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Dalla biografia alla professione. elementi per ricostruire il percorso formativo di un educatore e docente in contesti emarginati e complessi.
Autore Cesare Moreno interviste Pagina 1 di 1
INTERVISTA DIFFICILE (INTERVISTA EFFETTUATA DA ALLIEVI DEL PROGETTO CHANCE CHE FANNO ANCHE DOMANDE MOLTO PERSONALI) 3
FARE SCUOLA DOVE I RAGAZZI STANNO - DALLA BIOGRAFIA PERSONALE AL METODO DIDATTICO 9
FARE SCUOLA DOVE I RAGAZZI STANNO CON IL CUORE E CON LA MENTE -‐ TRENT’ANNI FA 9 UN POTENZIALE EVASORE SCOLASTICO 9 OSSERVAZIONI GRATUITE SUI COMPORTAMENTI DEI RAGAZZI 9 UNA MENSA PER I BAMBINI NEL PIENO DEGLI ANNI DI PIOMBO 10 FUGGE DALLA CLASSE SENZA NEPPURE DIRE BUONGIORNO NÉ A ME NÉ AI RAGAZZI 10 COSA SIGNIFICA FARE UNA SCUOLA ACCOGLIENTE – LA GUERRA DELLE BRIOCHES 11 QUESTO LAVORO LO FANNO TRENTA INSEGNANTI NORMALI, MA TOTALMENTE SPIAZZATI NEL RUOLO 12 MI VANTO DI ESSERE ALLEATO DELLA PARTE BUONA DELLE PEGGIORI PERSONE 13 IL MAGGIOR PERICOLO: LO STRAORDINARIO AIUTA A DEMOLIRE L’ORDINARIO. 14 NEPPURE LA SITUAZIONE DI GUERRA PIÙ ESTREMA PUÒ ESSERE L’ALIBI A NON FARE SCUOLA BENE 14 CRIMINE NON È SOLO CIÒ CHE FA SCORRERE IL SANGUE MA ANCHE CIÒ CHE FA SCORRERE L’INFELICITÀ NELLA VITA DEI GIOVANI 15
LA CASSETTA DEGLI ATTREZZI DI UN MAESTRO PERIFERICO (1991) 15
BULLI E VECCHI MERLETTI (A PROPOSITO DEI METODI DI PUNIZIONE) 16
LETTERA A "MOSTRUOSO SOCIALE" EDIZIONI LA MERIDIANA – VIVENDO DA VICINO LA MORTE VIOLENTA DI UNA GIOVANISSIMA PERSONA 20
LO SGUARDO GIOVANE ILLUMINA IL MONDO: 22
PEDOFILI - RIONE VILLA, NAPOLI – ESPERIENZE DI VITA IN PERIFERIA 22
DOPO LA CADUTA – LAVORANDO CON I GENITORI 23
DIRE L'INDICIBILE: AFFINITÀ ED ALLEANZE TRA INVENZIONE LETTERARIA ED INVENZIONE PEDAGOGICA. EMOZIONI IN GIOCO E POSSIBILE DIARIO DI UN MAESTRO 24
MATTINO IN FAMIGLIA (INTERVISTA PREPARATORIA DEL 6 NOVEMBRE 2008) 29
Autore Cesare Moreno interviste Pagina 2 di 2
O' Scassone – infanzia in periferia O' Scassone, era il nostro pulmino. Si trattava di una Giardinetta DODGE -‐ questo come altri particolari li ho ricostruiti lungo gli anni -‐ delle dimensioni degli attuali pulmini, un residuato bellico americano caratteristico col suo musone nero e paffuto, i fari sporgenti, il corpo ricoperto di doghe di legno che la facevano rassomigliare vagamente al corpo di un'ape. Questa immagine di auto paffuta e calda è rimasta per molto il prototipo di auto, e forse non solo per me. O' Scassone, si rompeva sempre: vedo ancora che in attesa dell'uscita l'autista apriva una specie di serranda laterale che aveva quel tipo di auto, ficcava la testa in quelle fauci come un domatore col leone, e armeggiava a lungo. Lo Scassone era molto alto e di lì si poteva godere una visione dall'alto di ciò che normalmente vedevo da sotto. Stavo sempre al finestrino e davo poca confidenza ai compagni di viaggio. Forse per questo i miei primi ricordi sono legati a quello che potevo vedere dall'alto. Fra i primi il ricordo di uno sputo ricevuto in bocca: lo scassone passava spesso tra ali di scugnizzi che stavano in strada a svolgere le più diverse attività, tra cui quella, che suscitava la mia ammirazione ed invidia, di 'appendersi dietro al tram'. Questi scugnizzi vedevano i bambini chiusi nel pulmino come bersaglio obbligato, ed essendo il solo a stare affacciato mi trovai al centro di un tiro incrociato che almeno in un caso fece centro. Questo è stato il mio primo rapporto con gli evasori scolastici. Lo Scassone faceva lunghi giri ai confini orientali della città, tra Barra, San Giovanni, Portici, San Giorgio; alcune immagini sono restate indelebili: il portale della scuola che doveva trovarsi in una di quelle ville vesuviane diroccate, ed era il classico arco un po' barocco che apriva in una corte. Dalle finestre dell'asilo, a volte stavo per ore a fissare quell'arco per vedere spuntare il muso nero dello Scassone. Un altro punto era il 'largo Monteleone'. Questo era ed è il piazzale della villa Monteleone che ha le dimensioni di una reggia. Questo piazzale, in posizione leggermente elevata e prospiciente alla campagna e alla villa dei Principi di San Nicandro (oggi questa visuale è perduta), si apriva come un terrazzo sul golfo e lasciava vedere uno spicchio della città e del mare verso Posillipo; quel largo, che era sterrato, veniva utilizzato da un maniscalco per ferrare cavalli e aggiustare carrozze e carrettini. Si respirava aria di campagna e odori di animali, l'ingresso in questo spiazzo, dove lo scassone girava e tornava indietro, lo sentivo come un sogno perché si vedevano cose lontane che non si toccano. Molto da vicino invece vidi un "litigio" tra due asini: ragli fortissimi, grandi denti in mostra, calci. In realtà avevo assistito ad un accoppiamento e nell'occasione ho rivolto ai miei genitori una delle prime domande senza risposta. L'altro punto di svolta era proprio davanti casa mia, tra i binari del tram e i cubetti di pietra lavica che non stavano mai a posto, che schizzavano quando l'auto ci finiva sul margine. L'autista, forse per vendicarsi che noi apostrofavamo la sua auto come scassona, ogni volta che arrivava e faceva lo slalom tra le buche diceva: siamo arrivati a San Giovanni 'atterra ciuccio' (storpiatura di "a Teduccio") . Fu così che appresi di non essere nato in un quartiere di buona reputazione. Di cosa accadeva nella scuola non ricordo quasi nulla: ad esempio non ricordo neppure vagamente come era fatta la maestra e se fosse una suora. Ricordo solo la messa: mi pare che fosse il giovedi, quando si faceva anche mezza giornata. Aspettavamo quel giorno per andare prima a casa, ma la messa era una tortura. Ricordo vagamente che doveva esserci uno di quei balconcini stretti e che mi mettevo li quando la finestra era aperta. Ricordo invece ancora con emozione che il colmo della felicità lo raggiunsi il giorno in cui scambiai qualcosa con un mio compagno. Non ricordo né il compagno né l'oggetto, so solo che è un ricordo che si è rinnovato spesso e che tornai a casa felice del mio acquisto. Anni dopo quando ho letto del museo didattico di Rosa Agazzi, mi sono subito entusiasmato e ancora oggi nel mio lavoro ritengo importante che i bambini e gli adulti possano marcare i luoghi ed il tempo con i propri segni.
Autore Cesare Moreno interviste Pagina 3 di 3
Un'intervista difficile in cui gli interlocutori vogliono risposte che li riguardano (intervista effettuata da allievi del progetto Chance che fanno anche domande molto personali) Genni: Vorrei cominciare con: come le è venuta l’idea del progetto chance? Cesare: l’idea mi è venuta perché io lavoravo a barra con i bambini che venivano cacciati…. Genni: dalle scuole o dalle case? Cesare: da tutte e due le parti, ed io riuscivo a portarli a scuola a farli lavorare a fare qualche cosa e poi quando andavano alla scuola media venivano bloccati tutti quanti e quindi io sapevo che erano ragazzi che se uno lavorava in un certo modo potevano attivare qualcosa, se uno li si trattava male… Genni:Ha avuto fede? Cesare: si, ho avuto fede… Genni: in tutti i ragazzi? Cesare: non è automatico. I ragazzi con cui ho potuto lavorare seriamente hanno avuto buoni risultati, non si sono persi, però ragazzi che ho conosciuto per tre o quattro mesi hanno fatto una brutta fine: tra questi ci sta un suicida, uno è stato sparato, un paio di tossicodipendenti gravi…. Pochi mesi non bastano, e noi sappiamo bene che un ragazzo che non riesce a seguire la scuola seguirà strade senza sbocco. Genni: non ha tentato di aiutarli quei due ragazzi? Cesare io ci ho provato, ma tre mesi è troppo poco, li ho conosciuti quando era troppo tardi, i giochi erano già fatti… Angela: ma era tardi perché il percorso era finito o perché….. Cesare: era tardi per me perché li ho conosciuti alla fine della 5° elementare e quindi non sono riuscito a fargli capire che… Genni: era l’ultimo anno? Cesare si, era l’ultimo anno. Quando ho insegnato ai bambini piccoli, ho visto che se uno li tratta in un certo modo riescono abbastanza bene, se li si tratta male seguono strade sbagliate. Poi ho visto che i ragazzi miei quando andavano alla scuola media erano tutti bloccati, e l’idea è stata quella di inventare, anche nella scuola media, un metodo di lavoro che fosse adeguato e più utile ai ragazzi, perché nella scuola media i ragazzi non vengono trattati nel modo giusto anche perché nelle scuole medie l’età dei ragazzi è un’età difficile, sono un po’ rompiscatole un po’ antipatici ….. Genni: vabbè questo si sa, tutti i ragazzi che vogliono giocare… Cesare: si certo si sa …… Angela: si ma non è certamente il luogo della scuola media quello per giocare, ci si deve prendere la terza media, e nemmeno quello per divertirsi o per offendere, per fare il più chiasso possibile. Lì, alla pasquale scura era tutto serio ed io andavo lì per fare chiasso (casino) perché così era reputata la scuola, un posto dove fare casino Genni: come ed a chi ha scritto per realizzare il progetto chance? Cesare: io per un certo periodo ho lavorato al provveditorato agli studi di Napoli, e mi occupavo degli insegnanti che si dovevano occupare dei ragazzi un po’ più difficili, poi il modo in cui lavoravo non è piaciuto e quindi mi hanno cacciato.. Genni: dalla scuola? Dal posto dove lavoravate? Cesare: dal posto Angela: perché come lavoravate? Cesare lavoravo nello stesso modo con cui lavoravo con i ragazzi, cioè io consideravo anche gli insegnanti come persone e non facevo “a chi figli ed a chi figliastri” (preferenze) e siccome invece spesso negli uffici si trattano in un modo gli amici ed in un altro modo gli sconosciuti, questo non piaceva; un’altra cosa che non piaceva è che c’era un “capo” che diceva che io ero più importante di lui e ciò sulla distanza non è andato bene perché le persone conoscevano più me che lui e questo non è stato gradito… Genni: ma è stato tutto vostro merito se questo accadeva…. Cesare si certo certo, ma non è che me ne veniva in tasca qualcosa, però io sono rispettato e lui non si sa nemmeno più chi fosse…questo dunque è il motivo, perché le invidie e le gelosie che conoscete voi ragazzi, non le affrontate solo alla vostra età ma anche i grandi continuano a sentirla… Genni: una delle cose più cattive del mondo, la gelosia, l’invidia…, dunque stavamo dicendo, come si è aperto chance? Cesare: ad un certo punto negli uffici, essendo Napoli una città in cui più ragazzi non vanno a
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scuola… Genni: si questo lo so… Cesare: ecco allora si è deciso di fare un progetto con un metodo diverso più idoneo a questi ragazzi. Questo progetto l’avevano fatto Marco Rossi Doria ed una professoressa che si chiama Angela Villani, e, presentato al provveditore, questi lo ha approvato e poi si sono ricordati di me me che avevo esperienza in questo ambito e così mi hanno chiamato… Genni: c’è il progetto sui tre quartieri Barra-‐ S. Giovanni, Soccavo e Quartieri spagnoli..un gemellaggio dunque…. Cesare: si adesso c’è, all’inizio è stato difficile, soprattutto tra i ragazzi, ma anche tra i grandi, ora va molto meglio… Genni: un po’ d’invidia? Cesare: un po’ d’invidia… si certo può darsi…non l’ho detto io, l’hai detto tu… hai intuito qualche cosa… Angela: è difficile il lavoro di un coordinatore? Cesare: si perché ci sono due modi per fare il coordinatore: il primo è quello in cui ci si mette la coppola in testa –forse lo conoscete anche voi -‐ e si fa il comandante, e quello è facile; poi invece c’è un altro modo con cui si cerca di far essere tutto a posto…. Angela: ognuno ha il suo compito…. Cesare: che ognuno abbia il suo compito, ma poi soprattutto che ci siano le chiavi per aprire la scuola, che ci siano le persone, che ci sia tutto l’occorrente quindi il coordinatore non è un comandante, ma un servitore un servitore nel modo in cui dovrebbero funzionare i servitori.. Angela: se c’è un problema ci si rivolge al coordinatore, perché è anche una figura un po’ più grande… Cesare: si certo, ha l’incarico ed il tempo per provvedere a tutte le cose che servono e non solo per le cose materiali, ma sono anche per dire pensare al corso che stai seguendo tu o il corso che stiamo organizzando con altri… bisogna pensarci due anni prima per averlo, cioè io in questo momento non sto lavorando per il 2003, io sto lavorando per il … Genni: per il 2010, 2006… Cesare: no, per il 2010 mi piacerebbe, no, sto lavorando per il 2005, ci sei andato vicino… Genni: allora per il 2005 andrà tutto bene? Cesare: devo per forza pensare che va bene, perché devo organizzare Genni: a noi fa piacere che va bene, così andate bene voi, andiamo bene noi ragazzi…… Cesare però se io non penso al 2005 oggi, al 2005 non ci arriveremo mai, come del resto voi state studiando delle cose che vi frutteranno tra qualche anno non vi fruttano subito.. Genni: si ho capito.. cosa vi ha dato la forza per andare avanti chance? I ragazzi non sono facili, è difficile farli studiare….. Cesare: no, non sono facili, ma il mio scopo non è quello di farli studiare, Genni: di far capire… Cesare: neppure… Genni: di cambiarli…. Cesare: no, io non devo cambiarli, sono loro che cambiano noi, io non devo fare niente sono loro che devono fare, il nostro scopo non è ficcare dentro le vostre teste delle cose, la nostra idea è che c’è una persona che ha una testa, che pensa che ha dei sentimenti che ha delle paure e dei desideri e che questa persona, essendo giovane e con poca esperienza, ha bisogno di appoggiarsi a qualcuno che abbia più esperienza e che sappia più cose, quindi noi ci proponiamo un accompagnamento in cui si prendono le cose buone che abbiamo tutti e due le confrontiamo e le miglioriamo. Il nostro insegnamento non è una lezione, è un incontro e quindi a me piace fare questo lavoro perché facendo questo lavoro io incontro delle persone, mentre se facessi l’insegnante e basta io non incontrerei nessuno ma ripeterei semplicemente quello che c’è scritto nei libri e questo non mi interessa…
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Genni: lei ha detto che non si sente proprio un insegnante, ed erano contenti i ragazzi di questo? Cesare: i ragazzi con cui mi sono incontrato si sono trovati bene, io li considero delle persone non dei bambini, la prima volta che sono entrato in classe i piccoli di sei anni, loro parlavano ed io scrivevo… loro erano meravigliati ed a un certo punto mi hanno chiesto cosa scrivevo pensando che scrivessi “cose cattive” su di loro, risposi che scrivevo appunti su quanto loro stavano dicendo perché ciò che loro dicevano per me era importante, ciò che i bambini dicono in prima elementare poi non lo ripetono più, infatti ho ancora conservati gli scritti… Genni: si, certo hai ragione Angela: si perde l’ingenuità, l’innocenza, si passa ad una fase molto più concreta… Genni: più matura… Cesare: si più matura…. ripetono le stesse cose che diciamo noi e però la maturità non è che fa diventare “più scemi” invece crescendo parecchi…. Genni: c’è chi va dalla parte del bene e chi dalla parte del male, voi quanti ne avete visti dalla parte del bene? Cesare: in generale ti ho detto i ragazzi seguiti per cinque anni sono andati abbastanza bene.. Genni: ma intendete alle elementari? Io chiedevo dei ragazzi come noi… delle medie… Cesare a di voi? Bè dei ragazzi come voi lo sapete sono anche il vostri compagni, proprio una fine pessima, per il momento non l’ha fatta nessuno, le ragazze invece di essere incinte a 13 anni come le mamme restano incinte a 16 anni e questo già è qualcosa Angela: certo è già meglio.. Cesare: alcune non sposano a 14 anni ma a diciotto.. Genni: a 14 anni non si possono sposare Cesare: con la dispensa dei genitori lo possono fare oppure vanno a vivere a casa del fidanzato ed è come se fossero sposati…, altri ragazzi hanno trovato un lavoro Angela: fanno dei passi in più rispetto ai genitori.. Cesare: si rispetto ai genitori, ma soprattutto rispetto a se stessi, un mucchio di voi, nostri ragazzi, non si riconosce capacità, il problema principale che avete voi giovani è quello che siete forti, intelligenti, capite un sacco di cose ma non ve le riconoscete Genni: però c’è anche qualcuno che fa il buffone su questi ragazzi… Cesare: certo, questo lo so però nessuno può fare il buffone con chi è convinto di valere: se sai di giocare bene a pallone, non c’è nessuno in grado di convincerti che non è vero…..e puoi tranquillamente fregare qualcuno che ha 30 anni, ma nelle cose intellettuali, nelle cose della mente, sembra che non sia così perché non ci sono prove altrettanto evidenti, ma invece un ragazzo di 15 anni può tranquillamente discutere con un adulto nel capire le cose ed anche nel trovare soluzioni nuove. Il ragazzo giovane non sempre ha la costanza, la serietà, ma quello è normale per cui il lavoro che facciamo noi è quello di aiutarlo a riconoscersi le buone caratteristiche. Quando tu hai scoperto di essere “ricco” Genni: ricco in che senso? Cesare: ricco di buone caratteristiche, di come sei dentro. Se qualcuno ti offre di guadagnare facile vendendo delle bustine tu non lo fai, ma se invece sei convinto di essere la “schifezza della schifezza” tu accetti per diventare importante, ma se ti senti importante dentro non c’è nessun delinquente o camorrista che ti può convincere… Genni: no, sbaglia su questo, perché quando un ragazzo ha una mentalità, ha quella mentalità e basta! Cesare: no no, fatti dire nessuno è convinto che nella criminalità ci sono dei vantaggi… Genni: no, certo, si finisce in carcere, si fa del male, muore qualcuno.. però… Cesare: fai del male agli altri ma soprattutto a te stesso e questo lo sanno troppo bene tutti quanti, quindi se uno si “butta” da quel lato lì è perché non si vuole bene…. Angela: è una sua scelta… Cesare: si , ma è una sua scelta di morte, non è una scelta fatta perché attratto dalla ricchezza..
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Genni: scusi con i ragazzi che hanno preso la terza media ha ancora contatti? Cesare: si, so tutto di tutti Genni: Ah sa dove state o loro sanno dove state voi? Cesare: si si lo sanno perché io sono solo ma io so di loro Angela: io sono stata una volta da voi, ma non mi ricordo bene il posto…. Genni: ma quei ragazzi che non si sono salvati, ha perso proprio ogni contatto? Cesare: ti ho detto, di quelli che non si sono salvati uno è stato sparato, un altro si è suicidato, un altro è tossico… cioè sono persone che oltretutto se ti incontrano non ti riconoscono neanche.. Angela: ma chance non poteva fare proprio niente per loro? Cesare: ma questi non sono ragazzi di chance, di quelli di chance nessuno ha fatto una brutta fine, uno solo ha una forte propensione a buttarsi nel pericolo e stiamo lavorando per evitarlo, … Angela: lei pur potendo avere una vita normale ha scelto di lavorare nel progetto chance, perché ha scelto di lavorare a chance Cesare: questa è la vita normale…. Angela: uno stress continuo, costantemente avanti e indietro….. Cesare: questa è una vita normale, intanto le persone di cui io mi occupo sono i miei vicini di casa, non sono degli estranei, e lavoro per i miei concittadini. Contribuisco a vivere una vita migliore per me e per i miei figli che vanno a scuola con loro. E’ un’esperienza, anche per loro, positiva, perché la vita non è fatta di rose e fiori, ma la vita è fatta anche di queste cose ed è meglio rendersi conto di cosa si tratta. Genni: la vita senza problemi non sarebbe vita…e quindi vi danno la forza di andare avanti. Forse io andrò a lavorare fuori Napoli, chance offre la possibilità a chi vuole spostarsi, di far lavorare i ragazzi in altre parti d’italia? Cesare stiamo facendo questa esperienza ora, prima ci si iscriveva al collocamento della propria città, ora con la nuova legge, ci si iscrive alle agenzie territoriali che sono in collegamento con tutta Italia, ed esistono anche delle nuove forme per aiutare i ragazzi ad imparare e trovare un lavoro, si chiamano tirocini formativi una specie di apprendistato Genni: Sempre da parte di chance? Cesare: no, questa è una legge generale e vale per i ragazzi che hanno già finito. Noi abbiamo offerto ai ragazzi che avevano già un titolo di studio la possibilità di andare fuori in giro per l’Italia a vedere che possibilità esiste per l’’inserimento lavorativo. Angela: Quando sono andati a Verona? Cesare: si sono andati a Verona, a Forlì, a Rimini, hanno fatto un giro … Angela: Come è andata? Cesare: è andata bene, hanno avuto un’ottima accoglienza, ci stanno delle buone possibilità e ciò che ci proponiamo è di realizzare una rete di “amici” che dia la possibilità ai ragazzi di sentirsi “a casa” senza sentirsi “sperduti”. In tal modo posiamo offrire anche a chi non ha finito la possibilità di scoprire un ambiente di lavoro più sano, corretto per uno due o tre mesi ed imparare come si lavora civilmente e non sotto “schiavitù” Genni: ho capito, allora chi ha finito chance potrebbe anche partire? Cesare: si, lo stiamo organizzando.. Genni: tra quanto tempo è possibile? Cesare: non lo sappiamo ancora quando il tutto diventerà operativo, perché dobbiamo trovare dei datori di lavoro in quella parte di Italia che sono disponibili ad accettare i nostri ragazzi, ma ci sono buone possibilità. Avremo a febbraio un incontro a Verona con persone con cui concordare anche gli alloggi Genni: davvero? E la casa poi la pagate voi? Cesare: no, no… c’è una legge che dovrebbe fornire case anche ai lavoratori immigrati. Noi vorremmo far avere una casa ai nostri ragazzi, non so se avete mai sentito parlare della Gescal, le case popolari che vengono costruite con i soldi dei lavoratori, avete mai sentito parlare di queste case? Genni: si, si le case popolari Angela: tipo l’ostello? Cesare: no, l’ostello è un albergo, invece queste sono proprio case. Hai mai sentito parlare di Scampia, di 167?
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Angela: ah si, si, sono case, ma lì è il bronx…….. Cesare: si è il bronx, però sono case costruite con la legge n°167, perciò si chiamano case della 167, la legge dice che le case devono essere costruite per le famiglie con figli ecc.. ma anche per i lavoratori che si spostano e quindi quando vanno in una città che non è la loro hanno diritto ad un luogo dove vivere. In questo senso vorremmo chiedere di costruire una casa con 8, 10 posti in cui possono andare a stare gli allievi di chance che vanno a fare degli stage lavorativi. Questo è uno dei lavori del coordinatore. Genni: però vorrei dire una cosa:lei che dice riguardo ai ragazzi, c’è più criminalità a S. Giovanni o ai Quartieri? Dove c’è più possibilità di salvarli? Cesare: i ragazzi si possono salvare solo da soli, noi possiamo salvarli solo dai maltrattamenti, perché chi è maltrattato, poi maltratta… Genni: come voi li salvate solo dai maltrattamenti? Quelli che vivono in mezzo alla strada no? Cesare: ma, a 15 anni è difficili che hanno intrapreso strade particolarmente brutte, qualche fesseria può averla già fatta ma non ha proprio già “scelto” come vivere, è dopo che ciò succede…. Genni: no, no, ci sono ci sono… Cesare: si ci sono, ma francamente noi non ci occupiamo di quelli lì, perché con quei ragazzi ci vogliono altri tipi di interventi, noi facciamo interventi volontari nel senso che siete voi a scegliere di venire da noi, non siete obbligati, invece se un ragazzo ha già una storia di un certo tipo, la volontarietà non c’è, perché o fai, in quel caso un programma di recupero, oppure vai in galera. E soprattutto se è entrato in un certo giro, se non ha voglia di uscirne non c’è possibilità di fare niente per lui… Genni: si, ma se lui vi chiedesse una mano…… Cesare: si però ci vuole un’altra “attrezzatura” … Genni: no, si sbaglia…… Angela: io sono stata a Reggio Emilia, con quali soldi Chance mi ha mandata? Io vorrei fare altre esperienze di lavoro, è possibile farle con chance? Cesare: la seconda domanda ho risposto già prima con le pratiche relative ai tirocini formativi ma addirittura abbiamo chiesto 20 borse di studio per realizzare questi tirocini, c’è la possibilità di averne per pagare viaggio soggiorno ecc..ma per il momento è tutto ancora in sospeso..ad esempio se tu Angela vuoi fare uno stage con i bambini a Reggio Emilia, con la borsa di studio …. Genni: la pagate voi… Cesare: non la paghiamo noi ma la borsa di studio che può darle questa possibilità, invece quando siete stati fuori siete andati con i soldi che il progetto chance ha ricevuto dalla legge per i giovani, la legge 285, oppure quando non possiamo usare quei soldi lì, abbiamo dei soldi che ci ha donato il Presidente della Repubblica e noi li abbiamo conservati per prendere queste iniziative ed offrire tutto questo a ragazzi particolarmente bisognosi o meritevoli. Prossimamente ci organizziamo per andare a chiedere altri soldi. Una delle cose che fanno i ragazzi più grandi, quelli che hanno finito, è proprio di andare in giro a mostrare l’esito positivo di persone che invece potevano finire male. Vedi, le persone non fanno una brutta fine solo perché diventano criminali, ma anche perché possono essere talmente poco qualificati talmente poco capaci di lavorare insieme agli altri che finisce sempre per fare lavori da morto di fame, quindi …. Angela: al nero…. Cesare: si al nero, non solo al nero ma anche sporchi pericolosi, pesanti, quindi i nostri ragazzi crescendo con noi, magari evitano di vivere una vita intera in modo particolarmente disgraziata. Genni: aspetta però adesso non ho un diploma, non ho niente, sto lavorando anch’io adesso al nero… Cesare: lo so, stai lavorando ancora al nero, però stai lavorando anche con un accompagnamento, perciò hai delle persone grandi che ti aiutano a capire, che ti aiutano ad imparare, perché il lavoro dei giovani non è tutto sbagliato anche prima dei 18 anni, è sbagliato il lavoro che sia solo sfruttamento, infatti voi sapete che noi accettiamo anche il vostro tipo di lavoro, ma dovete mantenere un rapporto di discussione con la scuola…. Marco (Rossi Doria): Genni è in una situazione particolare, non ha la possibilità di mantenersi,
Autore Cesare Moreno interviste Pagina 8 di 8
il suo problema non è che non ha accettato di fare il corso di pizzaiolo, lui ha dovuto lasciare il corso da pizzaiolo (ma non è che il corso lo ha scartato?) Cesare: infatti perciò stiamo istituendo le borse di studio..e raccogliere altri soldi… la maggior parte dei ragazzi non studiano perché sono tristi, infelici, non credono in se stessi, hanno preso un’altra via…. Ma non è per il problema dei soldi, ci sono invece ragazzi come te che vorrebbero impegnarsi ma che non hanno soldi. In questi casi qui e solo in questi casi qui noi interveniamo con un “regalo” ed è per questo che noi raccogliamo soldi. Pensa che due persone ricche che si sposavano, hanno raccolto i soldi dei regali e li hanno donati a Chance una ventina milioni …. Genni: ma di euro o in lire? Cesare: se in euro, e se li avessimo avuti in euro mica stavamo qui…. Genni sto scherzando Cesare: quando i nostri ragazzi sono andati a Verona hanno mostrato come questi soldi hanno reso bene attraverso la presenza di persone “civili”, c’è soddisfazione nel contemplare l’investimento fatto ad esempio in un quadro, ma se si interagisce con un “essere umano”, l’effetto è completamente diverso! Genni: certo: questo è vero! Cesare: ecco perché a partire da gennaio, Marco, che è il presidente dell’associazione creata ad hoc, si mette in moto perché la gente i soldi può averli, magari non ha voglia di darli al governo, ma se tu, anche qui attorno mostrando ciò che facciamo chiediamo 10 euro al mese per far funzionare chance stai tranquillo che ce li danno. E’ un modo per sconfiggere la camorra, creare un sistema democratico che sia economicamente forte e competitivo sul territorio alla luce del sole. Genni: e che fate? La camorra viene da voi e……. Cesare: la camorra deve avere il coraggio di mostrarsi, io ne conosco molti di questi personaggi, sono uomini come noi ed in generale sono poveri infelici e dei testa di cavolo senza precedenti, ma non hanno mai avuto il coraggio civile di venire qui e dire NO! Questo ragazzo di 15 anni deve morire ed io devo fare i fatti miei! Questo coraggio fino ad oggi non l’ha avuto nessuno… Genni: non è una cosa coraggiosa questa….. Cesare: vero è una cosa da vigliacchi. Ma ognuno si crea una giustificazione e dicono che tutti quanti rubano, la polizia fa la camorra, la finanza fa la camorra…. Io penso che forse se riuscissimo a chiedere soldi alla luce del sole, quelli che li chiedono di nascosto si troverebbero in difficoltà. Angela: ma veramente danno i soldi? Cesare: appena sa il motivo, la gente diventa generosa, non solo soldi, ma prestano anche direttamente il lavoro appena sanno che è per i ragazzi: mi hanno aggiustato porte, fatto gli impianti elettrici….l’occasione offerta fa sentire meglio le persone, restare chiusi non fa bene, non è vero che sono tutti quanti nemici. Spesso gareggiano a chi è più “cattivo”, però quando tu fai il primo passo positivo poi è come un’infezione buona Angela: poi ne fai tanti, ma lo stesso vale per il passo negativo…. Cesare: certo, ma i passi negativi già li vediamo, a noi ci toccano i passi positivi Genni: scusi, lei ha mai provato a fare un passo a qualche ragazzo? Cesare si certo questo facciamo, siete voi stessi che fate queste cose… I ragazzi che sono stati in giro ad aiutare i ragazzi come voi stanno già restituendo in parte quello che hanno ricevuto e pure voi farete la stessa cosa. Appena voi sarete sistemati, vedrai che non mancherà occasione per ricambiare, è una catena positiva , le catene negative già ci sono… Angela: troppe… Cesare: Troppe, noi ne teniamo una positiva , ma appena comincia a marciare la cosa si allarga, tieni conto che qui in centinaia di anni di cose come chance non ne sono mai state attivate. Di interviste di ragazzi ad insegnanti non ne sono state fatte molte, di interviste di giornalisti ai ragazzi nemmeno, di trasmissioni scandalistiche si moltissime, ma non altro… Genni: perché noi vogliamo sapere cosa pensa lei di chance…. Cesare: perché tutto questo?
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Genni: perché il tempo cambia…… Cesare cambia perché noi lo facciamo cambiare… Angela: c’è stata una spinta da parte di qualcuno…. Cesare: si tentiamo di cambiarlo noi…Ad esempio ora i ragazzi del quartiere hanno un luogo che appartiene a loro, dove possono essere aiutati a risolvere problemi, ed infatti dopo cinque anni di Chance, gli stessi abitanti chiedono di accogliere i loro figli, perché si fanno pubblicità da soli….. tra amici… Angela: c’è un giro di parole ed infatti anche io ho saputo di chance così.. Genni: certo io a scuola normale stavo male…. Grazie Cesare Angela: Grazie Cesare: grazie a voi! 12-‐12-‐2003
Fare scuola dove i ragazzi stanno con il cuore e con la mente: dalla biografia personale al metodo didattico
Intervista radiofonica di Giovanni Anversa a Cesare Moreno per la trasmissione “Scelte di vita” trasmessa da RAI TRE il 5 gennaio 2004
Fare scuola dove i ragazzi stanno con il cuore e con la mente -‐ Trent’anni fa G-‐ Trent’anni fa la sua scelta si chiamava “mensa dei bambini proletari” di Napoli, oggi quella scelta continua ad essere dalla parte dei ragazzi, quelli che a scuola non ci vanno più, non ci vogliono andare o non sanno cosa farsene dell’istruzione. Questo maestro non aspetta i suoi alunni in classe ma se li va a cercare per i vicoli di Napoli, si chiama Cesare Moreno e ha capito che se vuole fare scuola a loro deve partire dal luogo in cui stanno con il cuore e con la mente. Il ragazzo con il cuore e con la mente non sta a pagina 27 del libro di testo ma sta magari al numero civico 325, dove ha lasciato una situazione spesso dura e difficile. Bisogna partire da lì. Quel luogo per Cesare Moreno diventa il quartiere di San Giovanni a Teduccio, dove nessun insegnante napoletano va volentieri. dove ci finisce chi ha il punteggio basso e nessun’altra chance. Lui il punteggio lo aveva alto e la sua chance se l’è costruita lì, è diventata un progetto che si chiama proprio così, “Progetto chance”: dare una chance a tanti ragazzi la cui realtà sta insegnando molto più della scuola perché li ha già istruiti in fondo su quel che gli serve nel quartiere e nella vita, che con ogni probabilità per loro è già scritta. L’ho conosciuto da vicino questo progetto ospitato in un edificio annesso al circolo didattico “normale” e ho capito cosa significa l’incontro con quei ragazzi che finiscono fuori dal circuito. Capisci il loro bisogno di relazione, di espressione, di affettività che traducono con il linguaggio che imparano per strada: una sorta di fisicità esplosiva e arrogante. A volte gioiosa, scanzonata, a volte violenta e disperata ma palesemente fragile e disorientata e bisognosa di gesti di accoglienza e di protezione. È con questa dimensione che Cesare Moreno fa i conti ogni giorno sapendo che solo così poi potrà parlare con i suoi ragazzi anche di Dante o di Leopardi. sistematicamente in punizione
Un potenziale evasore scolastico G-‐ Prima di parlare dei suoi ragazzi, parliamo di lei ragazzo, Moreno, come fu la sua esperienza scolastica? M-‐ La mia esperienza scolastica sarebbe stata da drop-‐out se mi fosse capitata una famiglia diversa. C’e’ un episodio che ricordo spesso: dalla prima alla terza elementare, poiché mia madre insegnava lontano da casa e non poteva badarmi, mi ha messo in una scuola privata e in questa scuola privata per tre anni, durante l’intervallo mensa, sono stato sistematicamente in punizione, cioè neppure un giorno non sono stato punito, perché non imparavo a memoria gli appunti della maestra. E questo non voler imparare a memoria le cose e i copioni scritti dagli altri credo che sia stato l’inizio di una vita che sto ancora scrivendo da solo, perché è difficile che qualcuno riesca a scrivere su di me.
Osservazioni gratuite sui comportamenti dei ragazzi G-‐ Poi andando avanti come e’ andata? Elementari, medie, scuola superiore…
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M-‐ Andando avanti, è stato più o meno sempre così. Alla scuola superiore capitava, anche questo era diventato “un classico”, che leggessi sempre le pagine del libro successive a quelle che mi venivano assegnate di conseguenza ero praticamente sempre impreparato. Ero l’ultimo fra i promossi e sempre incerto se venissi promosso o meno. Soprattutto, litigavo sistematicamente con i professori nel senso che non accettavo le loro osservazioni gratuite sul mio comportamento. Le faccio un esempio banale: all’epoca veniva considerato quasi deviante il fatto che io facessi attività sportiva invece di stare solo seduto nei banchi. La professoressa di greco, bravissima professoressa, era una di quelle che si dispiaceva di questa mia propensione sportiva e io le ribattevo a tu per tu: “siete voi che mi avete insegnato kalos kaj agathos che vuol dire bello e intelligente, bello e virtuoso e quindi lo sport me l’avete insegnato voi”. G-‐ Le sue passioni scolastiche quali erano alla fine? Nonostante questa sua ribellione continua e perenne alle regole. M-‐ La mia passione scolastica era studiare, anche oggi studio, ogni giorno studio qualcosa di nuovo, non passa giorno che io non studi ma forse la scuola non è fatta per studiare. La scuola dei miei bravi professori -‐ ci sono anche i cattivi professori -‐ era la scuola che doveva in qualche modo trasmettere, indottrinare, inquadrare, non era la scuola che promuoveva cioè che cercava di aiutare il giovane a costruire se stesso. G-‐ Come le venne fuori la passione per l’insegnamento? M-‐ Non mi è venuta fuori perché da un certo punto di vista è come se fossi stato un ragazzo di strada fino a trentotto anni, cioè fino a trentotto anni non ho mai svolto un’attività regolare, ho fatto molte attività di ricerca, di studio, sempre e sistematicamente al nero. A trentotto anni, avendo già un figlio e avendo decine di parenti che mi dicevano che dovevo “mettere la testa a posto”, ho fatto un concorso e sono diventato insegnante ma per la cronaca io non prenderò mai la pensione. Tutti i discorsi sulle pensioni che sento non mi riguardano minimamente perché a questo punto di vista sono al di sotto di ogni soglia.
Una mensa per i bambini nel pieno degli anni di piombo G-‐ Cosa significò per lei l’esperienza napoletana della “mensa dei bambini proletari”, anche per le sue scelte future? M-‐ La mensa è una di quelle cose che ho condiviso con tante altre persone. Ho contribuito all’avvio ma poi non ho partecipato alla costruzione concreta perché ebbi disavventure giudiziarie che si sono concluse in bolle di sapone e che però mi hanno impedito di lavorare nella mensa. Quindi non voglio appropriarmi di una esperienza che alla fine non ho fatto, anche se certamente l’inizio è stato dovuto molto a me e a persone come me. La cosa significativa è che in piena epoca di persone che si avvicinavano alla violenza facendo discorsi folli, noi invece ci rimettevamo con i piedi per terra: andavamo a incontrare non il proletario ideale, come per tanto tempo era stato detto, ma il proletario vero che mangiava e che beveva. In particolare il bambino perché avevamo riconosciuto che, nella gerarchia oppressiva, c’è sempre qualcuno che sta un gradino più sotto e certamente i bambini stavano un gradino sotto gli altri con l’aggravante di non avere voce. Considero questa esperienza molto importante come forma di “vaccinazione” rispetto a scorciatoie di qualsiasi tipo, non tanto per noi che l’abbiamo promossa ma per tutti quelli che l’hanno vista crescere intorno a noi. Vedevano che pensare a un cambiamento sociale non significava necessariamente pensare a capovolgere il mondo ma poteva anche significare aiutare un mondo a crescere e questo credo sia molto più importante che non capovolgerlo.
Fugge dalla classe senza neppure dire buongiorno né a me né ai ragazzi G-‐ Come è stato il suo primo impatto con la scuola e quando avvenne? Parlo del primo impatto da insegnante, da maestro, cosa le provocò?
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M-‐ Il primo impatto da insegnante fu allucinante. All’epoca avevo uno status particolare: rientravo nella cosiddetta DOA (dotazione organica aggiuntiva) in sostanza ero una specie di supplente interno. Andai a sostituire un’insegnante in una classe di periferia, a Barra, in una quinta elementare e ho saputo dopo che la titolare aveva detto al direttore, ed è una cosa rarissima, che o lei andava via da quella classe o addirittura si sarebbe licenziata. G-‐ Le hanno lasciato una bella eredità. M-‐ Quando sono entrato in classe ero in ritardo perché questa scuola stava in un posto difficile da trovare. Quindi arrivo in ritardo e a metà mattinata questa insegnante si alza e letteralmente fugge dalla classe senza neppure dire buongiorno né a me né ai ragazzi. Questo è stato il mio primo giorno di scuola. La classe, come era d’uso all’epoca, era il frutto di una scrematura, come si suol dire, di altre cinque classi, cioè avevano preso i peggiori elementi di tutte le classi, i bocciati, i pluribocciati – allora nella scuola elementare si bocciava ancora abbondantemente -‐ e li avevano radunati assieme. Avevano fatto una miscela esplosiva veramente ingestibile: stiamo parlando di ragazzi di dieci, undici anni. G-‐ La prima cosa che hai fatto quale è stata, fare l’appello? M-‐ L’appello era difficile da fare perché i ragazzi mica dicevano il loro nome. Quando sono entrato in classe sapevo che il problema fondamentale non è quello che sai ma quello che sei e come intendi entrare in rapporto con i ragazzi. Per esempio una delle cose che facevo era di farli parlare mentre io prendevo appunti. Questa cosa li spiazzava moltissimo perché erano abituati a un professore che parlava, invece avevano di fronte un professore che ascoltava. All’inizio hanno pensato che fossi una specie di poliziotto che faceva il verbale delle loro cattiverie. Poi me l’hanno chiesto: “Perché scrive?”. E io ho detto: “Scrivo quello che voi dite”. “Perché a chi lo dovete dire?”. “A nessuno”. “Quello che dite voi è importante e io devo capire come siete fatti voi”. G-‐ È lì che cominci a capire quali sarebbero state le tue scelte future? Dall’incontro con i ragazzi di questa classe di Barra cosa capisci? M-‐ Forse la consapevolezza è maturata due o tre anni prima, perché in uno degli innumerevoli lavori precari che facevo, ho fatto un’indagine sull’orientamento scolastico alla fine della terza media. Quindi ho girato diverse scuole medie di Napoli e in terza media c’erano otto, nove, massimo dieci allievi e io continuavo a chiedere: “Ma gli altri dove stanno?”. “Gli altri non ci sono più”. “Come non ci sono più?”. “No, sono stati bocciati negli anni passati”. Poi ne parlavo con il professore di sociologia con cui collaboravo e mi diceva: “Sì, ma questi sono fenomeni marginali”. Alla fine mi sono stufato e ho detto: “Adesso il fenomeno me lo vado a vedere e a studiare di persona, e vediamo se è veramente marginale”. Infatti non solo non era marginale, era gigantesco e c’erano anche dei fatti veramente di grande illegalità e di violazione delle minime regole di deontologia professionale. Allora mi sono messo a insegnare in quei posti proprio perché intendevo dimostrare che quelli che gli studiosi chiamavano fenomeni marginali, invece erano fenomeni consistenti e importanti.
Cosa significa fare una scuola accogliente – La guerra delle brioches G-‐ Moreno, parliamo di come nasce e cos’è oggi il “Progetto Chance”, che è un po’ il senso compiuto delle scelte maturate in quegli anni. Com’è una giornata della vostra scuola? M-‐ Io non sono proprio uno dei fondatori di “Chance”. “Chance” è nato da altri due insegnanti che si occupavano di queste realtà e che si sono ricordati del fatto che io ero stato estromesso in malo modo dal provveditorato agli studi di allora, dopo essermi occupato per due anni di dispersione scolastica. Estromesso in malo modo significa estromesso proprio con procedure illegali, con falsità e bugie di cui nessuno si è mai occupato e mai si occuperà. Sono ritornato ordinatamente in classe rifiutando qualsiasi premio cosiddetto di consolazione, si sono ricordati che io esistevo e che facevo questo lavoro e mi hanno chiamato e questo è stata una
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cosa positiva. Per me l’esperienza di maestro di strada è stata assolutamente selvaggia, nel senso che con la mia “Moto Guzzi 175” andavo recuperando ragazzi senza chiedere il permesso a nessuno. Invece c’era Marco Rossi Doria che aveva avviato un vero e proprio progetto ed è a quel punto che ci siamo incontrati su questa strada perché quando si sta per strada prima o poi ci si incontra; se si sta chiusi in casa o nell’accademia non ci si incontra mai. Ho cercato di applicare alla scuola media ciò che in qualche modo avevo imparato con i bambini più piccoli. Era il frutto dell’esperienza che avevo fatto in un istituto che si chiamava “Semiconvitto”, una specie di semiorfanotrofio in cui avevo imparato cosa bisognava fare per accogliere e per diventare ‘comunità’. La scommessa era quella di riuscire a portare questo metodo dai bambini piccoli agli adolescenti. E a proposito delle giornate tipo del “Progetto chance”, mi piace ricordare quelle del primo anno che sono state indubbiamente le più terribili. Per prima cosa gli evasori scolastici che avevamo convinto a non evadere piu’ arrivavano a scuola in anticipo e questo diventò immediatamente un problema perché, arrivando in anticipo, non si sapeva come gestirli. Poi ricevevano moltissime visite, vari personaggi in moto che arrivavano a indagare, a gironzolare, a provocare. Immediatamente c’era un problema proprio di gestione degli spazi e dei tempi e anche un problema, quasi militare, che andava affrontato con uno stile diverso dal solito quindi non con il guardiano, non con i cancelli chiusi e però nemmeno subendo l’invasione sistematica. In quel caso ci fu una invenzione strategica, il progetto che poi abbiamo chiamato “Spassatiempo”. Abbiamo attrezzato una stanza per l’accoglienza dei ragazzi che arrivavano in anticipo ma anche per fare entrare quegli ospiti malintenzionati in modo tale che la nostra disponibilità potesse neutralizzare la loro aggressività. Devo dire che è una delle cose che ha funzionato e che ancor’oggi fa la differenza tra noi e le altre scuole. Per esempio, il livello di pulizia e di ordine complessivo della nostra scuola è superiore a quello delle scuole cosiddette ordinarie. Se uno entra ha l’impressione di un manicomio totale perché ne succedono di tutti i tipi, però c’è una cura per gli spazi comuni. Essendoci buone relazioni tra le persone, non nel senso che siano tranquille o sempre positive tutti i giorni, ci si sfoga di meno sulle cose come avviene nelle scuole “normali” dove quando uno va nei bagni fa ogni sorta di cose. Questa è una nostra caratteristica: non c’è una distinzione tra spazi nobili e spazi ignobili, il gabinetto è altrettanto importante quanto l’aula, il corridoio, l’ingresso. La giornata si apre con la colazione e questa è un aspetto che segna la differenza con la scuola “normale” e segna anche uno spartiacque pedagogico. Noi l’abbiamo chiamato “spartiacque della brioscina” nel senso che ormai abbiamo scoperto che c’è un partito trasversale contrario alla brioscina, cioè che ritiene che offrire la brioscina al mattino ai ragazzi sia una forma di coccola indebita che non si deve fare. Esiste anche un’invidia piuttosto diffusa: “a me la brioscina non l’ha mai data nessuno perché loro la devono avere? Cosa hanno fatto per meritare la brioscina?”. C’è un dibattito aperto su questo argomento che veramente fa la differenza: noi abbiamo scoperto che la brioscina e’ importante non per motivi alimentari, ma perché abbiamo capito che i ragazzi avevano bisogno di un momento conviviale che gli era negato nelle loro case e che gli era negato dall’ambiente in generale.
Questo lavoro lo fanno trenta insegnanti normali, ma totalmente spiazzati nel ruolo G-‐Quali sono state le prove più difficili da superare? Non parlo di quelle che impone la burocrazia scolastica ma quelle alle quali i ragazzi ti sottoponevano e ti sottopongono tuttora. M-‐ Intanto non ripeterò mai abbastanza che questo lavoro lo fanno trenta insegnanti normali. Forse sono il solo a non essere tanto normale nel senso che faccio troppe cose in piu’ rispetto a quelle che dovrebbe fare un insegnante, quindi non sono un buon esempio. I miei colleghi vengono da scuole normali, sono stati reclutati con certi criteri e fanno ogni giorno questo lavoro. Ci tenevo a sottolineare questo per dire che non sono le mie prove ma sono le prove di trenta insegnanti che tutti i giorni hanno a che fare con questa specie di manicomio. Io credo che la difficoltà maggiore l’abbiamo incontrata proprio nelle prime settimane perché in capo a
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una settimana non sapevamo più chi eravamo, cioè se eravamo degli insegnanti, se eravamo dei missionari, se ci eravamo ormai distaccati da ogni funzione precisa. G-‐ Quindi un totale spiazzamento del ruolo. M-‐ Spiazzamento più totale. Il primo giorno di scuola dopo aver discusso per settimane una certa programmazione, sono bastati cinque minuti e la programmazione e’ stata completamente demolita e quindi ci siamo dovuti attrezzare per rapidissime riconversioni. Personalmente avevo già vissuto questa esperienza nel semiconvitto e sapevo che sarebbe andata a finire bene, però lo sapevo io ma non i miei colleghi, d’altra parte gli insegnanti non sono abituati a funzionare come un equipaggio.
mi vanto di essere alleato della parte buona delle peggiori persone G-‐ Le prove che devi affrontare per far vivere insieme ai tuoi colleghi, il “Progetto chance” per il recupero dei ragazzi che a scuola non ci vanno più, non ci vogliono andare o a cui non interessa l’istruzione, non riguardano però solo i comportamenti complessi e difficili degli adolescenti che vivono in quelle realtà, ma anche quelli delle loro famiglie perché voi dovete entrare in relazione anche con questo mondo. La prova la mettono in campo i ragazzini ma la mettono in campo anche le famiglie e il loro contesto sociale. Come va questa pressione dell’esterno? La pressione anche di fatti a volte anche difficili e duri. M-‐ Credo che questo sia uno dei punti sul quale abbiamo raggiunto i maggiori risultati e ancora una volta con pochissimo sforzo. Abbiamo detto fin dal primo giorno che la famiglia deve essere sempre un alleato, anche quando si tratta di una famiglia di criminali perché fino a oggi non abbiamo ancora incontrato nessuna famiglia che voglia per il figlio una sorte uguale o peggiore rispetto alla propria. Anche nei peggiori criminali abbiamo sempre trovato un briciolo di speranza che non a caso si esprime attraverso i figli. Quindi è certo che noi siamo alleati di queste persone, non siamo nemici di nessuno, siamo alleati soprattutto della loro parte positiva e questo atteggiamento viene percepito non solo dai genitori dei nostri ragazzi ma anche dal quartiere nel quale vivono. A me più volte qualcuno …….ha chiesto: “Ma tu non hai paura?”. “Ma di che cosa devo avere paura? Io non devo avere paura di niente perché … sono un alleato e mi vanto di essere alleato della parte buona delle peggiori persone”. Questa consapevolezza è importante perché anche nelle situazioni più dure la nostra scuola, finisce per essere quello che noi chiamiamo un’oasi di pace, rifugio tranquillo in zona di guerra. Tenga conto che noi abbiamo avuto delle morti molto vicine, come quella del fratello di una ragazza ammazzato a diciotto anni per una vendetta trasversale. Ci sono persone che sono orfane di un genitore per motivi simili, ci sono persone in questo periodo che sono a rischio della vita, però vengono a scuola. Non vengono a scuola per parlare di queste cose ma ci vengono per non parlare di queste cose; noi sappiamo benissimo che è giusto non parlarne ma proprio non parlandone è come se ne parlassimo. Sappiamo che esiste un pericolo, sappiamo che esiste una situazione dura: con quattro chiacchiere non si può cambiare la situazione. Il nostro problema fondamentale è stare vicino alle persone che hanno paura, alle persone che soffrono, e vogliamo farlo in modo positivo, nel modo giusto per dare a loro la forza di reagire, anche inventandoci delle iniziative concrete. Per esempio quando c’è stato quell’omicidio abbiamo convinto la ragazza che frequentava “Chance” a venire con noi per fare un viaggio in un’altra realtà dove c’erano altre persone amiche, non nel senso privato, ma con le quali abbiamo stretto un’alleanza. Si trattava di don Renzo Zocca un sacerdote di Verona che avevamo conosciuto in precedenza e che ha costituito nella sua realtà di quartiere una situazione estremamente accogliente e per dieci giorni siamo stati molto bene insieme. Per noi questo aspetto e’ fondamentale proprio perché non vogliamo subire negativamente il peso dell’ambiente anche perché noi agiamo in questo ambiente e secondo me ne siamo accolti pur con tutte le contraddizioni. Credo che ormai ci sia una realtà diffusa di accoglienza del nostro progetto, tant’è vero che dobbiamo cominciare a difenderci non dagli assalti dei nemici ma da quelli degli amici nel senso che ci sono molte persone che appartengono a
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famiglie vicine a quelle dei nostri ragazzi che vorrebbero inviarci i figli a tutti i costi. Questo però non è possibile perché i ragazzi che vengono da noi sono stati, purtroppo per loro, selezionati nel senso che provengono dalla dispersione scolastica e quindi non vogliamo indurre atteggiamenti analoghi solo per favorire ad altri di avvicinarsi a noi. Come sempre succede in questi casi, qualcuno che sta facendo questo scherzetto c’è: il ragazzo di dodici anni che dice: “io non vado più a scuola così dopo mi mandate a “chance”.
Il maggior pericolo: lo straordinario aiuta a demolire l’ordinario. G-‐ Rispetto a questa vostra attività che ruolo giocano le istituzioni scolastiche? Dovete superare prove difficili anche con loro o riuscite a costruire alleanze positive? M-‐ Questo progetto, come ho detto più volte, è uno dei progetti meglio dotati dal punto di vista finanziario, nel senso che hanno dato la quantità di denaro necessaria. È anche uno dei meglio dotati dal punto di vista delle professionalità, perché sei anni fa è stata fatta una cosa inaudita dal provveditorato che deve essere citata perché si e’ trattato di un’operazione coraggiosa: ci e’ stata data la possibilità di scegliere gli insegnanti sulla base esclusivamente della loro credibilità, della loro “chiara fama” per così dire. Chi fa’ questa operazione su grande scala è il governo degli Stati Uniti che ha una specie di talent scout che va in giro a reclutare le persone in grado di fare questo, ma è completamente estraneo alla nostra cultura burocratica e accademica. Da questo punto di vista se va male è solo colpa nostra, non è colpa di nessun’altro. Quindi da questo punto di vista l’esperimento ha funzionato e ha dato tutto quello che poteva dare e proprio per questo deve anche finire. Perché? Perché c’è l’altra faccia della medaglia come è già successo altre volte specialmente nella storia del meridione, lo straordinario aiuta a demolire l’ordinario. Chance invece di essere la testa di ponte per un lavoro di altri, può essere l’alibi per non fare altre cose più generali. Per esempio: in questi sei anni gli interventi generali sulla dispersione scolastica sono progressivamente diminuiti e così ci troviamo di fronte ad un comportamento che è quello che alcuni definiscono schizofrenia delle istituzioni. Di fronte alla dispersione scolastica, il problema dei problemi, diventa categorico intervenire ma lo si fa delegandone l’intero carico al “Progetto Chance”. C’e’ quel progetto, ci siamo liberati del problema. In realtà il 90% del lavoro che faccio come coordinatore di un gruppo di dieci insegnanti, è solo ed esclusivamente finalizzato a rimuovere gli ostacoli che l’ordinario pone alla nostra attività. Faccio un esempio per tutti e torno alle brioscine. Nel bilancio scolastico non ci sono le brioscine: ci sono quaderni, penne, carta per fotocopie, libri. Le brioscine non ci sono. Quindi cosa succede? C’è una specie di reazione immunitaria di tutto l’organismo scolastico, dagli amministrativi ai bidelli, ai quali da’ fastidio questa iniziativa e quindi la prima volta per riuscire ad acquistarle è stata un’impresa titanica. Detto questo, la situazione è che le istituzioni sotto molti aspetti ci amano e ci elogiano tantissimo e sotto altri aspetti invece non ci apprezzano affatto.
Neppure la situazione di guerra più estrema può essere l’alibi a non fare scuola bene G-‐ Agli insegnanti che spesso vanno in crisi per ciò che sta accadendo nella scuola di oggi, dal suo particolare ambito di vita e di insegnamento cosa si sente di dire? Cioè molti suoi colleghi entrano in aule dove non ci sono i ragazzi di “chance” e ci sono invece quelli che in teoria godono di tutte le migliori condizioni. M-‐ Ormai la situazione nelle aule è devastante dappertutto, certe volte di più dove ci sono ragazzi apparentemente più tranquilli. Il mio messaggio è questo: ho lavorato sistematicamente in scuole dove il tetto era mal ridotto, dove non c’erano le finestre, dove non c’erano i bidelli e altrettanto sistematicamente ho fatto battaglie con le autorità e contro le autorità per ottenere il cambiamento. Però contemporaneamente io facevo lezione tutti i giorni e al meglio. Ho sempre in mente l’esempio dei vietnamiti che facevano lezione sotto i bombardamenti, nei sottoscala: tutte
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queste persone non hanno mai avuto, neppure nella situazione di guerra piu’ estrema, l’alibi a non fare scuola bene. Abbiamo piu’ di un motivo di contrasto e di conflitto con le autorità scolastiche però non dobbiamo mai dimenticare che noi ci occupiamo dei ragazzi e non dei nostri avversari istituzionali dei quali, quando stiamo in classe, bisognerebbe assolutamente dimenticarsi Voglio dire che ci deve essere una deontologia che sta a monte delle nostre “guerre”, rammentando sempre che il nostro è un mestiere di pace, di conciliazione e che ci deve spingere a non trasferire l’atteggiamento conflittuale nell’animo dei ragazzi tanto piu’ in classe.
Crimine non è solo ciò che fa scorrere il sangue ma anche ciò che fa scorrere l’infelicità nella vita dei giovani G-‐ So che hai dei figli, come hanno vissuto loro, la scuola? M-‐ Penso che abbiano passato un guaio ad avere me come genitore perché sono super ingombrante. Da un certo punto di vista i miei figli, pur avendo una buona carriera scolastica, guardati da vicino sembrano anche loro dei drop-‐out. Spesso le loro migliori qualità sono state frustrate e negate dalla scuola anche se poi sono stati promossi, perciò il fatto che abbiano avuto buoni voti si e’ rivelato secondario. Sta di fatto che gli hanno intossicato alcuni degli anni più belli della vita e questo io lo definisco un “crimine”. Noi consideriamo crimine solo ciò che fa scorrere il sangue ma anche ciò che fa scorrere l’infelicità per me è altrettanto criminale. Per questo non riesco a rassegnarmi. La cassetta degli attrezzi di un maestro periferico (1991) Domande formulate dal maestro Orlando Limone anno 1991 A parte la tua esperienza personale, a quali autori ti sei ispirato? ………………… Potrei dire che uno dei motivi per cui ho intrapreso questo lavoro é proprio perché ho visto la cecità di troppi scienziati sociali verso i problemi della scuola elementare, ed ho deciso che per provare le mie intuizioni dovevo solo viverle dall'interno. Come fai a non disperarti nello sfascio? Uno degli spettacoli forse più desolanti é lo sfascio che lascia un ghiacciaio in ritiro. Quest'estate aggirandomi tra queste megalitiche rovine ho ripreso alcuni dei più bei fiori di montagna, e gente di montagna che ha visto queste riprese ha finito per meravigliarsi che ci fossero tante meraviglie dentro questo sfascio. Sono convinto che i fiori più belli nascono nel deserto e chi riesce a sopravvivere nel deserto sia un privilegiato. La realtà non é mai così nera come la sua immagine, e qui é pieno di cose e persone belle. Perciò non mi dispero, anche se spesso é troppo duro: ogni giorno é guadagnato. Potrò forse cedere, mi consolerò guardando a quanti giorni in più ho saputo resistere. Mi hai accennato alla particolarità dei quartieri in cui vivi ed operi. Quale é? Credo che il triangolo orientale di Napoli comprendente i quartieri di Ponticelli San Giovanni e Barra sia esemplare per evidenziare la cecità di teorie sociologiche e politiche che durano da molto e che hanno coinvolto -‐ seppur da sponde diverse-‐ chi ci governa e chi si oppone. C'é un'assioma duro a morire che fa discendere le trasformazioni della cultura dalle trasformazioni nei rapporti produttivi e poi più banalmente dall'impianto o meno di una struttura industriale. Questi tre quartieri conoscono l'industria da 150 anni, quì c'è la metallurgia dal 1830, la Cirio dal 1860, la zona industriale dal 1904. Qui nel 1919 si facevano soviet, spopolava Bordiga, e qui ancora oggi i partiti di sinistra raccolgono il 70% dei voti. Però proprio quì conserviamo un tasso di analfabetismo tra i più alti della città, le scuole non esistono nonostante un andamento demografico piatto da decenni ( ad esempio a San Giovanni, diversa é la situazione a Ponticelli). Proprio qui la ristrutturazione industriale ha portato come conseguenza quasi meccanica un crescere vertiginoso delle organizzazioni criminali e record di uccisioni. Allora sono portato a pensare che la presenza di una struttura industriale, di 'organizzazioni democratiche', presenze antiche e radicate da generazioni, in
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realtà hanno soltanto mascherato una non trasformazione, con una alienazione nelle ideologie e nelle formule che non ha portato a nessuna trasformazione della cultura materiale della gente. In tutto questo c'entra la questione della scuola. Non perché ritenga che la scuola entri immediatamente nelle trasformazioni della cultura materiale della gente, ma certamente il fatto che la scuola non abbia alcun ruolo nel determinare nuove speranze e modi intelligenti di affrontare problemi e difficoltà contribuisce a fare in modo che ai nuovi problemi si siano trovate risposte vecchie, incivili e sanguinarie. Se é vero che con la pancia vuota si ragiona male é anche vero che riempendo la pancia non si riempie anche il cervello. Una certa circolazione di danaro lecito ha mascherato per lunghi anni la mancanza di intelligenza individuale e organizzata; la circolazione allargata di ricchezza male acquistata é stata l'unica risposta possibile alla ristrutturazione industriale che ha lasciato pance vuote dirette da teste ancora più vuote. Ora é troppo tardi, é già successo altre volte nella storia che molto sangue sia scorso prima che ci si decidesse a rifondare la convivenza civile e pacifica. Voglio pensare che nelle condizioni storiche attuali questo sia ancora possibile. Anche se ci sono molti motivi per dubitarne. Bulli e vecchi merletti (a proposito dei metodi di punizione) Cari colleghi, intervengo sulla questione della professoressa di Palermo che ha punito un allievo facendogli scrivere ‘sono deficiente’. ………non ho dubbi che non si tratta di una attempata signora ma di una professionista che ha affrontato seriamente un problema serio. Ha dato la punizione giusta o no? Premessa: lavoro da dieci anni nel Progetto Chance, i cosiddetti ‘maestri di strada’; i nostri ragazzi sono solo e soltanto quelli che hanno lasciato o sono stati indotti a lasciare la scuola a seguito di episodi in cui la parolaccia o lo sgambetto non era rivolto solo al compagno, ma reiteratamente al docente o al preside. Da noi succedono ogni giorno cose molto più pesanti. Noi lavoriamo sistematicamente ad analizzare questi episodi, a capire i nostri errori, ad elaborare risposte efficaci. Ci sono due massime che uso con i miei colleghi (svolgo una sorta di supervisione pedagogica sul lavoro dei gruppi di docenti): primo: nel nostro mestiere non tramonta il sole se non abbiamo tradito almeno tre volte i principi in cui crediamo. La relazione con gli adolescenti è fatta apposta per far perdere la pazienza ad un santo. Non possiamo fustigarci più di tanto. Secondo: qualsiasi scelta hai fatto, poiché sei un professionista attento, era l’unica possibile in quel momento. Noi lavoriamo non per stigmatizzare l’errore, ma per capire se la prossima volta possiamo dare una risposta più adeguata. Il lavoro di gruppo che si fa con i docenti serve per elaborare risposte sempre nuove. Anche se gli errori hanno di bello che sono sempre nuovi, ci riesce di migliorare il nostro modo di lavorare e il nostro modo di elaborare in tempi rapidi anche gli errori. Quindi penso che la collega abbia fatto la cosa migliore che potesse fare in quella situazione, così come ogni giorno centinaia di migliaia di insegnanti attenti fanno la cosa migliore che possono fare in una situazione che è il più delle volte di isolamento e di difficoltà. Quindi nessuno ha da darle lezioni. Altra cosa sono quelle persone – che non definirei né docenti né educatori – che vanno a scuola pieni di pregiudizi, che vanno a scuola per combattere una qualche loro battaglia ideologica, che vanno scuola a scaricare sui ragazzi frustrazioni raccolte in giro per un mondo che quanto a frustrazioni non ci fa mancare nulla. Quelli sbagliano anche quando sembrano nel giusto perché non amano i giovani, non amano il loro lavoro e mettono fiele in tutto quello che fanno. E i ragazzi li fiutano e rifiutano a distanza. Reprimere, punire Ora, sgomberato il campo dai giudizi e dalle etichette mi chiedo qualcosa a proposito della punizione adottata. Primo -‐ Non mi chiedo se sia giusta, non mi chiedo neppure se sia efficace rispetto a quel comportamento, mi chiedo se sia una risposta educativa; se sia una risposta che fa crescere la giovane persona e soprattutto se aiuta questa persona a raggiungere un migliore livello di integrazione del sé e delle proprie condotte.
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Secondo – Mi interrogo sul concetto di punizione. Mi è molto più chiaro il concetto di repressione, ossia quello di una azione che impedisce la realizzazione di offese alla legge, alla persona, alla comunità. Punizione invece ha il sapore di una sorta di espiazione, che quindi dovrebbe portare ad una interiorizzazione delle dolorose conseguenze dell’errore. Ma se questo è, non si tratta di una risposta educativa ossia di un mezzo per far crescere, ma di un mezzo di contenimento e contenzione che non attiva il soggetto ma tende ad indurre un suo stato di obbedienza alla regola e soggezione alle autorità che la impersonano. Ma ha mai funzionato questo? Ha mai funzionato una legge morale gestita dal padre punitivo e vendicatore se questa non era ospitata dentro di sé? (“il cielo (stellato NdR) sopra di noi la legge morale dentro di noi” mi pare dicesse un filosofo di un certo rilievo, peraltro molto mite). Quando infliggiamo al reo una punizione, una sofferenza che lo dovrebbe aiutare a ricordare che quella azione non va fatta, in realtà rischiamo di rafforzare l’odio per la ‘causa’ di quella sofferenza che è la vittima dell’azione illecita; la lettura è più o meno di questo tipo: per colpa sua – il gay o preteso tale, il nero, il terrone, …. – e della “congiura” che lo protegge io sono stato punito. Ciò che rende possibile la violenza sull’altro è l’incapacità di sentire o vedere la sofferenza dell'altro e l’essere centrati solo sulla propria sofferenza. La punizione raggiunge quindi l’effetto opposto a quello desiderato: rinforza l’isolamento e l’incapacità di entrare in relazione con l’altro; rinforza l’odio ed il rancore verso il diverso che diventa progressivamente il rappresentante del Male in assoluto. Questo tipo di punizione è quindi collusivo, accetta il gioco del reo e non ne scardina la logica, mentre ci illudiamo di punirlo in realtà ci alleiamo con i suoi sentimenti regressivi e distruttivi. Il risultato finale di un processo reiterato di questo tipo è il perfetto fascismo, o, se vogliamo evitare riferimenti politici, la perfetta personalità autoritaria: violenta, sessuofoba, omofoba, etnocentrica, maschilista. Troppo spesso gli adulti in genere e gli educatori più o meno improvvisati si lasciano travolgere dai giochi innescati dagli adolescenti e dalle loro provocazioni, con grande sollazzo di questi che vedono una intera nazione impegnata a schierarsi sui due fronti della linea …. del cesso. (ah! Bei tempi quando la retorica era “la linea del Piave”) In questo ed in altri casi vedo un affannarsi intorno alla sanzione dei comportamenti ( “schifosa violenza” bulletto, prepotente, autore di reato ….) come se essi nascessero solo dalla mancata sanzione; e come sempre ci sono due partiti: la tolleranza e il rigore. E se provassimo con il partito dell’educazione, se provassimo a capire sul serio cosa sta succedendo, se provassimo a partire dalla profonda difficoltà educativa del giovane in questione nonché da quelle del suo eccellente genitore. Insomma vedo che, come troppo spesso accade, le ragioni dello schieramento e le ragioni della militanza, ancorché di una militanza civile e tollerante, si sovrappongono al problema educativo, la logica “bellica” della contesa politico-‐morale ci fa dimenticare l’origine stessa della questione: la difficoltà del giovane a crescere, la difficoltà di un docente e di una famiglia a svolgere una azione educativa efficace. Come affrontare la situazione. Innanzi tutto ogni volta che c’è una violazione delle regole elementari e naturali di convivenza c’è una doppia ferita: una nel tessuto di relazioni intorno al ragazzo ed un’altra nello sviluppo della persona. La paura omofoba non deriva da pregiudizi sociali, ma molti pregiudizi sociali hanno origine nella paura omofoba non elaborata. La paura omofoba è innanzi tutto un timore ed una incertezza circa la propria identità, in un certo senso è connaturata al processo di crescita e all’incertezza propria di quella età. Un ragazzino o una deputata al parlamento che vogliono impedire l’ingresso al bagno dei maschi (o delle femmine) di una persona dall’identità sessuale diversa o incerta -‐ vera o presunta -‐ è una persona che teme una sorta di “contagio cognitivo”; teme che dall’incertezza del confine tra i bagni derivi una incertezza nella linea di separazione tra i sessi e quindi in generale una incertezza sul confine tra ciò che è di una qualità e ciò che è di un’altra qualità, tra ciò che è bene e ciò che è male.
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I giovani adolescenti vivono ogni giorno una tensione quasi intollerabile tra emozioni opposte e ancor di più si dibattono in situazioni intricate e confusive. Il giovane bullo ed omofobo ( non lo sappiamo, ma potremmo aggiungere al suo repertorio comportamentale l’etnocentrismo e il maschilismo) vive più di altri questa tensione; probabilmente vive in un ambiente culturale in cui la certezza dei confini e delle distinzioni sociali è assunta come principio regolatore di ogni condotta, e quindi vive con particolare difficoltà la propria condizione di confusione ed incertezza, al punto di non riuscire ad elaborarla; quindi la agisce attraverso la violenza: infligge ad altri la sofferenza che non riesce ad elaborare nel suo animo. Cerca fuori una risposta che non trova dentro, ed il più delle volte trova colpevole tolleranza o dannoso rigore, mai risposte. La parola che si confronta con le contraddizioni Dunque se il problema è questo noi abbiamo insieme un problema di integrazione sociale e di integrazione della persona, di costruzione e ricostruzione di una identità che sappia affermarsi anche nelle situazioni confusive e in condizioni di incertezza. Abbiamo dunque un problema educativo, un problema che riguarda le condotte di vita e non semplicemente un problema cognitivo. Abbiamo anche un problema cognitivo ossia la necessità di proporre modelli di pensiero dinamici, che mettano in grado di gestire situazioni complesse e che non identifichino le necessarie astrazioni concettuali con la complessità del reale. Un pensiero lineare, geometricamente perfetto è intrinsecamente produttore di stereotipi. Il primo punto è quindi prendere coscienza dell’errore, riuscire ad esprimere il dolore e la confusione che sono all’origine di un agito violento. Quando parlo di questo parlo di cose anche più gravi, parlo di coltelli portati a scuola, parlo di violenze fisiche gravi, parlo di pistole ‘giocattolo’ che sembrano vere e che come tali possono essere usate per minacciare; parlo di violenze verbali e molestie sessuali nei confronti dell’altro sesso (con una netta prevalenza maschile, ma molte ragazze non sono da meno). Quindi non si tratta di una discussione accademica ma di eventi veri. Questa presa di coscienza può essere solo sociale, ci vuole un luogo in cui attraverso la condivisione ciascuno si renda conto di non vivere in solitudine le contraddizioni ed il dolore; un luogo dove incontro qualcuno chi mi guida ad uscire fuori da uno stato in cui emozioni elementari devastano continuamente le fragili costruzioni razionali, le incerte relazioni sociali. Il senso morale è innanzi tutto il senso di una reciprocità, il riconoscere se stessi nell’altro, nel sentire il dolore dell’altro. Senza una base emozionale condivisa nessuna comunità vive, nessuna regola è fondata. Comunità e riparazione Nella nostra scuola sperimentale abbiamo uno spazio di discussione sistematico con gli allievi secondo un appuntamento fisso settimanale e talvolta anche ad horas. In questo spazio si discute soprattutto di come vive la piccola comunità di giovani allievi, docenti, educatori-‐tutor; di quali emozioni sono in gioco, di quali lacerazioni ci siano nelle relazioni e nell’animo di ciascuno. In questo modo abbiamo messo a confronto la vittima con i carnefici, abbiamo stroncato sul nascere episodi di bullismo e comportamenti sessuali da branco. Tuttavia le violazioni e le lacerazioni ci sono e sono pesanti. Cosa fare? Se noi siamo riusciti a costruire attraverso il confronto sistematico una piccola comunità, ogni lacerazione nel tessuto diventa una sorta di ‘scomunica’ (i nostri ragazzini del resto usano il termine ‘scompagno’ per mettere qualcuno fuori le regole dell’amicizia): noi sottolineiamo la reciprocità della scomunica: il singolo non riconosce la comunità come propria e la comunità non riconosce il singolo come proprio membro. Da un movimento espulsivo reciproco occorre generare un movimento di ricomposizione, un appetenza del gruppo a ricostituire la propria unità che diventa anche spazio interiore di ciascuno a riaffermare una identità più forte attraverso ciò che il gruppo aiuta ad elaborare. Il lavoro dell’educatore consiste appunto in questo, nell’accompagnare il gruppo ed il singolo a ritrovare se stessi ogni volta che ci si perde, ogni volta che i “mal di pancia” -‐ le emozioni elementari -‐ prendono il sopravvento sul pensiero e sui legami. Tutto questo lo chiamiamo “riparazione”, ossia un movimento teso a riparare quanto si è lacerato, Sotto questo aspetto se noi vogliamo ritornare al termine ‘punizione’ potremmo affermare il “diritto alla punizione” come diritto a poter essere riammessi nella comunità; anzi potremmo
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dire che la comunità istituisce la nozione stessa di diritto come possibilità di regolare inclusioni ed esclusioni. La riparazione porta con sé anche gesti concreti tesi a ripristinare ‘lo stato dei luoghi’: luoghi fisici, luoghi dell’animo. Quando ci sono danni materiali i ragazzi possono anche essere chiamati a ripararli trasformando questo lavoro in una vera e propria unità didattica e non semplicemente una sanzione da pagare. Oppure, e questo è più significativo, ci sono formali scuse (non le abbiamo imposte ma ci vengono offerte spontaneamente dai giovani quando la discussione sull’errore ha raggiunto il suo scopo) o riconoscimento pubblico dell’errore. In questo modo, attraverso la rievocazione e la ricostruzione dell’errore e dei suoi motivi, l’errore stesso può essere ‘archiviato’ il giovane riprende in mano il processo di crescita della persona e il suo posto nella crescita del gruppo. Ancora più interessante è la ricostruzione e la riflessione su tutto il processo di rielaborazione dell’errore, perché in qualche modo si prende coscienza che la ‘sanzione’ è in realtà un aiuto a rientrare, che il gruppo ti offre una possibilità di riparazione. In questo modo senza che ce ne accorgessimo abbiamo istituito una sorta di ‘corte di appello’ e di “giuria popolare”: quando ci sono violazioni gravi e ripetute e si verifica la quasi impossibilità a lavorare insieme diventa necessario che la persona segua un percorso diverso uscendo fuori dal gruppo e dal nostro lavoro sperimentale, a meno che il gruppo degli allievi, compreso il ‘reo’ non decida di assumersi l’onere di aiutare questo a restare in limiti accettabili. In questo modo siamo usciti fuori dalle secche di scelte o troppo drastiche o incoerenti, e progressivamente siamo riusciti a riavvicinare giovani altrimenti irrecuperabili. La parola efficace In tutto questo lavoro noi svolgiamo una attività didattica fondamentale: usiamo la parola in modo efficace -‐ in modo contestualizzato, in cui il referente cui la parola si riferisce è vivo, presente, pervasivo -‐ impariamo ad affrontare il contraddittorio e realtà contraddittorie, impariamo vedere le cose da punti di vista diversi. Il tutto non attraverso l’analisi delle forme retoriche ma attraverso una accesa pratica di discussione e tutto questo diventa anche concreta esercitazione di italiano nel momento in cui si stendono dei verbali, in cui si svolgono riflessioni scritte oppure si riflette sulle strutture linguistiche usate. Queste attività, prima in forme embrionali ed irriflesse, poi in forme sempre più consapevoli noi portiamo avanti da ormai dieci anni e si sono rivelate abbastanza efficaci. Ci sono ancora molti e gravi limiti, ma sarebbe lungo parlarne. E’ invece interessante un’altra questione: a quale disciplina scolastica si addice questo lavoro? Abbiamo esteso questa pratica a percorsi formativi integrati sperimentati in alcuni istituti professionali e tecnici di Napoli. L’interrogativo che ci è stato posto è se si trattasse di ore di italiano oppure no e quindi a quale disciplina attribuire il monte ore e a quale insegnante affidare il compito. Alcuni presidi hanno insistito ad ancorare questo lavoro alla struttura delle discipline: se è italiano deve esserci l’insegnante di italiano anche se non conosce nulla delle tecniche di ascolto attivo e della conduzione di gruppi di discussione sulle emozioni. In altri casi i gruppi di discussione sono stati inseriti in un “percorso di cittadinanza in cui queste ore sono state considerate una pratica partecipativa e quindi affidate all’ambito delle conoscenze socio-‐antropologiche e gestite da un docente che almeno sulla carta aveva qualche competenza in merito alla gestione delle emozioni e delle relazioni. In altri casi sono state considerate attività extracurriculari e quindi gestite da educatori-‐tutor presenti nel progetto in quanto la sperimentazione lo prevedeva. Conoscenza e civili condotte di vita In questo problema classificatorio si nasconde un interrogativo molto più importante: una pratica educativa che intervenga sulle condotte personali e non si limiti a fornire conoscenze in merito a questioni generali non contestualizzate, può realizzarsi nel contesto della scuola così come è oggi organizzata? Le condotte sociali e personali possono essere oggetto di un ‘insegnamento‘ specifico, intenzionale ed esplicito oppure esse devono restare incapsulate come conoscenze tacite ed implicite nelle diverse discipline? Il voto di condotta deve restare di tutti e di nessuno, unica “materia” che non ha un proprio docente o comunque una propria figura di riferimento? E ancora più a fondo: lo sviluppo del senso morale, l’adozione di condotte civili sono una conseguenza univoca e necessaria dell’attività di istruzione o devono
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essere sviluppate con mezzi diversi dalla mera istruzione. Il civismo è solo conoscenza concettuale o è soprattutto competenza situata? La prof di Palermo ha usato carta e penna nel tentativo di ‘educare’ un giovane che si è posto fisicamente davanti al compagno: è come voler uccidere una tigre con l’immagine di un fucile, dare una risposta su un piano concettuale che non può incrociarsi col piano della realtà. Ogni cosa ha i suoi mezzi di apprendimento, gli strumenti di pensiero si apprendono attraverso il pensiero stesso, gli strumenti della socialità si apprendono solo attraverso la socialità agita. Se il provvedimento della professoressa è inefficace e sbagliato, è l’intero impianto della scuola, fondato solo sull’istruzione senza nessun contributo esplicito dell’educazione, ad essere inefficace. Possibilmente faremmo meglio a porci queste domande piuttosto che sovrapporci con medaglie o pene carcerarie al dramma della professoressa, del bullo, dei suoi genitori, del ragazzo offeso, che non è un dramma privato, ma quello di una intera civiltà incapace di riscrivere il proprio rapporto con le nuove generazioni. Cesare Moreno (di anni 60) – Coordinamento Pedagogico del Progetto Chance – Sezione Aggiunta Sperimentale per il Recupero della Dispersione Scolastica dell’Istituto Professionale “Davide Sannino” – Napoli L’antefatto Alla prof. di Palermo anno sabbatico invece del carcere Partiamo dal caso giunto alla ribalta dell’opinione pubblica in questi giorni: una insegnante di Palermo con 30 anni di anzianità alle spalle rischia due mesi di carcere per avere fatto scrivere per cento volte “sono un deficiente” ad un alunno arrogante che disturbava i propri compagni di classe. Il mondo scolastico si è diviso: ha fatto bene; ha fatto male. Lettera a "Mostruoso Sociale" edizioni La Meridiana – vivendo da vicino la morte violenta di una giovanissima persona Ma il termine "mostro" è anche positivo: sei un mostro è un complimento, cioè sei da mostrare. L’etimologia è appunto quella di “prodigio e portento” e deriva forse da “monere” Ma forse ai nostri fini funziona meglio la falsa etimologia che lo collega a mostrare e allora penso che ciò che si mostra e che vale la pena di essere mostrato forse fa anche un po’ paura. Un mostro di bontà o un mostro di scienza fa anche un po’ paura: ci mette di fronte alla nostra pochezza. Essere mostri anche nel bene in fondo da fastidio. Se pensiamo che un ideale filosofico antico era ‘lathe biosas’ “vivi nascosto”, allora chi si mostra è un mostro. E’ bene che chi si mostra sia un mostro, sia orribile perché questo invece fa risaltare la nostra superiorità.Un’altra falsa etimologia potrebbe presentare il mostro come fratello della mostra e le mostre sono l’anima dei commerci nazionali ed internazionali. E’ uno dei rari casi in cui la versione femminile è positiva e quella maschile no: la mostra della casa attira clienti, il mostro della casa fa paura.Seguendo questa falsa etimologia Mostruoso è quindi una superfetazione del mostrabile, qualcosa che attira su di sé troppi sguardi e questo lo sovraccarica di significati: non è mostruoso il prodigio ma il modo di osservare il prodigio, la collezione di feti deformi conservati nella formaldeide. Mostruoso è quindi ciò che è in grado per una qualche convenzione sociale di attirare su di sé gli sguardi interessati di folle che hanno bisogno di materializzare le proprie angosce fuori di sé. Lo stereotipo è per definizione mostruoso, ossia è un prodotto della mente umana che spoglia gli individui della loro singolarità per costruire un oggetto mentale del tutto artificiale ma che può essere posseduto da migliaia e milioni di persone in virtù della propria semplificata ed artificiale esistenza. La mente analitica e razionale produce quindi continuamente mostri: simulacri di pietra, deformi, in grado di attirare su di sé uno sguardo falsamente universale. La falsa intelligenza, la falsa politica, le false filosofie e religioni si trastullano con questi mostri, con poche idee stereotipe, inanimate come le pedine di legno di una scacchiera di pietra. L’umano, in ogni sua forma, sa usare gli stereotipi, le idee depurate degli accidenti, per
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stabilire una relazione tra il bisogno ossessivo di ragione proprio dell’uomo, e la ricchezza del reale e dell’essere; se ne serve come attrezzo mentale per finalità pratiche e mai ne fa un idolo. Mostruosa è la natura. Essa produce continuamente prodigi, esseri nuovi e diversi rispetto a ciò che è calcolabile e derivabile dal già noto. Questo è prodigio, cioè anormalità. Il miracolo della natura è saper conservare tali prodigi e tali anormalità e arricchirsi continuamente di essi. Ma la capacità generativa di imprevisti è orrifica alla mente puramente razionale: ci ricorda continuamente che la natura può produrre mostri e noi stessi possiamo produrre mostri, anzi, come ci mostrano i virus e gli alieni, il mostro sta dentro ciascuno di noi e abbiamo continuamente paura che si risvegli.Il mostro infine è la stessa capacità generativa, quindi è intimamente collegata alle donne e al sesso.Il sesso è mostruoso in quanto collegato alla generazione, al nostro essere animale. Il mostro è innanzi tutto un potenziale violentatore o figlio della bestialità sessuale. Le streghe si accoppiano col diavolo e sono quindi intimamente possedute da questo. Il mostro sociale per eccellenza, il prototipo di tutti i mostri moderni è il Minotauro, figlio dell’adulterio e della bestialità. Minosse non uccide questo mostro che nell’aspetto e nel comportamento non è suo figlio, ma in un certo senso lo adotta, lo protegge con il labirinto, lo nutre. Il Minotauro è il mostro urbano, è il nume tutelare della bestialità che si nasconde nei recessi delle costruzioni razionali, nel dedalo delle vie della ragione.Sette giovanetti e sette giovanette sono il tributo di sangue che ogni anno la città deve pagare al Minotauro, che deve pagare alla bestialità, al sesso, alle passioni senza freno, alle ire funeste. Ogni anno nelle nostre grandi città settantasette giovanetti e settantasette giovanette vengono sacrificati su questo stesso altare, dati in pasto al Minotauro che sta nascosto – e protetto -‐ nei recessi della città: l’emarginazione sociale che è anche emarginazione dell’umano dentro ciascuno di noi, impoverimento delle relazioni, riduzione dell’esistenza a emozioni immediate ed incontrollate.I buoni cittadini, i borghesi –abitanti del borgo – come Minosse pensano di proteggersi confinando il mostro. Che se ne stia in periferia, che abbia tanto cemento ed asfalto a disposizione, che consumi lontano dai nostri occhi i suoi fieri pasti (pasti da fiera; pasti feroci o pasti da esposizione; pasti mostri o da mostra?) che si ammazzino pure tra di loro. E come Minosse non si rendono conto che il muro che protegge loro dal mostro è lo stesso che protegge il mostro, e che impedisce ogni possibilità che ritorni uomo; e non si rendono conto che il borgo ogni anno deve pagare un tributo di sangue alla bestia orrenda. E necessario stendere fili che colleghino l’oscuro recesso alle vie luminose e questo è il filo dell’amore. L’amore va mostrato, va gridato, illuminato, bisogna farne mostra e forse anche questo ci fa paura perché invade, perché non obbedisce alla mera ragione: preferiamo di gran lunga restare nel gioco dei labirinti che crescono uno dentro l’altro come le matriosche e che offrono apparente sicurezza fuori di noi Martina è stata uccisa alla vigilia di Natale da un’automobile spuntata dal buio a folle velocità. Martina si vedeva spesso con mia figlia, mi passava davanti quando andava in camera sua, so dalle telefonate e da poche parole scambiate che costruiva con determinazione, istante dopo istante la propria vita e ogni momento era per lei significativo. Ancora non riesco a pensare che un solo istante dei miliardi da lei vissuti intensamente abbia potuto prevalere su tutti gli altri: questo è veramente mostruoso. E mostro il ragazzo – bambino lo chiama giustamente Lucia – di sedici anni che guidava quell’auto: mostro perché cercava nell’emozione di un istante di folle velocità quella pienezza di vita che gli umani costruiscono istante dopo istante. Mostri sono quelli che ogni giorno perle vie di Napoli realizzano la propria prova di ardimento con corse folli, senza casco, a bordo di precari motorini. Martina e il suo assassino a Napoli hanno chiuso il conto dei settantassette del 2005. A mezzanotte del 31 con i morti e i feriti per i botti è cominciata la nuova conta.
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Lo sguardo giovane illumina il mondo: Per Martina Per i suoi amici Lei guardava il mondo con sguardo nuovo e curioso e lo rendeva più luminoso L’orecchio giovane sente suoni nuovi ed armonie sconosciute Lei prestava ascolto e rendeva il mondo più armonioso La parola giovane produce nuovi discorsi Lei sapeva dire parole nuove e rendeva il mondo più unito I passi giovani scoprono nuovi luoghi Lei portava lontano i suoi passi e rendeva il mondo più grande. Ora non c’è più e il mondo è più buio, più rumoroso, più diviso più piccolo La sua vita era piena, un passo dietro l’altro, un secondo dopo l’altro pieni di vita, di scoperte, di sogni È stata spezzata in un solo secondo da chi non sa camminare, da chi cerca di consumare nell’eccitazione di un momento tutta la vita non vissuta. Il nulla genera il nulla, voi, per lei continuate ad amare la vita costruita un secondo dopo l’altro Pedofili -‐ Rione Villa, Napoli – Esperienze di vita in periferia Pubblicato nel N° 3 della Rivista THEMA -‐ Mondadori Edizioni -‐ Ottobre 1997 -‐ -‐ Scappa, scappa sta arrivando -‐ Viene Giovanni il Pazzo, scappa -‐ Ecco, ecco, arriva -‐ Ragazzi eccolo, scappate -‐ Mi dici chi é Giovanni il Pazzo? -‐ E’ quello lì, é uno che ‘s’arrobbe e criature e po’ l’accire’-‐ (é uno che ruba i bambini e poi li uccide) Risponde Pasqualino con l’aria di chi fornisce una informazione scontata e continua le rincorse con i compagni.I protagonisti del gioco sono bambini e bambine tra i quattro e gli otto anni che stanno per strada intorno alle sette di sera. Ma si tratta di gioco o di realtà?“Cucù sette-‐te”, é il gioco del nascondino che si fa con i bambini che hanno appena raggiunto lo schema de “la permanenza dell’oggetto”. Il bambino sta imparando che un oggetto o una persona scomparsa “non muoiono”, ma esistono anche fuori della sua vista. La scomparsa dell’oggetto amato provoca angoscia, ma la sua ricomparsa provoca una gioia molto più grande . L’adulto che gioca con il bambino allunga i tempi della “scomparsa” e tanto maggiore sarà la gioia della ricomparsa. Ogni tanto l’attesa gioiosa rischia di trasformarsi in pianto disperato ed allora la riapparizione viene accelerata. Allo stesso modo crescendo il bambino ricerca “oggetti” o situazioni per lui minacciose per avere la gioia di correre a rifugiarsi tra le braccia della madre o del papà.In questi giochi c’é una componente “sadomasochista”: in certo senso ci si procura, e si procura dolore per avere la gioia -‐ reciproca -‐ della consolazione. Quando é che finisce il gioco e comincia il sadismo vero? Quando finisce la reciprocità: quando l’adulto -‐ e ci sono -‐ si compiace di vedere il bambino scoppiare in lacrime, quando -‐ preso dal proprio piacere -‐ diventa incapace di rilevare i segnali d’allarme che provengono dal bambino.Il gioco dei bambini del Rione Villa riproduce questo schema, c’é la presenza reale di un ‘diverso’, c’é il pericolo, c’é il desiderio di trovare un rifugio sicuro; la diversità consiste nel fatto che dall’altra parte non ci sono braccia aperte ad accogliere, non c’é il piacere della consolazione. In assenza di interazione e reciprocità il gioco può sconfinare nel ‘farsi male sul serio’.Nella vita dei bambini che conosco -‐ Ponticelli, Barra, San Giovanni, periferia orientale
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di Napoli-‐ la presenza del ‘maniaco’ é una presenza importante che ha preso il posto de “l’uomo nero” passando per “il marocchino” ed “il drogato”. Linguisticamente viene usato l’articolo determinativo, a sottolineare che si tratta di una presenza innanzi tutto simbolica, che riassume tutte le tendenze aggressive degli adulti nei confronti dei bambini. Fa parte del crescere imparare a rielaborare le proprie paure passando attraverso giochi simbolici, passando per la sfida al pericolo, per la presa di contatto con il nemico. La paura non può e non deve essere eliminata, ma va governata e rielaborata. Gli adulti -‐ e gli insegnanti in particolare -‐ hanno il compito di aiutare questo processo, piuttosto che quello di elaborare formule esorcistiche, nuove ‘educazioni’ che dovrebbero insegnare al bambino come difendersi. Quello che serve é che ci siano accanto al bambino persone in grado offrire riparo sicuro alle sue fughe -‐ vere o simboliche-‐ da pericoli veri o fantastici. …… Mi sono trovato a parlare di queste cose con altri genitori quando mia figlia aveva nove anni e si moltiplicavano gli avvistamenti de “il maniaco” all’esterno della sua scuola: mi trovavo nella difficile situazione di non volermi far travolgere dall’ondata di panico e però neppure sottovalutare la tragica realtà del pericolo. Del resto sia i miei figli, sia i ragazzi delle mie classi si sono trovati non una sola volta ad essere testimoni, quanto meno ‘auricolari’, di fatti di sangue verificatisi sotto le finestre della scuola. Che fare? Le ‘istruzioni per l’uso’ non servono: pericoli e tragedie non possono essere né eliminati né esorcizzati, né é possibile la fuga, l’illusione di un altrove dove questi non esistono. Il primo compito é quello di saper accogliere l’angoscia e la preoccupazione, così come nel gioco infantile del nascondino, ciò che importa non é eliminare la preoccupazione iniziale ma essere pronti a ‘consolare’, così ora, quando il bambino cresce, questo compito deve svolgersi non solo sul piano di una accoglienza corporea ma anche e soprattutto sul piano della parola. In tutti casi tragici che mi sono trovato a gestire in classe, partendo da questo comportamento “accogliente”, mi é sempre giunta in soccorso una narrazione -‐ un brano biblico, una favola, una poesia, una immagine -‐ che consentiva ai ragazzi di darsi una rappresentazione condivisa della propria angoscia e di aprire un dialogo a partire da uno scenario in cui potevano proiettare -‐ anche senza rendersene conto -‐ le proprie preoccupazioni. Se si riesce a stabilire questo spazio rappresentativo comune, i problemi vengono fuori, le realtà più tragiche ed inconfessabili escono fuori dal regno dell’interdizione e vengono manifestate. I questi casi il mio problema costante é stato più frenare un eccesso di divulgazione che non vincere la reticenza. ……….. Dopo la caduta – Lavorando con i genitori Ristampo questo articolo dell’estate 1996, l’indomani del mio illegale licenziamento dalla “Commissione per la qualità della scuola e il successo formativo” del Provveditorato agli Studi di Napoli, perché mi pare che, tranne alcuni riferimenti datati, si possa riprendere tal quale e anche per dire a me stesso e agli altri quanto danno sia stato fatto da una cattiva gestione dei vertici istituzionali. Questioni che dieci anni fa erano molto chiare non solo a me, ma a molti altri, sono rimaste ferme in quel punto e spesso si sono aggravate. Il Progetto Chance ha rappresentato un lume acceso nel buio, ma non possiamo più accontentarci. L’eterna e inutile diatriba su indulgenza o severità, formazione professionale o bisogni educativi di fondo. I vuoti dei cuori, delle teste e delle tasche. Decentramento e autonomia e partecipazione degli insegnanti, viste con sospetto nella situazione autocratica e burocratica degli istituti, restano l’unica prospettiva. Un "salotto apprenditivo". Intervista a Cesare Moreno. Cesare Moreno, maestro elementare, fino al luglio scorso è stato animatore della Commissione per la qualità della scuola e il successo formativo del Provveditorato di Napoli, impegnata contro l’evasione scolastica.
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…………. 2. Cosa fare? Alcuni giorni prima delle elezioni, in un incontro con alcuni parlamentari napoletani avevo sintetizzato il problema della scuola come caratterizzato da tre vuoti fondamentali: 1. il vuoto delle tasche, ovvero i fattori economici e strutturali, l’insufficienza della spesa e
della sua distribuzione tra stipendi e fattori qualitativi, nonché quella della rimunerazione degli addetti; 2. il vuoto dei cuori, cioè una carenza di motivazioni che rimanda alla mancanza di
partecipazione e di strutture che la favoriscano, dove per partecipazione intendo quella interessata a qualcosa di importante per la propria vita, e tale è certamente l’educazione, e non quella interessata alle strutture di potere; 3. il vuoto delle teste, cioè la mancanza di una cultura adeguata ai compiti odierni
dell’insegnante. Cominciare a riempire i cuori, ridare fiducia e motivazioni, fare i conti con i sentimenti
diffusi, significa avviare un serio processo di partecipazione. La partecipazione deve essere la chiave di volta per operare grandi cambiamenti senza essere costretti a fermare la macchina mentre è in moto, senza dover costruire sistemi di controllo ancora più macchinosi e complessi di quelli esistenti. In Italia disponiamo di un gruppo di leggi e di norme che riguardano questa problematica, ma, tanto per cambiare, esse sono nate e sono state gestite in un contesto in cui la partecipazione era intesa soprattutto come facciata, come ulteriore penetrazione degli strumenti di consenso. Su questi temi continuo a pensare che il dibattito nella società civile sia troppo indietro. ………..recentemente ho fatto un’esperienza molto interessante: un corso di 80 ore per
20 genitori di scuole elementari e medie in cui era chiaro che lo scopo non era quello di insegnare un qualsivoglia mestiere, ma aiutare nel mestiere di vivere. Alcuni insegnanti che hanno partecipato alla formazione dei genitori hanno riferito che il successo del corso è legato alla modalità di lavoro, perché nelle scuole, per un certo tempo, ha funzionato un "salotto apprenditivo", ossia un luogo di conversazione, dove le conoscenze si trasmettevano in modo effettivamente circolare, dove stavano seduti sullo stesso divano la signora "sottoproletaria" e il professore universitario. Le idee più feconde degli ultimi secoli sono venute fuori da analoghi salotti, dove era possibile incontrare persone che lavoravano in campi di frontiera nelle più diverse discipline. Raramente ho partecipato a collegi dei docenti o a riunioni di insegnanti in cui si aveva la sensazione di produrre cultura in questo modo, dove si sentiva che insieme, da punti di vista diversi, lavoravamo a un’unica costruzione. Questo dipende dal fatto che i compiti istituzionali, le incombenze burocratiche, i doveri professionali sopravanzano e uccidono lo spirito di ricerca. Dire l'indicibile: affinità ed alleanze tra invenzione letteraria ed invenzione pedagogica. Emozioni in gioco e possibile diario di un maestro Intervista alla rivista di letteratura contemporanea "il paradiso degli orchi" (http://www.paradisodegliorchi.com) Sono particolarmente grato a Marco Lanzòl per le sue domande che mi hanno consentito di esplorare aspetti del lavoro educativo che nessun altro intervistatore aveva toccato. L'idea che il lavoro docente possa avere delle affinità con il lavoro artistico creativo è una idea particolarmente importante quando una idea lineare ed impiegatizia dell'insegnamento sembra essere dominante. Caro Cesare, ho cercato, nelle mie domande -‐ come dico nella breve presentazione ad esse -‐ di tener dietro a quel che mi pare più Le prema, pur dovendolo forzatamente inquadrare nella Sua attività, che è quella di educatore. Se non ci sono riuscito, me ne dolgo. Naturalmente, nelle risposte Lei può “correggere il tiro”, riportandosi alle cose che più La interessano. Non si faccia, quindi, preoccupazioni di lunghezza nelle risposte (anche se la pregherei di non
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"strabordare")-‐ semmai, solo di chiarezza. Né tema di andare fuori tema -‐ insomma, faccia come Le pare. Tenga solo conto che probabilmente la Sua intervista verrà suddivisa in due parti, per ragioni redazionali.
Marco Lanzòl Vorrei cominciare raccontandoLe un fatterello mio. Ero all’estero, in una stupenda e misera città. Esco dalla pensione, e da un cassonetto in un vicolo vedo spuntare due piedi. Li piglio per le caviglie, e tiro su: ne sbuca un ragazzino, che mi fissa come a dire: “Che cazzo vuoi?” Gli avevo interrotto il petit déjeuner. Per farmi perdonare, lo porto a un chiosco lì vicino. Si spara una colazione da ammazzarci un re, manda un rutto come una motoguzzi, e se ne va. Poi torna indietro, mi conduce in un vicolo, si abbassa i pantaloni, e mi fa un gesto indicandomi il suo arnese, come a dire “sèrviti”. Mi pagava il cibo, troppo orgoglioso per passare da pezzente. Dolente declinài, non foss’altro che per l’igiene. Morale: sospetto che di questi pischelli non abbiamo capito una mazza. Nel caso, cosa c’è da capire? Siamo sempre noi a non capire. Un atto gratuito è spiazzante, è filosoficamente scorretto: il ragazzino ha una visione del mondo ben ordinata secondo la quale se un uomo gli da mangiare lo fa per ottenere qualcosa in cambio. Nel suo mondo di disperazione questa rappresenta una certezza che gli consente di adagiarsi nella “sua” disperazione, e uscire da questo mondo è ancora più angosciante. Pagare il prezzo rimette le cose a posto. Nel nostro lavoro incontriamo sistematicamente questa sindrome: è meglio pagare subito il prezzo – anche ingiusto-‐ che lasciare aperte le partite, sentirsi in debito verso il mondo: la prima cosa che può capitare a chi si mette ad aprire lucchetti di celle è quella di essere aggrediti da chi ci ritiene responsabile delle angosce che la libertà porta con sé. Altra cosa ancora è: perché usare il sesso come moneta di pagamento? Certo, il bambino avrà già avuto esperienze o richieste in merito. Ma c’è una questione più generale: il sesso tra le tante cose è anche una straordinaria risorsa comunicativa, ma l’intrusione e la penetrazione – la compenetrazione – tra le anime può essere più lacerante della penetrazione fisica. A volte maschi e femmine abusano del proprio ed altrui corpo per abrogare la comunicazione tra le anime: anticipano i tempi della fisicità per esorcizzare ogni rischio emotivo. L’offerta di sesso è quindi della stessa specie del pagamento: ti offro qualcosa a patto che tu lasci in pace la mia anima. Nel Suo lavoro c’è una precisa strategia: si parte dall’interiorità del ragazzo, dalle sue ansie e paure (Lei vive in un paese di morti ammazzati). Il maestro le assume per empatia e per simpatia, e dopo la condivisione le rende comunicabili - un processo in cui “si dice l’indicibile”. Questo permette di ricondurle alle angosce della comunità, che può riconoscerle e imparare a trattarle, se non a fugarle. E si ritorna al ragazzo, che in quella comunità vive, chiudendo il cerchio. Mi pare che tale modo di procedere, se non l’ho frainteso, sia lo stesso della letteratura. Vorrei sapere se lo crede anche lei, e se anzi la coincidenza non sia casuale. La capacità di rendere comunicabili le emozioni, trasformare il dolore in emozioni esprimibili è l’operazione creativa che dobbiamo fare. Purtroppo un insegnante di lettere forse è stato costruito in modo che le sue capacità di creazione letteraria siano sterilizzate per sempre. La coincidenza forse non è casuale. Penso proprio di no, anche se io l’ho scoperta proprio attraverso i ragazzi non avendo fatto studi in merito. Un giorno lessi, perché le circostante lo richiedevano, “la quiete dopo la tempesta” a dei bambini di quarta elementare della mia dimenticata periferia. Alla fine tutti mi chiedevano se questo giovane era ancora vivo e dove stava (“giovane” per i nostri bambini equivale a “signore”) e pensavano che era sfortunato se parlava in quel modo. Ci fu una tale identificazione che lo sentirono vivo e vicino a loro e quando seppero che era morto volevano sapere dov’era la tomba. Fu allora che mi chiesi quale differenza c’era tra i miei bambini e Leopardi, se le emozioni che provavano erano identiche. La differenza stava solo nelle sua capacità di nominare il dolore, di elaborarlo, di trasformare
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urla e pianti in canti. Anni dopo un altro bambino, sofferente per una madre fredda e distante, scrisse una epigrafe a proposito di un albero cresciuto su un cumulo di immondizia: “quest’albero sta male perché sta nell’immondizia; così è la vita, anche dei bambini nascono zoppi, ma quest’albero non si sente solo perché ha la compagnia di bambini sfortunati come lui.” A me sembrò che questo bambino stesse esprimendo come un calco l’idea della “ginestra fiore del deserto”, e che attraverso l’albero il bambino avesse trovato il modo di esprimere il suo dolore. Da allora ho sistematicamente lavorato a trovare nella realtà e ritrovare nella letteratura le immagini che potessero aiutare i ragazzi a riconoscere le proprie angosce e questo resta il contributo più importante che una scuola non ingessata nelle tecniche possa dare all’educazione, alla capacità di ciascuno di tirarsi fuori dallo stato di cose esistente. ………. Lei ricorda, in un Suo scritto, il caso del piccolo Antimo, che non sente il proprio dolore, e quindi è la negativa del maestro come Lei lo intende, e l’immagine di una società anestetizzata. E tutto ciò nasce da un problema di identità. Vorrei che ricordasse brevemente la storia del bambino, e sapere la sua opinione sulla personalità in generale (come nasce e si sviluppa), e su quelle “sintetiche” (nel doppio senso di non analitiche e di artefatte)in particolare. Antimo era un bambino grasso, bulimico, affetto da ecolalia, che si metteva continuamente nei guai e veniva picchiato dai compagni: provocava senza neppure rendersene conto, sembrava sempre fuori della sua pelle al punto da non sentire o non esprimere dolore. Non ha mai versato una lacrima.Antimo riusciva abbastanza bene a scrivere e capiva moderatamente la matematica. Ma proprio nel fare i calcoli più elementari sembrava avere un blocco. Molti bambini di quella classe se dovevano fare cinque più tre contando le dita mai davano per contato che la mano avesse cinque dita e ricominciavano ogni volta da capo. Antimo non faceva eccezione, ma soprattutto, anche interrogato, mai diceva che la mano avesse cinque dita. In più di una occasione ho notato che aveva difficoltà a scegliere un oggetto, a decidere in una conta da dove dovesse cominciare. Ma la cosa più singolare è che sembrava avere una vera e propria idiosincrasia per il numero cinque. Dalla prima alla quinta elementare non sono riuscito a rimuovere questo blocco che si ripercuoteva sull’intero apprendimento dell’aritmetica. L’ultimo giorno di cinque anni di scuola fu un giorno di bilanci, ed Antimo scrisse insieme agli altri una valutazione del suo percorso parlando di sé. Si espresse più o meno in questo modo: Io mi chiamo Antimo, sono un po’ chiatto, sono bello fuori e dentro sento le mazzate che non devo sentire. La mia famiglia è fatta da Mamma, Papà, Rosaria, Giuseppe e poi c’era mio fratello che si chiamava Antimo come me ed è morto in un pozzo in Germania. A me piace venire a scuola e scrivere e mi piace il nome “di mi”, di Mi è cancellato; scrive “di” e cancella ancora; e poi scrive “il nome Antimo perché un altro non mi piace”. Sotto quelle cancellature c’era il dramma della sua vita ed il segreto del numero cinque. Antimo aveva contato la prima volta elencando i membri della famiglia, ma quando arrivava al nome Antimo che corrispondeva al quinto dito, continuava a confondersi – lo stringeva tra le dita dell’altra mano e lo piegava avanti e indietro, quasi che rappresentasse l’oscillazione del suo pensiero -‐ perché non sapeva se si trattava di lui o di suo fratello: era violato il principio di identità matematica: ogni numero è uguale a se stesso; ma anche violato il senso della sua identità, tant’è che sente ‘dentro’ quello che non deve sentire fuori, quasi che avesse un fuori che non gli appartiene: il nome. Personalità, identità, appartenenza ed altro, sono concetti che riguardano il mondo delle relazioni e delle emozioni. La relazione con sé stessi si sviluppa solo a partire dalla relazione con l’altro. Questo coinvolge la stessa possibilità di pensarsi, e la stessa possibilità di pensare. Pensare è impensabile senza un pensiero che pensi sé stessi, e pensare sé stessi è guardarsi da fuori e non si può fare se lo sguardo esterno non c’è. E’ lo straniero che mi dice chi sono. Questa idea espressa per prima dai greci torna in molti contesti. La ‘personalità’ è la collezione dei miei modi di relazionarmi agli altri, ma è anche
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l’accumulo di comportamento che gli altri hanno avuto verso di me. Ogni emozione si apprende solo attraverso sé stessa e mai attraverso qualcos’altro, è perciò sempre necessario che ci sia l’altro che rimanda l’immagine di sé per poter apprende da sé e su di sé. Di cose così difficili ho parlato con i bambini a partire da un ‘bambino scimmia’ ritrovato nel 1987 e che, secondo quanto fu discusso, “fuori era un uomo ma dentro si sentiva scimmia”, e vedeva gli uomini come un pericolo perché era stato “cresciuto dalle scimmie”. E poi ancora : “un bambino è come lo tratti, se lo picchi diventa come un animale che capisce solo le mazzate, se lo tratti con gentilezza lui capisce le parole” . Insomma io non credo che noi scegliamo tra valori ed abiti preconfezionali dalle ideologie dominanti nel nostro ambiente, piuttosto apprendiamo i comportamenti base per accumulazione di esperienze. Il mestiere degli educatori che io cerco di praticare ed insegnare ad altri è quello di aiutare ciascuno a prendere coscienza di sé offrendosi come specchio non deformante. …… Bruno Cirino, l’eccellente attore scomparso nel 1981, interpretò nei primi Settanta "Diario di un maestro". Come lo rifarebbe oggi, sentendosi da sempre “ragazzo di strada”, “semiconvittore” e “maestro che ascolta invece di parlare”? E si potrebbe rifarlo, visto che ormai della scuola palesemente non frega più una beata cìppa a nessuno? Il diario di una maestro dovrebbe essere il diario di un uomo. Di un uomo che inciampa sistematicamente nei caporali di Totò; di un uomo che cerca di sfuggire ai professori, di un uomo che cerca di sfilarsi dalle divise; che cerca la musica in mezzo al frastuono, che cerca il bello nelle discariche, che cerca il vero sulle bancarelle dei falsi griffati, che cerca il bene dove dilaga il male. Uno che sta sempre fuori posto. Uno che vorrebbe poter parlare ai giovani e dirgli che la vita vale la pena di essere vissuta. Questo diario dovrebbe far vedere come la sua vita si trasforma in un libro di testo leggibile, in un manuale d’uso per i giovani. Dovrebbe evitare alla grande di presentarsi come un missionario sociale di alcun tipo, dovrebbe evitare di rappresentarsi come il profeta di una cultura o di una fede, dovrebbe evitare di presentarsi come un grande pensatore. Forse dovrebbe evitare di presentarsi del tutto; oppure presentarsi nudo, presentarsi come attrezzo, come materiale di consumo, come sussidio di piccola entità e deperibile, bene non inventariabile. Forse non dovremmo parlare di scuola ma di educazione, e di seduzione, di come sedurci a vicenda e lasciarci sedurre dalla vita perché solo così possiamo, insieme, educarci, ossia tirarci fuori dallo stato di cose esistenti con le nostre stesse mani. Della scuola non frega a nessuno, perché a nessuno frega di interrogarsi sulla propria esistenza, perché a nessuno frega che ai giovani prima di parlare della storia e della costituzione bisogna parlare dell’essere. ……………. E’ mai stato frainteso e travisato nelle Sue dichiarazioni? Fino a che punto un Autore, trattando della vita altrui e dell’altrui esperienza, può rielaborare e modificare? E’ frainteso chi si fraintende. A me sembra che mi vada sempre bene. Mi accorgo che se mi intervista un giornale di destra dà una curvatura particolare alle mie vere parole, mi fa apparire un uomo d’ordine. E’ un po’ falso ma neppure tanto e quindi non mi preoccupo. Se scrive uno di sinistra mi fa apparire come un libertario contestatore. Non è vero ma neppure questo mi dispiace più di tanto. Ho incontrato molto professionisti che riescono in poco tempo a restituirmi una immagine di me migliore di quella che mi riconosco. Insomma penso che a offrirsi si viene trasformati. Troppi sono preziosi, hanno paura di sciuparsi. Ma senza sciuparsi non ci si modifica. Penso che le letture degli altri aiutano a leggere sé stessi. L’autore e ciò che scrive sono indipendenti dalla realtà di riferimento e sono anche indipendenti tra loro. Il problema è di chi viene usato come pretesto della scrittura, se si sente violato o meno, se è abbastanza sicuro di sé e delle proprie relazioni da non sentirsi modificato da una falsa rappresentazione; ed ancora più difficile è la condizione di chi è il riflesso della propria
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immagine. Io non ho un’immagine da difendere ma una identità che affermo nelle mie relazioni quotidiane. Quando leggo una falsa rappresentazione di me dico: ‘ma io non sono Pasquale’, riferendomi a quella scenetta di Totò che continua a prendere schiaffi da uno che lo chiama Pasquale e a ridere a crepapelle a ogni schiaffo preso e poi spiega all’amico incredulo “ma io mica mi chiamo Pasquale”. Gli schiaffi all’immagine sono schiaffi alla persona solo se uno vuole sentirli. Ci sono degli amici che leggendo qualcosa su di me credono più al giornale che non alla loro esperienza. Hanno un grave problema e mi dispiace per loro. Le false notizie del giornale mi hanno aiutato a scoprire la verità di un falso. Altro è se si tratta di notizie false in grado di danneggiarmi realmente. Lì bisogna subito mettere mano alla carta bollata. Ma qui non siamo più nel campo della licenza poetica ma nel campo della licenza d’uccidere. L’ultima volta la cattiva prosa di un commissario mi è costata tre anni di inutile latitanza conclusasi con un proscioglimento in istruttoria per non avere commesso il fatto. Sono passati trenta anni ma è una esperienza da custodire nella memoria. Che cosa fa scorrere l’infelicità?Cosa non c’era scritto in “Lettera a una professoressa”? La legge di gravità che porta inesorabilmente i corpi pesanti verso il basso. O meglio, la grande massa porta a sé la piccola massa. Il buco nero inghiotte ogni luce. Ci illudiamo con la potenza dei motori di raggiungere la velocità di fuga dalla nostra massa, ma non facciamo altro che dirigerci nell’orbita di una nuova massa. Non è con la potenza dei motori che ci allontaniamo da questa fatale attrazione. Un giorno un quadrupede smise di camminare a quattro zampe fissando il suolo da cui strappava il cibo ed incominciò a guardare davanti e lontano e il suo corpo fu teletrasportato nei luoghi che l’occhio vedeva e poi in quelli che la mente ricostruiva. Sulle pareti di una caverna imparò a proiettare i suoi sogni e poi inventò altri strumenti per sognare e ricordare. Senza pareti per proiettare, senza strumenti per sognare e ricordare la vita è pesante e scorre verso il basso. L’infelicità non viene dalle ingiustizie del mondo (che sono troppe persino per essere enumerate) ma dai cuori chiusi, che trovano nelle ingiustizie del mondo il punto d’Archimede per far precipitare un macigno ciclopico per ostruire l’ingresso all’anima. Che cosa non c’è scritto da parecchie parti. Cosa non c’è scritto in generale nella letteratura pedagogica. Non c’è scritto – almeno in Lettera a una Professoressa -‐ il dolore, non c’è scritto che dietro il canto lirico c’è una discesa agli inferi; non c’è scritto lo sgomento che prova ciascuno ad entrare in contatto con l’orrore e con il dolore devastante. Non c’è scritto quello che poi stava scritto nella sofferenza di alcuni corpi, nelle morti giovani, nelle pazzie ricercate. Don Milani era un profeta che come altri profeti ha messo il suo corpo a disposizione del divino che attraverso lui aveva la possibilità di parlare. Fino a morirne (incidentalmente si è trattato di un cancro, ma il divino trova mille travestimenti). Perché le stimmate e le ferite sanguinanti sono proprie dei veri profeti. Pochi sanno parlare delle proprie ferite e preferiscono parlare di quelli per i quali soffrono e di quelli che li fanno soffrire: degli ultimi che dovranno essere primi e dei primi che dovranno essere ultimi, dei buoni che soffrono, dei cattivi che fanno soffrire. La mia ambizione, che è anche una metodologia di lavoro, è di affrontare tutto questo in modo laico, di riuscire a vedere, nominare ed elaborare la sofferenza e con questo fare a meno dei profeti (ben vengano, ma bisogna sempre aspettare che l’Onnipotente si decida) e riuscire a essere dei buoni mastri (mastro e non maestro) per gli apprendisti della vita. ……… Ho un’idea: trattiamo tutti i cattivi con gli psicofarmaci. Che ne dice? Sono d’accordo anche con provvedimenti più drastici. Ho solo un dubbio: ma poi quando finisce l’effetto, cosa facciamo? Ci saranno sani a sufficienza da somministrare tempestivamente le nuove dosi? A domande di questo tipo rispondo sempre affermativamente, poi mi interrogo sulla loro praticabilità effettiva. Mio nonno mi diceva sempre che per catturare un uccello bastava mettergli un pizzico di sale sulla coda. Ero piuttosto ingenuo e lui continuava a farmi degli scherzi di questo tipo. Credo di essere arrivato
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a cinquanta anni senza aver operato una revisione critica di questo assioma. Poi ho capito che per mettere il sale sulla coda dell’uccello occorre prima catturarlo e tenerlo fermo. Se uno ha voglia di prendere psicofarmaci sta già sulla strada buona: e gli altri, chi li cattura per tenerli fermi? E quelli che nessuno vuole, nemmeno Lei? Devono morire. In molti modi: suicidio ed omicidio, autodistruzione lenta con le sostanze; arruolamento in qualche battaglione della morte; ritiro paranoico o esplosione schizofrenica. La democrazia fa a meno di gasare le persone “tarate”, lascia che provvedano da sé stessi alla bisogna, lascia che qualcuno in conto terzi versi lacrime di pentimento su queste morti. La nostra cultura ha elaborato modelli di intervento che sono adatti anche ai casi più estremi; ciò di cui mi occupo io è comunque qualcosa che somiglia ad una scuola. Per altri ci vuole qualcosa di più forte e totalizzante, ma sembra che non ci sia nessuna intenzione di occuparsene seriamente. Cosicché al momento se ne occupano becchini, carcerieri e poliziotti.
Mattino in famiglia (intervista preparatoria del 6 novembre 2008) Cesare Moreno Maestro elementare Presidente ONLUS Maestri di Strada Coordinatore del
progetto Chance A Secondigliano forse è successa una cosa che accade anche in altre famiglie: un ragazzo
subisce un torto da suoi coetanei e cerca di coinvolgere i genitori, fratelli maggiori, cugini, amici. Normalmente gli adulti cercano di non lasciarsi coinvolgere, ma se accade, anche tra persone perbene, non è una bella cosa e non è educativa. Se il genitore giustiziere è un camorrista la cosa può finire nel sangue. In questo caso solo feriti altre volte ci sono stati giovani che ci hanno lasciato la pelle. La cosa che colpisce è che questi ragazzini non possono vivere una vita da ragazzini, perché
anche un litigio tra coetanei viene inglobato nella guerra tra bande rivali. Da quanto tempo succede questo Sono decenni, certamente una prima acutizzazione c’ è stata negli anni settanta, poi il
terremoto ha lasciato uno strascico di degrado e di emarginazione e di cattive abitudini, di corruzione morale che si è andata amplificando. Inoltre c’è una scalata nella diffusione e nella acutezza del crimine connessa alla “democratizzazione” dello spaccio; un problema specifico che riguarda i giovani e le donne è il fatto che quando la repressione diventa efficace e gli adulti stanno in galera automaticamente si abbassa l’età di reclutamento oppure si apre anche alle donne. I ragazzi che vivono nei quartieri di emarginazione povertà vivono soprattutto la povertà
culturale del contesto che non offre risorse adeguate alla crescita dei giovani. Significa ad esempio che nel dopo terremoto sono state costruite molte strutture compresi campi sportivi e luoghi per i giovani, ma poi mancano gli adulti che possano svolgere un ruolo di riferimento e accompagnamento alla crescita. Quindi anche le famiglie che non vivono di crimine, ma sono indigenti e povere di risorse culturali, finiscono per lasciare i ragazzi a se stessi. Fioriscono quindi luoghi di ritrovo in strada, luoghi dove si ammazza stancamente il
tempo, circoli e circoletti con giochi vari. Si crea quindi una situazione di abbandono educativo, di distrazione e disinteresse degli adulti che spinge i ragazzi a cercarsi ‘sfide’ ed imprese che sono come minimo fuori della legge e ricche di rischi. Questa situazione di magmatica non legalità diventa di fatto la palestra di vita e quindi di
possibile reclutamento da parte delle bande, senza che debbano preoccuparsi di organizzare una ‘vivaio’ per i propri affiliati. Il progetto Chance è nato proprio nel 98 per offrire ai ragazzi che non hanno riferimento
educativo non solo la scuola ma una relazione significativa con adulti che si interessano a loro
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con uno sguardo amico piuttosto che con uno sguardo “giudichevole” e che consuma come hanno avuto a dire alcuni nostri allievi. Questo significa che nella nostra scuola c’è istruzione, ma c’è anche cura, ossia attenzione ai
bisogni personali di ciascuno, e la capacità di ascoltare e accogliere i ragazzi quanto più hanno vissuto esperienze difficili e appaiono aggressivi, violenti, maleducati. Quando si entra in contatto con questo ragazzi si scopre che l’aggressività in realtà nasce
dalla paura, che tutta la potenza ‘territoriale’ in realtà è paura di uscire dal proprio quartiere, che le impennate in motorino sono lo specchio della paura che hanno a prendere i mezzi pubblici. Noi quindi li guidiamo a diventare cittadini a godere di tutte le belle occasioni che le nostre
città offrono e soprattutto gli insegniamo che hanno una grande ricchezza: se stessi , che non devono buttarsi, che non devono svendersi a nessun tipo di dipendenza. Questo si basa su quella che chiamiamo alleanza educativa con le famiglie, cioè noi
dialoghiamo con le famiglie, per stabilire una accordo in funzione del miglioramento della vita dei ragazzi. Noi non giudichiamo le famiglie, ma capiamo il loro disagio e le loro insufficienze e cerchiamo di aiutarle nella educazione dei figli. Tra noi e le famiglie non’è né la cattedra né il muro della scuola: stiamo dallo stesso lato accanto ai ragazzi che devono crescere e uscire dalle situazioni difficili. Normalmente noi lavoriamo in questo modo: dopo la fase in cui i ragazzi sono stati reclutati al progetto e hanno firmato un vero e
proprio contratto formativo nel quale si impegnano a lavorare insieme a noi, non andiamo di certo per strada a cercarli, sono loro a venire volontariamente e sono accolti in un luogo che si chiama “spassatiempo” ossia luogo dove si perde tempo, ma in realtà lo si guadagna perché i ragazzi hanno la possibilità di fare due chiacchiere tra loro e soprattutto con una persona che si chiama ‘genitore sociale’ che è un genitore del quartiere che è stato preparato a svolgere una funzione di aiuto e mediazione quando i ragazzi sono particolarmente nervosi. Le attività propriamente di strada sono quelle in cui un docente e un educatore con quattro
cinque ragazzi gira la città come se fosse un’aula attrezzata e raccolgono esperienze e conoscenze, con la macchina fotografica, discussioni, telecamere. “La scuola in città” che ripercorre i luoghi familiari dei ragazzi reinterpretandoli come luoghi educativi. Quello che diciamo è che bisogna partire dalle competenze di vita di cui i ragazzi sono spesso inconsapevolmente esperti soprattutto riguardo ai lati peggiori della vita urbana per sviluppare le conoscenze scolastiche. Perciò siamo maestri di strada, noi non portiamo via i ragazzi dalla strada ma andiamo in strada nel senso di utilizzare questa come luogo di apprendimento sociale e di sviluppo di buone relazioni. Noi cerchiamo di fare in modo che i ragazzi possano vivere fino in fondo la loro vita di
ragazzi cercando di insegnargli le attese e il tempo giusto per ogni cosa. La vita dura invece impone che si diventi adulti in fretta, o meglio che si assumano i movimenti di un adulto senza averne la maturità. Questo accade anche nelle famiglie più agiate: i consumi adulti e i ruoli adulti precedono una crescita interiore indispensabile a godere pienamente delle cose. E’ chiaro che in questa differenza tra il ruolo esteriore e l’immaturità interiore si inserisce
facilmente ogni forma di dipendenza: chiamiamo dipendenza l’affidarsi ad un altro o a una sostanza, o a una emozione forte per sentirsi vivi in assenza di una vera capacità di progettare e vivere la propria vita. Quindi per prima cosa c’è una forma di “anomia” disagio a vivere con persone che senti diverse, che non ti accettano. Succede quindi che se un gruppo ti accetta con tutte le tue immaturità e debolezze stai bene in quel gruppo e stai male con chi pretende da te il rispetto di una regola che non riconosci Questo accade a tutti gli adolescenti, il disastro avviene quando le risposte non educative non vengono dal Lucignolo di turno, ma da un criminale che è altrettanto immaturo ma ha in mano un’arma che lo fa apparire forte.
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Nella nostra esperienza noi vediamo che i ragazzi in realtà non abbracciano mai volentieri la via del crimine. Oscillano pesantemente ogni giorno e continuamente dicono agli altri e a se stessi che non vorrebbero seguire quella strada, ma alla fine come dicono alcuni si trovano invischiati, si accorgono di non poter uscire dalla strada sbagliata solo quando è troppo tardi. Noi ci accorgiamo che attraverso la forza e la coerenza dei nostri comportamenti, il dialogo,
capendo il punto di vista dell’altro, possiamo smontare il meccanismo della violenza, e l’idea di dover compiere un destino già scritto. La violenza ha una sintassi elementare, noi cerchiamo di insegnare un discorso più
complesso, a trovare nuove soluzioni invece che ripetere sempre gli stessi errori-‐ La violenza è elementare e ripetitiva, l’intelligenza è complessa ed innovativa. Noi vediamo che quando i giovani arrivano a capire che un’altra strada è possibile, addirittura sono spaventati perché le strade pericolose percorse in compagnia sono sempre più facili di quelle giuste ma da percorrere in solitudine. Quindi il problema principale è che ci siano adulti degni di questo nome che sappiano porsi come riferimento a questi giovani che oscillano ogni giorno tra perdersi e salvarsi. SU seicento allievi che sono passati per il progetto circa il 40 % ha trovato strade mai prima
percorse in famiglia, altri comunque fanno attività non criminali, pochissimi sono passati per la galera, ma alcuni hanno dato fondo alle risorse comunque raccolte nella nostra esperienza per recuperare una volta usciti. Molti ci chiedono di diventare nostri collaboratori e questo è un gran successo.
Autobiografia e metodologia educativa Intervista di Fabio Olivieri a Cesare Moreno
Fabio:Prima mi stavi dicendo della scrittura di sé nei bambini…
Cesare: Appunto visto che parliamo di autobiografia..Ai temi io pigliavo sempre 5 e la motivazione era quasi sempre che ero andato “fuoritema”. A dire il vero sono arrivato a 60 anni e secondo me sono ancora fuori tema. In realtà non è che andavo fuori tema…è che sono proprio un Fuori Tema. Un outsider e rimarrò sempre uno fuori posto. Due volte ho avuto 8 . Ad un tema intitolato “Io” e un’altra volta la descrizione alla visita delle grotte di Palinuro. Perché anche lì erano sostanzialmente due temi liberi. “Io” è libero..l’altro era “Di ritorno dalle vacanze ricordo una bella esperienza” e ho raccontato una bella esperienza. Quindi lì non potevo uscire fuori tema capito? Quando ho fatto “Io” non potevo uscire fuori tema perché Io sono Io...Io..credo fosse alla scuola elementare e invece..le grotte di Palinuro era alla scuola media ma insomma, il problema era che avevo un forte senso di me e..quindi ho detto tutto quello che dovevo dire compreso, credo, qualche critica alla maestra che secondo me non mi capiva etc. Voglio dire che, normalmente, se in un lavoro scritto ci metti del tuo la cosa non viene
apprezzata, facilmente si dirà che sei andato fuori traccia. E comunque diciamo più in generale il tipo di scrittura che ti viene chiesta a scuola è .o il tema, o il riassunto. Il riassunto in realtà è forse la forma di scrittura più nobile che ci sia. Perché significa in qualche modo rivivere in un modo tuo quello che è stato detto da altri. Noi non lo chiamiamo riassunto, ma quando per esempio verbalizziamo le sedute..noi verbalizziamo tutto..lì ti accorgi subito dell’abisso che c’è tra le persone. Oriana per esempio lo fa bene.
Fabio Che difficoltà riscontri?
Cesare: Non è che tu devi fare una sintesi: Tu in qualche modo devi aderire al punto di vista di chi sta parlando e in qualche modo cogliere l’essenza di quello che sta dicendo. Quindi è una
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operazione estremamente complessa. Non è un lavoro sintetico in senso hegheliano né un lavoro sintetico nel senso “mettiamoci meno parole”. E’ un lavoro sintetico nel senso che devi fare una sintesi nel senso chimico del termine tra due cose diverse : Io e quello che sto sentendo. Se non hai una disponibilità all’ascolto che è una disponibilità a capire le ragioni di chi sta parlando, tu te ne esci con due soluzioni. O scrivi pedissequamente quello che senti , ed ho visti i verbali di questo tipo e quando li vai a riprendere dici “Vabbè è possibile che ho detto tutte ‘ste stronzate!”. Oppure invece di scrivere quello che sta dicendo il Tizio scrivi quello che pensi tu..e quindi non va bene. Il tutto deve essere fatto in tempo reale e questo conta perché c’è una terza componente che è l’emozione del momento che ti fa venire fuori un prodotto originale. A volte interviste fatte da giornalisti bravi o dei report fatte da Oriana ti restituiscono una immagine di te migliore di come te la vivevi tu . Invece dire quante stronzate ho detto …dici “Ma che cose belle che ho detto!”. L’altro ci ha messo del suo . Questo accade anche nel riassunto . Il riassunto quando cerchi di rispondere a queste domande “Ma io come l’ho vissuta questa cosa?”. Quali sono le risonanze che ci sono state tra me e ciò che ho letto ? Come restituisco il riassunto? Non uno scritto con meno parole, ma una cosa che è la fusione del mio punto di vista con quello che ha detto l’altro. Questa è una bella cosa.
Fabio: Questo in realtà richiama anche a dei processi di ri-‐significazione.
Cesare: Bravo. In conclusione tutta la nostra vita è questo. Tutta la nostra vita è come se noi riscrivessimo il mondo, mettendoci del nostro. Una ri-‐significazione di tutto. Se non c’è questo, se mi limito a recepire i significati che mi hanno dato gli altri ..il mondo rimarrebbe sempre uguale a se stesso. Non solo, forse la metà delle cose è frutto di fraintendimenti : “ho capito una cosa per un’altra” ciononostante si produce qualcosa di nuovo. Da questo punto di vista, il riassunto è un’arte . Un’arte nobilissima, la più nobile di tutte perché è facile – si fa per dire -‐ inventarsi una cosa..difficile è entrare in rapporto con una cosa già fatta. Non è facile inventarsi la “Divina Commedia”!! Però in qualche modo riscriverla è molto più difficile. Non so se hai mai letto quel pezzo di Borges, credo “La biblioteca di Babele” che dice “perché io ho scritto (Quell’IO non è Borges , è un personaggio) il Don Chisciotte, ma il primo rigo del primo capitolo era proprio uguale! E il secondo rigo…e il terzo rigo etc, etc. E’ proprio uguale! Indistinguibile dall’originale! Però l’ho scritto io”. Va avanti per pagine e pagine a spiegare come il suo Don Chisciotte era proprio identico a quell’altro. Io l’ho sempre preso come una metafora per dire che ci sono dei casi in cui una scrittura è talmente importante che l’unica cosa che posso fare è di riscrivere virgola per virgola quello che c’è. Non ci posso mettere mano. Quando noi parliamo di riassunto pensiamo a un prodotto scolastico osceno. E comunque anche dentro quello, così osceno del “mettiamo meno parole” in realtà ci metti tutto. Ho fatto un’esperienza con un bambino. Non davo un vero riassunto . Dicevo “Prendete le parole che vi sono piaciute di più. Poi su queste parole (stavamo in seconda elementare!) e su queste parole discutiamo insieme e scriviamo una cosa” . Non lo chiamavo riassunto. C’era un brano di Saverio Strati che descrive il suo ingresso in Svizzera dove “ammassati come pecore in un uno stazzo..arrivati alla frontiera si presenta un gendarme con voce di demonio che dice < Svelti,svelti,svelti! Scendete!>. Io avevo i piedi intirizziti e il cervello che non funzionava per il freddo..” etc, etc. Insomma la descrizione di una dura emigrazione in Svizzera. Questo Bambino sceglie: Pecore, Stazzo,Congela e voce di Demonio. Praticamente tutte le parole connotate le ha beccate tutte. Queste parole messe in fila costituivano con qualche piccolo connettivo …erano una versione in versi di un brano di 2 pagine. Dove c’era tutto quello che ci doveva essere. Che era esattamente l’operazione inversa della versione in prosa. Questo bambino non ha fatto niente, non ha detto niente di nuovo, ha semplicemente scelto in mezzo a 300 parole, sette parole, oltretutto era l’unico che aveva difficoltà di scrittura.. ma guarda caso ha beccato tutte le parole emotivamente calde. Tutte le parole che a lui dicevano qualche cosa.
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“Stazzo di pecore”, “Freddo che congela il cervello”, “Voce di demonio” etc. Con quattro salti ha steso la Svizzera! Ha colto l’essenziale. E tu questo me lo chiami riassunto ? Questa è una operazione creativa! La copia era meglio dell’originale. La scrittura e la ri-‐scrittura comporta sempre una ri-‐significazione almeno che non sia una operazione meramente idiota. …Quando il ragazzino mi ha presentato queste quattro frasi..io sono saltato! Ho detto “ma guarda questo che s’è fidato di fare!” Un operazione che nessuno di noi sarebbe riuscito a fare . Lui c’è riuscito. Un altro avrebbe detto “ma ragazzi qua manca…non c’è scritto che stavano in treno. Non si parla di frontiera!” . Ci mancano i riferimenti : Chi, dove, come e Quando? Invece lui ha colto le parole di valore universale che stanno fuori dal tempo . Da questo punto di vista la scuola facendo una operazione rivolta allo studente medio, allo studente astratto, non tiene mai conto dello studente che vive e che quindi ci mette del suo. Quando ci mette del suo dice: “Sei andato Fuori-‐tema”. La scrittura a scuola oltre al riassunto è il breve saggio quello che si chiama “il tema” :
“Parla dei problemi ecologici del giorno d’oggi.” La cosa si chiamerebbe breve saggio e sarebbe molto più serio chiamarlo breve saggio perché tu non devi mettere delle idee in libertà. Tu devi riferire di un argomento . Non è che devi dire “Io penso che il tema dell’ambiente è importante”…Chi se ne frega che secondo te è importante ! Spiegami perché è importante. Il tema è fatto un pochino come opinione in libertà, invece il concetto di breve saggio è dire “Ok . Ti sei informato su un’argomento..adesso riferisci”. Anche questa è una nobile operazione. Oppure c’è il testo referenziale…”esponga il candidato la prima legge della dinamica” . La versione degradata e stereotipa di questa pratica didattica diventa verificare quanto sei capace di ripetere quello che ti ha detto il professore o che è scritto sul libro. Quindi da questo punto di vista non c’è alcun tentativo di risignificazione. L’operazione di risignificazione non viene proprio proposta perché è una operazione creativa. La scuola si propone come un ripetitore. Un antenna che capta da una parte e trasmette dall’altra parte. Quindi l’operazione creativa non è contemplata anche perché ..l’operazione creativa non è facilmente gestibile. Non è gestibile nei termini tradizionali…perché la scuola è essenzialmente lineare. La creatività non è lineare…se fosse lineare sarebbero tutti creativi. 2 più 2 fa 4 ..quello lo sanno fare tutti . Il problema è quando 2 più 2 fa 4 arancione. Fa sempre 4 però il problema è che è un 4 arancione. Un colore che ti distoglie dal fatto che è 4. Non solo. Poi non c’è certezza. Nel senso che in un discorso lineare due più due fa 4 , in un discorso non lineare due più due fa 4. Ok. Ma poi a noi non interessa più di tanto che 2 più 2 fa 4 ..ma qual è il significato di questo 4 . Anche su questo..c’era un bambino che si inceppava sul 5 . Io lo dissi in televisione, senza fare il nome. Lui il giorno dopo quando scrisse disse “ Il signor Ferrara (che era Ferrara il giornalista che mi chiese a tradimento perché due più due fa 4 ? Che non è una bella domanda! Perché se ti chiedono “Quanto fa due più due? “…Fa 4 . “Ma perché due più due fa quattro ?” E’ la tipica domanda cretina che però ti manda in crisi se non sei preparato . Dissi “ Qual è il problema ? E’ che in generale succede che uno prende due. Poi conta altri due dopo il due e generalmente arriva al 4. Sennonché ci sono alcuni bambini che quando arrivano al 4 si impicciano con le dita e non riescono più a dire se fa 4,5, o 6 e quindi 2 + 2 non fa 4! Ma allora quanto fa? Potrebbe fare 4 ma potrebbe fare 3 . Fa quello che capita.” Il bambino capì che si trattava di lui e quindo scrisse “…e il maestro Moreno ebbe una bacchettata sulla mano!” . Cosa che non è proprio avvenuta …anzi mi fece i complimenti etc.etc. Questa è una bella risignificazione. “Quello stronzo è andato a dire i fatti miei in televisione ed io lo meno!”. La storia non finisce lì. Scopro cosa c’è dietro dopo 5 anni che avevo questo bambino. L’ultimo giorno, il 13 Giugno, quando la scuola era deserta perché gli insegnanti i ragazzi li fanno andar via prima. L’unica classe che era presente fino all’ultimo giorno ero io . (20.10 minuti) . Il 13 Giugno alle ore 11 , facciamo un bilancio di questi 5 anni passati assieme e ognuno scrive quello che gli sembra etc.etc. Allora lui scrive delle cose . Poi dice “Io sono un bambino simpatico. Fatto bello fuori .. …e dentro sento le mazzate che non devo sentire!” . Già questa è una bella frase . Poi va avanti e dice “ Io …la mia famiglia siamo 4 ..però …e io mi chiamo
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Daniele e si chiamava Daniele anche mio fratello che è morto in un pozzo in Germania… a me mi piace il nome di …” e cancella. Poi scrive “ Il nome di mi…” e cancella . Poi scrive “ Mi piace il nome di …” e cancella. E poi “ a me piace il nome Daniele perché un altro non mi piace”. E lì ho detto “finalmente è questo il problema”…perché lui per due volte stava scrivendo “il nome di mio fratello”, e siccome il fratello nell’ordine della conta era il quinto. Quindi lui quando faceva la conta della famiglia diceva “Mamma, Papà, Antonietta, Gennaro e…” Quando arrivava a Daniele. Chi era Daniele ? Lui o il fratello ? E là si inceppava . E’ andato avanti per 5 anni senza dire niente di questa storia. Poi invece scrive che il fratello è magrolino invece lui è grasso . Sto bambino era chiarissimo che aveva problemi di identità . Aveva un bulimia legata a questo. Aveva l’ecolalia, ripeteva sempre le parole che dicevi. Un ragazzo normale, intelligente, faceva anche le operazioni più complesse ma il numero 5 era un tabù gravissimo per lui. Questo esempio serve per dire che anche la cosa più scontata come potrebbero essere i
numeri, che sono sempre uguali a se stessi, in realtà sono oggetto di risignificazione . Prima di attingere al mio 5 come equivalente universale di tutti gli insiemi composti da 5 elementi, perché è questo il numero 5, prima di arrivare a questo concetto, il 5 sono i membri della mia famiglia. Il 5 sono le dita , i miei amichetti. Non è l’equivalente universale di un bel niente. Rappresenta un elemento significativo della mia esperienza. Se non rappresenta un elemento significativo della mia esperienza io il 5 non lo imparo. Questo discorso della Risignificazione potrebbe essere alla base di qualsiasi didattica. Invece se fai un intervista a 300000 mila insegnanti non sanno che cos’è nemmeno la significazione ..figuriamoci la ri-‐significazione!
Fabio : Mi colpiva questa cosa in merito al narrarsi, al narrare di sé. Leggevo in uno dei tuoi articoli la difficoltà anche di parlare di vicende personali in dei contesti in cui non esisti tu solo come bambino , ma hai un contesto familiare in cui parlare può comportare dei problemi oggettivi. Mi viene da pensare che nel momento in cui devi narrare di te, lo puoi fare solo a livello simbolico. Utilizzando simboli attraverso i quali sprigionare in qualche modo quello che hai dentro. Possono essere anche le fiabe…modalità diverse del narrarsi. Il simbolo è uno degli scopi ricorrenti che ho trovato nel corso …anche quello della madre sociale…è un qualcosa che nella sua accezione originaria sono proprio due tessere spezzate simbolo dell’alleanza. In che modo vivi l’alleanza nell’educativo ? Qual è l’aspetto che è veramente simbolico in senso stretto nella relazione tra insegnante e bambino…in questi contesti e nel contesto del narrarsi?
Cesare : Prima del simbolo, io parlerei della metafora. Alla base del simbolo c’è un’attività metaforica: il fatto di stabilire la corrispondenza tra due mondi. Se la locomotiva sta avanti e i vagoni stanno dietro, in questo momento: questa poltrona è la locomotiva e queste sedie sono i vagoni. Stabilire una corrispondenza bi-‐univoca tra due mondi che non c’entrano nulla l’uno con l’altro. Questo mi serve per costruire i simboli. Io stabilisco una regola d’uso : se questa penna è simbolo di questo blocco, la regola d’uso di questa penna è che quando levo il tappo è equivalente al fatto che giro il foglio. Quindi questa penna può essere il simbolo di quel blocco, se io ho costruito questa metafora e questa corrispondenza bi-‐univoca. Perché se no il simbolo …se viene usato in un modo diverso dal referente non è più un simbolo. Il simbolo buono è quello che non ha nessun significato proprio. Per es. La Parola è il simbolo dell’Oggetto. E’ un buon simbolo perché non è nulla . E’ semplicemente un’emissione di voce e quindi non ha un suo significato . O si riferisce all’oggetto oppure non ha significato. La parola a sua volta diventa un oggetto che entra in relazione con altri oggetti della stessa specie. Per poter costruire una narrazione devo avere una capacità metaforica, ossia saper ristabilire la corrispondenza tra le parole e i loro referenti. La costruzione e l’uso del simbolo presuppongono una capacità metaforica. La capacità metaforica è molto importante perché da un lato è creativa: attraverso la metafora tu crei mondi nuovi . Dall’altro è importante perché
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ti consente di allontanarti dalla “scena del delitto” senza dimenticartene. Quindi ti consente di rivisitare la “scena del delitto”, ossia – sto usando una metafora -‐ situazioni dolorose, attraverso le loro rappresentazioni, i loro simboli e non facendoti male sul serio . Quindi la metafora è uno strumento fondamentale per poter trattare materie difficili. C’è un detto inglese che dice “se vuoi avere a che fare con il Diavolo procurati una forchetta lunga”. La metafora è la pinza lunga per trattare argomenti incandescenti. La capacità metaforica è assolutamente fondamentale per l’uomo perché ti consente di gestire nella mente cose che gestite nel reale fanno parecchio male. Però c’è anche la cosa inversa. Il fatto che qualsiasi simbolo. Parola, può essere in grado di
rievocare qualcosa di dolorosa senza che magari tu neppure lo sappia. Allora il punto critico sta nellae relazioni molteplici che esistono tra mondo reale e sue rappresentazioni; noi abbiamo questa capacità di costruire rappresentazioni maneggevoli che ci consentono di fare operazioni che nel reale sarebbero molto pesanti. ( 30 min e 25 sec) Sia sotto il profilo pratico che sotto il profilo emotivo. Viceversa poi le metafore mi fanno sempre ricordare il mondo reale…e quindi ..mi evocano il mondo reale e i suoi dolori . Certe volte senza neanche rendersene conto. Tutta lo sviluppo cognitivo e il ruolo della scuola alla fine riguardano la capacità di gestire le metafore. Questa pinza lunga che mi serve per maneggiare realtà incandescenti comporta la consapevolezza che ogni qualvolta vi ricorro, questa porta con sé un frammento del dolore che l’ha resa necessaria. Con i bambini noi abbiamo sempre questo problema. Come governare la capacità metaforica? Anche perché la capacità metaforica, che in larga parte coincide con la capacità semiotica, cioè di produrre significati, di ri-‐significare: la semiosi è infinita. Io posso generare metafore da metafore e significati da significati. La semiosi, la capacità metaforica è senza fine. Se tu non riesci a dare uno stop a questa capacità di autoriprodursi impazzisci. Anche perché rimandi continuamente ai significati più profondi e questo non sempre fa bene. Questi significati alla fine sono sempre : la Paura, il tentativo di rimanere in vita quando il mondo congiura contro di te. L’incapacità di porre un freno a questa compulsione trasformativa è follia; la follia nelle sue varie forme, riguarda questo. Se torniamo alla domanda “le metafore che importanza hanno nel lavoro educativo?” , io dico: esse stesse sono il lavoro educativo. E’ l’uso dei simboli e delle metafore che devono essere appresi per poter maneggiare la realtà senza farsi male. L’unico vantaggio del lavoro intellettuale, dell’affinamento concettuale della realtà, è il fatto che io possa agire a distanza rispetto all’oggetto senza entrarci in relazione diretta.
Fabio : certamente questa metafora della pinza per gli oggetti incandescenti ci fa pensare ad una sua duplice funzione. Se da una parte dobbiamo cogliere quegli oggetti in modo tale da non scottarci, dall’altra una volta che si sono raffreddati ce ne dobbiamo riappropriare, reintroiettare.
Cesare: Il senso della metafora è proprio quello di poter sperimentare in corpore vili, -‐ uso volutamente questa espressione a sproposito, per dire che l’idea di un esperimento rischioso compiuto lontano dalla mia preziosa persona, riguarda proprio la parte tutt’altro che vile dell’uomo – sperimentare nella mente ciò che sperimentato nel reale sarebbe troppo pericoloso o doloroso. Però alla fine devi passare all’azione. Perché altrimenti rischi di crescere su te stesso. La favola quando dice “C’era una volta…” dice subito che quell’universo è molto distante. Avverte che si sta entrando in un mondo magico che non è pericoloso. Quello che traspare in modo opportuno è che le emozioni che si provano qui e là sono esattamente le stesse di quelle reali: si piange, si ride, ci si commuove. “Come se” fosse vero. Se non ci fosse questa capacità di provare emozioni nel “come se”…
nella significazione è fondamentale legare l’emozione al significato, senza di essa quest’ultimo non avrebbe ragione d’esistere. Paura, attesa, angoscia, ansia etc. Se una cosa non mi provoca un minimo di ansia è senza valore. Quando tu doni un regalo, perdi tempo nel confezionarlo
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con il fiocchettino, legandolo per bene, scegliendo la carta giusta. Perché ? Non solo per vezzo estetico perché l’occhio vuole la sua parte . E’ l’attesa di scartare . Crei una piccola attesa che diventa un investimento emotivo sull’oggetto. Ritardando la gratificazione accumuli energia. L’attesa è energia che si accumula e poi la scarichi al momento opportuno. Bisogna stare sempre attenti ad utilizzare questa potenzialità perché la mia metafora non è la tua metafora. Il positivo e il negativo si mescolano scambiandosi i ruoli. Un tramonto viene ritenuto generalmente romantico, se sono sul mare con una fidanzata. Se dico invece “mio padre è ormai al tramonto”. Il sole che si immerge nel mare o che muore assume una valenza malinconica, triste. Il tramonto è dunque una metafora positiva o negativa? Dipende dallo stato emotivo di chi guarda il tramonto. Il problema per noi è proprio quello di comprendere che la mente umana per la sua capacità metaforica infinita ed indefinita, quando meno te lo aspetti ti fa ritrovare a parlare di corda a casa dell’impiccato. “piacere, di mestiere faccio il cordaio” e a quello hanno impiccato il figlio tre giorni prima! Può un insegnante non parlare di corda a casa dell’impiccato ? No. E’ sicuro che tu parli di corda a casa dell’impiccato, specie per i bambini. Vedi l’aneddoto del numero 5. Quando utilizziamo la metafora da una parte facciamo l’unica operazione possibile che possiamo fare: maneggiare una realtà complessa con delle rappresentazioni semplificate e con degli oggetti simbolici che non fanno male. Lavorare con i concetti significa non farsi mordere anche se posso piangere come se lo avessero fatto. Da questo lato ti aiuta a gestire delle realtà diverse pur essendo consci però che per le sue caratteristiche peculiari non porta con sé un unico significato, ma tendenzialmente tante metafore quanto sono gli individui e in mezzo agli individui ci sarà sempre qualcuno a cui quella metafora farà molto male! Parecchi insegnanti hanno pensato di poter lavorare con emozioni e con i sentimenti come con una materia scolastica, senza rendersi conto che rischi di aprire l’otre dei venti, quello aperto dai compagni di Ulisse. Se vuoi lasciarti sedurre dalla melodia dei sentimenti, devi farti legare come Ulisse fece – appresa la lezione -‐ per ascoltare il canto delle sirene. Appena si apre l’otre dei venti vieni sballottato …Tu rischi di ritornare in quello stato confusionario tipico dell’infanzia in cui non capisci il bene e il male. La differenza tra la Maga Circe e una buona samaritana. Molti insegnanti hanno pensato che mettendo qualche parolina più personale potevano educare il pupo. Hanno semplicemente scatenato emozioni incontrollabili e poi sono costretti a tirare i remi in barca. E questo i ragazzi lo vivono come “tradimento”, molto di più che non la freddezza professionale. Ci sono docenti aperti paternalisticamente alle ‘confidenze’. Spesso più le proprie che non quelle degli allievi, ma poi sul più bello riprendono in mano il registro e l’attitudine giudicante. Sotto questo aspetto l’insegnante austero di vecchio stampo è di gran lunga preferibile e preferito. (47 minuti e 25 secondi)
Fabio: Rispetto al viversi le emozioni da parte degli insegnanti occorre rilevare che è molto poco sviluppata l’intelligenza emotiva . Viene lasciata a sé sia nell’adulto che nel bambino. Quanto e come credi possa influire e soprattutto come lavorate in quei contesti in cui gestire le emozioni fa la differenza delle relazioni. A scuola questo, almeno in quelle istituzionali, non viene neanche preso in considerazione.
Cesare : Il problema …non è la scuola che non considera le emozioni. E’ un’intera cultura che ha una idea dello sviluppo personale come di ….come una sorte di evoluzione creativa. In questa l’uomo pensante razionale lineare, intelligente, etc. ha sepolto l’Uomo emozionale ed ha sepolto anche il bambino emozionale. In realtà non è così…in ogni singolo atto di conoscenza si mescolano emotività, casualità, casualità, ragione. L’atto di conoscenza è un atto complesso e non lineare. Entro in rapporto con l’oggetto lo manipolo, stabiliscono relazioni con lui, mi lascio invadere dal sentimento di lui . La famosa sintesi, in cui l’oggetto esiste in sé, è un universale e non è solo ‘per me’ viene molto dopo, e comporta ogni volta un travaglio interminabile. In realtà ogni atto di conoscenza è un complesso di atti di conoscenza su piani
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diversi. Il piano emotivo è sempre presente. Ho fatto una raccolta di citazioni a riguardo . Anche Einstein che può essere tacciato di tutto tranne che di irrazionalità, lo dice in modo chiaro: la ricerca scientifica è possibile solo perché c’è una passione che è dello stesso tipo di quella che un amante ha per la propria amata. E’ lo stesso tipo di rapporto – dice Albert -‐ che San Francesco e Democrito hanno con la natura. Il contemplativo, la cosmica meraviglia del mondo vengono prima di qualsiasi discorso razionale. E se questo non c‘è la ragione è vuota, è follia.
Fabio: Leggendo il tuo articolo sul fatto di cronaca accaduto a Palermo mi era venuto in mente, mi aveva richiamato il senso della punizione. Ho quindi ripensato ad un romanzo che per antonomasia affronta il senso del pentimento e della punizione : Delitto e castigo di Dostoevskij . In cui c’è da parte di Raskol’nikov una serie tormentata, prima di arrivare a concepire il passaggio attraverso il perdono istituzionalizzato. D. ti porta fino ad un certo limite in cui ti domandi “Vabbè ma se fondamentalmente si è pentito e lo ha fatto con tormento…serve poi andare oltre?” . In realtà l’incontro con Sonia è rivelatore rispetto al Perdono . Decide, pur avendola fatta franca di costituirsi. Per cui ciò che mi colpisce è quanto conta il pentimento personale rispetto ai canali istituzionali nelle situazioni di disagio. Nel momento in cui ti vivi un contesto che avverti come ingiusto…secondo te c’è il senso o la necessità di essere perdonati in contesti di difficoltà primaria nell’approccio, nell’integrarsi all’interno della società? Avverti che ci sia questa necessità da parte di tutti di essere perdonati, chiaramente non nel senso cattolico, quasi un riconoscimento della totalità dell’altro nei suoi aspetti positivi o negativi .
Cesare: Avere il perdono…io ripeto il discorso che ho fatto in quella lettera. La prima cosa è che io mi devo sentire in colpa..e io mi sento in colpa se ho il senso di un debito non pagato, una rottura che è avvenuta. Il discorso del Perdono non lo riesco a vedere se non nel discorso di dire “Devo riparare”. Ma questo riparare naturalmente deve fare i conti con la soggettività dell’altro . Riparare
non può significare che io me ne vado in una grotta in montagna mi metto il cilicio e mi auto-‐punisco. Perché ciò che è importante non è infliggere il dolore al Reo ma riprendere il confronto con l’altro e da questo punto di vista ..ci sto riflettendo in questo momento…questa idea del perdono, forase c’entra. L’idea che ci debba essere un’attività di conciliazione. Tutto quel discorso che faccio sulla
punizione ha un unico corollario ..insisto a dire che l’unica punizione che ha senso è quella vissuta socialmente. Adesso la tua domanda sul perdono ripropone in termini diversi la stessa cosa. O la parte offesa, o un suo rappresentante …qualcuno ci deve essere che mi restituisce il senso della mia espiazione. Uno che dice “ok. Hai saldato il conto!”. Non è possibile farlo mettendo i soldi su un conto anonimo in una banca svizzera. Se sono in debito con te i soldi li devo restituire a te e la ricevuta me la devi dare tu. Che io Prenda 10 volte tanto la cifra e la versi in un conto svizzero dove faccio beneficenza ai bambini malati di AIDS…non ha senso. Questa idea che dici tu..il Perdono …avere di fronte a me o la vittima o un suo rappresentante, o una persona che rappresenta la vittima per eccellenza , l’Innocente è quello. Colui che è Innocente è l’unico che mi può restituire tutte le colpe di cui non conosco la vittima. Per il semplice fatto di esistere e di avere relazioni sociali qualche colpa ce la devo avere. Come bisogno generale e non quindi come “ho fatto un errore” e devo essere perdonato. Ma in un certo senso è come se ci fosse una sorta di peccato originale per il fatto di stare in società. Faccio parte dei meccanismi e il senso di appartenenza ad una comunità mi può essere dato soltanto dal fatto che qualcuno mi accetti per quello che sono, con i miei difetti . Qualcuno che mi perdoni per le cose che io posso aver fatto. Del resto guarda che nel meccanismo del capro espiatorio che oggi si usa a sproposito indicando una persona colpevole, quando invece la sua caratteristica è appunto quella di essere innocente ..altrimenti non sarebbe un capro
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espiatorio. (1 ora e 19 secondi) Quello che voglio dire ..Questa idea che dobbiamo farci perdonare quindi dobbiamo fare un sacrificio alla divinità, possiamo dire un sacrificio all’ordine sociale esistente…Pagare un prezzo per entrare nella comunità…da questo punto di vista il perdono dobbiamo averlo un po’ tutti anche se non abbiamo fatto niente. E’ come dire per poter entrare alla comunità io devo rinunciare ad una parte di me stesso …finché sono tutto centrato su me stesso non potrò mai entrare nel gruppo. Ci dovrà essere da un lato un atto di contrizione iniziale dall’altro lato ci deve essere un atto di accettazione che qualche volta noi chiamiamo perdono. Tutta la ritualità cattolica è basata su questo : ripetere continuamente questo atto di contrizione, sacrificio rituale dell’innocente e il perdono perché sono peccatore. Da questo punto di vista io penso che …non me lo ricordavo Dostoevskij così…l’esempio mi pare che funzioni bene,cioè non basta che lui si costituisca. Attraverso Sonia deve rientrare in contatto con le sue vittime. In sostanza deve rientrare in contatto con l’umanità e dire comunque “Io faccio parte di Voi”. Ha bisogno del perdono non può limitarsi solo a pagare in galera. Penso che ci sia questo. Anche se bisogna stare attenti a non vivere questa cosa come una sorta di desiderio di espiazione o di auto-‐punizione. In realtà il perdono è un atto liberatorio. E’ il rientro nel gruppo . La richiesta di perdono è anche un atto di sottomissione al gruppo, alla società. Viceversa viverlo come espiazione per i prossimi trenta anni anziché essere un atto di libertà diviene chiusura. Ho visto dei miei colleghi che hanno un po’ la volontà di espiazione… di riscattare . Non so se il loro peccato o i peccati del mondo quindi questo voler dare, volere dare…”perché hai tanta voglia di dare ?” Prendi pure qualche cosa. Quando tu non ti prendi niente non fai parte del gruppo.
Fine prima intervista realizzata in data 23/06/2007
Auto intervista Venti domade formulate da Valentina Ghione
Domanda 01 – Percorso per arrivare a Chance
Fin da piccolo ero destinato ad insegnare anche se no lo sapevo. Ho cercato di allontanarmi da questo destino con una lunga deviazione durata 20 anni, ma alla tenera età di 38 anni sono stato costretto, manu militari, a fare il mio primo concorso e pochi mesi dopo mettevo piede per la prima volta come insegnante in una classe. Mi ero occupato in precedenza di indagini sociologiche sull’orientamento ed avevo scoperto che nelle terze medie c’erano a mala pena 10 ragazzi e che gli altri si erano persi per strada e nessuno ne parlava. Neppure i sociologi con cui lavoravo. Ho deciso di andare personalmente al centro del problema, ho scelto la peggiore scuola del mio quartiere che è primo a Napoli per dispersione scolastica. Avevo la precisa idea che troppe formule pedagogiche erano nate in contesti o laboratoriali o di piccoli centri, ma che pochi si fossero confrontati con la complessità di un quartiere urbano moderno e degradato.
Domanda 02 – Libri che hanno influito sulle scelte professionali
Nel dicembre del 1966 occupai per la prima volta l’Università e cominciai a leggere qualcosa sulla scuola. Mi fecero leggere “Lettera a una professoressa” e io stesso scrissi un opuscolo pubblicato da Freltrinelli che si apriva così:” la scuola italiana è scuola di classe due volte”. Il linguaggio e la logica erano molto primitivi, ma ancora oggi mi trovo ad affrontare il problema della emarginazione sotto due aspetti: quello strutturale e quello dell’emarginazione interiore. Oggi penso che il problema più grave sia il secondo. Quando per decisione collettiva familiare – avevo già un figlio e non avevo alcun lavoro regolare - è
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stato deciso che dovessi fare il concorso ho letto ogni genere di cose; però insieme a mia moglie studiavamo da un pezzo questioni che ci aiutavano a criticare un pensiero politico troppo schematico: studiavamo di biologia, di epistemologia, di psicologia. I libri che più ci colpivano oltre a Freud – che sommariamente conoscevamo già – erano quelli di Bruno Bettelehim, per il modo libero in cui affrontava i problemi e per la sua capacità di proporre risposte semplici e sensate partendo da analisi e metodologie complesse. In particolare Bettelheim mi ha passato l’idea che non esistono problemi solo cognitivi o solo ‘organici’ ma che ci sono sempre emozioni che finiscono per essere la cosa più importante (magistrale il suo testo sugli errori di lettura). Ma soprattutto di Bettelheim ci attraeva il modo in cui coniugava il suo essere ebreo, la sua vita nei campi di concentramento, l’esercizio della professione e purtroppo anche il modo di essere isolato ed inviso ed infine anche il modo della sua morte. Tra i libri che ho letto in quel periodo il filone “Itard, Montessori, Vigotsky, Bruner” è quello che mi ha influenzato maggiormente. Vigotsky soprattutto, lui ed altri molto diversi ( ad esempio Wittegenstein, Karl Kraus di Detti e contradetti, Huizinga di Homo Ludens….Benveniste del Vocabolario delle istituzioni indo-eropee; Adorno della Terminologia Filosofica….. ) mi hanno dato la convinzione che tutto passa attraverso il linguaggio e che il linguaggio ha una capacità generativa. Nelle mie letture, non guidate, ho certamente saltato delle cose: per esempio non sono mai riuscito a leggere le cose di Mario Lodi o di Ciari o quelle di Freinet. Venivo da una forte ideologizzazione e la retorica proletaria o di sinistra mi dava piuttosto fastidio. In seguito quando avrei potuto leggerli con maggiore serenità non ne ho avuto più tanta voglia, ero convinto e sono ancora convinto che una nuova pedagogia vada sperimentata in gruppo e nelle situazioni urbane di maggior disagio e che le piccole scuole di paese o gli esperimenti individuali contano piuttosto poco per cambiare i metodi di lavoro. (del resto anche esperimenti consistenti come il nostro non mi sembra che cambino molto). Quanto a Don Milani ho preso le distanze da molto tempo: ha detto cose molto vere e molto giuste, tuttavia – non era questo il suo compito – non ha proposto un metodo di validità generale e troppo presto i suoi allievi si sono sentiti in dovere di schierarsi come se l’appartenere ad un campo fosse sufficiente a fare le cose giuste. Poi ho visto troppa gente che con il moralismo invece di costruire ha contribuito a spaccare in un lavoro dove tutto è necessario salvo che tracciare linee di fuoco tra amici e nemici.
Domanda 03 – Esperienze di riferimento
Come ripeto non avevo voglia di trovare ispiratori; temevo anche di farmi influenzare, volevo provare in prima persona e poi confrontarmi. Del resto se avevo bisogno di esempi avevo una famiglia piena di insegnanti che si erano da sempre distinti per spremere succo anche dai sassi; ma soprattutto sapevo che non era di una diversa didattica che avevo bisogno ma di una diversa relazione con gli allievi e quello me la dovevo conquistare da solo sul campo.
Domanda 04 – Cosa rappresenta la nave del logo
La nave è un ottima metafora di tante cose. Soprattutto per me è l’idea che tutto dipenda dall’equipaggio. Quando sei in navigazione e nella tempesta non conta prendertela con l’armatore, con l’ingegnere progettista, con i cantieri che hanno costruita la nave. Qualsiasi cosa accada devi affrontare il problema con le tue sole forze. Il modo in cui abbiamo organizzato il gruppo di lavoro di Chance è quello di una ciurma che deve essere coesa a ogni livello e che non può permettersi di escludere nessuno o stabilire gerarchie che non siano funzionali a far navigare la barca da cui tutti dipendiamo. La metafora della navigazione poi per me rappresenta anche un modo di fidare sull’intelligenza che ricerca piuttosto che sull’accumulo di nozioni. Con i miei piccoli allievi
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mi soffermavo a lungo sul viaggio di Colombo e sul come egli abbia affidato la propria vita alla capacità di utilizzare – come pochi altri – il sestante per fare il punto nave. Molti insegnanti hanno bisogno di riferimenti statici, solidi e forgiati nell’acciaio (forse per questo molti docenti hanno simpatia per quei bei sistemi chiusi, “pret a porter”, che imbracano il mondo – passato, presente e futuro - in poche semplici formule) e imbrigliano le proprie ed altrui intelligenze navigando sempre sottocosta. Affrontare spazi indefiniti, nel mare come nello spazio, nel pensiero come nella vita, richiede grande fiducia in sé e negli strumenti intellettuali; di questa pochi sono dotati spontaneamente.
Domanda 05 – Strumenti portati nel progetto
Ho portato con me una assoluta mancanza di rispetto reverenziale per ogni autorità costituita sia in campo burocratico politico sia in campo culturale e scientifico. Un altro cavallo di battaglia del mio insegnamento è il processo a Galileo e lo scontro tra autorità e ragione. Penso ostinatamente che una buona autorità debba mostrare le proprie carte, che non può aspirare all’infallibilità. Ho portato con me il rispetto sacro per ogni attività degli allievi. Ho letto nei fogli strappati, sotto le cancellature, dietro i silenzi, oltre le aggressioni, sempre convinto di incontrare una persona che mi arricchiva. Non mi sono spaventato di fronte al programma scolastico, incompleto in relazione a ciò che mi veniva imposto d’autorità, non mi sono tirato indietro nell’affrontare temi che facevano gelare il sangue quando me lo richiedeva la vita dei bambini che avevo di fronte. Nel corso del viaggio a scuola e poi a Chance ho aggiunto una sconfinata fiducia nella possibilità di trovare un strada insieme agli altri. Prima di Chance non avevo le prove se un modo di lavoro fosse il risultato di una attitudine personale irripetibile o il risultato di un metodo riproducibile. Dopo sei anni di esperienza sono convinto che sotto certe condizioni sia possibile riprodurre un metodo e che questo dia risultati positivi.
Domanda 06 – Notizie sul resto dell’equipaggio
Del resto dell’equipaggio. Nel mio modulo, conoscevo abbastanza a fondo la vita professionale dei docenti: li avevo incontrati sul campo e avevo constatato negli anni che adottavano un atteggiamento giusto verso i ragazzi. Quando sono stato chiamato a scegliere i miei compagni di viaggio mi sono diretto solo in questa direzione ed i fatti mi hanno dato ragione. Mi sono fidato di più delle capacità operative che delle dichiarazioni ideologiche o della militanza ostentata. Mi sono visto e mi vedo come un nostromo e come un ufficiale di rotta, anche se purtroppo il nostro progetto manca di uno stato maggiore ufficialmente costituito e troppo spesso abbiamo anche dovuto fare le veci di questo; e ciò non va bene sotto molti aspetti.
Domanda 07 – Differenze nel rapporto con i colleghi
La differenza più importante è che siamo un gruppo ed è nel modo in cui costituiamo gruppo. Si può essere gruppo per motivi di efficienza, di solidarietà politico-sindacale, per amicizia, per appartenenza culturale o sociale. Noi siamo un gruppo professionale, che sta assieme in quanto svolge una ricerca e realizza un apprendimento intorno al compito di educare le giovani generazioni. Noi rispettiamo in modo implicito - e sempre più in modo esplicito - una deontologia basata sul rispetto assoluto degli utenti e delle loro famiglie. Non credo che nella scuola ordinaria ci sia sufficiente consapevolezza di questo e che ci sia un lavoro per fondare la colleganza su una condivisione delle pratiche didattiche. Per questi motivi nel gruppo docente Chance le emozioni circolano con molta più libertà cosicché diventano forza produttiva quand’anche si presentino in forme aggressive. Viceversa nella scuola ordinaria si finge che ogni emozione sia ricacciata nel limbo della
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irrazionalità; col solo risultato che le emozioni agiscono sotteraneamente in modo devastante sia nel rapporto tra colleghi sia nel rapporto con gli allievi.
Domanda 08 – Differenze nelle caratteristiche dell’ambiente di lavoro
Primo: noi facciamo sul serio. Troppi docenti ingannano se stessi con paroloni e salti mortali di concetti: sempre al passo con i tempi mai al passo con la realtà. Parole come accoglienza, organizzazione, condivisione, laboratori, dialogo, ascolto sono dotate di senso e si appoggiano a pratiche riconoscibili. Lo scarto tra ciò che dichiariamo e ciò che realizziamo è minimo e sottoposto a verifica sistematica. Noi puntiamo solo e soltanto al risultato e mai ad adempiere formalità ( le formalità ci sono e sono tanto più importanti quanto più corrispondono a pratiche reali in quanto le rendono visibili e condivisibili). Noi cerchiamo ogni giorno con fatica di creare una organizzazione e reperire risorse che siano al servizio del progetto educativo degli allievi. Ogni ingranaggio del complesso meccanismo organizzativo di CHANCE è teso nello sforzo di realizzare gli obiettivi del progetto. Viceversa nella macchina organizzativa della scuola – così come in generale nelle organizzazioni complesse - ogni pezzo se ne va per conto suo, ognuno sente con fastidio la presenza delle altre parti e si comporta come quella rondine che godendo del proprio volo e sentendo il fruscio dell’aria tra le piume sospirava di quanto sarebbe stato bello volare senza l’ostacolo dell’aria. I meccanismo organizzativi non controllati e non diretti secondo una idea unitaria, sono meccanismi profondamente espulsivi, che sistematicamente sviluppano reazioni spontanee ed incontrollate di rigetto verso qualsiasi cosa turbi la mortale routine esistente.
Domanda 09 – Fasi di sviluppo del progetto
C’è stata una fase iniziale, ancora prima dell’inizio, in cui forse si voleva solo fare un onesto recupero scolastico un po’ per rispondere a un bisogno sociale, un po’ per mettersi a posto con la propria deontologia, un po’ per mettere la propria bandierina su un progetto, visto che molti si inventavano progetti. La fase della prima realizzazione ha fatto capire quanto invece si stavano mettendo le mani in un vespaio, che i problemi erano molto più complessi e la sfida tutt’altro che una semplice presa di posizione morale. Il secondo anno ha rappresentato un immediato rilancio della posta in modo che ha irreversibilmente trasformato il progetto: il cambiamento della legge sull’obbligo(legge 9/99) ha portato a prolungare il nostro impegno con i ragazzi, ma questo, ce ne rendiamo conto a distanza, significava cambiare radicalmente la natura del progetto. Il febbraio 2001, con il convegno Il Chiasso e la Parola può considerarsi uno spartiacque tra una fase esplorativa ed una fase riflessiva: dalla confusione iniziale, il chiasso appunto, alla parola. La terza fase ha visto il consolidarsi di un modello di scuola della seconda occasione e di una scuola di percorsi integrati. E’ diventata sempre più forte la consapevolezza che il progetto rappresentava una sfida complessiva non solo relativamente alla pedagogia ma anche rispetto al tipo di comunità che attraverso la scuola andiamo costruendo. La quarta fase che è cominciata già nell’anno scolastico 2003/2004 ha visto un impegno sempre maggiore per la trasformazione istituzionale da noi intesa innanzi tutto come codifica delle pratiche realizzate e poi, ovviamente, anche come riconoscimento da parte delle organizzazioni istituzionali esistenti, che sono molte. Mi riferisco innanzi tutto alla comunità locale, alle istituzioni cittadine, alle istituzioni nazionali dell’istruzione, alle istituzioni scientifiche nazionali ed internazionali. Attualmente forse siamo in una quinta fase che chiamerei del negoziato, in cui forse siamo riconosciuti come interlocutori e dobbiamo condurre un negoziato per la migliore realizzazione possibile della missione del progetto. Forse è la fase più difficile di tutte, una fase costituente in cui si può svendere, senza accorgersene, le migliori conquiste sul campo.
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Domanda 10 – Momenti di difficoltà
C’è una difficoltà permanente che è l’assenza di una direzione del progetto. Questo è il frutto di una schizofrenia istituzionale che da un lato ci affida una missione difficile e forse impossibile ma anche doverosa, dall’altro c’è un desiderio segreto e diffuso che noi si fallisca, una tendenza a metterci ostacoli sul cammino, perché il nostro successo rappresenta anche una critica dell’insuccesso diffuso e sistemico della scuola ordinaria. C’è anche una forte invidia nei confronti di figure come quelle dei tre coordinatori che senza avere né titoli accademici né protezioni politico culturali hanno resistito e sono andati avanti tra vasi di bronzo di grande spessore. Tutto questo si traduce in una svalutazione sistematica del nostro lavoro in termini economici ed in termini di potere. Sui termini economici c’è poco da dire: i docenti Chance sono puniti relativamente ai propri colleghi, lavorano per più ore e non hanno avuto accesso agli incentivi del fondo autonomia, non hanno avuto accesso ai fondi per le scuole a rischio. In termini di potere noi ancora oggi non abbiamo neppure il potere sul nostro tempo: ogni anno siamo costretti alla umiliante pratica della ‘utilizzazione’ che ci tiene sistematicamente sulla corda di una precarietà immeritata e professionalmente devastante. Tutto questo si moltiplica per dieci nelle figure dei coordinatori, sui quali non posso dire nulla per non essere colto da un accesso di rabbia. L’assenza di potere si è particolarmente manifestata quando c’era la necessità di decisioni dolorose o impossibili da prendere all’unanimità: ad esempio si trattava di allontanare dal progetto persone che si erano dimostrate inadatte al compito. Le decisioni alla fine sono state prese ma con molto ritardo e fatica e ancora oggi paghiamo per i danni conseguenti a tali ritardi. Le misure prese nei confronti di questi problemi sono:
una organizzazione di assistenza psicopedagogica che consentisse di gestire ed elaborare anche queste frustrazioni. Penso che questo resti il primo motore della forza collettiva che ci ha consentito di andare avanti crescendo, per sei anni.
Un’azione sistematica di accreditamento presso comunità più ampie di quella interna al progetto in tre direzioni: le istituzioni cittadine e nazionali dell’istruzione, la pubblica opinione, la comunità scientifica. Tutto questo ha portato ad una crescita smisurata della autorevolezza persino a scapito del potere reale e questa forse è oggi una contraddizione ed una spaccatura ancora più grave che all’inizio del progetto
La produzione continua e sistematica di progetti, idee, proposte, un superlavoro sistematico che surrogava alla mancanza di potere e di autorità con la forza delle proposte, della scrittura, della presenza. E anche questo modo di fare è ormai giunto al limite estremo dietro cui c’è il collasso: il crollo rovinoso del castello e della persona fisica che ha osato impegnarsi nella sua costruzione.
La difficoltà maggiore deriva dal fatto che queste contraddizioni esterne sono diventate anche contraddizioni interne e che gli stessi strumenti di difesa rischiano di diventare strumenti di oppressione, alibi all’inazione e questo vale in tutti e tre i campi indicati: il sostegno a sostenere le frustrazioni può diventare tendenza ad evitare le situazioni frustranti, l’accreditamento istituzionale e presso l’opinione pubblica può scadere nella fuga dal compito verso mete più comode e piacevoli, la produzione di progetti può diventare costruzione ossessiva di castelli di carte: giocattoli sostitutivi di impossibili costruzioni vere. Da questa difficoltà si esce solo chiudendo il progetto o in modo definitivo o rifondandolo su nuove basi.
Domanda 11 – Un’occasione per chi?
Come abbiamo detto Chance è una occasione per la città. Una occasione perché tutti i cittadini si sentano migliori perché condividono una missione importante nei confronti delle
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giovani generazioni. Dentro questo quadro esistono categorie sociali e comunità particolari che hanno un grado di esposizione maggiore e quindi anche un grado di possibile partecipazione maggiore: parlo della comunità dei docenti, della comunità scientifica, delle diverse istituzioni sociali e culturali. Purtroppo vedo che questi gruppi partecipano poco e male, che bisogna trascinarceli, che anche chi sta dentro ci sta quasi come su un autobus strapieno: sul predellino pronto a saltare giù alla prossima fermata. C’è un qualche difetto d’origine del progetto, che non abbiamo ancora individuato, (ma forse è solo l’antica tendenza delle razze padrone ad escludere chi non è nato bene) che ci porta comunque ad essere distanti dalle comunità che contano.
Domanda 12 – Interazioni tra singolo e gruppo.
La cosa più importante che ho capito in questi anni è che è sbagliata la contrapposizione individuo gruppo. Credo fermamente che il centro dell’azione educativa, ma in generale il centro della vita, sia l’individuo; ma l’individuo esiste solo in quanto espressione del gruppo. Noi abbiamo visto fisicamente crescere l’individualità di ciascuno come derivato di una forza di gruppo. Naturalmente occorre chiarire di quale gruppo: noi parliamo di un gruppo coeso, di un gruppo dove emozioni e sentimenti siano accolti come motore primo della relazione e del pensiero riflessivo. Un gruppo che sia fondato solo sulla adesione ad un credo, sulla conoscenza di una regola-disciplina astratta è un gruppo dentro cui si stabiliscono gerarchie ed in cui circolano devastanti sotterranee correnti emozionali. Noi abbiamo anche sentito le possibilità oppressive del gruppo, la tentazione ad esercitare il potere della maggioranza. I nostri gruppi cercano di mantenere la coesistenza delle posizioni diverse e di giungere alle decisioni come negoziato di posizioni e non come vittoria di una maggioranza. I nostri sono gruppi di discussione e non gruppi democratici. Questo non significa che sia possibile una coesistenza indefinita: ci sono persone che non hanno accettato questo modo di fare che è faticoso, duro, penetrante in quanto espone le parti più deboli di sé. Cosi come è necessario un particolare gruppo dobbiamo pensare ad un particolare individuo che sia aperto alla trasformazione e accogliente verso se stesso e l’altro, un individuo alieno da ogni paranoia egocentrica, professionale, sociale, culturale. Queste doti sono molto difficili da reperire in una società sostanzialmente bloccata, congelata (forse da secoli) in una logica bellica in cui ogni pensiero ed ogni respiro devono necessariamente essere inscritti in una delle due metà del campo di battaglia. Dichiarasi non belligeranti è la scelta individuale più difficile.
Domanda 13 – Le cinque migliori buone pratiche
La prima nell’ordine è il sostegno ai docenti attraverso le pratiche già prima indicate Funziona perché il docente esce fuori dall’isolamento angoscioso ed ansiogeno entro
cui viene confinato il docente tradizionale. Il docente Chance pur operando in un ambiente estremo è molto più sereno del docente medio che opera in ambienti ufficialmente più tranquilli. Un osservatore estraneo ha notato che nei corridoi di Chance non si odono le urla dei docenti.
La seconda è l’accoglienza-accettazione degli allievi, quel lungo periodo di seduzione reciproca che apre il rapporto educativo e getta le premesse di un rapporto autentico
L’accoglienza degli allievi funziona perché la ricerca di una relazione personale non è una retorica paternalista o pettegola, ma uno spazio reale di incontro dentro cui le fascinazioni giocano un ruolo fin troppo reale, al punto che occorre adottare misure di protezione per evitare coinvolgimenti eccessivi.
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La terza sono le pratiche di autovalutazione degli allievi prima fra tutte quella riguardante la presenza
Le pratiche di autovalutazione sono essenziali per innescare processi di empowerment reale, presa di potere dei ragazzi su se stessi. Il primo potere è l’essere presenti a se stessi, e le pratiche di autovalutazione aiutano grandemente questo
La quarta sono le pratiche comunicative verso i ragazzi e le famiglie, il modo in cui si intreccia la comunicazione circa i risultati scolastici con un vera e propria azione di sostegno alla genitorialità e mediazione nei rapporti tra adulti ed adolescenti
Le pratiche comunicative sono efficaci in quanto attivano il sostegno dei gruppi di riferimento ai ragazzi che apprendono. Se i ragazzi non sentono la condivisione emotiva da parte degli ambienti sociali di riferimento non assumono quella posizione dell’apprendere che rende possibile la comunicazione educativa, si oppongono ad ogni comunicazione efficace.
La quinta è la ricchezza e varietà delle tecnologie didattiche e quindi la capacità di trarre materia di apprendimento da ogni contesto e da ogni occasione
La diversificazione delle tecnologie e dei contesti consente di valorizzare le esperienze informali, consente di pensare comunicazioni didattiche meno pesanti e più interattive.
Domanda 14 – Cos’è la restituzione
La restituzione appartiene ad un contesto didattico che non esclude emozioni e sentimenti. La comunicazione scientifico-discorsiva è insieme unidirezionale e unidimensionale. Anche quando c’è un apparente dialogo, in realtà si comunica con la Scienza: è come se due interlocutori si palassero per il tramite di un comune interprete. La dimensione unica comporta la purificazione della comunicazione da ogni ‘accidente’ come si diceva un tempo, da ogni connotazione emotiva come diciamo oggi. La comunicazione interumana invece è connotata dalla reciprocità e muiltidimensionalità. La restituzione significa accoglienza del punto di vista dell’altro, delle sue emozioni, il rivivere empaticamente le stesse emozioni, restituire all’emittente il dono di sé che è incluso in un atto comunicativo autentico: la restituzione è la risposta all’obbligo che si crea attraverso il dono. Noi sappiamo che il peggior danno che si possa fare ad un bambino non è neppure una pratica educativa rude o violenta ma una pratica educativa indifferente, incapace di rispondere alle sollecitazioni del bambino. Questo vale anche nelle relazioni tra adulti e nella relazione con gli adolescenti che soffrono innanzi tutto della mancanza di significatività del sé in una situazione in cui hanno ossessivo bisogno di riconoscimento proprio in quanto non riconoscono se stessi. Dunque la restituzione è parte essenziale del processo di crescita e di empowerment, una accusa di ricevuta che è assolutamente essenziale. Qualche volta dico che si tratta anche – senza troppi arzigogoli – di un atto di elementare buona educazione e di rispetto nei confronti dei giovani che crescono.
Domanda 15 – Pratiche che dimostrano l’assunzione di responsabilità
L’assunzione di responsabilità più diffusa riguarda l’impegno di tutti per la frequenza e l’impegno scolastico. Il primo punto di crisi nella relazione educativa della scuola ordinaria riguarda proprio l’indifferenza verso la frequenza e l’impegno: Mancata frequenza e disimpegno vengono anche sanzionati ma non vedono una vera partecipazione della scuola, come se la partita fosse chiusa con la sanzione. Capita anche il altri campi: se circolate con le gomme lisce avete una multa e la cosa finisce li. In altri paesi non solo avete la multa ma il giorno dopo dovete recarvi ad una stazione di polizia per mostrare che avete montato le gomme nuove. In questo modo la multa e la
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sanzione diventano una manifestazione della cura che lo stato ha per il vostro benessere piuttosto che un mero ed interessato adempimento burocratico. Nel rapporto con la frequenza scolastica manca sistematicamente questa seconda parte e allora anche la sanzione appare una inutile vessazione. Nel nostro progetto questa come altre faccende diventano ‘affari di Stato’ che è una espressione idiomatica per designare questioni complicate. Far diventare qualcosa una “affare di Stato” è come dire che si esagera. Nel nostro progetto siamo esagerati quel tanto che basta a far capire a ragazzi e genitori che ci preoccupiamo veramente per il ragazzo e che non ci interessa solo di mettere a posto una pratica. La responsabilità è collegiale e coinvolge allievi, famiglie e ogni tipo di operatori. Responsabilità significa che qualcuno risponde ed i nostri docenti rispondono sempre. Un rinforzo particolare a questa pratica si trova nelle diverse figure di tutor e nella sottoscrizione personale del contratto anche da parte del docente, attraverso di essa la responsabilità si personalizza e diventa anche visibile e concreta.
Domanda 16 – E’ una comunità che apprende?
Chance è senz’altro una comunità che apprende. Tuttavia occorre dire che i tassi di apprendimento sono estremamente differenziati tra individui diversi, zone e livelli diversi del progetto. Ad esempio l’apprendimento nelle istituzioni di riferimento è vicino a zero, perché vicino a zero è il tasso di diffusione delle pratiche adottate da Chance. In generale le professioni e le istituzioni fortemente strutturate sono quelle che apprendono meno. Noi docenti apparteniamo ad una professione meno strutturata e meno difesa, meno protetta e forse siamo – in alcuni casi – più disponibili all’apprendimento. Ho notato nei nostri colleghi coordinatori dei servizi sociali di zona un buon tasso di apprendimento perché sono come noi vicino al cuore del problema; ho notato un buon tasso di apprendimento negli psicologi quando sono stati costretti a confrontarsi con forti emergenze, ma in generale i livelli di protezione sono troppo alti perché ci sia una apprendimento efficace e diffuso. Il problema dei differenziali di apprendimento credo che sia il problema principale da affrontare nella creazione di organizzazioni interprofessionali. L’apprendimento è come un’onda che di propaga su una superficie: sono più scosse le persone vicino al centro perturbante e che vanno navigando, sono meno scosse le persone lontane dal centro o che hanno salde fondamenta sul fondo roccioso.
Domanda 17 – Gestione degli errori e dei conflitti
Emozioni difficoltà e conflitti sono come un’onda sismica che si propaga in molte direzioni ed in molte forme diverse: soffrono di più gli edifici meno coesi, oscillano di più i piani alti rispetto ai piani terra. Noi sappiamo che una manutenzione continua impedisce che piccole crepe si trasformino in voragini. Noi sappiamo che la principale fonte di apprendimento sono gli errori ed i conflitti; solo se ritorniamo continuamente sugli errori e niente viene dimenticato possiamo apprendere. Alcune volte errori e conflitti li abbiamo dovuti stanare da angoli nascosti o trascurati e sono stati necessari anni. Ma ogni volta che succede questo ci sentiamo più forti. Ormai esiste una tradizione, un ricordo delle esperienze, una convinzione che le difficoltà possono essere superate ed anche un buon repertorio di soluzioni. Gli errori possono essere affrontati a gradi di profondità diversi e non c’è limite alla possibilità di andare alle radici. L’esistenza di sedi diverse e di tempi diversi di discussione consente di esplorare gli errori in diverse direzioni e a diversi gradi. Il ritorno successivo ‘sul luogo del delitto’ a più riprese è fondamentale e fondamentale in questo la pratica dei verbali che consentono di ricostruire non solo lo svolgersi degli eventi ma il nostro modo emozionale di vivere le esperienze. Il valore aggiunto del gruppo e della memoria ormai si percepisce e rappresenta il patrimonio più prezioso di questa esperienza, una delle differenze fondanti con una scuola che fa dell’oblio la sua pratica più
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significativa. L’onda sismica si sente di più ai piani alti; la “direzione strategica” nella misura in cui cerca di esistere, i centri di elaborazione teorica, sentono i movimenti tellurici con sensibilità accentuata. Un buon lavoro di direzione e di riflessione teorica è parte essenziale della gestione delle emozioni e dei conflitti in quanto permette di costruire meccanismi di protezione più complessi ed elaborati, permette di trasformare i sensi di colpa per gli errori commessi in capacità riparativa e costruttiva. I migliori costrutti didattici elaborati in Chance sono il risultato di una profonda discussione degli errori commessi.
Domanda 18 – Il dialetto di Chance
Mi sono fermato molto su questa domanda. Mesi orsono avevo composto una specie di glossario di tutti gli scritti di (e su) Chance trovando che contengono almeno 200 espressioni significative e caratterizzanti. Nel compilare il questionario ho cercato di scoprire se ce ne era qualcuna ricorrente e veramente tipica. Ho verificato che 66 sono abbastanza tipiche anche se alcune si possono trovare anche in altri contesti. Infine 37 sono ineliminabili o di nuovo conio. Volendo ulteriormente ridurre si giunge a cinque raggruppamenti concettuali che costituiscono i pilastri portanti dell’architettura Chance: 1) Attivazione dei processi di pensiero, 2) la promozione dell’apprendimento in ogni contesto, 3) il sostegno sociale ai processi di sviluppo personale, 4) la promozione di cittadinanza giovanile, 5) lo sviluppo di una comunità di apprendimento tra tutti gli attori del progetto. Quindi dopo ore di lavoro non è venuta fuori una o poche frasi. Pensandoci bene riesce difficile trovare una espressione ripetuta di frequente perché una delle caratteristiche del nostro linguaggio è di rinnovarsi continuamente e di aderire alla situazione e all’oggetto di cui parla, quindi mancano quelle frasi intercalari che sono tipiche di un linguaggio stereotipo che si preoccupa di annunciare e dichiarare appartenenze varie attraverso la ripetizione di formule sacramentali. Forse la frase che ripetiamo più spesso è: “attenzione alle docce scozzesi”, che è un invito a tenere la guardia alta dopo un successo per non restare scioccati dalla puntuale delusione del giorno dopo. E’ ormai legge che i nostri adolescenti non possono reggere più di un giorno un comportamento per così dire tranquillo. Un’altra frase ricorrente è “dove abbiamo sbagliato”. Più rituale è la frase ‘sento di dover dire’ che preannuncia in genere una scarica di emozioni con un discreto contenuto aggressivo.
Domanda 19 – I bisogni dei nostri ragazzi
Passiamo una bella fetta di tempo a cercare di capire di cosa hanno bisogno i nostri ragazzi. Mi è sempre più chiaro che anche i bisogni non sono solo personali ma nascono dall’interazione con gli adulti di riferimento: vedo sempre più chiaro che la confusione dei ragazzi circa i propri progetti di vita riflette la nostra confusione circa ciò che sia proponibile a dei giovani che vivono condizioni difficili e realtà dure. Soprattutto credo che non riusciamo a governare l’intreccio tra bisogni profondi legati al processo di crescita biologica e personale e bisogni legati allo stato di cose esistente: alla particolare congiuntura socio economica, al particolare ambiente culturale di appartenenza. La licenza media, è sempre più chiaro, rappresenta la fine di un periodo di moratoria da cui i giovani vogliono uscire a tutti i costi e tale desiderio è tanto più forte quanto più gli ambienti culturali di riferimento propongono una vasta gamma di modi di diventare grandi alla svelta che non si conciliano con i percorsi prolungati che offriamo con la scuola. Per partire veramente dai ragazzi e non da una loro rappresentazione riduttiva, occorrerebbe essere in un progetto territoriale che affronta il problema a tutto campo con proposte scolastiche, proposte formative, proposte educative intese come riposte qui ed ora al bisogno di vivere pienamente la propria vita. Credo che siamo indietro proprio su questo, sulla nostra capacità di leggere cosa accade ai nostri ragazzi dopo la licenza media. Se
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non sappiamo leggere questo ogni soluzione sarà parziale e destinata all’insuccesso.
Domanda 20 – Cosa si vede all’orizzonte
Colombo – sono sicuro - ha più volte ingannato i propri uomini rivelando segni inesistenti della terra vicina. Ed ha ingannato se stesso quando ha immaginato immensi tesori subito disponibili. Forse poteva permettersi questi inganni perché non pensava di scoprire un nuovo continente ma solo una nuova via. Noi purtroppo non possiamo più essere ingenui. So di non poter scoprire un continente. So anche che mai gli esploratori hanno potuto godere dei frutti delle loro scoperte. Nella mia vita ho già sperimentato alcune volte come il successo apra la strada a orde di conquistatori che calpestano i primi esploratori che si attardano sul bagnasciuga; so anche che al di là della spiaggia c’è un continente da esplorare e che questo è popolato da indigeni qualche volta pacifici e accoglienti ma il più delle volte giustamente preoccupati ed aggressivi. L’equipaggio ha già fatto molta fatica a reggere lo stress di un viaggio a meta ignota e durata indefinita ed è giustamente stanco; non so se abbia voglia di addentrasi nei territori interni; non so se è in grado di affrontare i problemi nuovi e diversi che pone una esplorazione terrestre rispetto ad un viaggio in mare aperto. Insomma penso che se arriviamo a toccare terra – ma ci sono dubbi in proposito - la nostra missione sia compiuta e che non bisogna prolungarla oltre il suo limite.
Seconda Parte - Sintetiche informazioni generali
Cesare Moreno Napoli 03/09/1946 Due figli di 25 e 20 anni Maturità Classica, Maturità Magistrale, due anni di esami fatti alla Facoltà di Fisica di Pisa; tre anni di esami fatti al Magistero di Salerno. Studi pedagogici di buon livello compiuti da autodidatta e testimoniati da numerose pubblicazioni in autorevoli riviste.
Esperienze precedenti:
Militanza politica a tempo pieno dal 1967 al 1976 Lavori precari nel campo della ricerca sociale dal 1974 al 1984 Concorso vinto come insegnante elementare nel 1983/1984; ho insegnato solo e soltanto nelle zone più difficili e nelle classi rifiutate da altri docenti. Nel 1994-96 sono stato consulente del Ministro per i problemi della dispersione e responsabile a Napoli del piano provinciale di intervento sulla dispersione che contava su oltre 400 docenti utilizzati. Sono stato cacciato per eccesso di zelo e per dichiarata invidia. Dopo la mia cacciata gli interventi sistemici sulla dispersione sono stati progressivamente smantellati e il progetto Chance rappresenta sempre più una sorta di relitto fossile in un panorama di rovine. Dal 1996 al 2003 ho svolto gratuitamente l’incarico di responsabile educativo dell’Opera Pia Orfanotrofio Famiglia di Maria, un semiconvitto che si occupa dei ragazzi che vivono le condizioni più difficili nel mio quartiere. Un’esperienza che mi ha nesso in contatto con il lavoro di comunità e che ha avuto una importanza centrale nel suggerirmi una serie di costrutti pedagogici in genere non presenti nelle organizzazioni scolastiche. Da questa esperienza sono stato estromesso per il semplice fatto di non appartenere a nessun raggruppamento politico: ciò mi è stato detto esplicitamente dallo stesso assessore che finanzia il Progetto Chance e che è responsabile dei semiconvitti. Nessuna delle innovazioni da me portate nell’istituto è stata mantenuta.
Nel 1998 ho cominciato il progetto Chance come coordinatore del modulo San Giovanni Barra.
Ruolo attuale: svolgo, sulla base di una autoinvestitura, il ruolo di coordinatore
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cittadino insieme a due colleghi; abusivamente sono anche promotore dei progetti di sviluppo di Chance. Sono sicuro che la cosa è sgradita a molti e soprattutto lo è sempre di più a me stesso. Proseguo per pura dipendenza tossicologica, anche se continuo a farmi del male.
Tempo dedicato alla compilazione
Se si eccettua il tempo dedicato alla lunga digressione sulla domanda N° 18 ho impiegato oltre 12 ore di due giorni di cosiddetta vacanza e l’ho fatto perché lo trovavo piacevole rispetto alla scrittura di ennesimi documenti ufficiali. Nella revisione ho impiegato altre sei ore.
Certamente è stato utile. Nonostante mi sia trovato a rispondere a decine di interviste, le domande qui poste sono diverse e più centrate sulla realtà del progetto. Più che sviluppare nuove riflessioni è stata l’occasione per esplicitare e inserire in un quadro coerente osservazioni che accompagnano il mio lavoro quotidiano.
Suggerimenti
L’unico suggerimento è che sarebbe stato meglio richiedere le risposte in formato digitale. O almeno di indicare questo formato come preferenziale.
Forse mancano delle domande – a cui del resto si può rispondere consultando altre fonti – sugli assetti istituzionali.
Quale motivazione?
Una domanda che ritengo particolarmente importante è quella sulle motivazioni, su ciò che muove ciascuno a impegnarsi in una impresa così difficile.
La mia risposta è che questo è l’unico modo per appartenere ad una città che è profondamente ingiusta e che lo è particolarmente verso i giovani. E anche l’unico modo che conosco per soddisfare la mia smisurata ambizione di contribuire ad affrontare un problema vero piuttosto che limitarmi a svolgere diligentemente un lavoro salariato. Ho piuttosto in sospetto invece le motivazioni altruistiche, riparatorie, missionarie, ideologiche. Mi piacerebbe di avere una motivazione puramente egoistica, ma sempre più spesso sono assalito dal dubbio che in realtà la mia sia una motivazione profondamente masochistica. Da evitare come la peste.
Intervista per Dario Bacchini
1) Illustri sinteticamente cosa si intende per “maestro di strada”, come nasce, come opera nella scuola e quali attività svolge come associazione.
La definizione sloganistica è andare dove l’allievo sta con la mente e con il cuore e non dove lo abbiamo confinato noi che sia un regolamento, un ordinamento didattico, o una pagina di manuale. Il nostro punto di vista è che l’educazione nasce da un incontro il cui esito non è scontato, che occorre stabilire innanzi tutto una relazione, poi viene tutto il resto. Questo sul piano della didattica significa valorizzare i vissuti degli allievi. L’allievo non è una tabula rasa ma portatore di diverse e contraddittorie esperienze. L’abilità didattica del docente non è saper esporre la disciplina ma saper incontrare l’esperienza dei giovani e aiutarli a rielaborarla e tradurla nei linguaggi formali, attribuendo, quindi, grande importanza agli apprendimenti informali e situati. Sul piano della metodologia pedagogica significa attribuire grande importanza ai contesti, alle condizioni relazionali ed emotive in cui ha luogo il processo di apprendimento. Ma l’apprendimento
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dall’esperienza è ostacolato da innumerevoli ostacoli emotivi per cui essere maestri di strada significa anche essere guide in cammini perigliosi, accompagnatori dei giovani in un percorso di conoscenza che ha necessariamente anche alcuni caratteri iniziatici.
E’ nata prima l’istituzione “Progetto Chance” che è parte della scuola statale, e poi l’associazione. Maestri di strada. Questa è una espressione che, credo, sia stata usata per la prima volta dall’UNICEF a New York o in Israele per designare un docente a tutto campo che si muoveva anche fuori delle aule scolastiche. Nella città di Napoli abbiamo cominciato ad operare in questa direzione nell’ambito del Progetto Chance che consisteva e consiste nel recupero dei ragazzi drop-out dalla scuola dell’obbligo alla relazione positiva con sé e con gli adulti di riferimento, nel recupero alla socialità e alla cittadinanza, nel recupero alla scuola. L’associazione è nata da operatori del progetto non solo per fare operazioni che riusciva difficile fare in ambito istituzionale o per diffondere le metodologie ad ambiti non scolastici ma anche per promuovere lo sviluppo di una comunità di apprendimento professionale che vada oltre i confini del progetto napoletano.
2) Che bisogni di psicologia percepisce nella scuola? Dove vede l’utilità della psicologia nella/per la scuola?
Nella scuola come in altre istituzioni in cui si lavora essendo fortemente implicati in una relazione, c’è un forte bisogno di riflessione sulle pratiche, su se stessi e di capire cosa accade nelle persone con cui interagiamo. Spesso la risposta istituzionale agli evidenti problemi della scuola e dei giovani in generale ripropone formule stereotipate derivate da varie scienze e che sono inadeguate e talora dannose perché impediscono un serio esame dei processi reali. Altre volte singoli docenti o loro espressioni organizzate propongono formule e battaglie ingenuamente solidaristiche, ma la voglia di aiutare l’altro scivola facilmente in forme collusive verso comportamenti regressivi. La psicologia potrebbe dare un grande aiuto a dipanare una situazione fortemente complessa, intricata fino al garbuglio. Non sempre però, da parte di chi domanda e da parte di chi risponde, ci si riferisce ad una simile complessa professionalità e si scivola troppo spesso verso interventi ad hoc puntiformi e mai sistemici.
Il primo bisogno che avverto è quindi quello di una buona psicologia che sia centrata sui processi di apprendimento. Questi sono profondamente e radicalmente sociali e di conseguenza profondamente collegati alle relazioni e alle emozioni. L’apprendimento non è un processo lineare solo cognitivo, ma un processo complesso connotato da forti emozioni. Le emozioni motivano all’apprendimento e al tempo stesso creano ostacoli e barriere. Aiutare i docenti a trovare la giusta strada tra emozioni motivanti – insegnamento significativo – e il modo di contenere ansie e paure dovrebbe essere il compito della psicologia, quindi non un compito per affrontare ‘casi’ e neppure per affrontare situazioni difficili, ma uno strumento ordinario per gestire la complessità del processo di istruzione ed educazione.
3) Come si immagina la psicologia scolastica? La immagino come una sorta di supervisione a tutta l’attività della scuola, una attività di
vigilanza attenta al campo emozionale, così come in altri campi abbiamo chi vigila sul paesaggio o sui beni artistici. La scuola è anche un’istituzione della cura, come tale ogni sua manifestazione è messaggio: sono messaggi i muri, il loro colore, la loro pulizia, sono messaggi gli orari di ricevimento, i modi di apostrofare i giovani e i loro genitori, il modo di mettere i voti e di calcolare le medie, i modi di gestire l’ordine e la disciplina etc. Bisognerebbe che ogni questione sia vagliata attentamente nei suoi significati, nei messaggi impliciti ed espliciti che trasmette. La scuola è ammalata di razionalismo. Spesso i docenti sonno irrazionalmente appassionati di razionalità, perché questo corrisponde ad un bisogno di controllo del campo e di difesa di sé che in mancanza di altro si esprime con il mettere i famosi “paletti”. L’idea che basta spiegare un qualcosa perché questo sia accettato e usato nella prassi genera delusione e rabbia nei confronti degli allievi refrattari, un furore punitivo a cui l’attuale ministro ha dato la stura ma che preesisteva da lungo tempo. In un certo senso si tratta di una malattia professionale connessa all’insegnare inteso come ficcare in testa (insegnare è voce medievale che deriva dal gergo studentesco che così designava il
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docente che ‘ficcava in testa” i segni) e in un certo senso non si potrà mai essere immune da essa. Occorre perciò che contemporaneamente ci sia un richiamo sistematico al fatto che le comunicazioni non sono definite solo dal loro contenuto esplicito ed informativo ma anche dalle condizioni relazionali in cui si svolgono e ricordare che specie i giovani sono più sensibili al contenuto emotivo e relazionale delle comunicazioni che non al contenuto esplicito. Dalla tensione tra questi due diversi vertici può nascere anche una capacità di autogoverno dei giovani in relazione alle emozioni e alla capacità di usare le conoscenze di base fornite dalla scuola.
4) Che tipo di collocazione istituzionale vede per lo psicologo scolastico? Nel quadro che ho descritto finora lo psicologo non può essere né un consulente esterno, né uno
specialista di casi. Deve essere parte organica di uno staff tecnico che dovrebbe curare il funzionamento della scuola come luogo educativo e comunità di apprendimento, dovrebbe essere parte di una funzione sistemica e contribuire alla progettazione-direzione del servizio scolastico ed insieme alla sua accurata realizzazione. Dovrebbe essere quindi solidamente incardinato nella ISTITUZIONE scolastica e non essere membro di un ‘corpo speciale’ di psicologi della scuola o peggio di un gruppo di specialisti esterni che intervengono a domanda.
5) Come andrebbe prospettato, secondo lei, il rapporto insegnante-psicologo? Come accennato in precedenza lo psicologo dovrebbe accompagnare i docenti a stabilire una
corretta relazione con gli allievi, a curare le configurazioni pedagogiche di lavoro tenendo conto del loro contenuto emozionale e relazionale. Viceversa il docente dovrebbe imparare ad osservare e ad affinare le proprie capacità di relazionare agli altri i contenuti delle osservazioni partecipate sviluppate nel corso del lavoro. In questa interazione circolare c’è un arricchimento reciproco delle due professionalità, psicologica e pedagogica, che dovrebbe alla fine portare alla creazione di una vera e propria professionalità gruppale, che non è l’equipe di esperti sommatoria di monadi scientifico-professionali, ma un gruppo coeso ed integrato in cui ciascuna professionalità assume nelle sue pratiche modalità di lavoro apprese dall’altro e condivise e monitorate nei gruppi di lavoro.
6) Quale potrebbe essere il contributo dello psicologo scolastico alla gestione a scuola delle difficoltà di apprendimento e dell’integrazione dei disabili
La gran parte delle difficoltà dia apprendimento in realtà sono a base socio-affettiva. Anche quelle che hanno origine in disturbi neurologici o fisiologici sviluppano ‘sovrainfezioni’ di carattere sociale e relazionale. Un buon lavoro psicologico potrebbe servire innanzi tutto a depurare le difficoltà dalle sovrainfezioni relazionali e creare quindi un clima sereno in cui la difficoltà trova nello stesso gruppo classe un momento importante di sostegno. Il sostenere emotivamente chi sta in difficoltà è possibile quando la difficoltà viene condivisa, accettata come situazione in cui tutti, in misura diversa, ci troviamo. Tutto questo faciliterebbe anche l’affrontare difficoltà più persistenti legate a patologie organiche. Questo però è possibile a patto che anche i docenti ‘specialisti’ assumano un ruolo ed un atteggiamento generale che sia di sostegno al gruppo classe e non di medicalizzazione del ‘caso’. Lo psicologo che agisca in modo sistemico può dare un contributo risolutivo.
7) Lo psicologo scolastico può avere un ruolo per le forme alternative di didattica e per l’istruzione in situazioni atipiche?
Una buona organizzazione scolastica, che voglia incontrare l’allievo e la sua cultura e non catechizzare il “buon selvaggio”, dovrebbe per definizione inventare ogni giorno situazioni alternative, io direi su misura, e inventare situazioni atipiche che designiamo genericamente come informali. Da questo punto di vista un buon psicologo, che aiuta a leggere decifrare i comportamenti dei giovani, che aiuta a gestire gli insuccessi e le sconfitte pedagogiche può avere un grande ruolo nell’inventare nuove risposte ai bisogni emergenti ed insieme mantenere come
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invariante la capacità di accogliere e rispettare in modi sempre nuovi l’integrità della persona dell’allievo.
8) Che rapporto esiste o potrebbe esistere tra la sua associazione e la psicologia? Come sarebbe possibile sviluppare tale rapporto in futuro?
La mia associazione in tutti i progetti che propone, che sono di carattere educativo e formativo, propone la presenza dello psicologo come figura essenziale per la cura delle configurazioni di lavoro, e per lo sviluppo di ‘professioni riflessive’. Ha utilizzato spesso psicologi per la conduzione di gruppi anche quando questi non erano centrati sulla relazione ma su specifici compiti.
Lo sviluppo di questo rapporto potrebbe muovere in tre direzioni: 1) primo monitorare e modellizzare le esperienze svolte fino a proporre dei veri e propri standard di prestazione professionale 2) secondo utilizzare le attività dell’associazione come tirocinio per psicologi che intendano dedicarsi in qualche modo alla scuola e all’apprendimento in età evolutiva 3) terzo realizzare una ricerca intorno a nuove forme in cui può svolgersi l’attività psicologica nel lavoro educativo scolastico ed extrascolastico.