-ché non considerano obiettivo un articolo o perché a loro non piace quello che qualcuno dice del loro partito. Anche se è la verità. I giornali potranno fare appello per chiedere la sospensione della sanzione, ma su quali basi il tribunale deciderà questa sospensio-ne? Per ora lo ignoriamo.

Garanzie limitateCi sono troppi punti oscuri. Il consiglio dei media potrebbe punire un giornale con una multa così alta da costringerlo a chiudere, in modo arbitrario. Le garanzie sono troppo limitate in un paese dove chiunque può già ottenere un risarcimento in caso di un dan-no provocato dai giornali.

Per garantire la libertà di stampa non c’era bisogno di creare istanze speciali né di istituire il difensore civico dei mezzi d’in-formazione, che comunque rende conto solo al presidente del consiglio dei media e può avviare liberamente delle procedure

L’Ungheria cancellala libertà di stampa

Budapest ha approvato una legge sui mezzi d’informazione che fa temere l’inizio di una svolta autoritaria nel paese. Il commento del quotidiano progressista Népszabadság

Népszabadság, Ungheria

contro una redazione. Il difensore civico, per esempio, può chiedere un documento e, se non lo ottiene, può inliggere una mul-ta da 50 milioni di iorini (180mila euro). Ora il consiglio ha libertà assoluta di avvia-re una procedura o applicare una multa. Per quale ragione la legge prevede tutta questa discrezionalità, se non per approittarne? E se può approittarne, perché non dovrebbe farlo? Questa legge rappresenta una vera e propria spada di Damocle sulla testa dei giornalisti.

Chi vuole mostrare la realtà com’è dav-vero deve farsi rispettare. Il governo, inve-ce, vuole un mondo descritto da mezzi d’informazione asserviti. Un mondo dove regnano ordine e sicurezza, dove si difen-dono le pensioni, dove il presidente della repubblica Pál Schmitt è una personalità dotata di grande autonomia e dove questa legge è “perfettamente conforme ai regola-menti europei”. Al contrario, noi vogliamo continuare a mostrare il mondo in cui vivia-mo. E cerchiamo di farlo in tutti i modi, an-che a costo di fornire in prima pagina una sola informazione: in Ungheria la libertà di stampa è inita. Ma non sarà possibile an-nientarla. u adr (In collaborazione con Press-

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Budapest, Ungheria. Il premier Viktor Orbán

u Sulla prima pagina di domenica 2 gennaio il quotidiano Népszabadság ha scritto nelle 23 lingue dell’Unione europea: “In Ungheria la libertà di stampa è inita”. Il 1 gennaio, lo stesso giorno

in cui l’Ungheria ha assunto la presidenza di turno dell’Unione, è entrata in vigore la legge sui mezzi d’informazione del governo conservatore di Viktor Orbán, approvata il 21 dicembre. Al potere dal maggio 2010, in parlamento il governo Orbán dispone di una maggioranza di due terzi, grazie alla quale può cambiare la costituzione.

Da sapere

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Il 2 gennaio, dopo i festeggiamenti per il capodanno, è entrato in vigore il divieto di fumare nei luoghi pubblici. La nuova legge, che introduce criteri più rigidi rispetto a quella – praticamente inapplicabile – del 2005, è una delle più severe d’Europa, ed estende il divieto alle aree da gioco per bambini e agli spazi esterni di scuole e ospedali. I gestori di bar, ristoranti e discoteche temono un calo del loro giro d’afari compreso tra il 5 e il 10 per cento. Così, sottolinea El Periódico de Catalunya, si preparano ad aggirare il divieto coprendo con tende e gazebi i marciapiedi davanti ai locali. Potrebbero però essere travolti da una valanga di multe provocate dagli schiamazzi dei clienti che escono per fumare. u

Spagna

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BIELORUSSIA

La repressione di Lukashenko Il 3 gennaio il governo bielorus­so ha scarcerato 150 dei 650 op­positori arrestati durante le ma­nifestazioni scoppiate a minsk dopo la rielezione del presiden­te aliaksandr Lukashenko con l’80 per cento dei voti. non si ha ancora nessuna notizia di Vladi­mir nekliaev, il principale av­versario di Lukashenko, arresta­to dopo essere stato picchiato dalle forze dell’ordine, sostiene il Belorusski Partizan. Il go­verno ha chiuso gli uici dell’or­ganizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (osce), che aveva deinito non democratico il voto. La repres­sione ha colpito anche i giornali: il 27 dicembre la polizia ha per­quisito la redazione del settima­nale nacija niva.

IN BREVE

Russia Il 2 gennaio l’ex premier Boris nemtsov (nella foto), arre­stato durante una protesta con­tro il governo, è stato condanna­to a 15 giorni di prigione per resi­stenza alle forze dell’ordine. Estonia Il 1 gennaio il paese è diventato il diciassettesimo dell’unione europea ad adotta­re l’euro, il terzo ex comunista dopo slovenia e slovacchia.Grecia Il ministro dell’immi­grazione Christos Papoutsis ha annunciato la costruzione di una barriera di 12,5 chilometri lungo il conine terrestre con la turchia per evitare l’alusso di immigrati clandestini.

RUSSIA

Una sentenza politica Il 27 dicembre l’ex oligarca mi­khail khodorkovskij è stato con­dannato per l’appropriazione in­debita di centinaia di milioni di tonnellate di petrolio, che se­condo l’accusa sarebbero state sottratte alla sua azienda, la yu­kos. La sentenza, che secondo la difesa ha motivazioni politiche, potrebbe prolungare ino al 2017 la detenzione di khodorkovskij, che altrimenti sarebbe stato scarcerato nel 2011. secondo Gazeta.ru, il premier Vladimir Putin è stato di fatto il principale accusatore in questo processo. È

chiaro che l’obiettivo del Crem­lino è fare in modo che la con­danna di khodorkovskij diventi una specie di ergastolo. Lo con­ferma il fatto che nel corso delle udienze si è accennato a un pos­sibile terzo processo. La perma­nenza in carcere dell’ex oligarca è diventata ormai una delle co­lonne portanti del regime di Pu­tin. una sua scarcerazione quest’anno avrebbe potuto esse­re interpretata come il preludio a una possibile stagione di rifor­me. La sua nuova condanna conferma invece che Putin vuo­le mantenere immutato il suo si­stema di potere. Il messaggio del premier è diretto sia agli uo­mini del suo partito sia agli altri oligarchi, conclude Gazeta.ru.

Malaga, 31 dicembre 2010

u Azerbaigian Diciotto mesi prima del disastro ambientale nel golfo del messico, la compa­gnia petrolifera britannica Bp ha rischiato una catastrofe simile in azerbaigian. I 212 impiegati di una piattaforma sul mar Ca­spio sono scampati a un inci­dente causato da una perdita di gas che ha costretto l’azienda a limitare la produzione per mesi. nello stesso periodo il presiden­te azero Ilham aliyev ha accusa­to la Bp di aver ottenuto con un ricatto lo sfruttamento dei giaci­menti del mar Caspio, sottraen­do così al paese petrolio per die­ci miliardi di dollari. u Bulgaria L’azienda tedesca Rwe ha contribuito a sviluppare un reattore nucleare a Belene, in Bulgaria, che ha dato molti pro­blemi di sicurezza.u Gran Bretagna all’inizio del 2010 il governo britannico ha considerato la possibilità di li­mitare le attività della tv di stato iraniana Press tv in Gran Breta­gna dopo che teheran aveva bloccato le frequenze di Bbc Persian.u Portogallo tra il 2006 e il 2009 il primo ministro José so­crates e il ministro degli esteri Luís amado hanno permesso che i voli della Cia con sospetti terroristi a bordo facessero scalo nella base statunitense di Lajes, alle isole azzorre.u Russia nel dicembre del 2006, poche settimane dopo la morte per avvelenamento dell’ex agente del kgb alek­sandr Litvinenko, un alto fun­zionario russo ha fatto alcune ri­velazioni sull’omicidio. secondo il funzionario, alcuni agenti rus­si che pedinavano gli assassini prima dell’agguato sono stati bloccati da agenti britannici. Londra ha smentito.u Spagna secondo un funzio­nario dell’ambasciata statuni­tense a madrid, la Catalogna è la base dell’estremismo islami­co in spagna. L’islam radicale sarebbe molto difuso nella re­gione di Barcellona.

Wikileaks

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22 Internazionale 879 | 7 gennaio 2011

Africa e Medio Oriente

I n un insolito discorso in tv, segno del-la gravità del momento, il presidente egiziano Hosni Mubarak ha condan-nato l’attentato di capodanno contro

una chiesa di Alessandria d’Egitto. Non ha indetto, però, una giornata di lutto per le 21 vittime. I copti hanno interpretato questa scelta come una conferma del fatto che lo stato li considera un corpo estraneo nella società. Inoltre, Mubarak ha negato il carat-tere religioso dell’attacco sottolineando che ha colpito “l’intero paese e non una comu-nità in particolare”.

La scelta di SadatGli stranieri sentono spesso discorsi su quanto sia forte l’unità nazionale egiziana, tutelata da un regime moderato che ha spo-sato un islam tollerante. Perino i governi occidentali continuano a far inta di creder-ci, forse per preservare gli accordi di pace con Israele irmati da Anwar al Sadat nel 1978. Una irma che gli costò la vita tre anni dopo, mentre il paese viveva già le prime tensioni interne. Fu lo stesso Sadat ad av-viare una politica di islamizzazione per stroncare la sinistra nasseriana: liberò i Fra-telli musulmani che erano in carcere e di-minuì le tasse sugli immobili con spazi ri-servati alla preghiera. Ma, mentre si molti-

plicavano i luoghi di culto musulmani, ostacolò la costruzione di chiese. Mubarak proseguì sulla stessa strada, approvando una serie di misure che hanno polarizzato la società sul piano religioso. Questo processo ha subìto un’accelerazione dopo il successo elettorale dei Fratelli musulmani nel 2006. Per contrastare il loro islam politico, le au-torità hanno incoraggiato il salaismo, una variante ultraconservatrice dell’islam sun-nita che incoraggia il fedele a disinteressar-si degli afari del mondo. Tuttavia, nella sua versione più estremista, questa dottrina sfocia nel jihadismo e incoraggia la lotta ar-mata contro i regimi empi e gli infedeli.

Con il passare del tempo è diventato im-possibile controllare la predicazione nelle moschee, e l’integralismo è penetrato an-che nelle alte sfere. L’intolleranza si è difu-sa in tutta la società. Gran parte della stam-pa, i giornali governativi in testa, parla da mesi di presunti casi di cristiani convertiti all’islam che sono stati rinchiusi in mona-steri. E tra i copti si difondono dicerie su cristiani rapiti e convertiti all’islam con la forza. Prendendo di mira i copti, i terroristi hanno toccato il nervo scoperto della socie-tà egiziana. Sanno infatti che, in caso di scontri interreligiosi, le autorità non sa-prebbero come spegnere l’incendio. u gim

Gli errori di Mubarak e la rabbia dei copti egiziani

Christophe Ayad, Libération, Francia

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2 gennaio, protesta dei copti ad Alessandria d’Egitto

u Secondo i dati del Vaticano, in Medio Oriente vivono 20 milioni di cristiani (tra cui 5 milioni di cattolici) su 356 milioni di abitanti. La comunità più importante e antica è quella dei copti egiziani, in gran parte ortodossi. Sono una percentuale della popolazione egiziana (80 milioni) compresa tra il 6 e il 10 per cento. Pur van-tando una presenza difusa in tutto il pae-se e in tutte le categorie sociali, sono esclusi dai posti di potere nella giustizia, nell’università e nella polizia.u In Iraq la situazione dei cristiani (circa 450mila persone) è preoc cupante. Il 17 di-cembre scorso l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati ha denunciato l’esodo di migliaia di cristiani dopo l’at-tentato del 31 ottobre in un’importante chiesa di Baghdad.u Secondo i dati uiciali di Tel Aviv, in Israele vivono 143mila cristiani. Nei Ter-ritori Palestinesi sono circa 57mila, in Giordania almeno 200mila.u I paesi del golfo Persico contano circa 3,5 milioni di cristiani di diverse confessio-ni, soprattutto immigrati asiatici e cattolici occidentali. Il diritto di praticare la loro re-ligione è riconosciuto dappertutto, tranne in Arabia Saudita.u Non esistono statistiche uiciali ma se-condo gli analisti i cristiani in Siria sono una percentuale compresa tra il 5 e il 10 per cento della popolazione. Non sono mi-nacciati dai gruppi islamisti.u I cristiani del Libano, che comprendo-no l’importante comunità maronita, sono circa il 34 per cento della popolazione, la percentuale più alta in Medio Oriente. In questo paese gli attentati organizzati da gruppi estremisti sono generalmente lega-ti ad aspetti politici piuttosto che religiosi.Libération

Da sapere

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Internazionale 879 | 7 gennaio 2011 23

Scena 1, Gerusalemme. Una stanza con quattro persone: io, due giovani ebrei ortodossi, membri dell’ong Breaking the silence, e Zackie Akhmat, dell’African national congress, ex militante antiapartheid in Sudafrica. Akhmat ci parla del suo paese. “All’epoca dell’apartheid c’erano le pen-sioni per i bianchi, quelle per le persone di sangue misto e quelle per i neri. I neri delle zone rurali non ricevevano niente. Oggi tutti hanno gli stessi diritti, anche se gli asse-gni sono molto bassi. Il soste-

gno all’infanzia era assicurato solo ai bianchi, mentre le per-sone di sangue misto riceveva-no la metà e i neri niente”.“Tranquillo, presto ci arrivere-mo anche noi”, non posso fare a meno di dire, dipingendo uno scenario esagerato per esprimere i nostri timori per il futuro. I due giovani ridono, ma è un riso amaro.

Scena 2, Ramallah. La mia amica sta per ottenere il divor-zio al tribunale religioso mu-sulmano. L’accompagno per sostenerla e per curiosità. Lei è una palestinese che vive in

Israele, mentre suo marito vi-ve nei Territori. Il loro contrat-to di matrimonio (religioso) è israeliano. Superiamo vari uf-ici e un consulente matrimo-niale (inutile) prima di rag-giungere l’uicio del giudice. I testimoni sono amici comuni. Arriva per primo N. Mi vede e sorride: “Tu sei solo mezzo te-stimone. Dov’è l’altra metà?”. Non è una battuta: la legge islamica richiede due testimo-ni di sesso maschile o quattro donne. “In realtà sono un quarto di testimone: donna e anche ebrea”, rispondo. u nm

Da Ramallah Amira Hass

Testimone a metà

Dal 17 dicembre in Tunisia si stanno svolgendo le più grandi proteste sociali dall’arrivo al potere, ventitré anni fa, del presidente Zine el Abidine Ben Ali. Le manifestazioni sono cominciate nella regione centro-occidentale di Sidi Bouzid, dove tre giovani hanno tentato il suicidio (due sono morti) perché disoccupati, scrive

Jeune Afrique. Le proteste si sono allargate ad altre città e negli scontri con la polizia sono morte due persone. Secondo El Watan, i tunisini sono esasperati dalle diseguaglianze sociali, dalla diminuzione del potere d’acquisto, dalla repressione del dissenso e dalla disoccupazione, che uicialmente è pari al 14 per cento ma nelle regioni interne arriva ino al 30 per cento. La maggior parte degli investimenti e dei progetti di sviluppo interessa le zone turistiche sulla costa, a spese delle città dell’interno. La popolazione della regione di Sidi Bouzid si sostiene con l’allevamento e il commercio informale, mentre i giovani non hanno opportunità di lavoro. Il governo tunisino ha dichiarato che le proteste sono frutto di “una manipolazione a ini politici”, ma si è afrettato a prendere misure a favore della regione. u

Tunisia

Contro la disoccupazione

Jeune Afrique, Francia

IN BREVE

Comore Il 26 dicembre il candi-dato governativo Ikililou Dhoi-nine è stato eletto presidente con il 61 per cento dei voti.Iran Sette traicanti di droga sono stati messi a morte il 3 gen-naio nel carcere di Kermanshah.Israele Il 30 dicembre l’ex pre-sidente Moshe Katsav è stato ri-conosciuto colpevole di due stu-pri. Sarà condannato ad almeno otto anni di prigione.Nigeria Ottantasei persone so-no morte tra il 24 e il 26 dicem-bre nelle violenze contro i cri-stiani a Jos, nel centro del paese. Gli attacchi sono stati rivendica-ti dalla setta islamica Boko Ha-ram.Yemen Il 3 gennaio decine di migranti sono morti nel naufra-gio della loro imbarcazione al largo delle coste del paese.

COSTA D’AVORIO

Primi passi ad Abidjan Il 4 gennaio Laurent Gbagbo, il presidente autoproclamato del-la Costa d’Avorio, ha accettato di ritirare i soldati (nella foto, le guardie di Gbagbo) che circonda-no il quartier generale di Alassa-ne Ouattara, il presidente rico-nosciuto dalla comunità inter-nazionale. È un primo passo ver-so l’uscita dalla crisi politica che dura ormai da settimane. “La si-tuazione resta comunque esplo-siva”, scrive Soir Info. “Nel di-partimento di Duékoué sono morte quattro persone negli scontri interetnici”. In tutto il paese le violenze postelettorali hanno fatto almeno 170 morti.

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u Eritrea Secondo un dispaccio statunitense del 2008, il presi-dente Isaias Afewerki è un ditta-tore narcisista. La situazione nelle carceri del paese, dove la tortura è routine, è terribile.u Gabon Secondo un funziona-rio della Banca degli stati dell’Africa centrale, l’ex presi-dente Omar Bongo ha sottratto all’istituto 28 milioni di euro, con cui ha inanziato alcuni par-titi politici francesi.u Ghana Il presidente John At-ta Mills teme che alcuni suoi collaboratori siano coinvolti nel traico di droga. u Liberia Gli Stati Uniti sono convinti che la giudice ugande-se Julia Sebutinde stia ostaco-lando il processo contro l’ex pre-sidente Charles Taylor.u Yemen Secondo un funziona-rio yemenita, le scorte di mate-riale radioattivo del paese non sono ben sorvegliate e sono un facile bersaglio per Al Qaeda.u Zimbabwe Nel 2000 l’ex se-gretario generale dell’Onu, Koi Annan, ofrì a Robert Mugabe una buonuscita in cambio delle dimissioni.

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24 Internazionale 879 | 7 gennaio 2011

Americhe

Il governo faceva acqua da tutte le par-ti. C’era la crisi energetica, la crisi idrica e la crisi carceraria. Le tasse au-tomobilistiche erano triplicate. Gli

appalti pubblici erano inquinati dalla corru-zione. All’orizzonte si proilava il disastro inanziario. Dopo il referendum del 2003 con cui venne revocato il governatore Gray Davis, gli elettori della California scelsero Arnold Schwarzenegger, una star del cine-ma il cui marchio di fabbrica era far saltare in aria le cose, goniare i muscoli e fare bat-tute stupide. Sette anni dopo, le scuole sta-tali sono in pessime condizioni, le universi-tà pubbliche perdono prestigio e i tribunali federali controllano una parte del sistema carcerario. Il buco nel bilancio della stato continua a crescere.

Intervistato nella sala conferenze del campidoglio, il governatore fa il punto della

situazione. Difende il suo operato, ma am-mette gli errori che gli hanno impedito di mantenere la promessa di “mettere ine alla folle spesa di disavanzo”. Un passo falso cruciale l’ha fatto nei primi mesi: invece di mettere gli elettori di fronte al dramma del deficit, ha appoggiato il referendum sull’emissione di quindici miliardi di dollari di obbligazioni per nascondere il passivo.

Quell’errore iniziale ha avuto conse-guenze di lunga durata. Anche i suoi avver-sari più spietati ammettono che durante i due mandati di Schwarzenegger ci sono stati periodi di straordinaria produttività. Il governatore è riuscito a superare la crisi dei risarcimenti per gli infortuni sul lavoro ne-goziando un accordo con i datori di lavoro. I blackout sono terminati. I suoi piani per

combattere la corruzione del governo ed eliminare gli sprechi sono falliti, ma la legge sul riscaldamento globale ha proiettato la California all’avanguardia del movimento ambientalista. Eppure anche i più convinti sostenitori del governatore uscente devono ammettere che non è mai riuscito a tenere sotto controllo il bilancio. Persa l’opportu-nità iniziale, si è ritrovato a giocare una par-tita per cui non era preparato: quella degli interessi politici ed economici interni a Sa-cramento. Schwarzenegger ha vinto le ele-zioni presentandosi come un antipolitico, e quando l’opinione pubblica ha cominciato a vederlo come l’ennesimo insider, la sua popolarità è precipitata.

Nel frattempo, i suoi numeri hollywoo-diani facevano infuriare una parte del par-lamento dello stato. L’irritazione dei demo-cratici ha raggiunto il culmine nel 2005, quando Schwarzenegger ha minacciato di andare alle urne se il parlamento non aves-se approvato un severo limite costituziona-le alla spesa pubblica, che avrebbe imposto grossi tagli all’istruzione e alle politiche so-ciali. Poi ha tentato di ricreare la magia del-le elezioni del 2003 organizzando eventi grandiosi. Ma lo spettacolo è stato un iasco. L’opposizione l’ha accusato di essere un di-lettante milionario che armeggiava con la stabilità economica di scuole, forze di poli-zia e caserme dei vigili del fuoco. Le sue proposte elettorali sono naufragate.

Nel 2006 Schwarzenegger ha sfruttato la ripresa economica per approvare la legge sul riscaldamento globale, che ha l’obiettivo di riportare le emissioni di gas serra della California ai livelli del 1990 entro il 2020: un gigantesco passo avanti nella tutela dell’ambiente, che ha alzato il tiro per il re-sto del mondo. Nel secondo mandato gli elettori hanno approvato ingenti spese per le infrastrutture. Il governatore ha avuto un ruolo fondamentale nel convincere il go-verno federale a investire nelle decrepite autostrade del paese e in altre opere pubbli-che. E per un pelo non ha preceduto Wa-shington sul terreno dell’assistenza sanita-ria universale. Il dibattito sul perché Sch-warzenegger non abbia mai risanato il bi-lancio resta aperto. Secondo i suoi opposi-tori si è stupidamente legato le mani con i tagli alle tasse automobilistiche, la promes-sa centrale della sua campagna. Con un tas-so di popolarità al 23 per cento, oggi Schwar-zenegger può solo sperare che con il tempo i californiani tornino a vederlo sotto una lu-ce migliore. u sdf

La California dopo Schwarzenegger

In sette anni a Sacramento il governatore uscente non è riuscito a risanare i conti dello stato. Il suo successo più grande resta la legge sulle emissioni di gas serra

Evan Halper, Los Angeles Times, Stati Uniti

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Ottobre 2008. Schwarzenegger a Long Beach, in California

u Lunedì 3 gennaio il democratico Jerry

Brown ha prestato giuramento come nuovo governatore della California. Avvocato, iglio dell’ex governatore Pat Brown e a sua volta governatore dello stato per due mandati, dal 1975 al 1983, dovrà subito presentare il nuovo bilancio. Si prevede che il deicit della California aumenterà di 28 miliardi di dollari nei prossimi 18 mesi.

Da sapere

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Internazionale 879 | 7 gennaio 2011 25

“Il 31 dicembre il presidente della Bolivia Evo Morales ha annunciato in un messaggio alla nazione l’annullamento del decreto che avrebbe alzato di più dell’80 per cento il prezzo della benzina”, scrive La Razón. Il provvedimento serviva a combattere il contrabbando del carburante nei paesi vicini. La misura aveva provocato un aumento del prezzo degli alimenti e dei trasporti, scatenando proteste e scioperi in varie città del paese. “Ho promesso di governare rispettando la volontà del popolo”, ha detto Morales per giustiicarsi di essere tornato sui suoi passi. u

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IN BREVE

Guatemala Il 3 gennaio sei persone sono morte nell’esplosione di una bomba su un autobus a città del Gua-temala. La polizia ha attribui-to l’attacco alla Mara 18, una banda giovanile.

STATI UNITI

Gay in divisasenza censure Il 22 dicembre il presidente degli stati Uniti Barack obama ha ir-mato il Don’t ask don’t tell repe-al act, con cui ha abrogato la leg-ge adottata nel 1993 da Bill clin-ton che imponeva ai gay di tace-re sul loro orientamento sessua-le, pena l’esclusione dalle forze armate. approvata al senato con 65 voti a favore e 31 contrari, e con il voto di alcuni repubblica-ni, la legge è un grande successo per il presidente, che l’aveva promessa nella campagna elet-torale del 2008. secondo il Wa-shington Post, potrebbe anche fargli riguadagnare una parte del consenso perso negli ultimi mesi in campo democratico: “obama ha dimostrato che non vuole alienarsi le simpatie della sinistra per conquistare il cen-tro”, scrive Greg sargeant. Per il commentatore conservatore charles krauthammer la legge sui militari nell’esercito e il compromesso sui tagli alle tasse segnano l’inizio della “resurre-zione di obama”.

La Paz, 30 dicembre 2010

u Cuba-Venezuela Nel 2006 l’ambasciata statunitense a ca-racas ha chiesto al segretario di stato di fare pressione sul presi-dente venezuelano Hugo chávez perché non approittas-se del vuoto di potere dovuto alla malattia di Fidel castro per aumentare la sua inluenza a cuba. u Cuba-Stati Uniti Nonostan-te il congelamento uiciale del-le relazioni, i diplomatici di Wa-shington e dell’avana s’incon-trano una volta al mese vicino a Guantanamo. u Panama Il dipartimento di stato americano ha fatto di tut-to per evitare che la società spa-gnola sacyr vincesse l’appalto da 2,4 miliardi di euro per l’al-largamento del canale di Pana-ma, ma non c’è riuscito. u Stati Uniti Nonostante le sanzioni imposte dagli stati Uniti, la chevron ha trattato con teheran per la creazione di un campo petrolifero al conine tra l’Iran e l’Iraq. u Stati Uniti-Europa La di-plomazia statunitense ha fatto pressione per favorire la vendi-ta all’estero di aerei Boeing, di fabbricazione statunitense, in-vece degli airbus, fabbricati in Europa.

Wikileaks

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a mezzanotte del 31 dicembre da ogni balcone del mio palaz-zo è scrosciata una cascata. I cubani hanno la tradizione di lanciare un secchio d’acqua alla ine di ogni anno per puli-re tutto il brutto e aspettare spiritualmente “puliti” il me-se che sta per cominciare.

Pochi confessano l’elenco completo di speranze per il prossimo anno, ma è facile immaginare che un punto im-portante della lista sia il biso-gno di cambiamenti politici. “che tutto questo inisca una buona volta”, dicono alcuni,

“che le riforme di raúl possa-no migliorare le nostre vite”, sperano altri, o “che il 2011 sia l’anno che abbiamo tanto aspettato”, auspicano quelli che hanno perso la pazienza e la fede. La parola “rivoluzio-ne” è assente da queste profe-zie popolari, perché gran parte dei cubani ha smesso di consi-derarla un’entità dinamica, in trasformazione. Molti credo-no addirittura che sia morta da tempo.

assistiamo al suo funerale, con un dubbio: cos’è andato storto? Quand’è che la rivolu-

zione si è trasformata in un cadavere? sappiamo già che in parte hanno avuto un ruolo determinante malattie croni-che come il personalismo, la burocrazia, la subordinazione a una potenza straniera e la copia di un modello che sem-brava bello solo sui libri di te-sto. Ma dobbiamo ancora ca-pire se sono state le nostre mani o le nostre menti ad aver asissiato la creatura che ab-biamo tentato di creare o se nella genetica del processo c’erano dall’inizio i cromoso-mi del fallimento. u sb

Dall’Avana Yoani Sánchez

La rivoluzione sepolta

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26 Internazionale 879 | 7 gennaio 2011

Asia e Paciico

Alla lezione di matematica nella scuola media Li Zhen di Shanghai l’esercitazione del mattino è di geometria. “Chi è

in grado di dimostrare che due rette sono parallele senza usare un segmento propor-zionale?”, chiede la professoressa a una quarantina di studenti ammassati in una stanza. Uno per uno gli alunni alzano la ma-no. Quando la professoressa li invita a dare la risposta ognuno di loro resta in piedi ac-canto al banco, risponde e torna a sedersi solo dopo l’ordine dell’insegnante.

Secondo gli esperti l’approccio discipli-nato aiuta a spiegare come mai 5.100 stu-denti di 15 anni di Shanghai hanno surclas-sato i coetanei di circa 65 paesi nel test Pisa 2009 dell’Organizzazione per la coopera-zione e lo sviluppo economico (Ocse) che ha valutato l’abilità in matematica, nelle

materie scientiiche e nella lettura dei quin-dicenni di tutto il mondo. I risultati sono un ulteriore segno della crescente competitivi-tà della Cina. Anche se era la prima volta che Pechino partecipava al test, i risultati hanno raforzato la sua reputazione di pae-se che produce studenti con forti compe-tenze matematiche e scientiiche.

Molti pedagogisti sono rimasti sorpresi dai punteggi elevati ottenuti da Shanghai nella lettura. Le ragioni dei buoni risultati dei ragazzi di Shanghai, dicono gli esperti, sono le stesse degli studenti provenienti da altre parti dell’Asia: sistemi d’istruzione di-sciplinati, apprendimento meccanico e pre-

parazione ossessiva agli esami. Gli studenti delle scuole pubbliche di Shanghai spesso restano a scuola ino alle quattro del pome-riggio, guardano poca tv, e la legge cinese impedisce che possano lavorare prima dei 16 anni.

Ma molti educatori sostengono che la forza della Cina nell’istruzione è anche una debolezza. Il sistema educativo della nazio-ne è eccessivamente orientato agli esami, le scuole tendono a sofocare la creatività e le pressioni dei genitori spesso privano il bam-bini delle gioie dell’infanzia. “Sono due facce della stessa medaglia: le scuole cinesi preparano molto bene gli studenti alle pro-ve standardizzate”, sostiene Jiang Xueqin, vicepreside alla scuola superiore dell’Uni-versità di Pechino, aggiungendo però che le scuole cinesi enfatizzano troppo gli esami creando studenti senza curiosità e senza la capacità di pensare in modo critico e indi-pendente. È una lamentela difusa in Cina. Le aziende straniere confermano di avere diicoltà a trovare quadri intermedi in gra-do di pensare in modo creativo e risolvere problemi. Il sistema è un rilesso del passato confuciano della Cina. I bambini sono te-nuti a rispettare genitori e insegnanti.

Docenti premiatiAnche se in Cina la qualità delle scuole va-ria molto, gli istituti delle grandi città hanno di solito studenti abili in matematica e nelle materie scientiiche. Il sistema scolastico di Shanghai è ritenuto il migliore del paese e molti dei suoi studenti riescono a entrare nelle università più selettive degli Stati Uni-ti. Gli insegnanti di Shanghai devono avere un certiicato d’insegnamento e sottoporsi a un minimo di 240 ore di formazione. Ai docenti di livello superiore possono essere richieste anche 540 ore. Lo stipendio di un insegnante è composto per il 70 per cento da una remunerazione base. L’altro 30 per cento è un premio di rendimento. Inoltre gli stipendi degli insegnanti sono modesti, cir-ca 750 dollari al mese al lordo di bonus e indennità, molto meno di quanto guada-gnano commercialisti, avvocati o altri pro-fessionisti. Anche se le scuole di Shanghai sono famose per la preparazione agli esami, gli amministratori locali cercano di amplia-re ed estendere programmi di studio più li-beri. La scuola Jing’An, una delle 150 scuole di Shanghai che hanno partecipato al test internazionale, è nata 12 anni fa proprio per alzare gli standard del sistema scolastico in un’area svantaggiata. u sv

Gli studenti cinesidiligenti e poco creativi

I ragazzi delle scuole di Shanghai hanno sbaragliato i coetanei di tutto il mondo all’ultimo test Pisa. Il segreto del sistema scolastico cinese è la disciplina

David Barboza, The New York Times, Stati Uniti

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u I primi cinque classiicati al test Pisa 2009. La classiica si basa sulla capacità di lettura.

Lettura Matematica Scienze

Shanghai (Cina)

Corea del Sud

Finlandia

Hong Kong (Cina)

Singapore

Fonte: Ocse

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Internazionale 879 | 7 gennaio 2011 27

u Afghanistan Nel 2007 Wa-shington ha chiesto a New Delhi di mandare in tour in Afghani-stan le star di Bollywood come contributo indiano alla stabiliz-zazione del paese. Il piano non è mai stato realizzato. u Bangladesh Il governo bri-tannico ha addestrato il Bangla-deshi rapid battallion (Rab), ri-tenuto dalle organizzazioni per i diritti umani uno “squadrone della morte governativo”.u India Gli Stati Uniti stanno cercando di instaurare un rap-porto con Rahul Gandhi, iglio di Sonia e astro nascente della politica indiana. Infatti, mentre il governo di New Delhi accusa Washington di troppa indulgen-za con il Pakistan e non perde occasione di sottolineare la sua indipendenza dagli Stati Uniti, Gandhi ha epresso preoccupa-zione per gli estremisti indù.u Nuova Zelanda Secondo gli Stati Uniti, quando nel 2004 la Nuova Zelanda arrestò due cit-tadini israeliani con l’accusa di spionaggio arrivando ai ferri corti con Tel Aviv, lo fece nell’intento di aumentare le sue vendite di agnello ai paesi arabi. u Sri Lanka Secondo i diplo-matici statunitensi, il presidente Mahinda Rajapaksa e l’ex co-mandante dell’esercito Sarath Fonseka hanno bloccato un’in-chiesta sulle azioni dei militari negli ultimi mesi della guerra ci-vile. Inoltre sono convinti della complicità di Colombo con i pa-ramilitari.u Thailandia Il consiglio della corona è convinto che il principe Maha Vajiralongkorn, unico i-glio del re Bhumibol Adulyade e noto playboy, sia un erede al tro-no inadeguato. u Tibet In un incontro con l’ambasciatore statunitense in India, il Dalai Lama si è detto preoccupato per le politiche energetiche di Pechino. Gli Stati Uniti temono che l’inluenza del Dalai sui tibetani in esilio in In-dia, tra cui sono emersi elemen-ti più estremisti, sia in declino.

PAKISTAN

Ultimatumal governo “La sorte del governo è appesa a un ilo”, scrive il quotidiano Dawn. Il movimento Muttahi-da Qaumi, il secondo partito della coalizione che lo sostene-va, ha annunciato di volere usci-re dal governo, accusando l’ese-cutivo di aver fatto poco contro la corruzione e per sostenere l’economia. Il premier Yousuf Raza Gilani ha quindi chiesto l’appoggio della Lega musulma-na pachistana, il principale par-tito d’opposizione, ma ha rice-vuto un secco riiuto. Il 4 genna-io l’opposizione ha dato a Gilani un ultimatum di tre giorni entro cui il premier deve decidere se fare una serie di riforme. Altri-menti, sostiene l’opposizione, bisogna tornare alle urne.

Otto case di produzione e distribuzione giapponesi di anime e manga boicotteranno la Tokyo international anime fair, uno dei principali eventi mondiali del settore, e organizzeranno una iera parallela. La decisione è stata presa in segno di protesta contro la nuova ordinanza che vieta la vendita ai minorenni di manga e anime dai contenuti sessuali estremi (stupro, violenza e incesto). L’ordinanza è stata voluta dal governatore di Tokyo Shintaro Ishihara, che presiede il comitato organizzatore della iera. Secondo i sostenitori del boicottaggio, la nuova misura limita la libertà di espressione degli autori. u

GiapponeWikileaks

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IN BREVE

Pakistan Il 4 gennaio il gover-natore della provincia del Pun-jab, Salman Taseer, è stato ucci-so da una delle sue guardie a Islamabad perché era contrario alla legge contro la blasfemia.Kazakistan L’ambasciata sta-tunitense ad Almaty ha criticato il 4 gennaio la decisione del par-lamento di indire un referen-dum per estendere ino al 2020 il mandato del presidente Nur-sultan Nazarbaev.Thailandia Il 30 dicembre 84 membri del movimento ilomo-narchico delle camicie gialle so-no stati condannati per aver par-tecipato all’attacco alla sede di una tv durante le proteste contro il governo nel 2008.

DIRITTI UMANI

Milioni di schiavi “Costrette al lavoro in fabbrica o a prostituirsi, impiegate nell’edi-lizia o in agricoltura: secondo l’Ilo, l’organizzazione interna-zionale delle Nazioni Unite per il lavoro, sono quasi due milioni e mezzo nel mondo le persone ri-

dotte in schiavitù”, scrive Asia Sentinel. “Il fenomeno ha costi individuali, familiari e sociali devastanti. Attratte dal miraggio di un lavoro, le vittime si aida-no alle organizzazioni criminali e si espongono al rischio di esse-re ricattate, derubate, stuprate, torturate”. Nella regione del Pa-ciico, la maggior parte di questa manodopera forzata ha come destinazione inale l’Australia. Le vittime sono originarie delle regioni più povere di Cina, Thai-landia, Myanmar, Filippine, Cambogia, India e Pakistan. Contro la tratta degli esseri umani la vera chiave è la preven-zione: solo identiicando donne e minori a rischio, fornendo loro strumenti culturali e garanten-dogli la possibilità di una vita di-gnitosa, è possibile contrastare il fenomeno alla radice.

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Francesca Esposito, una ragazza di 29 anni con un’ottima istruzione, ha aiutato il suo datore di lavoro, una grande agenzia statale italia-

na, a vincere cause per falsa invalidità fa-cendogli risparmiare milioni di euro. Nell’autunno del 2010, stanca di quanto sia surreale e triste essere giovane nell’Italia di oggi, ha mollato.

Era esasperata dal fatto che, nonostante le sue competenze e l’ottima conoscenza di cinque lingue, non riusciva a trovare un la-voro retribuito. Pensava che lavorare come praticante legale non pagata era già di per sé un fatto negativo, ma farlo per l’ente pre-videnziale italiano era eccessivo. Lavorava gratis nell’interesse degli anziani del paese, che negli ultimi anni hanno estromesso i giovani dal mercato del lavoro, e i suoi sfor-zi non le avrebbero nemmeno fruttato la pensione. “Era assurdo”, dice Francesca, una donna ostinata con un sano senso dell’indignazione.

Nelle ultime settimane l’indignazione dei giovani è esplosa, in alcuni casi in modo violento, per le strade della Grecia e dell’Italia. Gli studenti e gli anarchici radi-cali hanno protestato non solo contro le misure di austerità decise dai governi per aiutare le economie in diicoltà, ma anche contro la realtà che sta emergendo in tutta l’Europa del sud: i giovani come Francesca vedono il loro futuro sempre più precario. Mentre gli esperti mettono in guardia dall’instabilità delle inanze statali e della società intera, la generazione più istruita nella storia del Mediterraneo si scontra con uno dei peggiori mercati del lavoro possibi-li. I politici stanno cominciando lentamen-te a prenderne atto. Il 31 dicembre il presi-

dente della repubblica italiana Giorgio Napolitano ha dedicato una buona parte del suo discorso di ine anno al “malessere difuso tra i giovani”. Nelle settimane pre-cedenti le proteste contro i tagli all’univer-sità avevano messo questo problema sotto i rilettori.

Giuliano Amato, economista ed ex pre-sidente del consiglio, è stato anche più esplicito. “Sono pochi quelli che si riiutano di capire che la protesta giovanile non è una protesta contro la riforma universitaria, ma contro una situazione generale nella quale le vecchie generazioni hanno mangiato il futuro delle nuove”, ha detto di recente al Corriere della Sera, il principale quotidiano italiano.

Figlia di un vigile del fuoco e di un’inse-gnante delle superiori, Francesca Esposito è stata la prima in famiglia a laurearsi e la prima a studiare le lingue straniere. Ha una laurea in legge, un master conseguito in Germania e ha fatto un tirocinio presso la corte di giustizia europea del Lussembur-go. Non è servito a niente. “Ho tutti i certi-icati possibili e immaginabili”, dice. “Tutti tranne quello di morte”.

Nei paesi dell’Europa del sud non è mai stato semplice fare carriera. Neanche pri-ma che il continente fosse colpito dalla crisi economica. Da molto tempo in Italia, in Grecia, in Spagna e in Portogallo la bassa crescita e la mancanza di meritocrazia ren-dono più diicile la ricerca di lavoro. Oggi, con l’aggiunta della crisi economica, sono sempre di più quelli che tentano di cogliere

le poche opportunità rimaste. È un gioco a somma zero che costringe inevitabilmente i lavoratori più giovani a lottare contro quel-li più vecchi per entrare nel mercato del la-voro.

Di conseguenza, tra i giovani si è radica-to un profondo malessere. Alcuni scendono in piazza per protestare, altri emigrano nell’Europa del nord o più lontano, dando vita a una fuga dei cervelli. Molti altri anco-ra, però, sofrono in silenzio e continuano a vivere nelle loro camerette ino all’età adul-ta, perché non possono permettersi una casa.

Generazione precaria“Ci chiamano la generazione perduta”, di-ce Coral Herrera Gómez, una spagnola di 33 anni. Herrera ha un dottorato in discipli-ne umanistiche ma vive ancora con i geni-tori a Madrid, perché non riesce a trovare un lavoro stabile. “Non sono giovane”, di-ce, “ma non sono nemmeno un’adulta che lavora”. In Spagna si discute da anni dei mi-

leuristas, un neologismo coniato per deini-re i laureati le cui migliori prospettive di guadagno non vanno oltre i mille euro al mese.

Herrera è nella situazione peggiore. Stanca di guadagnare seicento euro al me-se in nero come insegnante di teatro per bambini, ha deciso di trasferirsi in Costa Rica per insegnare all’università. Mentre parliamo, in un bar di Madrid, la televisione trasmette un servizio sul compleanno di una donna di 106 anni, secondo cui il segre-to della longevità è il sanguinaccio.

Il contrasto non può essere più marcato. Gli esperti stanno mettendo in guardia da un incombente disastro demografico nell’Europa del sud, i cui tassi di natalità sono tra i più bassi del mondo occidentale. Con i pensionati che vivono più a lungo e i giovani che entrano nel mondo del lavoro più tardi – e pagano meno tasse perché gli stipendi sono bassissimi – non ci vorrà mol-to prima che le casse dello stato si prosciu-ghino.

“È come uno schema Ponzi”, ha detto

La rivolta dei ragazzi dell’Europa del sud

In Italia e in altri paesi europei gli studenti non protestano solo contro i provvedimenti dei governi. Vogliono ritrovare il loro posto in una società che li ha messi ai margini

Rachel Donadio, The New York Times, Stati Uniti

Francesca ha una laurea in legge e un master. Ha fatto anche un tirocinio presso la corte di giustizia europea. Ma non è servito a niente

Visti dagli altri

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Laurence Kotlikof, economista alla Boston university ed esperto di politica iscale: i giovani versano i contributi ma non avran-no mai la pensione. Kotlikof ha spiegato che i costi del sistema previdenziale e sani-tario stanno portando a un disastro iscale nell’Europa del sud e non solo. “Se i tassi di fertilità dovessero restare così bassi, non ci saranno più italiani, spagnoli, greci, porto-ghesi e russi”, ha detto l’economista. “I ci-nesi si trasferiranno in Europa del sud”.

Il problema va oltre la disoccupazione giovanile, che è del 40 per cento in Spagna e del 28 per cento in Italia. Riguarda anche la sottoccupazione. Oggi i giovani dell’Eu-ropa meridionale sono sfruttati da mecca-nismi come i contratti di lavoro tempora-neo, creati dieci anni fa per rendere più lessibile il mercato del lavoro. Visto che i contributi e i costi di licenziamento sono ancora molto alti, in questi paesi le aziende sono restie ad assumere i lavoratori con contratti a tempo indeterminato. Così i gio-vani si vedono ofrire stage, apprendistati o contratti a tempo determinato, non pagati o malpagati, che non garantiscono le stesse indennità e tutele.

“Quella che sta entrando nel mercato

del lavoro spagnolo è la generazione più istruita della storia del paese, ma si trova in una situazione di estrema precarietà”, ha detto Ignacio Fernández Toxo, segretario generale di Comisiones obreras, uno dei due maggiori sindacati spagnoli. “È una tragedia per il paese”.

Vecchi privilegiEppure, per molti giovani, i leader sindaca-li come Fernández e i partiti di sinistra a cui sono storicamente vicini fanno parte del problema, e sono responsabili del peggio-ramento della situazione del mercato del lavoro, perché tutelano la casta dei vecchi lavoratori stabili invece di aiutare i più gio-vani a trovare un’occupazione.

Per Kotlikof la soluzione è semplice: “Vanno cambiate le leggi sul lavoro. In fret-ta, non per gradi”. Ma in Grecia, in Italia, in Portogallo e in Spagna qualsiasi cambia-mento dei contratti nazionali prevede com-plessi negoziati tra governi, sindacati e im-prese: un fragile balletto in cui ognuno lotta ferocemente per difendere i suoi interessi. E visto che i lavoratori più anziani costitui-scono una buona parte dell’elettorato, la maggior parte dei politici sceglie di non af-

frontare la riforma del lavoro. L’anno scor-so, durante una conferenza stampa, il mini-stro dell’economia e delle inanze Giulio Tremonti ha risposto così a una domanda sull’eventuale cambiamento del sistema italiano: “Il sistema non si può cambiare in modo violento”.

Le nuove misure di austerità adottate dalla Spagna, dove il tasso di disoccupazio-ne è del venti per cento, il più alto dell’Unio-ne europea, riducono ulteriormente le op-portunità occupazionali. La Spagna ha promesso di alzare l’età pensionabile da 65 a 67 anni, ma solo nell’arco di vent’anni. “Oggi molti vanno in pensione a 55 anni”, dice Sara Sanfulgencio, che ha 28 anni e un master in marketing ma è disoccupata e vi-ve a Madrid con la madre, proprietaria di un negozio di scarpe per bambini. “Ma è as-surdo fermarsi a 55 anni quando a 28 non ho nemmeno cominciato”.

In Italia Francesca Esposito sta inendo il praticantato presso uno studio legale di Lecce. È pagata poco, ma è comunque me-glio del lavoro statale non retribuito. “Sono una laureata pentita”, dice. “Se dovessi ri-cominciare non andrei all’università. An-drei a lavorare”. u sdf

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Francesca Esposito, 29 anni, lavorava come precaria nella pubblica amministrazione

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Le opinioni

Edén Pastora, anche noto come Coman-dante Zero, è un ex guerrigliero sandini-sta, poi ex guerrigliero dei Contras inan-ziati dalla Cia e oggi uomo di iducia del redivivo presidente nicaraguense Daniel Ortega. L’8 ottobre 2010 Pastora ha co-

minciato a dragare il iume San Juan alla frontiera con la Costa Rica e poi ha compiuto un’incursione militare sull’isola Calero, in territorio costaricano, dove i suoi uomini hanno abbattuto un bosco e piantato la loro bandiera. In realtà il Nicaragua ha sempre avuto pro-blemi di frontiera con la Costa Rica, come oggi li ha con la Colombia e l’Honduras. In teoria la questione era stata risolta da una senten-za della Corte internazionale di giustizia dell’Aja del luglio 2009 che attribuiva la sovranità sul letto del iume San Juan al Nicaragua, stabilendo però che gli inter-venti sul iume non avrebbero danneg-giare l’ecosistema della Costa Rica.

Google maps ha complicato la que-stione, attribuendo una parte del territo-rio della Costa Rica al Nicaragua, anche se l’azienda si è afrettata a correggere il suo errore e ha sconsigliato di comincia-re una guerra in difesa delle frontiere di Google. Ma in questo caso una guerra non ci poteva essere. Perché la Costa Rica, un paese di 4,7 milioni di abitanti, ha sciol-to l’esercito dopo la guerra civile del 1948 e non l’ha mai più ricostituito. È l’unico paese al mondo (oltre a qual-che minuscolo principato) a non avere delle forze arma-te ma solo una polizia, peraltro mal equipaggiata. La demilitarizzazione della Costa Rica è stata fondamen-tale per lo sviluppo economico e sociale del paese. È una democrazia dal 1948, ha investito nel welfare e ha un sistema sanitario e scolastico gratuito e universale. È anche il paese più sviluppato dell’America Centrale (e della parte alta dell’America Latina) con un’economia moderna e un turismo ecologico che ha fatto della tute-la della natura una buona fonte di introiti. Non avendo esercito, la Costa Rica si è specializzato nella diploma-zia ed è diventato un territorio neutrale in una delle aree più violente del pianeta.

Il problema è che non tutti sono così paciici. Nel 1955, per esempio, l’ex presidente costaricano Calderón tentò di invadere la Costa Rica dal Nicaragua con l’aiu-to del dittatore Somoza, e San José fu bombardata dagli aerei nicaraguensi. L’immediata formazione di milizie popolari e le pressioni internazionali frenarono l’inva-sione. I tamburi di guerra tornarono a farsi sentire alla frontiera durante la rivoluzione e la controrivoluzione nicaraguense, un conlitto in cui migliaia di costaricani,

con la tolleranza del loro governo, appoggiarono i san-dinisti di Daniel Ortega e accolsero i rifugiati.

Ma torniamo al iume San Juan. Il punto è che il Ni-caragua vuole dragarlo (con i soldi di Chávez) per co-struire un ipotetico canale. Fino a che questo non dan-neggia la Costa Rica i nicaraguensi hanno il diritto di farlo, come ammettono gli stessi costaricani. Ma di fronte all’occupazione del suo territorio la Costa Rica si è rivolto all’Organizzazione degli stati americani (Osa) che con 22 voti a favore e due contrari ha chiesto il ritiro delle forze militari e un negoziato diretto tra i presiden-ti. La Costa Rica ha accettato, il Nicaragua invece ha

respinto la proposta e ha portato il con-litto all’Aja mantenendo nel frattempo l’occupazione. La ragione è banale. Orte-ga vuole rimanere al potere. Dopo essere arrivato alla presidenza alleandosi con la destra corrotta di Arnoldo Alemán, aven-dogli lasciato in cambio la possibilità di continuare a depredare il settore pubbli-co, ha commesso dei brogli nelle elezioni comunali del 2008, ha destituito i magi-strati non corruttibili, ha nominato una corte di giustizia e un consiglio elettorale compiacenti e ha cambiato la legge per

potersi ricandidare nel 2011. Come ha scritto il giorna-lista nicaraguense Francisco Javier Gutiérrez su La Prensa di Managua il 18 novembre: “Nel conlitto con la Costa Rica per il dragaggio del iume San Juan, Da-niel Ortega mente per distrarre l’opinione pubblica dai veri problemi nazionali, ottenendo una facciata di legit-timità per la sua nefasta presidenza”. Quali problemi nazionali? Una corruzione galoppante, una crisi econo-mica che ha spinto centinaia di migliaia di nicaraguen-si a emigrare (400mila sono andati a vivere proprio in Costa Rica), un regime sostenuto dalle donazioni del Venezuela e la persecuzione dell’opposizione demo-cratica e dei giornalisti indipendenti. Il modo più facile per unire il paese è una mobilitazione nazionalista con-tro l’indifesa Costa Rica. Intanto si delegittima anche l’Osa per impedirle di mandare degli osservatori alle elezioni del 2011, aprendo la strada ad altri brogli.

Probabilmente, dopo aver ottenuto un tornaconto politico dall’incidente, le truppe nicaraguensi si ritire-ranno. Ma scrivere tutto ciò mi intristisce molto. Ho diretto il programma di assistenza tecnica di Berkeley che ha formato i primi sindaci sandinisti, ho organizza-to comitati di solidarietà con il sandinismo e sostenuto la sua rivoluzione. Ma da tempo ormai abbiamo impa-rato che il miglior modo per difendere una rivoluzione sociale è denunciarla quando divora i suoi igli e abusa delle sue iglie. u sb

La triste ine del sandinismo

Manuel Castells

MANUEL

CASTELLS è un sociologo spagnolo che insegna all’University of Southern California. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Comunicazione e

potere (Università Bocconi editore 2009).

Nel conlitto con la Costa Rica, Daniel Ortega mente per distrarre i nicaraguensi dai problemi nazionali, ottenendo una facciata di legittimità per la sua nefasta presidenza

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32 Internazionale 879 | 7 gennaio 2011

Le opinioni

Mentre è impegnato a espandere illegalmente le colonie ebraiche in territorio palestinese, il gover-no israeliano cerca anche di af-frontare due problemi: una cam-pagna d’opinione internazionale

che Israele considera una “delegittimazione” – cioè cri-ticare i suoi crimini – e un’altra campagna parallela di legittimazione della Palestina. La “delegittimazione” ha fatto un passo avanti a dicembre, quando Human rights watch ha invitato Washington a “ridurre i inan-ziamenti a Israele per una cifra corrispondente al costo del sostegno israeliano agli insediamenti”. L’organiz-zazione ha chiesto anche di controllare quali contributi esentasse versati da gruppi statunitensi a Israele inanzino violazioni del diritto in-ternazionale. Anche il processo di legitti-mazione ha compiuto un passo in avanti a dicembre, quando Argentina, Bolivia e Brasile hanno riconosciuto lo Stato di Pa-lestina (Gaza e Cisgiordania), portando a più di cento il numero delle nazioni che lo sostengono. Secondo il giurista interna-zionalista John Whitbeck, l’80-90 per cento della popolazione mondiale vive in paesi che riconoscono la Palestina, men-tre solo il 10-20 per cento vive in stati che riconoscono il Kosovo. Ma siccome gli Stati Uniti rico-noscono il Kosovo e non la Palestina, i mezzi d’infor-mazione di tutto il mondo trattano le due realtà in modo totalmente diverso.

Considerata la scala degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, da dieci anni si dice che un accordo inter-nazionale basato su una soluzione a due stati è impos-sibile (anche se la maggior parte del mondo la pensa diversamente). Quindi chi ha a cuore i diritti dei palesti-nesi dovrebbe sperare che Israele occupi tutta la Cisgiordania e che poi una lotta antiapartheid di tipo sudafricano faccia ottenere la piena cittadinanza alla popolazione araba. Questa tesi presume che anche Israele vorrebbe l’annessione. Invece è molto più pro-babile che Israele voglia incorporare una buona metà della Cisgiordania, senza assumersi responsabilità sul resto. Così risolverebbe il “problema demograico” – troppi non ebrei nello stato ebraico – e nel frattempo taglierebbe fuori l’assediata Gaza dal resto della Pale-stina. Ma l’analogia tra Israele e il Sudafrica è interes-sante. Una volta creato l’apartheid, i nazionalisti suda-fricani bianchi si resero conto che stavano diventando uno stato paria della comunità internazionale. Nel 1958 il ministro degli esteri informò l’ambasciatore statuni-tense che la condanna dell’Onu non avrebbe avuto im-

portanza inché il Sudafrica avesse avuto il sostegno degli Stati Uniti. Durante gli anni settanta l’Onu impose un embargo sulle armi, seguito da campagne di boicot-taggio e di disinvestimento. Il Sudafrica reagì con il pre-ciso intento di far infuriare l’opinione pubblica interna-zionale, con sanguinosi raid militari nei campi di rifu-giati dei paesi vicini. Le analogie con il comportamento di Israele oggi sono impressionanti. Basti pensare all’at-tacco a Gaza del gennaio 2009 e a quello alla Gaza freedom lotilla del maggio 2010.

Quando Ronald Reagan diventò presidente nel 1981 garantì pieno appoggio al Sudafrica e all’apartheid. E nel 1988 l’African national congress di Nelson Mandela fu deinito da Washington “uno dei più noti gruppi ter-

roristici”. Poco tempo dopo, però, la poli-tica americana cambiò. Gli Stati Uniti e il Sudafrica capirono che i loro interessi i-nanziari sarebbero stati avvantaggiati dalla ine dell’apartheid. E così il sistema collassò rapidamente. Il Sudafrica non rappresenta l’unico caso recente in cui la ine del sostegno statunitense a un crimi-ne ha portato a progressi signiicativi. Un cambiamento potrebbe avvenire anche nel caso di Israele? Tra gli ostacoli più consistenti ci sono gli stretti legami mili-tari e di intelligence tra gli Stati Uniti e

Israele. Il più esplicito sostegno ai crimini israeliani vie-ne infatti dal mondo degli afari. L’industria high-tech statunitense è connessa con la sua controparte israelia-na e in questo campo la collaborazione è strettissima.

Inoltre in ballo ci sono fattori culturali importanti. Il sionismo cristiano precede di molto quello ebraico, e non è limitato a quel 30 per cento di americani che cre-de nella verità letterale della Bibbia. Esprimendo un punto di vista già allora difuso nell’élite statunitense, Harold Ickes, segretario agli interni di Franklin Delano Roosevelt, descrisse la colonizzazione ebraica della Palestina come un traguardo “senza precedenti nella storia della razza umana”. Esiste inoltre una solidarietà istintiva degli statunitensi verso una società fondata sugli insediamenti coloniali, vista come una replica della storia americana da un’ottica imperialista.

Per uscire dall’impasse è necessario abbattere l’illu-sione per cui gli Stati Uniti sono un “onesto intermedia-rio” che cerca di riconciliare tra loro avversari recalci-tranti, e ammettere che un negoziato vero dovrebbe essere condotto con Israele e Stati Uniti da una parte e il resto del mondo dall’altra. Se i centri di potere statu-nitensi saranno costretti dai cittadini a riconoscere la Palestina, molte speranze che oggi sembrano remote potrebbero diventare realizzabili. u as

Vicolo ciecoin Medio Oriente

Noam Chomsky

Il Sudafrica non è l’unico caso in cui la ine del sostegno statunitense a un crimine ha portato a signiicativi progressi. Un cambiamento che può veriicarsi anche con Israele?

NOAM CHOMSKY

insegna linguistica all’Mit di Boston. Il suo ultimo libro uscito in Italia è Sulla

nostra pelle. Mercato

globale o movimento

globale? (Il Saggiatore 2010).

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Giappone

Tadao Wakatsuki ha dedica­to la sua vita alla Toyota ed è libero solo da poche ore. È il suo primo giorno di pensione, il primo giorno fuori dall’azienda. Vive a

Toyota City, culla di un modello di organiz­zazione del lavoro noto come esempio di eicienza, qualità e innovazione. Il palazzo in cemento dove vive ha otto piani, il suo salotto decorato con iori secchi è minusco­lo. Queste prime ore Tadao le assapora con soddisfazione.

Con dei piccoli occhiali sul naso, ritaglia concentrato un rettangolo di cartone giallo, ci scrive sopra qualcosa e issa accurata­mente il tutto a un bastone. Con il suo car­tello in mano e una giacca nera addosso prende il treno per Nagoya, la vicina metro­poli. Nessuno dei suoi colleghi della Toyota ha voluto accompagnarlo. A Nagoya si uni­sce a un centinaio di dipendenti di altre grandi aziende giapponesi. Tra i negozi di lusso e i ciliegi in iore Tadao, 60 anni, esi­bisce il suo cartellone: “Toyota, basta but­tar via i dipendenti che hai sfruttato”. Il gruppetto cammina in ila indiana, control­lato da una ventina di poliziotti, mentre i passanti alzano appena gli occhi.

Mentre torna a casa, Tadao, orgoglioso, ha il sorriso sulle labbra. Sono le dieci di se­ra, Toyota City è immersa in una notte si­lenziosa. Le strade, male illuminate, sono deserte. “Gli abitanti non fanno che lavora­re, sono troppo stanchi per uscire”, osserva il neo pensionato. Qualche giorno dopo Ta­dao ci dà appuntamento in uno dei nume­rosi parcheggi della città. Come al solito i

suoi capelli sale e pepe sono perfettamente pettinati. Ci ha pensato ed è d’accordo: mi porterà nella sua ex fabbrica.

Dietro i vetri le strade scorrono monoto­ne e tristi: ile di cubi grigi, saracinesche di negozi spesso abbassate, marciapiedi vuo­ti, auto nuove che camminano silenziose. E un mantra onnipresente, una scritta che si ripete in continuazione: “Scuola Toyota”, “Garage Toyota”, “Poste Toyota”, “Ospe­dale Toyota” e così via. Azienda, città e pae­saggio, Toyota è un tutt’uno indissociabile, pensato e meditato in nel minimo detta­glio. “I trasporti pubblici sono stati poco sviluppati di proposito. Qui la vita senza macchina è un inferno”, osserva Tadao.

Costeggiamo la sua ex fabbrica. “Una vera fortezza”, avverte il pensionato. Im­menso, interminabile, l’ediicio è costruito su un terreno leggermente sopraelevato, il tutto protetto da alti muri di cinta e abeti: “Ecco l’impianto Motomachi. Sembra un bunker, non è vero?”. Tadao ha lavorato qui per 45 anni nel reparto assemblaggio. “Ci sono altri sei stabilimenti Toyota di queste dimensioni in centro, e nei dintorni 400 subappaltatori”.

Tadao parcheggia la macchina – una To­yota, ovviamente – e va verso l’ingresso. Si avvicina alle telecamere dei vigilantes, guarda a sinistra, a destra e si assicura che nessuno si avvicini. Poi, di scatto, si gira di 90 gradi in modo secco e preciso. “È così che bisogna spostarsi nelle fabbriche. È una delle regole del ‘codice Toyota’”. Rispettato da tutti, il codice regola ogni minuto della vita dei dipendenti. Tutti sono obbligati a tenere le mani fuori dalle tasche, a lasciare

Gli operai perfetti Léna Mauger, XXI, FranciaFoto di Stephane Remael

Nata come città per i dipendenti dell’azienda automobilistica numero uno al mondo, Toyota City è stata pensata in ogni minimo dettaglio. Le strade, i trasporti, i negozi e gli orari: tutto è in funzione della produttività. Ma in tempi di crisi il modello mostra le prime crepe

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erfetti di Toyota City

L’ingresso degli impiegati negli uici della Toyota

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Giappone

acceso giorno e notte il cellulare, a chiedere l’autorizzazione di un superiore per andare in bagno, ad aspettare di essere sostituito per andarci, a rilettere a casa su come mi-gliorare la produzione e così via. “Quando mi sono sposato, l’azienda ha vietato ad al-cuni colleghi di venire al matrimonio”, ri-corda. “La volontà di diventare il numero uno mondiale a tutti i costi ha rovinato il si-stema”.

Al suo arrivo sul pianeta Toyota Tadao aveva vent’anni, pochi bagagli e molte illu-sioni. Giovane contadino di una famiglia modesta del nord del Giappone, dovette cominciare presto a guadagnarsi da vivere. Attratto dalla promessa di un posto di lavo-ro stabile e di un buono stipendio, si trasferì a Toyota City nel 1965. Il Giappone era usci-to sconfitto e impoverito dalla seconda guerra mondiale, ed era in piena ricostru-zione. La Toyota voleva misurarsi con i gi-ganti automobilistici statunitensi. Kiichiro Toyoda, il iglio del fondatore dell’azienda, riconvertì la fabbrica di telai meccanici di famiglia. Uomo curioso e viaggiatore, To-yoda aveva letto gli scritti di Henry Ford e immaginò, con l’ingegnere Taiichi Ohno, una nuova forma di organizzazione del la-voro, il toyotismo.

Per aumentare i proitti e la produttività, Ford aveva sviluppato il lavoro alla catena di montaggio in modo da razionalizzare i costi della manodopera. Toyoda spinse il sistema ino ai suoi estremi. Scelse di adat-tarsi costantemente alla domanda, cioè di produrre a lusso continuo, senza fare scor-te e con un numero ridotto di operai. Il prin-cipio di base è il lean manufacturing, la “pro-duzione snella”. La sua forza sta nell’agire nello stesso tempo sul corpo e sull’animo dei dipendenti, chiamati a migliorare con-tinuamente la loro produttività. “Dai telai alle macchine, l’esperienza della Toyota si è formata spingendo sempre più in là i limi-ti della tecnologia industriale”, si vanta il sito internet dell’azienda. Ci voleva un luo-go per sviluppare questo concetto. Così, nel 1959 il governo giapponese cambiò nome alla piccola città di Koromo, ribattezzando-la Toyota City.

Appena arrivato, Tadao rimase deluso. La città modello era solo “un grosso borgo di campagna” di 107mila abitanti, sperduto in mezzo ai campi e occupato al centro da una grossa fabbrica vecchia di 25 anni. “L’atmosfera era silenziosa, quasi bucolica. Si sentivano solo le rane gracidare. Per an-dare in fabbrica percorrevamo a piedi lun-ghe strade buie e strette, a volte neanche asfaltate”. L’apprendista operaio divideva il suo alloggio con altri “Toyota boys”, ragaz-

gio hanno raggiunto un alto livello di preci-sione. Da tutto il mondo capi di stato e gran-di imprenditori venivano a vedere questo sistema organizzativo, come fedeli in pelle-grinaggio, per riprodurlo o copiarlo. Adula-ta, imitata, l’azienda ha aperto nuovi centri di produzione in 27 paesi in tutti i continen-ti. Nel 2008 Toyota è diventata il numero uno mondiale dell’automobile, davanti alla General Motors. I proitti hanno raggiunto i 210 miliardi di yen, circa 14 miliardi di eu-ro. I massimi dirigenti di questo simbolo del capitalismo rimangono giapponesi: nessu-no straniero entra nel suo consiglio di am-ministrazione. E Toyota City, 420mila abi-tanti, fabbrica da sola metà dei nove milioni di veicoli venduti in tutto il mondo.

Una piccola rivoluzioneÈ durante questa ascesa del toyotismo che Tadao ha cominciato la sua “rivoluzione”: “La quantità è stata raggiunta a scapito del-la qualità dei prodotti e della salute dei di-pendenti. Non si può ridurre la progettazio-ne di un veicolo da 32 mesi a un anno senza conseguenze”. Nel gennaio del 2006 Tadao crea con la massima discrezione il primo e unico sindacato indipendente della città, l’All Toyota labour union: “Come tutti gli operai, facevo parte del sindacato d’impre-sa, che però non era stato creato per difen-derci”. In quattro anni l’All Toyota labour union ha sedotto una decina di dipendenti. Dieci su 420mila abitanti, per Tadao è una vittoria. Sempre davanti alla fabbrica, sale sul marciapiede: “Possiamo distribuire i nostri volantini ino a qui”. Un metro più in là, una scala porta a un passaggio sotterra-neo: “Qui non abbiamo più diritto di far niente, è proprietà della Toyota. Se lo faces-simo, un megafono comincerebbe a urlare e vieterebbe agli altri dipendenti di prende-re i volantini. L’azienda manda anche degli uomini per mandarci via”.

A Toyota City non c’è bisogno di stri-scioni né di ritratti celebrativi. La piovra controlla tutto, perino gli orari di alcuni negozi, regolati su quelli delle fabbriche. Attraverso le sue iliali, l’impresa vende an-che prodotti alimentari nei supermercati, organizza matrimoni e funerali. Con i pugni chiusi, la statua di bronzo di Kiichiro Toyo-da vigila sui deputati locali. Il sindaco riiuta di incontrarci, ci riceve un suo subalterno negli uici asettici e tranquilli del munici-pio. Impacciato nel suo abito occidentale, il giovane funzionario ci dà timidamente il giornale municipale e alcuni dépliant. Sulla carta patinata ci sono dei numeri e delle fo-to: un ponte bianco, un museo di arte mo-derna, uno stadio di calcio da 45mila posti,

zi venuti da tutto il paese per fare fortuna nel settore dell’auto. Il lavoro era duro ma la paga buona. Tadao incontrò qui la sua futu-ra moglie e decise di rimanere.

Negli anni ottanta il toyotismo è diven-tato un modello di riferimento. Migliaia di giapponesi sono arrivati a “Motor City”, che si è così ingrandita rubando spazio ai campi. I viali sono stati costruiti in modo geometrico, all’americana, gli ediici mo-derni dalle forme lisce e fredde sono cre-sciuti come funghi. La città ideale era in

pieno sviluppo. Tutto era calcolato. “Quan-do la Toyota costruisce uno stadio, non lo fa per il benessere degli abitanti ma per farsi notare: i dipendenti sono obbligati a far parte della squadra aziendale che partecipa ai campionati con le altre aziende”, spiega Tadao.

Ma la vera vetrina del marchio Toyota sono gli stabilimenti. Le catene di montag-

◆ Negli anni trenta Kiichiro Toyoda trasforma l’impresa tessile di famiglia in una fabbrica di auto. ◆ Nel 1950 gli operai della Toyota scioperano per vari mesi e l’azienda licenzia un quarto dei dipendenti. Da allora il sindacato d’impresa e la direzione hanno sempre lavorato ianco a ianco.◆ Nel 1959 la città di Koromo cambia il nome in Toyota City, gemellata con Detroit.◆ Nel 2008, con più di 9 milioni di vetture vendute, la Toyota diventa leader nel mercato mondiale dell’auto.◆ Nel 2009 l’azienda per la prima volta è in perdita e licenzia migliaia di dipendenti.◆ Nel 2010 la Toyota è costretta a richiamare 9 milioni di auto difettose.

Da sapere

Maredel Giappone

Oceano Atlantico

COREADEL SUD

COREADEL NORD

300 km

Tokyo

GIAPPONE

Nagasaki

Hiroshima

Seoul

Osaka

KyotoToyota

Non si può ridurre la progettazione di un veicolo da trentadue mesi a un anno

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il più grande del Giappone. Le stesse imma-gini, futuristiche e celebrative, compaiono sulle cartoline e sui video pubblicitari della città.

Con la crisi del 2008 sui mezzi d’infor-mazione erano apparse altre immagini: di-pendenti della Toyota diventati barboni, ile d’attesa per avere un pasto caldo gratis. Il richiamo di milioni di veicoli difettosi nel 2010 ha fatto diminuire ulteriormente le vendite. Per la prima volta il presidente del-la camera di commercio – fratello maggiore di un ex presidente dell’azienda – ha lancia-to una campagna pubblicitaria per elogiare i pregi delle auto Toyota. Alle nostre do-mande, il funzionario comunale risponde a bassa voce: “Abbiamo dovuto rinviare i la-vori di ampliamento del municipio. Di fatto l’economia locale dipende in gran parte dalla Toyota, e due anni fa le nostre entrate iscali si sono ridotte del 90 per cento”. Per tutte le altre domande il funzionario riman-da – con un sorriso educato – ai dépliant o alla Toyota motor.

Uno dei tanti stabilimenti dei subappaltatori che con la crisi hanno rallentato il ritmo di produzione

Il plastico di un’abitazione tipica venduta dalla Toyota

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Giappone

Da Parigi avevo chiesto uicialmente un’intervista alla direzione dell’azienda e una visita agli stabilimenti. Una responsa-bile, che aveva promesso di fare il possibile, ora si scusa: “Vorremmo veramente aiutar-la ma è diicile. Qualcuno le farà visitare il museo della Toyota”. Ma i signori della To-yota rimangono inaferrabili e annullano per email la visita al museo. Con mia gran-de sorpresa questo museo, il cui accesso mi era stato presentato come un favore perso-nale, è aperto a tutti. Lo “show” delle undici e un quarto è appena cominciato. Nella grande hall in marmo, una hostess fa dei giri a bordo di una vettura monoposto. Il bolide si trasforma, alterna la posizione se-duta a quella sdraiata. Secondo un rituale ripetuto migliaia di volte, la ragazza Toyota sorride, china leggermente in avanti la testa e porge un saluto meccanico al pubblico. I turisti ammirano un robot che suona la tromba e gli ultimi modelli di automobile. “Toyota, un sistema che rispetta l’uomo”, “Toyota, amica dell’ambiente”, proclama-no ovunque i cartelli. Ci sono mostre dedi-

cate a tutte le fondazioni create dall’azien-da: quella per il pianeta, quella per gli inva-lidi, quella per la sicurezza stradale, quella per l’alfabetizzazione negli Stati Uniti e così via. Ci viene proposta una visita agli stabili-menti. Due pullman partono puntualissimi. Il mio vicino, un austriaco, è un appassiona-to di auto: “Per me la Toyota è un simbolo di qualità. Questa città mi incuriosiva, ma so-no rimasto sorpreso: sembra quasi che gli abitanti siano in punizione”.

La fabbrica dell’abbondanzaIl pullman con la scritta “Toyota” attraversa il centro, sempre triste e intasato. Al micro-fono una ragazza con un sorriso stampato sul volto recita la genesi dell’impresa: “Il fondatore si chiama Toyoda. Significa ‘campo dell’abbondanza’”. Ci portano nel più grande sito di assemblaggio del gruppo: binari moderni, scheletri di vetture, carrelli e bip-bip a perdita d’occhio. Eppure non si sente una parola. Occhi bassi sulla catena di montaggio, migliaia di uomini e donne avvitano, martellano e montano in pochi

secondi. In guanti bianchi, alcuni accarez-zano una carrozzeria dopo l’altra per con-trollare le imperfezioni. In caso di ritardo spingono un pulsante collegato a uno scher-mo gigante, dove sono visualizzati i numeri delle postazioni. La guida: “I nostri operai praticano il kaizen, un metodo molto eica-ce di gestione della qualità. Sono incitati a rilettere per proporre dei miglioramenti”.

Da una seconda fabbrica proviene un odore acre. Allineati uno accanto all’altro, decine di robot saldano rumorosamente delle carcasse di vetture. La quintessenza del toyotismo: non c’è alcun essere umano, sono tutti scomparsi. Il centro della città è molto simile. I luoghi pubblici, funzionali e senza vita, sono frequentati lo stretto ne-cessario. Gli abitanti si precipitano in mac-china, come se fosse questione di vita o di morte. In una mensa, quattro dirigenti sono immersi nei loro manga. La pausa pranzo è breve, millimetrica, si scusano. “Avrà dii-coltà a ottenere informazioni sulla Toyota”, dice il cuoco. “Gli abitanti sono troppo lega-ti all’azienda”.

Manifestazione contro le condizioni di lavoro alla Toyota, aprile 2010

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Nel sushi bar dove ceniamo una sera, Tadao spiega che per paura nessun mem-bro del suo sindacato vuole parlare.

“Ma allora perché portare avanti questa lotta?”, chiedo io.

“La Toyota ha inventato la soferenza sul lavoro. Denunciare la sua filosofia fa parte dei princìpi che hanno guidato la mia vita. E non ho ceduto, nonostante le pres-sioni e le minacce”.

I piatti di pesce crudo silano su un tavo-lo circolare, come pezzi di una catena di montaggio. L’elegante pensionato prende un pezzo di sushi di seppia e del sashimi. Mentre mangia spiega che la Toyota non ha smesso di raforzare la sua struttura pirami-dale. In alto la direzione centralizzata, in mezzo i dipendenti privilegiati, in basso un vivaio di precari. “Nelle fabbriche più del 40 per cento dei lavoratori sono precari. Più si scende nella lista dei fornitori, più i con-tratti sono precari”.

Tadao ci dà alcuni numeri di telefono: un quadro superiore assunto dalla Toyota per le sue prestazioni in atletica, la moglie

di un designer industriale, un taciturno cu-stode di un parcheggio, un’estetista che “adooora la tranquillità della città”. Tutti sono diidenti. Tutti tranne Junko Morimo-to. L’abbiamo incontrata in un club per ma-dri di famiglia, un’organizzazione dedicata ai bambini della Toyota. Ci invita a passare da lei dopo il turno di suo marito.

La loro casa è all’estremità orientale della città. Due Toyota sono parcheggiate nel viale. Junko e suo marito, Shigeyuki, hanno più o meno trent’anni e l’atteggia-mento degli impiegati modello che si vedo-no sui dépliant dell’azienda. La foto del loro matrimonio, con i responsabili della Toyo-ta, è in mostra all’ingresso. Junko serve il tè sul tavolo basso. Seduto a gambe incrociate sul tappeto spesso, suo marito si sfrega le mani. Non gli sono mai state fatte delle do-mande sul suo lavoro, e l’impresa non gli ha insegnato come rispondere. Assunto come team member, Shigeyuki è stato promosso team leader, caposquadra, poi group leader, caporeparto. Oggi è agli ordini di un mana-ger, a sua volta agli ordini di un responsabi-

le e così via. “Mi trovo schiacciato tra gli operai che sorveglio e i miei superiori. È ve-ro, lo stress aumenta con le responsabilità, ma voglio fare carriera”. Shigeyuki si piega alle necessità dell’impresa, pratica il kaizen e il takt time, il ritmo di produzione ottimale per adeguarsi agli ordini. Questo ritmo – la parola takt indica in tedesco la “misura” – lo accompagna in fabbrica e lo segue ino a casa. Spesso nei sogni cerca il modo miglio-re per “eliminare gli sprechi”. Di recente i suoi premi sono stati ridotti e lui ha dovuto prendere una settimana di vacanza, ma crede ancora nel successo collettivo.

Il caporeparto osserva furtivamente le reazioni di sua moglie. È lei, incinta del loro secondo bambino, che lo ha convinto a ri-cevere una straniera in casa. Per lei Toyota City non ha mai rappresentato un sogno. Gli aspetti angusti di questa città-vetrina, dove “tutti sanno in che posto lavora il pro-prio vicino e quanto guadagna”, la ripugna-no. “La maggior parte degli abitanti non sa com’è il mondo esterno”. Come i nuovi as-sunti e gli operai di base, Shigeyuki ha vis-

La stazione, uno dei pochi luoghi animati della città

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Giappone

suto alcuni anni nelle città dormitorio della Toyota, costruite intorno alle fabbriche. Gli ediici – grigi, lunghi e pieni di piccole porte – sono sorvegliati. Per entrarci ci vuole l’aiu-to di qualcuno a Tokyo che, dopo varie tele-fonate, convince un giovane ingegnere a riceverci.

Ci aspetta dietro la stazione centrale, vicino a una fontana tutta pulita. Alto, ma-gro, elegante, il dirigente ci stringe rapida-mente la mano e si afretta. Cala il buio, le fabbriche producono il loro ronzio di fondo e la torre di vetro dove lavora è illuminata. Non vuole essere visto con degli stranieri. “Alla ine dei miei studi il prestigio della To-yota mi ha sedotto. Non c’è niente di meglio in un curriculum”. Così ha fatto domanda ed è stato assunto. Per alcuni mesi la Toyota lo ha addestrato, gli ha insegnato le sue re-gole, i suoi valori e le sue certezze ordinate. “Un vero e proprio lavaggio del cervello”. Il più naturalmente possibile, l’ingegnere passa in macchina davanti al custode del suo alloggio, dà un’occhiata alle telecamere di sorveglianza, sale i gradini delle scale esterne e, quasi tremando, apre una porta sormontata da una piccola lampada. All’in-terno riprende iato. “La Toyota ci dà un alloggio, ci educa, ci dice come comportar-ci, come se fossimo dei bambini”.

Minuscola, la stanza con i muri spogli è occupata da un letto, una scrivania, una mensola, un piccolo frigo, un lavandino e una giacca. I bagni, in comune, sono in fon-do al corridoio. “I nostri alloggi sono vecchi e spartani. La Toyota ci fornisce il minimo indispensabile, come se riconoscesse più valore alle macchine che agli uomini”. L’in-gegnere prende una pila di libri ammuc-chiati sulla mensola: Il miracolo Toyota, Il management Toyota, Il sistema Toyota. “Tut-ti i dipendenti devono conoscerli”. Appena ha un giorno di riposo l’ingegnere, 25 anni, evade dai tentacoli del suo datore di lavoro. A Tokyo si sente di nuovo giovane e ritrova gli amici ai concerti o in ristoranti animati. Piccole cose della vita, qui impossibili: “To-yota City è un luogo di potere, ricco, apprez-zato, ma faticoso e senza interesse”. Diri-gente con un promettente futuro alla Toyo-ta, dice di volersi dimettere non appena l’economia in Giappone comincerà ad an-dare meglio.

Anche in fondo alla piramide i precari hanno perso la iducia; sono loro i primi a essere licenziati, i primi a iscriversi alle liste di disoccupazione. Il centro per la disoccu-pazione, chiamato Hello Work, è una sala rosa e bianca piena di gente. La moquette, i muri colorati e la voce bassa rendono quasi calda l’atmosfera. “Il periodo peggiore è

stato l’anno scorso. Avevamo quattro do-mande di lavoro per un’oferta”, spiega il direttore nel suo uicio rosa. Sui gradini nell’ingresso pieno di mozziconi, due giap-ponesi di origine straniera chiacchierano in spagnolo. Prima della crisi lavoravano per dei produttori di pezzi di ricambio. Uno dei due parla volentieri, non ha più nulla da perdere. Nato in Perù, i suoi nonni sono fuggiti dal Giappone alla ine del boom eco-nomico. Quando è atterrato all’aeroporto di Tokyo, nel 1991, non sapeva dove fosse

Toyota City, ma la immaginava come il cen-tro del mondo. Appena sceso dall’aereo al-cuni uomini hanno attaccato dei nastri co-lorati al suo giubbotto e lo hanno portato lì. Il giorno dopo gli hanno dato una tuta, delle scarpe da lavoro, una maschera e una pian-tina della fabbrica. In poche ore Freddy, meccanico peruviano, si è ritrovato a salda-re a Toyota City: “Non capivo una parola di giapponese. Accanto ai capi c’erano alcuni traduttori che ci gridavano gli ordini. Dove-vamo limitarci a seguire la catena di mon-taggio”.

Durante i primi mesi Freddy era convin-to di non farcela, ma alla ine è riuscito ad abituarsi: “Bisogna adattarsi al ritmo, tutto qua. Alzarsi, fare una rapida colazione, an-dare al lavoro, non pensare al nu-mero di ore, tornare a casa, man-giare e andare a dormire”. Fred-do, distaccato, continua: “Dob-biamo fare un buon prodotto, il più rapidamente possibile e con un numero sempre più ridotto di uomini. Alcuni non ce la fanno e se ne vanno. Altri diventano matti, si ammalano o si suicida-no. Si può dire che è ingiusto, ma è così dap-pertutto, no? La Toyota esporta i suoi meto-di in tutto il mondo”.

Mi porta nella sua piccola Suzuki bianca e scherza: “Brutta, eh? Era la meno cara sul mercato. In Perù anche con una vita di lavo-ro non sarei mai riuscito a comprarla”. Si ferma davanti a un ediicio moderno, il To-yota industry and culture center: “È bello, vero? Questo posto mi piace molto”. Si diri-ge verso un gruppo di case in costruzione nascosto da teli con la scritta “Toyota Ho-me” mossi dal vento. Indica un ponte bian-co dal disegno futuristico: “Là sotto ci sono dei barboni, ex dipendenti della Toyota. Ma

la maggior parte è tornata dalle loro fami-glie o è andata nelle grandi città. A loro la città non ha più niente da ofrire”. Si ferma vicino alla sua ex fabbrica, apre la portiera ma non scende: “Non lavoro più in questo posto, non capirebbero cosa faccio qui”, di-ce con un groppo in gola.

Freddy ci porta nel suo posto preferito, un piccolo ristorante decorato con tessuti di lana colorata, maschere e piccoli oggetti di ispirazione inca. Il proprietario, un amico, ci serve del ceviche, del carpaccio di pesce tipico del Perù. I tavoli sono vuoti. “Ormai non viene più nessuno. Di solito sono otti-mista, ma questa crisi è molto profonda”. Freddy annuisce, con gli occhi persi nel vuoto: “Prima, mi trovavo un lavoro in po-chi mesi. Ora è più di un anno che sto cer-cando”.

È nella parte settentrionale della città, nel quartiere di Homi, che hanno comincia-to ad apparire i primi segni della crisi. Er-bacce tra un palazzo e l’altro, un’associazio-ne che distribuisce cibo e latte per i neonati, ma anche colori, un po’ di vita. I cartelloni sono in giapponese, portoghese e spagnolo. Il piccolo supermercato e la drogheria ven-dono prodotti sudamericani.

Al tredicesimo piano di un grattacielo una madre di famiglia mi accoglie con i igli che le ronzano tra le gambe. Alcuni mate-rassi sono ammucchiati in un angolo. Cri-stina convive in questo appartamento su due piani con nove persone. I fornitori della Toyota non l’hanno licenziata, ma le hanno proposto un lavoro precario.

Attraverso la parete sottile si sentono i vicini che spostano i mobili. Non hanno più nulla. Come molti al-tri, hanno accettato “l’aiuto di ri-torno” del governo giapponese: in cambio di un biglietto aereo per il Brasile e di un’indennità, si

sono impegnati a non tornare nell’arcipela-go per cinque anni. Freddy invece è dispo-sto a tutto pur di rimanere. Vive con i suoi ultimi risparmi, in una casa popolare di trenta metri quadri. D’inverno non accende più il riscaldamento e ha disdetto l’abbona-mento del cellulare. La sua divisa da lavoro è custodita con cura in una busta di plastica nell’armadio. Ma lui conserva ancora la speranza: “La gente avrà sempre bisogno di auto, no?”.

Ritrovo Tadao, occupatissimo nell’or-ganizzare proteste e inventare nuovi slo-gan. Il suo cartellone è riposto in un ango-lo, ma anche lui è iducioso. L’altro giorno, per la prima volta, davanti alla fabbrica un dipendente ha osato prendere un volanti-no. u adr

“Si può dire che è ingiusto, ma la Toyota esporta i suoi metodi in tutto il mondo”

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Haiti

“Presento al cielo la terra di Haiti perché Gesù la benedica. Da oggi in poi nessuna cala-mità colpirà più Hai-ti”. Siamo in un terre-

no incolto a Carrefour, la popolosa periferia a sudest di Port-au-Prince. Un pastore sta-tunitense di origine nigeriana, vestito con un boubou da cerimonia, si rivolge a una fol-la compatta. La grande crociata evangelica dura da giorni. Ogni notte si ripetono le stesse invocazioni, le stesse imposizioni di mani su corpi paralizzati, gli stessi canti per cacciare i demoni dall’isola. E ogni mattina i protestanti haitiani hanno un risveglio do-loroso, con la radio che annuncia il nuovo bilancio delle vittime del colera.

Il 12 gennaio 2010, mentre il terremoto distruggeva Port-au-Prince e le città nel sud del paese, gli evangelici sono scesi in stra-da. Con le mani per aria. “Ero sul Champ-de-Mars, di fronte al palazzo presidenziale che stava crollando. A sinistra e a destra c’erano solo macerie. Ma un gruppo di pro-testanti veniva verso di me per invitarmi alla conversione”, racconta Laënnec Hur-bon, uno dei maggiori esperti di religione ad Haiti. Hurbon non è sorpreso dalla ricer-

I profeti controil vudùArnaud Robert, Le Monde Magazine, FranciaFoto di Paolo Woods

Il terremoto e il colera hanno alimentato il fervore religioso degli haitiani. I leader spirituali si accusano a vicenda dei mali che aliggono l’isola, con il rischio di scatenare una guerra santa

ca in massa di Dio: “Il terremoto ha messo in discussione i nostri punti di riferimento”. Si è afermata l’idea che il terremoto sia sta-to una punizione divina, come sostiene ne-gli Stati Uniti il pastore Pat Robertson, se-condo cui il vudù è il peccato originale del popolo haitiano.

Dal punto di vista spirituale Haiti è sto-ricamente divisa. Da un lato, legata all’ere-dità coloniale, c’è la religione cattolica in nome della quale nel novecento sono state lanciate almeno due grandi campagne con-tro il vudù. Dall’altro c’è la vecchia religione degli schiavi, il cui mito per eccellenza è la cerimonia del Bois Caiman del 1791, che avrebbe permesso agli haitiani di liberarsi dell’oppressore francese. Ma negli anni cinquanta si è afermato un terzo protago-nista della vita religiosa dell’isola: il prote-stantesimo all’americana, che ha conqui-stato metà della popolazione con una mi-riade di culti e denominazioni. Sono soprat-tutto i protestanti a reclamare la ine del vudù.

“Dopo il terremoto e il colera ci chiedia-mo se Dio ce l’abbia con noi”, aferma Cha-vannes Jeune, un pastore battista originario di Les Cayes. “Penso che Haiti non sia stata fondata su basi sane. Fin dalle origini il no-

stro popolo è stato guidato dall’idolatria. Gesù deve ritrovare il suo trono”. Jeune si era candidato alle elezioni presidenziali del 2006, ottenendo più del 5 per cento dei voti. In vista delle presidenziali del 2010, il pa-store ha fatto campagna in chiese strapie-ne. Dopo il terremoto, ha indicato senza ambiguità l’origine di tutti i mali di Haiti: la cerimonia del Bois Caiman, durante la qua-

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le i seguaci del vudù avrebbero irmato un patto con il diavolo. I suoi discorsi hanno avuto efetto: all’inizio di dicembre, nel cli-ma teso provocato dall’epidemia di colera, alcuni protestanti del dipartimento della Grande Anse hanno cominciato a dare la caccia ai sacerdoti vudù. Dodici sacerdoti sono stati uccisi a colpi di machete e i loro corpi sono stati bruciati. I protestanti li ac-

rale al governo haitiano, il primo ministro Jean-Max Bellerive non è divertito dalla bi-gotteria congenita del suo popolo.

Port-au-Prince è una città mistica. Pri-ma del terremoto in tutte le strade c’erano templi, chiese e altari vudù. Sulle insegne dei negozi distrutti dal sisma si possono an-cora leggere scritte come “Dio buono e mi-sericordioso”, “Padre eterno”, “Gesù for-

cusavano di aver fabbricato delle polveri colerose per avvelenare la popolazione. “Le disgrazie sono sfruttate in un modo molto particolare. Queste accuse hanno facilitato la penetrazione del protestantesimo ad Haiti, creando una situazione potenzial-mente molto pericolosa. Si corre il rischio di scatenare delle piccole guerre di religio-ne”. Nella tenda che serve da quartier gene-

2 novembre 2010, un predicatore nel cimitero di Port-au-Prince

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Haiti

te”. Il disastro del 12 gennaio 2010 non solo ha raforzato le credenze, ma le ha rese più radicali.

Inoltre, l’arrivo dei missionari statuni-tensi – ogni aereo da New York o da Miami porta con sé un contingente di apostoli – dà l’impressione di una terra di profeti, dove ogni gruppo religioso accusa l’altro dei ma-li che aliggono il paese. Amber, neanche trent’anni, con un iore di stofa nei capelli, è di Rochester Hills nel Michigan. Di Haiti conosceva solo la desolazione e le pratiche stregonesche, che aveva visto nei ilm hol-lywoodiani. È arrivata con un gruppo di circa trenta persone intenzionate a “guarire i tumori con uno schiocco delle dita, grazie alla forza di Dio”. La ragazza non teme i de-moni: “Ho sentito storie terribili di persone che si trasformavano in pipistrelli. Non so-no leggende, è la verità. Ma questo non mi fa paura. So di poter dominare gli spiriti maligni perché Gesù è nella mia vita”.

I contatti tra missionari stranieri e pro-

testanti haitiani sono stati presi alcuni anni prima del terremoto. Un pastore dominica-no che ha vissuto a lungo negli Stati Uniti è il punto di riferimento di queste “crociate del miracolo”. Di fronte al mare, vicino ai campi degli sfollati, lo spettacolo organiz-zato per l’occasione è incredibile. I giovani evangelici statunitensi ofrono caramelle, palloncini e inventano scenette divertenti per raccontare la storia del mondo dal pun-to di vista creazionista. Nel frattempo, in una chiesa di Carrefour alcune decine di pastori haitiani seguono dei seminari, or-ganizzati dagli stranieri, in cui imparano a guarire con le mani. Di sera, i gruppi di mu-sica caraibica attirano migliaia di fedeli che poi assistono a una rappresentazione della crociissione da parte del predicatore Do-minic Russo, un ventenne muscoloso.

“Dominic, una voce per il ventunesimo secolo”, recita il sito internet che descrive le missioni di Russo a Panama, in Perù e in India. Il predicatore è una specie di rock-

star, con tanto di moglie pronta ad asciu-gargli la fronte. Sotto i proiettori si snoda la ila degli ex malati che sono guariti grazie a Gesù e che sono venuti a darne testimo-nianza. Sulla terra bianca, i missionari sono impegnati a curare cataratte e deformazio-ni delle gambe. A questa specie di iera tau-maturgica partecipa anche il sindaco della città: “Anch’io ho accettato Gesù nella mia vita. Non possiamo lasciare Haiti nelle ma-ni del diavolo”.

Discendenti degli schiaviIl giorno dopo nel quartiere di Bel Air, a po-chi chilometri di distanza, il comitato di accoglienza è più ristretto ma l’atmosfera è altrettanto animata. Siamo nell’houmfort (tempio vudù) della società segreta Bizan-go. Gli evangelici sono particolarmente critici contro questo tipo di setta, che pre-tende di dominare gli spiriti e i maleici not-turni. Gli appartenenti alla società segreta sono i discendenti dei primi abitanti della

Il tempio della setta vudù Bizango

I seguaci del pastore protestante Patrick Mokébé Il predicatore Patrick Mokébé a Port-au-Prince

Il sacerdote vudù Erol Josué posseduto da uno spirito

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colonia, quando la religione africana era professata di nascosto. I marrons, gli schia-vi scappati dai padroni, la usavano per ali-mentare la lotta rivoluzionaria. L’houngan (sacerdote) Louis Alex porta un cappello da cowboy nero con delle striature rosse. Nella piccola stanza con il soitto tappezzato di bandiere haitiane e le pareti afrescate con le immagini dei santi cristiani assimilati al rito vudù, una quindicina di donne si muo-ve mormorando. Tutte indossano un abito rosso e nero. Sul pavimento in terra battuta c’è una bara sovrastata da teschi e candele.

Louis Alex è l’imperatore di questa so-cietà, che ha la struttura gerarchica di un esercito. “È grazie al vudù che abbiamo ot-tenuto l’indipendenza nel 1804”, spiega Alex. “È inaccettabile afermare che il ter-remoto del 12 gennaio sia stato una punizio-ne contro il vudù. Se fosse stata solo Haiti a essere colpita da un sisma, sarei d’accordo. Ma i terremoti si veriicano anche nei paesi cristiani. Il vudù fa parte della cultura hai-

tiana, è nel nostro animo. Anche i prote-stanti e i cattolici lo praticano in segreto. Gli statunitensi non si vergognano di scrivere sui loro dollari ‘In God we trust’. Io sulle banconote haitiane vorrei scrivere ‘In vudù we trust’”.

Insieme al carnevale, la festa dei morti è il periodo dell’anno in cui il vudù è più visi-bile per le strade di Haiti. Il 1 e il 2 novembre 2010 la celebrazione dei guédés, spiriti dell’oltretomba e guardiani dei cimiteri, è stata molto seguita. Il cimitero di Port-au-Prince è un immenso spazio pieno di perso-ne, una città nella città. Nella tomba di François Duvalier, saccheggiata dopo la caduta del iglio Jean-Claude “Baby Doc” Duvalier nel 1986, s’intravede una tibia la-vata dalla pioggia. La tomba di Jean-Jac-ques Dessalines, fondatore della patria, è una semplice lastra di granito con un’iscri-zione indecifrabile. Dall’altra parte del ci-mitero alcuni operai lavorano per coprire la fossa comune aperta dopo il terremoto, do-

u Il 16 gennaio 2011, a poco più di un anno dal sisma che ha fatto 250mila vittime, è previsto il secondo turno delle presidenziali ma, secondo un responsabile del consiglio elettorale provvisorio haitiano, sarà rimandato a febbraio. Il ballottaggio è tra Mirlande H. Manigat e Jude Célestin. L’annuncio dei risultati del primo turno (28 novembre) ha scatenato manifestazioni violente. I candidati esclusi denunciano brogli a favore di Célestin.

Da sapere

Una messa di cattolici carismatici nella capitale

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Haiti

ve sono stati sepolti in tutta fretta cinquan-tamila haitiani per evitare le epidemie.

All’entrata principale del cimitero, sotto la citazione biblica “Ricordati che sei pol-vere”, alcune donne vendono iori, candele, santini e cafè per i guédés. Vicino a loro un predicatore in cravatta maledice con un megafono gli “adoratori”. I cortei dei se-guaci del vudù silano per le vie fangose della necropoli. Invocando i guédés, la folla intona canti che ironizzano sul terremoto, sul colera e sulla forza di intervento dell’Onu. Secondo l’etnologo Jean-Yves Blot, dell’università di Port-au-Prince, “i guédés sono gli spiriti dei morti ma anche della rinascita. Usano un linguaggio provo-cante e molto legato al sesso. È un’occasio-ne per gli adepti del vudù di riconciliarsi con le loro origini”.

Il 1 novembre il cimitero è un vero e pro-prio crocevia delle religioni haitiane. Nella chiesa di Notre dame du perpétuel secours, quasi completamente distrutta dal terre-moto, più di duecento cattolici cantano il nome di Cristo: “Gesù, non ce la facciamo più”. A due passi da qui una seguace dello spirito della Grande Brigitte, con il volto imbiancato dal talco, mastica un peperon-cino piccante dopo l’altro per raggiungere la trance. Un’altra donna, protestante, ag-gredisce verbalmente i posseduti: “Non vi

vergognate?”. Ma subito dopo viene energi-camente accompagnata all’uscita del cimi-tero da un sacerdote vudù che si giustiica così: “Questa donna è venuta qui solo per impedire i nostri rituali. Può continuare a dire quello vuole fuori dal cimitero”. Da-vanti a una croce di cemento bruciata, i se-guaci del vudù ricominciano le libagioni a base di rum fatto in casa.

Il volto del diavolo

Nei due giorni in cui il paese ricorda i 250mila morti del 12 gennaio 2010, la ten-sione è molto alta. Per evitare che la situa-zione degeneri, in mancanza della polizia, si può contare sulla grande duttilità della religiosità haitiana. Sulla grande strada che costeggia il cimitero, un corteo formato da centinaia di evangelici blocca il traico. In testa al corteo un seguace dell’ebraismo messianico soia in un corno. “È il grido della libertà!”, dice. Setta cristiana che ri-spetta gli insegnamenti della Torah, l’ebrai-smo messianico è uno dei movimenti più ostili al vudù. Ad Haiti il loro profeta è lo statunitense Gregory Schadt. “Avete visto la bandiera haitiana? Se la si osserva bene si vede il volto del diavolo. In questa terra ab-biamo avuto il terremoto e il colera, in que-sto paese sta succedendo qualcosa. Haiti non è condannata alla maledizione. Il pae-

se è destinato a diventare la terza nazione eletta di Dio, dopo Israele e gli Stati Uniti”.

Sull’isola il sentimento che gli haitiani siano un popolo eletto è molto difuso, è una specie di corollario della credenza che una maledizione abbia colpito il paese. Per difondere questa convinzione la storia na-zionale è un fattore molto importante. Alla scuola Saint-Louis de Bourdon, alcune ile ordinate di ragazze in uniforme porpora recitano il Padre nostro e intonano l’inno nazionale durante l’alzabandiera. “Per la bandiera, per la patria / morire è bello, mo-rire è bello / il nostro passato ci grida: / che il nostro animo sia agguerrito”. Suor Elsa, la direttrice dell’istituto, è impegnata a dare una lezione di scienze sociali sulla colonia: “Bisogna capire il contesto storico. La Fran-cia mandava sull’isola dei coloni che inve-stivano qui il loro denaro. Avevano i terreni e facevano venire gli schiavi. Ma la colonia di Santo Domingo era fragile: i proprietari terrieri si sentivano danneggiati dalla ma-drepatria e gli schiavi erano oppressi. A un certo punto, gli schiavi hanno deciso di li-berarsi. Non avevano nulla da perdere”.

Così nel 1804 Haiti ha ottenuto l’indi-pendenza, prima repubblica nera della sto-ria e unica rivoluzione di schiavi ad aver avuto successo. L’immagine di Haiti come nazione più povera dell’emisfero occiden-

La messa davanti alla cattedrale di Port-au-Prince, ancora in macerie

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tale si è sempre accompagnata nella mente degli haitiani a una grandezza perduta e a un destino nazionale. È intorno a questi mi-ti fondatori, dal marron Boukman all’eman-cipatore Toussaint Louverture, che ruotano le tre pratiche religiose del paese. Il sociolo-go Laënnec Hurbon scorge in questo feno-meno un elemento di distinzione: “I prote-stanti tendono a spingere l’individuo a non fare più riferimento alla storia, ad abbando-nare il suo passato. Per loro la nazionalità non ha importanza. La Bibbia è la protezio-ne suprema e l’unico fattore di riconosci-mento. Ci si può chiedere se, nel contesto haitiano, gli evangelici inluenzati dalla re-ligiosità statunitense non abbiano adottato una visione coloniale dell’isola”.

A Port-au-Prince le chiese distrutte so-no moltissime. La cattedrale è solo un gu-scio vuoto con muri fatiscenti, davanti alla quale sono state montate le tende dell’Uni-cef per ospitare le messe. La chiesa cattoli-ca è stata la più colpita dal sisma del 2010. Secondo il vescovo Joseph Lafontant, suc-ceduto all’arcivescovo Serge Miot morto nel crollo della cattedrale, sono state di-strutte settanta parrocchie lo scorso genna-io: “I protestanti afermano che la chiesa è stata decapitata per mano di Dio. Per loro il cattolicesimo è l’equivalente di Babilonia e dei suoi vizi. Fanno una propaganda terribi-

le contro di noi, ma queste conversioni di massa verso il protestantesimo non mi con-vincono. Gli abitanti vogliono solo ottenere aiuti dalle organizzazioni protestanti. Si tratta di conversioni interessate. Credo, in-vece, nel profondo ecumenismo degli hai-tiani”.

Diverse iniziative vanno in questa dire-zione. Gli attivisti di Religioni per la pace, un’organizzazione che riunisce persone di tutte le confessioni, si incontrano in una parrocchia del centro città. “Nel corso della campagna elettorale”, afferma un pastore battista, “molti candidati fanno appello a Cristo. Gli adepti del vudù non si riconoscono in questo richiamo e si sentono esclusi”. “Bisogna smettere di demonizzare l’altro ed evitare l’uso dei te-mi religiosi in politica”, risponde un vesco-vo.

Dopo il terremoto Jean-Marie Théodat, un geografo haitiano che viveva in Francia, ha scelto di tornare ad Haiti, dove vive in una tenda, nel cortile della casa di famiglia. “Quello che è successo ad Haiti è estrema-mente banale dal punto di vista geologico. La tragedia haitiana non ha nulla di metai-sico, è semplicemente politica. Le istituzio-ni sono crollate molto prima del terremoto. La proliferazione di alcune chiese è il segno

tangibile di questo crollo. Di fronte a questo fenomeno gli haitiani hanno l’impressione di non riuscire a farcela senza un miracolo. Questo ci fa capire che dipendiamo ancora dall’estero e dimostra una grave mancanza di responsabilità di fronte ai nostri compi-ti”.

Non lontano da qui, sulla pista dell’ae-roporto Toussaint Louverture, un Cessna si appresta al decollo. A bordo ci sono due amish dalla barba folta, vestiti come

nell’ottocento. È una piccola compagnia internazionale, la Mission aviation fellowship, fon-data da aviatori cristiani dopo la seconda guerra mondiale, che trasporta missionari nei posti più

sperduti del paese. Il responsabile ha una Bibbia in creolo sotto il braccio. “Dal 12 gennaio arrivano molte persone per porta-re il messaggio di Dio. Conosce il vangelo di Matteo, capitolo 9, versetto 35? ‘Gesù percorreva tutte le città e i villaggi, inse-gnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni ma-lattia e ogni infermità’. Il nostro spirito è questo. Sono contento di vedere dei cre-denti che non hanno mai messo piede ad Haiti venire qui oggi a portare la parola di Dio. Che non è mai cambiata negli ultimi duemila anni”. u adr

Parata protestante a Port-au-Prince Rito di puriicazione alla cascata Saut d’Eau, sacra per i seguaci del vudù

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Scienza

Nel 2001, negli ospedali greci circolava la voce che i chirurghi, per au-mentare il numero degli interventi, diagnosti-cassero false appendici-

ti agli immigrati albanesi. Un giorno una dottoressa fresca di laurea, Athina Tatsio-ni, stava commentando la vicenda con al-cuni colleghi nel policlinico dell’università di Ioannina e un professore che aveva sen-tito la conversazione le chiese se era dispo-sta a veriicare la fondatezza di quelle accu-se. Sembrava quasi una sida. Tatsioni la raccolse e, con l’aiuto del professore e di altri medici, realizzò uno studio uiciale per dimostrare che, qualunque fosse il mo-tivo, le appendici asportate a pazienti con nomi albanesi in sei ospedali greci avevano il triplo delle probabilità di essere perfetta-mente sane rispetto a quelle dei malati con nomi greci. “Fu diicile trovare una rivista disposta a pubblicare l’articolo, ma ci riu-scimmo”, ricorda Tatsioni. “Scoprii anche che fare la ricercatrice è davvero appassio-nante”. Una doppia soddisfazione, perché quello studio in realtà era una specie di au-dizione. Il professore voleva mettere insie-me una squadra di giovani medici e dotto-randi audaci e curiosi per affrontare un programma piuttosto insolito.

La primavera scorsa ho partecipato a una delle riunioni settimanali del gruppo nel campus dell’università, sparso disordi-natamente su una serie di ripide colline. L’edificio in cui ci trovavamo somiglia a una caserma, come quasi tutti gli altri, e i muri sono costellati di scritte a sfondo poli-

tico. Ma la sede dell’incontro era una spa-ziosa sala conferenze degna di un’azienda della Silicon valley. Intorno a un grande ta-volo erano seduti Tatsioni e altri otto giova-ni ricercatori e medici greci che, a diferen-za di molti loro colleghi statunitensi, somi-gliavano agli attori di una serie medica tv. Il professore, John Ioannidis, un uomo ele-gante e dalla voce cordiale, presiedeva la seduta senza troppe formalità.

Una ricercatrice esperta di biostatistica, Georgia Salanti, ha acceso un computer portatile e un proiettore e ha cominciato a illustrare uno studio che stava ultimando insieme ad alcuni colleghi e che afrontava la seguente questione: le case farmaceuti-che manipolano le pubblicazioni per far sembrare eicaci le loro medicine? Salanti snocciolava dati che sembravano confer-mare questa ipotesi, ma gli altri membri dell’équipe hanno subito cominciato a obiettare. Un giovane dottore ha contesta-to la tesi secondo cui le ricerche delle case farmaceutiche evitano di misurare gli esiti più signiicativi, per esempio sopravviven-

za contro decesso, e tendono invece a mi-surare quelli più lievi, per esempio i sintomi riferiti dai pazienti (“oggi ho meno dolore al petto”). Un altro ha sottolineato che lo studio di Salanti non teneva conto del fatto che quando i dati delle società farmaceuti-che sembrano indicare un miglioramento delle condizioni di salute dei pazienti, non necessariamente dimostrano che il merito è del farmaco o che il miglioramento è de-initivo.

Salanti è rimasta impassibile, come se essere messa sulla graticola fosse ordinaria amministrazione, e non ha esitato ad am-mettere che tutte le obiezioni erano valide: ma un’unica ricerca non può dimostrare tutto, ha replicato. Ho cominciato a capire quanto possono essere lessibili le ricerche delle case farmaceutiche. È stato allora che Ioannidis, che ino a quel momento si era limitato ad ascoltare, ha assestato il colpo di grazia: non sarà, ha chiesto, che le case farmaceutiche selezionano con cura l’argo-mento dei loro studi – per esempio metten-do a confronto i nuovi farmaci con prodotti già in commercio notoriamente meno ei-caci – in modo da trovarsi in vantaggio pri-ma ancora che cominci il gioco dei dati? “Forse a volte sono le domande a essere manipolate, non le risposte”, ha detto con un sorriso cordiale. Tutti hanno annuito. Anche se i risultati delle ricerche sui farma-ci spesso arrivano sulle prime pagine dei giornali, dovremmo sempre chiederci se dimostrano veramente qualcosa. In deini-tiva, esiste una ricerca medica di cui pos-siamo idarci?

Questa domanda ha avuto un’impor-

La medicinabugiardaDavid H. Freedman, The Atlantic, Stati Uniti

I risultati delle ricerche mediche sono spesso esagerati, fuorvianti o addirittura falsi. Eppure determinano le scelte terapeutiche dei medici. Un ricercatore greco ha deciso di reagire denunciando gli errori dei suoi colleghi

Negli ultimi anni ampi studi hanno concluso che mammograie e colonscopie sono molto meno utili di quanto si pensasse per individuare i tumori

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tanza centrale per Ioannidis, che ha avuto una carriera da “metaricercatore” ed è di-ventato uno dei maggiori esperti mondiali per quanto riguarda la credibilità della ri-cerca medica. Insieme alla sua squadra ha dimostrato diverse volte, e in molti modi, che gran parte delle conclusioni a cui giun-gono i ricercatori nelle loro pubblicazioni biomediche – conclusioni che i medici han-no ben presenti quando prescrivono gli an-tibiotici o un farmaco per la pressione, quando ci consigliano di consumare più i-bra e meno carne, o quando ci consigliano un intervento al cuore o alla schiena – sono fuorvianti, esagerate e spesso semplice-mente sbagliate. Ioannidis sostiene che il 90 per cento delle informazioni mediche pubblicate, sulle quali si basano i medici, sono tarate da un vizio di prospettiva. Il suo lavoro è stato ampiamente accettato dalla comunità medica ed è spesso citato dalle più prestigiose riviste del settore, e i suoi interventi alle conferenze sono sempre una grande attrazione. Considerando la sua no-torietà e il fatto che prende di mira il lavoro

degli altri colleghi, il comportamento dei medici e tutti i consigli che riceviamo, sem-brerebbe lo scienziato giusto per comincia-re a cambiare veramente le cose. Eppure, anche se la sua voce è molto autorevole, Ioannidis pensa che la ricerca medica sia talmente segnata da errori e conlitti di in-teresse che un cambiamento potrebbe ri-velarsi impossibile. È perino restio ad am-mettere pubblicamente l’esistenza del problema.

Senza prove

La cittadina universitaria di Ioannina sorge vicino alle rovine di un aniteatro da 20mila posti costruito in onore di Zeus sul sito dell’antico oracolo di Dodona. Nell’anti-chità l’oracolo rispondeva alle domande dei sacerdoti facendo stormire i rami di una quercia sacra. Oggi un’altra quercia invita i visitatori a ripetere il rito. “Porto qui tutti i ricercatori che vengono a trovarmi e quasi tutti rivolgono alla quercia la stessa do-manda”, mi racconta Ioannidis il giorno dopo la riunione, mentre osserviamo l’al-

bero. “Otterrò il inanziamento per la mia ricerca?”. Ridacchia, ma è un tipo che ride per ammorbidire l’asprezza dei suoi attac-chi, più che per allegria. E di fatto, subito dopo osserva che l’ossessione dei inanzia-menti ha contribuito molto a indebolire la credibilità della ricerca medica.

Ioannidis si è imbattuto per la prima volta in questo tipo di problemi all’inizio degli anni novanta, quando era un giovane ricercatore ad Harvard. All’epoca era inte-ressato alla diagnosi di alcune malattie rare per le quali scarseggiano i dati, tanto che i medici possono aidarsi quasi solo all’in-tuito o a qualche regola pratica. Ma ben presto si accorse che i medici tendevano a procedere in modo simile anche quando si trattava di tumori, cardiopatie e altre pato-logie più comuni. Dov’erano i dati che do-vevano sostenere le loro scelte terapeuti-che? Le ricerche pubblicate erano numero-se, ma in molti casi decisamente poco scientiiche e basate per lo più sull’osserva-zione di un numero limitato di casi. Proprio in quegli anni stava nascendo un nuovo

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movimento a favore di una “medicina fon-data sulle prove”, e Ioannidis ci si lanciò a capoitto, prima lavorando con alcuni auto-revoli ricercatori della Tufts university e poi assumendo incarichi alla Johns Hopkins university e ai National institutes of health. Era ben preparato per questo genere di la-voro: quando frequentava il liceo, in Gre-cia, era considerato un prodigio in mate-matica e successivamente aveva seguito la carriera medica dei genitori, entrambi ri-cercatori. Ora aveva la possibilità di conci-liare matematica e medicina applicando una rigorosa analisi statistica a un settore che appariva ancora piuttosto informe.

“Davo per scontato che qualunque cosa facessimo noi medici fosse sostanzialmen-te giusta, ma volevo accertarlo”, spiega. “Dovevamo semplicemente rivedere tutte le prove in modo sistematico e convincerci che erano aidabili, e tutto sarebbe stato perfetto”.

Ma non andò così. Studiando le riviste mediche, Ioannidis fu colpito da quante scoperte di ogni genere fossero state con-traddette dalle scoperte successive. Ovvia-mente, le smentite nella scienza medica non sono un segreto. E a volte arrivano al grande pubblico. Negli ultimi anni ampi studi hanno concluso, con crescente con-senso dei ricercatori, che mammograie, colonscopie e test del Psa sono molto meno utili di quanto si pensasse per individuare i tumori; o che in numerosi casi di depressio-ne farmaci molto usati come il Prozac, lo Zoloft e il Paxil non sono più eicaci di un placebo; o che evitare completamente il sole in realtà può far aumentare il rischio di cancro; o che bere molta acqua durante l’attività isica è potenzialmente fatale; o che assumere olio di pesce, fare attività i-sica e risolvere rebus non aiuta a prevenire l’Alzheimer, come si era a lungo sostenuto. Studi sottoposti a revisioni tra pari sono ar-rivati a conclusioni opposte nel valutare se l’uso del cellulare provochi tumori al cer-vello, se dormire più di otto ore a notte fac-cia bene o sia pericoloso, se prendere l’aspi-rina ogni giorno possa salvarti o accorciarti la vita, se l’angioplastica sia meglio o peg-gio dei farmaci per liberare le coronarie.

Ma Ioannidis fu sbalordito soprattutto dai continui capovolgimenti che vedeva nella ricerca medica. I “controlli randomiz-zati”, in cui si mette a confronto un gruppo sottoposto a un determinato trattamento e un altro gruppo a cui la terapia non viene somministrata, erano considerati da tem-po una prova quasi incontrovertibile, eppu-re a volte si dimostravano sbagliati. “Mi resi conto che anche le nostre ricerche gold

standard avevano un sacco di problemi”, racconta. Ioannidis cominciò a cercare di capire dove si nascondevano gli sbagli. E quasi subito scoprì che la gamma di errori commessi era sbalorditiva: da quali do-mande ponevano i ricercatori a come im-postavano gli studi, quali pazienti recluta-vano, quali misurazioni efettuavano, come analizzavano i dati, come presentavano i risultati e come determinati studi arrivava-no a essere pubblicati nelle riviste medi-che.

Questo ampio assortimento faceva pensare a un’irregolarità di base più grave, e Ioannidis credeva di sapere quale fosse. “Gli studi erano viziati da un errore siste-matico”, spiega. “A volte erano apertamen-te viziati. A volte la manipolazio-ne era difficile da vedere, ma c’era”. Quando cominciavano i loro studi, i ricercatori volevano ottenere certi risultati e, guarda un po’, li ottenevano. Pensiamo che il processo scientiico sia obiettivo, ri-goroso e quasi spietato nel separare ciò che è vero da ciò che vorremmo fosse vero, ma in realtà è facile manipolare i risultati, per-ino senza volerlo e senza esserne consape-voli. “A ogni passaggio c’è spazio di mano-vra per distorcere i dati, per raforzare la propria tesi o per selezionare le conclusioni a cui si vuole arrivare”, insiste Ioannidis. “C’è un conlitto di interessi intellettuale che spinge i ricercatori a trovare il risultato che ha maggiori probabilità di ottenere un inanziamento”.

Forse solo una minoranza di ricercatori cede a questo impulso, ma i loro risultati distorti hanno un efetto gigantesco sulle ricerche pubblicate. Per ottenere cattedre e inanziamenti, e spesso semplicemente per restare a galla, i ricercatori devono far pubblicare i loro studi in riviste prestigiose, dove il tasso di riiuto si avvicina spesso al 90 per cento. Ovviamente, gli studi che tendono a superare la prova sono quelli con risultati clamorosi. Ma se presentare teorie di grande richiamo può essere relativa-

mente semplice, trovare conferme nella realtà è un’altra faccenda. Quando viene sottoposta a un’analisi rigorosa, la maggior parte delle ricerche crolla sotto il peso di dati contraddittori. Ma proviamo a imma-ginare che cinque ricerche diverse voglia-no veriicare un’interessante teoria di cui si fa un gran parlare.

Quattro dimostrano correttamente che l’idea è sbagliata, mentre il gruppo meno attento – grazie a errori, colpi di fortuna e a un’abile selezione dei dati – riesce a “dimo-strare” che è giusta. Indovinate quali risul-tati iniranno sotto gli occhi del vostro me-dico in una rivista specializzata e saranno annunciati al telegiornale della sera? I ri-cercatori a volte fanno notizia confutando

un’importante scoperta, il che può contribuire quanto meno a sollevare dubbi sui risultati. Ma in generale è molto più gratifi-cante aggiungere una nuova in-tuizione o un risvolto accattivan-

te a una ricerca già nota che sottoporre a nuova veriica le sue premesse fondamen-tali: dopo tutto, mettendo in discussione i risultati degli altri è diicile ottenere una pubblicazione, e cercare di smentire il la-voro di stimati colleghi può avere sgrade-voli ripercussioni professionali.

ManipolazioniAlla ine degli anni novanta Ioannidis si in-stallò all’università di Ioannina. Mise insie-me la sua squadra, che è in gran parte la stessa ancora oggi, e cominciò ad afronta-re il problema in una serie di articoli che il-lustravano in che modo certi studi davano risultati fuorvianti. Anche altri “metaricer-catori” cominciavano a denunciare l’alto tasso di errori della letteratura medica. Ma Ioannidis voleva tracciare un quadro gene-rale basandosi su dati solidi, un ragiona-mento limpido e una buona analisi statisti-ca. Il progetto si protrasse ino a quando Ioannidis inalmente si ritirò nella minu-scola isola di Sikinos, nel mare Egeo, dove era ispirato dall’ambiente relativamente primitivo e dalle tradizioni intellettuali evocate da quei luoghi. “Un tema costante della letteratura dell’antica Grecia è che bisogna cercare la verità, qualunque possa essere”, dice. Nel 2005 ultimò due studi che sidavano le fondamenta della ricerca medica.

Scelse di pubblicare il primo articolo, non a caso, su PLoS Medicine, una rivista online impegnata a difondere qualunque articolo metodologicamente valido a pre-scindere da quanto siano “interessanti” i risultati. Nello studio, Ioannidis ha esposto

C’è un conlitto di interessi intellettuale che spinge i ricercatori a trovare il risultato che ha maggiori probabilità di ottenere un inanziamento

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una dettagliata dimostrazione matematica di come, ipotizzando un modesto livello di manipolazione del ricercatore, un margine di imperfezione attribuibile alle tecniche di ricerca e tenendo conto della tendenza a concentrarsi sulle teorie più avvincenti, i ricercatori arriveranno quasi sempre a ri-sultati sbagliati. Più semplicemente, se un ricercatore è attirato da idee che hanno buone probabilità di essere sbagliate ma è motivato a dimostrare che sono giuste e se in più ha un certo spazio di manovra per assemblare le prove, quasi sicuramente ri-uscirà a provare che una teoria sbagliata è giusta. Il modello di Ioannidis prevedeva, in diversi settori della ricerca medica, tassi di errore più o meno corrispondenti alle percentuali storiche di studi che nel tempo sono stati smentiti: si rivela sbagliato l’80 per cento degli studi non randomizzati (il tipo più comune), il 25 per cento dei con-trolli randomizzati teoricamente gold stan-dard e perino il 10 per cento dei controlli randomizzati platinum standard. Nell’arti-colo Ioannidis ha espresso la sua convin-

zione che i ricercatori spesso manipolano l’analisi dei dati, privilegiando i risultati che possono favorire la carriera e usando perino il processo di revisione tra pari – in cui le riviste chiedono ai ricercatori di deci-dere quali studi pubblicare – per eliminare le opinioni contrastanti. “Possiamo conte-stare alcuni dettagli dei calcoli di John, ma è diicile sostenere che le idee fondamen-tali non siano assolutamente corrette”, di-ce Dong Altman, un ricercatore dell’uni-versità di Oxford che dirige il Centre for statistics in medicine.

Eppure Ioannidis temeva che la comu-nità medica potesse minimizzare i suoi ri-sultati: è vero, molte ricerche discutibili arrivano alla pubblicazione, ma noi medici e ricercatori sappiamo ignorarle e concen-trarci sulle cose migliori, quindi perché tante storie? Il secondo articolo preveniva questa obiezione. Ioannidis aveva scelto 49 ricerche giudicate tra le più importanti degli ultimi 13 anni in base ai due criteri standard della comunità scientiica: gli stu-di erano apparsi nelle riviste più citate negli

articoli di ricerca e i 49 studi erano i più ci-tati di queste riviste. Erano gli articoli che avevano contribuito alla popolarità di trat-tamenti come la terapia sostitutiva per le donne in menopausa, la vitamina E per ri-durre il rischio di cardiopatie, gli stent co-ronarici per scongiurare gli attacchi cardia-ci, e una bassa dose giornaliera di aspirina per controllare la pressione e prevenire in-farti e ictus. Ioannidis metteva alla prova le sue tesi non su ricerche banali, di basso li-vello o più semplicemente accettate da tut-ti, ma sul vertice assoluto della piramide della ricerca. Su 49 articoli, 45 afermavano di aver scoperto interventi eicaci; 34 di queste afermazioni erano state sottoposte a una nuova veriica e 14, vale a dire il 41 per cento, si erano dimostrate sbagliate o di gran lunga esagerate. Ben più di un terzo delle più acclamate ricerche mediche si ri-velava inaidabile: la portata del problema era innegabile. Questo secondo articolo venne pubblicato nel Journal of the Ameri-can Medical Association.

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faccia con tutti i suoi ospiti, per farmi vede-re i sei monasteri situati su un’isoletta al centro di un lago poco lontano, Ioannidis mi riaccompagna al campus con la sua pic-cola jeep. Per essere un uomo che non esita a prendere a schiai la comunità medica, appare premuroso, allegro e molto cortese. È un ascoltatore attento che con i suoi lar-ghi sorrisi e le risatine che sembrano di scusa fa sembrare quasi benevoli i duri fen-denti delle sue argomentazioni. Ed è pron-to a mettere in dubbio la sua competenza e le sue motivazioni come quelle di chiunque altro. Sottile ed elegante, con i bai ben cu-rati, è un quarantacinquenne con qualcosa del nerd ardimentoso: Giancarlo Giannini con un tocco di Mr Bean.

Associazioni casuali

Con la sua umiltà e la sua cortesia Ioanni-dis riesce a far arrivare un messaggio che non è facile da digerire, e tutto sommato neppure da credere, e cioè che perino i più stimati ricercatori di istituzioni prestigiose a volte sfornano risultati sensazionali inve-ce di semplici scoperte con buone probabi-

lità di essere giuste. Ioannidis ripete che le pagine delle più illustri riviste mediche, per non parlare dei quotidiani, sono piene di dati discutibili. Pensate a tutti i risultati de-gli studi sulla nutrizione in cui i ricercatori seguono migliaia di persone per un certo numero di anni, registrando quello che mangiano, quali integratori assumono, e come cambia la loro salute nel corso dello studio. “Poi si chiedono: ‘Cosa ha fatto la vitamina E? Cosa ha fatto la vitamina C, D o A? Cosa è cambiato con l’assunzione di calorie, di proteine o di grassi? Cosa è suc-cesso ai livelli di colesterolo? Chi ha avuto un tumore, e di che tipo?’. Passano tutto al setaccio, cominciano a trovare associazio-ni e inalmente concludono che la vitamina X riduce il rischio di tumore Y, oppure che questo prodotto alimentare inluisce posi-tivamente sul rischio di una certa malat-tia”. In una stessa settimana dell’autunno scorso su Google News sono apparsi questi titoli: “Maggiori dosi di Omega-3 non aiu-tano i malati di cuore”, “Frutta e verdure diminuiscono il rischio di tumore per i fu-matori”, “La soia potrebbe aiutare le don-

ne anziane con problemi di insonnia” e decine di storie simili.

Quando uno studio condotto per cinque anni su diecimila persone rivela che chi as-sume più vitamina X ha meno probabilità di sviluppare il tumore Y, è facile credere che ci siano buone ragioni per prendere più vitamina X, e i medici automaticamente passano questa raccomandazione ai pa-zienti. Ma gli studi spesso si contraddicono l’uno con l’altro, e così abbiamo assistito a un viavai di annunci e smentite sulle quali-tà antitumorali delle vitamine A, D ed E, sui beneici di una dieta ricca di grassi e carboidrati per la salute del cuore e perino sulla possibilità che essere in sovrappeso accorci o allunghi la vita. Come dovremmo orientarci fra queste importanti scoperte? Ioannidis suggerisce un approccio sempli-cissimo: ignorarle tutte.

Tanto per cominciare, spiega, è facile che in qualunque grande raccolta di dati su fattori legati alla nutrizione e alla salute emergano associazioni che in realtà sono solo casuali, un po’ come combinare a ca-saccio lunghi elenchi di lettere e sostenere

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che c’è un messaggio importante in ogni parola che salta fuori. Ma perino se uno studio riuscisse a evidenziare un reale rap-porto tra la salute e un qualche nutriente, diicilmente avremmo dei beneici man-giandone di più. Tutti noi, infatti, consu-miamo migliaia di nutrienti che interagi-scono in una sorta di rete, e cambiare le dosi di un solo nutriente provocherebbe inevitabilmente delle ripercussioni nell’in-tera catena. Sono meccanismi troppo com-plessi perché questi studi riescano a indivi-duarli, e il cambiamento di un unico fattore potrebbe fare male invece che bene. E per di più anche se intervenendo su quell’unico fattore si ottenesse il miglioramento spera-to, ci sarebbero ancora buone probabilità che nel lungo periodo si manifestino efetti negativi, perché questi studi non seguono quasi mai il decorso di una malattia per in-teri decenni o ino alla morte. Si limitano a controllare “marcatori” della salute facil-mente misurabili, come i livelli di coleste-rolo, la pressione del sangue e la glicemia. Ma i metaesperti hanno dimostrato che i cambiamenti di questi marcatori spesso non si correlano altrettanto bene con la sa-lute a lungo termine.

Nei casi relativamente rari in cui uno studio dura abbastanza a lungo da docu-mentare la mortalità, i risultati spesso ca-povolgono quelli delle ricerche più brevi. E questi problemi prescindono dagli errori di rilevazione (per esempio, i pazienti con problemi di peso spesso non danno infor-mazioni corrette sulla loro dieta), da anali-si che spesso sono sbagliate (gli studiosi si aidano a software complessi che possono manipolare i risultati senza che gli stessi ricercatori ne siano consapevoli) e da pro-blemi meno comuni, ma molto gravi, di vera e propria frode (un fenomeno che nei sondaggi conidenziali si è rivelato molto più difuso di quanto gli studiosi siano di-sposti ad ammettere).

Inine, se uno studio riesce a evitare tut-ti questi problemi e trova una vera correla-zione con cambiamenti a lungo termine nella salute, non avete ancora la garanzia di poterne trarre giovamento, perché gli studi riferiscono risultati medi che di regola rap-presentano una vasta gamma di esiti indi-viduali. Se poi doveste rientrare nella for-tunata minoranza che può efettivamente beneiciarne, non aspettatevi alcun miglio-ramento evidente, perché gli studi di solito colgono solo efetti modesti che tendono a ridurre le vostre già modeste probabilità di soccombere a una data malattia. “Ci sono poche probabilità che da uno qualunque di questi studi venga fuori qualcosa di utile”:

con queste parole Ioannidis liquida gran parte delle ricerche mediche che solo negli Stati Uniti muovono ogni anno cento mi-liardi di dollari di investimenti.

La sentenza di Ioannidis riguarda tutte le ricerche mediche, e quelle sulla nutrizio-ne non sono le peggiori. Gli studi sui farma-ci hanno l’aggravante del conlitto di inte-ressi inanziario. I collegamenti tra geni e malattie o altri annunci che vengono co-stantemente montati dalla stampa perché sembrano promettere terapie miracolose, in passato si sono dimostrati così vulnera-bili a errori e distorsioni che secondo Ioan-nidis tanto valeva giocare a freccette pren-dendo di mira una mappa del genoma. Vioxx, Zelnorm e Baycol sono tre esempi di farmaci di largo consumo che in ampi con-trolli randomizzati erano risultati sicuri ed eicaci e poi sono stati ritirati dal mercato perché non sicuri, ineicaci o entrambe le cose.

“Spesso le tesi avanzate nelle ricerche sono così stravaganti che si possono liqui-dare senza neppure bisogno di approfondi-re i problemi speciici di quegli studi”, con-tinua Ioannidis. Ma naturalmente è proprio l’originalità delle tesi che contri-buisce a far pubblicare i risultati nelle riviste e poi a farli entrare nelle terapie e nel nostro stile di vita, soprattutto quando queste idee si basano su evidenze che sembrano straordinarie. “Se migliaia di scienziati hanno investito la loro carriera in una certa ricerca, continuano a pubblicare articoli anche quando i dati dimostrano che l’idea di base è sbagliata”, insiste. “È come un’epidemia: sono contagiati da queste idee sbagliate e le difondono ad altri ricer-catori attraverso le riviste”.

Anche se gli scienziati e i giornalisti scientiici continuano a ribadire l’impor-tanza del processo di revisione tra pari, i ricercatori ammettono che gli studi viziati da errori di prospettiva, sbagliati e perino fraudolenti s’insinuano nelle pagine dei giornali con estrema facilità. Nature, la

grande signora delle riviste scientiiche, in un editoriale del 2006 affermava: “Gli scienziati sanno che di per sé la revisione tra pari fornisce solo una minima garanzia di qualità, e il concetto che ne ha l’opinione pubblica è ben lontano dal vero”. Peggio ancora: il processo di revisione tra pari spesso allontana gli studiosi dalla ricerca di strade nuove e li spinge a lavorare sui risul-tati dei colleghi (vale a dire i loro potenziali revisori) per raggiungere quelli che sembra-

no importanti passi avanti: è il caso della tanto acclamata associazione tra geni (identiicato il gene dell’autismo!) e delle scoperte nutrizionali (l’olio di oliva abbas-sa la pressione del sangue!), che in realtà sono varianti ipotetiche e contraddittorie dello stesso tema.

Errori decennali

La maggior parte dei redattori scientiici non cerca neppure di difendersi dai proble-mi che aliggono questi studi. Gli organi-smi pubblici o universitari che si occupano di ricerca intervengono di rado per imporre criteri di qualità e, quando lo fanno, la co-munità scientiica s’infuria e respinge le

interferenze esterne. La migliore difesa da errori e preconcetti do-vrebbe arrivare dai controlli in-crociati degli studiosi che sotto-pongono a nuove veriiche le loro conclusioni: ma non succede

mai. Di solito solo i risultati di maggiore rilievo vengono sottoposti a nuovi test, per-ché confermare certe prove o contraddirle può essere garanzia di pubblicazione.

Ma perino negli studi più inluenti, a volte le evidenze rimangono incredibil-mente limitate. Dei 45 studi supercitati presi in esame da Ioannidis, undici non erano mai stati testati una seconda volta. C’è di più: Ioannidis ha accertato che un errore di regola persiste per anni, se non per decenni, perino quando viene indivi-duato. Esaminando tre importanti studi degli anni ottanta e novanta che in seguito sono stati smentiti, ha scoperto che i ricer-catori continuavano a citare i risultati origi-nali come se fossero corretti: in un caso addirittura per dodici anni.

I medici potrebbero accorgersi che i pa-zienti non reagiscono a certe terapie come la letteratura li aveva indotti a sperare, ma il settore è condizionato a subordinare l’evidenza aneddotica ai risultati degli stu-di. Eppure gran parte di quel che fanno i medici, anzi quasi tutto, non è mai stato veriicato in studi credibili, visto che questa necessità è diventata evidente solo negli anni novanta. Ora il settore deve cercare di

È come un’epidemia: gli scienziati sono contagiati da queste idee sbagliate e le difondono ad altri ricercatori attraverso le riviste

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Scienza

recuperare più di un secolo di medicina non basata su prove.

La ricerca medica non è l’unica a essere alitta da errori. Problemi simili distorco-no la ricerca in tutti i settori scientiici, dal-la isica all’economia. E, inutile dirlo, la si-tuazione peggiora ulteriormente con la miriade di saggi popolari che ci vengono propinati da guru e presunti esperti di die-te, rapporti umani, investimenti e vita fa-miliare.

Ma noi ci aspettiamo di più dagli scien-ziati, e soprattutto dalla scienza medica, perché siamo convinti che la nostra vita di-penda dalle loro scoperte. L’opinione pub-blica raramente è consapevole di quanto sia azzardata questa scommessa. La stessa comunità medica avrebbe continuato a sottovalutare la gravità del problema, se Ioannidis non l’avesse costretta ad afron-tarlo con gli studi che ha pubblicato nel 2005. Molti ricercatori oggi vogliono lavo-rare con lui: ha pubblicato articoli con 1.328 coautori diversi di 538 istituti e 43 paesi.

Ioannidis si rende conto che è un para-dosso aver ottenuto tanto successo accu-sando la comunità scientifica di dare la caccia al successo, e osserva che bisogne-rebbe veriicare se lui stesso non stia gon-iando i suoi risultati. “Se conducessi uno studio e le conclusioni dimostrassero che in efetti una ricerca era impeccabile, sarei disposto a pubblicarlo? Andrei davvero in crisi”. Ma la sua maggiore preoccupazione è un’altra: anche se i suoi colleghi ricerca-tori sembrano aver ricevuto il messaggio, spiega, nessuno si sente costretto a fare un lavoro migliore. “Forse quello che dico non incontra resistenze,” spiega, “ma è diicile cambiare il modo in cui medici, pazienti e persone sane pensano e si comportano quotidianamente”.

Basso rendimento

Anche se il campus della scuola di medici-na dell’università di Ioannina è decisamen-te caotico, l’ospedale a cui fa capo ha un aspetto solido e rassicurante. Athina Tat-sioni si ofre di farmi visitare la struttura, ma riusciamo a malapena a raggiungere l’entrata che una donna anziana dall’aria preoccupata la blocca per chiederle qual-cosa. Tatsioni, normalmente piuttosto ri-servata, è afettuosa e vivace con la signora, e le parla per qualche minuto prima di ab-bracciarla e salutarla. Mi spiega che la si-gnora e suo marito anni fa sono stati suoi pazienti. Ora il marito è ricoverato in ospe-dale con forti dolori all’addome, e lei ha promesso di passare a salutarlo più tardi. Ricordando la storia dell’appendicite, la

punzecchio un po’, e lei mi confessa di vo-lerlo visitare di persona. Ma deve essere cauta, per non dare l’impressione di voler controllare gli altri medici.

Il suo timore non è che al paziente ven-ga asportata un’appendice sana. Piuttosto vuole evitare che, come avviene in molti casi, gli prescrivano farmaci inutili e che potrebbero perino fargli male. “Di regola i medici chiedono una serie di test biochimi-ci: grasso epatico, funzionalità pancreatica e così via”, spiega. “I test potrebbero far emergere qualcosa, ma probabilmente so-no irrilevanti. Si capisce molto meglio cosa c’è che non va facendo una bella chiacchie-rata con il paziente e procedendo a un’anamnesi accurata”.

Ovviamente tutti i medici hanno stu-diato che bisogna prescrivere certi test, ed è sicuramente molto più sbrigativo di un lungo colloquio accanto al letto del pazien-te. Hanno anche studiato che bisogna som-ministrare al malato qualunque farmaco possa contribuire a rimettere in linea i valori sballati. Ma nessuno gli ha insegnato a esaminare gli studi che supportano l’uso di questi farmaci come terapia standard. “Quando rileggi gli ar-ticoli, spesso scopri che i farmaci non han-no funzionato meglio di un placebo. E nes-suno ha studiato come interagivano con altri farmaci. A volte basta togliere a un pa-ziente tutte le medicine per farlo stare subi-to meglio”, dice Tatsioni. Ma controllare le ricerche richiede tempo, spiega, e gli stessi pazienti spesso non vogliono rinunciare ai farmaci perché trovano rassicuranti le loro ricette.

Più tardi Ioannidis mi dice che consi-dera essenziale avere diversi clinici nel suo gruppo. “Ricercatori e medici spesso parla-no lingue diverse e non si capiscono”, dice. Visto che alcuni dei suoi ricercatori passa-no più della metà del loro tempo a visitare i pazienti, spera che la sua squadra sarà in grado di colmare le distanze. I clinici con-tribuiscono al lavoro del gruppo con cono-

scenze dirette e permettono di dare agli articoli un impianto capace di convincere i medici. Secondo lui non è necessario che i medici prendano tutte le decisioni basan-dosi esclusivamente su prove certe – il trat-tamento dei pazienti è troppo complesso perché si possa deinire ogni singolo caso con uno studio dettagliato. “I medici devo-no aidarsi all’istinto e alla loro capacità di giudizio. Ma le loro scelte dovrebbero esse-re il più possibile informate e sufragate da prove. E se le prove non sono attendibili, i dottori dovrebbero saperlo. E anche i pa-zienti”.

In realtà, l’opportunità o meno di divul-gare i dati sulle ricerche mediche rimane una questione spinosa per la comunità dei “metaricercatori”. I medici hanno già l’im-pressione di dover faticare parecchio per impedire ai pazienti di rivolgersi a terapie alternative come l’omeopatia, o di farsi au-todiagnosi sbagliate consultando internet, o più semplicemente di trascurare i tratta-

menti necessari, quindi non han-no nessuna voglia di fornire altre ragioni per non fidarsi dei loro consigli. E poi la disillusione del pubblico potrebbe inluire sui i-nanziamenti alla ricerca. A Ioan-

nidis non importano queste preoccupazio-ni. “Se non informiamo il pubblico di questi problemi, allora non siamo meglio dei falsi scienziati che sostengono di poter guarire le persone”, dice. “Se i farmaci non funzio-nano e non sappiamo bene come curare una malattia, perché dovremmo dire un’al-tra cosa? Alcuni temono che senza la pro-messa di terapie miracolose i inanziamen-ti possano diminuire. Ma se efettivamente non siamo in grado di fare miracoli, per quanto tempo riusciremo a ingannare l’opinione pubblica? La scienza è probabil-mente la più grande conquista della storia umana, ma questo non signiica che pos-siamo arrogarci il diritto di ingigantire i nostri risultati”.

Se il mondo smettesse di aspettarsi che gli scienziati abbiano sempre ragione, avremmo risolto una buona parte del pro-blema degli errori, dice Ioannidis. Perché nella scienza avere torto è positivo, perino necessario – purché gli scienziati lo ricono-scano, purché ammettano apertamente il loro errore invece di mascherarlo. Ma in-ché le carriere resteranno condizionate dalla produzione di un iume di ricerche abbellite in modo da sembrare più giuste di quanto non siano, gli scienziati continue-ranno a produrle. “La scienza è un’impresa nobile, ma a basso rendimento”, conclude Ioannidis. u gc

Se il mondo smettesse di aspettarsi che gli scienziati abbiano sempre ragione, avremmo risolto una buona parte del problema degli errori

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Reportage

La speranzadel SudanIl referendum del 9 gennaio potrebbe sancire l’indipendenza del sud del paese, mettendoine a un conlitto che dura da decenni. Le fotodi Stefano De Luigi per Internazionale

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Portfolio

A pagina 58-59: una marcia per l’indipendenza ad Ayod, nel Sud Sudan. Qui sopra, dall’alto: un pastore vicino a Rumbek; alcune donne afette da leishmaniosi nel centro medico di Ayod. Qui accanto: una manifestazione a favore dell’indipendenza a Juba, la capitale del Sud Sudan.

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Sopra: scolari a Juba. In basso, al centro: la moschea di Juba. Qui accanto: una giovane di etnia nuer nello stato di Jonglei. Le sue cicatrici sono dovute a un rito di passaggio all’età adulta.

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Sopra: un ragazzo in posa per un ritratto nel mercato di Rumbek. Qui accanto: una discarica a Juba (l’ong italiana Cesvi sta lavorando a un progetto per la sicurezza ambientale nella zona). In basso, al centro: la registrazione degli elettori a Juba.

Portfolio

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Il 9 gennaio si svolgerà il referendum per l’autodeterminazione del Sud Sudan. La vittoria dei secessionisti, considerata molto probabile, porterebbe all’indi-pendenza della regione nel luglio del 2011. Si avvia così a conclusione il con-

litto decennale tra il nord musulmano e il sud cristiano e animista. Circa due milioni di persone sono morte nella guerra civile che ha insanguina-to il paese tra il 1983 e il 2005.

Il segretario generale della Lega araba Amr Moussa si è detto certo del regolare svolgimento del referendum, escludendo una ripresa del con-litto. Il presidente sudanese Omar al Bashir si è impegnato a rispettare il risultato del voto e, in caso di secessione, ad aiutare il sud a costruire uno stato stabile. Il presidente del Sud Sudan Sal-va Kiir ha accolto con favore le parole di Al Bashir. Per garantire una transizione paciica, il suo par-tito, il Movimento popolare di liberazione del Su-dan, ha avviato i negoziati con il governo su quat-

tro punti chiave: cittadinanza, sicurezza, sviluppo economico e rispetto degli accordi internazionali. Resta però il disaccordo sul tracciato inale della frontiera tra nord e sud, che potrebbe essere deci-so da un arbitrato internazionale. Inoltre, dopo il voto potrebbero scoppiare violenze tra gruppi ri-vali. Migliaia di sudanesi originari del Sud Sudan hanno lasciato Khartoum per evitare rischi.

L’economia del Sud Sudan dipende in buona parte dal petrolio. Nella regione, dove operano molte compagnie straniere, si estrae l’85 per cen-to del greggio del paese. Le entrate petrolifere costituiscono il 98 per cento del bilancio del go-verno autonomo. La maggioranza della popola-zione vive però in povertà. Le condizioni igieni-che e sanitarie sono pessime e il tasso di mortalità infantile è tra i più alti del mondo. u

Stefano De Luigi è nato a Colonia nel 1964. Le foto sono state scattate in Sud Sudan tra l’ottobre e il novembre del 2010 (foto VII Network).

Sopra: una marcia per l’indipendenza a Juba. Qui accanto: le armi usate durante un’esercitazione congiunta delle Nazioni Unite e del Movimento popolare di liberazione del Sudan (Splm) a Tarakeke.

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Da piccolo Hans-Roland Richter si sentiva spes-so in imbarazzo. Lo chiamavano Gummi-

Mann, l’uomo di gom-ma. Eppure, non aveva

la minima idea di cosa producesse suo pa-dre nell’oicina sul retro. “Papà fabbrica palloncini”, aveva imparato a dire. A casa con quei “palloncini” ci giocavano, gon-iandoli e colorandoli. Hans-Roland si di-vertiva molto con questi ariosi compagni di giochi, che lui chiamava sempre Lothar. Oggi, mezzo secolo dopo, non sa spiegare perché. Forse era il nome di un suo compa-gno di classe. Ma a un certo punto la verità è venuta a galla e Hans-Roland Richter, or-mai adolescente, ha scoperto che il suo amico Lothar era fatto di lattice e serviva a prevenire gravidanze e malattie. Allora si è vergognato davvero: alla ine degli anni cin-quanta i proilattici non erano difusi come oggi. Non si trovavano dal droghiere né nei supermercati. Nel 1959, quando Hans-Ro-land Richter aveva 11 anni, il ministro della famiglia, il cristianodemocratico Franz-Jo-sef Wuermeling, vietò l’installazione di di-stributori automatici di preservativi nei luoghi pubblici. Da quel momento la vendi-ta di proilattici venne relegata agli angoli più nascosti delle birrerie.

Hans-Roland Richter era di sinistra, così ha studiato il russo, poi ha frequentato la

facoltà di economia aziendale a Münster.Hans Richter, suo padre, era entrato nel set-tore dei preservativi subito dopo la guerra. “A quei tempi si commerciava di tutto”, rac-conta Hans-Roland. “Non saprei dire come mio padre abbia cominciato a produrre pro-ilattici”. Aveva iutato l’opportunità e ave-va aperto una ditta di vendita di preservati-vi per corrispondenza. Così nel 1948, l’anno di nascita di Hans-Roland Richter, fu fon-data anche la Ritex di Bielefeld.

Oggi, a 62 anni di distanza, l’uomo di gomma è seduto in una delle sale conferen-ze dell’azienda che dirige dal 1982. Indossa una camicia con le iniziali ricamate sul ta-schino. Robusto e gioviale, Richter è alto un metro e novantacinque e ha i capelli bian-chi. Ma quando racconta della sua gioventù diventa piccolo piccolo: afonda nella sedia come se volesse ancora schivare le prese in giro dei compagni. Di fronte a lui è seduto suo iglio Robert, che dal 2007 è condiretto-re della ditta. Ha trent’anni ed è identico al

padre. Non è mai stato preso in giro dai suoi compagni; al contrario, alle feste aveva sempre un argomento interessante di cui parlare: i preservativi. Tra l’infanzia del pa-dre e quella del iglio sono passati trent’an-ni: in mezzo la rivoluzione sessuale, gli arti-coli dei sessuologi sui giornali per adole-scenti, la pillola, la difusione del virus hiv e l’avanzata del proilattico, che dagli angoli più nascosti del paese si è fatto strada ino ad arrivare alle casse dei supermercati.

Richter è un intrattenitore nato. Quando scopre che provengo dalla Renania, comin-cia a parlare nel dialetto di Colonia, per poi cimentarsi nella parlata del Saarland, che ha imparato durante i cinque anni di studi universitari a Saarbrücken. Dice di cavarse-la bene anche con le lingue straniere. Poi recita una poesia russa studiata al liceo.

Padri contro igliNel 1966, all’inizio del periodo delle lotte extraparlamentari in Germania, anche Richter è un militante di sinistra. “Chi non è stato di sinistra nei suoi primi trent’anni non può diventare un adulto rispettabile”, dice l’imprenditore. “A quell’epoca voleva-mo semplicemente vivere fuori dagli sche-mi”. Nel 1967, dopo aver ottenuto la matu-rità, Hans-Roland, paciista convinto, viene chiamato per il servizio militare. È ricono-sciuto obiettore di coscienza solo nelle ulti-me settimane di leva.

Sono tempi duri anche per la Ritex. “In quegli anni l’azienda di mio padre si ridi-mensionò notevolmente. Con l’avvento della pillola, il proilattico perse mercato”. A quel punto Richter decide di intraprende-re la carriera commerciale iscrivendosi alla facoltà di economia aziendale. Due anni dopo torna a Bielefeld, per lavorare alla Dr.

Hans-RolandRichterL’uomo di gomma

Guida una delle più grandi aziende di preservativi d’Europa. La sua storia racconta com’è cambiata la Germania nel dopoguerra

Tobias Romberg, Die Zeit, Germania. Foto di Frank Schinski

◆ 1948 Nasce a Bielefeld, nel nordovest della Germania.◆ 1966 Come militante di sinistra, partecipa ai movimenti di contestazione. L’anno successivo, dopo aver ottenuto la maturità, viene richiamato per il servizio militare. ◆ 1978 Prende il controllo dell’azienda di preservativi Ritex, dopo che il padre è stato colpito da un infarto. ◆ 1980 Lascia l’impresa a causa dei conlitti con il padre.◆ 1982 Torna nella ditta e ne assume il controllo stabilmente. ◆ 2007 Suo iglio Robert diventa condirettore della Ritex.

Biograia

Ritratti

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Oetker, dove diventa assistente del diretto-re generale. Nell’autunno del 1978 suo pa-dre viene colpito da un infarto, e Hans-Ro-land decide di mettersi alla guida della ditta di famiglia. Ma quando il genitore rientra in azienda, Hans-Roland non vuole farsi da parte. “Ci scontravamo per qualsiasi scioc-chezza, dall’illuminazione esterna al logo”.Il giovane imprenditore tiene duro per due anni, poi abbandona la Ritex e si trasferisce in Assia, per lavorare come direttore del marketing per la Milupa. In quello stesso anno si sposa per la seconda volta e diventa padre del suo primo iglio. Ma con le condi-zioni di salute del padre che continuano a peggiorare, Hans-Roland si trova di fronte a una scelta: vendere l’azienda o salvaguar-dare la tradizione familiare. Non ci mette molto per decidere di riprendere in mano l’attività. Dopo la lunga convalescenza, suo padre torna a lavorare; ma a questo punto i ruoli sono chiari: Hans-Roland sarà il diret-tore, mentre Hans lavorerà part time.

Stavolta l’alternanza generazionale fun-ziona, anche perché la Ritex viene aiutata dalla difusione di una nuova sindrome da immunodeicienza acquisita: l’aids. La pil-lola protegge dalle gravidanze indesiderate ma non dal virus hiv. “Di colpo i preservati-vi sono tornati all’ordine del giorno. Il mer-

cato ha reagito e noi siamo initi sugli scaf-fali dei negozi”, racconta Richter. A quel punto l’imprenditore decide di investire, e nel 1995 costruisce una nuova fabbrica a Bielefeld. Da alcuni anni il mercato tedesco dei proilattici è saturo: le vendite ristagna-no intorno ai 200 milioni di prodotti vendu-ti all’anno. Nella classiica dei primi tre pro-duttori, la Ritex (23 per cento) precede di poco la Durex (21 per cento), ma è superata dalla Mapa, un’ailiata del gruppo petroli-fero francese Total.

Taglia grossaIn Germania il mercato dei preservativi è cresciuto solo grazie all’aumento delle ta-glie. Quando tocchiamo l’argomento, Hans-Roland Richter si agita. “La taglia non c’entra niente”, dice. “È una sciocchez-za”. Sostiene che il proilattico medio può essere allargato tanto da andare bene per qualunque misura. Ma allora perché esisto-no i preservativi extralarge? “È solo un pro-blema mentale. Serve agli uomini che vo-gliono dimostrare di essere particolarmen-te dotati ”. Il problema è che questo atteg-giamento, oltre a essere stupido, è anche pericoloso. Se un proilattico è troppo gran-de, non garantisce più la tenuta necessaria. Nonostante questo, anche nell’assortimen-

to della Ritex igurano le taglie extralarge: la necessità di trovare nuovi acquirenti ha avuto la meglio sulla ragionevolezza.

Il preservativo Safety, con cui la Ritex voleva conquistare il settore dei gay, è stato un lop. Si trattava di proilattici con uno spessore maggiore e inumiditi all’interno, da spalmare di gel lubriicante all’esterno prima della penetrazione. Questo sistema mirava a risolvere il problema della frizione interna ed esterna e teneva conto delle ca-ratteristiche isiche e isionomiche dei rap-porti anali. “Le vendite sono state minime”, spiega Hans-Roland Richter. “Ma la nostra immagine ne è uscita vincente”, ribatte il iglio. Il preservativo Safety è stato una sua idea, e a quanto pare non deve essere stato facile per lui convincere il padre. Come con il gel lubriicante, che ormai copre quasi il 15 per cento del fatturato della Ritex. “Io ero assolutamente contrario: chi ha il coraggio di comprare un gel lubriicante alla cassa di una profumeria?”, dice Richter. Ma alla ine i suoi collaboratori del reparto vendite e del marketing lo hanno persuaso. “La Ritex ha una forte immagine medica. Ed è su questa che abbiamo puntato con il gel lubriicante, che ha anche un efetto curativo”, spiega il dirigente. E mentre parla, sembra il bandi-tore di una televendita. u fp

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Viaggi

aborigeni locali hanno onorato queste altu-re sperdute investendole di signiicati ma-gici e religiosi. Ma prima che negli anni ot-tanta arrivassero le jeep e i moderni cam-peggiatori, i Bungle Bungles erano troppo isolati per quasi tutti i turisti.

Dal resort di Broome ancora oggi ci vo-gliono un paio di giorni e vari chilometri di strade polverose e accidentate per rag-giungere i rilievi di arenaria della catena, meta della nostra spedizione. Quasi tutti i turisti che visitano il Kimberley scelgono di visitare luoghi più accessibili, come Windjana, Tunnel creek e Geikie, tre spet-tacolari gole ai lati della catena del Napier, che fa parte di un’imponente barriera cal-carea che risale a 350 milioni di anni fa. Lungo la strada esploriamo un tratto meno noto della barriera, il gruppo di grotte del Mimbi, in compagnia della guida del po-sto, Ronnie Jimbidie. È una splendida in-troduzione alla vita tradizionale australia-na, tra antiche sale parto, pitture rosso ocra sulle rocce e gallerie calcaree piene di fos-sili. Di tanto in tanto ascoltiamo i commen-ti salaci e le canzoni di Jimbidie, oltre al suo squisito damper, il pane tradizionale au-straliano cotto alla brace.

Gole profondePer la notte ci fermiamo nell’accogliente Kimberley hotel ad Hall’s Creek, una ex cit-tà di cercatori d’oro che conserva ancora oggi una vivace atmosfera di frontiera. Il mattino seguente veniamo sballottati lun-go una strada polverosa che passa attraver-so i monti Osmand, delle rocce che somi-gliano a onde nere. “Più o meno cinquecen-to milioni di anni fa, due placche tettoniche si sono scontrate in questo punto. C’era un altopiano immenso, alto come l’Himalaya”, mi spiega Robertson. “Queste colline sono quello che ne rimane. Un imponente depo-sito di sedimenti sabbiosi è avanzato pro-gressivamente verso sud, andando a erode-re i Bungle Bungles. Gli indigeni li chiama-no Purnululu”.

Il primo scorcio dei Bungle Bungles che vedo è una parete rosso cremisi alta 300 metri, che al suo interno ha varie grotte e aguzze cuspidi di arenaria. Lungo le pianu-re ricoperte di sterpi del Purnululu national park la vista è già magniica, ma solo quan-do metto il collo fuori del portellone dell’eli-cottero che sorvola i Bungle Bungles riesco ad abbracciare con lo sguardo la forma e la potenza straordinaria di questo altopiano eroso dal tempo. La sensazione è quella di una inebriante cavalcata al rodeo, che ci porta oltre l’ampio dorso della catena la-sciandoci ammirare dall’alto le fessure bluastre delle profonde gole sottostanti.

Costeggiamo in volo il versante meri-

Forse quel toro Brahman vo-leva morire. Chiunque ab-bia a cuore la propria salute non attraversa la Great nor-thern highway, nell’Austra-lia occidentale, tagliando la

strada a un autotreno in corsa. Il clacson grida tre volte come una bestia ferita, e un istante dopo 130 tonnellate di acciaio sfrec-ciano a ianco della nostra jeep. Il toro viene travolto. Guardo nello specchietto prepa-randomi al peggio, ma incredibilmente l’animale si rialza in piedi e comincia a cam-minare, zoppicando dietro l’autotreno che sparisce all’orizzonte.

“Bestia tosta”, commenta Jason Ro-bertson, il mio amico e autista, ma anche guida e filosofo in questa spedizione nell’entroterra della regione del Kimber-ley, 25omila chilometri quadrati. Ro-bertson è l’impassibilità in persona. Quan-do guado i iumi, mi arrampico sulle rocce, scivolo tra i crepacci o dormo sotto le stelle Jason è sempre al mio ianco senza lamen-tarsi. Inoltre, mi racconta storie molto in-teressanti ed è bravissimo a cucinare piatti aborigeni, che serve su una tovaglia ben stirata.

Fino a poco tempo fa la catena dei Bun-gle Bungles, gioiello della regione del Kim-berley, era conosciuta solo dai visitatori più intraprendenti. Sono monti molto spetta-colari e seducenti: striati con vistose sfuma-ture rosse e nere, squarciati dalle gole e scolpiti dall’erosione, che ha creato miglia-ia di cupole una accanto all’altra.

Ovviamente gli aerei avevano già sorvo-lato i Bungle Bungles ed erano già cono-sciuti anche dai cercatori d’oro. Per anni gli

Le montagnecolorateChristopher Somerville, Financial Times, Gran Bretagna

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Australia. Il Purnululu national park e i monti Bungle Bungles

Tra le vette della catena montuosa dei Bungle Bungles, in Australia occidentale. Rocce nere con striature arancioni modellate dal vento

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◆ Arrivare Il prezzo di un volo dall’Italia (Emirates, Quantas, British Airways) per Perth parte da 1.054 euro a/r. L’aeroporto più vicino alla catena montuosa dei Bungle Bungles è a Broome. La città è collegata a Perth con tre voli giornalieri della Quantas.◆ Clima Il periodo migliore per visitare la regione del Kimberley va da maggio a settembre, durante la stagione secca. In quella delle piogge il Purnululu national park può essere visitato solo sorvolando la zona in aereo perché molte strade sono chiuse.

◆ Dormire Al Kimberley hotel di Hall’s Creek (kimberleyhotel.com.au) una doppia parte da 140 euro a notte. Per la lista dei camping nel parco nazionale: intern.az/hCe8el.

◆ Escursioni La Kimberley wild expedition (0061 8 9193 7778, kimberleywild.com.au)organizza escursioni di cinque giorni ai Bungle Bungles. Il costo è di 940 euro a persona, compreso vitto e alloggio.◆ Leggere Bill Bryson, In un paese bruciato dal sole. L’Australia, Tea 2007, 8,60 euro.◆ La prossima settimana Viaggio in Armenia. Ci siete stati e avete suggerimenti su tarife, posti dove mangiare o dormire, libri? Scrivete a [email protected].

Informazioni pratiche

AUSTRAL I A

200 km

OceanoIndiano

Broome

Kimberley

Bungle Bungles

Halls Creek

dionale, dove a duecento metri di altezza l’erosione dell’arenaria ha creato migliaia di cupole dalla forma di alveari ammassati uno sull’altro come un gigantesco apiario striato di rosso e nero. Questa sfumatura caratteristica è solo in supericie: l’arenaria dei Bungle Bungles è di un color crema, si-mile alla pietra di Cotswold. I depositi di ossido di ferro formano delle macchie rug-ginose color arancio bruciato sulla superi-cie a vista delle cupole, mentre le striature antracite sono dovute ai cianobatteri, un’antica e tenace forma di alghe. Il tutto contribuisce a creare uno dei paesaggi più afascinanti che abbia mai visto.

I campeggi di lusso sono molto in voga ultimamente, anche nell’entroterra austra-liano. E da questo punto di vista il Bungle Bungles wilderness lodge si avvicina molto

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Viaggi

a un albergo a cinque stelle. Da quando è stato inaugurato, nel 2005, ha attirato molti turisti. Di fronte alla prospettiva di una not­te torrida sotto una tenda montata a mano, sono tanti quelli che preferiscono un bagno con scarico e doccia calda, un pasto cucina­to da uno chef e un bel sonno al riparo dalle zanzare tra fruscianti lenzuola di lino.

Ci accoglie una ragazza con un bellissi­mo sorriso. Mi mostra la mia “tenda” prin­cipesca e mi procura una birra fredda prima di servire un delizioso ragù d’agnello innaf­iato da una piacevole bottiglia di Greedy Sheep.

In questa parte del mondo il sole è il ne­mico principale, e gli escursionisti esperti si alzano alle prime luci dell’alba. Una coppia di gruccioni color arcobaleno tuba su un ra­mo di acacia mentre ci mettiamo in cammi­no lungo Piccaninny creek, al conine estre­mo della catena. Il letto del torrente sembra gomma da masticare fossilizzata: pietre aguzze e buche scavate dalle violente inon­dazioni che colpiscono i Bungle Bungles nella stagione umida. Il terreno è scivoloso, soprattutto con lo zaino in spalla, ma è dii­cile stare attenti a dove si mettono i piedi con un panorama così incredibile: da una parte e dall’altra le cupole striate, con le fac­ciate segnate dalle crepe; in alto le “cimi­niere” di fango dei termitai che si aggrappa­no in maniera improbabile alle sporgenze rocciose sotto un cielo che già cambia dall’azzurro dell’alba al calor bianco di me­tà mattina.

Il sole picchia. “Bevi tanta acqua. Cerca di metterne in corpo dai sei agli otto litri”, è il consiglio di Robertson. Con tutto quello che sto sudando non è diicile. “Passilora”,

dice la mia guida, indicando un tralcio di foglie. Ne apriamo i frutti verdi rivelando dei gusci gialli lucidi e pieni di semi gelati­nosi. Il sapore è strano, dolciastro. “È molto buona e ha un altissimo contenuto lassati­vo”, conclude, prendendomi in giro, men­tre mando giù l’ultimo boccone. È buon profeta.

Il sentiero procede tra mille curve ai pie­di della parete del monte ino a The elbow (il gomito), il punto dove gli escursionisti che fanno una gita di un solo giorno torna­

no indietro. Qui la gola Piccaninny forma un angolo acuto e scava direttamente nel corpo dell’altopiano. Tiriamo il iato per un attimo e poi attraversiamo i pendii passan­do continuamente dal nero della roccia al bianco accecante del cielo che entra nelle fessure della montagna.

Il cammino si fa più duro, tra ciottoli e sabbia alta. Arriviamo inalmente all’im­bocco della prima delle cinque gole laterali, che si diramano dal crepaccio principale come dita dal palmo di una mano. Arrivato a destinazione mi siedo sulla roccia ad am­mirare il panorama.

Il bagliore della lunaNel tardo pomeriggio andiamo a esplorare in profondità una delle cinque gole laterali, arrampicandoci su massi scivolosi, che strozzano il crepaccio, e oltrepassando le strettoie allagate in mezzo a pareti fredde e scure. Mentre mi addentro nel cuore della catena, a quasi trecento metri di profondi­tà, avverto tutta la mia futilità. È una sensa­zione sana che le montagne, di qualsiasi forma e colore, provocano in tutti gli escur­sionisti.

Quella stessa notte, a Piccaninny gorge, riempita la borraccia in una pozza vicina e con un piatto di pasta e una tazza di tè sullo stomaco, mi stendo nel mio sacco a pelo sul letto di sabbia del torrente. Sotto uno squar­cio di cielo stellato ascolto, prima di addor­mentarmi, il canto rauco di un gufo. Mi sveglio nel cuore della notte e vedo il ba­gliore della luna che iltra da una fessura sulla parete soprastante. Concentrata in un fascio luminoso, la luce attraversa la gola come un rilettore, trasformando le spor­genze di arenaria in una scalinata d’argento che si arrampica nel cielo notturno. u fas

La sensazione è simile a quella di una inebriante cavalcata al rodeo

Camera con vista. Gli amministratori della reggia di Versailles hanno deciso di aittare un palazzo adiacente a quello di Luigi XIV per trasformarlo in un albergo di lusso. Le 23 camere dell’Hôtel du Grand Contrôle, con vista sull’Orangerie, il giardino d’inverno della reggia, apriranno verso la ine del 2011. Il palazzo è stato a lungo la sede dei tesorieri di Luigi XIV. I prezzi delle stanze oscilleranno tra i 600 e gli 800 euro a notte. Per non perdere l’aereo. Gli aeroporti di Chicago (O’Hare) e New York (John F. Kennedy) hanno da poco adottato delle nuove procedure per aiutare i passeggeri in arrivo nelle due città con un volo interno a non perdere le coincidenze con i voli internazionali. Quando il volo interno atterra, il personale scorta i passeggeri così da velocizzare le procedure doganali e d’imbarco.

In giro per il mondo

A tavola

u I migliori ristoranti australiani sono tutti a Melbourne e a Syd­ney, negli stati di New South Wa­les e Victoria: cucina europea, suggestioni asiatiche e attenzio­ne alla riscoperta dei cibi del bush. Ma anche in Australia occi­dentale, dove si trova la catena del Purnululu, l’oferta gastrono­mica ed enologica è molto inte­ressante. Secondo The Austra-lian, per esempio, uno dei mi­gliori wine bar del paese è il Must, a Perth: vini rari e a prezzi da saldo oltre ai classici della cu­cina francese, dal parfait di fega­to d’oca con tartui locali e gelati­na di vino bianco al conit d’ana­tra con lenticchie, carcioi e salsa al Madeira. Un altro indirizzo da non perdere è il ristorante della cantina Cullen Wines, a Cowara­mup, che dedica un’attenzione maniacale alla selezione della materie prime. Come fa anche – scrive The West Australian – il ristorante 1907, a Perth, che usa solo verdure e carni prodotte nel­la fattoria di sua proprietà.

Per assaggiare le ostriche e le capesante locali, oltre al risotto con il barramundi, un pesce d’ac­qua salmastra comune in tutto il sudest asiatico, Perth Now con­siglia The Byrneleigh, a Ned­lands, mentre secondo il New York Times uno dei migliori lo­cali della regione è Star Anise, a Perth. Guidato dal cuoco David Coomer, ofre un perfetto esem­pio di cucina australiana contem­poranea: un mix di inluenze francesi, spagnole, italiane e asiatiche ben rappresentato dall’anatra aromatica croccante e dalle uova cotte lentamente con purè di piselli e jamón iberico. Per una cena più informale e per il miglior pesce dalla zona, il Guardian consiglia Kailis, a Fre­mantle: ish and chips ma anche capesante e scampi.

Tra l’Asiae l’Europa

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Graphic journalism Cartoline da New York

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Kikuo Johnson è un autore di fumetti nato nel 1981 sull’isola di Maui. Vive a New York.

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Cultura

Cinema

Dieci ilm nelle sale italiane giudicati dai critici di tutto il mondo

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Italieni I ilm italiani visti da un corrispondente straniero. Questa settimana lee marshall, collaboratore di Condé Nast Traveller e Screen International.

LA BELLEZZA DEL SOMARO

Di Sergio Castellitto. Italia 2010, 107’

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Qual è l’ultimo tabù del genitore moderno e liberale? La iglia diciassettenne che porta a casa un amante di colore? No. Che si scopre lesbica? Nemmeno. Che decide di avere una relazione con un uomo di quasi settant’anni? Ecco, questo sì. Per una commedia generazionale è una buona premessa. Ma qui la cosa che conta non è il rapporto (tra l’altro appena abbozzato e non molto credibile) tra l’anziano e la sua idanzata minorenne, quanto i limiti della tolleranza dei due genitori radical chic, lui architetto e lei psicologa, ostaggi di una iglia viziata. La coppia Morante e Castellitto (con un look a metà strada tra Elvis Costello e Franco Battiato) funziona. Peccato che il ilm si perda tra i piccoli problemi dei personaggi minori, che sembrano usciti da un ilm di Pieraccioni. Alcune battute fanno ridere, e la location in Val d’Orcia è azzeccata: l’autenticità contadina vista dalla borghesia urbana trendy. Ma lo smarrimento esistenziale di questa “sandwich generation” è trattato in chiave troppo buonista. E della commedia italiana pungente, critica e dolceamara dei tempi d’oro rimane solo la suoneria del telefonino di Marcello (Castellitto), che ricorda il clacson del Sorpasso.

il regista iraniano Jafar Pa-nahi è stato condannato a sei anni di carcere e non po-trà lavorare per vent’anni “Invitiamo tutti coloro che la­vorano nell’industria cinema­tograica, di qualunque nazio­nalità, religione o convinzione politica, a sostenere i nostri concittadini, i registi Jafar Pa­nahi e Mohammad Rasoulof, scioperando l’11 febbraio 2011, trentaduesimo anniversario della rivoluzione”. Panahi e Rasoulof sono stati arrestati il 1 marzo 2010 e condannati il 20 dicembre a sei anni di car­cere. In una lettera aperta al presidente Ahmadinejad, il re­

gista iraniano Rai Pitts, pro­motore dell’appello, scrive che i due autori sono stati “puniti perché si sono interessati alla sorte dei loro concittadini e si sono preoccupati delle vite perse negli scontri seguiti alle elezioni” del giugno 2009. Pa­nahi, 50 anni, è stato condan­

nato “per partecipazione ad alcuni raduni” e per “propa­ganda contro il regime”. Inol­tre per vent’anni non potrà gi­rare, scrivere sceneggiature, viaggiare all’estero e rilasciare interviste. Ex assistente di Ab­bas Kiarostami, Jafar Panahi ha vinto il Caméra d’or a Can­nes con Il palloncino bianco nel 1995 e la mostra di Venezia nel 2000 con Il cerchio, censu­rato in Iran come il successivo Oro rosso. Nel carcere di Evin resta anche il regista Moham­mad Nourizad, che sconta dal 2009 una condanna a tre anni per “propaganda antigover­nativa”. le monde

Dall’Iran

In sciopero per Panahi

Jafar Panahi

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In uscita HEREAFTER

Di Clint Eastwood. Con Matt Damon, Cécile de France, Frankie McLaren. Stati Uniti 2010, 129’●●●●● A ottant’anni Clint Eastwood ha raggiunto l’età per fare i ilm che preferisce. E si trova in quella fase della vita in cui si pensa molto alla morte. Così si spiega Hereafter, un melodramma a più voci sul soprannaturale che è in­teressante nonostante, e forse anche a causa, dei suoi difetti. A metà tra un Crash per creduloni e una versione del Sesto senso per adulti, l’ultimo lavoro di East wood è serenamente ec­centrico: il tipo di ilm che co­mincia con uno tsunami e ini­sce con un bacio. Fra le tre linee narrative, la più avvincente è quella che ha per protagonista Matt Damon, un veggente che comunica con i morti. La storia ricorda The Dead Zone di David Cronenberg, ma qui il regista e lo sceneggiatore Peter Morgan (The Queen) hanno piani più ambiziosi. Hereafter è un dram­ma sui rapporti mistici non solo con l’aldilà ma anche tra gli es­seri viventi. È evidente che Morgan ha studiato i lavori del messicano Guillermo Arriaga (Babel, 21 grammi) e il ilm pro­cede a zigzag tra le sue diverse sottotrame con una solennità che a volte scade nell’autoparo­dia. Anche se lo sguardo di East­wood sulla morte è piuttosto ba­nale, a sostenere il ilm è il suo grande interesse per l’essere umano. Il risultato è un ilm an­cora più importante di Invictus e

di Gran Torino, l’addio di East­wood alla recitazione e al perso­naggio di Dirty Harry. Per quan­to non sempre ben riuscito, He-reafter è un’altra dimostrazione del principale dono di East­wood: la capacità di guidare le attrici (almeno alcune attrici) a picchi di intensità emotiva stra­ordinari e di comprendere i meccanismi grazie ai quali i ilm riescono a raccontare il mistero meglio di qualsiasi altro mezzo di espressione.Ty Burr, The Boston Globe

TAMARA DREWE

Di Stephen Frears. Con Gemma Arterton, Roger Allam, Luke Evans. Gran Bretagna 2010, 110’

●●●●● La trasposizione sul grande schermo del graphic novel di Posy Simmonds è piuttosto ba­nale e rassicurante. Immaginate Martin Scorsese che adatta la soap britannica The Archers e sa­rete vicini all’essenza di Tamara Drewe. Il tutto è abbastanza pia­cevole, con immagini da cartoli­na dell’Inghilterra rurale e una protagonista, Gemma Arterton, che non passa certo inosservata. Ma la mano di Stephen Frears è quasi assente, e nel ilm non c’è nulla della passione oscura che attraversa Via dalla pazza folla, il libro di Thomas Hardy a cui il regista fa costantemente riferi­mento. La storia è quella di una giornalista che, più rainata e si­cura di sé di quando era partita, torna nel suo paesino natale, do­ve vivono gli altri protagonisti della vicenda: uno scrittore ar­rogante che tradisce la moglie e un ragazzotto di campagna, ex idanzato di Tamara e ancora in­namorato di lei. Frears sottoli­nea gli elementi comici, ma an­che se il ilm è scorrevole e di­vertente, il registro del racconto è spesso inappropriato e la ca­ratterizzazione dei personaggi è brillante ma supericiale. Sem­bra quasi che il regista abbia paura di andare troppo a fondo per non rovinare il senso di eva­sione e di divertimento che pre­

vale per tutta la durata del ilm. Geofrey Macnab, The Independent

BURKE & HARE

Di John Landis. Con Simon Pegg, Andy Serkis, Jessica Hynes. Gran Bretagna 2011, 91’●●●●●

Burke & Hare poteva essere un ilm migliore sotto molti aspet­ti. Ispirata a una storia vera, la vicenda dei due ladri di cadave­ri nella Edimburgo dell’otto­cento avrebbe dovuto essere una commedia. Ma a guardarla viene più di un dubbio: anche se Tim Curry nel ruolo del me­dico aristocratico funziona be­ne, la sequenza in cui si ride davvero è una sola: un breve ca­meo di Paul Whitehouse. Per il resto si rimane in attesa di una svolta che non arriva mai. Se amate le atmosfere nebbiose il ilm potrebbe anche piacervi. Ma ormai è troppo tempo che John Landis realizza ilm sba­gliati. Burke & Hare non fa ec­cezione. Tim Robey, The Daily Telegraph

Ancora in salaAMERICAN LIFE

Di Sam Mendes. Con John Krasinski, Maya Rudolph, Maggie Gyllenhaal. Stati Uniti 2009, 98’●●●●● Verona (Maya Rudolph) e Burt (John Krasinski) stanno avendo una conversazione molto priva­ta. “Non c’è nessuno che si ama quanto noi, giusto? È così stra­no. Che facciamo?”. Lei è incin­

ta, lui non ha un vero lavoro e cominciano a girare varie città del Nordamerica per decidere dove trasferirsi e crescere il bambino. In breve, questa è la storia di American life. Il ilm è scandito da una serie di scenet­te, in cui i due arrivano in una città e cercano di capire come potrebbe essere la loro vita in quel posto. Il problema è che la loro relazione sembra caratte­rizzata dalla mancanza di gioia, che non porta certo il pubblico a identiicarsi e a emozionarsi. American life rischia quindi di apparire come una serie di parti scollegate tra loro.Mick LaSalle, San Francisco Chronicle

THE TOURIST

Di Florian Henckel von Donner-smarck. Con Angelina Jolie, John-ny Depp. Stati Uniti 2010, 103’

●●●●● A volte si prova un piacere ma­cabro e malizioso a vedere dei ilm che gli studios non hanno mostrato in anteprima sapendo che erano una bufala. Ma sta­volta si prova orrore e basta. Questo thriller/commedia ro­mantica/giallo/avventura non è mai divertente. E fa anche un po’ tristezza visto che il tedesco Florian Henckel von Donner­smarck è il regista del bellissi­mo Le vite degli altri. È inspiega­bile perché il suo sbarco a Holly wood si sia tradotto in questo bollito andato a male. Forse la chiave è nella sorve­glianza. Quella segreta sui cit­tadini della Germania Est in Le vite degli altri, quella ossessiva su Angelina Jolie come oggetto sessuale in The tourist. Gli occhi di Angelina Jolie non sono spenti, ma hanno qualcosa di vitreo che insieme alle sue lab­bra e alle spalle dritte ne fanno una specie di robot del sesso. Forse questa era la sua inten­zione. Ma nessuno poteva avere intenzione di fare un ilm riu­scito così male.Joe Morgenstern, The Wall Street Journal

GLI UOMINI DI DIO

Di Xavier Beauvois (Francia, 122’)

IL MIO NOME È KHAN

Di Karan Johar (India, 128’)

IL RESPONSABILE DELLE RISORSE UMANE

Di Eran Riklis (Israele, 103’)

Tamara Drewe

I consigli della

redazione

Hereafter

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Cultura

LibriItalieni I libri italiani letti da un corrispondente straniero. Questa settimana Sivan Kotler, del quotidiano israe-liano Ha’aretz.

marCo beLpoLItI

Pasolini in salsa piccante Guanda, 136 pagine, 12,50 euro

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Simbolicamente insepolto e di conseguenza mai veramente digerito. Pasolini – uomo e poe ta che in vita ha annuncia-to verità che non hanno mai smesso di avverarsi – ha lascia-to con la sua morte oscura un vuoto che si è trasformato in terreno fertile per complotti e fantasie. È la costante incapa-cità di liberarsi da un comples-so chiamato Pasolini. Una cer-ta élite intellettuale di sinistra, contagiata da sintomi paranoi-ci, attende messianicamente il giorno del verdetto sul delitto Pasolini, che però non arriverà mai. L’ipotesi del coinvolgi-mento dei servizi segreti nell’omicidio dello scrittore porta Belpoliti a suggerire una chiave di lettura diversa, che punta a liberarsi dai fantasmi, padroni del vuoto creato da una morte ancora vivente. Ci-tando il corvo di Uccellacci e uccellini, l’autore propone di “mangiare il maestro in salsa piccante”, per digerire e non solo ingerire, per assorbire e non solo subire. Soprattutto per lasciarci alle spalle una morte di cui non sappiamo li-berarci. Attraverso un’accura-ta descrizione di una società incapace di capire e quindi di seppellire, la sensibilità lette-raria di Belpoliti riesce a farci rilettere su questa massa di individui costantemente im-pegnati a non dimenticare. Forse perché non possono per-mettersi il lusso di ricordare.

hans henny jahnn

13 storie inospitali Lavieri, 190 pagine, 16,00 euro

Cerco un libro inusuale, iabe per adulti che sappiano ricordarci la precarietà della condizione umana, la nostra fragilità e le nostre inadempienze, e lo trovo ovviamente nella piccola editoria. Sono i racconti, taluni di natura iabesca e allegorica, di cui un giovane editore pugliese ha aidato la scelta a Domenico Pinto, tratti dalla raccolta Perrudja (1929) e dallo sterminato romanzo/autobiograia/

saggio, ancora inedito in Italia, Fluß ohne Ufer (Fiume senza rive). Morto nel 1959 dopo una vita non meno disperata di quella di altri artisti di Weimar, radicalmente deviata dall’esperienza del nazismo, Jahnn è noto da noi a pochi specialisti. È arrivato il momento di scoprirlo. Prosatore rainato e asciutto, maestro di molti e pari ai più grandi, si è confrontato con la storia nella chiave del mito, arditamente spiazzandoci negli sfondi atemporali, e

però poco esotici, che continuamente rinviano ad alcuni temi ossessivi: il doppio, l’eros (spesso omosessuale), l’incesto, il crimine, i riti aberranti del cannibalismo che regge, a parer suo, le società, il dominio dei ricchi sui poveri, dei forti sui deboli (si legga per esempio Il re sassanide). Acristiano, insoferente dei luoghi comuni della ragione e della fede, Jahnn nasconde sotto uno stile formidabile una tensione estrema, una disperazione che torna ad appartenerci. u

Il libro Gofredo Foi

oltre la fede e la ragione

Dalla Gran bretagna

Il iuto di assange per gli afari

Il fondatore di Wikileaks incasserà 1,3 milioni di euro per la sua autobiograia. Un accordo che rischia di rive-larsi svantaggioso

Julian Assange ha irmato un contratto da 1,3 milioni di euro per la pubblicazione della sua autobiograia con Alfred A. Knopf, una casa editrice di New York, e con la britannica Canongate. Il libro dovrebbe uscire nel 2011, e i soldi servi-ranno a pagare le spese legali sostenute dal fondatore di Wi-kileaks. La cifra è senza dubbio notevole, ma l’accordo potreb-be essere un cattivo afare. Se-condo il contratto, infatti, gli editori manterranno i diritti elettronici e all’autore andrà il 25 per cento dei proitti netti. Considerata la sua popolarità,

Assange avrebbe fatto meglio a pubblicare la sua autobiogra-ia in proprio e a venderla su Amazon: in questo modo si sa-rebbe assicurato il 70 per cen-to dei guadagni. È la ragione per cui sempre più scrittori de-cidono di pubblicare i loro la-

vori online. Non è un caso che – secondo i dati di Daily inan-ce – nel 2010 gli ebook abbiano rappresentato il 10 per cento sul totale delle vendite dei li-bri, contro l’1 per cento di due anni fa. The Economist

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NOAM CHOMKSI E ILAN PAPPÉ

Ultima fermata GazaPonte alle Grazie, 272 pagine, 16,80 euro ●●●●● Il fallito tentativo dell’ammini-strazione Obama di ottenere da Israele una moratoria agli inse-diamenti nelle colonie sembra dare nuove ragioni al pessimi-smo del saggio di Noam Chom-sky sulla “pace che potrebbe rea lizzarsi (ma non lo fa)”. Nel libro c’è anche un intervento dell’intellettuale statunitense sull’attacco del 2008-2009 a Gaza e due interviste. Lo storico Ilan Pappé si occupa invece del ruolo di Washington in Medio Oriente, dell’espulsione dei pa-lestinesi nel 1948, della possibi-le nascita di uno stato unico e dell’assedio israeliano di Gaza. Gli autori riescono a smontare la retorica uiciale, anche se – com’è inevitabile – le loro criti-che si servono di artiici retorici. Chomsky sposa punti di vista che sorprenderanno i suoi letto-ri: è contrario al boicottaggio ac-cademico e culturale e favorevo-le al riconoscimento di Israele da parte di Hamas. “La pace si fa tra nemici”, ribatte Pappé e poi aferma che, dopo l’11 set-tembre, gli Stati Uniti hanno lanciato “una guerra totale con-tro l’islam”. Totale? Bush è stato un problema, certo, ma non mi sembra che abbia bombardato le Maldive. Steven Poole , The Guardian

JOHN GRISHAM

Io confessoMondadori, 437 pagine, 20 euro ●●●●●

Io confesso è una storia di su-spense da leggere tutta d’un ia-to. Ma è anche un superbo lavo-ro di critica sociale. Il tema del romanzo – la pena di morte – è lagato all’impegno di Grisham come attivista dell’Innocence project, un’organizzazione che lotta per scagionare detenuti condannati ingiustamente. Per più di un decennio Grisham ha rilettuto sull’eicacia e sulla

moralità della pena di morte. Io confesso emette un verdetto chiaro. Il romanzo si apre con una situazione tipica da noir, in cui un uomo qualunque si ritro-va catapultato in un incubo. Il protagonista è il reverendo Keith Schroeder, pastore lutera-no a Topeka, in Kansas, che una fredda mattina riceve la visita di Travis Boyette, condannato più volte per violenza sessuale e li-bero sulla parola. Boyette spiega a Keith che sta morendo per un tumore e che vuole confessare lo stupro e l’omicidio di Nicole Yarber, una cheerleader scom-parsa quasi dieci anni prima. Dopo due giorni di indecisione, Boyette mostra a Keith la prova della sua colpevolezza. La cop-pia escogita un piano: Keith ac-compagnerà Boyette alla poli-zia, l’assassino confesserà per poi condurre gli agenti dove ha sepolto Nicole. La velocità è es-senziale: entro 24 ore Donte Drumm, un ex compagno di classe della ragazza, sarà ucciso per un omicidio che non ha commesso. Le parti più stra-zianti sono i lashback dell’arre-sto di Donte e la cronaca degli anni passati nel braccio della morte. C’è poi il problema raz-ziale: Nicole era bianca, Donte è nero. Grisham non risparmia ai suoi lettori esperienze dolorose e domande diicili.Maureen Corrigan, The Washington Post

REBECCA CONNELL

L’arte di dirsi addioEinaudi, 268 pagine, 17,50 euro●●●●●

Uno scrittore esordiente che sceglie un soggetto ben delimi-tato e lo coltiva con pazienza promette meglio di chi punta più in alto e inisce miseramente fuori strada. Nell’Arte di dirsi addio Rebecca Connell, londi-nese di 29 anni, sa esattamente cosa vuole raccontare: la storia di una ragazza la cui madre è morta in seguito a una relazione con un uomo sposato, “il diavo-lo in carne e ossa”; un piano per

V. EROFEEV, E. LIMONOV,V. SOROKIN

Russian attack. Antologiadi racconti russi (Einaudi)

PETER BOGDANOVICH

Chi ha fatto quel ilm? (Fandango)

BASTIEN VIVÈS

Nei miei occhi (Black Velvet)

JONATHAN DEE

I privilegiatiNeri Pozza, 304 pagine, 16,50 euro

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Nei quaderni del 1844 Karl Marx descrive il denaro come uno strumento capace di capo-volgere la realtà. Una volta che si hanno i soldi, dice Marx, non si è più limitati dalla propria in-dividualità: “Sono brutto, ma posso comprarmi le donne più belle. Perciò non sono brutto, perché gli efetti della bruttezza – il suo potere deterrente – sono annullati dal denaro”. Intrappo-lati nella recente recessione, abbiamo tutti avuto modo di ri-lettere sul talento diabolico dei soldi. Le implicazioni della crisi sono al centro del nuovo ro-manzo di Jonathan Dee. I privi-legiati racconta l’alienazione morale dell’avidità e come gli avidi amorali possano usare l’alibi della famiglia per coltiva-re la loro spietatezza. I protago-nisti della storia sono una cop-pia d’oro, Adam e Cynthia Mo-rey: si sono arricchiti con l’insi-der trading e poi hanno creato una delle maggiori fondazioni ilantropiche di New York, rici-clando così i loro guadagni ille-citi. Il romanzo è intelligente, stringato e cinicamente indi-gnato. I Morey hanno a cuore loro stessi e i igli, il maggiore dei quali deinisce “epico” il lo-ro amore. Ma sanno che chiun-que può essere usato. Dee è ammirevolmente spietato. L’onniscienza autoriale è ridot-ta al minimo: ogni momento della storia è narrato dalla pro-spettiva di Adam e Cynthia o di uno dei due igli, April e Jonas. Molti romanzieri contempora-nei usano questo punto di vista limitato, ma la maggior parte di loro ama i propri personaggi. Non Dee. Considerato che i

Il romanzo

Il potere dei soldi

Morey sono persone egoiste e di vedute ristrette, anche il libro appare limitato, colorato com’è dalla banalità del male che ri-trae. Perino il linguaggio è con-taminato dal denaro. Questo ventriloquismo permette una satira spietata. Il libro è una lunga matassa narrativa che co-stringe il lettore a seguire un percorso desolato in un territo-rio incolto. Dee sembra solida-rizzare con i suoi personaggi, ma in realtà li distrugge sottil-mente. La sua narrativa ha co-me oggetto degli invertebrati morali ed è articolata intorno a una serie di piccole rimozioni. La scelta di non rispondere alla domanda chiave – i Morey la fa-ranno franca? – è coerente con l’ironica parzialità del racconto. Adam e Cynthia non pensano di aver fatto niente di sbagliato e hanno la coscienza pulita. Il romanzo inisce senza nessuna vendetta o espiazione: la critica è proprio nell’assenza di un giu-dizio esplicito. I privilegiati è ta-gliente, ma limitato. E sa per-fettamente come colmare le sue lacune: serve portate ben scelte su piatti troppo piccoli. James Wood,The New Yorker

I consigli della

redazione

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Jonathan Dee

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Cultura

Librila vendetta; l’invasione della vi-ta dell’uomo. La narrazione al-terna la voce di Louise a quella del seduttore, Nicholas, un con-trappunto che aggiunge profon-dità e alimenta un’atmosfera di sensualità e pericolo. La verità, naturalmente, non è quella che sembra.Boyd Tonkin, The Independent

LawrenCe Mauvignier

Degli uominiFeltrinelli, 208 pagine, 16 euro●●●●●

Lawrence Mauvignier non ha intitolato il suo sesto romanzo “Dell’uomo”, come avrebbe fatto un moralista classico, ma Degli uomini. Février, un solda-to di leva nella guerra d’Algeria, assiste a una discussione in un bar di Orano tra due soldati, Bernard e Rabut: dalle loro pa-role si dipana un lusso di co-scienza che ha per oggetto il passato. La storia è scomposta e ristrutturata, come in certi ro-manzi di Faulkner. Gli eventi aiorano deformati dalla sofe-renza di chi li ha vissuti: sin-ghiozzi, ripetizioni, interruzio-

ni, variazioni. Ci vuole tempo per capirli. E non li si capisce mai davvero. Mauvignier è nato cinque anni dopo gli accordi di Evian che hanno messo ine al-la guerra. La storia che racconta è quella della generazione dei suoi genitori. Eventi troppo vi-cini per farne un romanzo stori-co, troppo lontani per rispec-chiare un’esperienza vissuta. Da dove abbia preso l’ispirazio-ne non importa. Qui si sentono le voci di chi ha vissuto la guer-ra, la soferenza che si rinnova. Il libro è costruito come una tragedia, in 24 ore scandite in quattro periodi: pomeriggio, se-ra, notte, mattina. L’Algeria oc-cupa la maggior parte della not-te. Dopo c’è un buco nero oltre il quale ci sono ancora dei mo-menti di speranza: in breve, de-gli uomini.Philippe Lançon, Libération

JaiMe BayLy

La canaglia sentimentaleSellerio, 429 pagine, 16 euro●●●●●

“Volevo essere uno scrittore, ma visto che sono un vigliacco mi sono rassegnato a essere un

personaggio minore della tv. Il problema è che i libri non dan-no soldi a suicienza. O forse io non ho abbastanza talento per farmi dare soldi a suicien-za. È triste, ma è la mia vita”. È una frase di Jaime Baylys, il protagonista e narratore di La canaglia sentimentale. Baylys ha un nome sorprendentemen-te simile a quello dell’autore e, come lui, ha più di 40 anni, è omosessuale ed è in lotta con la famiglia e la ex moglie. Tra malinconia, depressione, re-gressioni infantili e un linguag-gio colloquiale, ironico e corro-sivo, lo scrittore peruviano sembra voler richiamare Proust, soprattutto nei capitoli in cui il protagonista racconta la sua idea di felicità: starsene al caldo, dormire dieci ore al giorno, muoversi il meno pos-sibile, guardare partite di cal-cio e “defecare sempre nel ba-gno di casa”. Esigenza, questa, che lo ha costretto a trascorre-re in casa la maggior parte del tempo. “E così sono diventato uno scrittore”.Yolanda Vaccaro, El Comercio

interviste di giuLiano

Battiston Per un’altra globalizzazione Edizioni dell’asino, 300 pagine, 15 euro

Da quando una ventina d’anni fa si decretò la ine delle ideo-logie, è diventato sempre più diicile capire quali siano le cose più importanti tra le mol-te che vediamo accadere, e quali idee generali possano aiutarci a leggere le trasforma-zioni. Per rispondere a doman-de di questo tipo è stato spesso invocato il concetto di “globa-

lizzazione”, ma per una man-canza di accordo sul suo signi-icato questa parola ha assunto sensi diversi e contraddittori: è stata invocata da chi sosteneva la necessità di sfruttare i lavo-ratori stranieri ma anche da chi voleva universalizzarne i diritti. Per fortuna, nelle uni-versità di tutto il mondo molti studiosi hanno continuato a ri-lettere a un livello più profon-do sulle conseguenze della tra-sformazione del pianeta.

Questo libro, che raccoglie venti interviste fatte con pas-sione da Giuliano Battiston,

mette in luce piste di ricerca diverse che spesso si incrocia-no: alcuni (come Held, Shan-kar Jha, Wallerstein, Sassen) si chiedono quanto sia sistemica l’attuale crisi del capitalismo; altri (Benhabib, Fraser, Yunus) come questo mondo piccolo possa essere anche giusto; altri ancora (Beck, Sennett, Tourai-ne) osservano le conseguenze sulle persone. La densità di idee è altissima e lascia intra-vedere, se non una nuova teo-ria per leggere la realtà, alme-no alcune delle basi su cui edi-icarla. u

non iction Giuliano Milani

Capire il tutto

giardini

Che Bing Chiu e yuxiang Li

Jardins de Chine ou la quête du paradis La Martinière L’arte dei giardini è una delle forme di espressione più tipiche della Cina ed è legata all’archi-tettura, la pittura, la poesia, la calligraia e la musica. Questo libro racconta la storia dei più famosi giardini cinesi. Che Bing Chiu è un architetto esperto di giardinaggio e insegna alla Scuola nazionale di architettura di Parigi-La Villette. Li Yuxiang è un fotografo cinese.

h. attLee e a. raMsey

Les jardins du Japon SynchroniqueI giardini giapponesi sono l’epi-tome di una natura perfetta, da-gli alberi alle montagne in mi-niatura. Questo libro è un viag-gio nel cuore dei 28 giardini più belli del paese. Helena Attlee è una giornalista e scrittrice fran-cese. Alex Ramsey è fotografo di architettura e paesaggi.

r. aLexander e F. garrett

The view from Great Dixter: Christopher Lloyd’s garden legacy Timber PressGreat Dixter, nel sud dell’Inghil-terra, è forse il più noto giardino inglese, curato dal dopoguerra da Christopher Lloyd. In questa raccolta di scritti è raccontato da familiari e amici di Lloyd.

PauLa deitz

Of gardens: selected essays University of Pennsylvania PresssNei suoi saggi Deitz racconta la storia della creazione di alcuni degli spazi verdi più celebri del mondo, il giardino del Taj Ma-hal, Versailles, Kew Gardens. Maria SepaA

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Fumetti

Borghesi di campagna

POSY SIMMONDS Tamara DreweNottetempo, 136 pagine, 18,00 euro

La falsità dei rapporti borghesi non è un argomento nuovo. Non a caso l’autrice, disegnatrice del Guardian, ha già realizzato una splendida rielaborazione della laubertiana madame Bovary (Gemma Bovery, edizioni Hazard). L’inluenza di quei temi si sente anche qui. L’adulterio è virato al maschile, la ricerca delle parole adeguate è molto attenta, e alle sequenze a fumetti si alternano monologhi sotto forma di testo scritto con caratteri tipograici, a dimostrare la derivazione letteraria dell’opera. Al posto delle novelle popolari c’è il giornalismo della stampa popolare: la Tamara Drewe del titolo è una tipica star senza talento della contemporaneità, simile a una Paris Hilton di provincia, puro status. Una coppia di borghesi (lui è uno

scrittore di successo) aitta un’ex fattoria a un gruppo di mediocri scrittori (eternamente) in erba. Il microcosmo tratteggiato da Simmonds è meno femminista di quanto sembri, i demoni sono quelli della manipolazione e del potere sull’altro esercitato anche da chi di potere ne ha poco, compresa una delle due adolescenti proletarie, personaggio comunque più positivo della coppia benestante. Il tutto è innestato su tematiche più contemporanee come la perdita d’identità negli ambienti proletari e contadini: i poveri vivono coninati come indiani nelle riserve, il vecchio mondo rustico è ridotto a un simulacro levigato e lezioso per borghesi annoiati. E gli artisti imborghesiti dei nostri tempi sono altrettanto orrendi dei commercianti dell’epoca di Dickens.Francesco Boille

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LORENZO “JOVANOTTI” CHERUBINI E FRANCO BOLELLIViva tutto!Add editore, 479 pagine, 16,00 euro La raccolta delle email che si sono scambiati Lorenzo il cantante e Franco il ilosofo durante i mesi in cui Jovanotti lavorava al suo nuovo disco. Una jam session di pensieri.

ANDRÉ GIDEStoria di PierretteVia del Vento, 36 pagine, 4,00 euroDue racconti inediti dello scrittore francese narrano storie di follia e di vizio tratte dalla vita reale.

ROBERTO CIAI E MARCO LAZZERIL’ombra dell’inquisitore Leone editore, 592 pagine, 18,50 euroOmicidi, violenze e persecuzioni religiose non risparmiano nessuno durante l’indagine condotta da Ermete De Mazzei per fare luce sulla morte di un Anziano della Repubblica di Lucca, nel 1494. La strada di De Mazzei incrocia quella di Tomás de Torquemada.

LUIGI DE PASCALISLa pazzia di dioLa Lepre edizioni, 302 pagine, 22,00 euro Ambientata in un immaginario paesino d’Abruzzo tra il 1895 e il 1924, la vicenda di Andrea Sarra narra lo sgretolarsi del mondo magico e poetico legato alla civiltà contadina.

MARK TWAIN E VLADIMIR RADUNSKYConsigli alle bambineDonzelli, 24 pagine, 16,00 euroLe brave bambine non dovrebbero fare le smorie alle maestre tranne nei casi veramente gravi. Utili consigli per cavarsela con i genitori, i

Ricevutifratelli, le persone anziane e la scuola. CLOTILDE BARBARULLIScrittrici migrantiEts, 212 pagine, 18,00 euroUndici saggi su autrici migranti che scrivono in italiano. Toni Maraini, Kaha Aden Mohamed, Gabriella Ghermandi, Assia Djebar, Suad Amiry, Ubah Ali Farah, Fabrizia Ramondino, Christiana De Caldas Brito, Gabriella Kuruvilla, Hélène Cixous, Fatou Diome, Jarmila Ockayová, Agota Kristof.

MONICA RUOCCOStoria del teatro araboCarocci, 324 pagine, 19,50 euroLe tappe dell’evoluzione della drammaturgia araba moderna.

LUDOVICA AMICI WikileaksEditori Riuniti, 384 pagine, 14,90 euroAlcune delle rivelazioni di Wikileaks: dalla guerra in Afghanistan a quella in Iraq, dall’11 settembre a Guantanamo.

TED C. FISHMAN È un pianeta per vecchiNuovi Mondi, 509 pagine, 18,50 euro Come l’invecchiamento della popolazione mondiale sta rivoluzionando i rapporti umani. Il viaggio di Fishman attraverso nazioni e culture diverse con interviste a famiglie, imprenditori, professionisti nel campo dell’assistenza.

ANTONIO GRAMSCI FiabeBarbès, 239 pagine, 8,00 euro La produzione quasi integrale di Gramsci per l’infanzia, L’albero del riccio e Favole di libertà che contengono gli Apologhi e racconti torinesi e i Raccontini di Ghirlarza e del carcere e traduzioni delle favole dei fratelli Grimm.

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Cultura

1Ardecore Io de’ sospiri “Tu me disprezzi io me ce

accoro, lampena d’oro me fai morì”: e sul “morì” la cantante Sarah Dietrich diventa come Julee Cruise, e la Tosca va a Twin Peaks. È uno dei miracoli di San Cadoco, della band del romano Giampaolo Felici. La prima parte di epiche ballate e progressive all’italiana; la se­conda di musica tradizio­nalternativa: un canzoniere capitolino tenebroso, reso con la viscerale musicalità con cui De André ripescava certi canti galluresi o certi mugugni ge­novesi. Con tanto sangue e amore e perdizione e riscatto da rimanerci scorticati.

2DiMartino Cercasi anime Canto giugulare, rumore

dei coglioni che si rompono, esasperazione del quotidiano e arpeggio elementare di piano. Già sentito, ma il pezzo del pa­lermitano Antonio DiMartino si colloca con dignità nello scafale urlatori intelligenti del supermarket pop italico, tra Rino Gaetano e Brunori Sas. Musica per gente che va al su­permercato per emozionarsi ma inisce per restare attacca­ta all’iPod e si perde il lirt del secolo. Non importa quanto sia fresca la roba nel carrello. Alla ine tocca sempre metterti in coda, e poco importa se la cassiera somiglia alla Gelmini.

3 ElisaForgiveness L’altro giorno il pacchetto

regali dell’app store si è scarta­to per rivelare un Ivy ep della buona e brava Elisa con tre canzoni live, tra cui quella lì che fa sentire tanto buoni, che lei cantava in duetto con Anto­ny senza Johnsons sull’album Heart del 2009. Ma quella ver­sione era tutta un cinguettare di narcisetti d’amor; questa ha una sua bella semplicità, una purezza boschiva, adornata da arpeggi acustici, glockenspiel, organetto e coro femminile. Che bel dono questo perdono, come un deodorante nordico da applicare dopo ogni piccolo peccato.

MusicaDal vivoCHICKS ON SPEED

Segrate (Mi), 14 gennaio, circolomagnolia.it; Padova, 15 gennaio, unwound.it

CHRIS BARRON

Milano, 10 gennaio, nidaba.it

MARC DUCRET

Forlì, 8 gennaio, areasismica.it

ZOMBIE NATION

Roma, 8 gennaio, brancaleone.eu

UOCHI TOKI

Padova, 14 gennaio, unwound.it

MINISTRI

Modena, 14 gennaio, circolovibra.org; Cinquale (Ms), 15 gennaio, myspace.com/baraondadiscobar

LE LUCI DELLA CENTRALE

ELETTRICA

Brescia, 14 gennaio, lattepiulive.it; Torino, 15 gennaio, hiroshimamonamour.org

ALMAMEGRETTA

Firenze, 14 gennaio, log.it; Pescara, 15 gennaio

DENTE

Ravenna, 8 gennaio, bronsonproduzioni.com

Sicuri che la musica house sia nata negli Stati Uniti?

Ten ragas to a disco beat è il ti­tolo scelto dall’indiano Cha­ranjit Singh per la sua opera, e il titolo è già suiciente per descrivere l’album: dieci bra­ni, dieci raga indiani, che se­guono tutti lo stesso ritmo dance. Tra rumori minimali e atonali e ritmi agili e veloci, un perfetto disco acid house.C’è solo una cosa da dire: questo album è uscito nel 1982, almeno tre anni prima dell’invenzione dell’acid house a Chicago. L’autore lo ha inciso nel giro di due gior­ni, ma all’epoca quasi nessu­no se n’è accorto. Per Cha­

ranjit Singh comporre musica con il sintetizzatore e la bat­teria elettronica era solo un’attività collaterale, visto che il musicista componeva dagli anni sessanta le colon­ne sonore dei ilm di Bol­lywood. Di quell’escursione in un genere che ancora non esisteva si era quasi dimenti­

cato perino lui. Poi, alcuni anni fa, l’olandese Edo Bou­man è andato a fargli visita per parlargli con entusiasmo di quell’album. L’aveva trova­to in un negozio di dischi usa­ti di Delhi. Il passo successi­vo, per Bouman, è stato fon­dare l’etichetta Bombay Con­nection, per rispolverare que­ste perle ofuscate ino a farle splendere. Ma il fascino di quest’album non deriva solo dalla sua audacia o dalla pre­cocità. La musica di Charan­jit Singh è ancora attuale. Co­sì attuale che qualcuno po­trebbe credere che si tratti di una pubblicazione di Aphex Twin sotto falso nome.Jan Kühnemund, Die Zeit

Dall’India

Avanguardia raga

Playlist Pier Andrea Canei

Santi & deodoranti

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ICk

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Chicks on Speed

Charanjit Singh

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Pop

Brasstronaut

Mount Chimaera(Unfamiliar Records)●●●●● Se dovessimo indovinare che musica fanno i Brasstronaut sa-pendo solo come si chiamano, penseremmo a un gruppo ska. Invece i sei ragazzi di Vancouver fanno un complesso pop baroc-co stile Arcade Fire. Per esem-pio in Slow knots, pezzo d’aper-tura dell’album, riescono a or-ganizzare una canzone orec-chiabile da un arrangiamento caotico di pianoforti, percussio-ni balbettanti e voci eteree. Poi Hearts trompet comincia con un mix bello e fragile di violini e contrabbasso con la voce delica-ta di Edo Van Breemen, leader della band, prima di trasformar-si in un inale esplosivo di iati e archi. Andando avanti, il valzer cupo di Ravan presenta un’altra faccia dei Brasstronaut. Po-tremmo continuare: questo al-bum intellettualissimo ma sim-patico è una delizia. Chris Cottingham, Q

rock

vamPire weekend

iTunes session Ep(Xl)●●●●● I Vampire Weekend hanno avu-to molto da fare nel 2010. L’al-bum Contra ha scalato le classi-iche e ha ricevuto una nomina-tion per il Grammy. E pochi giorni prima di Natale la band di New York ha pubblicato questo

lità. Con T-Bone Burnette come produttore esecutivo e Jack White come mentore, era dii-cile immaginarsi qualcosa di molto diverso da Laura e Lydia Rogers che sfoderano il loro nu-mero delle sorelle in giro per i classici americani. Ecco un al-bum immerso nel clima country di Fratello, dove sei?: una seducente colonna sonora per nottate trascorse pensando ad avventure poco raccoman-dabili lungo la strada. E le ar-monie vocali delle due Rogers sono veramente deliziose, so-prattutto nei due splendidi pez-zi di George Jones e nella cover-sorpresa di Somethin’ stupid. David Menconi, Spin

world music

alBert kuvezin & yat-kha

Poets & lighthouse(Yat Kha)●●●●● Gli auspici per il nuovo album del folk-rocker tuvan Albert Ku-vezin e della sua band, gli Yat-Kha, non erano dei migliori. Registrato su una remota isola scozzese e ricco di ambienta-zioni fatte di oscure poetiche giapponesi, l’album non suona esattamente come la registra-zione a cui pensereste per un sabato sera di divertimento. In-vece Poets & lighthouse è una piacevolissima sorpresa. Essen-ziale, sciamanico e stranamen-te bello, l’album mette in mo-stra la nuova formazione degli Yat-Kha, tra cui Lu Edmonds, il bassista di Billy Bragg Simon Edwards, la clarinettista Sarah

Homer e il multistrumentista Giles Perring. Il suono è acusti-co e diversiicato, e raggiunge il culmine in The gay my poteri should go, dove le voci rimbom-banti, i cori spettrali e l’uso di strumenti inusuali fanno pen-sare a una specie di Tom Waits tuvan-celtico. Ci sono degli in-terludi in cui si sente solo Kuve-zin brontolare e sussurrare, c’è un duetto con il suonatore scoz-zese di cornamusa Neil Came-ron e un delizioso pezzo di chiusura in cui la voce devasta-ta di Kuvezin è compensata dal-la dolcezza di Melanie Pappen-heim.Jamie Renton, Froots

Classica

freiBurger BaroCkorChester

Telemann: TafelmusikFreiburger Barockorchester (Harmonia mundi)●●●●●

La Tafelmusik di Georg Philipp Telemann (1733) consiste di tre “produzioni”, ognuna delle quali è una sequena di ouvertu-re, quartetto, concerto, trio, so-nata e conclusione a tutti, un po’ come il menù di un grande banchetto. Ogni produzione presenta una grande varietà di combinazioni strumentali e stili francesi, italiani, polacchi e te-deschi: una sorta di Unione eu-ropea musicale, come la deini-sce Karl Keiser, lautista della Freiburger Barock orchester. Le ottime edizioni integrali della Tafelmusik non mancano, ma era da molti anni che non ne ar-rivava una nuova. Eccola inal-mente: è splendida da tutti i punti di vista e conferma che oggi questa è la migliore orche-stra tedesca di strumenti d’epo-ca. Ho ascoltato la musica se-guendo la partitura, stupito continuamente da quanto è straordinaria la fantasia di Tele-mann e dalla qualità davvero stupefacente di questi musici-sti. David Vickers, Gramophone

ep disponibile su iTunes. Le canzoni, quattro singoli estratti dai primi due album più due co-ver (I’m goin’ down di Bruce Springsteen e Have I the right degli Honeycombs), sono state registrate a settembre con nuovi arrangiamenti ricchi di stru-menti a iato in stile rocksteady. Questo ep può sembrare un’uscita un po’ superlua, ma è importante perché ofre una re-gistrazione in alta qualità dei Vampire Weekend mentre suo-nano insieme in una stanza in un modo del tutto inedito. Basta ascoltare A-punk, dall’album d’esordio, con il suo soprenden-te mix di sintetizzatori e iati.David Bevan, Pitchforkmedia

Phoenix foundation

Bufalo(Memphis Industries)●●●●● I neozelandesi Phoenix Foundation sono in giro da più di dieci anni, ma se in patria hanno riscosso un notevole successo, all’estero sono ancora abbastanza sconosciuti: il loro quarto album, uscito ad aprile, è stato distribuito in Europa so-lo molti mesi dopo. Ma valeva la pena aspettare. Il loro stile, un pop alla Byrds/Beach Boys intriso di synth, è impeccabile. I momenti migliori sono la title track e Orange & mango, che ri-corda i passaggi più pop di Illi-nois di Sujan Stevens. Altrove l’energia tende a diminuire, ma ogni secondo di Bufalo è realiz-zato con cura artigianale. Se cercate un disco per scacciare via l’inverno potreste averlo trovato.Andrzej Lukowski, Bbc Music

Country

the seCret sisters

The secret sisters (Beladroit)●●●●● Il debutto del duo dell’Alabama ha un solo difetto: la prevedibi-

fritz reiner

Conducts Richard Strauss (Rca Red Seal)

ClassicaScelti da Alberto

Notarbartolo

Brasstronaut

Secret Sisters

jonathan Plowright

A Bach book for Harriet Cohen (Hyperion)

Clemens krauss

Wagner: Der Ring des Nibelungen (Orfeo)

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Cultura

Quasi sposi

Domenica 9 gennaio, ore 21.00, Babel TvFatma è una ragazza turca. Per sottrarsi alle costrizioni familiari e vivere una vita indipendente è venuta in Italia, dove studia fotograia, e si è innamorata di un italiano. Dopo anni torna in Turchia per parlare con il padre, sperando che accetti il suo lavoro e il suo matrimonio.

siberia

Martedì 11 gennaio, ore 21.10, Current

Un tempo la manutenzione del-le poche strade che attraversano il territorio spettava ai detenuti dei gulag. Oggi l’intera regione è in rovina: un pericolo per i ca-mionisti, tra temperature polari, fango, orsi e criminali.

il velo svelato

Giovedì 13 gennaio, ore 01.00, Rai Tre

Dalla Francia alla Turchia, pas-sando per la Tunisia e l’Italia, Crash si occupa dell’impatto dell’uso del velo, e in alcuni casi del burqa, nelle società occiden-tali ed europee: le leggi e i dibat-titi, le polemiche e le ragioni.

l’altra voCe della musiCa

Giovedì 13 gennaio, ore 21.05, Classical

Con Claudio Abbado a Caracas per raccontare il sodalizio nato nel 2006 tra il maestro italiano e l’Orquesta sinfónica Simón Bo-lívar, l’orchestra giovanile vanto del “sistema” di educazione musicale del paese latinoameri-cano, che ogni anno toglie mi-gliaia di ragazzi dalla strada.

spaCe tourists

Venerdì 14 gennaio, ore 23.10,Arte

L’imprenditrice irano-america-na Anousheh Ansari ha pagato 20 milioni di dollari per essere a bordo del primo volo turistico nello spazio. Con i piedi per ter-ra, invece, i kazaki cacciano nel-la steppa preziosi ferrivecchi sganciati dai vettori, da rivende-re al mercato nero.

video

vimeo.com/18269080 Tra i testimoni intervistati da John Pilger per il ilm-inchiesta The war you don’t see (recensito qui accanto) c’è ovviamente Julian Assange, uno dei pochi che il giornalista australiano non mette sul banco degli imputati. Della lunga conversazione tra i due solo una parte è inita nel montaggio inale. Ma Pilger ha tempestivamente deciso di rendere disponibile l’intero ilmato (oltre un’ora), rendendo un ottimo servizio a tutte le persone interessate alla vicenda di Wikileaks e al proilo del suo fondatore (e facendo, com’è comprensibile, pubblicità al ilm). Pilger ha contribuito, insieme ad altri personaggi famosi come Michael Moore e Ken Loach, a pagare la cauzione che il 16 dicembre 2010 ha permesso ad Assange di uscire dal carcere.

in rete

trasparenza

Il nuovo documentario del re-porter John Pilger si concentra su quello che non vediamo della guerra, sulle immagini che la tv sceglie di mostrare e su quelle che invece censura, orientando così l’opinione pubblica in base alle priorità dell’agenda politica. Come sempre Pilger eccelle nelle in-terviste a muso duro e nella

raccolta di materiali inediti, meno nelle sfumature. Ma l’analisi del ruolo dei mezzi d’informazione nelle guerre moderne, dal novecento al conlitto in Iraq, è solida. Ap-pena proiettato nei cinema in-glesi e trasmesso da Itv, il ilm è uscito anche in dvd, per ora solo in Gran Bretagna. johnpilger.com

dvd

la guerra invisibile

A Parigi, come nella maggior parte della grandi città, gli at-tacchini – che armati di enormi pennelli gocciolanti di colla af-iggevano per le strade i mani-festi pubblicitari – stanno scomparendo. Proprio come gli arrotini e i vetrai immorta-lati da Irving Penn. I supporti usati per la pubblicità sono cambiati, o stanno per cam-biare, molto rapidamente: la carta e i materiali concreti la-sciano il posto al trasparente, al virtuale, a ciò che è mobile, cangiante, leggero. Succede

con i cartelloni di medio for-mato usati nella metropolitana parigina e con alcuni test, già molto avanzati, realizzati su e-paper con milioni di sfere per centimetro quadrato. Così si prepara il futuro della pubbli-cità. Il principio è semplice: sfruttare al massimo uno spa-zio pubblicitario trasforman-dolo in un supporto per più messaggi. I grandi pannelli scorrevoli, che potevano acco-gliere ino a tre pubblicità, sembrano già vecchi, mentre le strategie si ainano in conti-

nuazione: ci accerchiano, per usare un termine bellico, in modo sempre più preciso. In funzione degli orari, dei nostri bisogni o dei nostri ipotetici desideri. Così la mattina ci sa-rà la pubblicità di cafè e crois-sant, dalle 11 pizza, fast food e panini, whisky e alcolici nel pomeriggio, e annunci di risto-ranti dopo le 18. Il tutto sullo stesso pannello manovrato elettronicamente a distanza e programmato per essere il più eiciente possibile. Ecco, è già domani. u

Fotograia Christian Caujolle

pubblicità e futuro

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Internazionale 879 | 7 gennaio 2011 79

LA FONDAZIONE ONASSIS

Centre culturel Onassis, Atene, sgt.gr/enDue giorni dopo lo sciopero ge-nerale del 15 dicembre, i segni della manifestazione erano an-cora visibili per le strade di Ate-ne. La spazzatura accumulata come simbolo della crisi che at-tanaglia la Grecia da oltre un anno. In questo scenario, il nuo-vo Centro culturale Onassis, 18mila metri quadrati di marmo bianco, ha un aspetto incon-gruo. La fondazione inanzia tea tro, danza e arti plastiche, ma vuole soprattutto dare spa-zio alla rilessione, in un paese dove la domanda culturale au-menta in modo esponenziale.

Le Monde

ARTISTE PREZIOSE

Per molti anni l’arte al femmini-le ha occupato un posto secon-dario nell’immaginario comu-ne. Lee Kasner, per esempio, ha sempre vissuto all’ombra del marito, Jackson Pollock, al pun-to che il famoso critico Hans Hofmann davanti a un suo qua-dro ha esclamato: “È talmente bello che non si direbbe dipinto da una donna”. Questo scettici-smo si è sempre rispecchiato nelle basse quotazioni di merca-to. Gli ultimi dati, tuttavia, mo-strano che le quotazioni delle artiste stanno crescendo più ve-locemente di quelle dei loro col-leghi uomini. Financial Times

SULLE ORME DELLA TATE

Un’ex centrale elettrica di New Delhi, dismessa lo scorso anno, sarà convertita in una delle più grandi gallerie d’arte della città, sulle orme della Tate Modern di Londra. Il progetto costerà 80 milioni di euro, mentre per la boniica e la messa in sicurezza dell’area ci vorranno cinque an-ni. Il piano ha già ottenuto i per-messi delle autorità ma si è scontrato con le pressioni degli ambientalisti, contrari alla co-struzione di nuovi ediici.The Times of India

TACITA DEAN

Prisoner Pair, Common Guild,

Glasgow, ino al 5 febbraio,

thecommonguild.org.uk

Sarà Tacita Dean a realizzare l’opera che occuperà gli spazi della Turbine Hall di Londra nel 2011. Alla Common Guild di Glasgow, intanto, è in corso una mostra delle sue nature morte, che usano immagini di varie forme naturali, dagli alberi ai dolmen. Tra queste c’è Prisoner

pair, un video di 11 minuti com-missionato all’artista inglese nel 2008 in Alsazia-Lorena. È un’immagine ravvicinata di due pere sotto spirito chiuse in due bottiglie sospese nella luce del

sole: il ritratto di due corpi che si specchiano l’uno nell’altro at-traverso una frontiera di vetro. Il titolo dell’opera deriva da un gioco di parole (in inglese la pa-rola pair, paio, si pronuncia quasi come pear, pera) ma an-che dal nome, pere prigioniere, che in Alsazia danno a un liquo-re ottenuto da questi frutti. Nell’opera ci sono tutti i temi cari a Dean: la natura, la storia, la decadenza, la seduzione del-la nostalgia. Nata a Canterbury nel 1965, dagli anni novanta Dean produce opere, prevalen-temente ilm, che spiccano per eleganza formale e compostez-za emotiva. Se Prisoner pair non

è in linea con la sua produzione precedente, che spesso colloca igure umane in paesaggi ridon-danti e carichi di elementi ar-chitettonici, questo dipende in parte da un contrattempo. L’ar-tista avrebbe voluto riprendere il momento in cui le bottiglie vengono messe sugli alberi per far crescere il frutto all’interno. Ma è arrivata in ritardo e si è dovuta accontentare del pro-dotto inito: un paio di bottiglie di acquavite ilmate in un giar-dino londinese. Le pere intrap-polate sono esseri fragili conse-gnati a un oltretomba dolce e potente.The Guardian

Glasgow

L’opera imbottigliata

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Cultura

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Nel 2009 era diicile trovare qualcuno che fosse ottimista sul futuro dei gior-nali. Le prospettive erano drammati-che. E si era capito già da tempo che la migrazione online di lettori e inser-zionisti era un problema. Poi è arriva-

ta la crisi economica, che ha portato la recessione, un ulteriore calo delle vendite e una brusca riduzione della pubblicità. E tutto il settore si è depresso.

Dal punto di vista economico, la forza storica dell’industria dei giornali è che ofre due tipi di guada-gno: dalle vendite e dalla pubblicità. Entrambe queste fonti di reddito sono in diicoltà da anni. Le vendite parlano così chiaro che è diicile trovare qualcosa d’interessante da dire in pro-posito. Un recente rapporto dell’Ocse, The evolution of news and the internet, rende il quadro ancora più evidente. Tra il 2004 e il 2009 i giornali degli Stati Uniti hanno perso il 34 per cento dei loro lettori e quelli britannici il 22 per cento. Da allora la lessione è stata sempre più rapida. Solo negli ultimi dodici mesi, le vendite di sette quotidiani del Regno Unito sono diminuite di più del 10 per cento. Negli Stati Uniti, nei primi sei mesi del 2010 il Chicago Tribune ha perso il 9,8 per cento dei lettori che gli erano rimasti, e il Los Angeles Times il 14,7 per cento. Per chi segue il mercato della stampa, sono anni che non arrivano buone notizie. I giornali sono tutti in rosso.

Per quanto riguarda la pubblicità, le cose sono an-date ancora peggio. Quando le vendite scendono, scendono anche le entrate della pubblicità, perché gli annunci raggiungono meno lettori e quindi valgono meno. Se a questo si aggiunge una recessione genera-le, le cifre sono spaventose. Negli Stati Uniti le entrate in arrivo dalle inserzioni sono scese per sei trimestri consecutivi ino alla metà del 2009, ogni trimestre sempre più rapidamente. Nel trimestre gennaio-mar-zo 2009 la spesa pubblicitaria complessiva è calata del 19,9 per cento rispetto all’anno precedente. Anche la pubblicità online è diminuita. E la situazione è peggio-rata ancora. Nel trimestre successivo, la pubblicità è scesa di un altro 28 per cento rispetto all’anno prima. Quello dopo, è calata ancora di un altro 27 per cento. Nell’ultimo, del 23,7 per cento. Per come stanno an-dando le cose, il rallentamento del declino delle ven-dite viene considerato una buona notizia. Sto usando i

dati degli Stati Uniti perché sono più facili da reperire rispetto ai loro equivalenti britannici, ma le tendenze sono le stesse.

Il crollo economico dei giornali è legato a quello degli annunci economici, che sono stati per anni la lo-ro arma segreta. Gli annunci non sono certo la parte più invitante dei giornali (tranne che per la London Review of Books). Ma sono molto, molto redditizi. Per decenni, interi settori dell’industria dei giornali sono stati tenuti a galla dagli annunci: la loro manifestazio-ne più visibile erano le monumentali edizioni del lune-dì e del mercoledì del Guardian, che pubblicavano ri-spettivamente le oferte di lavoro nel campo dell’edi-

toria e in quello del settore pubblico. I conservatori a volte si lamentavano so-stenendo che quegli annunci erano una forma di sovvenzione pubblica alla stampa, senza capire che erano un modo molto eicace per i datori di lavoro di ri-volgersi a un target speciico di potenzia-li dipendenti, visto che le persone inte-ressate sapevano dove cercare gli an-nunci. Negli Stati Uniti, l’importanza della pubblicità era anche maggiore. Lo è ancora, in misura sorprendente, se si guardano i dati che mostrano l’equili-

brio tra entrate dovute alle vendite e alla pubblicità. Nel Regno Unito, che è circa a metà della lista dell’Oc-se, il rapporto è di 50 a 50. La media mondiale è di 57 a 43 a favore della pubblicità. Negli Stati Uniti il rappor-to è di 87 a 13.

Questa proporzione distorta rilette il fatto che ne-gli Stati Uniti il mercato dei giornali è locale, con una forte tendenza a un monopolio di fatto. La maggior parte delle città americane aveva (e ha ancora) un giornale dominante, che deteneva il monopolio degli annunci pubblicitari. Durante i lunghi anni del boom, per i giornali del novecento quel monopolio era come la licenza di stampare denaro. È stato il rubinetto sem-pre aperto degli annunci che ha consentito lo sviluppo dell’elaborata sovrastruttura dei giornali statunitensi. Le redazioni piene di giornalisti, l’aria di seriosa arro-ganza, la tendenza a scrivere articoli che, letti dall’Eu-ropa, sembravano sempre troppo lunghi: tutte queste caratteristiche dei giornali americani sono state rese possibili dal denaro facile del monopolio degli annun-ci economici. È uno dei motivi per cui le lezioni degli Stati Uniti non sono direttamente applicabili alla Gran Bretagna, dove il mercato dei quotidiani è nazionale

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Fateci pagare

John Lanchester

In tutta la storia dell’umanità, internet è il mezzo più eicace per regalare qualcosa. Forse guadagnarci è contrario al suo carattere. Però i giornali devono tenerne conto

JOHN LANCHESTER

è uno scrittore e giornalista britannico. Il suo ultimo libro uscito in Italia è Dalla bolla al

crac (Fusi orari 2008). Questo articolo è uscito sulla London Review of Books con il titolo Let us pay.

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ed è competitivo come qualsiasi attività commerciale. È anche il motivo per cui i giornali degli Stati Uniti so-no quasi tutti più seri di quelli inglesi. In Gran Breta-gna i giornali non sono mai riusciti a dimenticare la loro parentela con l’industria dell’entertainment.

Con l’arrivo di internet, con i suoi siti specializzati nella ricerca di posti di lavoro e quelli di pubblicità gra-tuita come Craigslist, la fonte dei guadagni legati agli annunci si è semplicemente prosciugata. È questa la causa principale della crisi del settore in America, ed è anche all’origine di uno dei suoi sintomi più evidenti: l’improvviso restringimento isico dei giornali stessi. Il Washington Post una volta era enorme, non si riusci-va quasi a tenerlo in mano. Adesso sembra uno di quei giornaletti gratuiti che si trovano nelle stazioni della metropolitana. L’edizione domenicale del New York Times era famosa per essere così pesante che, lancian-dovela sulla veranda, i ragazzi che la distribuivano ri-schiavano di uccidervi il cane. Oggi un po’ di vento se la porterebbe via mentre fate colazione.

Mettete insieme tutte queste cose, e i motivi della depressione sono evidenti. Il iore all’occhiello del giornalismo di qualità mondiale, il New York Times, ha perso 74 milioni di dollari e mezzo già nel primo tri-mestre del 2009, e quando si è scoperto che aveva ac-

cumulato 1,3 miliardi di debiti ha accettato un’iniezio-ne di 250 milioni in contanti dal miliardario messicano delle telecomunicazioni Carlos Slim. E rimane una delle società editoriali più sane degli Stati Uniti: il gruppo Tribune, che possiede il Los Angeles Times e il Chicago Tribune, è già fallito. Nel Regno Unito, la Ti-mes News papers nel giugno del 2009 aveva già perso 87,7 milioni di sterline in sei mesi, dopo averne persi 50,2 in un anno nel 2008. Non sono cifre particolar-mente allarmanti per gli standard del settore, ma han-no scatenato il panico.

Negli ultimi mesi, tuttavia, il tono del dibattito è cambiato. Non si dice più: “Ormai è inita”, ma: “Pre-sto! Tiriamo fuori un’idea”. Tanto per cominciare, la pubblicità si sta riprendendo. Gli annunci economici no: quelli ormai sono andati, per il semplice motivo che è più conveniente metterli online. Ma altre forme di pubblicità sono in leggera ripresa, e non nel modo che ci si aspettava. Nel 2009 la diminuzione delle in-serzioni sui giornali online aveva scatenato il panico, perché, anche se meno redditizie rispetto ai loro equi-valenti sul cartaceo, avrebbero dovuto essere il futuro del settore. Nel 2010 la pubblicità su internet è tornata ad aumentare in quasi tutti i giornali, nella maggior parte dei casi di più del 10 per cento. Oggi i giornali

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hanno più lettori che mai, in alcuni casi molti milioni in più. Naturalmente sono lettori che leggono i giorna­li gratuitamente online, ma è diicile essere depressi al pensiero di un pubblico enorme che prima non c’era. Il Guardian, per esempio, nel 2009 ha visto aumenta­re i suoi lettori online del 62 per cento, in moltissimi casi all’estero: nel corso dell’anno i lettori sono diven­tati 37 milioni, e negli Stati Uniti ne ha di più del Los Angeles Times. Ha anche guadagnato 25 milioni di sterline con la pubblicità online.

Nel caso della London Review of Books, internet ha aiutato l’edizione cartacea a raggiungere le 55mila co­pie, e settemila nuovi lettori si sono aggiunti negli ulti­mi dodici mesi. Internet è un nuovo modo di guada­gnare lettori al di fuori del tradizionale canale della pubblicità per posta. Il sistema postale costa molto, e il suo pubblico si limita a quello già esistente di potenzia­li clienti presi dalle mailing list. Grazie alla rete, chiun­que abbia accesso a un computer diventa parte di quel pubblico, e il contenuto del giornale diventa la sua stes­sa pubblicità. Per la London Review of Books un altro fattore in favore dell’edizione su carta potrebbe essere la lunghezza dei suoi articoli, come questo. Perciò la versione online funziona come una forma di pubblicità che non danneggia troppo la versione stampata. O al­meno, sembra che stia succedendo proprio questo. Ma bisogna anche tenere presente un dato: nel Regno Uni­to si vendono, in media, 15 milioni di quotidiani al gior­no. Non sono pochi. La carta stampata non è sul punto di scomparire.

Ci sono stati alcuni successi inaspettati. L’Evening Standard, il re dei giornali della sera londinesi, è stato acquistato dall’ex agente del Kgb Aleksandr Le­bedev e trasformato in un quotidiano gratuito. All’inizio sembrava l’idea più

folle della storia dei giornali: trasformare un prodotto a pagamento in qualcosa che si regala, sperando che l’aumento (anche se gratuito) della tiratura provochi una crescita della pubblicità suicientemente redditi­zia. È come saltare da un aereo con la speranza di atter­rare su un covone di ieno abbastanza grande. Ma indo­vinate un po’? Ha funzionato. La difusione dello Stan­dard ha raggiunto le 700mila copie e – come si può ve­dere anche solo guardandolo da lontano – è più pieno di annunci che mai. A me sembra strano che un prodotto se la cavi meglio se viene regalato anziché venduto. Inoltre, anche se è gratuito, non lo leggo quasi mai per­ché non viaggio in metropolitana all’ora di punta, quin­di riesco raramente a vederne una copia. Ma la distri­buzione all’ora di punta è uno dei motivi principali della rinascita del giornale. Come mi ha spiegato un vecchio reporter dello Standard, “in metropolitana i cellulari non prendono. Tutto qui”. Per la prima volta da un bel po’ di tempo, non tutto è deprimente.

Parte dell’ottimismo, o del minore pessimismo, è dovuta al fatto che, se il calo delle vendite e delle entra­te rallenta, i giornali avranno il tempo di trovare un modo per monetizzare il loro pubblico di lettori online, spesso numerosissimo. La pubblicità digitale sta sosti­

Storie vere

Un uomo con una pistola ha fatto irruzione da Eddie, un droghiere di Leavenworth, nel Kansas: “Questa è una rapina!”. Eddie ha trovato una sola arma per difendersi: il telecomando della televisione. Lo ha preso e lo ha puntato contro il rapinatore che, terrorizzato dalla minaccia misteriosa, è scappato. La polizia lo ha arrestato poco dopo. La sua pistola era scarica.

tuendo quella su carta troppo lentamente perché le cose vadano avanti come prima, ma la crescita del pub­blico online e il recupero del cartaceo stanno almeno dando all’industria un po’ di respiro, anche se solo per un paio d’anni. Uno dei motivi della preoccupazione è che c’è qualcosa di intrinsecamente assurdo in una si­tuazione in cui i giornali hanno più lettori che mai – non qualche centinaio, ma milioni – eppure sono sull’orlo del collasso. La soluzione sembra essere nella parola magica “monetizzare”. È una parola importante pro­prio perché è così brutta. È la sua stessa bruttezza a far­la sembrare pratica e concreta. Dire che si vuole “mo­netizzare” qualcosa dà l’impressione di avere un piano. Ma in realtà non è così. La breve storia di internet è do­minata dal pio desiderio di trasformare il traico online in guadagni. Le aziende che sono riuscite a farlo sono in netta minoranza rispetto a quelle che hanno creduto al nuovo slogan dell’era dell’informazione: “Se costrui­sci, arriveranno”. La forma attuale dello slogan è di­ventata: “Se costruisci può darsi che arrivino, ma solo se non devono pagare”. Per questo motivo, come ha osservato Warren Bufett, probabilmente internet rap­presenta “una perdita secca per i capitalisti”.

Google, per esempio, è una meraviglia del mondo moderno, e la gamma dei servizi che ofre a chiunque abbia accesso a internet è veramente eccezionale. Io navigo il web con Google, faccio la maggior parte delle mie letture online tramite le news e i feed ai quali sono abbonato su Google, sia la mia agenda di lavoro sia quella di casa sono su Google (e, tra l’altro, l’agenda collettiva di Google è la più grande invenzione che sia mai stata concepita per favorire l’aggressione passiva: “Oh, pensavo che qualcuno avrebbe controllato l’agen­da”), la mia posta elettronica passa attraverso Google e, per questo, Google mi ha salvato quando il mio com­puter senza backup si è bloccato e senza Google avrei perso tutto il mio archivio di email. Uso le mappe di Google sul mio cellulare per trovare la strada quando sono in giro e per calcolare i tempi di percorrenza a piedi. Mi capita spesso di guardare i video, in partico­lare di eventi sportivi che ho perso, su YouTube, anche se non quanto i miei igli lo usano per vedere i cartoni animati. In breve, uso l’incredibile gamma di servizi di Google tutto il giorno, ogni giorno. E di tutta questa serie di servizi solo uno permette di fare soldi: la pub­blicità online. Tutto il resto dell’oferta di Google è sostanzialmente in perdita. In alcuni casi le perdite sono notevoli. Gli analisti calcolano che l’anno scorso YouTube sia costato 500 milioni di dollari. Provate a immaginare come sarebbe descritto questo deficit se YouTube appartenesse a un’azienda della carta stampata.

In tutta la storia dell’umanità, internet è il mezzo più eicace per regalare qualcosa. Guadagnarci non è solo diicile, forse è fondamentalmente contrario al carattere stesso della rete. Però i giornali devono tener­ne conto. I loro problemi di fondo hanno a che fare con la rete: la perdita di copie e di entrate pubblicitarie è dovuta alla crescita dei nuovi media. Ma anche le nuo­ve opportunità sono legate a internet, con il suo enor­me esercito di nuovi lettori. Il settore non è più sull’orlo

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del fallimento, ma è ancora su un pendio molto scosce-so e, se non succede qualcosa che ne fermi la caduta, i costi per copia continueranno a crescere in rapporto alle vendite, e alla ine i giornali moriranno o (più pro-babilmente) saranno così impoveriti dal taglio delle spese che continueranno a esistere solo come pubbli-cazioni gratuite con una sottile patina di presunto gior-nalismo. Per usare le parole del rapporto Ocse: “Tutti quelli che parlano delle prospettive dei mezzi d’infor-mazione sottolineano che, nonostante la lunga storia dei giornali, il connubio tra stampa indipendente e giornalismo d’inchiesta è un fenomeno relativamente recente”. Non è sempre esistito e potrebbe anche scomparire.

Vale la pena di fermarsi un attimo a rilettere se que-sto sarebbe un problema. Oggi, per prendere in prestito l’analisi di Alan Rusbridger uscita in un lungo post sul suo blog, il panorama dei media è diviso in tre settori: il primo è la stampa, il secondo i grandi network pubblici, e il terzo i nuovi media, che sono vivaci, caotici, decen-trati, inclini a seguire mode e manie, e si stanno con-quistando l’accesso agli spazi pubblici in molti modi nuovi.

Del secondo e del terzo settore non dobbiamo pre-occuparci troppo (comunque, non in questa sede). La Bbc è criticata e attaccata dai politici, dal pubblico e dagli altri mezzi d’informazione, ma probabilmente rimarrà in vita in una forma più o meno simile a quella attuale almeno per qualche tempo. L’attacco alla Bbc sferrato da Rupert Murdoch è così palesemente inte-ressato, e mostra così poco rispetto per l’equilibrio ge-nerale della vita nel Regno Unito, che in un altro con-testo potrebbe sembrare divertente. Inoltre mette inavvertitamente in evidenza quanto poco spenda BSkyB per creare contenuti utili. La Bbc ha 4,6 miliar-di di sterline di entrate e genera un mondo di contenu-ti, mentre BSkyB ne ha 5,9 miliardi e non genera nulla. Quindi la Bbc avrà anche una lunga lista di difetti, ma è indispensabile per la vita pubblica del pae se. È un peccato che oggi abbia i peggiori dirigenti della sua storia (in particolare, è un peccato che il suo direttore generale sia pagato 800mila sterline all’anno. Quel lavoro dovrebbe farlo qualcuno motivato dall’impor-tanza sociale della Bbc. In altre parole, come direttore generale avremmo bisogno di qualcuno disposto a es-sere pagato meno del prezzo di mercato). Ma questa è la situazione, e secondo me nessun partito politico si spingerà mai oltre il criticare la Bbc e tagliarle i i-nanziamenti.

Per quanto riguarda i nuovi media, sono chiara-mente un work in progress, e sarebbe prematuro dire quale sarà il loro impatto sulla vita pubblica e politica. Quello sulla vita privata è più evidente, e sembra pun-tare su un aumento delle modalità d’incontro e di rela-zione tra le persone, online e oline. Per qualche verso, la storia degli sms è una parabola sull’evoluzione della rete. Gli sms sono stati introdotti dalla Nokia in Fin-landia come modo per consentire ai suoi tecnici di dirsi con brevi messaggi a che punto erano, cosa stava-no facendo e quanto tempo ci sarebbe voluto per inire. Poi la Nokia ha reso disponibile il servizio sui suoi cel-

lulari perché, dato che c’era, tanto valeva lasciare che lo usassero anche i suoi clienti. Si è stupita molto quan-do ha visto l’improvviso aumento di traico. Gli adole-scenti inlandesi avevano cominciato a usare i messag-gini per organizzare la loro vita sociale. Da quel mo-mento, gli sms non si sono più fermati. Nessuno aveva deciso a cosa sarebbero serviti di preciso, si sono evo-luti da soli. È diicile negare che gli sms siano stati una novità, ma anche sostenere che abbiano cambiato ra-dicalmente il mondo. Direi che grosso modo potrem-mo fare la stessa considerazione sugli usi giornalistici dei nuovi media. La loro funzione di democratizzazio-ne e decentramento è appena cominciata, e continue-rà. In un certo senso, l’episodio di Wikileaks dimostra sia quello che i media digitali possono fare sia quello che non possono fare. È stata una fuga di notizie senza precedenti, ma non si è trattato di giornalismo. I dati vanno interpretati, studiati, trasformati in un articolo. Per questo ci serve il numero uno, i giornali.

Cambierebbe qualcosa se scomparissero? Fanno cose che i grandi network pubblici e i nuovi media non fanno? In Gran Bretagna si è tentati di dire che i giorna-li hanno così tanti difetti che non se ne sentirebbe la mancanza. Hanno accettato completamente l’idea che l’informazione è entertainment e l’entertainment è informazione; hanno una mentalità da branco e sono convinti che valga la pena di parlare solo delle cose che compaiono già negli altri mezzi d’informazione; dimo-strano un generale allontanamento dai princìpi del giornalismo serio, investigativo; hanno orrore per la complessità, hanno la memoria corta e si adeguano al populismo imperante: nessuno di questi aspetti è una virtù. Ma l’industria giornalistica britannica è anche energica e cacofonica, e pensa che il suo ruolo princi-pale sia quello di rendere più diicile possibile la vita del governo.

Dato che la nostra costituzione è sbilanciata dalla parte del governo in carica, per molto tempo il giorna-lismo è stato una forma di opposizione. I nuovi laburi-

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sti una volta definivano il direttore del Daily Mail “l’uomo più potente del paese”. Era un’esagerazione usata in senso essenzialmente negativo, eppure se non ci fosse più sentiremmo la mancanza di questo con­trappeso. I governi accumulano sempre più potere: una delle tendenze più evidenti degli ultimi trent’anni di storia politica è che tutti i governi si arrogano sem­pre più potere, anche quando (è forte la tentazione di dire “soprattutto quando”) la loro ideologia è aperta­mente di destra ed esplicitamente antigovernativa. Il giornalismo è praticamente l’unica forza che resiste e solo per questo motivo è ormai una componente ne­cessaria della democrazia moderna, che senza di esso andrebbe proprio nella direzione in cui stanno andan­do i giornali: diventerebbe vuota, resterebbe il guscio di una macchina democratica, ma senza l’elettorato informato che la stampa contribuisce a creare. E uno dei lati positivi del sistema attuale è che funziona sen­za bisogno che la stampa sia in buona fede o ricca di nobili princìpi.

Il fatto che i giornali sono necessari, tuttavia, non vuol dire che sopravviveranno. Il loro per­corso comporta un lento declino delle entrate, con un uso sempre minore di giornalisti e con contenuti che vale sempre meno la pena di leg­gere. Niente è meno probabile di una qualche

forma di salvataggio. Se sarà possibile trovare una so­luzione a questo lento declino, sarà con un meccani­smo di mercato. Nessuno l’ha ancora trovato. Per cita­re ancora l’Ocse: “‘Lo studio ha rilevato inoltre che al momento non sono stati trovati modelli commerciali e/o di condivisione delle entrate per inanziare la pro­duzione indipendente di notizie. Questo solleva dubbi sulla possibilità di garantire un giornalismo di alta qualità a lungo termine”.

L’unica eccezione alla regola generale dell’Ocse è il giornalismo economico, in cui sia il Financial Times

sia il Wall Street Journal sono stati in grado di guada­gnare facendo pagare i loro contenuti. Il Financial Ti­mes usa un sistema progressivo in cui le prime visite occasionali sono completamente gratuite, poi è neces­sario registrarsi, ma gli articoli si possono leggere libe­ramente, ma dopo, quando si è letta più di una certa quantità di contenuti, si deve pagare. Quando si chie­de agli addetti ai lavori perché il sistema funziona, di­cono sempre la stessa cosa: “Perché la gente ha un motivo per leggere il Financial Times”. Questo solleva immediatamente una domanda ovvia: perché non ha un motivo per leggere anche gli altri giornali? Non sa­rebbe una buona idea se anche loro ofrissero cose che vale la pena di leggere? Forse, se somigliassero di me­no alla roba che si può avere gratis – gossip, opinioni sulle mutande e articoli brevi – le persone avrebbero più voglia di pagare per leggerli? Ma questo è facile so­lo a parole. Il fatto è che la formula attuale ha ancora un mucchio di lettori, anzi ne ha più che mai, e quel che è diicile è trovare il modo di farli pagare senza fare un terriicante salto nel vuoto. I tentativi di co­stringere i lettori online a pagare inora sono tutti falli­ti. Alcuni giornali hanno cercato di usare il modello del Financial Times per una parte del loro contenuto: il New York Times ha provato con gli editoriali, ma poi ha dovuto rinunciare. Il motivo più evidente è che il calo del traico causato dal pagamento era così forte da essere troppo costoso, perché le inserzioni del gior­nale online raggiungevano meno lettori. Le nuove en­trate non erano neanche lontanamente suicienti a compensare la riduzione di quelle legate agli annunci pubblicitari. Perciò questo è il modo sbagliato di risol­vere il problema. Alcuni altri modi di sbagliare sono più semplici. Newsday di Long Island (che l’ultima volta che l’ho visto era un giornale discreto) è diventa­to a pagamento nell’ottobre 2009. A quel punto aveva 2,2 milioni di visitatori al mese. Indovinate quante per­sone hanno accettato di pagare? Trentacinque. No, la via da percorrere non è certo questa.

L’uomo che sta cercando più di chiunque altro di ri­solvere questo enigma è Rupert Murdoch. È diverten­te che Murdoch, che la sinistra ha sempre considerato il cattivo della situazione, adesso corra in aiuto della stampa. Per lo meno questo dimostra che, con tutti i suoi difetti, i giornali gli piacciono sul serio (dimostra anche che possiede molte imprese decisamente pre­ziose per il giornalismo cartaceo, ma nessuna legge dice che non è permesso avere motivazioni sovrappo­ste). La sua avversione a regalare i suoi costosi conte­nuti è ben nota. Il Wall Street Journal, che riesce a far pagare l’accesso al sito, è suo. La soluzione che ha pro­posto è stata di introdurre progressivamente il paga­mento per i contenuti del Times e del Sunday Times.

Non credo di essere il solo ad avere sentimenti molto contrastanti su questo esperimento. Da un lato, penso che Murdoch sia stato una forza estremamente negativa nella vita britannica e non auguro fortuna al­le sue imprese. D’altra parte, se venisse dimostrato che le persone sono disposte a passare dalla lettura gratui­ta a quella a pagamento, e se fossero disposte a farlo quasi senza pensarci, questa sarebbe la salvezza di tut­

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Secondo Roberto Vacca più d’ogni innovazione tecnologica importe-rebbe accrescere le facoltà mentali di grandi masse, ma se ne parla poco. In verità se ne parla, però con pochi riscontri mediatici e senza trovare mezzo migliore dell’istruzione per raggiungere l’obiettivo. Se e come le scuole agi-scono è oggetto di analisi. Ormai sappiamo che l’azione delle scuole non migliora in rapporto agli inve-stimenti in cifre assolute. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna sono aumentati gli investimenti ma non

i punteggi nei test Pisa. Meglio correlate sono le percentuali sul pil. Ma i rapporti di McKinsey, l’ul-timo è del dicembre scorso, sugge-riscono di diferenziare le valuta-zioni tra paesi del mondo in cui è ancora un problema dare a tutti i bambini l’istruzione di base, e dunque l’investimento inanziario è decisivo, e paesi sviluppati in cui è un problema l’istruzione medio-superiore. Qui più degli investi-menti conta l’impegno a migliora-re la qualità di insegnamenti e in-segnanti. Da vent’anni Teach for

America analizza e assume a mo-dello le attività degli insegnanti che fanno realizzare i maggiori progressi alle loro classi.

Un rapporto di Randi Weingar-ten e Pedro Noguera per The Na-tion e Le Monde va oltre. I risultati migliorano negli stati dove i politi-ci coinvolgono le associazioni de-gli insegnanti nel deinire e attuare modi di formazione, retribuzione, attività e immediato licenziamen-to degli ineicienti. Con insegnan-ti non più peones ma collaboratori, tutto va meglio. u

Scuole Tullio De Mauro

Da peones a collaboratori

to il settore della carta stampata. Se il sistema funzio-nasse con il Times, potremmo tutti tirare un sospiro di sollievo e prenderci a pacche sulle spalle dicendo: “C’è mancato poco”, e dimenticare che i giornali sem-bravano destinati a fallire. Ma devo dire che non cono-sco una sola persona che se ne intenda di internet e pensi che l’esperimento abbia qualche possibilità di successo.

Infatti non ce l’ha. La prima notizia sulla “più im-portante novità di questo anno”, come molti osserva-tori hanno deinito la trasformazione del Times online in un sito a pagamento, è stata che il giornale aveva 105mila abbonati su internet paganti. Per arrivare a quella cifra, Murdoch ha messo insieme gli abbona-menti temporanei a costo ridotto, gli abbonamenti per iPad, quelli giornalieri e quelli mensili. Non ha diviso i dati in categorie e l’opinione generale era che se il Ti-mes avesse potuto mettere una lista di nomi inventati tra gli abbonati per superare i centomila lo avrebbe fatto. Il traico complessivo del sito è estremamente basso. Il Times dice che è calato circa del 90 per cento, ma altre fonti parlano del 98 per cento. Queste cifre non sono solo preoccupanti, sono terribili. E corre vo-ce che solo la metà delle persone che pagano per i con-tenuti siano efettivamente abbonate. A quanto sem-bra, le persone disposte a sborsare 8,67 sterline al mese sono solo 54mila, e generano un ricavo comples-sivo di 5,6 milioni all’anno. Una cifra neanche lontana-mente accettabile. Immagino che la perdita di entrate dalla pubblicità online, un risultato diretto del crollo del traico web, annulli del tutto le entrate provenien-ti dal pagamento. Sarei stupito se non fosse così. Nes-suno seguirà Murdoch su questa strada.

Anche il fatto che il sistema funzioni così male non aiuta. Non c’è una persona esperta di computer in una posizione di potere al Times? Se c’è, non si vede. Mi sono registrato sul sito per vedere come funziona. La risposta è: non funziona, almeno non per gli stan-

dard di internet. Ogni volta che voglio leggere il gior-nale devo registrarmi di nuovo. In rete, è già diicile convincere le persone a compilare un modulo di registrazione. Ma lo fanno una volta sola. Chiedere di registrarsi ogni volta che si vuole leggere il contenu-to del Times è una scemenza. Che un esperimento di questa importanza sia stato realizzato così male dimo-stra quanto sia grande il divario tra i padroni dei gior-nali e il pubblico digitale che stanno cercando di rag-giungere.

E allora che si fa? I giornali hanno i giorni contati? Non credo, almeno non ancora. Proprio come con gli inserzionisti degli annunci economici, che erano uno dei più grandi punti di forza del settore e si sono rivela-ti un punto debole nascosto quando se ne sono andati, adesso si sta veriicando un paradosso simile, ma al contrario: una delle più grandi debolezze potrebbe ri-velarsi un potenziale strumento per uscire dalla crisi. Questo punto debole è il costo di produzione dei gior-nali. La produzione e la distribuzione dei giornali è straordinariamente costosa. Tutte le attività coinvolte – la carta, la tipograia, le infrastrutture di distribuzio-ne e via dicendo – costano un’enormità. Per citare an-cora l’Ocse: “A livello di costi, le spese più importanti di un giornale sono quelle non correlate al lavoro edi-toriale, come la produzione, la manutenzione, l’ammi-nistrazione, la promozione, la pubblicità e la distribu-zione. Questi enormi costi issi rendono le organizza-zioni più vulnerabili alla recessione e meno agili nel reagire alle loro concorrenti online”.

Perché questa è una buona notizia? Perché internet può eliminare tutti questi costi. Se i giornali andassero tutti online, i costi sarebbero immediatamente e per-manentemente ridotti. Il rapporto Ocse calcola che il costo di stampa di un quotidiano medio costituisca il 28 per cento delle spese, e quello di vendita e di distri-buzione il 24 per cento: quindi la produzione isica di un giornale costituisce il 52 per cento dei costi (l’am-

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ministrazione costa un altro 8 per cento e la pubblicità un altro 16). E queste sono cifre che potrebbero essere ottimistiche. Un’analisi convincente pubblicata da Bu-siness Insider calcola che il costo di stampa e distribu-zione del New York Times è di 644 milioni di dollari all’anno, e aggiunge: “Una fonte a conoscenza delle cifre reali ci dice che ci siamo tenuti così bassi nella nostra stima dei costi da non esserci nemmeno avvici-nati a quelli veri”. Anche considerando la cifra più bas-sa, questo signiica che se il New York Times smettesse di stampare l’edizione su carta, potrebbe permettersi di regalare un Kindle a ogni abbonato. Non un Kindle economico, ma uno di quelli con accesso libero. E non un Kindle solo, ma quattro. E non una sola volta, ma ogni anno. E questo con la stima più bassa dei costi di stampa.

A un certo punto prevarrà la logica economica. So per certo che alcuni giornali si stanno muovendo su questa strada. Nel frattempo, c’è già un visionario sca-tenato che ci sta provando, con la creazione di un gior-nale solo per iPad che impiega un centinaio di giornali-sti, ma (o forse dovrei dire “e”) non ha alcuna edizione su carta. Chi è questo fantasista, questo sognatore, questo desperado? Rupert Murdoch. Il suo nuovo gior-nale solo online si chiamerà Daily (si dice che volessero chiamarlo Daily Planet, come il giornale in cui lavorava Superman, ma la Dc Comics ha detto di no). Il progetto è una joint venture con Apple. Il giornale costerà 99 centesimi alla settimana. È un prezzo molto allettante, e se lo si confronta con il costo di accesso per un solo giorno al Times, una sterlina, si capisce bene cosa si può fare una volta che si smette di uscire su carta.

Questo, credo, è il futuro dei giornali. I loro costi di produzione li costringeran-no a rinunciare alle edizioni stampate (so che alcune persone vorrebbero un prodotto di lusso, una versione su carta solo per nostalgici, ma non mi è chiaro

come funzionerebbe a livello economico). Però non ci sarà solo questo. E qui sono costretto a citare me stesso quando, nel 2002, rilettevo sullo stato dell’industria musicale, che non aveva idea di come comportarsi quando arrivò il ile sharing: “La soluzione alla crisi del settore è semplice. Complicata, ma semplice. Quando è stato inventato il registratore a cassette, l’in-dustria musicale è andata nel panico perché la gente poteva semplicemente rubare la musica dalla radio o copiarla dagli altri. Alcune persone l’hanno fatto, ma non così tante come quelle che hanno semplicemente continuato a comprare la musica. Questo perché le cassette erano relativamente a buon mercato, ed era più seccante rubarle o copiarle di quanto non fosse comprarle. Lo stesso problema si è presentato con i video. L’industria dell’entertainment deve rendere più facile e più conveniente comprarli che copiarli”. A far-lo, appena è arrivato, è stato iTunes, che ha radical-mente modiicato sia il settore della musica digitale sia il paesaggio digitale in generale.

Sono altrettanto sicuro di poter dire che quello che i giornali devono trovare, più di ogni altra cosa, è un

nuovo meccanismo di pagamento per la lettura online che ci permetta di leggere tutto quello che vogliamo, ovunque sia stato pubblicato, e ce lo faccia pagare ogni mese, ogni anno o con qualsiasi altra frequenza. Per molte persone, questo potrebbe essere integrato in un feed rss per creare una sorta di giornale persona-lizzato.

Sarei felicissimo di pagare per la rubrica di cinema di Anthony Lane sul New Yorker, e quella sui ristoran-ti di Patricia Wells dell’Herald Tribune, o di Larry El-liott sull’economia, del Guardian, o di David Pogue sulla tecnologia, del New York Times. E vorrei anche sentirmi libero di leggere qualsiasi altra cosa attiri la mia attenzione appena mi va: non voglio pensare a pa-gare ogni volta che clicco su un articolo per leggerlo. Voglio un canone mensile o annuale, preso dalla mia carta di credito senza doverci pensare. Alla fine dell’anno la cifra potrebbe essere piuttosto alta, ma non come adesso: 4,99 dollari per un singolo numero digitale del New Yorker, per esempio. I giornali po-trebbero addebitare importi diversi per i loro contenu-ti e saremmo noi lettori a decidere se vale la pena di pagare. Il processo di pagamento deve essere invisibi-le e al tempo stesso trasparente: invisibile al momento dell’utilizzo, trasparente quando voglio vedere quello che ho pagato. L’idea è un incrocio tra una versione per la stampa di Spotify, un pizzico di Amazon e un po’ di iTunes. Tutti questi soggetti hanno la competenza per farlo, come anche le società di carte di credito. Dal punto di vista tecnico non dovrebbe essere così diicile e sarebbe, credo, un modo per rimonetizzare l’industria dei quotidiani. Fateci pagare, siamo felici di pagare.

Anche in questo caso una debolezza diventerebbe un punto di forza. I giovani non leggono i giornali. Se-condo l’Ocse “una percentuale signiicativa di giovani non legge afatto i giornali tradizionali, o lo fa in modo irregolare. Una ricerca condotta in Gran Bretagna di-mostra che, anche se i giovani mostrano un’apparente facilità e familiarità con i computer, fanno molto ai-damento sui motori di ricerca, guardano piuttosto che leggere e a volte non hanno la capacità critica di valu-tare le informazioni trovate sul web”. Perché questa è una buona notizia? Perché quei giovani lettori sono proprio quelli più allergici a pagare su internet. Ma se i lettori dei giornali sono più anziani, saranno più dispo-sti a pagare: questa è una cosa che sappiamo per certo dal mondo della musica, dove gli anziani preferiscono pagare la musica mentre i giovani preferiscono rubar-la. Ecco chi ha fatto inire Vera Lynn in testa alle classi-iche di vendita della musica nel 2009 con un album di canzoni degli anni quaranta.

Ripeto, fateci pagare. Rendete il processo più sem-plice possibile. Rendetelo invisibile e trasparente. Per-metteteci di registrarci una volta sola. I muri non sono la via da seguire, ma pagare non signiica necessaria-mente dover superare un muro, e senza qualche forma di pagamento, tra cinque anni i giornali non esisteran-no più. Spero che qualcuno stia lavorando su questa idea o su qualcosa di simile, perché per la carta stam-pata il tempo stringe. u bt

Pop

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Scienza e tecnologia

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La verità sul fondo della bottiglia

Il cafè fa passare la sbornia più in fretta. Falso. La cafeina potrà anche svegliare, ma non riduce il livello di alcol nel sangue. Anzi, per Thomas

Gould della Temple university di Filadelia, una tazza di cafè può contribuire a non far-ci rendere conto di essere sbronzi.

Prima birra poi liquori son dolori. Pri-ma liquori poi birra niente paura. Falso. Tra queste bevande non esiste interazione chimica in grado di farci sentire particolar-mente male il giorno dopo. Ciò che conta è la quantità di alcol ingerito. È probabile che chi ha già fatto il pieno di birra sia propenso a bere più bicchierini, e più in fretta, perché ha meno autocontrollo.

Il martini va shakerato, non mescolato. Vero, secondo i gusti dei più. James Bond ordinava il suo vodka martini “agitato, non mescolato”, ma c’è davvero diferenza? Sì, secondo un gruppo della University of We-stern Ontario del Canada. Il team ha stu-diato la capacità del martini classico, fatto con gin e vermouth, di rendere inofensivo il perossido di idrogeno, una potente fonte di radicali liberi, e ha dimostrato che in que-sto il martini è più eicace dei principali in-gredienti presi singolarmente. Per motivi tutt’altro che chiari, il mix shakerato ha il doppio dell’eicacia di quello mescolato.

Il cocktail, però, è davvero più buono? C’è chi dice che un martini shakerato con-tiene più frammenti microscopici di ghiac-cio, e questo gli conferisce una consistenza, o “corposità”, più gradevole. Tuttavia, la ragione più probabile della preferenza di Bond sembra essere il fatto che riduce il sa-pore oleoso della vodka ricavata dalle pata-

te, usate all’epoca in cui Ian Fleming scrisse i libri.

Inilare un cucchiaio in una bottiglia aperta di champagne ne conserva le bollicine. Falso. È diicile immaginare co-me un cucchiaio possa intrappolare le bolli-cine, ma ciò che conta sono le prove speri-mentali. Per indagare New Scientist ha chiesto ad alcuni volontari di assaggiare al-la cieca champagne aperto e conservato con e senza cucchiaio e di valutarne l’efer-vescenza rispetto allo champagne appena aperto. Il risultato? Il cucchiaio non ha nes-sun efetto. La spiegazione più verosimile di questo mito è che una bottiglia di champa-gne aperta conserva le bollicine molto più a lungo di quanto ci si aspetti.

Lo champagne ubriaca più del vino. Ve-ro. A quanto pare la diferenza la fanno pro-prio le bollicine. Uno studio pubblicato su Alcohol and Alcoholism ha concluso che lo champagne può essere più inebriante del vino. Il motivo resta un mistero. Forse le bollicine aprono la valvola pilorica dello stomaco permettendo all’alcol di raggiun-gere più in fretta l’intestino e, da lì, il lusso sanguigno. O, forse, le bevande gassate

Agitare o mescolare? Come si cura la sbornia? È meglio bere il vino prima della birra o viceversa? New Scientist dispensa consigli da bar e sfata alcuni miti alcolici

Roger Highield, New Scientist, Gran Bretagna

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fanno aumentare l’assorbimento alcolico stimolando il rivestimento dello stomaco.

Ci si ubriaca prima se si beve con la can-nuccia. Falso. A meno che non si succhi l’alcol più rapidamente di quanto si degluti-sca, usare la cannuccia non ne fa aumenta-re il livello nel sangue più in fretta di altri modi di bere. Questo mito può dipendere dal fatto che spesso i drink serviti con la cannuccia hanno un sapore fruttato che maschera l’alcol, rendendo più probabile un consumo veloce.

Dateci dentro: ci sono molti modi per sconiggere i postumi di una sbornia. Falso. Chiunque speri di neutralizzare gli eccessi di una serata di bisboccia aidando-si ai rimedi del doposbronza resterà deluso. Dopo aver riesaminato le prove dei beneici terapeutici di banane, aspirina, Vegemite, fruttosio, glucosio, carcioi, ichi d’India e dei farmaci a base di tropisetron e acido tol-fenamico, in un articolo pubblicato due an-ni fa rachel Vreeman e Aaron Carroll dell’università dell’Indiana di Indianapolis hanno concluso: “Non ci sono prove scien-tiiche (...) a sostegno di cure o prevenzione eicaci delle sbronze da alcol”. u sdf

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IN BREVE

Genetica Nature Genetics pub-blica le mappe del dna del cacao e della fragolina di bosco. Un gruppo di ricercatori ha studiato il genoma dell’albero del cacao della varietà Criollo (nella foto), una delle più pregiate, ma anche una delle meno resistenti alle malattie. Un altro team ha inve-ce analizzato il dna della fragola selvatica, che si è dimostrato re-lativamente piccolo e adatto agli studi di laboratorio. Energia È stata presentata su Science una macchina che imita le piante e riesce a trasformare i raggi solari in energia chimica. Il prototipo assorbe acqua e ani-dride carbonica e, grazie alla lu-ce, produce idrogeno e monos-sido di carbonio, una miscela che può essere usata come car-burante. La macchina potrebbe diventare un’alternativa ai pan-nelli solari.

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RICERCA

Anno nuovo scienza nuova Che porterà il 2011? Secondo Nature, sarà un anno di grandi traguardi scientiici, a partire dai due chilometri e mezzo di carote di ghiaccio estratte a lu-glio in Groenlandia. L’analisi delle particelle intrappolate nel ghiaccio racconterà la storia pa-leoclimatica dell’ultimo periodo interglaciale, quando la tempe-ratura media mondiale era di 5 gradi in più rispetto a oggi. altre novità riguardano i rapporti tra geni e malattie, mappati dagli studi Gwas: Nature si aspetta che vengano decifrati i meccani-smi alla base delle associazioni tra speciiche regioni di dna e diabete, obesità e malattie me-taboliche. e poi, l’uso delle sta-minali pluripotenti indotte per lo studio di malattie e farmaci, la scoperta di un nuovo pianeta extrasolare simile alla terra, e novità sulla materia oscura dai laboratori del Gran Sasso.

BIOLOGIA

Temperaturaottimale La temperatura corporea dei mammiferi, intorno ai 37 gradi, rappresenta un punto di equili-brio ottimale tra i beneici del calore in termini di protezione da funghi patogeni, la cui so-pravvivenza diminuisce al cre-scere della temperatura, e i costi in termini di pasti necessari per mantenere la colonnina sui 30-40 gradi. L’equilibrio ottimale, precisano i ricercatori della Ye-shiva university, è 36,7 gradi.

I complessi multivitamini-ci possono turbare il sonno?

Molte persone sostengono che le vitamine accorciano il son-no e causano risvegli frequenti nel cuore della notte. Ma gli studi non sono conclusivi. In una ricerca del 2007 sono stati reclutati centinaia di volontari per esaminarne le abitudini notturne, compreso l’uso di vi-tamine e farmaci. Dopo aver controllato età, sesso e altre variabili gli scienziati hanno

scoperto un tasso leggermente più alto di sonno scadente o interrotto in chi assumeva complessi multivitaminici. Non hanno però potuto esclu-dere che chi aveva un sonno più scadente aveva semplice-mente più probabilità di ricor-rere alle vitamine. Il problema, poi, è individuare gli efetti delle singole vitamine. Le ri-cerche più avanzate riguarda-no la vitamina B. assumere vi-tamina B6 prima di andare a letto può causare sogni molto

vividi, in grado di svegliare le persone. La B6 aiuta il corpo a convertire il triptofano in sero-tonina, un ormone che incide sul sonno. altri studi, inine, hanno dimostrato che la vita-mina B12 può incidere sui li-velli di melatonina favorendo l’insonnia.Conclusioni Chi sospetta che i complessi multivitaminici di-sturbino il sonno, farebbe me-glio a prenderli al mattino o molto prima di andare a letto.The New York Times

Davvero? Anahad O’Connor

Le vitamine che tolgono il sonno

La capacità di attribuire agli altri pensieri, emozioni, desideri e credenze è essenziale per le società umane: saper indovinare le intenzioni e i pensieri di chi ci sta accanto è alla base di qualsiasi interazione sociale. I bambini imparano a farlo fra i tre e i quattro anni, quando sviluppano una “teoria

della mente”. Uno studio, pubblicato su Science, indica però che anche i bambini molto piccoli, di soli sette mesi, hanno capacità simili. Già a quell’età capiscono che gli altri possono vedere il mondo in modo diverso da loro. In un nuovo esperimento sono stati mostrati a un gruppo di bambini alcuni cartoni animati con una palla che rotolava avanti e indietro, inendo nascosta dietro un muro. In certi casi un personaggio assisteva a tutta la scena, mentre in altri se ne andava prima che la palla avesse concluso il movimento. Quando il personaggio rientrava e la posizione della palla non coincideva con le sue aspettative, i bambini issavano più a lungo lo schermo. Secondo i ricercatori, i bambini stavano “adottando” il punto di vista del personaggio, rimanendo quindi a loro volta sorpresi dalla posizione della palla. Sarebbe una prova che i bambini, già da piccolissimi, cominciano a separare la loro rappresentazione del mondo da quella degli altri. u

Psicologia

Nei panni degli altri

Science, Stati Uniti

DEMOGRAFIA

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Il diario della Terra-55,6°C

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Indonesia5,7 M

Gran Bretagna3,6 M

Allacciate le cinture e inserite la spina: il 2011 sarà l’anno del-le automobili elettriche, an-nuncia New Scientist. “Dopo una serie di test senza fine, al-cuni inconvenienti tecnici e l’evidente riluttanza dei pro-duttori a trasferire i veicoli elettrici dalla fase di ideazione agli autosaloni”, scrive la rivi-sta, una piccola flotta di auto elettriche è pronta a invadere le strade. A fare da battistrada è la Chevy Volt: ha una batte-ria da 16 chilowattora, un mo-tore da 110 chilowatt (pari a 149 cavalli) e un’autonomia di 60 chilometri. In realtà, quest’auto ha anche un motore a combustione che subentra quando la batteria si scarica, quindi è un’ibrida. Negli Stati Uniti costa 40.280 dollari e il prezzo potrebbe salire ancora. Anche la Nissan , la Ford e la Renault distribuiranno un mo-dello elettrico. La Mitsubishi prevede invece di ampliare l’offerta della piccola i-MiEV, che ha un motore elettrico da 47 chilowatt, con un’autono-mia di 160 chilometri.

Due fattori contribuiscono a dare una spinta alla diffusio-ne dell’auto elettrica: lo svilup-po di nuove batterie ad alta ca-pacità e la crisi dell’industria automobilistica americana che ha spinto i costruttori degli Stati Uniti a sviluppare mac-chine più piccole ed efficienti, capaci di competere con i pro-duttori stranieri. Tuttavia, l’al-to costo dei veicoli elettrici continua a scoraggiarne l’uso: un’utilitaria costa quanto una berlina di lusso a benzina. Gli incentivi fiscali in alcuni paesi dovrebbero aiutare, ma l’auto elettrica si imporrà davvero solo se i prezzi crolleranno.

Verso l’autoelettrica

Ethical living

Alluvioni Tre persone sono morte nelle inondazioni senza precedenti che hanno colpito il Queensland, nel nordest dell’Australia. Sedici località sono state allagate e migliaia di persone sono state costrette a lasciare le loro case. u Dodici persone sono morte nelle allu-vioni causate dalle forti piogge che hanno colpito le Filippine. u Quindici passeggeri di un autobus sono morti negli alla-gamenti nel nord dell’Egitto.

Terremoti Un sisma di ma-gnitudo 6,9 sulla scala Richter ha colpito il centro del Cile, senza causare vittime. Altre scosse sono state registrate in Argentina, nell’ovest della Ci-na, nell’isola indonesiana di Sumatra e in Gran Bretagna.

Freddo Almeno 24 persone sono morte nell’ondata di fred-do che ha colpito il nord dell’India. In Kashmir le tem-perature hanno raggiunto i 23 gradi sotto zero.

Neve Vaste zone dell’est, del centro e dell’ovest degli Stati Uniti sono state interessa-te da alcune tempeste di neve negli ultimi giorni del 2010. u Una itta nevicata ha paralizza-to i trasporti nell’isola di Born-holm, in Danimarca.

Cicloni La tempesta tropicale Omeka si è formata nell’oceano Paciico centrale.

Tornado Sette persone sono morte nel passaggio di alcuni tornado sull’Arkansas, il Missouri e l’Illinois, nel centro degli Stati Uniti.

Valanghe Quattro persone sono morte travolte da una valanga nell’isola di Honshu, in Giappone.

Uccelli La popolazione degli avvoltoi nella riserva naturale di Masai Mara, in Kenya, si è ridotta del 60 per cento. Gli uccelli sarebbero stati avvelenati da un pesticida usato dai contadini. u Cinque-mila itteri alirosse sono morti precipitando sulla cittadina di Beebe, in Arkansas, nella notte del 31 dicembre. Si pensa che siano stati spaventati dai fuochi d’artiicio. Sempre in Arkansas, sono stati trovati centomila pesci morti, di una

stessa specie. S’indaga sulle cause.

Insetti Le popolazioni di quattro grandi specie di bom-bi, importanti impollinatori dei iori, soprattutto dei po-modori, sono diminuite di più del 90 per cento negli ultimi vent’anni negli Stati Uniti. Una forte riduzione è stata registra-ta anche nel resto del mondo, scrive Pnas.

Squali Quattro specie di squalo, vittime della pesca eccessiva, sono state dichiara-te protette dalla Commissione internazionale per la protezio-ne dei tonnidi nell’Atlantico. Ogni anno vengono uccisi 73 milioni di esemplari.

Epidemie La malattia che ha ucciso almeno 48 persone da novembre a oggi in Uganda è stata identiicata come febbre gialla. u L’ultimo bilancio uf-iciale delle vittime del colera ad Haiti è di 3.333 morti. I casi registrati sono 148.787.

Le specie a rischioGli squali e le specie correlate sulla lista rossa dell’Unione internazionale per la conservazione della Natura. Alcune specie si sono ridotte del 90 per cento

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u Le Bahamas sono uno stato dell’America Centrale formato da un arcipelago di centinaia di isole e isolette situate nell’ocea-no Atlantico, a est della Florida. Le isole sono le parti emerse di una serie di piattaforme compo-ste soprattutto da sedimenti di carbonato di calcio e circondate da coralli. La piattaforma più vasta è il Great Bahama Bank, che ospita l’isola di Andros, la più grande dell’arcipelago. I se-dimenti sono stati prodotti dalla proliferazione di alghe calcaree e dai resti di conchiglie e organi-smi vertebrati che vivono sul fondale marino. Con il passare

delle ere geologiche, i sedimen-ti si sono consolidati e hanno formato rocce sedimentarie cal-care.

Questa foto è stata scattata il 27 novembre 2010 da un astro-nauta della Spedizione 26 della Stazione spaziale internaziona-le. Mostra i canali e le piane di maree vicino a Sandy Cay, sul versante occidentale di Long Island e lungo il margine orien-tale del Great Bahama Bank. Il colore marrone domina dove af-iora il suolo e la vegetazione è più itta. A nord di Sandy Cay, si vede una piana di marea bianco sporco formata da sedimenti

carbonatici. Le zone verdi e blu chiaro indicano l’acqua bassa sulle piane di marea. Il lusso della marea si fa largo tra la ter-ra emersa, formando canali re-lativamente profondi tra i sedi-menti. Questi canali e le zone a sud dell’isola sono di un blu in-tenso che indica acque più pro-fonde.

Sulle piattaforme spesso l’acqua non raggiunge i dieci metri di profondità, mentre nel-le aree circostanti ci sono fosse molto profonde, di ambiente oceanico, che possono raggiun-gere i quattromila metri. – William L. Stefanov

Questa immagine mostra i canali e le piane di marea di una delle isole dell’arci-pelago delle Bahamas.

Il pianeta visto dallo spazio

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Economia e lavoro

Il 5 aprile 2004 a Stavanger c’è stata la rapina più spettacolare nella storia della Norvegia. Una banda ha fatto irruzione nella sede di una grande

banca e ha portato via 57,4 milioni di corone (7,3 milioni di euro). Durante la fuga i rapi­natori hanno ucciso un poliziotto. Il ricordo di questo episodio è così vivo in Norvegia che la sua trasposizione cinematograica è stata un successo. Il ilm, inoltre, ha portato acqua al mulino di Jorunn Berland, la rap­presentante delle aziende inanziarie nor­vegesi. Berland sostiene che ormai i con­tanti sono un relitto del passato, buono solo per attirare i delinquenti. L’alternativa mi­gliore, dice, è abolire banconote e monete.

Commercio al dettaglioNei paesi scandinavi non sarebbe un’im­presa azzardata. Già oggi i nordeuropei so­no i maggiori utenti di carte di credito del mondo. Secondo un rapporto della società di ricerche di mercato Laferty Group, ogni danese efettua circa 166 pagamenti all’an­no con la carta di credito, contro una media mondiale di 28. In nessun’altra zona d’Eu­ropa, inoltre, si trasferiscono tanti soldi con questo sistema: Laferty Group ha registra­to una media di 12.947 dollari all’anno per la Danimarca, di 8.646 per la Norvegia e 6.187 dollari per la Svezia. In Scandinavia i paga­menti con la carta si concentrano sul com­mercio al dettaglio. In alcuni casi si arriva al 95 per cento delle transazioni: dal panino comprato al forno sotto casa ino alla birra bevuta dopo il lavoro.

La Germania è lontana mille miglia da tutti questi sviluppi. Ogni tedesco spende in media 5.444 dollari all’anno con la carta di credito, e in gran parte per gli acquisti on­

line. Secondo la Bundesbank, nel paese si usano i contanti per più del 75 per cento di tutti i pagamenti. E per quanto riguarda la quantità del denaro speso, inoltre, in Ger­mania i contanti coprono molto più della metà di tutte le transazioni.

Di recente Jorunn Berland è andata a Stoccolma, dove i suoi colleghi svedesi han­no lanciato la campagna “Basta contanti”. Il loro sito web è aggiornato costantemente con notizie sui progressi della lotta contro monete e banconote. Si leggono memora­bili frasi a efetto: “I contanti ormai servono solo alle nonne e ai rapinatori” oppure “Una banconota da 500 corone persa non si recu­pera più”. Alle aziende inanziarie si sono uniti anche il sindacato della polizia e l’as­sociazione dei commercianti al dettaglio, che difonde questi messaggi stampandoli perino su sottobicchieri e cartoline.

Ma più ragionevoli e convincenti per la causa sono i dati di uno studio della banca centrale svedese: ogni pagamento in con­tanti produce in media costi di transazione pari a 4,6 corone, mentre per i pagamenti con carta di credito la somma ammonta a sole 3 corone. Invece di imporre una tassa sull’uso della carta, quindi, lo studio racco­manda agli istituti di credito di imporre una

Un mondosenza contanti

In Scandinavia si usa sempre di più la carta di credito. Presto le persone potrebbero smettere di usare banconote e monete. E non sembrano preoccuparsi dei rischi per la loro privacy

Sebastian Balzter, Frankfurter Allgemeine Zeitung, Germania

tarifa aggiuntiva su ogni prelievo di con­tanti dai bancomat. La banca centrale nor­vegese, inoltre, ha intenzione di ritirare dalla circolazione le monete da 50 øre (mez­za corona) e la banconota da mille corone.

In Svezia e in Norvegia i sindacati moti­vano il loro impegno nella battaglia contro i contanti richiamandosi alla questione della sicurezza. Il lavoro nero e molte pratiche per evadere le tasse, dicono, subirebbero un duro colpo in una società senza banco­note e monete. “Quest’estate ci sono state moltissime rapine”, aggiunge Jorunn Ber­land, anche se nessuna è stata drammatica come quella di Stavanger. “Le vittime non sono state solo i bancari, ma anche gli auti­sti di autobus, i cassieri delle stazioni di ri­fornimento e i venditori dei chioschi”.

Chi vuole abolire il denaro contante, in­fine, può fare affidamento sull’atteggia­mento positivo degli scandinavi nei con­fronti delle innovazioni tecnologiche: nel Nordeuropa, per esempio, nessuno ha pau­ra di pagare con un sms. Sugli autobus di Stoccolma lo fanno in tanti. E in Scandina­via sono relativamente contenuti anche il timore di poter essere sempre sorvegliati e la preoccupazione per i possibili rischi di violazione della privacy. u fp

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Borås, Svezia

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Gli orari lessibili e le nuove tecnologie ofrono a molte persone la possibilità di coniugare il lavoro e la famiglia. “Certo”, scrive Brand Eins, “la tendenza riguarda soprattutto i dipendenti che svolgono mansioni intellettuali in grandi aziende, non chi lavora in fabbrica o in un piccolo negozi0”. Ma secondo

alcuni studi, oggi l’80 per cento delle imprese tedesche (nel 2003 erano il 46 per cento) ritiene importante la Familienfreundlichkeit, cioè attuare politiche che facilitino ai dipendenti i loro impegni in famiglia. Le aziende, sottolinea il mensile, sanno bene che per il 90 per cento dei lavoratori tedeschi tra i 25 e i 39 anni la possibilità di occuparsi dei loro igli conta ormai quanto lo stipendio. Un altro elemento decisivo è l’oferta di asili nido: nella Germania occidentale gli asili nido sono aumentati del 75 per cento negli ultimi quattro anni. Ma, a quanto pare, non bastano, visto che la ministra della famiglia Kristina Schröder vuole investire quattro miliardi di euro perché entro il 2013 un bambino tedesco su tre abbia il posto assicurato in un asilo nido. u

Germania

Afari di famiglia

Brand Eins, Germania

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terrorizzati da Wikileaks

Il 29 novembre Julian Assange ha annunciato per l’inizio del 2011 una serie di scottanti rive-lazioni su una grande banca sta-tunitense. I sospetti sono subito caduti su Bank of America: un anno prima, infatti, il fondatore di Wikileaks aveva detto di pos-sedere cinque gigabyte di dati provenienti dall’hard disk di un manager dell’istituto. “Da allo-ra”, scrive il New York Times, “la banca passa in rassegna mi-gliaia di documenti per capire cosa abbia in mano Assange e come l’abbia avuto. Un team in-terno di esperti di inanza, in-formatici e avvocati è aiancato dalla società di consulenza Booz Allen Hamilton e da diver-si studi legali. L’amministratore delegato Brian Moynihan (nella foto) viene aggiornato costante-mente”. Finora, però, gli esperti non hanno individuato i docu-menti e non sono sicuri che sia-no usciti dalla banca. Assange potrebbe averli avuti da istitu-zioni a cui Bank of America ha fornito dati, come le autorità di borsa o i magistrati che hanno indagato di recente sulla banca.

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Parte il greggio per la Cina

Il 2 gennaio è entrato in funzio-ne l’oleodotto che nei prossimi vent’anni trasporterà 300mila barili al giorno di greggio russo dalla città siberiana di Skovoro-dino a Daqing, in Cina. L’oleo-dotto, spiega il quotidiano onli-ne The Diplomat, è una devia-zione dell’eastern siberia-paci-ic ocean oil pipeline (espo), l’arteria progettata per esporta-re il petrolio russo nell’est asiati-co. entro il 2014 sarà completa-to il tratto tra Skovorodino e Kozmino per raggiungere anche la Corea del Sud e il Giappone.

in breve

Internet La banca d’afari Goldman Sachs e il gruppo rus-so Digital Sky hanno investito 500 milioni di dollari in Facebo-ok. Il capitale del sito è stato va-lutato in 50 miliardi di dollari, ben oltre quello di colossi come eBay e time Warner.

il numero Tito Boeri

5,2 per cento

Il protocollo di Kyoto, irmato nel 1997 ed entrato in vigore nel 2005, impegna i paesi che hanno aderito a ridurre in me-dia le emissioni di gas serra del 5,2 per cento rispetto al 1990. L’obiettivo deve essere raggiunto in cinque anni, tra il 2008 e il 2012.

L’incontro di dicembre a Cancún, in Messico, è arrivato a un anno dal fallimento del vertice di Copenaghen. A Cancún, come osserva Ales-sandro Lanza su lavoce.info, è stato evitato il fallimento dei-nitivo del negoziato. C’è anco-ra la speranza di costruire

qualcosa di concreto in futuro, ma i 194 paesi presenti non hanno raggiunto un accordo globale e vincolante. In pratica gli impegni per la riduzione delle emissioni sono stati ri-messi in un quadro legale più corretto, ma le riduzioni non saranno suicienti per mante-nere il riscaldamento globale sotto i 2 gradi, la soglia oltre la quale le variazioni climatiche potrebbero essere irreversibili.

Il documento riconosce la necessità di ridurre le emissio-ni di gas a efetto serra oltre gli obiettivi di Kyoto, ma non po-ne nessun impegno vincolan-

te. Si parla di riduzioni com-prese tra il 25 e il 40 per cento entro il 2020, come raccoman-dato dal Gruppo intergoverna-tivo di esperti sul riscaldamen-to globale (Ipcc).

Il testo approvato invita an-che i paesi che hanno aderito al protocollo di Kyoto a rivede-re le loro riduzioni di anidride carbonica. e, sempre secondo il documento, i paesi sotto-scrittori devono completare il loro lavoro e adottare i nuovi obiettivi il più presto possibile. Ma non basteranno le afer-mazioni di principio a vincola-re i paesi. u

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Se potessi avere un solo desiderio per l’anno nuovo, vorrei avere gli occhi da gatto.

Così farei prendere un colpo a tutti quelli che incontro quando vado in ufficio.

Non solo ho appena sprecato un ottimo desiderio… Ora devo cercare una lettiera piena di sabbia per andare di corsa a fare

i miei bisogni.

TED, NE ABBIAMO PRESO UNO! CHE DICI, LO FINISCO A COLPI DI PALA? LO RIDUCO IN POLTIGLIA?

BARBARA, NON DIRE SCEMENZE.AIUTAMI A BUTTARLO NEL FIUME,SI STA AGITANDO QUI DENTRO.

non posso credere che il 2010 sia finito.è stato in assoluto

il mio annomigliore.

ma non è lo stesso anno in cui diciassette ragazze ti hanno mollato, sei stato rapito dai pirati somali e un clown del rodeo ti ha fatto

pipì addosso?

è vero, ma quelle ragazze non erano immaginarie,

i miei genitori alla fine hanno pagato il riscatto e il clown

non mi ha costrettoa berla.

se un Dalmatacon la rabbia non mi morderà anche l’altro

testicolo, il 2011 sarà un anno indimenticabile!

triste...

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Rob Brezsny

Internazionale 879 | 7 gennaio 2011 97

doscopico mix di tipi umani e di inluenze naturali ti farà molto bene.

VERGINE

Quando fondai il mio grup-po rock, i World Entertain-

ment War, ero guidato da una vi-sione di due voci soliste, la mia e quella di un’altra persona. Alla i-ne scelsi una donna di nome Dar-by Gould. Io ero un cantante ap-pena decente, ma lei aveva un ta-lento vero. Sapevo che lavorare in-sieme mi avrebbe permesso di da-re il massimo e di scrivere canzoni ambiziose che non ero in grado di cantare da solo. Sono soddisfatto di come ha funzionato quella stra-tegia. Te la senti di afrontare una sida simile nel 2011, Vergine? Per te sarà l’anno della collaborazio-ne. Perché non metterti in condi-zione di superare i limiti che hai quando agisci da solo?

BILANCIA

L’Africa si sta spaccando per dare origine a un nuovo

oceano. Il processo richiederà die-ci milioni di anni, ma il primo se-gnale si è visto nel 2005, quando in Etiopia si è aperta una crepa di una cinquantina di chilometri. Al-la ine, dicono i geologi, la crepa diventerà enorme e si riempirà di acqua. Nel 2011 mi aspetto uno sviluppo metaforicamente para-gonabile per te, Bilancia: la nasci-ta quasi impercettibile ma colos-sale di un nuovo “oceano” di cui godrai e dal quale imparerai per molti anni a venire.

SCORPIONE

Nel 1967 gli Stati Uniti ave-vano 31.225 testate nuclea-

ri. Nel 2010 erano 5.113. Washing-ton ha intenzione di ridurle ulte-riormente, ino ad arrivare a circa tremila entro il 2021. Il prossimo anno, Scorpione, mi piacerebbe che ti lasciassi ispirare da questo esempio per cominciare ad abbas-sare i tuoi livelli di rabbia e ag-gressività. Non dovrai rinunciare completamente alla tua capacità di combattere tutti quelli che non sono d’accordo con te e tutto quel-lo che non ti piace, basterebbe che la riducessi un po’. Sono sicuro che te ne rimarrà a suicienza.

SAGITTARIO

“Il cuore è sempre inesper-to”, diceva Thoreau. Il ilo-

sofo francese pensava che la no-stra natura emotiva fosse eterna-mente innocente, che per quanto sapere accumuliamo, la tristezza, la lussuria, la rabbia o la gioia ci colpiscono sempre come se fosse la prima volta. Ma è proprio così? Non è forse vero che negli anni hai acquisito maggiore consapevolez-za delle tue reazioni, e di conse-guenza le hai modiicate? Non so-no d’accordo con Thoreau. Io dico che per chi vuole coltivare l’intelli-genza emotiva, il cuore deve esse-re in grado di fare esperienza. Che cosa ne pensi, Sagittario? Se sei della mia stessa opinione, il 2011 educherà e maturerà il tuo cuore come non è mai successo prima.

ACQUARIO

In passato poche mostre ca-nine permettevano ai ba-

stardi di partecipare. Accettavano solo le razze pure. Ma la situazione sta cambiando, perché l’American kennel club ha aperto una nuova categoria per i meticci. Non saran-no giudicati in base alle caratteri-stiche di una razza speciica, ma in base al loro talento naturale. Que-sto cambiamento rispecchia uno sviluppo paragonabile nel tuo mondo, Acquario. Nel 2011 ti sarà più facile trovare il successo sem-plicemente rimanendo chiazzato, maculato e variegato come sei.

PESCI

“Tutti i tuoi desideri sanno dove andare”, scrive il poe-

ta Nick Piombino, “ma devi dirgli di aprire gli occhi.” Questo è uno dei tuoi grandi compiti del 2011, Pesci: assicurarti che i tuoi desideri tengano gli occhi ben aperti. Non è facile come potrebbe sembrare. A volte i tuoi desideri sono così afa-scinati da fantasie ossessive, così distratti dalle storie che turbinano nella tua immaginazione, da non vedere quello che hanno davanti. Devi parlare con loro teneramente e con pazienza, come faresti con un cucciolo, convincendoli ad ave-re iducia nel fatto che la vita por-terà benedizioni più interessanti e utili di qualsiasi cosa la fantasia possa creare.

L’oroscopoCAPRICORNO

“Dobbiamo attraversare tanta sporcizia e tanta ipocrisia prima di arrivare a casa”, ha scritto Herman Hesse. “E non abbiamo nessuno che ci guidi. La nostra

unica guida è la nostalgia”. Questa è la cattiva notizia, Capricorno. La buona notizia, secondo la mia analisi, è che il 2011 potrebbe essere l’anno in cui la tua nostalgia ti spingerà ino a casa. Per ottenere il migliore dei risultati, tieni a mente questo consiglio: per trarre il massimo beneicio dalla nostalgia, non devi reprimerla. Se la sentirai profondamente, come un dolore bruciante e lacerante, sarà in grado di guidarti ino a casa.

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COMPITI PER TUTTI

Mandami una lista dei tuoi cinque buoni

propositi per il nuovo anno.

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ARIETE

“Un uomo può raggiungere lo scopo della sua vita tro-

vando una domanda alla quale non sa rispondere e tentando un’impresa che non può realizza-re”, pensava lo scrittore Oliver Wendell Holmes nell’ottocento. Un consiglio del genere avrebbe potuto benissimo dispensarlo un santo selvatico che vive in una grotta nel bosco. E adesso passia-mo a te, Ariete, giusto in tempo per l’inizio di quella che potrebbe es-sere la tua annata più straordinaria del decennio. Secondo il mio pare-re di astrologo, sei pronto a diven-tare un intenditore di misteri che puriicano la mente e nutrono l’anima, un temerario dello spirito che insegue sogni apparentemen-te impossibili, un feroce adepto della saggia incertezza innamora-to di insegnamenti imprevedibili.

TORO

Da quale confusa baraonda vorresti allontanarti per

non tornare mai più? Quali lezioni hai imparato così bene che ormai potresti andare oltre? Quale pro-cesso di guarigione a lungo termi-ne vuoi concludere per cominciare inalmente la fase di costruzione? Sono ottime domande da porti se hai intenzione di pianiicare la tua vita nei prossimi sei mesi.

GEMELLI

Lo stretto di Gibilterra è l’angusto braccio di mare tra

l’Europa e l’Africa dove il Mediter-raneo conluisce nell’oceano Atlantico. Secondo la leggenda, anticamente sulla roccia che do-mina questo passaggio era scritta la frase latina “non plus ultra”. Era un monito per i marinai a non av-

venturarsi nelle acque selvagge ol-tre lo stretto. In seguito, quell’invi-to alla cautela sarebbe diventato inutile. Con una nave robusta, un equipaggio esperto, una buona preparazione e le nuove conoscen-ze basate sull’esperienza degli al-tri, avventurarsi oltre il “non plus ultra” non era più pericoloso. Spe-ro che tu lo prenda come spunto per il 2011, Gemelli.

CANCRO

I palloni utilizzati durante i Mondiali del 2010 hanno

creato molti problemi ai giocatori. Li trovavano diicili da controlla-re. La loro traiettoria era impreve-dibile. Te lo sto ricordando per metterti in guardia, Cancerino. Nel 2011 prenderai parte al tuo equivalente metaforico dei Mon-diali di calcio, perciò sarà fonda-mentale avere gli strumenti e gli accessori migliori. Non puoi per-metterti di giocare con palle che non rispondono con precisione al-le tue capacità.

LEONE

Il concetto di diversità bio-logica si riferisce alla varie-

tà di forme di vita in uno speciico ambiente, mentre la diversità cul-turale misura la ricchezza delle forme di espressione sociale. E poi c’è la diversità bioculturale, che le misura entrambe. Prova a indovinare quali sono i luoghi del pianeta dove la diversità biocultu-rale è più alta. Sono l’Indonesia, la Malesia, la Melanesia, il bacino amazzonico e l’Africa centrale. Mi piacerebbe che nel 2011 tu avessi la possibilità di immergerti in am-bienti simili a questi, Leone. Se non ci riesci, trova la cosa che ci si avvicina di più. Esporti a un calei-

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98 Internazionale 879 | 7 gennaio 2011

L’ultima

Khodorkovskij condannato a 14 anni di carcere.

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“brucerà un po’”.

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sicurezza negli aeroporti.

Il nuovo anno festeggiato in tutto il mondo. “buonasera, sono venuto per i fuochi d’artiicio”.

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Le regole Sushi in pausa pranzo1 preparati a staccare almeno quattro buoni pasto: una porzione piccola di sushi roll non ha mai sfamato nessuno. 2. non fare il purista e accontentati anche di un giapponese-cinese. 3. così avrai la possibilità di chiudere in bellezza con dei ravioli al vapore. 4. abbandona i vari c6, b4 e sforzati di chiamare i piatti con il loro nome. 5. Il primo che dice “ma non era meglio una bella bistecca?”è costretto a mangiare insalata in busta per il resto del mese. [email protected]

ancora un miracolo della tecnologia: il 1 gennaio la sveglia dell’iphone non ha funzionato. “come avrà capito

che non sarei riuscito a svegliarmi?!”.

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