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Intervista a Andrea Zanzotto di Francesco Carbognin e Glenn Mott, da Poetiche 3/2004 Mucchi Ed

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Intervista a Andrea Zanzotto di Francesco Carbognin e Glenn Mott, da Poetiche 3/2004 Mucchi Ed.

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Poetiche, fascicolo 3/2004

FRANCESCO CARBOGNIN - GLENN Morr

Intervista a Andrea Zanzotto

:;come

ermetico anomalo lei è stato all’inizio del-r la sua carriera etichettato dalla maggior parteJ dei critici, che riconosceva, soprattutto in Die

tro il paesaggio, clamorose, addirittura scandalose(per chi esordiva in un clima letterario, il «Neoreali

( smo’), affatto diverso) continuità con la precedenteÌ stagione ermetica, nonché una vicinanza con i modelli - tanto italiani quanto europei - che avevano in-fluenzato la poesia del primo Novecento (con unapredilezione semmai delfilone ‘oscuro’ e ‘visionario’).Un rapido confronto tra giudizi critici espressi da al-cuni prestigiosi interpreti di Dietro il paesaggio (Bo,Mengaldo, Spagnoletti, Milone, Giacomini. . .), permet

I te infatti di verificare la quasi unanimità del propendere per la matrice ermetica, in rapporto alla sua fa-

ìse d’esordio. Giudicare Dietro il paesaggio sulla ha-se del suo grado di realismo, è però ad alcuni (a

j Bandini, per esempio) parso un approccio ‘neorealii stico’ al problema. Da qui muove l’ipotesi di una let

tura più propensa a contestualizzare l’esperimento.

costituito da Dietro il paesaggio all’interno dell’interopercorso poetico da lei seguito nell’arco di più di cm-quant’anni di lavoro: un percorso che ripropone con

j ‘fedeltà ossessiva’ il tema della ‘finzione’, o, meglio,, della ‘convenzione ‘ come necessaria impasse imbocca

ta da una poesia che si auto-interroga sulle possibilità4 di esistenza dellaparolapoetica, sulla sua capacità ditestimoniare l’esistenza del soggetto. D’altra parte,

& proprio nel proemio di Dietro il paesaggio il soggettoi lirico viene da lei qualificato come figura non credut ta»: è plausibile, insomma, sostenere che nel i 951‘

esistesse un progetto sotteso al suo non voler rompe-

I re con l’esperienza ermetica, riconducibile, magari, al

un discorso più generale sul ‘convenzionale’?

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Posso rispondere che era così: io sentivo tuttele scuole dell’anteguerra come ancora non compie-tamente superate. Permaneva una loro ‘scorza’,chiamiamola in questo modo, ancora attiva, viva,dura a morire . Queste scuole si erano formate tral’inizio del Novecento e il primo conflitto, e i pro-biemi posti allora rimanevano tali e quali anche neisecondo dopoguerra. Nei mondo delle lettere si avvertiva, finita la seconda guerra mondiale, la mancanza di qualcosa di veramente nuovo, di veramente esplosivo, in un certo senso; ci si rendeva contodi muoversi sopra un piano convenzionale. In mancanza di meglio, il postermetismo poteva costituireun punto di partenza.

Ma nel mio lavoro c’era, nello stesso tempo,una vena di ironia, che avevo fatto filtrare in varieforme. La presentazione fatta da Ungaretti a Dietroil paesaggio teneva ben conto di questo fatto.L’ironia in questione aveva per bersaglio il contemporaneo «neorealismo»: pensavo che era giusto chefosse predominante, certo, questo neorealismo, mache non fosse, in verità, né nuovo né realismo. Questa nuova scuola mancava infatti di una vera realtà, rappresentando piuttosto una convenzione so-praffattiva, troppo legata alle burocrazie politiche.La supposta solidità del neorealismo non dovevaessere tenuta in gran conto, secondo me; d’altraparte, la nascita di questa scuola veniva incontro auna serie di emergenze e di necessità indiscutibiimente reali: occorreva, infatti, parlare anche direttamente dei gravissimi problemi sociali di allora (edi sempre).

Nel neorealismo tradizionale appariva tuttoquesto, ma c’era qualcosa di molto più grave, nascosto, e che esplodeva attraverso le suggestioni deicomunismo ufficiale. Ma il neorealismo non avevameno buone ragioni di esistere. Io gli riconoscevouna verità che non poteva essere ignorata, che do-veva essere affrontata, ma assolutamente non inquei modo, a mio parere troppo scoperto e ‘fiducioso,.

Ricordo il Convegno di San Pellegrino Terme,anno 1954, in cui autori già affermati presentavanoautori infieri. Si concluse in una bagarre, perché lepremesse per tutti erano identiche: dopo Hiroshimae Auschwitz, cosa si poteva ancor dire? La parte più‘stalinista’, quella più legata al PCI ufficiale, presentava una specie di ottimismo obbligatorio. Io mi so-no presentato, invece, come uno che accettava lepremesse — cioè che qualcosa fosse accaduto, qualcosa che aveva reso il passato irrimediabilmentesuperato, anche dal punto di vista letterario e poetico - ma, nello stesso tempo, esigevo che si tenesseconto anche della componente esistenzialista, cheera più legata a esperienze di angosce inevitabili, eper questo più personalizzate: poteva sembrare cheio proponessi una soluzione individualista, perchéun’angoscia di massa non era ammessa, in un certosenso. Sostenevo che molto di quello che si stavafacendo fuori dal neorealismo parlava in fondo dellestesse cose, ma cercando una via più appropriata:una via che ancora non sussisteva, perché ci si appoggiava, per il momento, soltanto su quanto si erafatto nei periodo precedente. Da notare che c’eranostati parecchi poeti che erano partiti da queste me-desime premesse deil’entre-cleux-guerres, e che neldopoguerra erano cambiati: il caso più clamoroso ècertamente rappresentato da Quasimodo. Un cambiamento dei genere si trova persino nello stessoUngaretti, sebbene non sia stato avvertito come tale. Per quanto riguarda i giovani, c’erano numerosipoeti promettenti. La Ragazza Carla di Pagliarani,per esempio, è un’opera molto bella; stranamente,ha finito per apparire inquadrata proprio nel famoso gruppo dei ‘primi cinque’ della neoavanguardia.Ungaretti aveva capito benissimo queste cose. Ioandavo dicendo che, dopotutto, anche se io fossistato considerato quale l’ultimo degli ermetici, sa-rebbe stata comunque una bella posizione: dalmomento che ci doveva comunque essere un ultimo.Mi ero paragonato a Jacopo Vittoreili, che era statol’ultimo degli Arcadi, un secolo prima (era veneto

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anche lui, di Bassano); ma qualcuno non ha capitoquesta boutade. Ungaretti sì...

Le premesse erano le stesse, clifronte alla crisivissuta dalla poesia nell’immediato dopoguerra ognipossibile soluzione le appariva convenzionale. Maqualcosa di nuovo ci deve essere pur stato.

Ricordo Monterosso, e soprattutto Scotellaro,che rappresenta un ottimo ‘anello di congiunzione’,un futuro collegato a uno strato di ascendenze fuoridal neorealismo; Scotellaro era poi facilmente rapportabile a un personaggio molto importante, Sinisgalli, il quale, pur partendo da fonti ermetiche, eraarrivato a includere nella sua poesia i problemi del-la scienza e della tecnica che stavano irrompendo:la vera, unica, grande novità era infatti costituitadalla scienza, in quanto aveva iniziato a procedereper forza propria. Viste le premesse, occorreva perme stare in guardia anche da questa forza: più checonsiderare la scienza gloriosamente, percepirla pericolosamente.

Il rischio, da me fortemente avvertito, che anche la scienza e la tecnica più ‘volenterose’ nel fareil bene degenerassero, visto che non c’era una chiara coscienza dei pericoli che comportavano, mi havietato anche questa strada. Non potevo, in nessunmodo, uscire da questo recinto di convenzione: siera necessariamente costretti a essere convenzionali, anche perché era entrato in scena il paradossoatomico. La convenzionalità era perfettamente e-spressa dal fatto che si denominavano armi «con-venzionali» le armi che si potevano usare, ponendodietro uno schermo, per non vederle, le altre verearmi, quelle atomiche, dette, pertanto, (<non con-venzionali». Ma se la vera arma, quella che decidetutto, era l’arma atomica, essa era pure falsa, nonpotendosi adoperare. Ne risultava, così, una sortadi chiasmo: ciò che è vero, è falso, perché non sipuò adoperare, proprio perché vero. Per contro, lealtre armi, quelle che pur uccidendo non provoca-

vano il disastro totale , si potevano anche chiamare«convenzionali», anzi, peggio ancora: «armi da teatro«. Come ho esemplificato in altra occasione, eraper me ben chiara la consapevolezza di quanto di-pingere una rosa prima dell’atomica fosse una cosa,mentre fosse tutt’altra cosa il dipingerla dopo...Tutti i gradi della realtà si alterano a causa di questo elemento.

Convenzionalità nella catalogazione delle armiche si rovescia in convenzionalità delle possibili so-luzioni stilistiche: in questo senso, Dietro il paesaggio potrebbe essere anche letta come un’opera di de-nuncia, equiparando una natura fortemente liricizzata, iperletteraria, agli «artifici del fosforo», ai baglioridell’esplosione nucleare. 11 non sapere niente di ciò acui avrebbe portato la crescita incontrollata dellascienza e della tecnica dopo l’atomica, il percepire lascienza stessa nei termini di un pericolo imminente,a quali soluzioni stilistiche indirizzavano il suo mododi scrivere?

Io mi ero confermato nell’idea del pericolo costante rappresentato dall’evoluzione incontrollatadella scienza anche perché, nel 1952, due anniprima, cioé, del convegno di 5. Pellegrino, si era ve-rificata la prima esplosione termonucleare; ma gliesperimenti erano cominciati già nel 1946. Nel1954 non moltissimi si erano accorti dell’avvenutocambiamento , di quanta differenza intercorresse,cioè, tra la vecchia bomba atomica e la nuova bomba termonucleare. L’atollo di Bikini, dove fu fattaesplodere , era stato immediatamente esorcizzato,perché il suo nome era stato associato a un costume da bagno: il vero, insomma, veniva ancora unavolta mascherato. La probabilità, sempre più verificabile, di un’istantanea distruzione del mondo, do-veva ripercuotersi, dunque , anche sugli stili degliscrittori. Per quanto mi riguarda, l’emergenza rappresentata dall’evoluzione della scienza e il pericoloda me avvertito come sempre incombente, proprio

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in quanto celato, premevano nella direzione del tentativo di un costante controllo da esercitarsi nelcorso dell’atto stesso dello scrivere. Ma persino ilmetalinguaggio che andavo sperimentando, soprattutto con Vocativo, percepito come sempre più ne-cessano mezzo di interrogazione e controllo, dichiarimento su ciò che stavo cercando di dire, e sulmodo in cui lo stavo dicendo, era sempre sul puntodi precipitare all’indietro, con il risultato di non essere più percepito. Lo stesso fenomeno si verificavaa livello sociale, laddove masse sempre più larghegiungevano ad avvertire come proprio un linguaggioinizialmente limitato al singolo gruppo, o addirittura falso per principio: la pubblicità.

Così il metalinguaggio, una soluzione che vi siera prospettivizzata come plausibile in relazione allacrisi, non era più percepibile come tale. In ogni casocercavano di muoversi molti gruppi tra la metà de-gli anni ‘50 e il 1963, anno di enorme importanzastorica.

Le prime opere che lei ha scritto immediata-mente prima e dopo il suddetto Convegno di S. Pelle-grino, in particolare Dietro il paesaggio del i 951 eVocativo del i 957, diverranno bersagli preferenzialidi un tipo di autocritica tipicamente zanzottiano, chea partire da La beltà del i 968 si prolunga sino a Me-teo e Sovrimpressioni. Perché questo continuo ritorno? Si tratta di un ripensamento o di un modo - perlei, forse, il più credibile - per una qualche loro rifunzionalizzazione? Che cosa resiste di queste opere neltempo?

Le mie prime opere vengono parzialmente cri-ticate nelle opere successive . Venivano certamentedenunciate come incoerenti: nello stesso tempo, eproprio nella loro ripresa, la loro incoerenza nonveniva scartata fino al punto da non pubblicare più,quanto, piuttosto, accettata come primo gradinoverso una convenzionalità ‘tollerabile’, in grado dimantenere una possibilità di espressione, una mi-

nima possibilità di comunicazione. Microgeografia emicrostoria possiedono, anche in questo senso,un’importanza fondamentale. Io ho finito per nonmuovermi più da Pieve. 1 la città quella che fermenta; la campagna, i suoi alberi, le sue piante, re-stano sempre, al contrario, un rifugio di tipo virgiliano. La natura rappresentata nelle mie prime opere, come la campagna in cui ho sempre vissuto, costituiva per me un’opposizione alle lacerazioni dellastoria, ai contrasti tra culture : un punto privilegiatoda cui osservare l’uomo, la sua evoluzione, una di-mensione che giungeva a ri-assumere persino lascienza, in quanto aveva di positivo, inserendo iltutto in un contesto in cui le stesse opposizioni per-cepite potessero essere superate. Questo vale finoalle enormi mutazioni degli anni recenti.

Occorre aggiungere che il crollo della mia fedein una cultura di tipo monumentale si verificò molto presto, più o meno a dieci anni, quando, nel corso di una visita alla biblioteca di Treviso, mi si disseche possedeva centomila libri. E non era la borgesiana biblioteca di Babele, era una biblioteca diprovincia.

Questo avvenimento mi rivelava che ancheleggendo per tutta la vita, non sarei arrivato a undecimo della biblioteca di Treviso e mi ha allontana-to da ogni velleità di tipo universitario. Relativa-mente alla mia mania delle lingue straniere, per e-sempio, io ho detto più volte di sentirmi un «botanico di grammatiche, piuttosto che capace di esprimermi nelle varie lingue. Del resto, il tempo umanoè brevissimo rispetto all’immensità di ciò di cui sipotrebbe venire a conoscenza...

Alle scuole medie si era, diciamo, trilingui!Tutti si parlava il dialetto: ma il dialetto non potevaessere parlato nelle situazioni ufficiali, come ascuola, dove era d’obbligo l’italiano. Tanto che alleelementari si metteva un anello a chi parlava il dia-letto anche nella scuola. C’era poi il francese, alloralingua universale. Questi fattori costituivano unabase abbastanza omogenea, trattandosi di lingue

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neolatine . Dell’inglese si diceva invece che fosseuna lingua da commercianti, come gli Inglesi e gliAmericani sostanzialmente erano considerati: e come tali erano studiati soltanto dai futuri ragionieri;però tutti dovevano conoscere più o meno varie o-pere di Shakespeare tradotte. C’era addirittura unpersonaggio, al Collegio Balbi, che così beffeggiavagli studenti di francese e tedesco: “perdetevi con ilfrancese , e vedrete cosa succederà: chi non sapràl’inglese sarà reietto” e completava, quasi per elogiare l’autorevolezza dell’inglese: “l’inglese è il cinesed’Europa.” Non potendo imparare molte lingue, imparai una quantità di poesie nel testo, a memoria:inglese, greco, latino, tedesco (a parte francese eitaliano) . Il mio avvicinamento alle lingue straniereè stato sempre mediato dal dialetto o dalla poesia.Incombeva persino l’ebraico, dato che nei collegi re-ligiosi si trovavano preti più evoluti che avvertivanodell’importanza di impararlo, per una corretta esegesi del testo biblico.

Come riusciva a coniugare il problema della

frantumazione linguistica con l’idea di una poesia-convenzione in cui le opposizioni tra lingue e culturediverse riuscissero a essere superate?

L’enigma della pluralità delle lingue, dellaformazione delle lingue , delle parentele linguistiche,delle etimologie, mi ha sempre interessato. Io erosempre alla ricerca di etimologie, anche di quellefalse, all’occorrenza. Ma questa stessa attenzioneda me prestata all’aspetto metalinguistico del pro-blema ‘lingua’, cioè alle grammatiche, ha costituito,d’altro lato, un forte ostacolo al fatto che imparassibene a esprimermi in una qualche lingua straniera,a eccezione del francese. Io avevo preso sul seriol’insegnamento di Jacob Malkiel, propenso a sosti-tuire all’etimologia quella che lui chiamava una ve-ra e propria «biografia» delle parole ed espressioniidiomatiche . Secondo Malkiel ogni parola (ogni girosintattico), o anche gruppo di parole (o di costrutti

sintattici) è un essere vivente. E si può anche con-venire che essa catalizza i suoi significati preferenziali, nella sua nascita e evoluzione sottende parti-colari figure retoriche. Si prenda la storia della parola «sosia>, per esempio: l’antonomasia è una figura retorica che inerisce strettamente alla sua etimologia. L’apprendimento della retorica è connesso perforza a quello dell’etimologia, che a sua volta introduce spesso nei baratri dell’oralità: di un’oralità in-dagata magari in modo sempre più capillare, neltentativo di rispondere alla domanda: “quando gliuomini avranno iniziato a capirsi?” Del resto, forsemai, se non a bastonate...

Del resto, i vuoti del linguaggio, primo fra tutti il baratro tra significato e significante, sono spesso ricopribili dalle relazioni etimologiche : le etimologie sono in grado di instaurare connessioni straordinarie.

A tutto questo si deve aggiungere che una lingua «universale, l’inglese, per esempio, conservaparentele verticali, vocabolo per vocabolo, persinocon il dialetto e, ancora più in basso, con la parlatadella contrada, giungendo addirittura all’idiolettopersonale: una dimensione linguistica panterrestre,insomma, intrattiene rapporti strutturali con la di-mensione microscopica costituita dal linguaggioproprio che l’individuo costruisce per sé, per via diuno scorrimento etimologicamente motivabiledall’alto al basso — o dall’esteso al ristretto. E pensoall’esperienza stupenda di Meneghello.

Vale anche il movimento opposto: dal ristrettoall’esteso, dal minimo al massimo. Io mi sono occupato, in sede di saggi, di universali linguistici, ancorprima di conoscere gli scritti di Jakobson. Mi interessava il linguaggio dei bambini, costituito da ripetizioni di sillabe del tipo «ta-ta-ta. . . », «pa-pa-pa...»,«ma-ma-ma. . . (( . Questo linguaggio apparentementeminimo, fortemente localizzato nello spazio e neltempo, che va autoproducendosi per mezzo delle ripetizioni di segmenti fonici, monosillabi o bisillabi,è in realtà un linguaggio universale, dal momento

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che le sillabe ripetute sono comuni a tutte le lingue.Linguaggio universale, sì: ma per difetto: universale,cioè, perché non ancora giunto aWindividuazione.

Lei parla cli connessioni, parentele, legami, ra—dici comuni. . . ma esistono anche i «vacuoli», il nulla.Un nulla, tra l’altro, che nella sua poesia è qualifica-to percettibilmente. Perché questa attenzione al nulla? Di che nulla si tratta? Se lei dovesse spiegareun’idea così astratta quale quella del nulla a chi appartiene a una cultura incline al pragmatismo, comequella anglosassone, cosa direbbe?

Tutti gli intrighi di cui è intessuta la storiaeuropea. . . In un paese lacerato da contese, comel’Europa, si avverte forte il bisogno di percepirel’avversario come inesistente , di sminuirlo, di nullificarlo. Il nulla si instaura innanzitutto per questo.Le guerre che si sono successe tra Francia e Germania erano costruite sul nulla, sul bisogno di annientare l’avversario: un una vera e propria fedenell’annientamento, quindi nel nulla. Era e non eraun nulla, dunque: l’avversario ci doveva essere, peressere nullificato. Questa dinamica è globale. Anchela Guerra dei Cent’Anni, tra Francia e Inghilterra, èstata una guerra europea. Una reversibilità che sottende un reciproco annientamento...

Ma anche nell’America esistono fenomeni si-mili che restano impercepiti: i pellerossa non ave-vano nemmeno la dignità del nulla. E i bianchi sigiustificarono con la Teoria del Destino Manifesto...

Se è vero che il senso del nulla trapela in va-ne culture europee, per noi italiani era rappresentato da una somma di contraddizioni.

Si pensi alla quantità enorme di confini chedividevano l’Italia: Venezia era italiana o bizantina?1D nata come una parte del ducato bizantino, ed èsolo dal IX secolo che si può forse parlare di statoveneto. Con l’avanzata dei turchi il Veneto diveniva,poi, italiano. Veneziani e Genovesi erano i maestridei doppi giochi, capitanati da aristocrazie molto in-

telligenti. La guerra detta «di Chioggia» tra Genova eVenezia è durata trent’anni, lasciando campo liberoall’avanzata dei Turchi.

Al tempo del Grand Tour, poi, l’Italia era unaterra viva e fermentante, ma anche una terra morta.Possedeva il peso di un’istituzione come la Chiesa,che funzionava risucchiando i migliori ingegni, persostenersi. La presenza della Chiesa era sufficientea dare un’importanza globale all’italiano-lingua;nello stesso tempo, come erede dell’universalità romana, costituiva la causa di una divisione interna.Senza la Chiesa non si sarebbe formata l’Italia; conla chiesa l’italia sarebbe restata divisa internamente. Lo si avvertiva già all’epoca di Dante, quando cisi chiedeva se fosse più importante il Papa ol’Imperatore (tedesco, ma anche italiano, vedi Fede-rico TI che regnava da Palermo sul Mediterraneo).Non si può negare che a dare proprio consistenzaall’idea che esistesse unitalia, fosse proprio laChiesa, pur la Chiesa impedendo che l’italia stessafosse unita.

Situando il punto di vista a livello microgeografico, è possibile ribaltare un’intera prospettiva,annullando la precedente. Per quanto mi riguarda,io sono stato sempre legato al mio paese. Ma questopaese non ha nulla di particolare, rappresentando ilpaese medio del cattolicesimo tradizionale: abbattuta la vecchia chiesa, ne viene innalzata un’altra,enorme, ‘di biscotto’. Il conte Balbi, patrizio veneto,fondatore di un collegio che in seguito avrebbe la-sciato al vescovo, con la sua opera riempiva un vuoto, venendo incontro alle immense carenze dellostato liberale italiano. Io sono nato proprio in unpunto del paese a ridosso della chiesa. La mia fami-glia si è poi trasferita a poca distanza da quel luogo,in una Cal Santa, lungo un tragitto che collega lachiesa, guarda caso, al cimitero. Sulla strada, poi, sierge ancora un asilo gestito da suore...

Si può parlare del nulla anche in termini tra-gico-comici. Il direttore del collegio che frequentavoda giovane, per esempio, manifestava il proprio an

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tifascismo interpretando gli ordini fascisti in formasbagliata, e così facendo annullandoli, dimostrandoche erano stati i fascisti a sbagliare a scrivere . Eraobbligatorio che si scrivesse: «rapporti con le autori-tà civili: ottimi; rapporti con le autorità religiose:buoni». Si può capire a quale tipo di barzellettequesti «rapporti» fossero ricondotti...

Il vecchio contadino Nino, poi, fonte di follesapienza, accentrava un manipolo di buontemponi

(tra i quali qualche volta furono Camon, Mengaldo,Comisso, Zancanaro. . .) all’occasione di godereccefeste campestri. Aveva un carattere particolare, so-speso tra il buffo che non sa di esserlo, e il comicoche sa di essere tale: chi lo ascoltava non sapevamai con quale aspetto di Nino avesse a che fare, inquel momento. Lui aveva una vita solitaria, perché«solo i depressi si sposano», diceva. Verso gli ottant’anni iniziò a pentirsi, non avendo figli. Incominciò a circuire qualche ragazza, che egli riuscivaad attirare in casa sua con la scusa di mostrare isuoi cimeli: salami appesi, maiali. . . Io non ho unagrande nostalgia di questo mondo scomparso, incui c’erano enormi sofferenze e miseria che portò ademigrazioni di massa. Ma poi venne soffocato dauno sviluppo industriale spaventoso , cannibalesco,di cui non capisco la causa e le modalità. Mi sonotrovato a registrarlo nel mio scrivere , cercando dimettere a contatto i cambiamenti ambientali delluogo che conoscevo con le grandi faglie ereditatedalla letteratura. Fino agli anni settanta un certoequilibrio esisteva...

Ho avuto più di una forte crisi fobico-ossessiva. Rimanevo per giorni chiuso in casa con dentroun senso di nulla vissuto, di inesistenza. Certamente decisivi nel maturare in me questo senso del nulla furono i lutti familiari: io ebbi due sorelle , mortel’una a sei anni, l’altra a quattordici, stroncate damalattie dalle quali ora si guarirebbe con un’mie-zione. Vidi l’ingresso della morte, del lutto, e dellamiseria, quando mio padre, escluso dal lavoro per-ché antifascista, fu coperto da debiti.

Vissi un equilibrio tollerabile nel periodo postse ssantotto.

È, ‘questa ‘ natura, ancora in grado di fornire ilsupporto alla fantasia e alla poesia?

Io credo che l’attività fantastica non sia ancora annullata, ma minata. Lo dico anche nella letteraal Berardinelli contenuta nel mio «Meridiano. Perquanto mi riguarda, tra un acciacco e l’altro riescoancora a scrivere qualche verso...

È impossibile, oggi, che si dia l’eventualità diuna mens che pretenda di manere nell’atto di prendere coscienza della realtà: lei lo ha affermato in unintervento relativo alla crisi della poesia in età postbellica, ma credo che questa conclusione valga anche a definire lo statuto dell’io lirico della poesia modema. Che cos’è l’io lirico, per lei? Quali rapporti è ingrado di intrattenere con il soggetto empirico?

L’io poetico è un io del tutto particolare, che sirovescia facilmente in tu, nel caso in cui uno simetta a parlare a sé stesso. Pur apparendo solo autobiografico, individuato, preciso, quest’io proviene,nella sua energia, da ben più ‘sotto’. Io lo vedo comeuna sorta di «ardore iniziale», che per permettersiun massimo di precisione si trasforma in persona,cioé in «maschera». Ma quest’io non è mai, completamente , nemmeno persona: in realtà proviene dalfondo, resta legato a un abisso. L’io è costretto achiamarsi io, ma è qualche cosa di più: è anzi unnoi, forse addirittura più di un noi. L’intera natura,da ultimo, si esprime in un vocabolo unico: «natura», appunto.

Lio, come il soggetto lirico ungarettiano, è con-nesso al primum movens che sta allinizio del fattodel dire, insomma: il corpo, la contingenza, ciò chenon ha significato in sé, come anche il discorso ‘altro’ dell’inconscio. Eppure è anche autobiografia, let

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teratura, linguaggio, persona, in senso strettamentelinguistico: subisce restrizioni semantiche e grammaticali. A un poio Artaud, come lei ha affermato, devesempre corrispondere un poio Mallarmé, in cui la parola dell’io si distacca dal supporto esperenzialed’origine e acquista una vita propria, fosse anchesoltanto quella delle associazioni foniche...

Si. Mi è venuto di trascrivere un sogno, unaspecie di gioco di scomposizione linguistico-visiva,Microfilm: si riferiva al trauma per la catastrofe delVajont (esondazione di una diga, migliaia di morti).Consiste nel dispiegamento di un intero ventaglio dipossibilità combinatorie delle lettere I/O che compongono l’((iO» (IODIO-ODIO-DIO-IO-O) incassate inun triangolo rettangolo. Vi si manifesta l’effetto se-gnico dell’io: dall’d», che è il nome di Adamo nellaDivina Commedia, allo «O)), che è il nome del cerchiototale della realtà, il significante IO comprendel’alfa e l’omega, il primo e l’ultimo segno della vita,del linguaggio.

Sembra che, per lei, vi sia qualcosa di necessariamente imprendibile, a caratterizzare l’essereumano: qualcosa che si situa prima del linguaggio,al di qua dell’atto di parola, e che riappare anchedopo, al di là del linguaggio, ad atto di parola compiuto. Questo qualcosa avrebbe soltanto l’io, insomma, per manifestarsi. Lei assume positivamente pro-prio quanto nfiutato dalle poetiche della ‘riduzionedell’io’ di ‘novissima’ memoria: l’indeterminato comearea radicalmente soggettiva, non partecipabile, el’io-autobiografia, il soggetto che racconta la sua sto-ria...

Certamente l’io è anche ciò che ti fa correredal medico, e che non permette che ci vada il tu. Male radici di questo suo modo di essere, costituisconoanche le radici del primo nucleo di ciò che è significabile. Non è detto che debba essere necessaria-mente sulla scena: ma lo si intravede sempre.

Ma è stato dimostrato che non esiste io se nonin quanto si rifletta in un tu cui rivolgersi, sia pure,questo tu, lo stesso io, fratto in un monologo chepresuppone l’autorispecchiamento. L ‘io, insomma, ‘fasistema’ e al suo apparire non può non instaurareun ‘intera ‘grammatica ‘. Eppure, all’epoca di Vocativo, di tu, di un destinatario della poesia, era difficileparlare: vi si dispiegava un discorso che si svolge“come se”, in cui la persona non vi si sarebbe potutadocumentare meglio che per accadimento, né oltre lasua miseria di fatto grammaticale. E c’è stato persi-no chi ha parlato di grammaticalismo, relativamentea questo suo terzo libro...

Io ho accettato sostanzialmente il termine«grammaticalismo» perché implicato dallo stesso ti-tolo di Vocativo. Quando un «iO» parla e si attendeuna risposta, e questa risposta non arriva, ciò chegli resta in mano è la pura, vuota grammatica dellapropria invocazione. L’io si trasforma in ((caso vocativo((: c’è, ma per annullarsi, scomparire. Cos’è una«grammatica»? 1 una rete in cui l’intera realtà vieneinserita, il luogo in cui è impossibile spostare unelemento senza provocare un’intera ridistribuzionedell’assetto interno del sistema. Uno che invocaun’amata ostile, o addirittura un’Entità Suprema,per essere aiutato, non riceve alcuna risposta, ingenere. Di questo desiderio, di quest’invocazione,rimane un residuo, un guscio vuoto, un’ombra, unquid. . . una cosa da nulla, ma assolutamente nonannientabile , indistruttibile . «Grammaticalismo»,certo, ma contestualizzato rispetto a un’idea digrammatica intesa come struttura insieme necessaria e residuale: residuo dell’io e dell’autobiografia,residuo del tu cui ci si rivolge, residuo del sacro. C’èperò l’esperienza particolarissima dei Mistici...