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DIABASIS INTERVISTA SULLA GEOFILOSOFIA Bonesio Resta Luisa Bonesio Caterina Resta INTERVISTA SULLA GEOFILOSOFIA A CURA DI RICCARDO GARDENAL Terra e Mare Terra e Mare M I N I M A DIABASIS Terra e Mare MINIMA 10,00 Dal lavoro di ricerca di un giovane architetto, allievo di Paolo Portoghe- si, nascono domande rivolte a due esponenti del pensiero geofilosofico italiano, in un dialogo che si sviluppa attorno alle grandi questioni sulle quali un pensiero rivolto alla Terra non può evitare di interrogarsi. Nel “deserto che cresce” della tecnicizzazione globalizzata e dello sradi- camento sistematico delle culture, che cosa significa “costruire” nel- le nostre città, nel mondo che affronta un vertiginoso mutamento, e raggiungere una maggiore consapevolezza all’altezza delle decisioni epocali che ci attendono? E ancora: come si possono pensare e prati- care memoria, luoghi, paesaggi, senso di appartenenza, dischiudendo nuove esperienze dell’abitare umano sulla Terra? Luisa Bonesio, studiosa di paesaggio, insegna Estetica all’Università di Pavia. Caterina Resta insegna Filosofia teoretica e Filosofie del Novecento all’Università di Messina. Riccardo Gardenal, architetto, è autore del volume Geoarchitettura. Dalla teoria del pensiero al progetto, Roma 2010. Bonesio_stampa_5mm.indd 1 Bonesio_stampa_5mm.indd 1 5-07-2010 14:40:51 5-07-2010 14:40:51

Intervista sulla Geofilosofia

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Cosa significa costruire, ricostruire, decostruire nelle nostre città e nel mondo che affronta un vertiginoso mutamento, interrogarsi sugli orizzonti del futuro e raggiungere consapevolezze all'altezza delle decisioni epocali? Come si possono pensare e praticare memoria, luoghi, paesaggi, costruendo comunità condivise di senso, muovendo verso nuove esperienze fondative dell'abitare umano sulla Terra?

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Luisa Bonesio Caterina RestaINTERVISTA SULLA GEOFILOSOFIAA CURA DI RICCARDO GARDENAL

Terra e MareTerra e MareM I N I M A

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Terra e MareM I N I M A

€ 10,00

Dal lavoro di ricerca di un giovane architetto, allievo di Paolo Portoghe-

si, nascono domande rivolte a due esponenti del pensiero geofi losofi co

italiano, in un dialogo che si sviluppa attorno alle grandi questioni sulle

quali un pensiero rivolto alla Terra non può evitare di interrogarsi. Nel

“deserto che cresce” della tecnicizzazione globalizzata e dello sradi-

camento sistematico delle culture, che cosa signifi ca “costruire” nel-

le nostre città, nel mondo che affronta un vertiginoso mutamento, e

raggiungere una maggiore consapevolezza all’altezza delle decisioni

epocali che ci attendono? E ancora: come si possono pensare e prati-

care memoria, luoghi, paesaggi, senso di appartenenza, dischiudendo

nuove esperienze dell’abitare umano sulla Terra?

Luisa Bonesio, studiosa di paesaggio, insegna Estetica all’Università di Pavia.

Caterina Resta insegna Filosofia teoretica e Filosofie del Novecento all’Università di Messina.

Riccardo Gardenal, architetto, è autore del volume Geoarchitettura. Dalla teoria del pensiero al progetto, Roma 2010.

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Dopo la fine dell’ordine cosmico su cui si reggevano le civiltà antiche,dopo il tramonto della Cristianità medievale e il naufragio del delirioprometeico della Modernità, il globo sul quale ormai sappiamo d’a-vere un destino comune attende con urgenza un nuovo Nomos.Diviene dunque ineludibile, di fronte alla crisi che pervade ogniaspetto della vita sul nostro pianeta, tornare a pensare il senso e le pos-

sibili forme del nostro abitare sulla Terra. Ciò può avvenire soltanto apartire da un radicale ripensamento del Luogo, in quanto spazio nonmeramente astratto e geometrico, ma concreto lembo di terra, ognivolta singolare, qualificato dall’incontro tra natura e cultura e dalle lo-ro stratificazioni storiche, nel convincimento che l’odierno galop-pante processo di delocalizzazione non produce unicamente spae-samento, ma impe disce anche ogni possibilità di futuro soggiorno,senza il quale l’umanità è certamente destinata alla sparizione.

TERRA E MARE minima

Collana di Geofilosofia diretta da Luisa Bonesio e Caterina Resta

Comitato scientifico

Massimo Cacciari Franco Cassano Serge LatoucheAlberto Magnaghi Massimo Quaini

· 2 ·

Dipartimento di FilosofiaUniversità degli Studi di Messina

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Progetto grafico e copertinaBosioAssociati, Savigliano (CN)

ISBN 978-88-8103-703-2

© 2010 Edizioni Diabasisvia Emilia S. Stefano 54 I-42121 Reggio Emilia Italiatelefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047

www.diabasis.it

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Intervista a Caterina Resta

Intervista a Luisa Bonesio

Riferimenti bibliografici

Indice

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Intervista a Caterina Resta

Riccardo Gardenal: Geofilosofia: in che modo si è avvicinata a que-

sto pensiero e quali sono state le spinte che l’hanno portata a coltivarlo?

Caterina Resta: L’idea di una geo-filosofia si è fatta strada in megradualmente agli inizi degli anni Novanta.

Il termine “geofilosofia” compare, credo per la prima volta,– e comunque in modo significativo – come titolazione del IVcapitolo di un fortunato volume di Gilles Deleuze e FélixGuattari, Qu’est-ce que la philosophie?, uscito in Francia da Minuitnel 1991, e poi tradotto da Einaudi nel 1996. Vi erano già, inquelle poche pagine, spunti di straordinario interesse, anche sedel tutto interni alla più generale prospettiva filosofica dei dueautori, rispetto alla quale ho sempre nutrito numerose riserve.

L’espressione “geofilosofia” viene poi rilanciata, sempre in am-bito francese, ma in una prospettiva più ampia e diversificata, nel1993, in occasione della pubblicazione del volume collettaneoPenser l’Europe à ses frontières, testo che raccoglieva gli interventi deipartecipanti al Carrefour des Littératures européennes deStrasbourg, tenutosi dal 7 al 10 novembre del 1992, tra cui figuranoanche i nomi di G. Agamben, A. Badiou, E. Balibar, J. Derrida, Ph.Lacoue-Labarthe, J.-L. Nancy, P. Virilio, B. Waldenfels. Il volumet-to recava come intestazione: “Géophilosophie de l’Europe”.

Sarà tuttavia Geo-filosofia dell’Europa, il fortunato testo diMassimo Cacciari, uscito per Adelphi nell’anno successivo, il 1994,che, soprattutto in Italia, introdurrà nel dibattito filosofico questo

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termine, mostrandone la enorme potenzialità ermeneutica. Perquanto riguarda il mio personale approccio alle questionigeo-filosofiche, questo libro, insieme al successivo L’Arcipelago,del 1997, rappresenta un dittico ineludibile per chiunque vogliaavvicinarsi ad una prospettiva geofilosofica, sia dal punto di vistateoretico che filosofico-politico.

Per mio conto, già a partire dal mio primo volume suHeidegger (La misura della differenza. Saggi su Heidegger), avevo de-dicato una parte non trascurabile della mia riflessione su questoautore davvero decisivo del Novecento a temi che si potrebberodefinire geofilosofici: il concetto di “misura”, attraverso il con-fronto tra la figura dell’agrimensore del Castello di Kafka e la let-tura heideggeriana di Höl derlin e di Trakl, alla ricerca di un mo-do non meramente ‘geo-metrico’ di intenderlo; la concezionedella Heimkunft, del ritorno a casa, nel tentativo di sottrarre l’in-terpretazione heideggeriana a una lettura in chiave di “appaesa-mento” e di radicamento nel senso nazionalsocialista del Blut und

Boden; il tema della Terra, affrontato volta per volta nei suoi rap-porti con il Mondo, con la Volontà di potenza intesa come do-minio e calcolo del reale, e, in fine, in relazione al Cielo, cioè al-l’interno della concezione heideggeriana del Ge viert. Questa let-tura geofilosofica di Heidegger si è poi ulteriormente arricchita dinuove analisi in altri due testi, pubblicati negli anni successivi (Illuogo e le vie. Geografie del pensiero in Martin Heidegger; La Terra del mat-

tino. Ethos, Logos e Physis nel pensiero di Martin Heidegger). Il primo, inparticolare, intendeva far emergere la “geo-grafia” del pensieroheideggeriano, in virtù della quale la questione del Luogo e delleVie che a esso conducono, come anche quella del radicamento, ri-mettono potentemente in discussione la questione dell’identitàe dell’appartenenza, il significato del confine e della frontiera, ilrapporto tra “proprio” ed estraneo, la singolarità degli idiomi. NeLa Terra del mattino, che riprende, nel titolo, una suggestiva espres-

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sione heideggeriana, che fa da contrappunto ad Abend-land, Terradella sera, Occidente, in particolare vi è un saggio dedicato al con-cetto di Physis e all’idea di ‘natura’. Nel frattempo l’incontro condue autori come Ernst Jünger e Carl Schmitt (Stato mondiale o

Nomos della terra. Carl Schmitt tra universo e pluriverso; Passaggi al bo-

sco. Ernst Jünger nell’era dei Titani), fondamentali – insieme aHeidegger – per comprendere i vari aspetti del nichilismo e del fe-nomeno della tecnica moderna, mi hanno sollecitata a soffermar-mi, dal punto di vista geofilosofico, sui temi della globalizzazionee del nuovo ordine mondiale e su quei problemi, divenuti ineludi-bili, sollevati da una tecnica “scatenata”, che mette ormai a rischiola stessa sopravvivenza dell’uomo sul pianeta che lo ospita.

Accanto a questa riflessione, dalle evidenti implicazionigeo-politiche, anche il mio incontro con il pensiero di autori comeLévinas, Derrida e Nancy è stato decisivo per l’approfondimento,in particolare, del tema del rapporto identità-differenza, ostilità-ospitalità, e di un modo diverso di pensare la comunità, questioniche mi sembrano rivestire particolare interesse dal punto di vistageofilosofico, poiché riguardano direttamente il senso e il mododel nostro co-abitare sulla Terra (L’evento dell’altro. Etica e politica in

Jacques Derrida; L’Estraneo. Ostilità e ospitalità nel pensiero del Novecento). Quando, nel 1996, esposi le 10 tesi di Geofilosofia (testo pubbli-

cato in Appartenenza e località: l’uomo e il terri to rio, atti di un di un ci-clo di incontri organizzato a Milano, consultabile, insieme ad altritesti di carattere geofilosofico, sul sito web www.geofilosofia.it),quasi un “manifesto” di quell’ambito di ricerca che, insieme aLuisa Bonesio avevamo pensato di scandagliare, il mio percorsoteorico era già giunto a sufficiente maturazione.

Molte altre iniziative, sia editoriali che di organizzazione diconvegni e seminari, si sono susseguite negli anni, condivise conLuisa Bonesio, compagna di strada fin dall’inizio di questo per-corso di ricerca, insieme alla quale dirigo anche la Collana di

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Geofilosofia “Terra e Mare”, inaugurata qualche anno fa pressol’Editore Diabasis di Reggio Emilia.

Se l’incontro con la geofilosofia si è nutrito di testi e di auto-ri, il debito nei confronti dei quali non sarà da parte mia mai ab-bastanza riconosciuto, tuttavia esso è potuto accadere solo in vir-tù di una “conversione” dello sguardo nei confronti, direi per bre-vità, della “Terra” e del senso del nostro abitarvi, cresciuta neglianni e condivisa in un dialogo mai interrotto con Luisa Bonesio,alimentata dalle nostre numerose peregrinazioni tra (il mio) ma-re e (i suoi) monti. Se, dal punto di vista filosofico, a ciò mi avevacondotto soprattutto Heidegger, la sua analisi della tecnica mo-derna, dei temi del nichilismo e dell’abitare-costruire-pensare, sulpiano esistenziale questi interrogativi sono stati sollecitati da unnuova capacità di “vedere”, più sensibile tanto nei confronti del-la bellezza, quanto del degrado ambientale che ci circonda.Risiedendo – non posso dire ‘abitando’ – in una città comeMessina, che paradossalmente ha negato la sua geo-storica egeo-simbolica vocazione al mare, ho cominciato pian piano a ve-derlo, il mare, al di là della sua cancellazione. Ho poco per voltaimparato a riconoscere una “città invisibile” che, nonostante glievidenti sfregi e l’oblio di sé, pure poteva rivelarsi a me in scorciinaspettati di grande suggestione. Così come, da anni frequenta-trice delle Alpi, ho cominciato pian piano ad apprezzarle non dasemplice turista, lasciandomi catturare dalla loro straordinariabellezza e potenza “estranea”.

Credo che senza questa “conversione” dello sguardo, senzaun faticoso – e spesso doloroso – apprendistato intellettuale edesistenziale insieme, non sia possibile accostarsi a un approcciogeofilosofico, il quale, almeno secondo il mio punto di vista, aspi-ra a essere una visione complessiva, non solo per il suo carattereinterdisciplinare, ma anche perché – come direbbe Ernst Jünger,un autore che giudico fondamentale per questa prospettiva – la

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ste traiettorie entro le quali soltanto è possibile un abitare. Si trat-ta, per molti versi, del tentativo di recuperare quelle coordinateben conosciute dalle civiltà antiche, cui prima facevo cenno, chela matematizzazione moderna dello spazio ha inevitabilmenteperduto. La Er-örterung, di cui Heidegger parla nel contesto diun’interpretazione della poesia di Trakl, viene sottratta al suoconsueto significato di “discussione”, per assumere quello – piùfedele alla sua etimologia – di “collocazione”, di ricerca del luo-go. Da questo punto di vista la Er-örterung va pensata come il mo-vimento opposto a quella Ent-ortung, a quella de-localizzazionecui Schmitt ha imputato la dissoluzione del Nomos delle Terradell’Età moderna, ormai incapace di un Ordinamento [Ordnung]che sia anche Collocazione [Ortung].

R.G.: Se, come scrisse Nietzsche, il nonluogo è un «deserto che cresce»,

perché questi stessi sono in continuo aumento? Cosa prospettano al fu-

turo dell’umanità?

C.R.: Il «deserto che cresce» è per Nietzsche l’immagine stessadell’avanzare del nichilismo, di quel processo di Entortung, cui pri-ma accennavo, parlando di Schmitt. Heidegger, commentandoquesta allarmante constatazione nietzscheana, suggeriva che iltratto più inquietante della desertificazione è che essa impedisceogni crescita futura. Il processo di desertificazione del mondo,nel frattempo, da metafora del nichilismo è divenuto desolanterealtà, che si mostra non solo nel crescente espandersi di territo-ri aridi, causato dall’opera dell’uomo sia direttamente (il disbo-scamento, l’abbandono delle colture ecc.) che indirettamente (icambiamenti climatici), ma anche – e forse ancor più inquietan-temente – nel proliferare di quelli che Marc Augé ha chiamatonon-luoghi. Ciò che caratterizza i non-luoghi è appunto il loroaver completamente smarrito quegli elementi, che contribuisco-

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no a dargli “senso”, di cui prima dicevamo, senza i quali un luo-go non può neppure dirsi tale; si tratta di spazi divenuti a tal pun-to anonimi, uniformi e decontestualizzati da potersi collocare in-differentemente in ogni punto della terra. Proprio perché il no-stro tempo non sa più riconoscere luoghi, ma solo spazi daattraversare il più velocemente possibile – come ha ben vistoVirilio – oggi proliferano piuttosto gli snodi, gli scambi, i punti diinterconnessione e di raccordo, le aree di smistamento. Da que-sto punto di vista la rete – Internet ne è l’esempio emblematico –è divenuta il nuovo spazio entro il quale ci muoviamo e dal qualetraiamo i nostri modelli abitativi, senza poter trovare più un luo-go in cui sostare, sospinti dall’accelerazione di un flusso inarre-stabile. In questo flusso, che veicola insieme informazioni, im-magini, suoni, merci, mezzi di trasporto, denaro, le nostre stesseesistenze sono sospinte da quella che Jünger, negli anni Trenta,aveva chiamato «mobilitazione totale». Egli, tuttavia, suggerivache entro questo vortice era necessario trovare il punto immobiledel movimento, altrimenti si sarebbe corso il rischio di rimanernetravolti. In un mondo in cui l’accelerazione si è così accresciuta,diviene di fondamentale importanza la ricerca di luoghi in cui po-ter sostare, in cui ritrovare spazio e tempo per le nostre esistenze.

Così come la Modernità ha segnato il trionfo della vita urba-na e dei processi di migrazione verso la città che «rende liberi»,oggi, invece, soprattutto nelle metropoli dell’Occidente, si assistea un controesodo: non sono pochi coloro che scelgono di ab-bandonare città sempre più invivibili, entro le quali si sentono or-mai prigionieri, per cercare luoghi in cui sia ancora possibile abi-tare. Questa “fuga” dalla città, tuttavia, assume spesso il caratte-re nevrotico dei fine-settimana, di una “evasione” che si traduceimpietosamente nell’imprigionamento degli ingorghi autostra-dali o delle file ai caselli, in un viavai incessante che riproducequella stessa «mobilitazione» dalla quale si voleva fuggire. Così

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come, paradossalmente, sono proprio gli “esodi” estivi dalle cit-tà a restituire, non ai luoghi superaffollati di vacanza, ma proprioalle città deserte, il loro antico sapore di “luoghi”. E, d’altra par-te, non bastano il cascinale in campagna, la baita alpina o la casaal mare a rivelare il senso del luogo, se ovunque, intorno, ma so-prattutto in se stessi, il senso del luogo si è smarrito. Il deserto haormai coperto pressoché ogni dove. Solo una radicale conver-sione del nostro modo di pensare l’abitare potrà ancora conce-derci di soggiornare in qualche luogo. E ciò ha bisogno di tra-dursi in stili di vita condivisi, in un comune sentire.

R.G.: Ricreare il luogo nelle nostre città, riscoprendo la loro memoria e va-

lori senza monumentalizzarli, bensì servendosene per un progresso nuovo,

che fondi proprio in questi ritrovati valori le sue radici. È possibile?

C.R.: Affinché le città possano tornare ad essere “luoghi” – e pen-so soprattutto alle città della vecchia Europa – sottraendole al lo-ro crescente degrado e alla loro morte, da più parti pronosticata,significa soprattutto interrogarsi non tanto sul gesto del “co-struire”, quanto su quello del “ri-costruire”. Infatti, anche quan-do si tratti di dovere costruire qualcosa che prima non c’era, que-sto gesto non sarà mai ex novo, né tanto meno ex nihilo – come pu-re è la tentazione di tanta architettura contemporanea – ma dovrànecessariamente misurarsi con il contesto, nel tentativo di rico-struire, per quanto è possibile, quei nessi, quelle relazioni che ilvuoto dello spazio architettonico mostra lacerati. Se ogni co-struire mostra in primo piano la logica di una interna coerenza, ilri-costruire non è semplice restaurazione e ripetizione, tanto me-no musealizzazione, ma capacità di cogliere richiami, di ristabili-re rapporti che il tempo e lo spazio hanno interrotti.

Sempre, ma a maggior ragione nel caso del ri-costruire cheavviene entro spazi urbani dalla memoria stratificata, l’edificare si

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Intervista a Luisa Bonesio

Riccardo Gardenal: Geofilosofia: in che modo si è avvicinata a questo pen-

siero e quali sono state le motivazioni che l’hanno portata a coltivarlo?

Nell’arco della sua carriera, in quale momento si è sentita maggiormente in

linea con questo pensiero? Esiste un esempio in particolare che Le ispira un

sentimento simile (opere artistiche, riferimenti geografici ecc.)?

Luisa Bonesio: Prima di occuparmi del pensiero geofilosofico, og-getto della mia ricerca sono stati alcuni filosofi tedeschi che hannoanalizzato i caratteri costitutivi ed epocali della modernità, for-mulando anche diagnosi molto distanti dal progressismo positivi-stico e dall’idea illuministica della forza emancipativa di scienza etecnica: in particolare Nietzsche, Heidegger, Spengler, Jünger.Prima ancora mi ero occupata di un altro filosofo tedesco forte-mente critico verso i fallimenti storici della ragione occidentale,T.W. Adorno. La riflessione sulla tecnica moderna come assog-gettamento della natura e del mondo, liquidazione della bellezza,abolizione della sacralità, sprezzo per le memorie e i retaggi delpassato, la riduzione del vivente a spiegazioni disanimanti, l’indu-zione di mondi sempre più sofisticati, pervasivi e inavvertiti, ri-dotti a immagini sempre più distanti dal mondo reale, che si ritro-va anche in altri autori (per esempio G. Anders, J. Baudrillard, P.Virilio), mi ha portato a focalizzare sempre più la mia attenzionesul tema della “terra” (cfr. La terra invisibile), come la dimensioneontologicamente costitutiva del nostro essere al mondo che vienecancellata e resa invisibile dagli apparati tecnici e dal loro “filtro”onnipervasivo. Tra gli effetti più rilevanti che ne conseguono vi

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sono il disorientamento ontologico e spirituale, la sostituzione del-la concretezza, memorialità, simbolicità e vita della terra e dei suoiluoghi individuati con astrazioni e rappresentazioni (le quali, a lo-ro volta, ne consentono la manipolabilità totale e indifferenziata)e la fine del consapevole rapporto di mediazione dell’uomo tra ter-ra e cielo. Da questo punto di vista, nel mio percorso è stato fon-damentale un altro filone, meno visibile e accettato in quegli anni:quello dei pensatori delle forme simboliche e spirituali, comeGuénon, Eliade, Coomaraswamy, Schuon, Titus Burckhardt,Henry Corbin, Panikkar e altri, il cui apporto è stato per me im-prescindibile per comprendere correttamente l’“anomalia” dellamodernità nel suo pressoché totale smarrimento di consapevo-lezza cosmica e spirituale, ossia della coappartenenza dell’uomo aun tutto più vasto, complesso e ordinato di relazioni e misure.

Se queste sono state le ascendenze teoriche, è chiaro quantomi sia estranea la declinazione deleuziana della geofilosofia, equanto più affine quella di Massimo Cacciari (Geo-filosofia

dell’Europa) anche per la comunanza dei riferimenti teorici, e, percerti versi, quella di Jean-Luc Nancy.

In realtà, se guardo le cose ancor più nella prospettiva della ne-cessità che conduce a percorrere una via di pensiero piuttosto cheun’altra, riconosco in Rilke un pensiero poetante o una poesiapensante che mi hanno sempre molto coinvolta; ma davvero de-cisiva, a livello autobiografico, è stata la progressiva riscoperta deiluoghi natali (le Alpi valtellinesi) e dei loro vicinati (l’Engadina),in quanto paesaggi la cui bellezza mi ha sempre ispirato un pro-fondo senso di appartenenza non meno che fatto avvertire l’e-semplarità universale racchiusa nella bellezza di ogni singolo luo-go. Questi, d’altra parte, sono ancora oggi i luoghi “elettivi”, macertamente non unici, del mio impegno in campo paesaggistico.

Ma di sicuro l’evento maggiore in questo cammino di ricercaè stato l’incontro con i temi approfonditi da Caterina Resta, e la

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condivisione dell’interesse, declinato da prospettive comple-mentari, per alcuni dei pensatori e delle tematiche richiamati pri-ma, in particolare Nietzsche, Heidegger e Jünger (a quest’ultimoabbiamo dedicato un volume scritto insieme, Passaggi al bosco.

Ernst Jünger nell’era dei Titani). A partire dagli anni Novanta abbia-mo avuto molte occasioni anche pubbliche per presentare, dis-cutere e mettere a fuoco il nostro approccio geofilosofico e perfar circolare sempre di più il termine “Geofilosofia” come l’ap-proccio che cerca di mettere al centro di ogni dibattito la nostraappartenenza terrestre e i problemi che conseguono dal suo dis-conoscimento e da un travalicamento cieco dei limiti e delle mi-sure che assicurano non solo l’armonia necessaria, ma la soprav-vivenza stessa dell’umanità. In questo senso, il nostro “manife-sto” sono state le 10 tesi di geofilosofia di Caterina Resta (1996, orain www.geofilosofia.it), in cui si sintetizzavano i punti focali del-la prospettiva geofilosofica. Certamente uno di questi ambiti dielaborazione e discussione, oltre che di individuazione di percorsie posizioni affini e di ricerca di autori e testi del passato in cui rin-tracciare spunti utili alla comprensione geofilosofica attuale, èstata l’esperienza nella rivista «Tellus», incontrata negli anniNovanta, e che successivamente abbiamo voluto sottotitolare«Rivista di geofilosofia». La ritengo tuttora un’esperienza inte-ressante e fondativa per il nostro modo di lavorare e per far co-noscere le nostre proposte, nel senso che essa, finché è durata, harealizzato quel dialogo necessario tra radicamento locale e dialo-go globale che costituisce il fondamento e l’orizzonte dellaGeofilosofia: pur realizzata materialmente e con le motivazioniprofonde di un’appartenenza geografica elettiva in un luogo “pe-riferico” come la provincia di Sondrio, con scarsissimi mezzi eco-nomici e promozionali, «Tellus»– come abbiamo potuto consta-tare anche a molti anni di distanza – è stata conosciuta, apprezza-ta e valutata in Italia e in Europa (forse molto meno nei luoghi in

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cui è stata realizzata) come un laboratorio di proposta culturaleestremamente interessante e innovativo. Da questa esperienza so-no anche scaturite alcune iniziative editoriali volte a far conoscerealcuni testi e autori del Novecento mai tradotti in Italia, che ai no-stri giorni acquistano un nuovo interesse teorico, oltre che rappre-sentare gli “antecedenti” di un approccio geofilosofico: per esem-pio la conferenza di Ludwig Klages, L’uomo e la Terra e un’antolo-gia di quattro saggi del 1950 dedicata al paesaggio da tre geografitedeschi (Troll, Lehmann e Schwind) e da uno storico dell’arte(Lütezeler), con il titolo L’anima del paesaggio tra estetica e geografia.

Negli anni successivi, fino ad oggi, abbiamo partecipato a nu-merosissimi incontri, proponendo la nostra prospettiva geofilo-sofica. Ho anche organizzato vari convegni, tra cui uno “manife-sto”, spiccatamente interdisciplinare (geografia, geofilosofia, ar-cheologia preistorica, estetica, letteratura), i cui Atti recano il titoloOrizzonti della Geofilosofia. Terra e luoghi nell’epoca della mondializzazio-

ne. Ma l’elenco sarebbe davvero troppo lungo.Non posso non notare che, a un lusinghiero effetto di fecon-

dazione della prospettiva geofilosofica, soprattutto in ambiti di-sciplinari diversi (geografia, architettura, archeologia, sociologia,pedagogia ecc.), il disinteresse accademico per l’istituzione di in-segnamenti geofilosofici – soprattutto nell’ambito della mia uni-versità – è stato piuttosto significativo della scarsa dimestichezza –se non aperta diffidenza – di taluni settori della filosofia italianacon l’interdisciplinarità e con pensieri che cercano di produrre lecondizioni di una pensabilità della situazione epocale, tanto su sca-la planetaria quanto su scala locale. Per poter sviluppare una simi-le prospettiva occorre sicuramente innanzitutto un pensiero ge-nealogico della modernità, che ne pensi fino in fondo la costitu-zione storica e ideologica e possa così “superarla”, avendonecompreso rischi e chiusure. Dal mio punto di vista, gli autori ri-chiamati in precedenza assicurano, con la loro radicalità d’inter-

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R.G.: Come si potrebbe allora tornare alle origini e riscoprire i valori

del luogo “originario”?

L.B.: Non è mai possibile tornare alle origini e non c’è, evidente-mente, nessun luogo primordiale che non sia pura astrazione o co-struzione mitica o immagine archetipica. E questo perché, comeho ripetuto, il luogo è sempre una costruzione culturale e storicache può variare e/o mantenere forme di stabilità anche molto per-duranti, sintomo di un efficace equilibrio raggiunto nell’interazio-ne con le condizioni geografiche e naturali. In realtà, se guardiamoal passato dei luoghi, per quanto è possibile ricostruirlo, potremmovedere sia soluzioni molto buone, sia pratiche dissennate anchenell’antichità: basti pensare ai massicci disboscamenti romani peralimentare le caldaie delle terme, o la riduzione delle feraci condi-zioni produttive dell’Africa del Nord all’attuale distesa deserticadel Sahara. Per non dire che anche pratiche apparentemente a bas-so impatto come la pastorizia hanno provocato comunque varia-zioni e contaminazioni delle specie vegetali, fenomeno che si ve-rifica anche in natura per i semi trasportati dagli uccelli, dal pasco-lamento o dal vento. Ma di sicuro, nel passato, i luoghi erano tali;per usare i criteri di Marc Augé e di Edward Relph, erano relazio-nali, identitari e storici e questi loro caratteri fondanti si manife-stavano nella loro varia configurazione fisica e simbolica.

Abbiamo detto come la modernità distrugga queste caratteri-stiche, cosa possibile solo se c’è un preliminare e generale orien-tamento del pensiero in questa direzione e una riduzione dell’ef-fettiva complessità dei fenomeni storici in diagrammi bidimen-sionali, risolvibili come calcoli astratti in tutti i loro diversi aspetti.Ne è un esempio lampante il funzionalismo architettonico: peruna dimensione ontologicamente, spiritualmente e culturalmen-te complessa come l’abitare, viene prospettata da Le Corbusieruna soluzione astratta, meccanica e intercambiabile come la “mac-china per abitare”, basata su parametri astratti e universali di bi-

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sogni, che prescindono dalle configurazioni culturali, spaziali, dairetaggi storici: dai luoghi appunto.

L’azione dissolvente e scompaginante della modernità è sta-ta relativamente rapida, ma molto profonda, a causa della per-formatività tecnica che, con il suo stesso linguaggio, astratto epotente grazie alla sua elementarizzazione, è stata la principalecausa dell’omologazione degli stili costruttivi e della pervasivitàdelle distruzioni dei precedenti linguaggi insediativi. Eppure, co-me si diceva a proposito della rinascita della questione paesaggi-stica, oggi si assiste a una crescente “domanda di orizzonte”, auna diffusa domanda sociale di paesaggio, di luoghi dotati di sen-so, individualità e di qualità in cui possano sorgere comunità con-viviali, sobrie e solidali. Ho analizzato a lungo questo “ritorno”dei luoghi nella cosiddetta postmodernità nel mio ultimo libro,Paesaggio, identità e comunità tra locale e globale, riconnettendolo alla ri-cerca di significati rigettati semplicisticamente nella corsa mo-dernistica a liberarsi di dimensioni viste come zavorre incapaci-tanti del passato; significati e dimensioni che definiscono onto-logicamente e simbolicamente l’esistenza degli umani, non menodi quella del mondo “naturale”.

Ma si tratta, appunto, di una rinascita che avviene oggi, in que-sta epoca, dopo il passato più lontano e dopo una modernità che,nelle sue pretese mitiche (le metanarrazioni di Lyotard), è an-ch’essa trascorsa, in un contesto mondializzante, di grandi poten-zialità tecniche, enormi rischi per la specie umana, lentezza col-pevole nell’assumere le conseguenze e le questioni ineludibili chela “questione ambientale” (l’esplicitazione del soggiacente, perdirla con Sloterdijk) pone con urgenza esponenzialmente dram-matica, incremento di quelle dimensioni endemiche negative cheil modernismo si vantava di aver sconfitto (fame, guerre, violenza,distruzioni ambientali, povertà, diseguaglianze, schiavitù, sprezzoper le forme di vita, umana compresa) e una tragicamente scarsaconsapevolezza della catastrofe in cui siamo implicati.

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In questo contesto drammatico, il ritorno ai luoghi (che sonoin gran parte da reinventare) è innanzitutto una risposta di con-sapevolezza che cerca di arginare la deriva mondialista di un si-stema economico e di un “modello di sviluppo” disastrosi e ini-qui, insostenibili da ogni punto di vista, affermando un’ethica del-l’abitare in questo pianeta che non può che ripartire dallalocalizzazione delle attività. In fondo, espresso come imperativoecologico immediato, a ciò allude il criterio di qualificazione deiprodotti “a Km 0”. Si tratta quindi di comprendere che, nel ri-chiamo alla rilocalizzazione, si intrecciano e convergono posi-zioni etiche, politiche, economiche e “buone pratiche”, come ilpensiero e il movimento della “decrescita” di Latouche e Pallante,quello della convivialità, iniziato da Ivan Illich, ma soprattuttotutte le forme di governance spontanea che anche in Italia si stannodiffondendo, dagli Osservatori del paesaggio, agli ecomusei omusei del territorio, ai percorsi di attuazione del dettato dellaConvenzione Europea del Paesaggio nelle province e regioni.

Credo anche che, nel restauro o nella progettazione dei luo-ghi, occorra comunque mantenere fede (pena la distruzione del-l’identità dei luoghi, dove ancora sopravvive) a quelle che sonostate chiamate le “invarianti”, o i profili di condensazione e rico-noscibilità dell’espressività dei luoghi, e che oggi sempre più spes-so ricevono forme di codificazione in appositi “statuti”, che de-vono funzionare come criteri condivisi e fondanti di ogni azioneche abbia una ricaduta territoriale.

R.G.: Un concetto importante trattato nel suo testo Paesaggio, identi-tà e comunità tra locale e globale è quello di “simbolo”. Il paesaggio

in questo caso non viene visto unicamente come dimensione naturale,

bensì come risultato di una rielaborazione culturale insita a monte, co-

me d’altronde aveva già intuito Georg Simmel. Non è forse proprio que-

sto alla base della Geofilosofia?

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L.B.: Il concetto di simbolo era molto presente in un testo prece-dente, Geofilosofia del paesaggio. Nell’ultimo testo, cui Lei si riferi-sce, il concetto diventa il riconoscimento, peraltro presente inpressoché tutti gli studi attuali, del fatto che “paesaggio”, comedel resto mostra la storia del termine nelle lingue europee, è la ma-nifestazione visibile di un’interazione “culturale” con la natura diun sito. Da questo punto di vista, se ci si riferisce alla dimensionenaturale, avrebbe più senso parlare di caratteri geografici (fisici,morfologici, climatici ecc.) del paesaggio. Questa posizione di co-erenza concettuale e terminologica deriva dalla rielaborazione dialcune linee filosofiche europee, ma anche da acquisizioni più re-centi in altri campi: per esempio i concetti di médiance e trajection

del geografo francese contemporaneo Augustin Berque; quelli diartializzazione in situ et in visu di Alain Roger; particolarmente in-teressante è anche un filone americano di late ascendenze feno-menologiche (Relph, Casey, Hillman), che ha il pregio di esplici-tare l’inaggirabilità delle codificazioni simboliche delle dimen-sioni e relazioni spaziali e della loro articolazione in luoghi distinti,la cui adeguata comprensione è resa possibile dallo studio degliarchetipi e dei simbolismi presenti in tutte le culture.

R.G.: Pensare il paesaggio come descritto nel suo libro, ovvero ricco di

valori quali cultura, carattere storico, comunitario e simbolico, è ancora

possibile oggigiorno nel rievocare il senso dell’abitare heideggeriano?

L.B.: Personalmente trovo che la rievocazione letterale del pensie-ro heideggeriano può essere opportunamente lasciata sullo sfon-do nelle attuali argomentazioni, senza che nulla di essa sia statosmentito. Piuttosto credo, come ho a lungo argomentato in que-sti anni e nell’ultimo libro, che si debba maggiormente rifletteresui nuovi statuti degli abitanti e sul fatto che l’appartenenza ai luo-ghi e la cura dei paesaggi non possa che essere elettiva, una scelta diresponsabilità, quel diritto-dovere che la Convenzione Europea

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