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INTRODUZIONE GENERALE ALLO STUDIO DELLE DOTTRINE INDÙ René Guénon

INTRODUZIONE GENERALE ALLO STUDIO DELLE DOTTRINE INDU' - Renè Guenon · 2017-10-06 · condizione per poter interpretare correttamente qualsiasi dottrina è, naturalmente, di fare

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INTRODUZIONE GENERALEALLO STUDIO DELLE

DOTTRINE INDÙ

René Guénon

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SOMMARIO

PREFAZIONE DELL'AUTORE VII

PARTE PRIMAORIENTE E OCCIDENTE 13LA DIVERGENZA 19IL PREGIUDIZIO CLASSICO 25LE RELAZIONI TRA I POPOLI ANTICHI 33QUESTIONI DI CRONOLOGIA 39DIFFICOLTÀ LINGUISTICHE 47

PARTE SECONDALE GRANDI DIVISIONI DELL'ORIENTE 53I PRINCIPI DELL'UNITA DELLE CIVILTÀ ORIENTALI 59COS'È LA TRADIZIONE? 67TRADIZIONE E RELIGIONE 73CARATTERI ESSENZIALI DELLA METAFISICA 87RAPPORTI DELLA METAFISICA CON LA TEOLOGIA 97SIMBOLISMO E ANTROPOMORFISMO 105PENSIERO METAFISICO E PENSIERO FILOSOFICO 113ESOTERISMO ED EXOTERISMO 133LA REALIZZAZIONE METAFISICA 143

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PARTE TERZASIGNIFICATO ESATTO DELLA PAROLA “INDÙ” 149LA PERPETUITÀ DEL VEDA 157ORTODOSSIA ED ETERODOSSIA 163SULLA QUESTIONE DEL BUDDISMO 169LA LEGGE DI MANU 183IL PRINCIPIO DELL'ISTITUZIONE DELLE CASTE 189SHIVAISMO E VISHNUISMO 197GLI ANGOLI VISUALI DELLA DOTTRINA 203IL NYAYA 211IL VAISHESHIKA 219IL SANKHYA 229LO YOGA 235LA MIMANSA 241IL VEDANTA 251CONSIDERAZIONI COMPLEMENTARI SULL'INSIEME DELLA DOTTRINA

259

L'INSEGNAMENTO TRADIZIONALE 263

PARTE QUARTAL'ORIENTALISMO UFFICIALE 269L'INFLUSSO DEI TEDESCHI 275LA SCIENZA DELLE RELIGIONI 281IL TEOSOFISMO 291L'OCCIDENTALIZZAZIONE DEL VEDANTA 301ULTIME OSSERVAZIONI 307CONCLUSIONE 313

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Traduzione di Pietro NutrizioEdizioni Studi Tradizionali - Torino

Traduzione ricavata dal testo originale di:"Introduction générale à l'étude des Doctrines hindoues"

Editions Véga - Paris1965 - Edizioni Studi Tradizionali

Viale XXV Aprile 80 - Torino

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PREFAZIONE DELL'AUTORE

Molte sono le difficoltà che in Occidente si oppongono a unostudio serio e profondo delle dottrine orientali in genere e inparticolare delle dottrine indù; ma gli ostacoli maggiori non sonoforse, come generalmente si crede, quelli dovuti agli Orientali.Uno studio siffatto richiede evidentemente, come prima e piùessenziale condizione, che si possegga la mentalità adatta percomprendere, veramente e profondamente, le dottrine inquestione; ora, è questa un'attitudine che, escluse rarissimeeccezioni, fa totalmente difetto agli Occidentali. In sé necessaria,tale condizione potrebbe poi addirittura essere consideratasufficiente, perché, quando venga soddisfatta, gli Orientali nonprovano la minima riluttanza a comunicare il loro pensiero nelmodo più completo possibile. Se dunque non esiste altro ostacoloreale oltre quello da noi ricordato, qual è la ragione per cui gli“orientalisti” vale a dire gli Occidentali che si occupano delle cosed'Oriente, non l'hanno mai superato?

Abbiam detto mai, e siamo sicuri di non correre il rischio diessere accusati d'esagerazione; basta, per convincersene,constatare come essi non abbiano mai saputo produrre altro chesemplici lavori d'erudizione, pregevoli forse da uno specialissimopunto di vista, ma privi di ogni interesse quanto alla comprensionedella sia pur minima vera idea. Il fatto è che non basta conosceregrammaticalmente una lingua, né esser capaci di tradurre parolaper parola, anche correttamente, per penetrare nello spirito di unalingua e assimilare il pensiero di coloro che la parlano e lascrivono. E si potrebbe andar oltre: quanto più una traduzione èscrupolosamente letterale, tanto più essa rischia di essere in realtàinesatta e di deformare il pensiero, giacché non esiste, di fatto, frai termini di due lingue diverse, vera equivalenza; ciò è soprattuttovero se le due lingue sono molto lontane l'una dall'altra nonsoltanto filologicamente, ma anche per la diversità delleconcezioni dei popoli che se ne servono; quest'ultimo elemento è

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appunto quello che nessuna erudizione permetterà mai dipenetrare. Occorrono, a questo fine, ben altro che una vana“critica dei testi” sviluppantesi a perdita d'occhio su questioni didettaglio, o metodi da grammatici e “letterati” o quel sedicente“metodo storico” che viene applicato a tutto indistintamente. Èfuor di dubbio che dizionari e compilazioni sono d'una loro utilitàrelativa, che nessuno ha in mente di contestare; e nemmeno si puòdire che tutto questo lavoro sia completamente inutile, soprattuttose si tien conto che coloro che lo forniscono sarebbero nellamaggior parte dei casi incapaci di produrre nient'altro; ma,sfortunatamente, dal momento in cui l'erudizione diventa una“specializzazione”, essa tende a considerarsi come fine in sestessa, invece d'essere un semplice strumento, come normalmentedovrebbe. È questa estensione abusiva della erudizione e dei suoimetodi particolari che costituisce il vero pericolo; in primo luogoperché rischia di assorbire anche coloro che forse sarebbero ingrado di dedicarsi a un altro genere di lavori, e poi perchél'abitudine a questi metodi ha un'azione restrittiva sull'orizzonteintellettuale di coloro che vi si sottopongono, e impone loroun'irrimediabile deformazione.

Ma non basta; ché finora non abbiamo nemmeno sfioratol'aspetto più grave della questione: i lavori di pura erudizione sonocertamente, nella produzione degli orientalisti, la parte piùingombrante, ma non la più nefasta; quando diciamo che la loroproduzione non contiene nient'altro, intendiamo che non c'ènient'altro in essa che abbia qualche valore, anche se di portatalimitata. Certuni, particolarmente in Germania, sono voluti andarpiù lontano, e, sempre valendosi degli stessi metodi, che in questocampo non possono più dare risultato alcuno, fare opera diinterpretazione, aggiungendoci per di più tutto l'insieme d'ideepreconcette che forma la loro mentalità propria, col manifestointento di far rientrare negli schemi abituali del pensiero europeole concezioni con le quali venivano a contatto. Tutto sommato,l'errore capitale di questi orientalisti, anche prescindendo da ogniquestione di metodo, è di vedere tutto nella loro prospettivaoccidentale e attraverso la loro propria mentalità, mentre la prima

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condizione per poter interpretare correttamente qualsiasi dottrinaè, naturalmente, di fare uno sforzo per assimilarla e per porsi, neilimiti del possibile, dal punto di vista di coloro che l'hannoconcepita. Abbiamo detto nei limiti del possibile perché, se anchenon tutti vi possono riuscire in modo uguale, tutti possono per lomeno tentare; ora, lungi da ciò, l'esclusivismo degli orientalisti dicui stiamo parlando e il loro spirito sistematico, sono invece talida spingerli, per un'incredibile aberrazione, a credersi capaci dicomprendere le dottrine orientali meglio degli Orientali stessi;pretesa che in fondo sarebbe soltanto ridicola se non siaccoppiasse a una ben ferma volontà di “monopolizzare” inqualche modo questo genere di studi. E di fatto in Europa non v'èaltri ad occuparsene, tranne questi “specialisti”, se non una certacategoria di sognatori stravaganti e di audaci ciarlatani che sipotrebbero considerare entità trascurabile, se non esercitassero aloro volta un'influenza deplorevole sotto diversi aspetti, come delresto avremo ad esporre a suo tempo in modo più preciso.

Per contenerci qui a quel che riguarda gli orientalisti che sipossono dire “ufficiali”, segnaleremo ancora, a titolod'osservazione preliminare, uno degli abusi a cui dà luogo piùfrequentemente l'impiego del “metodo storico”, al quale abbiamopiù su accennato: si tratta dell'errore che consiste nello studiare leciviltà orientali come si farebbe per civiltà scomparse da moltotempo. In quest'ultimo caso è evidente che si è obbligati, inmancanza di meglio, ad accontentarsi di ricostruzioniapprossimative, senza mai essere sicuri d'una perfetta concordanzacon quanto è realmente esistito in passato, non esistendo mezzo diprocedere a verifiche dirette. Si dimentica però che le civiltàorientali, per lo meno quelle che ci interessano attualmente, sonotuttora viventi, senza fratture con il passato, e hanno ancora deirappresentanti autorizzati, il cui parere vale, per la lorocomprensione, incomparabilmente più di tutta l'erudizione delmondo; gli è che, perché venga alla mente l'idea di consultarli,non bisogna partire dal singolare principio che si sa meglio di loroqual è il vero senso delle loro proprie concezioni.

Bisogna d'altronde anche dire che gli Orientali, i quali hanno, eIX

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a ragion veduta, un'opinione non molto alta dell'intellettualitàeuropea, si preoccupano ben poco di quel che gli Occidentalipossono, in modo generale, pensare o non pensare di loro; diconseguenza non fanno il minimo tentativo di correggere le lorovedute, anzi, seguendo i canoni di una cortesia un tantinosdegnosa, si rinchiudono in un silenzio che la vanità occidentalescambia facilmente per approvazione. La ragione di ciò risiede nelfatto che il “proselitismo” è totalmente sconosciuto in Oriente,dove sarebbe d'altronde senza oggetto e verrebbe considerato unapura e semplice prova di ignoranza e d'incomprensione; quantodiremo più oltre verrà a mostrarne le ragioni. Le eccezioni aquesto silenzio, che viene da taluno rimproverato agli Orientali eche non per questo è meno legittimo, non possono essere cherarissime, e a favore di qualche individualità isolata che presenti lequalificazioni richieste e le attitudini intellettuali necessarie.

Quanto a coloro che vengono meno al loro riserbo fuori diquesto caso ben preciso, di essi non c'è che una cosa da dire: ingenerale sono elementi di nessun interesse, i quali non espongono,per una ragione o per l'altra, che dottrine deformate col pretesto diadattarle all'Occidente; anche di costoro avremo occasione di direqualche parola. Quel che per il momento vogliamo farcomprendere, e che già all'inizio abbiamo indicato, è il fatto chesola ad essere responsabile di questa situazione è la mentalitàoccidentale, e che proprio questa situazione rende difficile anche ilcompito di chi, essendosi trovato in condizioni eccezionali, edessendo riuscito ad assimilare certe idee, vuole esprimerle nelmodo più intelligibile, senza con ciò deformarne la natura; questideve contenersi a esporre quanto ha compreso, nella misura in cuiciò può esser fatto, astenendosi accuratamente da ognipreoccupazione di “volgarizzazione” e senza velleità diconvincere chicchessia.

Ci pare di aver detto abbastanza per poter definire nettamente lenostre intenzioni: noi non vogliamo in questo libro fare opera dierudizione, e il punto di vista da cui intendiamo porci è molto piùprofondo. Siccome la verità non è per noi un fatto storico, ciimporta in fondo assai poco determinare esattamente la

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provenienza di questa o quell'idea, le quali non ci interessano,tutto sommato, se non perché, avendole comprese, le sappiamoesser vere; se non che certe indicazioni sul pensiero orientalepossono far riflettere qualcuno, e questo semplice risultatoavrebbe, da solo, un'importanza che molti nemmeno sospettano. Edel resto, anche se questo scopo non potesse essere raggiunto, cisarebbe ancora una ragione valida per intraprendereun'esposizione di questo genere: si tratta per noi di riconoscere inqualche modo tutto quanto dobbiamo intellettualmente agliOrientali, di cui gli Occidentali non ci hanno mai offerto ilminimo equivalente, anche parziale o incompleto.

Per cominciare, indicheremo dunque il più chiaramentepossibile, e dopo qualche considerazione preliminareindispensabile, le differenze essenziali e fondamentali cheesistono fra i modi generali del pensiero orientale e quelli delpensiero occidentale.

Insisteremo poi più specialmente su quanto si riferisce alledottrine indù e sulle caratteristiche particolari che le distinguonodalle altre dottrine orientali, benché queste ultime possegganotutte caratteristiche comuni sufficienti a giustificare, nell'insiemel'opposizione generica di Oriente e Occidente. Infine, sempre aproposito delle dottrine indù, segnaleremo l'insufficienza delleinterpretazioni che hanno corso in Occidente; dovremo anzi, aquesto proposito, e per talune di esse, parlare di vera e propriaassurdità.

A conclusione di questo studio indicheremo, con tutte leprecauzioni necessarie, le condizioni per un riavvicinamentointellettuale tra l'Oriente e l'Occidente, condizioni che,come facilmente si può prevedere, sono ben lungi dall'essereattualmente soddisfatte da parte occidentale: di conseguenza,facendo ciò, la nostra intenzione sarà soltanto di indicare unapossibilità, senza per nulla crederla suscettibile di realizzazioneimmediata o anche semplicemente prossima.

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PARTE PRIMA

1 ‐ ORIENTE E OCCIDENTE

La prima cosa che ci si impone nello studio che abbiamointrapreso, è di determinare la natura esatta dell'opposizioneesistente tra l'Oriente e l'Occidente, e, prima di tutto, diprecisare il senso che intendiamo attribuire ai due termini diquesta opposizione.

Potremmo dire, in prima approssimazione, e forse un po'sommariamente, che per noi l'Oriente è essenzialmente l'Asia el'Occidente è essenzialmente l'Europa; ma anche questasemplice distinzione abbisogna di un certo numero dichiarimenti.

Quando ad esempio parliamo della mentalità occidentale oeuropea, servendoci indifferentemente dell'una o dell'altra delledue parole, intendiamo la mentalità propria della razza europeapresa nel suo insieme. Chiameremo dunque europeo tutto ciòche si riferisce a questa razza, e applicheremo tale comunedenominazione a tutti gli individui che da essa hanno avutoorigine, in qualsiasi parte del mondo si possano trovare. Diconseguenza gli Americani e gli Australiani, tanto per fare unesempio, saranno per noi Europei esattamente come gli uominidella stessa razza che abbiano continuato ad abitare l'Europa. Èevidente che la semplice circostanza di essersi trasferiti inun'altra regione, o anche di esservi nati, non può da solamodificare la razza, né, di conseguenza, la mentalità che èinerente ad essa, e anche se il cambiamento d'ambiente è ingrado di determinare presto o tardi delle modificazioni, essenon saranno mai cosi fondamentali da far variare i caratteriveramente essenziali della razza; anzi, faranno a volte emergere

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più nettamente qualcuno di essi. A questo proposito si puòfacilmente constatare come presso gli Americani siano statespinte alle loro estreme conseguenze talune delle tendenzecostitutive della mentalità europea moderna.

Giunti a questo punto non possiamo esimerci dall'accennarebrevemente a una questione che si riallaccia all'argomento chestiamo trattando: abbiamo parlato della razza europea e dellasua mentalità propria; ma esiste veramente una razza europea?Se con ciò si intende una razza primitiva, caratterizzata daun'unità originaria e da una perfetta omogeneità, é necessariorispondere negativamente, non potendosi contestare che lapopolazione attuale dell'Europa si è venuta formando da unamescolanza di elementi appartenenti alle razze più diverse, eche esistono differenze etniche abbastanza accentuate, nonsoltanto tra un paese e l'altro ma addirittura all'interno diciascun gruppo nazionale.

Non è men vero, tuttavia, che i popoli europei presentano unnumero sufficiente di caratteri comuni da potersi distinguerenettamente da tutti gli altri popoli; la loro unità pur essendopiuttosto acquisita che primitiva, è sufficiente perché si possaparlare, come noi facciamo, di una razza europea. Soltanto chequesta razza è naturalmente meno fissa e meno stabile di unarazza pura; gli elementi europei che si mescolano con quelli dialtre razze saranno più facilmente assorbiti, ed i loro caratterietnici scompariranno rapidamente; ma ciò non si applica chenel caso in cui si verifichi mescolanza, mentre quando c'èsoltanto accostamento accade al contrario, che i caratterimentali, i quali ci interessano qui più di tutti gli altri, spicchinoin qualche modo con risalto ancor maggiore.

Questi caratteri mentali sono d'altra parte quelli grazie aiquali l'unità europea si rivela più nettamente: quali che sianostate le differenze originarie relative tanto a questo aspetto

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Oriente e Occidente

quanto a tutti gli altri, a poco a poco si è venuta formando, nelcorso della storia, una mentalità comune a tutti i popolid'Europa. Non che non esista una mentalità speciale, peculiaredi ciascuno di essi; ma le particolarità che li distinguono sonoin certo qual modo secondarie nei confronti d'un fondo comunea cui esse sembrano sovrapporsi; sono in definitiva simili aspecie d'un medesimo genere. Nessuno, anche tra coloro chedubitano si possa parlare di razza europea, esiterà ad ammetterel'esistenza d'una civiltà europea; ed una civiltà non è altro che ilprodotto e l'espressione d'una certa mentalità.

Non tenteremo di precisare subito i tratti distintivi dellamentalità europea, essi emergeranno con sufficiente nettezzadal seguito di questo studio; accenneremo solamente al fattoche diverse influenze hanno contribuito alla sua formazione, eche quello che vi ha avuto la parte preponderante è statoincontestabilmente l'influsso greco, o, se si vuole, greco-romano. Dal punto di vista filosofico e scientifico l'influenzagreca è stata pressoché esclusiva, nonostante l'apparizione dicerte tendenze speciali, propriamente moderne, di cuiparleremo più oltre. Quanto all'influsso romano, esso è piùsociale che intellettuale, e s'affermò soprattutto nelleconcezioni dello Stato, del diritto e delle istituzioni: d'altraparte, i Romani avevano intellettualmente quasi tutto assimilatodai Greci, sì che, attraverso ad essi, è unicamente l'influsso diquesti ultimi che si esercitò, pur se indirettamente. Un'altrainfluenza la cui importanza è pure da segnalare, specialmentedal punto di vista religioso, è quella ebraica, che d'altronderitroviamo anche in una certa parte dell'Oriente; benché si trattidi un elemento extraeuropeo alla sua origine, essa entra per unagran parte nella costituzione della mentalità occidentale attuale.

Se prendiamo ora in considerazione l'Oriente, vediamocome non sia possibile parlare d'una razza orientale o d'una

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razza asiatica, anche a volerci far intervenire tutte le restrizioniche abbiamo introdotte trattando della razza europea. Si trattain questo caso d'un insieme ben più esteso, che comprendepopolazioni molto più numerose e con differenze etniche moltopiù grandi; in quest'insieme si possono distinguere diverserazze più o meno pure, ma presentanti caratteristichenettissime, e delle quali ognuna possiede una civiltà propria,molto diversa da quella delle altre; in realtà non esiste unaciviltà orientale come ne esiste una occidentale: esistono delleciviltà orientali. Dovremo, di ciascuna di queste civiltà, direcose particolari, e in seguito indicheremo quali sono le grandidivisioni generali che da questo punto di vista si possonostabilire; ma, nonostante tutto, in esse si potranno trovare,sempre che si voglia attribuire più importanza al contenuto chealla forma, un numero sufficiente di elementi, o meglio,principi comuni, da rendere possibile il parlare d'una mentalitàorientale, in opposizione alla mentalità occidentale.

C'è però da aggiungere che parlare di ognuna delle razzedell'Oriente come avente una civiltà propria non è esatto nelsenso più assoluto; rigorosamente vero questo non è che per larazza cinese, la cui civiltà ha precisamente la sua baseessenziale nell'unità etnica.

Quanto alle altre civiltà asiatiche, i principi d'unità sui qualiesse riposano sono di natura completamente diversa, comespiegheremo più tardi, ed è questo che permette lorod'abbracciare in tale unità elementi appartenenti a razzeprofondamente diverse. Parlando di queste civiltà ci serviamodell'aggettivo asiatiche perché quelle a cui intendiamo riferirci,asiatiche sono tutte per origine quand'anche si siano poi estesead altre contrade come ha fatto soprattutto la civiltàmusulmana. Non è nemmeno necessario dire poi, che, a partegli elementi musulmani, noi non consideriamo affatto come

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Oriente e Occidente

orientali i popoli che abitano l'Est dell'Europa o anche certeregioni vicine all'Europa: un Orientale non è da confondere conun Levantino, il quale ne è anzi tutto l'opposto, e, per lo menodal punto di vista della mentalità, possiede i caratteri essenzialid'un vero Occidentale.

A prima vista non si può che restare stupiti davanti allasproporzione che presentano questi due insiemi da noi chiamatirispettivamente Oriente e Occidente; se tra essi vi èopposizione, fra i due termini di questa opposizioneun'equivalenza o anche soltanto una simmetria sono veramenteimpossibili. Vedendo le cose in questa prospettiva ci si trova difronte a una differenza paragonabile a quella che esistegeograficamente tra l'Asia e l'Europa, quest'ultima apparendocome un semplice prolungamento della prima; la verasituazione dell'Occidente nei confronti dell'Oriente non è infondo altro che quella d'un ramo staccato dal tronco; e ciòrichiede una spiegazione più completa.

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2 ‐ LA DIVERGENZA

Se si prende in esame quella che si è convenuto di chiamarel'antichità classica e la si paragona alle civiltà orientali è facileconstatare come essa ne sia meno lontana, almeno sotto certiaspetti, di quanto ne è l'Europa moderna. Se la differenza tral'Oriente e l'Occidente è andata continuamente aumentando, comeappare, essa è però in qualche modo unilaterale, nel senso chementre il solo Occidente andava cambiando, l'Oriente,generalmente parlando, rimaneva sensibilmente uguale e se stesso,qual era ad un'epoca che si suole considerare antica, e che ètuttavia ancora relativamente recente.

La stabilità, si potrebbe addirittura dire l'immutabilità, è uncarattere che tutti sono abbastanza generalmente concordi nelriconoscere alle civiltà orientali, specialmente a quella cinese, masull'interpretazione del quale è forse più difficile intendersi; gliEuropei, da quando si sono messi a credere nel “progresso” e nella“evoluzione” vale a dire da poco più di un secolo, vogliono vederein ciò un segno di inferiorità, mentre noi, al contrario vi vediamouno stato di equilibrio che la civiltà occidentale ha dimostratod'essere incapace di raggiungere.

Tale stabilità si rivela tanto nelle grandi cose quanto nellepiccole; un esempio notevole è fornito dal fatto che perfino la“moda” con la sue continue variazioni, non esiste che nei paesioccidentali. In definitiva l'Occidentale, soprattutto l'Occidentalemoderno, si presenta come essenzialmente mutevole e incostante,tendente soltanto al movimento e all'agitazione, mentre l'Orientalepresenta il carattere esattamente opposto.

A voler rappresentare figurativamente, in modo schematico, ladivergenza di cui parliamo, non si dovranno dunque tracciare duelinee che si allontanano progressivamente da una parte e dall'altrad'un asse; bensì l'Oriente dovrà venir rappresentato dall'assestesso, e l'Occidente da una linea che, partendo dall'asse, se ne

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allontana come un ramo dal tronco, cosi come abbiamo poc'anzidetto. Tale simbolo è tanto più giusto in quanto, per lo meno apartire dai tempi detti storici, l'Occidente non è mai vissutointellettualmente, nella misura in cui pure ha avutoun'intellettualità, che dei prestiti fattigli dall'Oriente in mododiretto o indiretto. La stessa civiltà greca è ben lungi dall'averavuto quell'originalità che si compiacciono di proclamare coloroche sono incapaci di veder più lontano, e che si spingerebberovolentieri fino a pretendere che i Greci si devono esser calunniatiquando gli è capitato di riconoscere ciò che dovevano all'Egitto,alla Fenicia, alla Caldea, alla Persia, e financo all'India.

Che tutte queste civiltà siano incomparabilmente più antiche diquella dei Greci non ha la minima importanza per gente che,accecata da quello che possiamo chiamare il “pregiudizioclassico” è disposta a sostenere, contro ogni evidenza, che sonoesse ad aver approfittato dei prestiti di quest'ultima e ad avernesubito l'influsso; e con costoro è difficile discutere, precisamenteperché la loro opinione riposa soltanto su dei pregiudizi; ma suquesta questione torneremo a suo tempo più ampiamente. Che iGreci abbiano avuto una certa originalità è però vero, ma nonquanto si crede ordinariamente, e la loro originalità non consistealtro che nella forma sotto la quale hanno presentato ed espostoquanto prendevano dagli altri, modificandolo in modo più o menofelice per adattarlo alla loro propria mentalità, cosi dissimile daquella degli Orientali, e già opposta a essa sotto più d'un aspetto.

Prima di proseguire, preciseremo che noi non intendiamocontestare l'originalità della civiltà ellenica da qualche angolovisuale a nostro giudizio più o meno secondario (per esempio daquello dell'arte), ma soltanto dal punto di vista propriamenteintellettuale, il quale è d'altronde molto più ridotto presso di loroche non presso gli Orientali. Questa riduzione dell'intellettualitàgreca, questo suo impoverimento, per cosi dire, nei confronti diquella delle civiltà orientali ancora viventi e che noi conosciamodirettamente, possiamo affermarlo nettamente; verosimilmente la

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La Divergenza

stessa situazione esisteva nei confronti delle civiltà orientali ormaiscomparse, almeno da quanto ne possiamo sapere, soprattutto se sitien conto delle analogie che manifestamente esistettero tra questeultime e le prime. Di fatto, lo studio dell'Oriente quale esso èancor oggi, quando fosse intrapreso in modo veramente diretto,sarebbe di un grande aiuto per la comprensione dell'antichità,appunto a causa del carattere di fissità e stabilità che l'Orientepossiede e a cui abbiamo già fatto accenno; tale studio aiuterebbepure a capire la civiltà greca, per la quale non abbiamo la risorsad'una testimonianza immediata, trattandosi anche in questo casod'una civiltà morta di fatto, i Greci attuali non potendo a nessuntitolo venir considerati come i legittimi continuatori degli antichi,dei quali non sono senza dubbio nemmeno gli autenticidiscendenti.

Bisogna però tener ben presente il fatto che il pensiero greco ènonostante tutto, nella sua essenza, un pensiero occidentale, e chein esso già si trova, frammista a qualche altra, l'origine e quasi ilgerme della maggior parte di quelle tendenze che si sonosviluppate, molto tempo dopo, negli Occidentali moderni. Non èdunque il caso di spingere troppo lontano l'uso dell'analogia cheabbiamo segnalato poco fa; essa, mantenuta nei giusti limiti, puòperò rendere considerevoli servigi a coloro che vogliono capireveramente l'antichità e interpretarla nel modo meno ipotetico, ed'altronde ogni pericolo sarà evitato se si avrà cura di tener contodi tutto quel che si sa di perfettamente sicuro sui caratteri specialidella mentalità ellenica. In fondo, le tendenze nuove che siriscontrano nel mondo greco-romano sono soprattutto tendenzealla restrizione e alla limitazione, sicché le riserve che è il caso difare nel raffronto di esse con quelle dell'Oriente devono aver laloro ragione quasi esclusivamente nel timore di attribuire agliantichi d'Occidente più di quanto essi non abbiano veramentepensato: anche quando si constata che essi hanno preso qualcosadall'Oriente, non è da credere che l'abbiano assimilatocompletamente, né è il caso di affrettarsi a concludere che esiste

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identità di pensiero. Vi sono sì degli accostamenti numerosi edinteressanti da stabilire, che non hanno equivalente per quel cheriguarda l'Occidente moderno; ma non è men vero che i modiessenziali del pensiero orientale sono completamente diversi, eche se non si esce dai limiti della mentalità occidentale, anche seantica, si rimane fatalmente condannati a disconoscere e trascuraregli aspetti che del pensiero orientale sono precisamente i piùimportanti e i più caratteristici. Siccome è evidente che il “più”non può scaturire dal “meno”, questa sola differenza dovrebbeessere sufficiente, anche in mancanza di qualsiasi altraconsiderazione, a indicare da che parte si trova la civiltà che hafatto dei “prestiti” alle altre.

Per tornare allo schema che abbiamo introdotto sopra,dobbiamo dire che il suo difetto principale, d'altronde inevitabiledata la natura stessa degli schemi, è di semplificare un po' troppole cose, rappresentando la divergenza come se crescesse in modocontinuo dall'antichità ai giorni nostri. In realtà in questo processodi divergenza. si sono verificate delle battute d'arresto e si sonoavute addirittura epoche di minor scostamento, in cui l'Occidenteha nuovamente ricevuto l'influenza diretta dell'Oriente:intendiamo soprattutto parlare del periodo alessandrino, e anche ditutto ciò che gli Arabi hanno dato all'Europa nel Medioevo, di cuiuna parte apparteneva loro in proprio, mentre il resto gli provenivadall'India; la loro influenza è ben nota per quanto riguarda losviluppo delle matematiche, ma essa è lungi dall'essersi limitata aquesto campo particolare.

Nel Rinascimento la divergenza si riattivò, aggravata da unarottura nettissima con l'epoca precedente; la verità è che quel chesi pretese essere un Rinascimento fu la morte di molte cose, e ciòdallo stesso punto di vista dell'arte, ma soprattutto da quellointellettuale; è difficile per un moderno rendersi contodell'importanza e dell'estensione di tutto quel che andò perso aquell'epoca. Il ritorno all'antichità classica ebbe come effetto unimpoverimento dell'intellettualità, fenomeno paragonabile a quello

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La Divergenza

già avvenuto precedentemente presso i Greci, ma con questacapitale differenza, che esso si manifestava ora nel corsodell'esistenza di una stessa razza e non più in occasione delpassaggio di certe idee da un popolo all'altro; fu come se i Greci,nel momento in cui stavano per scomparire completamente, sivendicassero della loro propria incomprensione imponendo a tuttauna parte dell'umanità le restrizioni del loro orizzonte mentale.

Quando a tale influenza venne ad aggiungersi quella dellaRiforma, che d'altra parte non ne fu forse completamenteindipendente, le tendenze fondamentali del mondo modernofurono definitivamente stabilite; la Rivoluzione, con tutto ciò cheessa rappresentò in differenti campi, e che equivalse allanegazione di ogni tradizione, doveva essere la conseguenza logicadel loro sviluppo. Se non che non è nostra intenzione estenderciqui particolareggiatamente a tutte queste considerazioni, ciò cherischierebbe di condurci troppo lontano; il nostro scopo non è ditracciare la storia della mentalità occidentale ma soltanto di dirnequel tanto che è necessario per far comprendere quel che ladifferenzia profondamente dall'intellettualità orientale. Prima difinire coi moderni, dobbiamo però ancora tornare ai Greci, aprecisare ciò che finora non abbiam fatto che accennare in modoinsufficiente, per sgombrare in qualche modo il terrenospiegandoci in modo sufficientemente netto da tagliar corto a certeobiezioni anche troppo facili da prevedere.

Aggiungeremo soltanto qualche parola riguardo alla divergenzadell'Occidente nei confronti dell'Oriente: continuerà questadivergenza ad aumentare indefinitamente? Le apparenzepotrebbero lasciarlo credere, e allo stato attuale delle cose ladomanda è una di quelle su cui si può discutere; quanto a noi, nonpensiamo che ciò sia possibile; le ragioni le daremo nella nostraconclusione.

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3 ‐ IL PREGIUDIZIO CLASSICO

Abbiamo già accennato a quel che intendiamo con l'espressione“pregiudizio classico”: si tratta propriamente del partito preso diattribuire ai Greci e ai Romani l'origine d'ogni civiltà. In fondonon è possibile trovare ad esso altra ragione che questa: gliOccidentali, poiché la loro civiltà non risale di fatto più in làdell'epoca greco-romana, che da essa deriva quasi interamente,sono portati ad immaginare che la stessa cosa si sia verificatadappertutto, e fanno fatica a concepire che siano esistite civiltàcompletamente diverse e d'origine molto più antica; si potrebbedire che essi sono, intellettualmente, incapaci di superare i limitidel Mediterraneo. D'altronde l'abitudine di parlare “della civiltà”,in modo assoluto, contribuisce anch'essa in larga misura amantenere questo pregiudizio: la “civiltà” intesa in questo modo, esupposta unica, è qualcosa che non è mai esistito; in realtà ci sonosempre state e ci sono ancora “delle civiltà”. La civiltàoccidentale, con le sue caratteristiche speciali, è semplicementeuna civiltà tra le altre, e ciò che pomposamente viene chiamato“l'evoluzione della civiltà”, non è nient'altro che lo sviluppo diquesta civiltà particolare a partire dalle sue origini relativamenterecenti, sviluppo che è d'altronde ben lontano dall'esser stato“progressivo”, regolarmente e sotto tutti gli aspetti: quel cheabbiamo detto in precedenza del preteso Rinascimento e delle sueconseguenze potrebbe servire come esempio nettissimo d'unaregressione intellettuale che non ha fatto altro che andareaggravandosi fino ai nostri giorni.

Per chiunque voglia esaminare imparzialmente le cose, èmanifesto che i Greci hanno veramente adottato quasi tutto dagliOrientali, almeno dal punto di vista intellettuale, ed essi stessil'hanno ammesso abbastanza sovente; per quanto falsi abbianopotuto essere, su questo punto essi non hanno tuttavia mentito, edel resto non ne avrebbero avuto nessun interesse. La loro unica

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originalità, dicevano, risiede nel modo in cui hanno esposto lecose, secondo una facoltà di adattamento che non gli si puòcontestare, ma che è necessariamente contenuta nella misura dellaloro comprensione; si tratta perciò di una originalità di naturapuramente dialettica. Infatti i modi di ragionamento, che derivanodai modi generali del pensiero e servono a formularli, sono diversinei Greci e negli Orientali; ciò è necessario tener sempre presentequando si segnalano certe analogie in sé stesse anche reali, comead esempio quella del sillogismo greco con quello che è statochiamato più o meno esattamente il sillogismo indù. E nemmenosi può dire che il ragionamento greco si distingua per un rigoreparticolare; più rigoroso che gli altri può sembrare soltanto acoloro che ne hanno l'abitudine esclusiva, e tale apparenzaproviene unicamente dal fatto che esso si contiene sempre in uncampo più ristretto, e per ciò stesso più definito.

Ciò che invece è realmente caratteristico dei Greci, ma nondepone molto a loro favore, è una certa sottigliezza dialettica dicui i dialoghi di Platone offrono numerosi esempi, dai qualitraspare il bisogno di esaminare indefinitamente una stessaquestione sotto tutti gli aspetti, prendendola in considerazione neiminimi particolari per giungere a una conclusione più o menoinsignificante; c'è da credere che i moderni, in Occidente, nonsiano i primi a essere affetti da “miopia intellettuale”.

E d'altronde non è forse il caso di rimproverare oltre misura aiGreci d'aver ristretto il campo del pensiero umano come han fatto;da un lato si tratta d'una conseguenza inevitabile della lorocostituzione mentale, della quale non possono esser consideratiresponsabili, e d'altra parte in tal modo essi hanno per lo menomesso a portata d'una parte dell'umanità qualche conoscenza chealtrimenti rischiava di rimanerle completamente estranea. È facilerendersene conto osservando quello di cui sono capaci, ai giorninostri, gli Occidentali che si trovano direttamente in presenza dicerte concezioni orientali e cercano di interpretarleconformemente alla loro propria mentalità: tutto ciò, che non

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possono ricondurre a forme “classiche” sfugge loro totalmente, etutto ciò che ad esse bene o male riconducono è fatalmentedeformato, al punto d'essere irriconoscibile.

Il cosiddetto “miracolo greco”, come viene chiamato dai suoiammiratori entusiasti, si riduce tutto sommato a ben poca cosa, oper lo meno, là dove esso implica un cambiamento profondo, talecambiamento è un decadimento: esso si riduceall'individualizzazione delle concezioni, alla sostituzione dellarazionalità alla pura intellettualità e del punto di vista scientifico efilosofico al punto di vista metafisico. D'altra parte poco importache i Greci abbiano saputo meglio di altri dare un carattere praticoa certe conoscenze, o ne abbiano tratto conseguenze a caratterepratico mentre i loro predecessori non l'avevano fatto; quel che sipuò dire, anzi, è che in tal modo essi hanno attribuito allaconoscenza un fine meno puro e meno disinteressato, la loroforma mentis non permettendo loro che molto difficilmente equasi occasionalmente di mantenersi nella sfera dei principi.

Questa tendenza “pratica” nel senso più ordinario del termine,è una di quelle che si sarebbero poi esasperate durante lo sviluppodella civiltà occidentale, ed è visibilmente predominantenell'epoca moderna; al riguardo non c'è che una sola eccezione dafare, ed è per il Medioevo, indirizzato molto più sensibilmente allaspeculazione pura.

Generalmente parlando, gli Occidentali sono per naturapochissimo atti alla metafisica; il confronto tra le loro lingue equelle degli Orientali ne fornirebbe da solo una prova sufficienteper poco che i filologi fossero capaci di afferrare veramente lospirito delle lingue che studiano. Gli Orientali invece hanno unatendenza spiccatissima a disinteressarsi delle applicazioni, e ciò èfacilmente comprensibile, perché chiunque si dedichiessenzialmente alla conoscenza dei principi universali non puòavere che un debole interesse per le scienze speciali, e può tutt'alpiù accordare loro una curiosità passeggera, in ogni casoinsufficiente a provocare numerose scoperte in tale ordine d'idee.

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Quando si sa, con certezza in qualche modo matematica (eperfino più che matematica), che le cose non possono esserdiverse da quel che sono, non si può non disdegnare l'esperienza,la constatazione d'un fatto particolare, qualunque esso sia, nonprovando mai nulla di più ne d'altro dell'esistenza pura e semplicedi quel fatto stesso; al massimo tale constatazione può qualchevolta servire a illustrare una teoria, a mo' d'esempio, ma mai aprovarla; e credere il contrario è un'illusione grave. In questecondizioni non è proprio il caso di studiare le scienze sperimentaliper sé stesse, le quali non hanno, dal punto di vista metafisico,come d'altronde l'oggetto a cui si applicano, che un valorepuramente accidentale e contingente; molto spesso non si provanemmeno il bisogno di formularne le leggi particolari, che tuttavianon sarebbe difficile determinare partendo dai principi, a titolod'applicazione speciale a questo o quel campo definito, se sigiudicasse che la cosa ne vale la pena.

Dopo di ciò si può capire meglio quale abisso separi il “sapere”orientale dalla “ricerca” occidentale; e tuttavia c'è ancora modo direstare stupefatti vedendo come la ricerca sia arrivata, per gliOccidentali moderni, a costituire un fine in sé, indipendentementedai suoi possibili risultati. C'è un altro fatto che è essenziale notarea questo punto, il quale si presenta d'altronde come un corollariodi ciò che è stato detto in precedenza: nessuno è mai stato piùlontano degli Orientali, senza eccezioni, dall'avere, come ebbel'antichità greco-romana, il culto della natura, poiché la natura nonè mai stata per essi altro che il mondo delle apparenze; senzadubbio tali apparenze hanno anch'esse una loro realtà ma unarealtà transitoria e non permanente, contingente non universale.

E anzi il “naturalismo” sotto tutte le forme di cui è suscettibile,costituisce agli occhi di uomini che si possono dire metafisici pertemperamento non altro che una deviazione, se non addirittura unavera e propria mostruosità intellettuale. Tuttavia è da dire che iGreci nonostante la loro tendenza al “naturalismo” non si sonomai spinti fino ad attribuire all'esperimentazione l'importanza

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eccessiva che le attribuiscono i moderni; in tutta l'antichità, ancheoccidentale, si ritrova un certo disprezzo per l'esperienza chesarebbe forse difficile spiegare se non considerandolo il segno diun'influenza orientale, tanto più che per i Greci esso avevaparzialmente perduto la sua ragion d'essere, le loro preoccupazioniessendo tutt'altro che metafisiche e le considerazioni di carattereestetico sostituendosi per essi molto spesso alle ragioni piùprofonde, che gli sfuggivano. Queste ultime considerazioni sonoquelle che più abitualmente vengono fatte intervenire nellaspiegazione del fatto in questione; noi pensiamo però che si tratti,per lo meno all'origine, di qualcos'altro.

Ciò non impedisce che presso i Greci si trovi già in qualchemodo il punto di partenza delle scienze sperimentali quali sonointese dai moderni, scienze nelle quali la tendenza “pratica” siunisce alla tendenza “naturalistica”, le quali possono raggiungereil loro pieno sviluppo solo a detrimento del pensiero puro e dellaconoscenza disinteressata. Il fatto che gli Orientali non si sianomai dedicati a certe scienze speciali non è dunque affatto il segnod'una loro inferiorità, al contrario, intellettualmente parlando, èesattamente l'opposto; si tratta, in definitiva, d'una normaleconseguenza del fatto che la loro attività è sempre stata diretta intutt'altro senso e a un fine del tutto diverso. Sono precisamente lediverse direzioni nelle quali può esercitarsi l'attività mentaledell'uomo che imprimono ad ogni civiltà il suo carattere proprio,determinando la direzione fondamentale del suo sviluppo; e nellostesso tempo ciò dà l'illusione del progresso a chi, nonconoscendo che una sola civiltà, vede soltanto la direzione in cuiessa si sviluppa, crede che essa sia la sola possibile, e non si rendeconto che un simile sviluppo sotto un solo aspetto può esserelargamente compensato da un regresso sotto molti altri.

Se si prende in considerazione il piano intellettuale, il solo chesia essenziale per le civiltà orientali, ci sono almeno due ragioniperché i Greci abbiano, da questo punto di vista, tutto adottato daesse, e dicendo tutto intendiamo tutto quel che c'è di realmente

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valido nelle loro concezioni; una di queste ragioni, quella sullaquale abbiamo finora insistito di più, deriva dalla relativainettitudine della mentalità greca al riguardo; l'altra è che la civiltàellenica è di data molto più recente delle principali civiltàorientali. Ciò è particolarmente vero per l'India, anche se, là doveesiste qualche rapporto tra le due civiltà, taluni spingono il“pregiudizio classico” fino ad affermare a priori che è questa unaprova d'influenza greca. E pertanto se una tale influenza si èrealmente verificata, essa non ha potuto che essere molto tardiva,e ha dovuto necessariamente rimanere del tutto superficiale.

Potremmo ammettere per esempio che ci sia stata una influenzad'ordine artistico, benché anche da questo punto di vista specialele concezioni degli Indù siano sempre state, in tutte le epoche,estremamente diverse da quelle dei Greci; d'altronde non siritrovano tracce sicure di un'influenza di questo genere se non inuna certa parte, molto ristretta sia nello spazio che nel tempo,della civiltà buddista, la quale non va confusa con la civiltà indùpropriamente detta. Ma questo ci obbliga a dire almeno qualcheparola su ciò che erano nell'antichità le relazioni tra popoli diversie più o meno lontani tra di loro; poi sulle difficoltà chegeneralmente sollevano le questioni di cronologia, cosi importantiagli occhi dei fautori più o meno esclusivi del troppo famoso“metodo storico”.

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4 ‐ LE RELAZIONI TRA I POPOLI ANTICHI

Si crede abbastanza generalmente che le relazioni tra la Greciae l'India non siano incominciate, o per lo meno non abbianoassunto un'importanza apprezzabile, che all'epoca delle conquistedi Alessandro; quanto a tutto ciò che è sicuramente anteriore a taledata, si parla di somiglianze fortuite fra le due civiltà, e per tuttociò che è posteriore, o supposto posteriore, si parla naturalmentedi influenza greca, come vuole la logica particolare propria del“pregiudizio classico”. Ecco un nuovo esempio d'opinionesprovvista d'ogni serio fondamento, le relazioni tra i popoli, anchelontani l'uno dall'altro, essendo state nell'antichità molto piùfrequenti di quanto non si immagini abitualmente. In ultimaanalisi le comunicazioni non erano molto più difficili allora diquanto non fossero ancora due o tre secoli fa, e più precisamentefino all'invenzione delle strade ferrate e dei piroscafi a vapore;indubbiamente si viaggiava meno comunemente che ai nostrigiorni, meno spesso, e soprattutto meno velocemente, ma siviaggiava in modo più proficuo perché si aveva il tempo distudiare i paesi che si attraversavano, e lo scopo dei viaggi non eratalvolta altro che questo studio e il beneficio intellettuale che se netraeva.

Ciò detto, non c'è ragione plausibile per trattare di “leggenda”,quel che ci è stato riferito sui viaggi dei filosofi greci, tanto piùche questi viaggi spiegano molte cose altrimenti incomprensibili.La verità è che, molto prima degli inizi della filosofia greca, imezzi di comunicazione dovettero avere uno sviluppo di cui imoderni sono lontani dal farsi un'idea esatta, e la cosa aveva uncarattere normale e permanente senza che si debba tener contodelle migrazioni dei popoli, le quali si sono sempre e soltantoprodotte in modo discontinuo e un po' eccezionale. Delle altreprove che potremmo citare in appoggio a quanto abbiamo poc'anzidetto, ne indicheremo una sola, la quale riguarda in modo speciale

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i rapporti dei popoli mediterranei; ne facciamo accenno perché sitratta d'un fatto poco conosciuto, o per lo meno passato quasiinosservato, al quale nessuno sembra aver dato l'importanza chemerita e di cui in ogni caso sono state fornite interpretazioni moltoinesatte. Vogliamo alludere all'adozione, tutt'intorno al bacino delMediterraneo, d'uno stesso tipo fondamentale di moneta, convariazioni secondarie quali segni distintivi locali; tale adozione,pur se non si riesce a fissarne con esattezza l'epoca, risale certo adun'età antichissima, quando si tenga conto unicamente del periodoche è generalmente considerato appartenere all'antichità. Si èvoluto vedervi nient'altro che un'imitazione delle monete greche,le quali sarebbero pervenute accidentalmente in regioni più omeno lontane; anche questo è un esempio dell'influenza esageratache si è usi attribuire ai Greci, nonché dell'importuna tendenza afar intervenire il caso tutte le volte che non ci si sa dare laspiegazione di qualche cosa, come se il caso fosse alcunché didiverso da un mero nome dato, per dissimularla, alla nostraignoranza delle cause reali.

Quel che ci par certo è che il tipo monetario comune di cuistiamo parlando, il quale comporta essenzialmente una testaumana da un lato, e dall'altro un cavallo o una biga, non è piùspecificamente greco di quanto non sia italico o cartaginese, ogallico, o iberico; la sua adozione ha necessariamente richiesto unaccordo più o meno esplicito tra i differenti popoli mediterranei,anche se le modalità di tale accordo necessariamente ci sfuggono.

È ciò che succede anche per certi simboli o certe tradizioni chesi rivelano uguali in aree ancor più estese; e d'altronde, se nessunosi sogna di contestare le strette relazioni mantenute dai colonigreci con la propria metropoli, per quale ragione si dovrebberocontestare quelle che i Greci hanno potuto stabilire con altripopoli? D'altra parte, anche quando non si sia verificato il caso diuna convenzione sul tipo di quella a cui abbiamo testé accennato(e ciò per ragioni che possono essere di carattere diversissimo, chenon è nostro compito indagare qui e che sarebbero d'altronde forse

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Le relazioni tra popoli antichi

difficili da determinare esattamente), non è per nulla provato checiò abbia impedito lo stabilirsi di scambi più o meno regolari; altrene devono semplicemente esser state le modalità, adattate, comedovevano essere, a circostanze diverse.

A sottolineare l'importanza che conviene attribuire al fatto danoi indicato, anche se si tratta soltanto di un esempio tra i moltipossibili, c'è da aggiungere che è difficile che gli scambicommerciali abbiano mai potuto avvenire con continuità senzaessere presto o tardi accompagnati da scambi d'un genere del tuttodiverso, particolarmente a carattere intellettuale; e può anche darsiche in certi casi le relazioni economiche, lungi dall'averel'importanza di primo piano che hanno assunto presso i popolimoderni, non abbiano mai avuto che un'importanza più o menosecondaria. Esclusivamente moderna, infatti, è la tendenza a tuttoricondurre al punto di vista economico, sia nella vita interna d'unpaese sia nelle relazioni internazionali; gli antichi, anche gliOccidentali, ad eccezione forse dei soli Fenici, non vedevano lecose sotto questa luce, e gli Orientali, ancora al giorno d'oggi,neppur loro le vedono così.

Ecco un'altra occasione di ripetere come sia sempre pericolosovoler formulare, mantenendosi nel proprio punto di vista, degliapprezzamenti su uomini che, trovandosi in altre circostanze e conun'altra mentalità, situati diversamente nel tempo o nello spazio,in quella prospettiva non si sono certamente mai posti, né avevanoalcuna ragione di concepirla; proprio questo è invece l'errore chetroppo spesso commettono coloro che studiano l'antichità, e, comecontinuiamo a dire dall'inizio, quello che gli orientalisti nonmancano mai di commettere. Per ritornare al nostro punto dipartenza, il fatto che i più antichi filosofi greci abbiamo precedutodi diversi secoli l'epoca di Alessandro non autorizza affatto aconcludere che essi non hanno conosciuto nulla delle dottrineindù. Per non citare che un esempio, l'atomismo, molto tempoprima della sua comparsa in Grecia, era stato sostenuto in Indiadalla scuola di Kanâda, e in seguito dai Giaina e dai Buddisti; può

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darsi che esso sia stato importato in Occidente dai Fenici, comedanno ad intendere certe tradizioni, ma diversi autori affermanoanche che Democrito, il quale fu tra i Greci uno dei primi adadottare questa dottrina (o almeno a formularla in modo netto)aveva viaggiato in Egitto, in Persia e in India. I primi filosofi grecipossono aver conosciuto non soltanto le dottrine indù, ma anche ledottrine buddiste, non essendo essi certamente anteriori alBuddismo e quest'ultimo essendosi presto esteso a regionidell'Asia esterne all'India e più vicine alla Grecia, quindirelativamente più accessibili al essa.

Tale circostanza darebbe forza alla tesi, plausibilissima, diprestiti avuti, certo non esclusivamente ma principalmente, dallaciviltà buddista. In ogni caso è curioso come gli accostamenti chepossono farsi con le dottrine dell'India siano molto più numerosied evidenti durante il periodo presocratico che nei periodiposteriori; quale parte vengono cosi ad avere le conquiste diAlessandro nelle relazioni intellettuali tra i due popoli? In fattod'influenze indù, esse non sembrano averne introdotte altre oltrequelle che si possono trovare nella logica di Aristotele, e a cuifacevamo allusione in precedenza parlando del sillogismo, e nellaparte metafisica dell'opera dello stesso filosofo; a proposito diquest'ultima si potrebbero anzi segnalare certe similitudini un po'troppo precise per essere puramente accidentali.

Se, per preservare a tutti i costi l'originalità dei filosofi greci, siobbiettasse che esiste un fondo intellettuale comune a tuttal'umanità, risponderemo che un fondo del genere è qualcosa ditroppo generico e di troppo vago per fornire la spiegazioneesauriente di rassomiglianze precise e nettamente determinate.D'altronde la differenza delle mentalità è in molti casi ben piùconsiderevole di quanto non pensino coloro che hanno sempre esoltanto conosciuto un unico tipo d'umanità; in particolare, tra iGreci e gli Indù questa differenza era delle più forti. Unaspiegazione come la precedente non può essere sufficiente che nelcaso di due civiltà tra loro comparabili, che si siano sviluppate

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Le relazioni tra popoli antichi

nello stesso senso (anche se indipendentemente l'una dall'altra) eabbiano prodotto concezioni di fondo identico, pur se diversenella forma: tale è il caso delle dottrine metafisiche della Cina edell'India. E ancora, anche entro questi limiti, sarebbe forse piùplausibile interpretare tali fatti come si è obbligati a fare, peresempio, quando si constata una comunanza di simboli, e cioècome il risultato d'una identità di tradizioni primordiali, le qualipresuppongono relazioni che possono risalire ad epoche ben piùantiche dell'inizio del periodo cosiddetto “storico”; ma questo cicondurrebbe troppo lontano.

Dopo Aristotele le tracce di un'influenza indù sulla filosofiagreca diventano sempre più rare, se non addirittura nulle, mentrequest'ultima si rinchiude in un campo sempre più ristretto econtingente, sempre più lontano da ogni vera intellettualità; talecampo è, per la più gran parte, quello della morale, connessoperciò a preoccupazioni che sono sempre state completamenteestranee agli Orientali. Solo con i neoplatonici si vedrannoricomparire influenze orientali, ed è anzi proprio a quel momentoche si incontreranno per la prima volta presso i Greci certe ideemetafisiche, come quella dell'Infinito. Fino allora i Greci nonavevano avuto infatti che la nozione dell'indefinito, e, trattoveramente caratteristico della loro mentalità, finito e perfettoerano per essi sinonimi; per gli Orientali, al contrario, sinonimo diPerfezione è solo l'Infinito.

Questa è la differenza profonda che esiste tra un pensierofilosofico nel senso europeo del termine, e un pensiero metafisico;ma avremo l'occasione di ritornare più ampiamente su questoargomento, e queste poche indicazioni sono per il momentosufficienti; la nostra intenzione non è di raffrontare quidettagliatamente le concezioni rispettive dell'India e della Grecia,e d'altronde il paragone, per quanto possibile, andrebbe incontro atali difficoltà che neppur sfiorano la mente di coloro che se lorappresentano in modo troppo superficiale.

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5 ‐ QUESTIONI DI CRONOLOGIA

I problemi che hanno attinenza alla cronologia sono tra quelliche mettono in maggiore imbarazzo gli orientalisti, e, in generale,abbastanza giustificatamente; se non che costoro hanno il tortod'attribuire alle questioni di questo genere un'importanzaeccessiva, cosi come hanno torto a credere di poter ottenere,servendosi dei loro metodi ordinari, soluzioni definitive quando difatto non giungono ad altro che a ipotesi più o meno fantasiose,sulle quali sono d'altronde ben lontani dall'accordarsi tra loro.

Tuttavia qualche caso esiste che non presenta nessuna difficoltàreale, per lo meno quando si consenta a non complicarlo, inqualche modo volontariamente, grazie alle sottigliezze e aipreziosismi di una “critica” e di una “ipercritica” assurde. Talisono i documenti che, come gli antichi annali cinesi, contengonouna precisa descrizione dello stato del cielo nell'epoca a cui siriferiscono; il calcolo della loro data esatta, appoggiandosi a datiastronomici sicuri, non si presta ad alcuna ambiguità.

Malauguratamente questo non è un caso generale, anzi è quasieccezionale giacche tutti gli atti documenti, e quelli indù inparticolare, non offrono per la maggior parte niente di analogo cheserva a guidare le ricerche; ciò d'altronde prova semplicementeche i loro autori non avevano la minima preoccupazione di“datare” i loro scritti in vista di una qualsiasi rivendicazione dipriorità. La pretesa all'originalità intellettuale, la qualecontribuisce in buona parte alla nascita dei sistemi filosofici, èpresso gli stessi Occidentali cosa del tutto moderna, che ancora ilMedioevo ignorava; le idee pure e le dottrine tradizionali nonsono mai state proprietà di questo o quell'individuo, e lepeculiarità biografiche di coloro che le hanno esposte einterpretate hanno un'importanza quanto mai secondaria.

D'altronde, anche discorrendo della Cina, la riflessione da noifatta prima non s'applica che agli scritti storici; vero è che questi

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ultimi sono i soli per i quali la determinazione cronologicapresenti un reale interesse, poi che le specificazioni di questogenere hanno un senso e una portata dal solo punto di vista dellastoria. D'altra parte è da segnalare che, ad accrescere le difficoltà,esiste in India (ed esistette senza dubbio anche in altre civiltàormai scomparse), una cronologia, o più esattamente qualcosa cheha l'aspetto di una cronologia, basata su numeri simbolici chebisogna guardarsi dal prendere alla lettera confondendoli con verie propri numeri d'anni; qualcosa d'analogo si trova del resto anchenella cronologia biblica. Soltanto che simile presunta cronologia siapplica in realtà esclusivamente a periodi cosmici, e non a periodistorici; tra gli uni e gli altri non v'è confusione possibile se nonper effetto di un'ignoranza piuttosto grossolana, e tuttavia gliorientalisti debbono ammettere di aver fornito fin troppi esempi disbagli di questo genere.

Una delle tendenze più generalmente diffuse tra gli orientalistiè di ridurre al massimo, sovente di là da ogni limite ragionevole,l'antichità delle civiltà di cui si interessano, quasi si sentissero adisagio davanti al fatto che esse sono potute esistere ed essere giàin pieno sviluppo in epoche tanto lontane e tanto anteriori alleorigini più antiche che si possano attribuire alla civiltà occidentaleattuale, o meglio, alle civiltà da cui essa procede direttamente; illoro partito preso in materia non pare aver altra scusa e questo è,come giustificazione, veramente troppo poco.

Questo stesso partito preso si è però accanito contro cose sottoogni aspetto molto più vicine all'Occidente di quanto non siano leciviltà della Cina e dell'India, o quelle dell'Egitto, della Persia edella Caldea; si è così avuto, tra gli altri, il tentativo di“ringiovanire” la Qabbalah ebraica, a tal punto da poterci vedereun'influenza alessandrina e neoplatonica, mentre è avvenutocertamente il contrario; e ciò sempre per l'unica ragione che si èconvenuto a priori che tutto deve provenire dai Greci, che costorodovettero avere nell'antichità il monopolio di ogni conoscenza(come gli Europei immaginano di averlo ora) e devono essere stati

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Questioni di cronologia

(sempre come gli Europei pretendono di essere attualmente) glieducatori e gli ispiratori del genere umano. Eppure Platone, la cuitestimonianza, nell'occasione, non dovrebbe prestarsi al sospetto,non ha avuto paura di riferire nel Timeo che gli Egizianiconsideravano i Greci dei “bambini”; gli Orientali, ancor oggi,avrebbero fondate ragioni di dire la stessa cosa degli Occidentali,ma ne sono trattenuti dagli scrupoli di una cortesia forseeccessiva. Ci ricordiamo tuttavia di aver udito un apprezzamentodel genere formulato (a ragione) da un Indù, il quale, sentendo perla prima volta esporre le concezioni di certi filosofi europei, ebbeuna reazione cosi lontana dallo stupore meravigliato da dichiarareche si trattava tutt'al più di idee buone per un bambino di ottoanni.

Probabilmente qualcuno troverà che noi riduciamoeccessivamente la parte sostenuta dai Greci, sminuendone laportata fino ad abbassarla a una funzione quasi esclusiva di“adattamento”; costoro potrebbero anche obiettare che noi nonconosciamo tutte le loro idee, che molto di essi non è giunto fino anoi. Non c'è dubbio che ciò sia vero in qualche caso, specialmentequando ci si riferisca all'insegnamento orale dei filosofi; ma non èquel che conosciamo, già largamente sufficiente a permetterci digiudicare il resto? L'analogia, che è la sola a poterci fornire imezzi per passare in una certa misura dal conosciuto al nonconosciuto, ci dà qui completa ragione; e d'altronde, a basarsisull'insegnamento scritto che possediamo, ci sono almeno delleforti probabilità che l'insegnamento orale corrispondente, in quelche conteneva precisamente di speciale e di “esoterico” vale a diredi “più interiore”, fosse, come quello dei “misteri” (con il qualedovette avere stretti rapporti), ancor più fortemente caratterizzatoda un'ispirazione orientale.

Del resto, l'“interiorità” stessa di questo insegnamento non puòche costituire una garanzia del suo essere stato meno lontano dallapropria fonte e (perché meno adattato alla mentalità generale delpopolo greco), meno deformato d'ogni altro; in caso contrario la

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sua comprensione non avrebbe evidentemente richiesto unapreparazione speciale cosi lunga e difficile come quella, peresempio, che era in uso nelle scuole Pitagoriche. D'altronde, non èproprio agli archeologi e agli orientalisti che spetti l'invocarecontro di noi un insegnamento orale, o la scomparsa di opereandate perdute, visto che quel “metodo storico” al quale tengonotanto ha come carattere essenziale di prendere in considerazione isoli monumenti che cadono sotto i loro occhi e i documenti scrittiche capitano tra le loro mani; carattere che da solo basta arivelarne tutta l'insufficienza.

A questo proposito una considerazione si impone ora, chetroppo sovente viene persa di vista: se di una certa opera si trovaun manoscritto di cui si può determinare la data con un mezzoqualunque, ciò prova, è vero, che l'opera in questione non ècertamente posteriore a tale data, ma non prova affatto che essanon possa esserle di molto anteriore. Può benissimo succedere chein seguito vengano scoperti altri manoscritti, più antichi, dellastessa opera; e in ogni caso, anche se non ne vengono più scopertinon si ha affatto il diritto di concludere che non ne esistano, né, amaggior ragione, che non ne siano mai esistiti.

Se, nel caso di una civiltà che ha continuato ad esistere fino aigiorni nostri, di tali manoscritti ne esistono ancora, è per lo menoverosimile che nella maggior parte dei casi essi non venganoabbandonati al caso d'una scoperta archeologica analoga a quelleche sono possibili quando si tratta d'una civiltà scomparsa, ed'altra parte non v'è nessuna ragione di supporre che coloro che liconservano si credano un giorno tenuti a sbarazzarsene a profittodegli eruditi occidentali; tanto più che la loro conservazione puòavere un interesse sul quale non insisteremo, ma a paragone delquale la curiosità, sia pur decorata dell'epiteto di “scientifica”, haun valore alquanto relativo.

D'altro canto, trattandosi invece di civiltà scomparse, non sipuò fare a meno di constatare che, nonostante tutte le ricerche e lescoperte, una quantità di documenti non verranno mai più

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ritrovati, per la semplice ragione che sono andati distruttiaccidentalmente. Siccome gli accidenti di questo genere sonostati, nella maggior parte dei casi, contemporanei alle civiltà stessedi cui si tratta, e non necessariamente posteriori alla loroestinzione, e siccome noi stessi possiamo constatarne abbastanzafrequentemente di simili attorno a noi, è estremamente probabileche la stessa cosa si sia prodotta, in modo più o meno analogo,anche nelle civiltà che si sono mantenute fino alla nostra epoca; ele probabilità che le cose stiano realmente cosi sono tantomaggiori quanto più lunga è la successione di secoli che le separadalla loro origine.

Ma c'è di più: anche senza accidenti, i manoscritti antichipossono scomparire in un modo del tutto naturale e in qualchemodo normale per pura e semplice usura; in casi simili essivengono sostituiti da altri che porteranno necessariamente unadata più recente, e sono i soli di cui in seguito si potrà constatarel'esistenza. Di un fatto simile ci si può render conto prendendo inesame, in particolare, il mondo musulmano e quel che in essosuccede: un manoscritto circola ed è trasportato, secondo ibisogni, da un centro d'insegnamento all'altro - talvolta in regionimolto distanti - fino a che non sia cosi gravemente usurato daessere praticamente inutilizzabile; di esso viene allora fatta lacopia più esatta possibile, che da quel momento in poi prenderà ilposto del vecchio manoscritto, verrà utilizzata nello stesso modo,e sarà a sua volta sostituita da un'altra quando anch'essa appariràdeteriorata; e via di questo passo. Simili sostituzioni successivepossono essere di fatto estremamente imbarazzanti per le ricerchespeciali degli orientalisti; ma coloro che le fanno non sipreoccupano minimamente di simile inconveniente, e anche se nevenissero a conoscenza; non acconsentirebbero per così poco amodificare le loro abitudini. Tutte queste considerazioni sono in séstesse talmente evidenti che non varrebbe nemmeno la pena diformularle, ma il partito preso degli orientalisti da noi segnalato ètale che li acceca al punto di nascondergliene completamente

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l'evidenza. C'è poi un altro fatto, di cui i partigiani del “metodostorico” non possono tener conto senza venire a contraddizionecon se stessi; ed è che l'insegnamento orale ha quasi dappertuttopreceduto l'insegnamento scritto, ed è stato il solo ad essereimpiegato per periodi probabilmente lunghissimi, anche se la lorodurata esatta è difficilmente determinabile. In via generale, unoscritto tradizionale non è, nella maggior parte dei casi, che lafissazione relativamente recente di un insegnamento che agli iniziera stato trasmesso oralmente, del quale ben di rado può essereidentificato l'autore; ne consegue che quand'anche si sia certi diessere in possesso del manoscritto primitivo (cosa di cui forse nonesiste nessun esempio), rimarrebbe ancora da sapere quanto tempoè durata la trasmissione orale anteriore, e questa è una domandache il più delle volte rischia di restare senza risposta. Dell'esserstato l'insegnamento orale cosi esclusivo d'ogni altro tipod'insegnamento le ragioni possono essere state molteplici, e ciònon presuppone necessariamente l'assenza della scrittura, la cuiorigine è certamente molto lontana, per lo meno sotto la sua formaideografica, la forma fonetica della quale non è che unadegenerazione originata da un bisogno di semplificazione.

Si sa, per esempio, che l'insegnamento dei Druidi rimasesempre esclusivamente orale, anche in un'epoca in cui i Galliconoscevano sicuramente la scrittura, poiché si servivanocorrentemente d'un alfabeto greco nelle loro relazionicommerciali; conseguenza di ciò è che l'insegnamento dei Druidinon ha lasciato nessuna traccia autentica, ed è già molto se se nepuò ricostruire più o meno esattamente qualche frammento.Sarebbe un errore credere che la trasmissione orale abbia potutocol tempo alterare l'insegnamento; dato l'interesse che la suaconservazione integrale presentava, vi sono al contrario fortiragioni di pensare che ogni necessaria precauzione venisse presaper favorire la sua inalterabilità, non soltanto di fondo, ma anchedi forma; ed è un fatto ancor oggi constatabile che talemantenimento è perfettamente realizzabile, solo che si osservi ciò

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che accade presso tutti i popoli orientali, per i quali la fissazione amezzo di scrittura non ha mai comportato la soppressione dellatradizione orale né è mai stata considerata capace di sostituirvisicompletamente. È curioso come comunemente si ammetta checerte opere in origine non fossero scritte; in particolare ciòavviene per i poemi omerici dell'antichità classica e per lechansons de geste del Medioevo; perché la stessa cosa non la sivoglia accettare quando si tratta di opere che hanno attinenza, nonpiù con la semplice letteratura, ma con l'intellettualità pura, nellaquale la trasmissione orale ha ragioni ben più profonde, restainspiegato. Non vale veramente la pena di insistere ulteriormentesu questi argomenti; quanto alle ragioni profonde alle qualiabbiamo accennato, non è questo il momento di svilupparle;avremo del resto occasione di riparlarne in seguito.

C'è ancora un punto che vorremmo toccare nel presentecapitolo, e si tratta di questo: se è spesso cosi difficile situare neltempo un certo periodo dell'esistenza d'un popolo antico, talvolta èquasi altrettanto difficile, per quanto strano ciò possa sembrare,situarlo nello spazio. Con ciò intendiamo dire che certi popolihanno potuto, in epoche diverse, emigrare da una regione all'altra,e niente sta a provarci, per esempio, che le opere lasciateci dagliantichi Indù o dagli antichi Persiani siano tutte state composte neipaesi dove vivono attualmente i loro discendenti. Niente ce loprova; nemmeno nel caso in cui queste opere contengano ladenominazione di luoghi determinati, e nomi di fiumi o dimontagne che ancora conosciamo, perché gli stessi nomi hannopotuto venir successivamente applicati alle diverse regioni nellequali il popolo in questione si è fermato nel corso delle suemigrazioni.

La cosa è in qualche modo naturale: gli attuali Europei nonhanno anch'essi spesso l'abitudine di dare alle città che fondanonelle loro colonie, e agli accidenti geografici che vi incontrano,denominazioni prese dal loro paese d'origine? Si è discussatalvolta la questione se l'Ellade dei tempi omerici corrispondesse

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effettivamente alla Grecia delle epoche più recenti, o se laPalestina biblica fosse veramente la regione che chiamiamoancora con questo nome: le discussioni di questo genere non sonoforse cosi vane come si pensa generalmente, e la questione ha perlo meno il diritto di venir posta, anche se, negli esempi da noicitati, è abbastanza probabile che essa deva esser risolta in modoaffermativo. Al contrario, per ciò che riguarda l'India vedica aduna domanda di questo tipo ci sono molte ragioni per risponderenegativamente; gli antenati degli Indù devono aver abitato, inun'epoca indeterminata, una regione molto a settentrione, poiché,secondo alcuni testi, vi accadeva che il sole facesse il girodell'orizzonte senza tramontare; ma quando è stata abbandonataquesta dimora, e dopo quante tappe essi sono giunti all'Indiaattuale?

Da un certo punto di vista si tratta di questioni interessanti, cheperò noi ci accontentiamo di segnalare senza pretendere diesaminarle qui, perché non rientrano nell'argomento che stiamotrattando. Le considerazioni finora fatte costituiscono dei semplicipreliminari che ci sono sembrati necessari prima di affrontare lequestioni propriamente attinenti all'interpretazione delle dottrineorientali; quanto a quest'ultimo argomento, il quale costituisce ilnostro argomento principale, dobbiamo ancora segnalare un altrogenere di difficoltà.

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6 ‐ DIFFICOLTÀ LINGUISTICHE

La difficoltà che maggiormente si oppone all'interpretazionecorretta delle dottrine orientali è quella che deriva come giàabbiamo detto e come intendiamo soprattutto esporre nelle pagineseguenti, dalla differenza essenziale esistente tra i modi dipensiero orientali e quelli occidentali. Questa differenza si traducenaturalmente in una corrispondente differenza tra le lingue chesono destinate ad esprimere detti modi, provocando una secondadifficoltà (connessa alla prima), che si incontra tutte le volte che sitenta di riprodurre determinate idee nelle lingue dell'Occidente, lequali mancano di termini adatti, e soprattutto, sono assai pocometafisiche.

Si tratta in fondo di un semplice aggravarsi delle difficoltàinerenti ad ogni traduzione, che si incontrano anche, in misuraminore, quando si voglia passare da una lingua a un'altra,ancorché vicinissime filologicamente e geograficamente; anche inquest'ultimo caso i termini che vengono consideraticorrispondenti, e che sovente hanno la stessa origine o la stessaderivazione, sono talvolta molto lontani dall'offrire, in quanto asenso, un'equivalenza esatta.

È questo un fatto la cui interpretazione non presenta difficoltà,perché è evidente che ogni lingua deve adattarsi in modoparticolare alla mentalità del popolo che se ne serve e ciascunpopolo ha la sua mentalità propria, più o meno diversa da quelladegli altri; è solo quando i popoli considerati appartengono a unamedesima razza o alla stessa civiltà che la diversità delle mentalitàetniche è minore. In tal caso i più fondamentali sono certo icaratteri comuni, ma i caratteri secondari che vi si sovrappongonosono tuttavia ancora notevoli; e ci si potrebbe persino domandarese tra gli individui che parlano una stessa lingua, entro i limitid'una nazione che comprenda elementi etnici diversi, il senso delleparole non subisca modificazioni più o meno importanti passando

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da una regione all'altra, tanto più che l'unificazione nazionale elinguistica è spesso recente e abbastanza artificiale: non ci sarebbeniente di stupefacente, ad esempio, se la lingua comune ereditassein ogni provincia, sia nella forma che nel fondo, qualcheparticolarità dell'antico dialetto al quale si è sovrapposta e che hasostituito più o meno completamente.

Sia come si vuole, le differenze di cui parliamo sononaturalmente molto più sensibili da un popolo all'altro: e sepossono esserci diversi modi di parlare una stessa lingua, vale adire, in fondo, di pensare servendosi di essa, c'è sicuramente unmodo speciale di pensare che si esprime normalmente in ognilingua distinta; la differenza raggiunge in qualche modo il suomassimo in lingue molto distanti una dall'altra sotto ogni aspetto,o per lingue apparentate filologicamente, ma adattatesi a mentalitàe civiltà molto diverse, poiché gli accostamenti filologicipermettono di stabilire equivalenze sicure molto meno facilmentedegli accostamenti mentali. È per queste ragioni che, comedicevamo all'inizio, la traduzione più letterale non sempre è la piùesatta per quanto riguarda le idee, e la conoscenza puramentegrammaticale d'una lingua è del tutto insufficiente a darne lacomprensione.

Trattando delle differenze dei popoli, e di conseguenza delleloro lingue, bisogna tener presente che esse possono esserecausate dalla lontananza così nel tempo come nello spazio, sicchéquanto abbiamo detto si applica altrettanto bene allacomprensione delle lingue antiche. Anzi, parlando d'uno stessopopolo, se accade che la sua mentalità subisca nel corso della suaesistenza modificazioni notevoli, non soltanto termini nuovi sisostituiscono nella lingua a termini antichi, ma lo stesso senso diquelli che si mantengono uguali a se stessi varia in relazione con icambiamenti mentali; al punto che, in una lingua che sia rimastaquasi inalterata nella forma esteriore, le stesse parole finiscono inrealtà per non corrispondere più agli stessi concetti, e sarebbeallora necessaria, a ristabilirne il senso, una vera e propria

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Difficoltà linguistiche

traduzione, che sostituisse parole forse ancora in uso con altre deltutto diverse; il raffronto tra la lingua francese del XVII secolo equella d'oggi fornirebbe numerosi esempi di simile fenomeno.Dobbiamo però aggiungere che ciò è soprattutto vero per i popolioccidentali, la mentalità dei quali, come già indicammo, èestremamente instabile e mutevole; c'è poi ancora una ragionedecisiva perché in Oriente tale inconveniente non si verifichi, oper lo meno vi sia ridotto al suo minimo, ed è che unademarcazione nettissima vi è stabilita tra le lingue volgari, le qualivariano necessariamente in un certa misura per rispondere allenecessita dell'uso corrente e le lingue che servono all'esposizionedelle dottrine, lingue fissate immutabilmente, il cui fine mette alriparo da ogni variazione contingente; ciò che, se possibile,diminuisce ancora l'importanza delle considerazioni cronologiche.

In Europa si sarebbe potuto trovare qualcosa di parzialmenteanalogo all'epoca in cui il latino era abitualmente impiegatonell'insegnamento e negli scambi intellettuali; una lingua cheserva a un uso del genere non può essere chiamata rigorosamenteuna lingua morta; essa è invece una lingua fissa, e in ciò consisteprecisamente il suo grande vantaggio, per tacere della suacomodità nelle relazioni internazionali, nelle quali le “lingueausiliarie” artificiali preconizzate dai moderni sonoinesorabilmente destinate a fallire. Se possiamo parlare di fissitàimmutabile, soprattutto in Oriente, e per l'esposizione di dottrinela cui essenza è puramente metafisica, gli è che di fatto questedottrine non “si evolvono” assolutamente, nel senso occidentaledella parola, ciò che rende del tutto inapplicabile ad esse l'uso diqualsivoglia “metodo storico”; per strano o incomprensibile checiò possa sembrare a degli Occidentali moderni, i quali vorrebberoad ogni costo poter credere al “progresso” in tutti i campi, le cosestanno così, e a non riconoscerlo si è irrimediabilmentecondannati a non capire nulla dell'Oriente. Le dottrine metafisichenon sono soggette a nessun cambiamento di fondo, e tanto meno aperfezionamenti; esse possono soltanto svilupparsi sotto certi

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aspetti, ricevendo espressioni più particolarmente appropriate aciascuno di essi, ma mantenentisi sempre in uno spiritorigorosamente tradizionale. Se eccezionalmente accade chesucceda diversamente e che in un determinato ambiente si producauna deviazione intellettuale, questa deviazione, se è veramentegrave, non tarderà ad avere come conseguenza l'abbandono dellalingua tradizionale in quell'ambiente, nel quale la linguatradizionale verrà sostituita da un idioma d'origine volgare, mache a sua volta acquisterà una certa fissità relativa, la dottrinadissidente tendendo spontaneamente ad affermarsi in tradizioneindipendente anche se, evidentemente, priva di ogni autoritàregolare.

L'Orientale, anche quello uscito dalle vie normali della suaintellettualità, non può vivere senza una tradizione o senzaqualcosa che ne tenga il posto; in seguito cercheremo di far capireche cos'è per lui la tradizione sotto i suoi diversi aspetti. Risiede inquesto, d'altronde, una delle cause profonde del suo sprezzo perl'Occidentale, il quale troppo sovente gli si presenta come unessere privo di ogni legame tradizionale.

Per accostare sotto un altro angolo visuale, e quasi nel lorostesso principio, le difficoltà che era nostra intenzione segnalareparticolarmente in questo capitolo, possiamo dire che ogniespressione, di qualsiasi pensiero, è necessariamente imperfetta inse stessa, poiché ne circoscrive e restringe il concetto perracchiuderlo in una forma definita che non può mai esserecompletamente adeguata, il concetto contenendo sempre qualcosadi più della sua espressione, e addirittura immensamente di piùquando si tratti di concezioni metafisiche; queste ultime devonosempre tener conto di quanto è inesprimibile, essendo la loroessenza stessa d'aprirsi su possibilità illimitate.

Il passaggio da una lingua a un'altra, necessariamente menoadatta della prima, non fa in fondo che aggravare taleimperfezione originaria e inevitabile; ma quando si è giunti acogliere, per così dire, la concezione in se stessa attraverso la sua

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Difficoltà linguistiche

espressione primitiva, identificandosi per quanto è possibile allamentalità di colui o di coloro che l'hanno pensata, è chiaro che sipuò sempre rimediare in larga misura a questo inconveniente,fornendo una interpretazione che, per essere intelligibile, dovràessere ben più un commento che non una pura e semplicetraduzione letterale.

Tutta la difficoltà risiede dunque, in fondo, nell'identificazionementale necessaria per giungere a questo risultato; è certo cheesistono persone del tutto inadatte a questa bisogna, e da ciò ci sipuò render conto di quanto una tale assimilazione trascenda ilimiti d'un lavoro di semplice erudizione. Tuttavia, è questa l'unicamaniera realmente profittevole di studiare le dottrine; per capirlebisogna, per esprimersi così, studiarle “dal di dentro”, mentre gliorientalisti si sono sempre limitati a prenderle in esame “dal difuori”. Questo genere di lavoro è relativamente più facile per ledottrine che sono state regolarmente trasmesse fino alla nostraepoca e hanno perciò ancora degli interpreti autorizzati, mentre èdifficile da fare per quelle di cui ci è pervenuta la sola espressionescritta o figurata, non accompagnata dalla tradizione orale estintada lungo tempo.

È un peccato che gli orientalisti si siano sempre ostinati atrascurare, a causa di un partito preso forse involontario, ma perquesta ragione ancor più difficile da vincere, il vantaggio che gliveniva così offerto - a loro che si propongono di studiare delleciviltà che ancora sopravvivono - mentre ben diversa è ladifficoltà che incontrano coloro le cui ricerche vertono su civiltàscomparse. Ciò nonostante, come abbiamo già detto, anche questiultimi (gli egittologi e gli assiriologi, per esempio), potrebberosicuramente risparmiarsi molti errori se avessero una conoscenzapiù estesa della mentalità umana e delle diverse modalità che essapuò assumere; se non che una conoscenza del genere non èraggiungibile che attraverso lo studio vero delle dottrine orientali,il quale renderebbe in tal modo, per lo meno indirettamente,immensi servigi a tutti i rami dello studio dell'antichità. Ma già

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soltanto per raggiungere questo obiettivo, che ai nostri occhi èlungi dall'essere il più importante, bisognerebbe essere capaci diuscire dai limiti di un'erudizione che di per se stessa presenta soloun mediocre interesse, ma che purtroppo è il solo dominio in cuipossa esercitarsi l'attività di coloro che non vogliono o nonpossono evadere dai confini ristretti della mentalità occidentalemoderna.

È ancora questa, ripetiamo per l'ennesima volta, la ragioneessenziale dell'assoluta impotenza dei lavori degli orientalisti acomunicare la comprensione di qualsiasi idea, e la causa della lorocompleta inutilità quando si tratti d'un ravvicinamento intellettualetra l'Oriente e l'Occidente; se non addirittura, in qualche caso, delloro essere, a questo guardo, nocivi.

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PARTE SECONDA

1 ‐ LE GRANDI DIVISIONI DELL'ORIENTE

Abbiamo detto che, anche se si può opporre la mentalitàorientale nel suo insieme alla mentalità occidentale, tuttavia non sipuò parlare d'una civiltà orientale come si parla una civiltàoccidentale. Esistono più civiltà orientali nettamente distinte, eognuna di esse possiede, come in seguito vedremo, un principiod'unità che le è proprio e differisce in modo essenziale da quellodelle altre; per differenti che siano, tutte queste civiltà hanno peròdei tratti in comune, principalmente dal punto di vista dei modi dipensiero, ed è precisamente ciò che permette di affermare,generalmente parlando, l'esistenza d'una mentalità specificamenteorientale.

Quando si intraprende uno studio è sempre opportuno, amettervi ordine, cominciare con lo stabilire una classificazionebasata sulle divisioni naturali dell'oggetto che ci si propone distudiare. È perciò necessario che, prima d'ogni altraconsiderazione, situiamo le differenti civiltà orientali l'una inrapporto all'altra, limitandoci però alle grandi linee e alle visionipiù generali sufficienti ad una prima approssimazione, poiché lanostra intenzione non è di scendere qui ad un esame separato eparticolareggiato di ognuna di esse. Possiamo cosi dividerel'Oriente in tre grandi regioni che denomineremo, secondo la lorosituazione geografica in relazione all'Europa, il Vicino- Oriente, ilMedio-Oriente e l'Estremo-Oriente.

Il Vicino-Oriente comprende per noi tutto l'insieme del mondomusulmano; il Medio-Oriente è essenzialmente costituitodall'India; quanto all'Estremo-Oriente, esso è quello cheabitualmente viene designato con questo nome, vale a dire ècostituito da Cina e Indocina. È facile constatare, a primo colpod'occhio, che queste tre divisioni generali corrispondono

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effettivamente a tre grandi civiltà completamente distinte eindipendenti, le quali sono, se non le sole esistenti in tuttol'Oriente, per lo meno le più importanti, e la cui area è di granlunga la più estesa. All'interno di ognuna di queste civiltà sipotrebbero poi definire delle suddivisioni che presentanovariazioni più o meno analoghe a quelle che, nella civiltà europea,esistono tra paesi diversi; soltanto che in questo caso non sipossono assegnare a tali suddivisioni limiti uguali a quelli dellenazionalità, la cui nozione stessa corrisponde a una concezione ingenerale estranea all'Oriente.

Il Vicino-Oriente, il quale comincia ai confini dell'Europa, siestende non soltanto sulla parte dell'Asia ad essa più vicina, maanche su tutta l'Africa del Nord; esso comprende perciò paesi chegeograficamente sono altrettanto occidentali quanto l'Europastessa. Il fatto è che la civiltà musulmana, pure in tutte le direzioniprese nella sua espansione, ha conservato i caratteri essenzialicaratteristici del suo punto di partenza orientale; essa ha impressotali caratteri a popoli estremamente diversi, conferendo loro unamentalità comune pur senza privarli di tutta la loro originalità. Lepopolazioni berbere dell'Africa del Nord non si sono mai confusecon gli Arabi viventi sullo stesso suolo, e sono facili dadistinguere non soltanto per i costumi speciali che hannoconservato, o per il loro tipo fisico, ma anche per una specie difisionomia mentale che gli è propria; per esempio, è certo che iCabili sono sotto certi aspetti molto più vicini agli Europei chenon gli Arabi.

E ciò nonostante non è men vero che la civiltà dell'Africa delNord, nel suo insieme è non soltanto musulmana, ma addiritturaaraba nella sua essenza; d'altronde, quello che si può chiamare ilgruppo arabo ha nel mondo islamico un'importanza veramenteprimordiale, poiché è in esso che l'Islam ha avuto origine, ed è lasua lingua che è la lingua tradizionale di tutti i popoli musulmani,quali che siano la loro origine e la loro razza. A fianco del gruppoarabo, ne distingueremo due altri principali, che possiamo

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Le grandi divisioni dell'oriente

chiamare il gruppo turco e il gruppo persiano, benché questedenominazioni non siano forse di un'esattezza rigorosa. Il primo ditali gruppi comprende soprattutto popoli di razza mongola, come iTurchi e i Tartari; le sue caratteristiche mentali e anche i suoi trattifisici lo differenziano moltissimo dagli Arabi, ma, sprovvistocom'è di forte originalità intellettuale, esso dipende in fondodall'intellettualità araba; e d'altronde, dallo stesso punto di vistareligioso, i due gruppi arabo e turco, nonostante alcune differenzerituali e legali, formano un insieme unico che si oppone al gruppopersiano. Giungiamo cosi alla separazione più profonda che esistanel mondo musulmano, separazione che abitualmente si esprimedicendo che gli Arabi e i Turchi sono “Sunniti” mentre i Persianisono “Sciiti”; tali denominazioni richiederebbero qualche riserva,ma non ci compete qui di entrare in questo genere diconsiderazioni.

In conseguenza di quanto abbiamo detto, si può osservare chele divisioni geografiche non coincidono sempre esattamente colcampo d'espansione delle civiltà corrispondenti, ma soltanto colpunto di partenza e il centro principale di dette civiltà. Elementimusulmani si trovano un po' dappertutto in India e anche in Cina;ma, quando parliamo delle civiltà di questi due paesi, di essi nondobbiamo preoccuparci, la civiltà islamica non essendovi puntoautoctona. D'altra parte, la Persia dovrebbe ricollegarsietnicamente e anche geograficamente a quello che abbiamochiamato il Medio Oriente; se non ve la introduciamo, gli è che lasua popolazione attuale è interamente musulmana. In realtà, nelMedio-Oriente dovrebbero venir considerate due civiltà distintepur se aventi manifestamente una fonte comune: quella dell'Indiae quella degli antichi Persi; quest'ultima non ha oggi altrirappresentanti che i Parsi, i quali sono costituiti da gruppi poconumerosi e dispersi, alcuni in India, principalmente a Bombay, edaltri nel Caucaso; ci basta qui segnalarne l'esistenza. Dellaseconda delle nostre grandi divisioni non ci resta più daconsiderare che la civiltà propriamente indiana, o più

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precisamente indù, la quale abbraccia nella sua unità popoli didiversissima razza: tra le numerose regioni dell'India, e soprattuttotra il Nord e il Sud, vi sono differenze etniche almeno tanto grandiquanto quelle che si possono trovare in tutto l'insieme dell'Europa;ciò nonostante tutti questi popoli hanno di fatto una civiltàcomune e una lingua tradizionale comune, il sanscrito. La civiltàdell'India si è in certe epoche estesa più ad Est, e ha lasciato tracceevidenti in determinate regioni dell'Indocina, come la Birmania, ilSiam e la Cambogia, e anche in qualche isola dell'Oceania,particolarmente a Giava. Da questa stessa civiltà indù è nata laciviltà buddista, che si è diffusa, sotto forme diverse, in gran partedell'Asia centrale e orientale; la questione del Buddismo richiedeperò qualche spiegazione, che daremo in seguito.

Quanto poi alla civiltà dell'Estremo-Oriente, che è la sola i cuirappresentanti appartengano veramente a un'unica razza, essa èpropriamente la civiltà cinese; essa si estende come abbiamo dettoall'Indocina, e più specialmente al Tonchino e all'Annam, ma gliabitanti di queste regioni sono di razza cinese pura, o, semescolata con elementi d'origine malese, questi elementi sonolungi dall'essere preponderanti. Ci pare necessario insistere sulfatto che la lingua tradizionale di questa civiltà è essenzialmentela lingua cinese scritta, la quale non soggiace alle variazioni dellalingua parlata si tratti di variazioni nel tempo o nello spazio; unCinese del Nord, un Cinese del Sud e un abitante dell'Annampossono benissimo, parlando, non capirsi, ma l'uso degli stessicaratteri ideografici, con tutto quel che esso implica di fatto,stabilisce tuttavia fra di loro un legame di forza totalmentesconosciuta agli Europei.

Resta il Giappone, che non abbiamo compreso nella nostradivisione generale; esso si ricollega all'Estremo-Oriente nellamisura in cui ha subito l'influenza cinese, benché possieda ancheda sé, con lo Scinto, una tradizione di carattere molto diverso.Sarebbe forse il caso di chiedersi fino a che punto questi diversielementi abbiano potuto mantenersi nonostante la

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modernizzazione, vale a dire insomma l'occidentalizzazione,imposta a questo popolo dalla sua classe dirigente, ma si trattad'una questione troppo particolare perché possiamo fermarci adesaminarla qui.

E infine, è intenzionalmente che abbiamo finora omesso diparlare della civiltà tibetana, tuttavia ben lontana dall'esseretrascurabile, soprattutto dal punto di vista che ci interessa piùparticolarmente qui. Tale civiltà partecipa, in qualcuno dei suoiaspetti, così di quella della Cina come di quella dell'India, mapresenta altresì caratteri che le sono del tutto peculiari; siccomeperò essa è ancor più completamente ignorata dagli Europei diogni altra civiltà orientale, non sarebbe possibile parlarneutilmente senza scendere a sviluppi del tutto fuori argomento inquesto studio.

Ci limiteremo quindi, tenendo conto delle restrizioni indicate,alle tre sole grandi civiltà orientali che corrispondonorispettivamente alle tre divisioni geografiche definite all'inizio,vale a dire alle civiltà musulmana, indù e cinese. Per farcomprendere i caratteri che più essenzialmente differenzianoqueste tre civiltà l'una dall'altra, senza con ciò entrare inparticolari troppo laboriosi, la cosa migliore che possiamo fare èdi esporre il più nettamente possibile i principi sui ognuna di esse.

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2 ‐ I PRINCIPI DELL'UNITADELLE CIVILTÀ ORIENTALI

Difficilissimo è trovare attualmente un principio d'unità allaciviltà occidentale; si potrebbe dire addirittura che la sua unità (laquale, come ogni unità, si fonda sempre e naturalmente su uninsieme di tendenze che si risolvono in una certa conformitàmentale), non è più che una semplice unità di fatto, mancanted'ogni principio, così come di principio manca la stessa civiltàoccidentale da quando, all'epoca del Rinascimento e dellaRiforma, si ruppe il legame tradizionale di tipo religioso che eraper essa precisamente il principio essenziale, e di essa faceva nelMedioevo quella che era chiamata la “Cristianità”.

L'intellettualità occidentale non poté avere a propriadisposizione, dati i limiti entro i quali si esercitava la sua ristrettaattività specifica, nessun elemento tradizionale d'ordine diverso dasostituire a quello di tipo religioso; intendiamo dire che unelemento di questo genere non poteva, escludendo naturalmente ilcaso di eccezioni non atte a generalizzarsi nell'ambiente, essereconcepito altrimenti che in modo religioso.

Quanto all'unita della razza europea, essa è, secondo quantoabbiamo già detto, troppo relativa e troppo debole per poterservire di base all'unità di una civiltà. Il rischio era dunque che sivenissero a formare molteplici civiltà europee senza nessunlegame effettivo e cosciente; ed è infatti proprio a partire dalmomento in cui fu spezzata l'unità fondamentale della“Cristianità” che si videro costituirsi in suo luogo, passandoattraverso vicissitudini e incertezze, le unità secondarie,frammentarie e impoverite, delle “nazionalità”.

L'Europa conservava nondimeno, anche nella sua deviazionementale, e quasi nonostante essa, l'impronta della formazioneunica che aveva ricevuto nel corso dei secoli precedenti; le stesseinfluenze che avevano provocato la deviazione si erano esercitate

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in modo simile dappertutto, pur se in proporzioni diverse; ilrisultato fu ancora una mentalità comune, e conseguentemente unaciviltà che permaneva comune nonostante tutte le divisioni, mache, invece di dipendere legittimamente da un principio,qualunque esso fosse, stava per passare ormai, se così si può dire,al servizio di una “assenza di principio” che la condannava a unirrimediabile decadimento intellettuale. Si può ben a ragionesostenere che si trattasse del prezzo da pagare per il progressomateriale verso il quale il mondo occidentale doveva da alloratendere esclusivamente, certi filoni di sviluppo essendopropriamente inconciliabili; prezzo, a nostro giudizio, veramentetroppo caro.

Questa scorsa molto sommaria ci permette innanzi tutto dicapire come in Oriente non possa esistere niente di simile a ciòche in Occidente sono le nazioni: l'originarsi delle nazionalità èinfatti, in una civiltà, il segno d'una dissoluzione parziale,conseguente alla perdita di ciò che ne costituiva l'unità profonda.Ripetiamo però che anche in Occidente la concezione dellenazionalità è cosa essenzialmente moderna; prima dei tempimoderni non vi si potrebbe trovare niente d'analogo. Né le cittàgreche; né l'impero romano (le cui origini si ricollegano d'altraparte ad estensioni successive della città originaria); né i suoiprolungamenti medioevali più o meno diretti; né le confederazionio le leghe di popoli al modo dei Celti, e neppure gli Statiorganizzati gerarchicamente secondo il tipo feudale, si possonoavvicinare alle nazionalità moderne.

D'altra parte, quanto abbiamo detto dell'antica unità della“Cristianità”, unità di natura essenzialmente tradizionale(concepita però secondo quel modo speciale che è il modoreligioso), può applicarsi quasi esattamente alla concezionedell'unità del mondo musulmano. La civiltà islamica è infatti, frale civiltà orientali, quella che più si avvicina all'Occidente, e sipotrebbe dire che per le sue caratteristiche e per la sua situazionegeografica essa sia l'intermediaria naturale, sotto diversi aspetti,

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fra l'Oriente e l'Occidente; la sua tradizione ci appare dunque taleda poter esser considerata in due modi profondamente distinti,l'uno puramente orientale, e l'altro (il modo propriamentereligioso) simile a quello proprio della civiltà occidentale. Delresto Giudaismo, Cristianesimo e Islamismo si presentano come itre elementi d'uno stesso insieme, fuori del quale, è bene dirlosubito, è quasi sempre ben difficile applicare a ragione il terminestesso di “religione”, per poco che si voglia conservare aquest'ultimo un senso preciso e nettamente definito: manell'Islamismo l'aspetto strettamente religioso è in realtà soltantol'aspetto più esteriore; su questo punto ritorneremo in seguito.

Ad ogni modo, e per contenersi al solo aspetto esteriore, è suuna tradizione che può essere qualificata come religiosa che sifonda tutta l'organizzazione del mondo musulmano: non avvienequi, come nell'Europa attuale, che la religione sia un elementodell'ordine sociale, ma, al contrario, è tutto l'ordine sociale che siintegra nella religione dalla quale la legislazione e inseparabileperché in essa trova il suo principio e la sua ragion d'essere. È ciòche, sfortunatamente per loro, non hanno mai capito troppo benegli Europei che sono venuti in contatto con popolazionimusulmane, e sono stati coinvolti a causa di tale incomprensionein errori politici dei più grossolani e inestricabili; non vogliamoperò soffermarci su considerazioni del genere, che indichiamosolo incidentalmente.

Al riguardo aggiungeremo solamente due osservazioni chepresentano un certo intesse: la prima è che la concezione del“Califfato” unico fondamento possibile per qualsiasi“panislamismo” veramente serio, non è in nessun modoaccostabile a quella d'una qualunque forma di governo nazionale,pur possedendo tutte le caratteristiche necessarie per trarre ininganno gli Europei, abituati a vedere una separazione assoluta, senon addirittura una opposizione, tra il “potere spirituale” e il“potere temporale”; la seconda è che per pretendere di instaurarenell'Islam dei “nazionalismi”, occorre tutta l'ignorante sufficienza

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di pochi “giovani” Musulmani che tali si autodefiniscono permettere in evidenza il loro “modernismo”, nei qualil'insegnamento universitario occidentale ha completamenteobliterato il senso tradizionale.

Sempre a proposito dell'Islam, ci resta ancora da segnalare,insistendovi, un altro punto, vale a dire l'unità della sua linguatradizionale: abbiamo già detto che tale lingua è l'arabo, ma ciresta da precisare che si tratta dell'arabo letterario, distinto in certamisura dall'arabo popolare che ne costituisce un'alterazione e,grammaticalmente, una semplificazione. Si tratta più o meno dellastessa differenza che abbiamo detto esistere in Cina fra la linguascritta e quella parlata: soltanto l'arabo letterario può garantire lafissità dispensabile a una lingua per sostenere la funzione dilingua tradizionale, mentre l'arabo popolare, come ogni altralingua che serva all'uso corrente, subisce naturalmente variazionipiù o meno sensibili secondo le epoche e le regioni.

Tuttavia tali variazioni non sono per l'arabo cosi considerevolicome in Europa generalmente si crede: esse riguardano soprattuttola pronuncia e l'uso di alcuni termini più meno speciali, e sonoinsufficienti financo a provocare la costituzione di una pluralità didialetti, giacché tutti coloro che parlano arabo sono perfettamentein grado di capirsi; esiste quindi, anche prendendo inconsiderazione il solo arabo popolare, un'unica lingua parlata dalMarocco al Golfo Persico, e i cosiddetti dialetti arabi, più o menodiversi, sono un'invenzione pura e semplice degli orientalisti.Quanto poi alla lingua persiana, pur non fondamentale dal puntodi vista della tradizione musulmana, il suo impiego in numerosiscritti trattanti del “Sufismo” le conferisce, per la parte piùorientale dell'Islam, un'incontestabile importanza intellettuale.

Passando ora alla civiltà indù, constatiamo che la sua unità èanch'essa di carattere puramente ed esclusivamente tradizionale:di fatto, essa comprende elementi appartenenti a razze o gruppietnici diversissimi, i quali però possono tutti esser detti a ugualtitolo “indù” nel senso stretto del parola, ad esclusione di altri

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appartenenti alle stesse razze, o almeno ad alcune di esse, che talinon possono dirsi. Qualcuno vorrebbe che all'origine le cose nonstessero in questo modo, ma quest'opinione si fonda soltanto sullasupposizione dell'esistenza di una pretesa “razza ariana” dovutasemplicemente all'immaginazione troppo fertile degli orientalisti;il termine sanscrito arya, dal quale è stato tratto il nome di questarazza ipotetica, non è mai stato che un epiteto distintivoapplicantesi ai soli uomini delle prime tre caste, e questoindipendentemente dalla loro appartenenza a questa o quellarazza, la cui considerazione in questo caso non interviene affatto.

Vero è che il principio dell'istituzione delle caste è rimasto,come molte altre cose, così totalmenteincompreso in Occidenteche non c'è proprio nulla di stupefacente se ogni sorta diconfusioni sono sorte tutte le volte che, direttamente oindirettamente, se n'è venuti a contatto; anche su questoargomento ritorneremo più tardi, in un'altra parte del nostrolavoro. Importante è per il momento aver messo l'accento sul fattoche l'unità indù riposa interamente sul riconoscimento di una certatradizione, la quale anche qui ingloba tutto l'ordine sociale, a titoloperò di semplice applicazione a determinate contingenze;quest'ultima riserva è dovuta al fatto che la tradizione in questionenon ha più assolutamente carattere religioso, come nell'Islam, mail carattere più puramente intellettuale e più essenzialmentemetafisico.

Quella specie di doppia polarizzazione, esteriore e interiore, acui abbiamo fatto allusione a proposito della tradizionemusulmana, nell'India non esiste, e di conseguenza non sipossono, parlando di essa, fare gli accostamenti che in qualchemisura erano ancora possibili finché si trattava dell'aspettoesteriore dell'Islam; in questo caso nulla esiste più di simile allereligioni occidentali, e soli possono sostenere il contrario degliosservatori superficiali, i quali provano in tal modo la loro perfettaignoranza dei modi di pensiero orientali. Siccome però ciripromettiamo di trattare specialmente delle civiltà dell'India, ci

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pare inutile insistere più a lungo su di essa in questo capitolo.Abbiamo già detto che la civiltà cinese è la sola di cui l'unitàriposi essenzialmente, nella sua natura profonda, su unaomogeneità di razza; il suo elemento caratteristico sotto questoangolo visuale è ciò che i Cinesi chiamano gen, concetto che sipuò rendere, senza cadere in un'inesattezza troppo marcata, con“solidarietà di razza”. Tale solidarietà, implicante le idee diperpetuità e di comunione dell'esistenza, si identifica con l'“ideadella vita”, applicazione del principio metafisico della “causainiziale” all'umanità esistente; è dalla trasposizione di tale nozionenel campo sociale, con l'attuazione continua di tutte le sueconseguenze pratiche, che discende l'eccezionale stabilità delleistituzioni cinesi.

È questa stessa concezione che permette di comprendere comel'organizzazione sociale nel suo insieme riposi in Cina sullafamiglia, prototipo essenziale della razza; in Occidente si sarebbepotuto trovare qualcosa di analogo, fino ad un certo punto, nellacittà antica, in cui pure la famiglia formava il nucleo iniziale, e incui lo stesso “culto degli avi” con tutto ciò che implicava di fatto,aveva un'importanza della quale i moderni stentano a rendersiconto. Non crediamo tuttavia che da nessun'altra parte sia maistata sviluppata praticamente una concezione dell'unità familiaresimile a quella della Cina; essa si oppone a qualsiasiindividualismo, sopprimendo oltre al resto la proprietàindividuale, e per conseguenza l'eredità, e rendendo in qualchemodo impossibile la vita dell'uomo che, volontariamente o no, sivenga a trovare tagliato fuori dalla comunità della famiglia.

Quest'ultima rappresenta nella società cinese una parte per lomeno tanto importante quanto quella della casta nella società indù,e in qualche modo le è comparabile; solo il principio ne ècompletamente diverso. D'altronde in Cina la parte propriamentemetafisica della tradizione è più che da ogni altra parte nettamenteseparata da tutto il resto, vale a dire insomma dalle sueapplicazioni ai differenti ordini di relatività; va da sé però che tale

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separazione, per profonda che sia, non può giungere fino a essereuna vera e propria discontinuità, la quale avrebbe come effetto diprivare d'ogni principio reale le forme esteriori della civiltà. È fintroppo facile constatare come nell'Occidente moderno leistituzioni civili, spogliate d'ogni valore tradizionale, maconservanti qualche morto residuo del passato, facciano talvoltal'effetto di una vera e propria parodia rituale senza la minimaragion d'essere, e come la loro osservanza non sia piùpropriamente che una superstizione, in tutta la forza che dà aquesta parola la sua accezione rigorosamente etimologica.

Pensiamo che quanto abbiamo detto sia sufficiente a mostrarecome l'unità di ognuna delle grandi civiltà orientali sia di naturacompletamente diversa da quella della civiltà occidentale attuale,e come si appoggi su principi ben più profondi, indipendenti dallecontingenze storiche, dunque eminentemente atti ad assicurarne ladurata e la continuità.

Le considerazioni precedenti andranno d'altrondecompletandosi in qualche modo naturalmente in grazia di quel cheseguirà, a mano a mano che avremo occasione di trarre dall'una odall'altra delle civiltà in questione gli esempi necessari a renderchiara la nostra esposizione.

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3 ‐ COS'È LA TRADIZIONE ?

Ci è occorso finora ad ogni istante di parlare di tradizione, didottrine o concezioni tradizionali, e financo di lingue tradizionali;ed era del resto impossibile fare altrimenti se si voleva dare unnome a ciò che costituisce realmente l'essenza del pensieroorientale nei suoi differenti aspetti; ma, ci si può chiedere, cos'èpiù precisamente la tradizione? Diremo subito, ad evitare che siproduca una confusione forse possibile, che noi non ci serviamo diquesta parola nel senso ristretto che deriva dall'opposizionemantenuta talvolta dal pensiero religioso dell'Occidente fra“tradizione” e “scrittura”, qualora si intenda designareesclusivamente col primo dei due termini solo ciò che è statol'oggetto di una trasmissione orale.

Per noi al contrario la tradizione, in un'accezione molto piùgenerale, può essere sia scritta che orale, benché essa sia stata,generalmente se non proprio sempre, principalmente oraleall'origine. Allo stato attuale delle cose la parte scritta e la parteorale costituiscono dappertutto due rami complementari d'unastessa tradizione, sia essa religiosa o ad altro carattere, e noi nonesitiamo a parlare di “scritture tradizionali”, ciò cheevidentemente sarebbe contraddittorio se attribuissimo alla parola“tradizione” il solo significato speciale di tradizione orale;d'altronde, etimologicamente, la tradizione è semplicemente “ciòche viene trasmesso” in un modo o nell'altro.

Inoltre bisogna ancora comprendere nella tradizione, qualielementi secondari e derivati e tuttavia importanti per chi vogliaaverne una nozione completa, tutto l'insieme delle istituzioni dicarattere diverso che hanno il loro principio nella dottrinatradizionale. Considerata in tal modo, la tradizione può sembrareconfondersi con la civiltà vera e propria, la quale è secondo certisociologi “l'insieme delle tecniche, delle istituzioni e dellecredenze comuni ad un gruppo di uomini per una certa durata di

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tempo”; ma che cosa vale in fondo quest'ultima definizione? Noinon crediamo, ad esser sinceri, che la civiltà possa venircaratterizzata in modo generale da una formula di questo genere,la quale sarà sempre o troppo ampia o troppo ristretta a secondadei punti di vista, e rischierà di trascurare certi elementi comuni atutte le civiltà, e di comprenderne invece altri che in realtà nonappartengono propriamente che a certe civiltà particolari.

Di fatto, la definizione precedente non tiene alcun conto di quelche in ogni civiltà esiste di essenzialmente intellettuale, trattandosidi qualcosa che non si può far rientrare nelle cosiddette “tecniche”le quali sono, ci si dice, “degli insiemi di pratiche specialmentedestinate a modificare l'ambiente fisico”; d'altra parte, quando siparla di “credenze” (aggiungendo però che tale parola dev'essere“intesa nel suo senso abituale”), manifestamente si tratta diqualcosa che suppone la presenza dell'elemento religioso, che ècaratteristico di certe civiltà e non si trova invece nelle altre. Èappunto per evitare ogni inconveniente di questo tipo che noi cisiamo accontentati all'inizio di dire semplicemente che una civiltàè il prodotto e l'espressione d'una certa mentalità comune ad ungruppo più o meno esteso di uomini, riservandoci per ciascun casoparticolare la determinazione precisa dei suoi elementi costitutivi.

Comunque sia, per ciò che riguarda l'Oriente l'identificazionefra la tradizione e l'intera civiltà è in fondo giustificata; ognunadelle civiltà orientali presa nel suo insieme appare essenzialmentetradizionale, ciò che risulta immediatamente dalle spiegazioni cheabbiamo dato nel capitolo precedente. Quanto alla civiltàoccidentale, abbiamo già detto che al contrario essa è del tuttopriva di carattere tradizionale, ad eccezione del suo elementoreligioso, il quale è il solo ad averlo conservato. Il fatto è che leistituzioni sociali, per potersi dire tradizionali, devono esserecollegate effettivamente, come loro principio, ad una dottrina chesia a sua volta tradizionale, sia essa metafisica o religiosa o abbiaqualsiasi altro carattere che le convenga. In altre parole, leistituzioni tradizionali che comunicano questo carattere a tutto

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Cos'è la Tradizione?

l'insieme d'una civiltà sono quelle che hanno la propria ragiond'essere profonda in una dipendenza, più o meno diretta, masempre voluta e cosciente, nei riguardi d'una dottrina la cui naturafondamentale è in ogni caso d'ordine intellettuale; l'intellettualitàdi questa dottrina può trovarsi allo stato puro, e si tratta allorad'una dottrina propriamente metafisica, oppure mescolata adelementi eterogenei, e dar vita alla forma religiosa e a tutte le altreforme assumibili da una dottrina tradizionale.

Abbiamo detto che nell'Islam la tradizione presenta due aspettidistinti; di cui uno religioso (ed è quello a cui si ricollegadirettamente l'insieme delle istituzioni sociali), e l'altro, quellopuramente orientale, veramente metafisico. In una certa misuraqualcosa del genere dovette esistere nell'Europa medioevale ingrazia della dottrina scolastica, sulla quale d'altronde l'influenzaaraba si esercitò abbastanza fortemente; c'è però da aggiungere,per non esagerare con le analogie, che la metafisica non vi fu maicosi nettamente svincolata, come normalmente dovrebbe, dallateologia, vale a dire insomma dalla sua applicazione speciale alpensiero religioso, e altresì che quanto vi si trova di propriamentemetafisico non è mai completo e soggiace a talune limitazioni chesembrano essere tipiche di tutta l'intellettualità occidentale; è fuordi dubbio che in queste imperfezioni bisogna vedere unaconseguenza della doppia eredità della mentalità giudaica e greca.

Quanto all'India, si è in presenza di una tradizione dall'essenzapuramente metafisica alla quale si aggiungono, a titolo diprolungamenti e sviluppi, applicazioni diverse sia in certi ramisecondari della dottrina stessa (come ad esempio la cosmologia),sia nel campo sociale, quest'ultimo strettamente vincolato allacorrispondenza analogica che si stabilisce rispettivamente tra leforme dell'esistenza cosmica e dell'esistenza umana. Appare quimolto più chiaramente che nella tradizione islamica,principalmente in virtù della mancanza del punto di vista religiosoe degli elementi extraintellettuali che quest'ultimo implica per lasua stessa natura, la totale subordinazione di tutte le applicazioni

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particolari nei riguardi della metafisica, vale a dire del dominiodei principi universali.

In Cina la nettissima separazione di cui abbiamo detto rivela daun lato una tradizione metafisica e dall'altro una tradizionesociale, le quali possono apparire a prima vista non soltantodistinte come di fatto sono, ma addirittura relativamenteindipendenti l'una dall'altra; tanto più che la tradizione metafisicavi è sempre rimasta appannaggio quasi esclusivo d'una éliteintellettuale, mentre la tradizione sociale, per la sua natura,s'impone a tutti nello stesso modo ed esige la loro comunepartecipazione effettiva. In questo caso bisogna però por mente alfatto che la tradizione metafisica, qual è costituita sotto la formadel “Taoismo”, è lo sviluppo dei principi d'una tradizioneprimordiale contenuta, per esser più precisi, nell'Yi-King, e cheanzi è in questa stessa tradizione primordiale che ha le sue origini,pur se in forma meno immediata e come semplice applicazione adun campo contingente, tutto l'insieme d'istituzioni socialiabitualmente conosciuto sotto il nome di “Confucianesimo”.

Si trova cosi ristabilita, con l'ordine dei loro rapporti reali, lacontinuità essenziale dei due principali aspetti della civiltàestremo-orientale, continuità che si rischia di disconoscere quasiinevitabilmente se non si sa risalire fino alla loro fonte comune,vale a dire fino a quella tradizione primordiale la cui espressioneideografica, fissata sin dall'epoca di Fo-hi, si è mantenuta intattaper una durata di circa cinquanta secoli.

Dobbiamo ora, dopo questo sguardo d'assieme, caratterizzarein modo più preciso ciò che costituisce propriamente la formatradizionale speciale da noi chiamata forma religiosa; quindi ciòche distingue il pensiero metafisico puro dal pensiero teologico,vale a dire dalle concezioni a carattere religioso; ed infine ciò chelo distingue dal pensiero filosofico nel senso occidentale. È inqueste distinzioni profonde che troveremo veramente, inopposizione ai principali tipi di concezioni intellettuali (opiuttosto semi-intellettuali) abituali al mondo occidentale, il

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Cos'è la Tradizione?

carattere fondamentale dei modi generali ed essenzialidell'intellettualità orientale.

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4 ‐ TRADIZIONE E RELIGIONE

Sembra piuttosto difficile potersi intendere su una definizioneesatta e rigorosa della religione e dei suoi elementi essenziali; lastessa etimologia, spesso cosi preziosa in simili congiunture, nonaiuta questa volta che in modo assai blando, e l'indicazione che cifornisce è estremamente vaga. La religione, secondo laderivazione della parola, è “ciò che congiunge”; ma è da intendereciò che congiunge l'uomo a un principio superiore, osemplicemente ciò che lega gli uomini tra di loro?

Prendendo in esame l'antichità greco-romana, dalla quale ci ègiunto il termine se non proprio la cosa come viene intesa oggi, èquasi certo che la nozione di religione partecipava di questadoppia accezione e che anzi la seconda aveva molto sovente unaparte preponderante. Di fatto, la religione, o per lo meno ciò cheallora veniva inteso con questa parola, faceva corpo, in modoindissolubile, con l'insieme delle istituzioni sociali, delle quali ilriconoscimento degli “dei della città” e l'osservanza delle forme diculto legalmente stabilite costituivano le condizioni fondamentalie garantivano la stabilità; era d'altronde questo che conferiva alleistituzioni sociali un carattere veramente tradizionale. Soltanto chegià a partire da allora, o per lo meno dall'epoca classica, vi eraqualcosa d'incompreso nel principio stesso sul quale la tradizioneavrebbe, intellettualmente, dovuto fondarsi; si tratta di una delleprime manifestazioni dell'inattitudine metafisica comune agliOccidentali, inattitudine che implica, quale conseguenza fatale ecostante, una strana confusione nelle modalità di pensiero.

Presso i Greci particolarmente, i riti ed i simboli, retaggio ditradizioni più antiche e già dimenticate, avevano per tempo persoil loro preciso significato originario; l'immaginazione di questopopolo - di tendenze eminentemente artistiche - che si esprimevasecondo la fantasia individuale dei suoi poeti, li aveva ricopertid'un velo quasi impenetrabile, ed è questa la ragione per cui

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filosofi come Platone dichiaravano espressamente di non sapercosa pensare degli scritti antichi in loro possesso riguardanti lanatura degli dei (Leggi, X). Di conseguenza i simboli eranodegenerati in semplici allegorie e, a causa di una invincibiletendenza alle interpretazioni antropomorfiche, si erano trasformatiin “miti”, vale a dire in favole di cui ciascuno poteva pensare quelche più gli piacesse a patto che conservasse almenosuperficialmente l'attitudine convenzionale imposta dalleprescrizioni legali. In queste condizioni ciò che ancora restava nonpoteva essere altro che formalismo, ancor più esclusivamenteesteriore in quanto divenuto incomprensibile persino a coloro cheerano incaricati di assicurarne la persistenza in conformità aregole invariabili, e la religione, persa la sua ragion d'essere piùprofonda, non poteva più essere che una questione esclusivamentesociale.

Ciò spiega perché l'uomo che cambiava di città dovesseinsieme cambiare religione, e potesse farlo senza il minimoscrupolo: suo dovere era di adottare gli usi di coloro in mezzo aiquali veniva a stabilirsi, suo dovere era di obbedire alla lorolegislazione ormai divenuta la sua, e di questa legislazione lareligione costituita faceva parte integrante, esattamente come nefacevano parte le istituzioni di governo, giuridiche, militari od'altro genere. Questa concezione della religione quale “legamesociale” tra gli abitanti d'una stessa città, a cui d'altronde sisovrapponeva, al disopra delle varietà locali, un'altra religione piùgenerale comune a tutti i popoli ellenici e costituente il sololegame veramente effettivo e permanente tra di loro, taleconcezione, dicevamo, non era quella della “religione di stato” nelsenso in cui sarebbe stata intesa solo molto più tardi, ma è certoche doveva già avere con quest'ultima notevoli rassomiglianze, edovette contribuire in modo sensibile alla sua formazioneulteriore.

Quel che successe ai Greci capitò pressappoco anche aiRomani, con l'unica differenza che la loro incomprensione delle

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forme simboliche, prese in prestito dalle tradizioni degli Etruschie di diversi altri popoli, non derivava - come per i Greci - da unatendenza estetica che si infiltrava in tutti i campi del pensiero,anche quelli che le erano più rigorosamente vietati, bensì da unaassoluta inattitudine a tutto quel che è propriamente intellettuale.

Tale radicale insufficienza della mentalità dei Romani, quasiesclusivamente diretta verso le cose pratiche, è troppo visibile ed'altronde troppo generalmente riconosciuta perché sia necessarioinsisterci; l'influenza greca, che su di essa si esercitò in seguito,non poté rimediarvi soltanto che in piccolissima misura. Ad ognimodo, gli “dei della città” ebbero anche qui un'importanzapreponderante nel culto pubblico, sovrapponentesi ai cultifamiliari che con esso sopravvissero sempre però senza essermeglio compresi nella loro ragione profonda; gli “dei della città”in seguito alle successive estensioni della loro influenza,diventarono infine gli “dei dell'Impero”.

È evidente che un culto come quello degli imperatori, peresempio, non poteva avere che una portata esclusivamente sociale;e si sa che se il Cristianesimo fu perseguitato mentre invece tantielementi eterogenei venivano senza inconvenienti incorporatidalla religione romana, è perché esso solo comportava, siapraticamente che teoricamente, un disconoscimento formale degli“dei dell'Impero” formalmente sovversivo delle istituzioni vigenti.Tale disconoscimento non sarebbe però stato necessario sel'importanza reale dei riti semplicemente sociali fosse statanettamente definita e delimitata; in effetti necessario esso fuproprio a causa delle molteplici confusioni che si erano venuteoriginando nei campi più differenti e che, sorte a causadell'incomprensione degli elementi costitutivi dei riti in questione(taluni dei quali provenienti anche da molto lontano), conferivanoloro un carattere “superstizioso” nel senso rigoroso in cui ci è giàoccorso di usare questa parola. Nonostante le apparenze, finoranon ci siamo proposti soltanto di far vedere qual era la concezionedella religione della civiltà greco-romana, la qual cosa potrebbe

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forse giustamente apparire un po' fuori luogo; ciò a cui abbiamomirato è stato soprattutto di far capire quanto profondamente taleconcezione differisca da quella della religione nell'attuale civiltàoccidentale, nonostante l'identità del termine che serve a designaresia l'una che l'altra. Si potrebbe addirittura dire che ilCristianesimo, o se si preferisce la tradizione giudaico-cristiana,adottando con la lingua latina la parola “religione” che ad essaappartiene, le abbia conferito un significato quasi del tutto nuovo;ci sono del resto altri esempi di questo fenomeno: uno dei piùnotevoli è il caso offerto alla parola “creazione” di cui parleremopiù tardi.

Quella che da un certo momento in avanti dominerà ormai, èl'idea di legame con un principio superiore, e non più quella divincolo sociale, il quale sussisterà ancora parzialmente maretrocesso al rango di elemento secondario, d'importanza ormairidotta. Ed ancora, questo non è che prima approssimazione; perdeterminare più esattamente il senso della religione nella suaconcezione attuale, che è anche la sola a cui noi intenderemoriferirci usando questo nome, sarebbe evidentemente inutile fareulteriori riferimenti all'etimologia, dalla quale l'uso si è ormaitroppo allontanato, e l'unico mezzo attraverso il quale sia possibileottenere un'informazione precisa è l'esame diretto di quel cheesiste di fatto.

Dobbiamo quindi dire subito che la maggior parte delledefinizioni, o piuttosto dei tentativi di definizione, proposte inmateria di religione, hanno per difetto comune di potersiapplicarsi a cose estremamente diverse, di cui alcune non hanno inrealtà assolutamente niente di religioso. Ci sono per esempio deisociologi che pretendono essere “ciò che caratterizza i fenomenireligiosi... la loro forza obbligatoria” (Durkheim). Sarebbe il casodi notare che tale carattere obbligatorio è lungi dall'appartenere inuguale proporzione a tutto ciò che è allo stesso modo religioso, epuò variare d'intensità sia per pratiche e credenze diverseall'interno d'una stessa religione, sia, in modo generale, dall'una

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all'altra religione; ma anche ammettendo che sia più o menocomune a tutti i fatti religiosi, esso è certo ben lontano dall'essereloro esclusivo, e la logica più elementare insegna che unadefinizione deve convenire, non soltanto “a tutto il definito” maanche “al solo definito”. Infatti l'obbligo, imposto più o menostrettamente da un'autorità o da un potere di natura qualsiasi, è unelemento che si ritrova in modo pressoché costante in tuttol'insieme delle istituzioni sociali propriamente dette; inparticolare, c'è forse qualcosa che si imponga in modo piùrigorosamente obbligatorio della legalità?

D'altronde, che la legislazione sia direttamente legata allareligione come nell'Islam, o ne sia al contrario completamenteseparata ed indipendente come negli Stati europei attuali, essamantiene sempre il suo carattere obbligatorio, e non può esserealtrimenti perché in fondo non si tratta d'altro che d'unacondizione di possibilità per qualsiasi forma di organizzazionesociale; chi oserebbe sostenere con qualche parvenza di serietàche le istituzioni giuridiche dell'Europa moderna sono rivestite dicarattere religioso? Tale supposizione è manifestamente ridicola, ese ci soffermiamo forse un pochino troppo su questeconsiderazioni è soltanto perché si tratta di teorie che, per lo menoin certi ambienti, hanno esercitato un'influenza tantoconsiderevole quanto poco giustificata.

Per farla finita su questo punto, non è soltanto all'interno dellesocietà che si è convenuto - e secondo noi a torto - di chiamare“primitive” che “tutti i fenomeni sociali hanno lo stesso caratteredi obbligatorietà”, in misura più o meno variabile. Questaconstatazione obbliga i nostri sociologi, quando parlano dellesocietà cosiddette “primitive” - la cui testimonianza essi amanoinvocare con tanto maggior piacere quanto maggiormente difficilene è il controllo - a confessare che “la religione in esse è tutto, ameno che non si preferisca dire che non è niente” (Doutté). Vero èche subito dopo aggiungono, riferendosi a quest'ultima alternativa,che ci pare proprio essere quella buona, questa restrizione: “a

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volerla considerare come una funzione speciale”; maprecisamente, se non si tratta di una “funzione speciale” non sitratta nemmeno più di religione.

Con tutto ciò, le fantasie dei sociologi non sono ancoraterminate: un'altra teoria a loro cara consiste nel dire che lareligione è essenzialmente caratterizzata dalla presenza di unelemento rituale; vale a dire, cioè, che dovunque si possaconstatare l'esistenza di riti di qualunque natura, se ne deveconcludere senza ulteriore esame che ci si trova in presenza difenomeni religiosi.

Certo in tutte le religioni si incontra un elemento rituale, maesso non è sufficiente, da solo, a caratterizzare una religione cometale; anche qui, come prima, la definizione proposta è di granlunga troppo vasta, perché esistono riti che non sono affattoreligiosi, e anzi ne esistono persino molte specie. Esistono inprimo luogo dei riti che hanno un carattere puramente edesclusivamente sociale, o, se si vuole, civile; sarebbe stato questoil caso della civiltà greco-romana se non si fossero verificateallora tutte le confusioni di cui abbiamo parlato; attualmente neesistono nella civiltà cinese, dove non s'è prodotta nessunaconfusione del genere, e in cui le cerimonie del confucianesimosono effettivamente dei riti sociali, senza il minimo caratterereligioso: a quest'ultimo titolo essi sono l'oggetto d'unriconoscimento ufficiale il quale, in Cina, sarebbe inconcepibilesotto qualunque altra condizione.

Questo avevano molto ben compreso i Gesuiti stabilitisi inCina nel XVII secolo, i quali trovavano del tutto naturalepartecipare a tali cerimonie non vedendoci niente di incompatibilecol Cristianesimo, e ciò a perfetta ragione, perché ilConfucianesimo, ponendosi interamente al di fuori del dominioreligioso e non richiedendo che l'intervento di quanto può e devenormalmente essere ammesso da tutti i membri del corpo socialesenza distinzione, è perfettamente conciliabile con qualsiasireligione, o anche con l'assenza d'ogni religione.

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I sociologi contemporanei commettono esattamente lo stessoerrore che commisero un tempo gli avversari dei Gesuiti quando liaccusarono di aver adottato le pratiche di un religione estranea alCristianesimo: constatata la presenza di riti, essi avevano pensatosubito che si trattasse, come quelli a cui erano abituati in Europa,di riti di natura religiosa. La civiltà estremo-orientale ci serviràancora da esempio per un genere del tutto differente di riti nonreligiosi: il Taoismo infatti, che è, come abbiamo visto, unadottrina puramente metafisica, possiede anch'esso dei riti che glison propri; si vede quindi che esistono, per quanto ciò possasembrare strano e incomprensibile a degli Occidentali, riti aventiun carattere e un'efficacia essenzialmente metafisica.

Non volendo insistere ulteriormente su questo puntoaggiungeremo soltanto che, senza neppure spostarci fino in Cina oin India, riti del genere si potrebbero trovare in certe branchedell'Islam, se quest'ultimo non rimanesse per gli Europei, e moltoper colpa loro, quasi altrettanto sconosciuto quanto tutto il restodell'Oriente. Dopo tutto i sociologi sono ancora scusabili quandosi sbagliano su cose a loro completamente estranee, e potrebberoanche immaginare con qualche parvenza di ragione che tutti i ritisiano di natura essenzialmente religiosa se il mondo Occidentale,riguardo al quale dovrebbero essere meglio informati, non glienepresentasse veramente che di tal fatta; ma noi ci permetteremovolentieri di chiedere loro se, per esempio, i riti massonici, deiquali non intendiamo del resto ricercar qui la vera natura,possiedono, per il fatto stesso di essere effettivamente (comesono) dei riti, un carattere in qualunque modo religioso.

Approfittiamo di essere in argomento per segnalare ancora chela totale assenza del punto di vista religioso presso i Cinesi hapotuto causare un altro errore, ma contrario al precedente questavolta, e dovuto a reciproca incomprensione. Il Cinese, il quale hain qualche modo per natura il più gran rispetto per tutto quel che ètradizionale, adotterà volentieri, trasportato in un altro ambiente,ciò che gli parrà costituirne la tradizione; ora, poiché in Occidente

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la sola religione presenta questo carattere, egli potrà adottarla aquesto titolo, ma in modo del tutto superficiale e transitorio.Ritornato al proprio paese d'origine, che d'altronde non è mai statoda lui abbandonato in modo definitivo (la “solidarietà di razza”essendo troppo forte per permetterglielo), questo stesso Cinesenon si preoccuperà assolutamente più della religione di cui avevatemporaneamente seguito gli usi; la ragione di ciò risiede nel fattoche la religione, la quale ha tale carattere per gli altri, non è inveceda lui mai stata concepita nel modo religioso, estraneo alla suamentalità, e siccome in Occidente egli non ha incontrato nulla cheabbia un carattere in qualche modo metafisico, essa non potevaapparire ai suoi occhi che come l'equivalente più o meno esattod'una tradizione puramente sociale, sul tipo del Confucianesimo.

Gli Europei avrebbero dunque torto ad accusarlo d'ipocrisia,come sovente succede che facciano; un'attitudine del genere èsemplicemente stata dettata al Cinese dall'idea che egli si fa dellacortesia e delle sue regole; la cortesia, secondo lui, vuole infattiche ci si conformi il più possibile ai costumi del paese in cui sivive, e i Gesuiti del XVII secolo erano strettamente in regola conessa quando, vivendo in Cina, occupavano di buon grado il loroposto nella gerarchia ufficiale dei letterati e rendevano agliAntenati e ai Saggi gli onori rituali a loro dovuti.

Nello stesso ordine d'idee, un altro fatto interessante da notareè che in Giappone lo Scintoismo ha in una certa misura lo stessocarattere e la stessa funzione del Confucianesimo in Cina; puravendo anche altri aspetti meno nettamente definiti, esso è primadi tutto un'istituzione cerimoniale dello Stato, e i suoi funzionari, iquali non sono per nulla dei “preti”, sono completamente liberi diadottare qualsiasi religione faccia loro piacere, o di non adottarnenessuna. Ci ricordiamo, a questo proposito, di aver letto in unmanuale di storia delle religioni la singolare riflessione che “inGiappone, come del resto in Cina, la fede nelle dottrine d'unareligione non esclude affatto la fede nelle dottrine di un'altrareligione”; in realtà, dottrine differenti possono essere compatibili

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solo a condizione di non situarsi sullo stesso terreno, e questoessendo proprio un caso del genere tale constatazione dovrebbeessere sufficiente a far comprendere che non può trattarsi direligione. Di fatto, escludendo il caso di importazioni straniere chenon possono aver avuto un'influenza realmente profonda né moltoestesa, il punto di vista religioso è sconosciuto così ai Giapponesicome ai Cinesi; è questo, se si vuole, uno dei pochissimi carattericomuni che si possono osservare nella mentalità dei due popoli.

Finora però è soltanto in modo negativo che abbiamo preso inesame la questione sollevata all'inizio; abbiamo infatti soprattuttomesso in luce l'insufficienza di certe definizioni, insufficienza cheè tale da comportare addirittura la loro falsità; dobbiamo ora daregli elementi, se non d'una definizione vera e propria, per lo menodi una concezione positiva di quel che costituisce veramente lareligione. Noi diciamo che la religione comporta essenzialmentela riunione di tre elementi di carattere diverso: un dogma, unamorale, un culto; dovunque venga a mancare uno qualunque diquesti elementi, non si tratterà più di religione nel senso propriodella parola.

Aggiungeremo subito che il primo elemento costituisce la parteintellettuale della religione, il secondo ne rappresenta la partesociale, ed il terzo, l'elemento rituale, partecipa sia della naturadell'una che dell'altra; queste affermazioni richiedono tuttaviaqualche chiarimento. Il nome di dogma si applica propriamente auna dottrina religiosa; senza insistere di più, per il momento, suquelle che sono le caratteristiche speciali di tale dottrina,possiamo dire che, pur se evidentemente intellettuale in quel cheha di più profondo, essa non è tuttavia d'ordine puramenteintellettuale; d'altronde se lo fosse, essa avrebbe caratteremetafisico e non religioso. È dunque necessario, perché assuma laforma particolare che conviene al suo punto di vista, che unadottrina simile subisca l'influenza di elementi extraintellettuali, iquali avranno, nella loro maggioranza, un carattere sentimentale;la stessa parola “credenze” la quale serve comunemente a

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designare le concezioni religiose, definisce bene il loro carattere,essendo una constatazione psicologicamente elementare che lacredenza, intesa nella sua accezione più precisa e in quantoopponentesi alla certezza - che è tutta intellettuale - è unfenomeno nel quale la sentimentalità ha la parte preponderante,trattandosi di una specie di inclinazione o di simpatia per un'idea,ciò che d'altronde presuppone necessariamente che la concezionedell'idea stessa sia affetta da una sfumatura sentimentale più omeno pronunciata.

Proprio questo fattore sentimentale, secondario nella dottrina,diventa preponderante e pressoché esclusivo nella morale, la cuidipendenza nei confronti del dogma è un'affermazione soprattuttoteorica: la morale, di cui la ragion d'essere non può essere chepuramente sociale, potrebbe venir considerata come una specie dilegislazione, la sola che sia ancora di competenza della religionein quei paesi dove le istituzioni civili ne sono indipendenti. Infinei riti, di cui l'insieme costituisce il culto, hanno un carattereintellettuale se si considerano come un'espressione simbolica esensibile della dottrina, e un carattere sociale se si consideranoquali “pratiche” richiedenti, in modo più o meno obbligatori lapartecipazione di tutti i membri della comunità religiosa. Il nomedi culto dovrebbe a rigore essere riservato ai riti religiosi; di fatto,esso è usato anche abitualmente (e un po' abusivamente) perdesignare altri riti, riti puramente sociali per esempio, comequando si parla del “culto degli avi” in Cina.

Bisogna tener presente che in una religione, in cui l'elementosociale e sentimentale ha la preponderanza sull'elementointellettuale, la parte del dogma e quella del culto vannoriducendosi sempre più nel tempo, di modo che religione tende adegenerare in puro e semplice “moralismo” della qual cosa unesempio particolarmente evidente è offerto dal caso delProtestantesimo; al limite, praticamente raggiunto da un certo“Protestantesimo liberale”, ciò che rimane non è più affatto unareligione, non avendo conservato che una soltanto delle parti

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essenziali, ma semplicemente una specie di pensiero filosofico asé. È infatti importante precisare che la morale può essereconcepita in due modi molto differenti: in modo religioso, quandovenga collegata in linea di principio a un dogma al quale sisubordina, o in modo filosofico, se ne viene considerataindipendente; ritorneremo più tardi su questa sua seconda forma.

Si può ora capire perché prima dicevamo che il terminereligione è difficile da applicare rigorosamente al di fuoridell'insieme costituito da Giudaismo, Cristianesimo e Islamismo,ciò che conferma la provenienza specificamente giudaica dellaconcezione esprimentesi attualmente con questa parola. Laragione di ciò risiede nel fatto che i tre elementi da noicaratterizzati non si trovano da nessun'altra parte riuniti in unastessa concezione tradizionale; infatti in Cina troviamo il punto divista intellettuale e quello sociale, rappresentati da due distinticorpi di tradizione, ma manca totalmente il punto di vista morale,anche nella tradizione sociale.

Come in Cina così in India è la prospettiva morale che fadifetto: se la legislazione non riveste in India il carattere religiosoche ha, per esempio, nell'Islam, è proprio perché essa ècompletamente priva dell'elemento sentimentale che solo puòconferirle lo speciale carattere della moralità; quanto alla dottrina,essa è puramente intellettuale, cioè metafisica, e non porta tracceneppur essa della forma sentimentale che sarebbe necessaria aconferirle il carattere di un dogma religioso, e senza la quale èd'altronde inconcepibile che a un principio dottrinale vengaconnessa una morale.

Si può dire che la prospettiva morale e la stessa prospettivareligiosa presuppongano essenzialmente una certa sentimentalità,la quale, di fatto, è soprattutto sviluppata negli Occidentali, ascapito dell'intellettualità. Si tratta perciò di qualcosa di veramentetipico degli Occidentali, ai quali bisognerebbe, nella circostanza,accomunare i Musulmani, pur se, senza neppure parlaredell'aspetto extrareligioso della loro dottrina, esiste la grande

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differenza che la morale, mantenuta al suo rango secondario, nonè mai stata da essi presa in considerazione come aventeun'esistenza indipendente; la mentalità musulmana non puòammettere l'idea di una “morale indipendente”, vale a direfilosofica, idea riscontrabile in altre epoche presso i Greci e iRomani, e nuovamente presente in modo massiccio nell'Occidentedei nostri giorni.

È ora indispensabile un'ultima osservazione: noi, al contrariodei sociologi di cui dicevamo poc'anzi, non ammettiamo che lareligione sia un fatto puramente e semplicemente sociale; noidiciamo soltanto che uno degli elementi di cui è costituita èd'ordine sociale, il che, evidentemente, non è affatto la stessa cosa;tale elemento è normalmente secondario nei confronti delladottrina la quale ha caratteri del tutto differenti, cosicché lareligione, pur essendo sociale sotto un certo rapporto, è nellostesso tempo qualcosa di più. Di fatto, esistono casi nei quali tuttoquanto è d'ordine sociale si trova legato e quasi sospeso allareligione: è questo il caso dell'Islamismo, come già ci è occorso didire, e del Giudaismo, nel quale la legislazione riveste lo stessocarattere essenziale di religiosità, con la particolare caratteristica,però, di non essere applicabile che ad un determinato popolo; ed èanche il caso d'una concezione del Cristianesimo, che potremmochiamare “integrale”, la quale ebbe un tempo una realizzazioneeffettiva.

L'opinione sociologica corrisponde soltanto all'attuale statodell'Europa, e, ancora, facendo astrazione dalle considerazionidottrinali, le quali tuttavia non hanno realmente perduto della loroprimordiale importanza che presso i popoli protestanti; cosapiuttosto curiosa, essa potrebbe servire a giustificare la concezioned'una “religione di Stato”, vale a dire, in fondo, d'una religioneche è più o meno completamente cosa dello Stato, e che come talecorre forti rischi di vedersi ridotta alla parte di strumento politico;una concezione simile ci riconduce a quella della religione greco-romana, come già dicemmo all'inizio.

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Simile idea appare diametralmente opposta a quella di“Cristianità”: quest'ultima, anteriore alla nazionalità, non potrebbea esse coesistere, o ricostituirsi dopo la loro formazione, che allacondizione di essere essenzialmente “supernazionale”; alcontrario, la “religione di Stato” è sempre considerata di fatto, senon di diritto, come nazionale, sia che essa sia del tuttoindipendente o che ammetta un collegamento ad altre istituzionisimili per una specie di legame federativo, il quale in ogni casonon concede all'autorità superiore e centrale che facoltànotevolmente indebolite.

La prima delle due concezioni, quella della “Cristianità” èeminentemente quella del “Cattolicesimo” nel senso etimologicodella parola; la seconda, quella d'una “religione di Stato”, trovalogicamente la sua espressione, a seconda dei casi, o in unGallicanismo alla maniera di Luigi XIV, o nell'Anglicanismo, o incerte forme della religione protestante, alla quale, in generale,questa riduzione a un infimo livello non sembra ripugnare affatto.Aggiungeremo, per finire, che di questi due modi occidentali diconsiderare la religione il primo è il solo che sia in grado dipresentare, rivestito degli aspetti propri alla mentalità religiosa, icaratteri d'una tradizione vera com'essa è concepita, senzaeccezioni, dalla mentalità orientale.

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5 ‐ CARATTERI ESSENZIALI DELLA METAFISICA

Mentre la prospettiva religiosa implica essenzialmentel'intervento di un elemento d'ordine sentimentale, il punto di vistametafisico è esclusivamente intellettuale. Quest'affermazione, laquale ha per noi un significato nettissimo, potrebbe però sembrarea molti non sufficientemente esplicativa del punto di vista inquestione, poco familiare agli Occidentali; dobbiamo quindiprenderci cura di chiarirlo ulteriormente. In Occidente anche lascienza e la filosofia hanno pretese all'intellettualità, e se noisiamo ben lungi dall'ammettere che tali pretensioni siano fondate,e affermiamo che esiste la differenza più profonda tra tutte lespeculazioni di questo genere e la metafisica, la ragione ne risiedein ciò, che l'intellettualità pura, nel senso in cui la consideriamonoi, è tutt'altra cosa di quel che generalmente s'intende, in modopiù o meno vago, con tale parola.

Ci occorre dichiarare subito che quando usiamo il termine“metafisica” come sempre facciamo, non ci sta a cuore la suaorigine storica, che è alquanto dubbia, e sarebbe puramentefortuita se si ammettesse l'opinione, ai nostri occhi però pocoverosimile, secondo la quale esso sarebbe servito inizialmente adesignare semplicemente ciò che veniva “dopo la fisica” nellacollezione delle opere di Aristotele. Né dobbiamo maggiormentecurarci delle diverse accezioni, tutte più o meno abusive, chetaluni hanno creduto bene di attribuire alla parola in questa oquell'epoca; motivi di questo genere non sono sufficienti a farcelaabbandonare perché, cosi com'è, essa è troppo ben appropriata aquel che normalmente deve designare, almeno per quanto puòesserlo un termine appartenente ad una lingua occidentale. Difatto, il suo senso più naturale, anche etimologicamente, è quellosecondo il quale essa definisce ciò che è “di là dalla fisica” intesoqui per “fisica”, come sempre dagli antichi, l'insieme di tutte lescienze della natura considerato in maniera del tutto generale, e

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non semplicemente una di esse in particolare secondo l'accezioneristretta propria dei moderni. È dunque questa l'interpretazione deltermine “metafisica” che noi facciamo nostra, e deve esser benchiaro una volta per tutte che se teniamo ad essa è unicamente perla ragione che abbiamo indicato, e perché stimiamo che far ricorsoa neologismi, fatta eccezione per i casi di assoluta necessità, èsempre cosa più dannosa che utile.

Diremo ora che, intesa in questo modo, la metafisica, èessenzialmente la conoscenza dell'universale, o, se si vuole, deiprincipi d'ordine universale, ai quali soli conviene del restopropriamente il nome di principi; non vogliamo però dare con ciòuna vera e propria definizione della metafisica, cosa che sarebberigorosamente impossibile proprio a causa di quell'universalitàche noi consideriamo come il primo dei suoi caratteri, dal qualetutti gli altri discendono. In realtà non è definibile se non ciò che èlimitato, e la metafisica è al contrario, nella sua essenza stessa,assolutamente illimitata, ciò che non permette evidentemente diracchiuderne la nozione in una formula più o meno restrittiva; inquesto caso una definizione sarebbe tanto più inesatta quanto piùci si sforzasse di renderla precisa.

È il caso di osservare che abbiamo detto conoscenza e nonscienza; è nostra intenzione, cosi facendo, di sottolineare ladistinzione profonda che va necessariamente fatta tra la metafisicada un lato e dall'altro le differenti scienze nel senso proprio dellaparola, vale a dire tutte le scienze particolari e specializzate chehanno come oggetto questo o quell'aspetto determinato delle coseindividuali. Si tratta dunque in fondo della distinzione stessa tral'universale e l'individuale, distinzione che non va però assuntacome un'opposizione, perché tra i suoi due termini non esistecomune misura né alcuna relazione di simmetria o di possibilecoordinazione. E d'altronde, tra la metafisica e le scienze nonpotrebbe sussistere opposizione o conflitto di qualsivoglia naturaprecisamente perché i loro rispettivi domini sono profondamenteseparati; così si dica d'altra parte dei rapporti tra metafisica e

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religione. Tuttavia è opportuno capir bene che la separazione inquestione non si riferisce tanto alle cose in sé quanto alleprospettive sotto le quali le cose vengono considerate; e ciò èparticolarmente importante per quanto avremo a dire piùspecialmente riguardo al modo nel quale devono venir concepiti irapporti relativi dei diversi rami della dottrina indù. È facilerendersi conto che uno stesso oggetto può essere studiato dadifferenti scienze sotto diversi aspetti; allo stesso modo, tuttoquanto consideriamo da angoli visuali individuali e speciali puòessere, per mezzo di una trasposizione adeguata, consideratoanche dal punto di vista universale - il quale non è d'altronde unpunto di vista in qualche modo speciale - cosi come può esserloaltresì tutto quanto non è suscettibile di essere inteso in modoindividuale.

Sotto quest'angolo visuale si può dire che il dominio dellametafisica comprende tutto, il che è necessario perché essa siaveramente universale, come di fatto è essenzialmente; con tuttociò non è men vero che i domini propri alle differenti scienzerestano distinti da quello della metafisica, perché quest'ultima, nonponendosi sullo stesso terreno delle scienze particolari, non puòvenire in nessun modo considerata ad esse analoga, sicché nonpotrà mai accadere che si stabilisca una comparazione tra irisultati dell'una e quelli delle altre.

D'altro canto il dominio della metafisica non è per nulla, comepensano alcuni filosofi i quali non sanno assolutamente di che sitratti, quello che le diverse scienze lasciano scoperto perché il lorosviluppo attuale è più o meno incompleto, ma piuttosto quello che,per la sua stessa natura, sfugge loro oltrepassando immensamentela portata a cui possono legittimamente pretendere. Il dominioproprio di ogni scienza è sempre circoscritto all'esperienza,nell'una o nell'altra delle sue diverse modalità, mentre quello dellametafisica è costituito essenzialmente da ciò di cui non si puòavere esperienza: essendo “di là dalla fisica”, si è anche, proprioper questa ragione, di là dall'esperienza.

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Di conseguenza il campo di ogni scienza particolare puòallargarsi indefinitamente, se ciò è nelle sue possibilità, senza maigiungere ad avere il sia pur minimo punto di contatto con quellodella metafisica. Conseguenza immediata delle affermazioniprecedenti è che quando si parla dell'oggetto della metafisica nonsi deve avere in mente qualcosa di più o meno analogo a ciò chepuò essere l'oggetto speciale di questa o quella scienza; ed ancheche tale oggetto deve essere assolutamente sempre lo stesso, e nonpuò in alcun modo essere qualcosa di mutevole, soggiacente alleinfluenze di tempo e di luogo.

La contingenza, l'accidentalità, la variabilità appartengono inproprio al dominio dell'individuale; si tratta anzi addirittura deicaratteri che condizionano necessariamente le cose individuali inquanto tali, o, per parlare in modo ancor più rigoroso, l'aspettoindividuale delle cose nelle sue molteplici modalità. Quanto allametafisica, ciò che può cambiare di essa secondo il tempo e illuogo, sono soltanto i modi d'esposizione, vale a dire le forme piùo meno esteriori di cui essa si può rivestire, le quali sonosuscettibili di adattamenti diversi, e, evidentemente, lo stato diconoscenza o d'ignoranza degli uomini, o per lo meno della loromaggioranza, nei confronti della vera metafisica; quest'ultimaresta sempre fondamentalmente in tutto uguale a se stessa, il suooggetto essendo essenzialmente uno, o più esattamente “senzadualità” come lo dicono gli Indù; e tale oggetto, sempre per il suoessere “di là dalla natura”, è anche di là dal cambiamento: è quelche gli Arabi esprimono dicendo che “la dottrina dell'Unità èunica”.

Procedendo ulteriormente nell'ordine delle conseguenze,possiamo aggiungere che in metafisica non è assolutamentepossibile fare scoperte, perché, trattandosi di un modo diconoscenza che non ricorre all'uso di mezzi speciali ed esteriori diinvestigazione, tutto ciò che è suscettibile di essere conosciutopuò esserlo stato in ugual modo da uomini diversi in tutte leepoche; ciò che risulta effettivamente da un esame profondo delle

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dottrine metafisiche tradizionali. D'altronde, quand'anche siammettesse che le idee di evoluzione e di progresso possano avereun qualche valore relativo in biologia e in sociologia, che è cosalungi dall'esser provata, non è men certo che esse non si applicanoassolutamente alla metafisica; tali idee sono del tutto estranee agliOrientali, cosi come furono del resto estranee, fin verso la fine delXVIII secolo, a quegli stessi Occidentali che oggi le credonoelementi essenziali dello spirito umano.

Ciò implica, notiamolo bene, la condanna formale di ognitentativo d'applicazione del “metodo storico” a tutto quanto abbiacarattere metafisico: la prospettiva metafisica stessa si oppone inmodo radicale al punto di vista storico, o cosiddetto storico, e intale opposizione è da vedere non una mera questione di metodoma anche e soprattutto, che è molto più grave, una vera questionedi principio, poiché il punto di vista metafisico nella suaimmutabilità essenziale è la negazione formale delle idee dievoluzione e di progresso; si potrebbe perciò anche dire che lametafisica non si può studiare che metafisicamente. Inquest'ordine di cose non c'è da tener conto di contingenze quali leinfluenze individuali, le quali in questo campo rigorosamente nonesistono e non possono esercitare alcuna azione sulla dottrinaperché essa, di carattere universale dunque essenzialmente sopra-individuale, sfugge necessariamente alla loro influenza; le stessecircostanze di tempo e di luogo – insistiamo ancora - non possonoinfluire che sull'espressione esteriore, e null'affatto sull'essenzadella dottrina; infine, in metafisica non si tratta per nulla, comeaccade invece, per le cose d'ordine relativo e contingente, di“credenze” o di “opinioni” più o meno variabili e mutevoli inquanto più o meno dubbie, ma esclusivamente di certezzapermanente e immutabile.

In effetti, proprio per la ragione che la metafisica non partecipain nulla della relatività delle scienze, essa deve implicare, qualecarattere intrinseco, la certezza assoluta; ciò prima di tutto per ilsuo oggetto, ma poi anche per il suo metodo - se tuttavia tale

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parola può ancora applicarsi in questa circostanza - senza di cheesso, di qualunque nome si voglia gratificarlo, non sarebbeadeguato al proprio oggetto. La metafisica esclude quindinecessariamente qualsiasi concezione avente carattere ipotetico,ciò che implica per le verità metafisiche, in se stesse, l'assolutaincontestabilità; di conseguenza se talvolta può accadere che sorgaoccasione di discussioni e controversie, sarà sempre e soltanto pereffetto d'una espressione difettosa o di una comprensioneimperfetta.

D'altra parte, ogni possibile espressione è qui necessariamentedifettosa, le concezioni metafisiche per la loro natura universalenon essendo mai del tutto esprimibili né immaginabili, e nonpotendo venir colte nella loro essenza che dall'intelligenza pura e“informale”; esse oltrepassano immensamente ogni possibileforma, in particolare le formule in cui il linguaggio tenderebbe arinchiuderle; tali formule sono sempre inadeguate perché tendonoa circoscrivere e perciò a snaturarle. Formule di questo genere -come tutti simboli – non possono servire che da punto di partenza,da “supporto” per cosi dire, per aiutare a concepire ciò che in sérimane inesprimibile; è compito di ciascuno di sforzarsi diconcepirlo effettivamente a misura della propria capacitàintellettuale, supplendo in tal modo, in quella misura stessa, allefatali imperfezioni dell'espressione formale e limitata.

È però evidente che tali imperfezioni raggiungeranno il loromassimo quando l'espressione dovrà avvenire in lingue che, comequelle europee (soprattutto moderne), sembrano fatteapposta pernon prestarsi all'esposizione delle verità metafisiche. Comedicevamo prima a proposito delle difficoltà di traduzione ed'adattamento, la metafisica, per il suo aprirsi su possibilitàillimitate, deve sempre riservare la parte di ciò che non èesprimibile e che in fondo costituisce, di essa, l'essenziale. Questaconoscenza d'ordine universale è necessariamente di là da tutte ledistinzioni che condizionano la conoscenza delle cose individuali,delle quali il tipo generale e fondamentale è la distinzione di

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soggetto e oggetto; ciò dimostra una volta di più che l'oggettodella metafisica non è assolutamente paragonabile all'oggettospecifico di qualsivoglia altro genere di conoscenza, e che esso,dal momento che per poterne parlare bisogna pur attribuirgliqualche denominazione, può venir chiamato oggetto soltanto insenso analogico.

Nello stesso ordine di idee, se si vuol parlare del mezzo dellaconoscenza metafisica, esso non potrà che costituire un'unica esola cosa con la conoscenza stessa, nella quale soggetto e oggettosono unificati in modo essenziale; sarà come dire che tale mezzo,ammesso che sia lecito chiamarlo cosi, non può esser nulla disimile all'esercizio d'una facoltà discorsiva quale la ragione umanaindividuale. Siamo, come dicevamo, nel dominio di ciò che èsopra-individuale, di conseguenza (e senza che sia implicataalcuna irrazionalità), di ciò che è sopra-razionale: la metafisicanon può essere contraria alla ragione, piuttosto essa ne è al disopra, e la ragione non può intervenire nel suo dominio che inmodo del tutto secondario per la formulazione e l'espressioneesteriore di verità che vanno di là dalla sua sfera e dalla suaportata.

Le verità metafisiche possono venir concepite unicamente dauna facoltà che non è più di ordine individuale e che il carattereimmediato della sua operazione permette di chiamare intuitiva, acondizione, beninteso, di aggiungere che essa non haassolutamente niente in comune con ciò che certi filosoficontemporanei chiamano intuizione, facoltà puramente sensitiva evitale che è propriamente al di sotto, e non al di sopra, dellaragione. È dunque necessario, per maggior precisione, dire che lafacoltà di cui stiamo parlando è l'intuizione intellettuale, di cui lafilosofia moderna ha negato l'esistenza per la semplice ragione chela sua comprensione le era interdetta, quando non abbia preferitoignorarla puramente e semplicemente; la si può ancora designarecol nome di intelletto puro, seguendo l'esempio di Aristotele e deisuoi continuatori scolastici, per i quali infatti l'intelletto è ciò che

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realizza immediatamente la conoscenza dei principi. Aristoteledichiara espressamente che “l'intelletto è più vero della scienza”vale a dire in altre parole che se è la ragione a costruire la scienza,“nulla è però più vero dell'intelletto”, il quale è necessariamenteinfallibile perché la sua operazione è immediata e perché, nonessendo realmente distinto dal proprio oggetto, esso si identificacon la verità stessa.

Tale è il fondamento essenziale della certezza metafisica; e ci sipuò render conto da quanto abbiamo esposto che l'errore puòintrodurvisi soltanto con l'uso della ragione, vale a dire inoccasione della formulazione delle verità concepite dall'intelletto,ciò che si spiega tenendo conto del fatto che la ragione èevidentemente soggetta all'errore a causa del suo caratterediscorsivo e mediato. Ogni espressione essendo necessariamenteimperfetta e limitata, l'errore, non quanto a fondo ma quanto aforma, vi è inevitabile: per rigorosa che si voglia renderel'espressione, quel che essa lascia fuori di sé è sempre molto più diquel che non riesca a contenere; ma un errore del genere, può nonaver nulla di positivo in quanto errore, e tutto sommato non essereche una verità impoverita, consistendo in nient'altro che in unaformulazione parziale e incompleta della verità totale.

Ci si può cosi render conto di quale sia, nel suo senso piùprofondo, la distinzione tra conoscenza metafisica e conoscenzascientifica: la prima è fondata sull'intelletto puro, il quale ha perdominio l'universale; la seconda si deduce dalla ragione, la qualeha per dominio il generale; e di fatto, come affermò Aristotele, “illimite della scienza è il generale”. Importantissimo è dunqueevitare la confusione tra l'universale e il generale che troppe voltefanno i logici occidentali, i quali dal generale non si sollevano mairealmente, quand'anche gli attribuiscano gratuitamente il nome diuniversale.

Abbiamo detto che l'angolo visuale delle scienze ha carattereindividuale; la contraddizione è soltanto apparente, perché ilgenerale non si oppone affatto all'individuale ma soltanto al

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particolare, ed anzi altro non è che un'estensione dell'individuale;quest'ultimo è suscettibile di estensione, anche indefinita, senzache perda per questo la sua natura ed esca dalle proprie condizionirestrittive e limitative, ed è per tal ragione che affermavamo lascienza potersi estendere indefinitamente senza mai raggiungere lametafisica, dalla quale rimarrà sempre separata nel modo piùprofondo, la metafisica essendo sola a costituire la conoscenzadell'universale.

Pensiamo di aver caratterizzato in modo sufficiente lametafisica; di più non potremmo dire senza entrarenell'esposizione della dottrina vera e propria, e ciò sarebbe fuoriluogo in questa sede. D'altronde questi dati saranno completati neicapitoli che seguiranno, particolarmente quando parleremo delladistinzione da farsi tra la metafisica e ciò che viene generalmentechiamato col nome di filosofia nell'Occidente moderno. Tuttoquanto abbiamo detto si applica, senza nessuna restrizione, a tutteindistintamente le dottrine tradizionali dell'Oriente, nonostante legrandi differenze di forma che possono dissimularne l'identitàfondamentale a osservatori superficiali: tale concezione dellametafisica è vera cosi per il Taoismo come per la dottrina indù eper l'aspetto profondo ed extrareligioso dell'Islamismo. Esistequalcosa di simile nel mondo occidentale?

A tener conto soltanto di ciò che esiste attualmente, si dovrebbedare a questa domanda una risposta negativa, perché ciò che ilpensiero filosofico moderno si compiace talvolta di decorare colnome di metafisica non corrisponde in nessun modo allaconcezione che abbiamo esposto. Anche se dovremo tornare suquest'argomento, l'accenno già fatto ad Aristotele e alla dottrinascolastica dimostra che nelle sue opere vi fu, se non la metafisicatotale, almeno parzialmente della metafisica; nonostante questariserva necessaria, si trattò di qualcosa di cui la mentalità modernanon offre più il minimo equivalente e la cui comprensione anzi,sembra le sia impedita. D'altra parte, se la riserva che abbiamofatto si impone, è perché esistono - e l'abbiamo anche detto - delle

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limitazioni che paiono veramente appartenere a tuttal'intellettualità occidentale, almeno a partire dall'antichità classica;a questo proposito facemmo già rilevare come i Greci nonavessero punto l'idea d'Infinito. E perché mai gli Occidentalimoderni quando credono di pensare all'infinito si rappresentanoquasi sempre uno spazio, il quale non può essere che indefinito, econfondono invincibilmente l'eternità (la quale risiedeessenzialmente nel “non tempo”, se così si può chiamare) con laperpetuità, che non è se non un'estensione indefinita del tempo,quando simili confusioni agli Orientali non succedono mai?

La verità è che la mentalità occidentale, volta quasiesclusivamente alle cose sensibili, fa costantemente confusione traconcepire e immaginare, al punto che ciò che non è suscettibile dirappresentazione sensibile le pare per ciò stesso veramenteimpensabile. È da notare che già presso i Greci le facoltàimmaginative erano preponderanti. Evidentemente si tratta di tuttol'opposto del pensiero puro; in queste condizioni non può esserciintellettualità nel vero senso della parola, ne, di conseguenza,metafisica. Se si aggiunge poi a queste considerazioni l'altraconfusione abituale tra razionalità e intellettualità, non si tarderàad accorgersi che la pretesa intellettualità occidentale non è inrealtà - soprattutto nei moderni - che l'esercizio di quelle facoltàmeramente individuali e formali che sono la ragione el'immaginazione; e si capirà allora di che natura sia l'abisso che lasepara dall'intellettualità orientale, per la quale non è conoscenzavera e valida se non quella che ha le proprie radici profondenell'universale e nell'informale.

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6 ‐ RAPPORTI DELLA METAFISICACON LA TEOLOGIA

La questione che esamineremo ora non ha motivo di porsi inOriente, e ciò precisamente per l'assenza del modo religioso divedere le cose che è naturalmente proprio del pensieroteologico; in un solo caso si potrebbe dire che essa è in qualchemodo pertinente, e quest'eccezione riguarderebbe l'Islam, ma sitratterebbe allora piuttosto di chiarire i rapporti che devonoesistere fra i suoi due aspetti essenziali, quello religioso equello extrareligioso, i quali potrebbero effettivamente esserdetti l'uno teologico e l'altro metafisico. Quanto all'Occidente,invece, è l'assenza della prospettiva metafisica a far sì che talequestione non abbia generalmente a porvisi. Soltanto con ladottrina scolastica essa ebbe infatti ragione di sussistere, perchéquest'ultima fu contemporaneamente teologica e metafisicanonostante che la sua portata fosse, quanto all'aspettometafisico, decisamente ristretta, come già dicemmo; nonsembra però che una soluzione veramente definitiva sia maistata data. Sarà così ancora più utile chiarire in modo generalequesta questione, insieme a tutto quel che essa comporta, inquanto ciò implicherà di fatto una comparazione tra duedifferenti modalità di pensiero, il pensiero metafisico e ilpensiero specificamente religioso.

Abbiamo già detto che il punto di vista metafisico è il soloveramente universale, e perciò illimitato; di conseguenza ognialtro punto di vista è in maggiore o minor misura specializzatoe soggetto per sua natura a talune limitazioni. In particolare,facemmo già notare come a presentarsi con questecaratteristiche di specializzazione e di ristrettezza sia il modoscientifico di vedere le cose; similmente dimostreremo come

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ciò possa anche dirsi di quegli altri punti di vista che vengonoabitualmente riuniti sotto la comune denominazione abbastanzavaga di filosofia, i quali per altro non differiscono nemmenotroppo profondamente dalla prospettiva scientificapropriamente detta, pur presentandosi con pretese maggiori, deltutto ingiustificate. Ora, questa limitazione di fondo, la qualeevidentemente può essere più o meno accentuata, è presenteanche nella prospettiva teologica; detto in altri termini, anchequest'ultima è una prospettiva speciale, anche se, ovviamente,non al modo delle scienze, né entro confini che le attribuiscanouna portata così ristretta; ma proprio perché la teologia è in uncerto senso più vicina alla metafisica di quanto non siano lescienze, più delicata si presenta l'opera di distinzione tra essa ela metafisica propriamente detta, a causa delle confusioni chepossono, in questo più che in ogni altro caso, aver origine.

Di fatto, confusioni del genere non sono mancate, e hannopotuto spingersi fino a un rovesciamento dei rapporti chenormalmente dovrebbero esistere fra la metafisica e la teologia,giacché persino nel medio evo, ovvero in un'epoca che fututtavia l'unica in cui la civiltà occidentale ebbe uno svilupporealmente intellettuale, accadde che la metafisica (la quale eraperò insufficientemente svincolata da diverse considerazionid'ordine soltanto filosofico), fosse considerata dipendente dallateologia; e se ciò poté succedere, la cosa avvenne soltantoperché la metafisica, quale era intesa dalla dottrina scolastica,era rimasta incompleta, così che non poté venir concepita nelsuo pieno carattere di universalità - il quale implica l'assenza diqualsiasi limitazione - e rimase costretta di fatto entro certiconfini, di là dai quali non si sospettò neppure che potesseroesistere possibilità di concezione. È contenuta in quest'accennola parziale scusante dell'errore che fu allora commesso, ed ècerto che i Greci, nella misura in cui pure ebbero a fare della

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Rapporti della Metafisica con la Teologia

vera metafisica avrebbero potuto sbagliarsi esattamente nellostesso modo, qualora avessero posseduto qualcosa dicorrispondente a quel che è la teologia nelle religioni giudaico-cristiane; il che non fa che confermare quanto già dicemmo,che gli Occidentali cioè, compresi quegli stessi che furonorealmente dei metafisici, anche se solo in parte, non hanno maiconosciuto la metafisica totale. Ci furono forse, tuttavia,eccezioni individuali, giacché, come ebbimo a notareprecedentemente, non c'è ragione di principio che si oppongaall'esistenza, in ogni tempo e in qualunque paese, di uomini chepossano giungere alla conoscenza metafisica completa; ciòsarebbe possibile financo nel mondo occidentale attuale, anchese è indubbiamente più difficile a causa delle tendenze dellamentalità generale le quali determinano, sotto questo riguardo,un ambiente sfavorevole al massimo grado.

Ad ogni modo è il caso di aggiungere che, se pure talieccezioni si sono prodotte, di esse non esiste testimonianzascritta, né esse hanno lasciato tracce in ciò che è generalmenteconosciuto, il che beninteso non prova nulla in senso negativoe non è neppure sorprendente, giacché, se casi del genere sisono effettivamente prodotti, non fu che per virtù di circostanzeparticolarissime, sulla natura delle quali non possiamo insisterein questa occasione. Per ritornare alla questione che ci occupaal presente, ricorderemo d'aver già accennato a ciò chedistingue nel modo più essenziale una dottrina metafisica da undogma religioso: si tratta di ciò, che mentre il punto di vistadella metafisica è puramente intellettuale, la prospettivareligiosa comporta, quale caratteristica fondamentale, lapresenza di un elemento sentimentale che influiscedirettamente sulla dottrina e non le permette di mantenerel'attitudine d'una speculazione puramente disinteressata; difatto, è questo che accade per la teologia, anche se in modo più

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o meno accentuato secondo l'una o l'altra delle branche in cuiessa si può scindere. Tale carattere sentimentale raggiunge lasua espressione più rilevante nella forma propriamente“mistica” del pensiero religioso; a questo proposito diremo che,contrariamente a un opinione sfortunatamente troppo diffusa, ilmisticismo, proprio perché inconcepibile al di fuori dellaprospettiva religiosa, è in Oriente affatto sconosciuto.

A questo proposito non scenderemo però nei particolariperché ciò porterebbe a sviluppi troppo lunghi. Nellaconfusione abituale che abbiamo segnalato, la quale consistenell'attribuire una interpretazione mistica a idee che mistichenon sono per nulla, si può vedere un ulteriore esempio dellatendenza propria degli Occidentali a voler trovare dappertuttol'equivalente puro e semplice di modi di pensiero che sonoesclusivamente loro. Evidentemente l'influenza dell'elementosentimentale intacca la purezza intellettuale della dottrina ed èil sintomo, inutile nasconderlo, di uno scadimento nei confrontidel pensiero metafisico, scadimento che d'altronde, dove s'èprodotto principalmente, generalizzandovisi, vale a dire nelmondo occidentale, era in qualche modo inevitabile e perfinoin un certo senso necessario perché la dottrina si adattasse allamentalità degli uomini ai quali si rivolgeva specialmente e neiquali la sentimentalità predominava sull'intelligenza,predominio che doveva raggiungere il suo culmine nei tempimoderni.

Comunque sia, non v'è dubbio che il sentimento è relativitàe contingenza, e che una dottrina che si rivolga ad esso e sullaquale esso si rifletta non può essa stessa essere se non relativa econtingente; ciò può osservarsi in modo particolarmente nettonel bisogno di “consolazione” al quale risponde, in largamisura, la prospettiva religiosa. La verità in sé non ha da essereconsolante; se taluno la trova tale, tanto meglio per lui, ma la

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consolazione provata non proviene dalla dottrina bensì da luistesso e dalle particolari disposizioni della sua sentimentalità.Al contrario, una dottrina che si adatti alle esigenze dell'esseresentimentale, e che deva perciò essa stessa rivestirsi di unaforma sentimentale, non può più, con ciò stesso, identificarsialla verità assoluta e totale; la profonda alterazione che in essaproduce l'introduzione d'un principio consolatore è ilcorrispettivo di un indebolimento intellettuale della collettivitàumana a cui essa si rivolge.

D'altra parte è da ciò che ha origine la diversitàfondamentale dei dogmi religiosi la quale non può fare a menodi coinvolgere la loro incompatibilità, perché mentrel'intelligenza è una e la verità, nella misura in cui vienecompresa, non può esserlo che in un solo modo, lasentimentalità è diversa, e la religione che tende a soddisfarladeve cercare di adattarsi formalmente nel miglior modopossibile alle sue molteplici modalità, dissimili e variabili aseconda delle razze e delle epoche. Ciò non significa però chetutte le forme religiose subiscano nelle stesse proporzioni, nellaloro parte dottrinale, l'azione dissolvente del sentimentalismo ola necessità di mutamento che ne è la conseguenza; lacomparazione tra Cattolicesimo e Protestantesimo, ad esempio,è particolarmente informativa a questo proposito.

Si può ora capire come il punto di vista teologico non sianient'altro che una particolarizzazione della prospettivametafisica, particolarizzazione che comporta un'alterazioneproporzionale; della prospettiva metafisica esso è, se si vuole,un'applicazione a condizioni contingenti, un adattamento il cuimodo è determinato dalla natura delle esigenze alle quali deverispondere, esigenze speciali che in fondo sono la sua unicaragion d'essere. Si deduce da tutto ciò che ogni verità teologicapotrà, mediante una trasposizione che la svincoli dalla sua

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forma specifica, essere ricondotta alla verità metafisicacorrispondente, della quale non è se non una specie ditraduzione, senza tuttavia che esista equivalenza effettiva fra idue ordini di concezione: è necessario ricordate quantodicemmo precedentemente, e cioè che tutto quel che può esservisto da una prospettiva individuale può essere consideratoparimenti da un angolo visuale universale, senza che con ciò ledue prospettive siano meno profondamente separate.

Prendendo ora in esame le cose in senso inverso, occorredire che se certe verità metafisiche possono venir tradotte inlinguaggio teologico, ciò non vale per tutte le veritàmetafisiche, giacché in questo caso bisognerà tener conto diquanto non può esser considerato da un punto di vistaindividuale ed è per ciò stesso di esclusiva competenza dellametafisica: ciò che è universale non può rientrare interamentein una prospettiva speciale, né in una qualsiasi forma, cose chedel resto si equivalgono. Quanto poi a quelle verità stesse chepossono sopportare la traduzione di cui stiamo parlando, taletraduzione, al pari di ogni altra formulazione, ne sarà sempre, ea fortiori, incompleta e parziale; e quanto essa non puòcontenere dà precisamente la misura di tutto ciò che separa ilpunto di vista della teologia da quello della metafisica pura.

Quanto diciamo potrebbe essere corredato da numerosiesempi; ma questi stessi esempi, per essere compresi,richiederebbero sviluppi dottrinali che non possiamo pensare diintraprendere in questa sede: sotto tal luce si presenterebbe, percontenerci alla citazione di un solo caso tipico fra moltipossibili, un confronto che si volesse istituire fra la concezionemetafisica della “liberazione” nella dottrina indù e laconcezione teologica della “salvezza” nelle religionioccidentali, concezioni essenzialmente differenti che solol'incomprensione di taluni orientalisti ha potuto tentare di

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assimilare, in modo naturalmente soltanto verbale.Notiamo di passata, poiché l'occasione se ne presenta, che

casi di questo genere devono servire anche a mettere in guardiacontro un altro pericolo ben reale; se si dichiara a un Indù alquale le concezioni occidentali siano sconosciute che gliEuropei intendono per “salvezza” esattamente ciò che eglistesso intende per “moksha”, egli non avrà certamente nessunaragione per contestare simile asserzione o di sospettarnel'inesattezza, e potrà accadergli in seguito, per lo meno finchénon avrà migliori informazioni, di usare egli stesso, la parola“salvezza” per designare una concezione che non ha nulla diteologico; si tratterà cosi di reciproca incomprensione, e laconfusione diverrà ancor più inestricabile. Lo stesso si può diredelle confusioni che hanno luogo dall'assimilazione, non menoerronea, del punto di vista metafisico con le prospettivefilosofiche occidentali: abbiamo presente l'esempio di unMusulmano il quale accettava ben volentieri, e con la massimanaturalezza, la denominazione di “panteismo islamico”applicata alla dottrina metafisica dell'“Identità suprema”, e che,quando gli fu spiegato cos'era veramente il panteismo nel sensoproprio della parola, particolarmente in Spinoza, respinse convero e proprio orrore simile denominazione.

Quanto al modo in cui può intendersi ciò che abbiamochiamato traduzione delle verità metafisiche in linguaggioteologico, sceglieremo un solo esempio di estrema semplicitàed elementarità: questa verità metafisica immediata “l'Essereè”, se la si vuol esprimere in modo religioso o teologico, daràorigine a quest'altra proposizione: “Dio esiste”, la quale nonsarà strettamente equivalente alla precedente che alla doppiacondizione di concepire Dio come l'Essere universale, il che èben lungi dall'avvenire sempre effettivamente, e d'identificarel'esistenza all'essere puro, che è in metafisica inesatto.

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Indubbiamente questo esempio, per la sua troppa semplicità,non corrisponde interamente a ciò che vi può essere di piùprofondo nelle concezioni teologiche; cosi com'è, esso non hatuttavia minor interesse, perché è precisamente dallaconfusione tra ciò che le due formule da noi citate implicanorispettivamente, confusione che procede da quella dei due puntidi vista corrispondenti, che risultarono le controversieinterminabili sorte intorno al famoso “argomento ontologico”,il quale è già esso stesso non altro che il prodotto di quellaconfusione, Un altro punto importante a cui possiamo subitoaccennare a proposito di questo stesso esempio, è che leconcezioni teologiche, che non sono affatto al riparo dalleinfluenze individuali come invece sono le concezionimetafisiche pure, possono variare da un individuo all'altro, e leloro variazioni sono allora funzione di quelle della piùfondamentale tra di loro, del concetto stesso, cioè, di Divinità:coloro che discutono su argomenti quali le “prove dell'esistenzadi Dio” dovrebbero prima, per potersi capire, assicurarsi chepronunciando la parola stessa “Dio”, vogliono esprimere unidentico concetto, e spesso si accorgerebbero che le cose nonvanno affatto cosi, talché essi non hanno più probabilità ditrovarsi d'accordo di quante ne avrebbero se parlassero linguedifferenti.

È soprattutto in questo campo, nel campo cioè dellevariazioni individuali di cui la teologia ufficiale e dotta nonpotrebbe però a nessun titolo esser tenuta responsabile, che simanifesta una tendenza nettamente antimetafisica quasigenerale fra gli Occidentali, l'antropomorfismo; maquest'argomento richiede delle spiegazioni complementari, lequali ci permetteranno di prendere in esame un altro aspettodella questione.

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7 ‐ SIMBOLISMO E ANTROPOMORFISMO

Il termine “simbolo”, nella sua accezione più generale, puòessere applicato a qualsiasi espressione formale di una dottrina,sia essa verbale o figurata: la parola non può avere altra ragiond'essere né altra funzione che quella di simbolizzare l'idea, valea dire quindi di darne, nella misura del possibile, unarappresentazione sensibile, in ogni caso puramente analogica.

Concepito in tal modo, il simbolismo, il quale altro non èche l'uso di forme o immagini assunte come segni per idee ocose soprasensibili, e del quale il linguaggio è un semplice casoparticolare, è evidentemente connaturato allo spirito umano,perciò necessario e spontaneo. Esiste inoltre, in un senso piùristretto, un simbolismo voluto, meditato, che cristallizza percosi dire in rappresentazioni figurative gli insegnamenti delladottrina; tra l'uno e l'altro non ci sono però, a dire il vero,confini ben definiti, poiché è cosa certissima che la scrittura fualle sue origini, e dappertutto, ideografica, vale a direessenzialmente simbolica (nella seconda anche delle dueaccezioni) pur se l'unico paese in cui essa sia sempre rimastatale (e ciò in modo esclusivo), è la Cina.

Comunque sia, il simbolismo cosi com'esso è inteso piùgeneralmente è d'uso ben più costante nell'espressione delpensiero orientale che in quella del pensiero occidentale; e nonè difficile capire perché, se si riflette che esso è un mezzod'espressione meno strettamente limitante del linguaggionormale: poiché suggerisce più che non esprima, esso è ilsupporto più appropriato per possibilità di concezione a cui leparole non permetterebbero di attingere. Il simbolismo cosìinteso, la cui indefinità concettuale non esclude affatto unrigore prettamente matematico, conciliando in tal modo

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esigenze in apparenza contrarie, è perciò, se così si può dire, lalingua metafisica per eccellenza; senza contare che simbolimetafisici alle origini sono potuti diventare in seguito,seguendo un processo d'adattamento secondario parallelo aquello della dottrina vera e propria, simboli religiosi.

In particolare, i riti hanno un carattere eminentementesimbolico quale che sia il livello al quale si riferiscono, e per ilsignificato dei riti religiosi, così come per la dottrina teologicaalla quale essi sono legati, la trasposizione metafisica è semprepossibile; di più, anche trattandosi di riti semplicemente sociali,qualora si voglia ricercarne la ragione profonda, occorrerisalire dal livello delle applicazioni, nel quale le lorocondizioni immediate risiedono, al livello dei principi, vale adire alla fonte tradizionale, metafisica nella sua essenza. Conciò, non è nostra intenzione dire che i riti siano esclusivamentesimboli; simboli sono senza dubbio, e non possono fare a menodi esserlo, senza di che sarebbero totalmente privi disignificato, ma vanno allo stesso tempo intesi come capaci diun'efficacia intrinseca in quanto mezzi di realizzazione agentiin vista del fine al quale sono adattati e subordinati.

Si tratta di tutta evidenza, sul piano religioso, dellaconcezione cattolica della virtù del “sacramento”; in campometafisico è il principio di talune vie di realizzazione di cuidiremo qualcosa più avanti, ed è ciò che ci ha permesso diparlare di riti propriamente metafisici. Per di più, si potrebbedire che ogni simbolo, dovendo servire essenzialmente comesupporto di una concezione intellettuale, ha pure un'efficaciapropria realissima; lo stesso sacramento religioso, in quantosegno sensibile, ha precisamente questa funzione di supportodell'“influenza spirituale” che farà di esso lo strumento di unarigenerazione psichica immediata o differita, analogamente aquanto accade per le potenzialità intellettuali incluse nel

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Simbolismo e Antropomorfismo

simbolo, le quali, a ragione della capacità ricettiva di ciascuno,possono suscitare una concezione effettiva o soltanto virtuale.Anche da quest'angolo visuale il rito è un caso particolare disimbolo: si tratta, per così dire, di un simbolo “agito”, ma ciò acondizione di concepire il simbolo in tutta la sua estensione, enon soltanto nella sua esteriorità contingente: in questo caso,come nello studio dei testi, occorre saper andare al di la della“lettera” per ricavarne lo “spirito”.

Ora, è proprio questo che gli Occidentali generalmente nonfanno: gli errori d'interpretazione degli orientalisti ne sono unesempio caratteristico, giacché abbastanza spesso consistono inuno snaturare i simboli studiati allo stesso modo che lamentalità occidentale, nella sua generalità, snaturaspontaneamente quelli che le accade di trovare a propriaportata. Il predominio delle facoltà sensibili ed immaginative èqui la causa determinante dell'errore; prendere il simbolo in sestesso per ciò che esso rappresenta, per incapacità ad elevarsifino al suo significato puramente intellettuale, è questa in fondola confusione nella quale risiede la causa di ogni “idolatria” nelsenso proprio del termine, senso che l'Islamismo gli dà in modoparticolarmente netto.

Quando del simbolo non si vede più che la forma esteriore,la sua ragion d'essere e la sua efficacia attuale sono entrambescomparse; il simbolo non è più che un “idolo”, cioèun'immagine vana, e la sua conservazione non è più che pura“superstizione”, fintantoché non si trovi qualcuno la cuicomprensione sia capace, parzialmente o integralmente, direstituirgli in modo effettivo quel che esso ha perduto o, per lomeno, quel che contiene solo più allo stato di possibilitàlatente. È il caso delle vestigia che lasciano dietro di sé tutte letradizioni il cui vero senso sia caduto nell'oblio, e il caso,particolarmente, di ogni religione che la generale

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incomprensione dei suoi aderenti abbia ridotto a un sempliceformalismo esteriore; già abbiamo citato l'esempio forse piùnetto di simile degenerazione, vale a dire quello della religionegreca. È sempre presso i Greci che si ritrova al suo stato dimaggior sviluppo una tendenza che si rivela inseparabiledall'“idolatria” e dalla materializzazione dei simboli, latendenza all'antropomorfismo: i Greci infatti non concepivano iloro dei come rappresentazioni di certi principi, bensì se liraffiguravano veramente come esseri in forma umana, provvistidi sentimenti umani e agenti al modo degli uomini; tali dei, cheper loro non avevano più nulla che li distinguesse dalla formadella quale poesia e arte li avevano rivestiti, non eranoletteralmente nient'altro che questa forma stessa.

Soltanto un'antropomorfizzazione così totale poté essercausa di ciò che è stato chiamato, dal nome del suo inventore,l'“evemerismo”, la teoria cioè secondo la quale gli dei nonsarebbero stati in origine che uomini illustri; di fatto, non sipotrebbe andare più in là sulla via dell'incomprensione piùgrossolana; più grossolana ancora di quella di tali moderni chenei simboli antichi vogliono vedere la semplicerappresentazione, o un tentativo di spiegazione, di alcunifenomeni naturali, interpretazione di cui il tipo più conosciuto èla fin troppo famosa teoria del “mito solare”.

Il “mito”, come l'“idolo”, altro non è mai stato se non unsimbolo incompreso: l'uno è in campo verbale ciò che l'altro èin campo figurativo; la poesia originò presso i Greci il primocome l'arte produsse il secondo; presso popoli però, come gliOrientali, ai quali naturalismo e antropomorfismo sono in egualmodo estranei, né l'uno né l'altro potevano aver origine, e difatto non l'ebbero, se non nell'immaginazione di alcuniOccidentali che vollero farsi gli interpreti di quel che noncapivano. L'interpretazione naturalistica rovescia in modo vero

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e proprio i rapporti normali: un fenomeno naturale può, almodo di qualsiasi altra cosa d'ordine sensibile, venir assunto asimboleggiare un'idea o un principio, e il simbolo non ha sensoo ragion d'essere che in quanto è d'ordine inferiore a ciò cheviene simboleggiato. In ugual modo è un'indubbia tendenzagenerale e naturale dell'uomo quella di servirsi della formaumana nel simbolismo; ma questo, che in sé non presta fianco amaggiori obiezioni di quante ne provochi l'uso d'uno schemageometrico o di qualunque altro mezzo di rappresentazione,non è affatto antropomorfismo, fintanto che l'uomo non vengatratto in inganno dalla raffigurazione che ha adottato.

Né in Cina né in India nulla accadde mai di analogo a ciòche avvenne in Grecia, e i simboli di figura umana, tuttaviad'uso corrente, non diventarono mai degli “idoli”. Sempre a talproposito si potrebbe far notare quanto il simbolismo siopponga alla concezione occidentale dell'arte: nulla vi è dimeno simbolico dell'arte greca, e niente è più simbolico dellearti orientali; ma là dove l'arte non è, tutto sommato, che unmezzo d'espressione e in qualche modo il veicolo di certeconcezioni intellettuali, essa non può evidentemente venirconsiderata come fine a se stessa, ciò che può accadere soltantopresso i popoli a sentimentalità predominante. Soltanto a questipopoli è naturale l'antropomorfismo, ed è notevole il fatto che,per la stessa ragione, sono proprio questi i popoli presso i qualiha potuto aver origine la prospettiva propriamente religiosa;d'altra parte la religione stessa ha sempre cercato di reagirecontro la tendenza antropomorfica, e, come principio, dicombatterla, quand'anche poi la sua concezione, quando piùquando meno distorta nella mentalità popolare, contribuisseinvece talvolta di fatto a farla sviluppare.

I popoli chiamati semitici, come gli Ebrei e gli Arabi, sonosotto questo aspetto da accostare ai popoli occidentali: non ci

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sarebbe infatti altra ragione da attribuire all'interdizione deisimboli di figura umana comune al Giudaismo e all'Islamismo,con la sola restrizione che nell'ultimo dei due essa non vennemai applicata rigorosamente dai Persiani per i quali l'uso di talisimboli presentava minor pericolo perché, più orientali degliArabi e inoltre appartenenti a una razza del tutto diversa, eranomeno facile preda dell'antropomorfismo.

Queste ultime considerazioni ci conducono direttamente achiarire l'idea di “creazione”: tale concezione anch'essaestranea agli Orientali (se si fa eccezione dei Musulmani)almeno quanto fu alla stessa antichità greco-romana, sidimostra specificamente giudaica all'origine; il termine che ladesigna è sì latino nella sua forma, ma non nell'accezione cheha ricevuto nel Cristianesimo, giacché creare voleva in originesignificare soltanto “fare”, significazione che sempre permase,in sanscrito, alla radice verbale “kri”, alla quale il termine èidentico; si trattò di un cambiamento profondo di significato, esimile è il caso, come già dicemmo, del termine “religione”. Èevidente che l'idea è passata dal Giudaismo nel Cristianesimo enell'Islamismo; quanto alla sua ragione d'essere essenziale, essaè in fondo la medesima della proibizione dei simboliantropomorfici.

Infatti la tendenza a concepire Dio quale “un essere” più omeno analogo agli esseri individuali, e particolarmente agliesseri umani, deve avere come corollario naturale, dovunqueessa esista, la tendenza ad attribuirgli una funzionesemplicemente “demiurgica”, intendendo con ciò un'azioneesplicantesi su una “materia” supposta a lui esteriore, qual è ilmodo d'azione proprio degli esseri individuali. In talicondizioni era necessario, per difendere la nozione dell'unita edell'infinità divine, affermare espressamente che Dio ha “fattoil mondo dal nulla”, vale a dire, in altri termini, da nulla che gli

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Simbolismo e Antropomorfismo

fosse esteriore e la cui presupposizione avrebbe come effetto dilimitarlo dando origine a un dualismo irresolubile. L'eresiateologica non è dunque in questo caso che l'espressione di uncontrosenso metafisico, com'è d'altronde il caso abituale; ma ilpericolo, inesistente per la metafisica pura, diventava ben realenella prospettiva religiosa, perché l'assurdità sotto tal formaderivata non assumeva più un aspetto così evidente.

La concezione teologica della “creazione” è una traduzioneappropriata della concezione metafisica della “manifestazioneuniversale”, e quella che meglio si adatta alla mentalità deipopoli occidentali; non si può però stabilire equivalenza tra ledue, giacché tra di esse intercorre tutta la differenza delleprospettive a cui rispettivamente si riferiscono: ecco un nuovoesempio che giunge a sostegno di quanto esponemmo nelcapitolo precedente.

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8 ‐ PENSIERO METAFISICOE PENSIERO FILOSOFICO

Abbiam detto che la metafisica, profondamente separatadalla scienza, non meno separata è anche da tutto ciò che gliOccidentali, soprattutto moderni, designano col nome difilosofia, sotto il quale si trovano del resto riuniti elementi dellapiù grande eterogeneità, se non addirittura incompatibili. Pocoimporta qui l'intenzione prima che i Greci possono aver volutoracchiudere nella parola filosofia, la quale agli inizi sembraaver compreso ogni conoscenza umana, nei limiti almeno entroi quali essi erano in grado di concepirla; noi intendiamooccuparci esclusivamente di ciò che sotto questadenominazione esiste attualmente di fatto.

Tuttavia è utile far notare prima di tutto che anche quando vifu in Occidente metafisica vera, si cercò sempre di mescolarlaa considerazioni procedenti da angoli visuali speciali econtingenti per farla con esse rientrare in un assieme portante ilnome di filosofia; ciò dimostra che i caratteri essenziali dellametafisica, con le distinzioni profonde che essi coinvolgono,non vi furono mai fatti risaltare con sufficiente chiarezza.

Potremmo dire di più: trattare la metafisica come un ramodella filosofia, ponendola sullo stesso piano di cose relativequalsiasi, o definendola, come fece Aristotele, “filosofiaprima”, rivela un essenziale disconoscimento del suo caratteredi universalità; il tutto assoluto non può essere parte diqualcosa, e ciò che è universale non può venir racchiuso ocompreso in checchessia. Da solo, questo fatto è dunque giàsegno evidente del carattere d'incompletezza della metafisicaoccidentale, la quale in fondo si riduce alla dottrina diAristotele e degli scolastici, giacché, ad eccezione di

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considerazioni frammentarie che si possono ritrovare sparsequa e là, o di cose non conosciute in modo sufficientementesicuro, non si incontra in Occidente, per lo meno a partiredall'antichità classica, nessun'altra dottrina veramentemetafisica, sia pure con le restrizioni rese necessarie dallamescolanza con elementi contingenti scientifici teologici od'altra natura; dei filosofi alessandrini non parleremo, perché sudi loro agirono direttamente influenze orientali.

Esaminando la filosofia moderna nel suo insieme possiamodire, e ciò in modo generale, che il suo modo di guardare allecose non presenta nessuna differenza realmente essenziale daquello della scienza: si tratta in entrambi i casi d'un punto divista razionale, o che per lo meno tale pretende di essere, eogni conoscenza che si rinchiude nella sfera della ragione,venga essa gratificata del titolo di filosofica o no, è unaconoscenza di carattere propriamente scientifico; se mira adessere qualcos'altro essa perde di conseguenza ogni valoreanche relativo, perché si attribuisce così una portata che nonpuò avere legittimamente: si tratterà in tal caso di ciò che puòessere chiamato pseudometafisica.

D'altronde la distinzione tra sfera filosofica e sferascientifica è ancor meno giustificata, in quanto la primacomprende tra i suoi molteplici elementi scienze che sono tantospeciali e ristrette quanto qualsiasi altra, senza nessun carattereche possa distinguerle in modo tale da accordar loro unaposizione privilegiata; scienze simili, come la psicologia o lasociologia, per fare qualche esempio, vengono chiamatefilosofiche esclusivamente per un'abitudine che non si fonda sunessuna ragione logica; la filosofia non ha quindi, tuttosommato, che un'unità solo apparente, o storica se si vuole,senza che esistano ragioni ben definite perché non sia invalsa osi sia conservata l'abitudine di farvi rientrare quante altre

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Pensiero Metafisico e Pensiero Filosofico

scienze si vogliano. Per di più, scienze che a una certa epocavenivano considerate filosofiche, tali non sono più ai nostrigiorni, ed è bastato per esse assumere maggior sviluppo peruscire da simile insieme mal definito, senza tuttavia che la loronatura sia cambiata minimamente; nel fatto che alcune di essevi permangano ancora non si deve veder altro che un vestigiodell'estensione che i Greci all'inizio avevano dato alla filosofia,la quale effettivamente dovette comprendere tutte le scienze.

Ciò detto, risulta evidente che la vera metafisica non puòavere maggiori rapporti, né rapporti di natura diversa, peresempio con la psicologia, di quanti ne abbia con la fisica o lafisiologia: si tratta infatti, ed esattamente allo stesso titolo, discienze della natura, di scienze fisiche, cioè, nel senso originalee generale della parola. A maggior ragione la metafisica nonpuò dipendere in nessun modo da una di queste scienzespeciali: pretendere di darle un fondamento psicologico, comevorrebbero certi filosofi i quali non hanno altra attenuante oltrequella di ignorare completamente cos'essa sia in realtà, è volerfar dipendere ciò che è universale da ciò che è individuale,ovvero il principio dalle sue più o meno indirette e lontaneconseguenze, e sotto un altro riguardo vuol dire pureincamminarsi fatalmente verso una concezione antropomorfica,perciò propriamente anti-metafisica.

La metafisica dev'essere necessariamente sufficiente a sestessa, trattandosi della sola conoscenza veramente immediata,e non può esser fondata su nessun'altra cosa perché essa è laconoscenza dei principi universali dai quali tutto il restodiscende, compresi gli oggetti di tutte le scienze, che questeultime però isolano dai principi per prenderli in considerazionesecondo le loro prospettive particolari; ciò è d'altrondeperfettamente legittimo da parte delle scienze, giacché esse nonpotrebbero agire in modo diverso e ricollegare i loro oggetti a

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principi universali senza uscire dai confini delle loro sfereproprie.

Quest'ultima osservazione prova altresì che non èassolutamente possibile fondare direttamente le scienze sullametafisica: la relatività stessa dei loro punti di vista sta adassicurar loro, sotto questo riguardo, una certa qual autonomiail cui disconoscimento non può aver altro risultato che diprovocare urti proprio dove normalmente non dovrebberoessercene; un simile errore, che pesa gravemente su tutta lafilosofia moderna, fu commesso all'inizio da Cartesio, il qualed'altronde non ebbe a fare che della pseudo-metafisica e per dipiù non se ne interessò che come ad una introduzione alla suafisica, alla quale egli credeva con ciò di dare fondamenti piùsolidi.

Venendo ora alla logica, il caso è un po' diverso da quellodelle scienze che abbiamo finora esaminato e che possonoessere tutte dette sperimentali, avendo come fondamento i datidell'osservazione. La logica è anch'essa una scienza speciale,consistendo essenzialmente nello studio delle condizioniproprie all'intendimento umano; ha però un legame più direttocon la metafisica perché quelli che vengono chiamati i principilogici non sono che l'applicazione e la specificazione in undeterminato dominio dei veri principi, di carattere universale;nei loro confronti può dunque essere effettuata unatrasposizione dello stesso genere di quella di cui noiindicammo la possibilità a proposito della teologia.

La stessa osservazione può farsi per le matematiche: questeultime, anche se di portata ristretta perché confinate in modoesclusivo nel solo dominio della quantità, applicano al lorospeciale oggetto principi relativi che possono venir consideratiuna determinazione immediata nei confronti di certi principiuniversali. In tal modo la logica e le matematiche sono in tutta

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la sfera delle scienze quel che può offrire di più quanto a realirapporti con la metafisica; resta inteso però che, poichérientrano nella definizione generale della conoscenzascientifica, vale a dire nei confini della ragione e nella sferadelle concezioni individuali, esse sono ancora profondamenteseparate dalla metafisica pura.

Tale separazione fa sì che non si possa accordare un valoreeffettivo a prospettive che si presentano come più o menomiste, tra la logica e la metafisica, quali le “teorie dellaconoscenza” che tanta importanza hanno assunto nella filosofiamoderna; ridotte a quanto possono contenere di legittimo,simili teorie non sono che pura e semplice logica, e quando edove abbiano la pretesa di andare oltre la logica non sono piùche fantasie pseudo-metafisiche senza la minima consistenza.In una dottrina tradizionale la logica non può occupare che ilposto d'un ramo di conoscenza secondario e subordinato, edinfatti proprio questo accade sia in Cina che in India;similmente alla cosmologia, il cui studio fu conosciuto anchedal medio evo occidentale ma che la filosofia moderna ignora,essa non è, tutto sommato, che un'applicazione dei principimetafisici a un punto di vista speciale e in un determinatodominio; avremo d'altronde occasione di riparlarne a propositodelle dottrine indù.

Quanto abbiamo detto dei rapporti tra metafisica e logicapuò aver alquanto stupito coloro che sono abituati a pensareche la logica domini in un certo senso ogni possibileconoscenza, giacché qualsiasi speculazione, di qualunquegenere essa sia, può esser valida solo a condizione diconformarsi rigorosamente alle sue leggi; tuttavia è evidenteche la metafisica, sempre a causa della sua universalità, comenon può dipendere da nessun'altra scienza, nemmeno dovràdipendere dalla logica, e si può aggiungere che simile errore

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deriva dal fatto di non saper intendere la conoscenza se nonnella sfera della ragione.

Occorre soltanto far qui una distinzione tra la metafisica inse stessa, quale concezione intellettuale pura, e la suaesposizione formulata: mentre la prima sfugge nel modo piùtotale alle limitazioni individuali e perciò alla ragione, laseconda, nella misura in cui è possibile, non può consistere chein una sorta di traduzione delle verità metafisiche in mododiscorsivo e razionale, giacché la costituzione stessa d'ognilinguaggio umano non permette che possa avvenire altrimenti.

La logica, come le matematiche, è esclusivamente unascienza di ragionamento; l'esposizione metafisica può rivestireun carattere analogo nella sua forma, ma nella forma soltanto, ese essa deve conformarsi per conseguenza alle leggi dellalogica, la ragione di ciò è che queste leggi stesse hanno unfondamento metafisico essenziale, in mancanza del qualesarebbero prive d'ogni valore; occorre però allo stesso tempoche questa esposizione, per avere una portata metafisica reale,venga sempre formulata in modo tale da lasciare aperte, comegià indicammo, possibilità di concezione illimitate come ildominio stesso della metafisica.

Per quanto riguarda la morale, trattando della prospettivareligiosa abbiamo in parte detto cosa se ne possa pensare,riservandoci però allora di tornare sulla sua concezionefilosofica, e ciò perché quest'ultima è nettamente diversa dallaconcezione che di essa si ha in religione. In tutta la sfera dellafilosofia non c'è nulla che sia più relativo e contingente dellamorale; veramente non si tratta nemmeno più di conoscenza,sia pure di tipo ristretto, bensì semplicemente di un insieme diconsiderazioni più o meno coerenti il cui scopo e la cui portatasono esclusivamente pratici anche se, pure a questo riguardo, cisi facciano troppo sovente illusioni. Di fatto, in morale non si

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Pensiero Metafisico e Pensiero Filosofico

tratta d'altro che di formulare regole applicabili all'azioneumana, la ragion d'essere delle quali risiede tutta quanta nellasfera sociale, giacché regole di questa fatta non potrebbero aversenso se non tenendo conto che gli individui umani vivono insocietà e formano collettività più o meno organizzate; per dipiù esse vengono formulate ponendosi da un angolo visualespeciale, il quale invece di mantenersi esclusivamente socialecome avviene presso gli Orientali, è specificamente morale, ecome tale è sconosciuto alla maggior parte dell'umanità.

Vedemmo già come questo punto di vista possa introdursinelle concezioni religiose in grazia del ricollegamento dellasfera sociale a una dottrina che abbia subito l'influenza dielementi sentimentali; ma, a parte questo caso, non è troppochiaro quale possa esserne la giustificazione. Fuori dellaprospettiva religiosa che dà un senso alla morale, tutto ciò chea quest'ordine si riferisce dovrebbe secondo logica ridursi a uninsieme di pure e semplici convenzioni, stabilite e osservateall'unico scopo di rendere la vita in società possibile esopportabile; naturalmente, riconosciuto così francamentequesto carattere di convenzionalità e accettatolo,scomparirebbe con ciò stesso la morale filosofica.

È la sentimentalità che anche qui interviene, la quale pertrovar modo di soddisfare i suoi bisogni particolari fa di tuttoper far passare le convenzioni di cui dicevamo per ciò che nonsono: di qui tutto uno spiegamento di considerazioni diverse,alcune delle quali dichiaratamente sentimentali tanto nellaforma che nel contenuto, altre nascoste sotto apparenze più omeno razionali. E d'altronde se la morale, come tutto ciò cheriguarda le contingenze sociali, varia moltissimo secondo itempi e i paesi, le teorie morali che compaiono in un'areadeterminata, per quanto opposte possano apparire, tendonotutte a giustificare certe regole pratiche, le quali sono sempre

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quelle che comunemente si possono osservare in quellamedesima area; ciò dovrebbe bastare a provare che simili teoriesono prive d'ogni reale valore, costruite come sono “aprèscoup” da ogni filosofo per mettere la propria condotta e quelladei suoi simili, o anche soltanto di quelli che sono a lui piùvicini, in accordo con le proprie idee e soprattutto con i proprisentimenti.

È notevole il fatto che il nascere di simili teorie morali siverifica soprattutto in epoche di decadenza intellettuale, e ciòindubbiamente perché tale decadenza è correlativa, osubordinata, all'espansione del sentimentalismo, e perchédandosi così a speculazioni illusorie si conserva per lo menol'apparenza del pensiero, che manca; un fenomeno del genere siprodusse in modo particolare presso i Greci quando la lorointellettualità ebbe dato, con Aristotele, tutto quel che potevadare: per le scuole filosofiche posteriori, tali quelle degliEpicurei e degli Stoici, tutto fu subordinato al punto di vistamorale, e fu ciò che procurò loro il favorevole successoriscosso presso i Romani, per i quali ogni speculazione piùelevata sarebbe stata troppo difficilmente accessibile.

Lo stesso carattere si riscontra all'epoca attuale, in cui il“moralismo” diventa stranamente invadente, ma questa volta acausa del processo degenerativo del pensiero religioso, comeben dimostra il caso del Protestantesimo; ed è in fondo naturaleche popoli dalla mentalità esclusivamente pratica, la cui civiltàè soltanto materiale, cerchino di soddisfare le loro aspirazionisentimentali con il falso misticismo che ha una delle sueespressioni nella morale filosofica.

Abbiamo passato in rassegna tutti i rami della filosofia cheabbiano caratteri ben definiti; ma oltre ad essi esistono nelpensiero filosofico ogni sorta d'elementi piuttosto mal definitiche appaiono difficili da far rientrare in qualcuno di questi rami

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Pensiero Metafisico e Pensiero Filosofico

e il cui legame non è costituito da nessuna caratteristica propriadella loro natura, ma soltanto dal fatto di essere raggruppati inuna stessa concezione sistematica. Per questa ragione èopportuno, dopo aver separato in modo completo la metafisicadalle differenti scienze chiamate filosofiche, distinguerlaancora, e non meno profondamente, dai sistemi filosofici, unadelle ragioni più comuni dell'esistenza dei quali è, comedicemmo, la pretesa all'originalità intellettuale;l'individualismo affermantesi in tale pretesa è evidentementecontrario allo spirito tradizionale e altrettanto incompatibilecon qualsiasi concezione di reale valore metafisico.

La metafisica pura esclude il sistema in modo essenziale,perché qualsiasi sistema ha le caratteristiche di una concezionechiusa e limitata, ciò che è assolutamente incompatibile conl'universalità della metafisica; inoltre, un sistema filosofico èsempre il sistema di qualcuno, ossia una costruzione il cuivalore non può essere che esclusivamente individuale. Per dipiù tutti i sistemi sono necessariamente fondati su premessespeciali e relative, e di essi si può dire che non sono se non losviluppo di un'ipotesi, mentre la metafisica, la quale hacarattere di certezza assoluta, non ammette nulla d'ipotetico.

Non vogliamo con ciò dire che i sistemi non possanocontenere una certa parte di verità per ciò che riguarda questo oquel punto determinato; è in quanto sistemi che essi sonoillegittimi, ed è alla forma sistematica in sé che è imputabile laradicale falsità di simili concezioni prese nel loro insieme. Aragione Leibnitz diceva che “ogni sistema è vero per quel cheafferma e falso per ciò che nega”, vale a dire in fondo che essoè tanto più falso quanto maggiormente ristretto, o, il che vuoldire la stessa cosa, maggiormente sistematico, giacché unaconcezione di questo genere conclude inevitabilmente per lanegazione di quanto è incapace di contenere; sennonché, ad

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essere coerenti, questa osservazione così come si applica aglialtri filosofi si deve applicare a Leibnitz stesso, nella misura incui la sua concezione si presenta anch'essa come un sistema;d'altronde tutto ciò che è contenuto di vera metafisica nellaconcezione di Leibnitz è tratto dalla scolastica, e soventesnaturato, per di più, perché mal compreso.

Quanto alla verità di ciò che un sistema afferma, non è cheessa sia il risultato di un “eclettismo” qualsivoglia; con ciò sideve intendere solamente che un sistema è vero nella misura incui resta aperto su possibilità meno limitate, il che è d'altrondeevidente, ma porta con sé, precisamente, la condanna delsistema in quanto tale. La metafisica, al di fuori e al di là diogni relatività, le quali appartengono tutte all'ordineindividuale, sfugge con ciò stesso ad ogni tentativo dirinchiuderla in un sistema, così come, per la stessa ragione, nonsi lascia rinchiudere in nessuna formula.

È ora più facile capire cosa noi intendiamo esattamente perpseudo-metafisica: si tratta di tutto ciò che, nei sistemifilosofici, si presenti con pretese metafisiche completamenteingiustificate a causa della stessa forma sistematica, la qualebasta da sola a privare le considerazioni di questo genere diogni valore reale. Alcuni dei problemi che il pensiero filosoficosi pone abitualmente appaiono anzi privi, non soltanto di ogniimportanza, ma addirittura d'ogni significato; si tratta di tuttauna congerie di questioni che non si reggono che su equivoci osu confusioni di angoli visuali, che devono in fondo la loroesistenza al solo fatto di esser state mal poste, e che nonavrebbero affatto avuto ragione di porsi; in molti casibasterebbe dunque metterne a fuoco l'enunciato perché essescomparissero senz'altro, ma la filosofia ha al contrario ilmassimo interesse a conservarle perché è soprattutto diequivoci che vive. Altre questioni esistono però, riferentisi ai

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più diversi ordini di idee, che possono aver ragione di porsi, mala cui enunciazione precisa ed esatta comporterebbe lasoluzione pressoché immediata, essendo la loro difficoltà moltopiù verbale che reale; ad ogni modo, anche se tra questequestioni ve n'è qualcuna la cui natura sarebbe tale da poterleconferire un certo valore metafisico, esso va perdutointeramente con la sua inclusione in un sistema, giacché non èsufficiente che una questione sia di natura metafisica, mabisogna ancora che, riconosciuta per tale, essa venga presa inesame e trattata in modo metafisico, È infatti evidente che unastessa questione può esser trattata tanto da un angolo visualemetafisico, quanto da qualunque altro punto di vista; leconsiderazioni che la maggior parte dei filosofi hanno credutobene di fare intorno a ogni sorta di cose possono perciò esserepiù o meno interessanti in sé, ma non hanno in ogni caso nientedi metafisico.

È quanto meno spiacevole che la mancanza di chiarezzapropria del pensiero occidentale, che si rivela così nelleconcezioni come nel loro modo d'espressione, provocandodiscussioni che si trascinano indefinitamente senza possibilitàdi soluzione, lasci libero il campo a una gran quantità di ipotesiche certamente possono, a diritto, venir dette filosofiche, mache niente assolutamente hanno di comune con la verametafisica. Possiamo ancora far notare, a questo proposito, eparlando in modo generale, che le questioni che nascono percosì dire incidentalmente e non presentano che un interesseparticolare e momentaneo, come molte di quelle che si possonotrovare nella storia della filosofia moderna, sono per ciò stessopalesemente prive di qualsiasi carattere metafisico, talecarattere non essendo altro che l'universalità; d'altronde lequestioni di questo genere appartengono generalmente allacategoria dei problemi la cui esistenza è del tutto artificiale. Ha

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carattere veramente metafisico, ripetiamo, soltanto ciò che èassolutamente stabile, permanente, indipendente da ognicontingenza e in particolare dalle contingenze storiche; èmetafisico ciò che non muta, ed è l'universalità propria dellametafisica a originare la sua unita essenziale, che esclude lamolteplicità dei sistemi filosofici così come esclude quella deidogmi religiosi ed è causa della sua immutabilità profonda.

Da ciò che precede discende inoltre che la metafisica èsenza nessun rapporto con tutte quelle concezioni che, comel'idealismo, il panteismo, lo spiritualismo, il materialismo, sonosegnate dal carattere sistematico del pensiero filosoficooccidentale; e questa osservazione è tanto più opportuna aquesto punto, ché una delle manie comuni agli orientalisti èproprio di volere a ogni costo far rientrare il pensiero orientalein questi schemi ristretti, che per esso non sono assolutamentefatti; più tardi dovremo segnalare in modo speciale l'abuso chesi fa di queste vane etichette, o per lo meno di qualcuna di esse.

Su di un solo punto vogliamo insistere per il momento: ladisputa fra lo spiritualismo e il materialismo, attorno alla qualeruota quasi tutto il pensiero filosofico da Cartesio in poi, nontocca per nulla la metafisica pura; si tratta piuttosto d'unesempio di quelle questioni transitorie a cui facevamo allusionepiù sopra. Di fatto il dualismo “spirito-materia” non si era maiposto come assoluto e irriducibile prima della concezionecartesiana; gli antichi, e particolarmente i Greci, nonpossedevano nemmeno la nozione di “materia” nel sensomoderno di questa parola, così come non la possiedono ancoraattualmente la maggior parte degli Orientali: in sanscrito nonesiste nessuna parola che corrisponda a tale nozione, anchesoltanto approssimativamente. La concezione di una dualità diquesto genere ha l'unico merito di rappresentare abbastanzabene l'apparenza esteriore delle cose; ma precisamente perché

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non tocca che le apparenze essa è solo superficiale, eponendosi, come fa, da un angolo visuale specialeesclusivamente individuale, essa diviene negatrice di ognimetafisica dal momento in cui le si vuole attribuire un valoreassoluto affermando l'irriducibilità dei suoi due termini,affermazione nella quale il dualismo propriamente dettoconsiste.

D'altra parte è da vedersi, in questa opposizione dello spiritoe della materia, non altro che un caso particolarissimo didualismo, poiché i due termini dell'opposizione potrebberoessere del tutto diversi dai precedenti due principi relativi, esarebbe addirittura possibile concepire, secondo la stessaprospettiva ma usando di determinazioni diverse e più o menospeciali, una indefinità di coppie di termini correlativi differentida quella da noi esaminata. In via del tutto generale il caratteredistintivo del dualismo è di arrestarsi a un'opposizione tra duetermini più o meno particolari, opposizione che a un certolivello esiste senza dubbio in modo ben reale, e costituisce laparte di verità contenuta nel dualismo; ma dichiarando questaopposizione irriducibile e assoluta, mentre essa è soltantorelativa e contingente, il dualismo impedisce a se stesso dipassare di là dai due termini che ha posto in tal modo uno difronte all'altro, ed in tal modo si ritrova limitato da ciò stessoche fa di esso un sistema.

Qualora tale limite non sia accettato e si voglia risolverel'opposizione a cui il dualismo si tiene ostinatamenteaggrappato, soluzioni diverse possono affacciarsi; prime, netroviamo due infatti nei sistemi filosofici che possiamoclassificare sotto la denominazione comune di monismo. Sipuò dire che il monismo è caratterizzato in modo essenziale daquesto, che, non ammettendo l'irriducibilità assoluta e volendoandar oltre l'opposizione apparente, crede di poterci riuscire

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riducendo uno dei due termini all'altro; se, in particolare, sitratta dell'opposizione di spirito e materia, si avrà da una parteil monismo spiritualista, il quale pretende di ridurre la materiaa spirito, e dall'altra il monismo materialista, che pretende alcontrario di ridurre lo spirito a materia. Il monismo, qualunqueesso sia, ha ragione di ammettere che non vi è opposizioneassoluta, giacché così facendo risulta meno rigorosamentelimitato del dualismo, e per lo meno può esser inteso come unosforzo di penetrazione maggiore verso il fondo delle cose; senon che gli accade quasi fatalmente di cadere in un altrodifetto, e di trascurare completamente, quando non di negare,l'opposizione, la quale, anche se non è che un'apparenza, nonperciò è meno meritevole di venir considerata come tale; anchequi è l'esclusività del sistema che è il primo dei suoi difetti.

D'altronde, volendo ridurre direttamente uno dei due terminiall'altro non si può mai uscire completamente dall'alternativaposta dal dualismo, poiché nulla viene a emergere che sia al difuori di quegli stessi due termini che da esso erano stati posticome principi fondamentali; anzi si potrebbe addiritturachiedersi, giacché questi due termini sono correlativi, se l'unoconserva la propria ragion d'essere senza l'altro, e se è logicoconservare l'uno quando si sopprima l'altro. Inoltre, ci si trovacosì di fronte a due soluzioni che in fondo si equivalgonomolto più di quel che non sembri se si resta alla superficie dellecose: che il monismo spiritualista affermi che tutto è spirito, eil monismo materialista che tutto è materia, ciò non ha inconclusione che un'importanza molto ridotta, tanto più checiascuno dei due viene a trovarsi obbligato ad attribuire alprincipio che mantiene le proprietà più essenziali del principioche sopprime. Si comprenderà facilmente come, su simileterreno, la discussione tra spiritualisti e materialisti deva benpresto degenerare in una pura e semplice controversia di

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parole; in realtà le due opposte soluzioni moniste non sono chele due facce d'una doppia soluzione, in sé al tutto insufficiente.È a questo punto che un'altra soluzione deve intervenire; ma,mentre col dualismo e con il monismo non si trattava che didue tipi di concezioni sistematiche di carattere semplicementefilosofico, ora si tratterà d'una dottrina che al contrario si poneda un angolo visuale metafisico, la quale per conseguenza nellafilosofia occidentale non ricevette nessuna denominazione enon poté che passare ignorata.

Designeremo questa dottrina coll'appellativo di “non-dualismo”, o meglio ancora come la “dottrina dellanondualità”, volendo tradurre nel modo più esatto possibile iltermine sanscrito “adwaitavada”, il quale non ha equivalenteabituale in nessuna lingua europea; la prima di queste dueespressioni ha la prerogativa d'essere più breve della seconda,perciò ce ne serviremo volentieri, e tuttavia presenta uninconveniente, dovuto alla presenza dell'uscita in “ismo” laquale, nel linguaggio filosofico, è abitualmente usata nelladenominazione dei sistemi; sarebbe però possibile, questo èvero, sostenere che la negazione si riferisce alla parola“dualismo” nel suo insieme, vale a dire in quantocomprendente la propria terminazione, intendendo che lanegazione va precisamente applicata al dualismo comeconcezione sistematica.

Pur non ammettendo, come il monismo, alcuna irriducibiliassoluta, il “nondualismo” differisce da essa profondamenteperché non pretende affatto, con ciò, che uno dei due terminisia riducibile all'altro così semplicemente; essa li consideral'uno e l'altro simultaneamente nell'unita di un principiocomune, di carattere più universale, nel quale essi sonoentrambi contenuti non più come opposti, ma qualicomplementari, per una specie di polarizzazione che non

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compromette assolutamente l'unità essenziale del loro principiocomune. In tal modo l'intervento del punto di vista metafisicoha come effetto di risolvere immediatamente l'apparenteopposizione (e solo il suo intervento può del resto avere questoeffetto), quando il punto di vista filosofico rivela invece la suaimpotenza a ciò; e quel che è vero per la distinzione spirito-materia è ugualmente vero per qualsiasi altra distinzione tratutte quelle che in modo analogo si potrebbero stabilire fraaspetti più o meno speciali dell'essere, e che sono inmolteplicità indefinita.

La ragione che permette di prendere in tal modo in esame insimultaneità tutta l'indefinità delle possibili distinzioni diquesto genere, le quali sono tutte in ugual modo vere elegittime dai loro punti di vista rispettivi, è che non si è piùprigionieri in uno schema sistematico ridotto a una sola di talidistinzioni, a esclusione di tutte le altre; il “non-dualismo” ècosì l'unico tipo di dottrina che sia consono all'universalitàdella metafisica. I diversi sistemi filosofici possono in generalerichiamarsi, sotto l'uno o l'altro aspetto, o al dualismo o almonismo; ma il “non-dualismo” solo, di cui abbiamo appenaindicato il principio, è in grado di oltrepassare immensamentela portata di ogni filosofia, perché esso solo è propriamente epuramente metafisico nella propria essenza, o, detto in altritermini, esso solo è espressione del carattere più essenziale epiù fondamentale della metafisica.

Se abbiamo creduto necessario che queste osservazioniavessero l'ampiezza notevole che di fatto abbiamo loro dato,ciò fu causato dall'ignoranza in cui l'Occidente si trovacomunemente nei confronti di tutto ciò che riguarda la verametafisica, e dal fatto che le considerazioni da noi espostehanno con l'oggetto della nostra trattazione un legame moltodiretto, checché se ne possa pensare, poiché il centro unico di

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Pensiero Metafisico e Pensiero Filosofico

tutte le dottrine d'Oriente è la metafisica, così che nulla si puòcomprendere di esse se prima non si sia acquisita di ciò che è lametafisica una nozione almeno sufficiente a evitare ognipossibile confusione. Mettendo in rilievo tutta la differenza chesepara un pensiero metafisico da un pensiero filosofico,abbiamo inteso far vedere come i problemi classici dellafilosofia, anche quelli da essa considerati i più generali, nonoccupino rigorosamente nessun posto nei confronti dellametafisica pura: la trasposizione, il cui effetto è d'altrondequello di far apparire il senso profondo di talune verità, fasvanire in nulla questi pretesi problemi, ciò che precisamentedimostra come essi non abbiano nessun significato profondo.

D'altra parte questa trattazione ci ha dato occasione diaccennare al significato del concetto di “non-dualità”, la cuicomprensione, essenziale ad ogni metafisica, non meno lo è perl'interpretazione più particolare delle dottrine indù; e ciò ènaturale, dal momento che queste dottrine sono di essenzapuramente metafisica.

Faremo ancora un rilievo, di capitale importanza; nonsoltanto la metafisica non può venir costretta dallaconsiderazione di una qualunque dualità d'aspetticomplementari dell'essere, si tratti di aspetti specialissimi comela spirito e la materia, o al contrario di aspetti quanto maiuniversali, come quelli che possono venir designati dai termini“essenza” e “sostanza”, ma nemmeno essa potrebbe essercostretta dal concetto dell'essere puro in tutta la suauniversalità, e ciò perché essa non deve esser costretta elimitata assolutamente da nulla. Non si può, come feceAristotele, definire in modo esclusivo la metafisica come“conoscenza dell'essere”: tale è propriamente l'ontologia, laquale se indubbiamente è di competenza della metafisica,tuttavia non per ciò è tutta la metafisica; è sotto questo riguardo

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che tutto quel che di metafisica v'è stato in Occidente è semprerimasto incompleto e insufficiente, così come sotto un altroaspetto che indicheremo più avanti. L'essere non è in realtà ilpiù universale di tutti i principi, ciò che sarebbe necessarioperché la metafisica si riducesse all'ontologia, e la ragione diciò consiste in questo, che pur essendo la più primordiale ditutte le determinazioni possibili esso è tuttavia già unadeterminazione, e ogni determinazione è una limitazione, allaquale la prospettiva metafisica non può arrestarsi.

D'altronde un principio è evidentemente tanto menouniversale quanto più è determinato, e perciò relativo; si puòdire che, in modo in qualche sorta matematico, un “più”determinativo equivale a un “meno” metafisico. Questaindeterminazione assoluta dei principi più universali, di quelliperciò di cui si deve tener conto prima di tutti gli altri, è causadi difficoltà abbastanza serie, non quanto alla concezione, salvoforse per coloro che non ci sono abituati, ma per lo menoquanto all'esposizione delle dottrine metafisiche, e spessoobbliga a servirsi esclusivamente di espressioni che nella loroforma esteriore sono puramente negative.

È a causa di ciò, per esempio, che l'idea dell'Infinito, laquale è in realtà la più positiva di tutte, poiché l'Infinito nonpuò essere che il tutto assoluto, ciò che non essendo limitato danulla nulla lascia fuori di sé, quest'idea dicevamo, non puòessere espressa che da un termine di forma negativa, perché nellinguaggio ogni affermazione diretta è per natura di cosel'affermazione di qualcosa, ovvero un'affermazione particolaree determinata; ma la negazione di una determinazione o di unalimitazione è propriamente la negazione di una negazione, eperciò una vera e propria affermazione, così che la negazionedi ogni determinazione equivale in fondo all'affermazioneassoluta e totale.

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Pensiero Metafisico e Pensiero Filosofico

Quel che diciamo dell'idea d'Infinito potrebbe applicarsianche a molte nozioni metafisiche di estrema importanza, maquesto esempio è sufficiente per quanto ci proponiamo di farcapire in questa occasione; del resto non bisogna maidimenticare che la metafisica pura è in se stessa assolutamenteindipendente da tutte le terminologie più o meno imperfettedelle quali cerchiamo di rivestirla per farla più accessibile allanostra comprensione.

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9 ‐ ESOTERISMO ED EXOTERISMO

Abbiamo incidentalmente accennato, nel corso delleconsiderazioni preliminari, alla distinzione abbastanzageneralmente conosciuta che esistette in alcune, se non in tutte,le scuole filosofiche dell'antica Grecia; alla distinzione cioè tradue aspetti d'una stessa dottrina, uno più interiore e l'altro piùesteriore: è tutto qui il significato letterale dei due termini.

L'exoterismo, che comprendeva ciò che è più elementare,più facilmente comprensibile, e di conseguenza tale da poteressere messo più largamente alla portata di tutti, era il solo adessere espresso nell'insegnamento scritto quale ci è pervenutopiù o meno completamente; l'esoterismo, più profondo,d'ordine più elevato e come tale rivolgentesi ai soli discepoliregolari della scuola, preparati in modo speciale a capirlo, eraoggetto d'un insegnamento esclusivamente orale, sulla naturadel quale è evidente che non hanno potuto conservarsi datimolto precisi. È importante capire che, giacché non si trattavache di una sola e stessa dottrina sotto due aspetti differenti, ecome a due livelli diversi di insegnamento, tali aspetti nonpotevano in nessun modo essere opposti e contraddittori, bensìdovevano essere complementari; l'esoterismo sviluppava ecompletava, dandogli un senso più profondo (il qualenell'exoterismo era contenuto per così dire solo virtualmente),quanto l'exoterismo esponeva in forma troppo vaga, tropposemplificata e talvolta più o meno simbolica; con l'aggravanteche il simbolo assunse troppo spesso per i Greci quell'aspettoesclusivamente letterario e poetico che portò alla suadegenerazione in semplice allegoria.

Naturalmente l'esoterismo poteva, nella stessa scuola,suddividersi a sua volta in diversi gradi d'insegnamento, di

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profondità variabile, e i discepoli passavano successivamentedall'uno all'altro secondo lo stato della loro preparazione,potendo spingersi più o meno lontano a misura delle loroattitudini intellettuali; ma è tutto qui ciò che si può dire inmodo certo di queste scuole.

Questa distinzione tra esoterismo ed exoterismo non si èpunto mantenuta nella filosofia moderna, la quale non èveramente niente di più di ciò che esteriormente dà a vedere diessere e che, per ciò che ha da insegnare, non ha certo bisognodi alcun esoterismo, giacché tutto quanto è veramente profondosfugge totalmente alla sua ristretta prospettiva. Si pone ora laquestione di sapere se tale concezione di due aspetticomplementari di una dottrina fu particolare della Grecia; adire il vero, ci sarebbe da stupirsi se una simile divisione, chein fondo sembra abbastanza naturale nel suo principio, fosserestata così eccezionale; e infatti le cose non stanno così.

Innanzi tutto, si potrebbero trovare in Occidente, e ciò findall'antichità, certe scuole generalmente molto chiuse e per talmotivo più o meno mal conosciute, le quali non erano affattoscuole filosofiche, e le cui dottrine si esprimevano all'esternosoltanto sotto il velo di certi simboli che dovevano parereestremamente oscuri a coloro che non ne possedevano lachiave; questa chiave veniva data soltanto agli aderenti cheavevano preso determinati impegni e la cui discrezione erastata provata in modo sufficiente, insieme con la loro capacitaintellettuale.

Questo caso, il quale implica in modo evidente che dovevatrattarsi di dottrine abbastanza profonde da esserecompletamente estranee alla mentalità comune, sembra esserestato frequente soprattutto nel medio evo, ed è questa una delleragioni per le quali, quando si tratta dell'intellettualità di taleepoca, è sempre necessario far riserve su quanto poté esistere

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Esoterismo ed Exoterismo

oltre a ciò che ci è conosciuto in modo sicuro; è evidente infattiche, qui come nell'esoterismo greco, molte cose sono dovuteandar perdute per non esser mai state insegnate altro cheoralmente, che è anche, come già indicammo, la spiegazionedella perdita pressoché totale della dottrina druidica. Tra lescuole a cui abbiamo fatto allusione possiamo ricordare a modod'esempio gli alchimisti, la dottrina dei quali era di caratteresoprattutto cosmologico; la cosmologia deve del resto sempreavere come fondamento un certo insieme più o meno esteso diconcetti metafisici.

Si potrebbe dire che i simboli contenuti negli scrittialchimistici formino in questo caso l'exoterismo, mentre la lorointerpretazione riservata costituiva l'esoterismo; sennonché laparte dell'exoterismo è allora ridottissima, e addirittura, giacchéesso non ha altra ragion d'essere che in rapporto conl'esoterismo e in vista di esso, ci si potrebbe domandare seconvenga ancora applicare questi due termini. Esoterismo edexoterismo sono infatti essenzialmente correlativi, come indicala forma comparativa delle due parole, cosicché dove non v'èexoterismo non è nemmeno più il caso di parlare di esoterismo;quest'ultima designazione, se si ha interesse a conservarne ilsenso proprio, non può perciò servire a qualificareindistintamente qualsiasi dottrina riservata, ad uso esclusivo diuna élite intellettuale.

Si potrebbe indubbiamente, ma in un'accezione molto piùvasta, parlare dell'esistenza di un esoterismo e di un exoterismoin qualunque dottrina, distinguendone la concezione el'espressione, la prima tutta interiore, di cui la seconda non èche l'esteriorizzazione; così, a rigore, ma allontanandosi dalsenso abituale, si può dire che la concezione rappresental'esoterismo e l'espressione l'exoterismo, e ciò in modonecessario, quale risultato della natura stessa delle cose.

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Concepita in tal modo, ogni dottrina metafisica conterràsempre qualcosa di esoterico, e si tratterà di quanto diinesprimibile comporta essenzialmente, come già spiegammo,ogni concezione realmente metafisica; si tratta di qualche cosache ciascuno deve concepire da se stesso, con l'aiuto delleparole e dei simboli che a tale concezione servonosemplicemente quale appoggio, e la comprensione delladottrina sarà più o meno completa e profonda a seconda dellamisura in cui questo qualcosa sarà effettivamente concepito.

Anche nelle dottrine di altro ordine, la cui portata non sispinge fino a ciò che è realmente e assolutamente inesprimibile(ed è il “mistero” nel senso etimologico della parola), non èmen vero che l'espressione non è mai del tutto adeguata alconcetto, di modo che, anche se in proporzione ben minore,qualcosa d'analogo vi si produce tuttavia: capisce veramentesoltanto chi sa veder più lontano delle parole, cosicché sipotrebbe dire che lo “spirito” di qualsiasi dottrina è di naturaesoterica, mentrela sua “lettera” è di natura exoterica.

Ciò sarebbe applicabile, in modo particolare, a tutti i testitradizionali, i quali hanno del resto molto spesso una pluralitàdi significati più o meno profondi che corrispondono adaltrettante prospettive differenti; sennonché, invece di cercar dipenetrare questi significati, si preferisce per solito dedicarsi afutili ricerche d'esegesi e di “critica dei testi”, secondo i metodilaboriosamente composti dalla più moderna erudizione; e untale lavoro, per quanto fastidioso sia e per quanta pazienzarichieda, è molto più facile dell'altro giacché è, per lo meno, aportata di qualsiasi intelligenza.

Un notevole esempio della pluralità dei significati di cuidicevamo ci è dato dall'interpretazione dei caratteri ideograficidei quali si compone la scrittura cinese: tutti i significati di cuitali caratteri sono suscettibili possono raggrupparsi intorno a tre

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Esoterismo ed Exoterismo

sensi principali, che corrispondono ai tre gradi fondamentalidella conoscenza; di essi il primo è di ordine sensibile, ilsecondo razionale, il terzo d'ordine intellettuale puro ometafisico; uno stesso carattere potrà così, per contenerci a uncaso molto semplice, venir usato analogicamente per designareil sole la luce e la verità, e soltanto la natura del contesto potràpermettere di riconoscere, secondo le applicazioni, di qualedelle tre accezioni converrà servirsi; da che gli errori svariatidei traduttori occidentali.

Con ciò si capirà come lo studio degli ideogrammi, la cuiimportanza sfugge completamente agli Europei, possa servir dibase a un insegnamento veramente integrale, che permette disviluppare e coordinare tutte le possibili concezioni su tutti ipiani; tale studio potrà perciò essere adottato, sotto angolivisuali diversi, a tutti i gradi dell'insegnamento, dal piùelementare al più elevato, e darà luogo di volta in volta a nuovepossibilità di concezione, trattandosi di uno strumentostraordinariamente appropriato all'esposizione di una dottrinatradizionale.

Torniamo ora alla questione di chiarire se la distinzione traesoterismo ed exoterismo, intesa stavolta nel suo senso proprio,possa venire applicata alle dottrine orientali. Per cominciare, latradizione è, nell'Islamismo, di duplice essenza, religiosa emetafisica, come già ci è occorso di dire; in questo caso si puòdefinire esattamente come exoterico l'aspetto religioso delladottrina, il quale è di fatto il più esteriore e alla portata di tutti,e come esoterico il suo aspetto metafisico, che ne forma ilsenso profondo ed è d'altronde considerato come dottrinadell'élite; inutile ripetere che in questo caso la distinzioneconserva il suo significato normale, trattandosi delle due facced'una sola e stessa dottrina. A questo proposito, è il caso diosservare che qualcosa d'analogo si ha nel Giudaismo, in cui

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l'esoterismo è costituito da ciò che porta il nome di Qabbalah,termine il cui significato primitivo non è nient'altro che quellodi “tradizione”, e che si applica allo studio delle significazionipiù profonde dei testi sacri, mentre la dottrina exoterica ocomune si ferma alla loro significazione più esteriore e piùletterale; unica differenza, la Qabbalah è in generale menopuramente metafisica dell'esoterismo musulmano, e subisceancora in certa misura l'influenza del punto di vistapropriamente religioso, in ciò assimilabile alla parte metafisicadella dottrina scolastica, insufficientemente svincolata dalleconsiderazioni teologiche.

Nell'Islamismo invece, la distinzione delle due prospettive èquasi sempre nettissima; tale distinzione permette di osservarein questo caso meglio che in qualsiasi altro, per ciò cheriguarda le relazioni tra exoterismo e esoterismo, come graziealla trasposizione metafisica le concezioni teologiche possanoacquistare un senso profondo. Passando alle dottrine piùorientali, la distinzione tra esoterismo ed exoterismo non puòpiù esservi applicata allo stesso modo, o addirittura, in certicasi, non può più esservi applicata del tutto. Indubbiamente,per ciò che riguarda la Cina, si potrebbe dire che la tradizionesociale, comune a tutti, assume le caratteristiche di unexoterismo, mentre la tradizione metafisica, dottrina dell'élite,è, come tale, esoterica.

Tuttavia, ciò non sarebbe rigorosamente esatto che acondizione di considerare queste due dottrine in rapporto allatradizione primordiale, dalla quale entrambe derivano;sennonché esse sono invero troppo nettamente separate,nonostante la loro fonte comune, perché possano venirconsiderate soltanto come le due facce d'una stessa dottrina, ciòche è necessario perché si possa parlare in modo giustificato diesoterismo e di exoterismo.

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Esoterismo ed Exoterismo

Una delle ragioni di tale separazione è l'assenza di quellaspecie di dominio misto a cui dà origine la prospettivareligiosa, nella quale si uniscono, nella misura in cui ne sonosuscettibili, il punto di vista intellettuale e il punto di vistasociale, a detrimento però della purezza del primo; questaassenza non ha tuttavia sempre conseguenze, sotto questorispetto, così rilevanti, come dimostra l'esempio dell'India,nella quale, pur non esistendo niente di propriamente religioso,le branche della tradizione formano tuttavia un insieme unico eindivisibile.

È precisamente dell'India che ci rimane ora da parlare, ed èproprio qui che è meno possibile trovare una distinzione comequella tra esoterismo e exoterismo, perché la tradizione vi ha difatto troppa unità per potersi presentare, nonché in due corpi didottrina separati, nemmeno sotto due aspetti complementari diquesto genere. Tutto ciò che vi si può effettivamentedistinguere è la dottrina essenziale, la quale è puramentemetafisica, e le sue applicazioni ai diversi piani, le qualidiventano altrettanti rami secondari nei suoi confronti; ma èevidente che ciò non corrisponde affatto alla distinzione inquestione.

La stessa dottrina metafisica non offre altro esoterismo oltrequello che può trovarvisi nel senso più largo da noi ricordato,che è naturale ed inevitabile in ogni dottrina di questo tipo: tuttipossono venire ammessi a ricevere l'insegnamento a tutti i suoigradi, con la sola riserva di essere intellettualmente qualificatiper trarne un beneficio effettivo; parliamo, beninteso, soltantodell'ammissione a tutti i livelli dell'insegnamento, e non a tuttele funzioni, per le quali altre qualificazioni possono essereinoltre necessarie; ma, di necessità, di coloro che ricevono lostesso insegnamento dottrinale, così come di coloro cheleggono un medesimo testo, ciascuno lo capisce e lo assimila

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più o meno completamente, più o meno profondamente, aseconda dell'estensione delle proprie possibilità intellettuali.Per questo è del tutto improprio parlare di “Brahmanismoesoterico”, come taluno ha voluto fare, che ha soprattuttoapplicato questa denominazione all'insegnamento contenutonelle Upanishad; vero è che altri, parlando a sua volta di“Buddismo esoterico”, ha fatto ancor peggio, presentando,come ha fatto, sotto tale etichetta concezioni esclusivamente edeminentemente fantastiche, che non appartengono né alBuddismo autentico né ad alcun vero esoterismo.

In un manuale di storia delle religioni a cui abbiamo giàfatto allusione e nel quale, pur se si fa notare per lo spirito concui è stato concepito, si ritrovano molte delle confusionicomuni in tal genere di lavori, principalmente quella checonsiste nel trattare di religiose cose che in realtà non lo sonoaffatto, abbiamo rilevato a questo proposito l'osservazioneseguente: “Un pensiero indiano trova di rado l'equivalenteesatto fuori dell'India; o, per parlare con minor ambizione,modi di vedere le cose che altrove sono esoterici, individuali,straordinari, sono nel Brahmanismo, e in India, comuni,generali, normali”.

In fondo ciò è vero, ma richiede tuttavia qualche riserva,giacché non si potrebbero dire individuali, né in India néaltrove, concezioni che, in quanto d'ordine metafisico, sono alcontrario essenzialmente super-individuali; d'altra parteconcezioni di questo genere anche se sotto forme diversetrovano il loro equivalente ovunque esista una dottrinametafisica, ovvero in tutto l'Oriente, ed è soltanto in Occidenteche non c'è di fatto nulla che gli corrisponda, nemmenolontanamente. È vero però che simili concezioni da nessunaparte sono così diffuse quanto in India, perché non si trovaaltro popolo che abbia così generalmente e allo stesso grado le

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Esoterismo ed Exoterismo

attitudini richieste, benché queste ultime siano frequenti pressotutti gli Orientali, particolarmente i Cinesi, presso i quali latradizione metafisica ha però conservato un carattere molto piùchiuso.

Ciò che in India ha dovuto contribuire maggiormente allosviluppo di simile mentalità, dev'esser stato il carattere di puratradizionalità dell'unità indù: a tale unita non si può parteciparerealmente che per quanto si è assimilato della tradizione, epoiché in India la tradizione è d'essenza metafisica, si può direche se ogni Indù è per natura un metafisico, gli è chedev'esserlo, in qualche modo, per definizione.

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10 ‐ LA REALIZZAZIONE METAFISICA

Accennando ai caratteri essenziali della metafisica dicemmoche essa è una conoscenza intuitiva, vale a dire immediata, chesi oppone perciò sotto questo aspetto alla conoscenzadiscorsiva e mediata di tipo razionale. Più immediata ancoradell'intuizione sensibile perché di là dalla distinzione disoggetto e oggetto che quest'ultima conserva, l'intuizioneintellettuale è contemporaneamente il veicolo della conoscenzae la conoscenza stessa, ed in essa il soggetto e l'oggetto siunificano e si identificano.

D'altra parte qualsiasi conoscenza merita veramente questonome soltanto nella misura in cui produce tale identificazione,la quale però, in tutti gli altri casi, rimane incompleta eimperfetta; in altri termini, è sola vera conoscenza quella chepartecipa in misura più o meno completa della natura dellaconoscenza intellettuale, che è la conoscenza per eccellenza.Ogni altro tipo di conoscenza è più o meno indiretta e hadunque un valore più che altro simbolico o rappresentativo;non è vera ed effettiva conoscenza se non quella che cipermette di penetrare nella natura intima delle cose, e se unapenetrazione di questo genere può già parzialmente avvenire aigradi inferiori della conoscenza, è soltanto nella conoscenzametafisica che essa è pienamente e interamente realizzabile.

Conseguenza immediata di ciò è che conoscere ed esseresono fondamentalmente la stessa cosa; essi rappresentano, se sivuole, due aspetti inseparabili di un'unica realtà, aspetti chenon si possono più distinguere realmente dove tutto è “senzadualità”. Ciò è sufficiente a provare l'inanità di quelle “teoriedella conoscenza” a pretesa pseudo-metafisica che occupanotanto posto nella filosofia occidentale moderna e tendono

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talvolta addirittura, come ad esempio in Kant, ad assorbire tuttoil resto, o per lo meno a metterselo in sottordine; l'unica ragiond'essere di questo genere di teorie risiede d'altronde inun'attitudine comune a quasi tutti i filosofi moderni, che trae lesue origini dal dualismo cartesiano e consiste nell'opporreartificialmente il conoscere all'essere; ed è la negazione di ognivera metafisica. La filosofia è in tal modo portata a sostituire la“teoria della conoscenza” alla conoscenza vera e propria, ciòche non è se non una esplicita confessione d'impotenza; a talproposito, niente di più tipico di questa dichiarazione di Kant:“La maggiore utilità, se non forse l'unica, di ogni filosofia dellaragion pura, è dopo tutto esclusivamente negativa, e provienedal suo essere non tanto uno strumento per allargare laconoscenza, quanto piuttosto una disciplina per circoscriverla”.

Forse che simili parole non si riducono semplicemente adire che l'unica pretesa dei filosofi è d'imporre a tutti laristrettezza delle loro proprie facoltà conoscitive? D'altronde èquesto l'inevitabile risultato dello spirito sistematico, anti-metafisico per eccellenza; non ci stancheremo mai di ripeterlo.La metafisica afferma l'identità fondamentale del conoscere edell'essere, la quale può venir messa in dubbio solamente dacoloro che ne ignorano i principi più elementari; e poiché taleidentità è essenzialmente inerente alla natura dell'intuizioneintellettuale, essa non soltanto l'afferma ma la realizza. Ciò perlo meno è vero della metafisica integrale; resta da aggiungereche tutto ciò che di metafisico si è avuto in Occidente, sottoquesto riguardo sembra esser restato sempre incompleto.

Eppure Aristotele formula nettamente il principiodell'identificazione per mezzo della conoscenza dichiarandoespressamente che “l'anima è tutto ciò che essa conosce”;sennonché sembra che né lui né i suoi continuatori abbiano maiattribuito a tale affermazione il suo reale valore, traendone tutte

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La realizzazione metafisica

le conseguenze che essa comporta, sì che essa rimase per loroqualcosa di puramente teorico. Meglio di nulla certo, tuttaviadel tutto insufficiente; cosicché la metafisica occidentale sipresenta incompleta sotto un duplice aspetto: in primo luogoteoricamente, in quanto non si spinge oltre l'essere, comeabbiamo spiegato in precedenza, e poi in quanto considera lecose (nella misura in cui tuttavia le considera), in modoesclusivamente teorico; la teoria è da essa presentata come inqualche modo sufficiente a se stessa e come costituente il suofine, mentre invece non dovrebbe normalmente essere che unapreparazione, indispensabile finché si vuole ma ancora soltantopreparazione, in vista di una corrispondente realizzazione.

Occorre fare qui un'osservazione sul modo in cui ciserviamo del termine “teoria”: etimologicamente il suosignificato primitivo è quello di “contemplazione”, e se cosìfosse inteso si potrebbe dire che la metafisica nel sua insieme,con la realizzazione che implica, è la “teoria” per eccellenza;ma l'uso ha attribuito a quest'ultima parola un'accezionealquanto diversa, restringendone soprattutto molto il senso.

Per cominciare, l'abitudine è ormai acquisita di opporre“teoria” a “pratica”, e, almeno nel suo significato primitivo,tale opposizione, come quella di contemplazione e di azione,sarebbe tuttavia giustificata, la metafisica essendoessenzialmente di là dal campo dell'azione, per definizionedominio delle contingenze individuali; se non che la mentalitàdegli Occidentali, volta quasi esclusivamente all'azione eincapace di concepire realizzazione all'infuori di essa, si èormai ridotta ad opporre abitualmente teoria a realizzazione.

Di fatto, è perciò quest'ultima l'opposizione che noiaccettiamo, per non allontanarci dall'uso ormai affermato, e perevitare le confusioni che possono derivare dalla difficoltà che siprova a disgiungere le parole dal senso che, a torto o a ragione,

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si è abituati ad attribuirgli; con tutto ciò, non ci spingeremofino a definire “pratica” la realizzazione metafisica, perché indefinitiva tale parola è, nel linguaggio corrente, rimastainseparata dall'idea d'azione che esprimeva in origine e che quinon si applica assolutamente,

In tutte le dottrine metafisicamente complete - come ledottrine orientali - la teoria si accompagna sempre, o è seguita,da una realizzazione effettiva, della quale essa è soltanto labase necessaria. Nessuna realizzazione può essere tentata senzauna sufficiente preparazione teorica; ma la teoria nel suoinsieme è ordinata alla realizzazione come un mezzo al fine, equesta prospettiva è presupposta, esplicitamente oimplicitamente, nella stessa espressione esteriore delle dottrine.

D'altra parte la realizzazione effettiva può servirsi, oltre chedella preparazione teorica, e dopo di essa, di altri mezzi, dicarattere molto diverso, ma anch'essi destinati soltanto afornirle un supporto o un punto di partenza e perciò non aventiche una funzione di “ausilio”, ogni questione d'importanza difatto a parte: è questa, in modo particolare, la ragion d'esseredei riti di carattere e di efficacia propriamente metafisici di cuiabbiamo segnalato l'esistenza.

Tuttavia, a differenza della preparazione teorica, tali riti nonvengono mai considerati come mezzi indispensabili; essi sonoaccessori e non essenziali, e la tradizione indù nella quale essitengono tuttavia un posto importante, è affatto esplicita aquesto proposito; ciò non toglie che per la loro efficacia propriaessi possano facilitare in grande misura la realizzazionemetafisica, vale a dire la trasformazione di quella conoscenzavirtuale che è la semplice teoria in conoscenza effettiva. Questeconsiderazioni possono probabilmente sembrare molto strane adegli Occidentali, i quali non hanno mai, nemmeno da lontano,preso in considerazione cose del genere, o la loro semplice

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La realizzazione metafisica

possibilità; eppure in Occidente si potrebbe trovare un'analogiaparziale, anche se lontanissima, con la realizzazione metafisica,in ciò che noi chiamiamo la realizzazione mistica. Intendiamodire che negli stati mistici, nel senso teologico della parola, c'èalcunché di effettivo che fa di essi qualcosa di più d'unaconoscenza puramente teorica, anche se una realizzazione diquesta specie è per definizione, e sempre, soltanto parziale.

Non uscendo dal modo propriamente religioso non si escedalla sfera individuale; gli stati mistici non hanno nulla disopra-individuale; essi implicano un'estensione più o menoindefinita delle sole possibilità individuali, le quali sono peròincomparabilmente più estese di quanto non si credageneralmente e soprattutto di quanto gli psicologi non siano ingrado di concepire, anche aggiuntovi tutto quel che si sforzanodi far rientrare nel loro “subcosciente”.

Tale realizzazione non può avere una portata universale ometafisica e resta sempre soggetta all'influenza di elementiindividuali, principalmente di carattere sentimentale; d'accordoche questo è il carattere peculiare della prospettiva religiosa,ma esso è qui, come già ebbimo a notare, ancor più accentuatoche in tutte le altre sue manifestazioni, ciò che conferisce aglistati mistici quell'aspetto di “passività” che gli si riconosceabbastanza generalmente, aggiuntovi che la confusione dei dueordini intellettuale e sentimentale può esservi fonte frequented'illusioni.

Infine è necessario accennare al fatto che una realizzazionedi questo tipo, frammentaria sempre e raramente ordinata, nonpresuppone preparazione teorica: è vero che i riti religiosi vihanno quella funzione di “ausilio” che è propria dei ritimetafisici, ma essa è in se stessa indipendente dalla teoriareligiosa, rappresentata dalla teologia; ciò non impedisce che imistici in possesso di qualche dato teologico si risparmino così

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molti errori, che commettono invece quelli che ne sonosprovvisti, e siano in maggior possibilità di controllare in unacerta misura la propria immaginazione e la propriasentimentalità. Così com'è, la realizzazione mistica, orealizzazione in modo religioso, con le sue limitazionifondamentali, è la sola che sia conosciuta nel mondooccidentale; e possiamo ben dire che ciò è meglio di niente,anche se non c'è comune misura tra essa e la vera realizzazionemetafisica.

Abbiamo ritenuto importante chiarire il concetto direalizzazione metafisica e le conseguenze che esso comporta,perché esso è essenziale al pensiero orientale, e comune alle tregrandi civiltà di cui abbiamo parlato. Non vogliamo peròinsisterci troppo in questa trattazione, la quale devenecessariamente rimanere piuttosto elementare; loriesamineremo dunque, per quanto concerne specialmentel'India, soltanto quando sarà strettamente indispensabile, perchétale punto di vista è probabilmente il più difficile da capire perla maggioranza degli Occidentali. Inoltre, se la teoria si puòsempre esporre senza riserve, o almeno con la sola riserva diquanto è veramente inesprimibile, non così avviene per quelche riguarda la realizzazione.

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PARTE TERZA

1 ‐ SIGNIFICATO ESATTODELLA PAROLA “INDÙ”

Quanto è stato detto finora potrebbe servire da introduzionegenerale allo studio di tutte le dottrine orientali; quel chediremo d'ora in avanti riguarderà invece più particolarmente ledottrine indù. Queste ultime sono specialmente adatte a modi dipensiero che, pur possedendo le caratteristiche comuni alpensiero orientale nel suo insieme, presentano inoltre dei trattidistintivi a cui corrispondono delle differenze formali; lasostanza però è rigorosamente identica a quella delle altretradizioni, come sempre avviene - per le ragioni già addotte -quando si abbia a che fare con la metafisica pura. In questaparte della nostra esposizione è importante prima di tuttoprecisare il significato esatto della parola “indù”, il cui impiegopiù o meno vago ha dato origine in Occidente a frequentierrori.

Per determinare nettamente ciò che è indù e ciò che non èindù, non possiamo esimerci dal ricordare brevementequalcuna delle considerazioni che abbiamo già sviluppato;questa parola non può designare una razza, dal momento che siapplica ugualmente a elementi appartenenti a razze diverse, etanto meno una nazionalità, dato che niente di simile esiste inOriente. A volerla considerare nella sua totalità, l'India sarebbemeglio paragonabile all'insieme dell'Europa che non a questo oquell'altro stato europeo, e ciò non soltanto per la suaestensione o per l'importanza numerica della sua popolazione,ma anche per le varietà etniche che quest'ultima presenta; sottoquesto rapporto le differenze fra il Nord e il Sud dell'India sono

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almeno altrettanto grandi quanto quelle che esistono fraun'estremità e l'altra dell'Europa. D'altronde, fra le diverseregioni non vi è alcun legame governativo o amministrativo, sesi esclude quello che gli Europei vi hanno stabilitorecentemente in modo del tutto artificiale; è vero che questaunità amministrativa era già stata realizzata prima di loro dagliimperatori mongoli, e forse prima ancora da altri, ma essa nonebbe mai che un'esistenza del tutto passeggera in rapporto allapermanenza della civiltà indù, e bisogna notare che fu quasisempre dovuta alla dominazione di elementi stranieri e in ognicaso non indù e inoltre non arrivò mai a sopprimerecompletamente l'autonomia degli stati particolari, ma si sforzòpiuttosto di farli entrare in un'organizzazione federativa.

In India non c'è inoltre traccia di qualcosa che possa esserparagonato al genere di unità che altrove ha potuto realizzarsicon il riconoscimento di un'autorità religiosa comune, chequesta autorità sia rappresentata da un'unica individualità comenel Cattolicesimo, o da una pluralità di funzioni distinte comenell'Islamismo; la tradizione indù, pur non essendo di naturareligiosa, potrebbe implicare un'organizzazione più o menosimile, ma così non è, a dispetto delle supposizione gratuite chea questo proposito sono state emesse da chi non comprendecome si possa effettivamente realizzare l'unità attraverso la solapotenza inerente alla dottrina tradizionale in sé.

Ciò è ben diverso in effetti da tutto quanto esiste inOccidente, e per altro la realtà è questa: l'unità indù - su questoabbiamo già insistito - è un'unità di ordine puramente edesclusivamente tradizionale, e per mantenersi non ha bisognodi alcuna forma d'organizzazione più o meno esteriore, nédell'appoggio di alcuna autorità che non sia quella delladottrina. La conclusione di tutto ciò può esser formulata nelmodo seguente: sono Indù tutti coloro che aderiscono a una

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Significato esatto della parola “Indù”

stessa tradizione, alla condizione beninteso che essi sianodebitamente qualificati per potervi aderire realmente edeffettivamente, e non in modo semplicemente esteriore eillusorio; al contrario, non sono Indù coloro che per qualsiasiragione non partecipano a questa tradizione. In particolarequesto è il casa dei Giaina e dei Buddisti, come pure, nei tempimoderni, dei Sikh, sui quali d'altronde si esercitarono influenzemusulmane, la cui impronta è ben visibile nella loro specialedottrina.

La vera distinzione è questa, e non possono esservene altre,benché sia difficile a cogliersi – bisogna riconoscerlo - da unamentalità come l'occidentale, abituata ad appoggiarsi sututt'altri elementi di giudizio, che qui fanno totalmente difetto.In queste condizioni è una vera e propria assurdità parlare, peresempio, di “Buddismo indù” come si fa anche troppo soventein Europa e in particolare in Francia; quando si vuole designareil Buddismo così come esistette in India in altri tempi, non c'èaltro appellativo che possa convenirgli che quello di“Buddismo indiano” allo stesso modo che si può correttamenteparlare di “Musulmani indiani”, cioè Musulmani dell'India, chenon sono affatto indù.

La gravità reale di un errore del genere di quello che stiamosegnalando, e che costituisce ai nostri occhi molto più di unasemplice inesattezza di dettaglio, è che esso testimonia di unaprofonda incomprensione del carattere più essenziale dellaciviltà indù; la cosa più stupefacente non è che questaignoranza sia molto comune in Occidente, ma che essa siasostenuta dagli orientalisti di professione. Secondo leindicazioni che abbiamo già riferito, la tradizione in questionefu importata in quella che è l'India attuale in un'epoca più omeno remota, che sarebbe piuttosto difficile precisare, dauomini che venivano dal Nord; non è provato che questi

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migratori, che dovettero successivamente arrestarsi in regionidiverse, abbiano costituito, almeno in origine, un popolo vero eproprio, e nemmeno che abbiano appartenuto primitivamente auna razza unica. In ogni caso la tradizione indù, o almenoquella che attualmente viene così denominata, e che allorapoteva avere un'altra denominazione o anche non avernenessuna, questa tradizione, ripetiamo, dal momento che sistabilì in India, fu adottata presto o tardi dalla maggior partedei discendenti delle popolazioni indigene.

Costoro, i “Dravidi” per esempio, divennero dunque Indùquasi “per adozione”; ma da allora lo furono effettivamenteallo stesso modo di quelli che lo erano sempre stati, grazie allaloro ammissione a partecipare alla grande unità della civiltàtradizionale, anche se presso di loro poterono sussistere, purchéfossero compatibili con lo spirito della tradizione, traccedell'antica origine sotto forma di particolari modalità dipensiero e di azione. Prima di stabilirsi in India questa stessatradizione era stata quella di una civiltà che noi nonchiameremo affatto “ariana”, avendo già spiegato perchéquesta parola è sprovvista di senso, ma per la quale possiamoaccettare, in mancanza di meglio, la denominazione di “indo-iraniana” (benché la sede del suo sviluppo non sia peculiaredella Persia o dell'India), semplicemente per precisare che essadoveva in seguito dar origine alle due civiltà indù e persiana,distinte l'una dall'altra e anche, sotto certi aspetti, opposte.

A una certa epoca dovette dunque prodursi una scissioneanaloga a quella che più tardi in India diede origine alBuddismo; il ramo separato, deviato in rapporto alla tradizioneprimordiale, fu il così detto “Iranismo”, che doveva poidiventare la tradizione persiana chiamata anche “Mazdeismo”.Abbiamo già segnalato la tendenza, generale in Oriente, per cuidottrine che dapprima furono anti-tradizionali si impongono a

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Significato esatto della parola “Indù”

loro volta come tradizioni indipendenti; questa di cui parliamoaveva senza dubbio assunto tale carattere già molto tempoprima di essere codificata nell'Avesta sotto il nome diZarathustra o Zoroastro, nel quale d'altronde non bisognavedere la designazione di un uomo, ma piuttosto quella di unacollettività, come spesso succede in questi casi: gli esempi diFo-hi per la Cina, Vyasa per l'India, di Thoth o Ermete perl'Egitto sono abbastanza significativi in questo senso.

D'altro canto una traccia molto netta della deviazione èrimasta nella stessa lingua dei Persi, nella quale certe paroleassunsero un senso completamente opposto a quello cheprimitivamente avevano e che conservarono in sanscrito; ilcaso della parola “deva” è a questo proposito il più noto, ma sene potrebbero citare altri, quello del nome di Indra peresempio, e ciò non può essere accidentale. Il caratteredualistico abitualmente attribuito alla tradizione persiana,ammesso che sia reale, sarebbe parimenti una prova manifestadi alterazione della dottrina; sembra per altro che tale caratterenon sia che il prodotto di interpretazioni false e incomplete,mentre c'è un'altra prova, più seria, costituita dalla presenza dicerti elementi sentimentali; non è però nostro compito insisteresu questo punto.

A partire dal momento in cui si produsse la separazione dicui abbiamo parlato, la tradizione regolare può essere chiamatapropriamente “indù”, qualunque sia stata la regione in cui essasi conservò inizialmente, e a prescindere dal fatto che essaabbia o no ricevuto da quel momento tale designazione, il cuiimpiego non deve d'altronde assolutamente far pensare che visia stato qualche cambiamento profondo ed essenziale nellatradizione; allora come in seguito non poté esserci altro cheuno sviluppo naturale e normale di quella che era stata latradizione primordiale.

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Ciò ci conduce direttamente alla segnalazione di un altroerrore degli orientalisti, i quali, non comprendendo nulladell'immutabilità essenziale della dottrina, hanno creduto dipoter considerare posteriormente all'epoca “indo-iraniana” tredottrine successive, supposte differenti, alle quali hanno dato inomi rispettivi di “Vedismo”, “Brahmanismo” e di “Induismo”.

Se con ciò si volessero intendere soltanto tre periodi dellastoria della civiltà indù la cosa sarebbe senza dubbioaccettabile, quantunque le denominazioni siano moltoimproprie e sia estremamente difficile delimitare e situarecronologicamente tali periodi. Se parimenti si volesse dire chela dottrina tradizionale, pur rimanendo in fondo sempre lastessa, ha potuto ricevere successivamente diverseformulazioni più o meno diverse per adattarsi a condizioniparticolari, mentali o sociali, di tale o di tal altra epoca, ciòpotrebbe ancora essere ammesso con riserve analoghe alleprecedenti. Ma non è questo che sostengono gli orientalisti:impiegando una pluralità di denominazioni, essi suppongonoespressamente che si tratti di una sequela di deviazioni oalterazioni che sono incompatibili con la regolarità tradizionalee hanno esistenza solo nella loro immaginazione.

In realtà, la tradizione indù, nel suo complesso, èessenzialmente fondata sul Veda, lo è sempre stata e non hamai cessato di esserlo; si potrebbe dunque chiamarla“Vedismo”, così come, a qualsiasi epoca, potrebbe convenirle ilnome di “Brahmanesimo”; ma in fondo poco importa ladesignazione che si preferirà darle, purché ci si renda ben contoche, sotto uno o diversi nomi, si tratta sempre della stessa cosa:nient'altro, cioè, che lo sviluppo della dottrina contenuta inprincipio nel Veda, parola che significa d'altronde propriamentela conoscenza tradizionale per eccellenza. Non vi è dunque“Induismo” nel senso di una deviazione del pensiero

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Significato esatto della parola “Indù”

tradizionale, perché ciò che è veramente e puramente indù èprecisamente cosa che per definizione non ammette nessunadeviazione di questo tipo; e se ciò nonostante certe anomaliepiù o meno gravi hanno potuto talvolta prodursi, il senso dellatradizione le ha sempre mantenute entro certi limiti, oppure leha rigettate interamente al di fuori dell'unità indù; in ogni caso,ha sempre impedito loro di acquistare un'autorità reale; maperché ciò possa essere ben compreso, occorrono altreconsiderazioni.

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2 ‐ LA PERPETUITÀ DEL VEDA

Il nome Veda, di cui abbiamo indicato il vero significato, siapplica a tutti gli scritti fondamentali della tradizione indù; essisono ripartiti in quattro raccolte che portano rispettivamente inomi di Rig Veda, Yajur Veda, Sama Veda, e Atharva Veda. Laquestione dell'epoca in cui sono state composte queste raccolteè una di quelle che maggiormente preoccupano gli orientalisti,che infatti non sono mai riusciti a mettersi d'accordo sulla suasoluzione, anche limitandosi ad una stima moltoapprossimativa della loro antichità.

Si può constatare, e l'abbiamo già detto altrove, che inquesto come in tanti altri campi, la tendenza generale è diriferire tutto a un'epoca il più possibile vicina nel tempo oaddirittura di contestare l'autenticità di questa o quella partedegli scritti tradizionali, basandosi su analisi minuziose deitesti, accompagnate da dissertazioni tanto interminabili quantosuperflue sull'impiego di una parola o di una formagrammaticale.

Sono queste in effetti le occupazioni più abituali degliorientalisti, e il loro scopo, nell'intenzione di coloro che vi sidedicano, è di dimostrare che il testo studiato non è anticocome si pensava, che non deve essere dell'autore a cui erasempre stato attribuito (ammesso che ce ne sia stato uno) o,come minimo, che è stato “interpolato”, o ha subito alterazioniin un'epoca relativamente recente; per poco che si sia alcorrente dei lavori di “esegesi biblica” ci si può render conto diche cosa sia la messa in funzione di questi procedimenti. Nonc'è da stupirsi che le ricerche intraprese con questo spirito nonottengano altro risultato oltre quello di riempire volumi didiscussioni oziose, né che i meschini prodotti di questa

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Renè Guenon

“critica” dissolvente contribuiscano grandemente ad ispirare ildisprezzo per l'Occidente negli Orientali che ne sono venuti aconoscenza. In definitiva, ciò che sfugge completamente agliorientalisti sono sempre le questioni di principio, e dalmomento che senza di esse nulla si può capire poiché tutto ilresto ne deriva e dovrebbe logicamente dedursene, essitrascurano precisamente l'essenziale, perché sono incapaci dipercepirlo, e si perdono irrimediabilmente nei particolari piùinsignificanti o nelle fantasie più arbitrarie.

La questione dell'epoca in cui sono state scritte le diverseparti del Veda pare veramente insolubile, e d'altronde non haalcuna importanza reale, dal momento che tutto un periodo ditrasmissione orale, imprecisabile come durata, ha preceduto ilmomento più o meno lontano in cui il testo è stato scritto per laprima volta. È probabile che l'origine della scrittura in India siamolto più antica di quanta comunemente si crede, e che d'altraparte i caratteri sanscriti non siano affatto derivati da unalfabeto fenicio, a cui non assomigliano né per la forma né perl'aggregazione. Comunque sia, è certo che nel lavoro attribuitoa Vyasa, nome che in realtà non designa né un personaggiostorico né tanto meno un “mito”, bensì, come abbiamo giàdetto, una collettività intellettuale, non bisogna vedere niente dipiù che una sistemazione e una fissazione definitiva di testitradizionali preesistenti. In queste condizioni determinarel'epoca di Vyasa, ammesso che sia possibile, non ha chel'interesse di un semplice fatto storico senza alcuna importanzadottrinale.

È evidente d'altra parte che quest'epoca potrebbe essere unperiodo durato dei secoli; essa potrebbe anche non essereancora conclusa, di modo che l'unica questione che si potrebbeporre in realtà è quella del suo punto di partenza, il che nonvuol affatto dire che sia possibile risolverla, soprattutto coi

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La perpetuità del Veda

procedimenti particolari dell'erudizione occidentale. Latrasmissione orale antecedente, per altro senza alcun datocronologico, è spesso indicata nei testi da quel che vienechiamato “vansha”, o filiazione tradizionale; è ciò che siverifica in particolare per la maggior parte delle Upanishad.

Solamente che, alle origini, bisogna sempre ricorrere a unaispirazione diretta, che d'altronde è ugualmente indicata nelvansha, dato che non si tratta di un'opera individuale; pocoimporta che la tradizione sia stata espressa e formulata daquesto o quell'altro individuo: costoro in effetti non ne sonopunto gli autori, dal momento che tale tradizione èessenzialmente di ordine sopraindividuale.

Per questo l'origine del Veda è detta “apaurusheya” cioè“non umana”: le circostanze storiche, né più né meno chequalsiasi altra contingenza, non hanno alcuna influenzasull'essenza della dottrina, che è di carattere immutabile epuramente intemporale, ed è d'altronde evidente chel'ispirazione di cui abbiamo parlato può prodursi in qualsiasiepoca. La sola difficoltà che si presenta qui, è forse di faraccettare agli Occidentali una teoria come quelladell'ispirazione, e soprattutto di far loro capire che questa teorianon è né mistica né psicologica, ma puramente metafisica; tuttociò supporrebbe del resto sviluppi che non rientrano nel quadrodel presente lavoro.

Queste poche indicazioni devono bastare almeno a farintravedere cosa gli Indù intendono quando parlano dellaperpetuità del Veda, il che, d'altra parte, è anche in correlazionecon la teoria cosmologica della primordialità del suono fra lequalità sensibili, che non possiamo pensare di sviluppare qui;quest'ultimo punto può però dare la spiegazione del fatto che,anche dopo l'introduzione della scrittura, l'insegnamento oraledella dottrina ha sempre conservato in India un'importanza

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preponderante. Essendo il Veda la conoscenza tradizionale pereccellenza, esso è il principio e il fondamento comune di tutti irami più o meno secondari e derivati della dottrina; anche perquesti ultimi la questione dello sviluppo cronologico ha benpoca importanza.

La tradizione va considerata nella sua integralità, e non è ilcaso di chiedersi che cosa in essa sia primitivo o no, dato che sitratta di un insieme perfettamente coerente (il che, si badi, nonvuol dire sistematico) nel quale tutti gli impliciti punti di vistapossono essere considerati tanto simultaneamente quantosuccessivamente; per conseguenza, ha ben poco interesseconoscere l'ordine storico in cui essi sono stati sviluppati. Se siconsidera poi che le opere che siamo in grado di conosceresono esclusivamente lo sviluppo per iscritto di questi punti divista, l'interesse viene a mancare del tutto, perché quando si savedere di là dai testi e si penetrano sempre più a fondo le cose,si è costretti a riconoscere che essi sono sempre stati concepitisimultaneamente nel loro stesso principio; è per questa ragioneche un testo tradizionale può essere suscettibile di una pluralitàdi interpretazioni e di applicazioni in corrispondenza con talidiversi punti di vista.

Non si può ascrivere questa o quella parte della dottrina a unautore determinato, così come non si può farlo per gli stessitesti vedici in cui tutta quanta la dottrina è sinteticamentecontenuta, almeno per quel tanto di essa che è esprimibile conparole; e se qualche autore o commentatore conosciuto haesposto tale o tal altro punto più o meno particolare, ciò nonvuol dire che nessuno l'abbia fatto prima di lui, e ancor menoche nessuno ci avesse pensato fino a quel momento, anche senessuno l'aveva formulato in un testo definito. L'esposizionepuò senza dubbio modificarsi nella forma esteriore per adattarsialle circostanze; ma il fondamento, non vi insisteremo mai

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La perpetuità del Veda

abbastanza, resta sempre rigorosamente lo stesso, e questemodificazioni esteriori non raggiungono né intaccano puntol'essenza della dottrina.

Queste considerazioni, col trasportare la questione sulterreno dei principi, fanno capire le principali ragionidell'imbarazzo degli esperti in questioni di cronologia, in unacon l'inanità delle loro ricerche; e poiché queste ragioni, di cuidisgraziatamente essi non si rendono conto, sono inerenti allanatura stessa delle cose, sarebbe molto meglio decidersi unabuona volta, e rinunciare a sollevare questioni insolubili, cosaalla quale del resto ci si rassegnerebbe senza fatica se soltantoci si accorgesse che tali questioni sono prive di importanzareale; è questo soprattutto che abbiamo voluto spiegare inquesto capitolo, il cui argomento non ci era stato primapossibile trattare completamente nei suoi aspetti più profondi.

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3 ‐ ORTODOSSIA ED ETERODOSSIA

L'ortodossia e l'eterodossia possono essere considerate nonsoltanto dal punto di vista religioso, come abitualmente si fa inOccidente, ma anche dal punto di vista molto più generale dellatradizione in tutti i suoi modi di essere; per quanto riguardal'India è questo il solo modo di concepirle, poiché non esistecolà niente di propriamente religioso, mentre in Occidente, alcontrario, non c'è niente di veramente tradizionale al di fuoridella religione.

Per quanto si riferisce alla metafisica e a tutto quel che nederiva più o meno direttamente, l'eterodossia di una concezionenon è altro in fondo che la sua falsità, risultante dal disaccordocon i principi fondamentali; e questa falsità è anche, nel casopiù frequente, un'assurdità manifesta, per poco che si vogliaricondurre la questione alla semplicità dei suoi dati essenziali:altrimenti non potrebbe essere, perché la metafisica, comeabbiamo detto, esclude tutto ciò che presenta un carattereipotetico e non ammette che ciò di cui la comprensione implicaimmediatamente la vera certezza.

In queste condizioni l'ortodossia fa tutt'uno con laconoscenza vera, perché non è altro che l'accordo costante coni principi; e dato che nella tradizione indù questi principi sonoessenzialmente contenuti nel Veda è evidentemente l'accordocon il Veda che stabilisce il criterio dell'ortodossia. Bisognaperò rendersi ben conto che qui si tratta molto meno diricorrere all'autorità dei testi scritti che di osservare la perfettacoerenza dell'insegnamento tradizionale nel suo insieme;l'accordo o il disaccordo coi testi vedici non è insomma che unsegno esteriore della verità o della falsità intrinseca d'unaconcezione, ed è questa verità o questa falsità che fa realmente,

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di tale concezione, l'ortodossia o l'eterodossia. Se così è - sipotrà forse obiettare - perché dunque non parlaresemplicemente di verità o di falsità ?

Il fatto è che l'unità della dottrina tradizionale, con lapotenza che le è propria, fornisce la guida più sicura perimpedire alle divagazioni individuali di espandersi liberamente;e questa potenza, che la tradizione ha in se stessa, è d'altrondeda sola bastante a questo scopo, senza che sia necessaria lacostrizione esercitata da un'autorità più o meno analoga ad unaautorità religiosa: ciò risulta da quanto abbiamo detto sulla veranatura dell'unità indù. Là ove manca la potenza della tradizionee nemmeno vi è un'autorità esteriore che possa in qualchemodo supplirla si vede fin troppo bene, attraverso l'esempiodella filosofia occidentale moderna, a quale confusioneconduca lo sviluppo e l'espandersi sfrenato delle opinioni piùazzardate e più contraddittorie; se in tali condizioni le falseconcezioni si generano così facilmente, e altrettanto facilmentearrivano ad imporsi alla mentalità corrente, è proprio perchénon è più possibile riferirsi ad un accordo coi principi, poichédi principi nel vero senso della parola non ne esistono più.

Al contrario, in una civiltà essenzialmente tradizionale, iprincipi non vengono mai persi di vista e non vi è che daapplicarli, direttamente o indirettamente, in un campo onell'altro; le concezioni che se ne discostano saranno dunquemolto più rare, se non addirittura eccezionali, e se avverràtalora che se ne producano, il loro credito non sarà mai molto:tali deviazioni resteranno sempre semplici anomalie, comeanomalie erano al loro sorgere, che se poi la loro gravità saràtale da divenire incompatibile coi principi più essenziali dellatradizione, esse si troveranno per ciò stesso tagliate fuori dallaciviltà in cui si erano originate. Per chiarire con un esempio ciòche abbiamo detto, prenderemo il caso dell'atomismo, su cui in

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Ortodossia ed Eterodossia

seguito avremo da tornare: questa concezione è nettamenteeterodossa perché in disaccordo formale con il Veda, ed'altronde la sua falsità può facilmente essere dimostrata,poiché implica, in se stessa, elementi contraddittori;eterodossia e assurdità sono dunque in fondo sinonimi veri epropri.

È nella scuola cosmologica di Kanada che l'atomismoapparve per la prima volta in India; del resto è da notare comenon possano praticamente formarsi concezioni eterodosse inscuole che si dedichino alla speculazione puramente metafisica,perché sul terreno dei principi l'assurdità è di un'evidenzamolto più immediata che non nelle applicazioni secondarie. Lateoria atomista non fu mai presso gli Indù che una sempliceanomalia senza grande importanza, almeno fino a tanto che nonvenne ad aggiungerlesi qualcosa di più grave. Essa non ebbedunque che un'estensione molto limitata, soprattutto inparagone a quella che doveva acquistare più tardi in Grecia,ove essa, facendo ormai difetto i principi tradizionali, fucorrentemente accettata da diverse scuole di “filosofia fisica”, edove soprattutto l'Epicureismo le diede una diffusioneconsiderevole, la cui influenza ancora si esercita suglioccidentali moderni.

Per tornare all'India, l'atomismo in un primo momento nonsi presentò che come una teoria cosmologica speciale, la cuiportata, come tale, era alquanto limitata; ma per coloro cheammettevano questa teoria l'eterodossia su questo puntoparticolare doveva logicamente tradursi in eterodossia su moltialtri punti, giacché nella dottrina tradizionale tutto èstrettamente legato. In effetti la concezione degli atomi comeelementi costitutivi delle cose ha come corollario quella delvuoto in cui questi atomi devono muoversi; da qui presto otardi doveva discendere una teoria del “vuoto universale”

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inteso non in un senso metafisico e riferentesi al “nonmanifestato”, ma al contrario in senso fisico o cosmologico; edè quel che in effetti accadde in certe scuole buddiste che,identificando questo vuoto con l'akasha o etere, furono per ciòstesso naturalmente condotte a negare l'esistenza diquest'ultimo come elemento corporeo e ad ammettere soltantopiù quattro elementi, in luogo di cinque.

A questo proposito bisogna ancora notare che anche lamaggior parte dei filosofi greci non hanno ammesso chequattro elementi, come le scuole buddiste di cui sopra, e che sepure qualcuno di essi ha parlato di etere, lo ha fatto in modoassai ristretto conferendogli un'accezione molto più specifica, ed'altronde molto meno netta, che non gli Indù. Ci siamo giàdiffusi abbastanza su come devano essere intesi i prestiti, e daqual parte, quando si constatano concordanze di questo genere,soprattutto quando tali prestiti siano avvenuti in modoincompleto, che è forse la loro caratteristica più evidente; e nonsi tenti di obiettare che gli Indù avrebbero “inventato” l'etere inun secondo tempo, per ragioni più o meno plausibili, analoghea quelle che lo fanno accettare generalmente dai fisici moderni.

Le loro ragioni sono di tutt'altro ordine, e non sono affattoun prodotto dell'esperienza: come abbiamo già spiegato, non viè alcuna “evoluzione” delle concezioni tradizionali, ed'altronde la testimonianza dei testi vedici è formale, tanto perl'etere quanto per gli altri quattro elementi corporei. Sembrapertanto che i Greci, quando sono venuti a contatto con ilpensiero indù, non abbiano raccolto in molti casi questopensiero che in modo deformato e mutilato, ed ancora, che nonl'abbiano sempre esposto fedelmente quale l'avevano raccolto;d'altronde è possibile, come abbiamo già detto, che nel corsodella loro storia essi si siano trovati in rapporto più diretto ecostante con i Buddisti, o almeno con certi Buddisti, che non

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Ortodossia ed Eterodossia

con gli Indù. Comunque sia aggiungiamo ancora, per quantoriguarda l'atomismo, che ciò che ne costituisce la principalegravità è che le sue caratteristiche la predispongono a servireda fondamento a quel “naturalismo” che in generale è tanto piùcontrario al pensiero orientale quanto più è frequente, sottoforme più o meno accentuate, nelle concezioni occidentali: ineffetti si può dire che, anche se ogni “naturalismo” non ènecessariamente atomista, l'atomismo è invece sempre più omeno naturalista, almeno come tendenza; quando si incorporain un sistema filosofico, come avvenne in Grecia, esso divieneinoltre “meccanicista”, il che non vuol dire necessariamente“materialista” poiché il materialismo è cosa tutta moderna.

Tutto questo ha però poca importanza qui, dal momento chein India non si ha a che fare con sistemi filosofici e tanto menocon dogmi religiosi; le stesse deviazioni del pensiero Indù nonsono mai state né religiose né filosofiche, e ciò è vero ancheper il Buddismo, il quale per altro è ciò che in tutto l'Orientepare avvicinarsi di più, sotto certi aspetti, ai punti di vistaoccidentali, ed è quindi quel che più facilmente si presta allefalse assimilazioni abituali agli orientalisti; a questo punto èd'uopo dire almeno qualcosa del Buddismo - benché il suostudio non rientri nei nostri argomenti - non foss'altro che perdissipare certe confusioni che hanno corso in Occidente.

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4 ‐ SULLA QUESTIONE DEL BUDDISMO

[Per i lettori che siano venuti a conoscenza della primaedizione di questo libro, riteniamo opportuno indicarebrevemente le ragioni che ci hanno spinto a modificare ilpresente capitolo. Quando apparve la prima edizione nonavevamo nessun motivo di mettere in dubbio che, comeabitualmente si pensa, le forme più ristrette e più nettamenteanti-metafisiche del Hinayana rappresentassero l'insegnamentostesso di Shakya-Muni; non avevamo il tempo di intraprenderele lunghe ricerche che sarebbero state necessarie per andare piùa fondo in questa questione, e d'altronde quel tanto che alloraconoscevamo del Buddismo non era tale da invogliarci a farlo.

Se non che le cose hanno preso in seguito tutto un altroaspetto in conseguenza dei lavori di A. K. Coomaraswamy (lacui qualità di Indù e non di Buddista garantiscesufficientemente la sua imparzialità) e della suareinterpretazione del Buddismo originale, il cui vero significatoè estremamente difficile da scindere da tutte le eresie che inseguito sono venute a sovrapporvisi, eresie che noi avevamosoprattutto in mente al momento della prima redazione diquesto libro; è sottinteso che, per quanto riguarda tali formedeviate, ciò che avevamo scritto allora resta pienamente valido.

Approfittiamo dell'occasione per aggiungere che siamosempre disposti a riconoscere il valore tradizionale di qualsiasidottrina, purché ne abbiamo prove sufficienti; ma,sfortunatamente, se le nuove informazioni da noi avute sonostate interamente a favore della dottrina di Shakya-Muni (chenon vuol dire di tutte indistintamente le scuole buddiste), bendiversamente accade di tutte le cose di cui abbiamo denunciatoil carattere anti-tradizionale.]

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Abbiamo detto che il Buddismo sembra più vicino, opiuttosto meno lontano dalle concezioni occidentali, che non lealtre dottrine orientali, per conseguenza di più facile studio pergli Occidentali; ed è senz'altro questo che spiega l'accentuatapredilezione che per esso dimostrano gli orientalisti. Costoro ineffetti pensano di trovarvi qualcosa che rientri negli schemidella loro mentalità, o che almeno non vi sfuggacompletamente; in tutti i casi essi non si sentono imbarazzati,come nelle altre dottrine, dalla totale impossibilità dicomprensione che, senza volerlo confessare a se stessi, devonosentire più o meno confusamente.

Per lo meno è questa l'impressione che essi provano difronte a certe forme del Buddismo, giacché, come diremo, aquesto riguardo occorre che si facciano molte distinzioni; contutta naturalezza essi vogliono vedere in queste forme, ad essipiù accessibili, il Buddismo vero e primitivo, mentre le altrenon sarebbero, secondo loro, che alterazioni più o menotardive. Se non che il Buddismo, anche negli aspetti più“semplicistici” da esso rivestiti in qualcuno dei suoi rami, ètuttavia ancora orientale; per tanto gli orientalisti spingonoveramente troppo lontano l'assimilazione con i punti di vistaoccidentali quando, per esempio, vogliono farne l'equivalentedi una religione nel senso europeo della parola, ciò che delresto li mette talvolta in singolare imbarazzo; non ha forsedichiarato qualcuno, senza arretrare davanti alla possibilità diuna contraddizione in termini, che si tratta di una “religioneatea”?

In realtà il Buddismo non è più “ateo” di quanto sia “teista”o “panteista”; semplicemente esso non si pone dall'angolovisuale in cui questi termini hanno un senso; ma se così fa, èprecisamente perché non è affatto una religione. In questomodo gli orientalisti riescono a snaturare con le loro

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Sulla questione del Buddismo

interpretazioni anche ciò che sembrerebbe meno estraneo allaloro mentalità, e ciò in diversi modi, giacché anche quandovogliono vedere in esso una filosofia non lo snaturano certomeno di quando vogliono farne una religione: parlando peresempio di “pessimismo”, come spesso si fa, non è certo ilBuddismo che si caratterizza, o per lo meno è soltanto unospeciale Buddismo, visto attraverso la filosofia diSchopenhauer. Il Buddismo autentico non è né “pessimista” né“ottimista”, poiché in esso le cose non sono viste in questaprospettiva; ma c'è da credere che per certa gente siaterribilmente imbarazzante non poter applicare ad una dottrinale etichette in corso in Occidente.

La verità è che il Buddismo non è né una religione né unafilosofia, benché quelle delle sue forme a cui vanno lepreferenze degli orientalisti siano sotto certi aspetti più vicineall'una e all'altra di quel che non siano le dottrine tradizionaliindù. Di fatto si tratta di scuole che, essendosi poste fuori dellatradizione regolare, e con ciò stesso avendo perduto di vista lavera metafisica, dovevano inevitabilmente esser condotte asostituire a quest'ultima qualcosa che in certa misuraassomiglia alla prospettiva filosofica, ma in certa misurasoltanto.

Talvolta vi si trovano addirittura delle speculazioni che,quando siano osservate in superficie, possono far pensare allapsicologia, ma è evidente che non si tratta di psicologia inrealtà, cosa del tutto occidentale e, anche in Occidente,recentissima, giacché risale di fatto soltanto a Locke; e non èproprio il caso di attribuire ai Buddisti una mentalità cheprocede in modo specialissimo dal moderno empirismoanglosassone. Per essere legittimo l'accostamento non deveessere spinto fino all'assimilazione; e, analogamente, parlandodella religione, il Buddismo non è ad essa paragonabile di fatto

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se non in un punto, importante senza dubbio, ma insufficiente afar concludere per un'identità di pensiero: si trattadell'introduzione di un elemento sentimentale, il quale in ognicaso può spiegarsi come un adattamento alle condizioniparticolari del periodo in cui ebbero origine le dottrine che nesono afflitte, ed è di conseguenza lungi dall'implicarenecessariamente che queste ultime siano tutte della stessaspecie.

La differenza reale dei punti di vista può essere molto piùessenziale d'una somiglianza, tutto sommato, riferentesiprincipalmente alla forma d'espressione delle dottrine; eccoquanto sfugge in particolare a coloro che parlano di “moralebuddista”: ciò che essi prendono per morale, e tanto piùfacilmente in quanto il suo aspetto sentimentale può in effettiprestarsi a tale confusione, è di fatto inteso in tutt'altro modo, eha una ragion d'essere molto diversa, la quale non è neppure dicarattere equivalente. Basterà un esempio a permettere direndersene conto: la ben nota formula “Che gli esseri sianofelici”, riguarda l'universalità degli esseri senza alcunarestrizione, e non gli esseri umani in modo esclusivo; è questauna estensione di cui il punto di vista morale è in qualche modoincapace per definizione.

La “compassione” buddista non è per nulla la “pietà” diSchopenhauer; essa potrebbe piuttosto essere comparabile alla“carità cosmica” dei Musulmani, la quale è del restoperfettamente trasferibile fuori d'ogni sentimentalismo. Ciò nontoglie però che il Buddismo sia incontestabilmente rivestito diuna forma sentimentale che, senza spingersi fino al“moralismo”, costituisce per altro un elemento caratteristico dicui bisogna tenere il dovuto conto, tanto più che si tratta d'unodi quelli che più nettamente lo differenziano dalle dottrineindù, facendolo apparire sicuramente più lontano di esse dalla

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Sulla questione del Buddismo

“primordialità” tradizionale. Un altro punto che è importantemettere in rilievo a questo proposito, è che esiste un legameabbastanza stretto fra la forma sentimentale d'una dottrina e lasua tendenza alla diffusione, tendenza che è presente tanto nelBuddismo quanto nelle religioni, com'è provato dalla suaespansione nella maggior parte dell'Asia; ma anche a questoproposito la rassomiglianza non deve venir spinta linoall'esagerazione, e forse non è così giusto parlare dei“missionari” buddisti che si spinsero fuori dell'India indeterminate epoche, perché, a parte che si tratta di fattosoltanto di qualche figura isolata, questo termine fa troppoinevitabilmente pensare ai metodi di propaganda e diproselitismo propri degli Occidentali.

Comunque sia, è particolarmente notevole che a mano amano che si produceva questa diffusione, il Buddismo in Indiadeclinava, finendo con lo spegnervisi compiutamente, nonprima però di aver dato origine a scuole degenerate enettamente eterodosse, contro le quali sono dirette le opereindù contemporanee di questa ultima fase del Buddismoindiano, in particolare quelle di Shankaracharya, che se neoccupano soltanto per confutarne le teorie in nome delladottrina tradizionale, senza mai però imputarle al fondatore delBuddismo, ciò che dimostra come si trattasse, di fatto, d'unadegenerazione; e la cosa più strana è che sono proprio questeforme parziali e deviate ad apparire, agli occhi della maggiorparte degli orientalisti, come ciò che con la più grandeapprossimazione si avvicina al vero Buddismo originario.

Su questo argomento ritorneremo fra poco; prima dicontinuare è però importante precisare che in realtà l'India nonfu mai buddista, contrariamente a ciò che pretendono ingenerale gli orientalisti, i quali vogliono in certo modo fare delBuddismo il vero e proprio centro di tutto ciò che riguarda

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l'India e la sua storia; l'India prima del Buddismo, l'India dopoil Buddismo, è questo il taglio più netto che essi immaginano dipoter stabilire, intendendo con ciò che il Buddismo abbialasciato, anche dopo la sua totale scomparsa, una profondaimpronta nel suo paese d'origine; il che è completamente falso,per la ragione da noi indicata.

Vero è che gli orientalisti, così come si immaginano che gliIndù abbiano tratto ispirazione dalla filosofia greca, potrebberoanche tranquillamente sostenere, senza maggior offesa per laverosimiglianza, che gli Indù hanno pure copiato dalBuddismo; e non è detto che il fondo del pensiero di qualcunodi essi non si riduca a questo. Tuttavia bisogna riconoscere chein questo campo esistono pure delle onorevoli eccezioni, comeil Barth, per esempio, il quale sostiene che “il Buddismo ebbesolamente l'importanza di un episodio”, ciò che, almeno perquanto riguarda l'India, non è che la pura verità; ciò non ostantel'opinione opposta non ha mai cessato di avere la preminenza,per non parlare naturalmente della grossolana ignoranza dellamassa, che in Europa si immagina volentieri un Buddismoancora imperante in India!

V'è da dire soltanto che, pressappoco all'epoca del reAshoka, vale a dire verso il III secolo prima dell'era cristiana, ilBuddismo ebbe in India un periodo di grande affermazione,contemporaneo all'inizio della sua espansione fuori dell'India, eseguito però rapidamente dal suo declino; ma anche aquest'epoca, qualora se ne volesse tentare l'accostamento conqualcosa di occidentale, si dovrebbe piuttosto dire che taleestensione fu più simile a quella d'un ordine monastico che aquella di una religione che si rivolga a tutto l'insieme dellapopolazione; un tale paragone, senza tuttavia essere perfetto, ècertamente uno dei meno inesatti. Ma qui non si fermano lefantasie degli orientalisti: eccone qualcuno, come Max Müller,

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Sulla questione del Buddismo

darsi da fare per scoprire “i germi del Buddismo”, cioè (standoal suo modo di concepirlo), i germi dell'eterodossia, fin nelleUpanishad le quali, poiché fanno parte integrante del Veda,sono uno dei fondamenti essenziali dell'ortodossia indù;sarebbe certo difficile spingere più lontano l'assurdità e darprova di un'incomprensione più completa.

Quale che sia l'idea che ci si fa del Buddismo, è tuttaviafacile capire che, nato in ambiente indù e originato in qualchemodo dall'Induismo, esso dovette sempre, pur se se neallontana, conservarne qualcosa in comune, che è l'unico mododi spiegare ciò che di simile si trova da una parte e dall'altra; ilRoussel ha senza dubbio esagerato in senso contrario,insistendo sull'assoluta mancanza d'originalità di tale dottrina,ma la sua opinione, per lo meno, è più plausibile di quella diMax Müller, e in ogni caso non implica nessunacontraddizione; aggiungeremo per parte nostra che essaesprime piuttosto un elogio che non una critica, almeno percoloro che, come noi, si attengono al punto di vistatradizionale, poiché le differenze tra dottrine, per esserelegittime, non possono essere che una semplice questione diadattamento, riferendosi semplicemente, come fanno, a formed'espressione più o meno esteriori che non giungono mai ainfluenzare i principi in se stessi; la stessa introduzione dellaforma sentimentale appartiene a quest'ordine di cose, per lomeno finché lasci sussistere intatta la metafisica al centro delladottrina.

Detto questo, ci sarebbe ora da chiedersi fino a qual punto sipossa parlare di Buddismo in generale, come comunemente sifa, senza esporsi a molteplici confusioni; per evitarlebisognerebbe invece aver cura di precisare sempre di qualeBuddismo si tratta, giacché di fatto il Buddismo incorpora eancora comprende un gran numero di branche o di scuole

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diverse, e non si deve cadere nell'errore di attribuire a tutteindistintamente quanto appartiene in proprio soltanto all'una oall'altra di esse. Nel loro insieme queste scuole possono venirsceverate in due grandi corpi portanti i nomi di Mahayana eHinayana, che vengono abitualmente tradotti come “Grandeveicolo” e “Piccolo veicolo”, ma che sarebbe più chiaro e piùesatto rendere con “Gran Via” e “Piccola Via”; è molto meglioconservare questi termini, che autenticamente le designano, chesostituirli con denominazioni quali “Buddismo del Nord” e“Buddismo del Sud” le quali hanno un valore esclusivamentegeografico, per di più abbastanza vago, e non caratterizzano innulla le dottrine in questione.

Il solo Mahayana può essere considerato costituente unadottrina completa, compresovi l'aspetto propriamentemetafisico che di esso è la parte superiore e centrale; ilHinayana invece, ha le caratteristiche d'una dottrina in qualchemodo ridotta al suo aspetto più esteriore, e non va oltre ciò cheè comprensibile alla maggioranza degli uomini, ciò chegiustifica la sua denominazione; è naturalmente in questo ramoristretto del Buddismo, di cui il Buddismo di Ceylon èattualmente il più tipico rappresentante, che si sono prodotte ledeviazioni alle quali abbiamo prima accennato.

Ed è qui che gli orientalisti effettivamente capovolgono irapporti normali; essi pretendono che le scuole più deviate,quelle cioè che più lontano hanno spinto l'eterodossia, sianol'espressione più autentica del Hinayana il quale, secondo loro,sarebbe semplicemente il prodotto d'una serie di alterazioni e diaggiunte più o meno tardive. Così comportandosi essi nonfanno in fondo che seguire le tendenze anti-tradizionali dellaloro mentalità, dalle quali sono naturalmente portati asimpatizzare con tutto ciò che è eterodosso, e si conformanoanche più particolarmente a quel falso concetto, pressoché

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generale negli Occidentali moderni, secondo cui quanto è piùsemplice, diremmo volentieri più rudimentale, dev'essere diconseguenza più antico; con simili pregiudizi non gli passacerto nemmeno per il capo che le cose possano stareesattamente al contrario. In queste condizioni è permessochiedersi quale strana caricatura abbia potuto venir presentataagli Occidentali come il vero Buddismo, quello, per intendersi,formulato dal suo fondatore, ed è difficile reprimere un sorrisoquando si pensa che è proprio questa caricatura ad esserdiventata oggetto di ammirazione per tanti di essi, seducendolial punto di indurne alcuni a proclamare la loro adesione,tuttavia soltanto teorica e “ideale”, a tale Buddismo cosìstraordinariamente conforme alla loro forma mentis“razionalista” e “positivista”.

S'intende che la nostra affermazione riguardante ilMahayana come incluso nel Buddismo fin dall'origine variferita a ciò che potremmo chiamare la sua essenza,indipendente dalle forme più o meno speciali proprie delle suediverse scuole; d'accordo che queste forme sono soltantosecondarie, ma il “metodo storico” non permette di vederealtro, e ciò dà un'apparenza di giustificazione alle affermazionidegli orientalisti quando dicono che il Mahayana è “tardivo” oche rappresenta esclusivamente un Buddismo “alterato”. Acomplicare ulteriormente le cose s'aggiunge il fatto che ilBuddismo uscendo dall'India si è in una certa misuramodificato, ed in modi diversi, cosa che d'altronde eraindispensabile perché potesse adattarsi ad ambienti tra lorodiversissimi; l'intera questione riposa dunque sul fatto di saperefin dove queste modificazioni si spingono, questione che nonpare di soluzione troppo facile, soprattutto per coloro che nonhanno se non una idea estremamente vaga delle dottrinetradizionali con le quali il Buddismo è venuto in contatto. Così

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è in particolare dell'Estremo Oriente, nel quale il Taoismo hamanifestamente influenzato, almeno nelle loro modalità diespressione, certe branche del Mahayana; la scuola Zen, inparticolare, ha adottato metodi la cui ispirazione taoista èevidentissima.

Tale fatto può ricevere una spiegazione dal particolarecarattere della tradizione estremo-orientale, e dalla profondaseparazione esistente fra i suoi due aspetti interiore edesteriore, vale a dire fra il Taoismo e il Confucianesimo; in talicondizioni il Buddismo poteva in un certo modo venire adoccupare il suo posto in una zona intermedia, ed effettivamentesi può dire che esso sia in certi casi servito di “coperturaesterna” al Taoismo, ciò che permise a quest'ultimo dimantenersi sempre estremamente chiuso, cosa che gli sarebbestata altrimenti molto più difficile.

È questa la ragione per cui il Buddismo estremo-orientaleassimilò certi simboli d'origine taoista, identificando adesempio in alcuni casi, a causa della funzione “provvidenziale”che è loro propria, “Kuanyin” a un Bodhisattwa, o piùprecisamente a un aspetto femminile di Avalokiteshvara: disfuggita faremo notare che ciò ha causato un'altra confusioneagli orientalisti, i quali nella loro maggioranza conoscono ilTaoismo quasi soltanto di nome; costoro hanno pensato che“Kuan-yin” appartenga propriamente al Buddismo, e sembranoinvece ignorarne la provenienza essenzialmente taoista.

Fa d'altronde parte delle loro abitudini, quando si trovanodavanti a qualcosa di cui non sanno determinare l'esattocarattere o l'origine, di cavarsela con l'applicargli l'etichetta di“buddista”; si tratta d'un mezzo alquanto comodo pernascondere un imbarazzo più o meno cosciente, e tanto piùvolentieri ad esso fanno ricorso in quanto, grazie al monopoliodi fatto che essi sono risusciti a costituire a proprio favore,

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sono pressoché sicuri che nessuno insorgerà a contraddirli;cos'ha infatti da temere sotto questo riguardo chi abbia stabilitocome principio che nel campo di studi di cui si tratta l'unicavera competenza è quella che si acquista alla sua scuola? Nonc'è bisogno di dire naturalmente che tutto ciò che viene così,secondo la loro fantasia, dichiarato “buddista”, ed anche ciòche effettivamente lo è, per gli orientalisti non è che“Buddismo alterato”; in un manuale di storia delle religioni giàda noi ricordato, e nel quale il capitolo riguardante la Cinatestimonia inoltre, nel suo insieme, d'una incomprensioneparticolarmente sgradevole, si dichiara che “in Cina nonrestano più tracce del Buddismo primitivo”, e che le dottrineche vi permangono attualmente “di buddista non hanno che ilnome”; se si intende per “Buddismo primitivo” quel che gliorientalisti presentano come tale, ciò è del tutto esatto, mabisognerebbe prima accertare se è da accettare il concetto cheessi se ne fanno, o se non sia piuttosto quest'ultimo che, alcontrario, rappresenta effettivamente un Buddismo degenerato.

La questione dei rapporti del Buddismo con il Taoismo èancora relativamente facile da chiarire, a condizione, beninteso,che si sappia cos'è il Taoismo; ma bisogna riconoscere che cene sono di più complicate; ed è soprattutto quando si tratta nonpiù di elementi appartenenti a tradizioni estranee all'India, madi elementi indù, riguardo ai quali può essere difficile dire sesiano sempre stati più o meno strettamente connessi alBuddismo a causa dell'origine indiana di quest'ultimo, o non sisiano piuttosto integrati in un secondo tempo a qualcuna dellesue forme. Così è per esempio degli elementi shivaiti che tantaimportanza hanno nel Buddismo tibetano, denominatocomunemente, in modo assai poco corretto, “lamaismo”; e ciònon è nemmeno esclusivamente proprio del Tibet, giacchéanche a Giava si ritrova uno Shiva Buddha, prova irrefutabile

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di un'associazione dello stesso genere spinta al massimo dellesue possibilità. Di fatto la soluzione di tale questione sipotrebbe trovare nello studio delle relazioni del Buddismo, siapure quello originale, col Tantrismo; se non che quest'ultimo ècosì mal conosciuto in Occidente che sarebbe quasi inutileparlarne senza scendere a considerazioni lunghissime che nonhanno ragione di essere esposte in una trattazione come questa;ci conterremo perciò a quest'unica indicazione per la stessaragione che ci ha spinti a ricordare solo incidentalmente laciviltà tibetana, non ostante la sua importanza, al momentodella nostra enumerazione delle grandi divisioni dell'Oriente.

Ci resta ora da trattare, almeno sommariamente, un ultimopunto; come mai il Buddismo si è espanso in modo cosìrilevante al di fuori del suo paese d'origine e quivi ha riscossoun così notevole successo, mentre in tale paese d'origine èdegenerato in modo piuttosto rapido finendo con l'estinguersi?O non è forse precisamente in questa diffusione che risiede lavera ragion d'essere del Buddismo? Quel che intendiamo dire èche il Buddismo apparve realmente destinato fin dall'origine apopoli non indiani; e tuttavia fu necessario che esso avesseorigine dall'Induismo per ricevervi gli elementi da trasmetterealtrove dopo il necessario adattamento; ma questo compito unavolta assolto, era in fondo normale che esso scomparissedall'India, nella quale non aveva vera ragion d'essere.

A tal proposito si potrebbe fare un paragone abbastanzagiusto fra la situazione del Buddismo nei confrontidell'Induismo e quella del Cristianesimo nei confronti delGiudaismo, a condizione però che si tenga sempre ben contodelle differenze di prospettiva sulle quali abbiamo già insistito.In ogni caso è questa considerazione la sola che permetta diriconoscere al Buddismo, senza pericolo di commettere delleillogicità, il carattere di dottrina tradizionale che è impossibile

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rifiutare per la meno al Mahayana, così come l'eterodossia nonmeno evidente delle forme ultime e derivate del Hinayana; ed èanch'essa che può spiegare quale ha potuto essere in realtà lamissione del Buddha. Se quest'ultimo infatti avesse insegnatola dottrina eterodossa che gli attribuiscono gli orientalisti,sarebbe del tutto inconcepibile che numerosi Indù ortodossinon esitino, come fanno, a considerarlo un Avatara, vale a direuna “manifestazione divina”, di cui in verità quanto di lui siriferisce presenta tutti i caratteri; vero è che gli orientalisti, iquali per partito preso intendono eliminare tutto ciò che hacarattere “non umano”, vogliono che ciò sia soltanto“leggenda”, qualcosa cioè di privo d'ogni valore storico, edestraneo anch'esso al “Buddismo primitivo”, ma se sieliminano questi fatti “leggendari”, cosa rimane del fondatoredel Buddismo come individualità puramente umana?

Certo è quanto mai difficile da dire, ma la “critica”occidentale non s'inquieta per così poco, e per riuscire ascrivere una vita del Buddha arrangiata a suo gusto, arriva finoa escogitare, con l'Oldenberg, il principio secondo il quale gli“Indo-germani non ammettevano il miracolo”; come fare arestar seri davanti ad affermazioni simili? Una simile“ricostruzione storica” della vita del Buddha ha lo stesso valoredi quella della sua dottrina “primitiva”, e discende in bloccodagli stessi pregiudizi; sia nell'una che nell'altra si trattaprincipalmente di sopprimere tutto quel che mette in imbarazzola mentalità moderna; e sarebbe in grazia di un procedimentocosì grossolanamente “semplicista” che questa gente pensa diraggiungere la verità!

Di più non occorre dire, non essendo il Buddismo che cipreme di studiare in questa occasione, il quale però ciinteressava “situare” da un lato in rapporto alle dottrine indù, edall'altro nei confronti dei punti di vista occidentali ai quali si

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tenta di identificarlo più o meno indebitamente. Dopo questadigressione possiamo perciò ritornare alle concezionipropriamente indù, cosa che faremo non senza aver primaformulato un ultimo pensiero che potrà servire in qualchemodo da conclusione a tutto quel che abbiamo detto finora: segli orientalisti, i quali si sono per così dire “specializzati” nelBuddismo, commettono nei suoi confronti errori di tale gravità,cosa potrà valere quel che dicono delle altre dottrine, le qualiper essi sono sempre e soltanto state argomento di studisecondari e quasi “accidentali”?

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5 ‐ LA LEGGE DI MANU

Fra le nozioni capaci di porre in grande imbarazzo gliOccidentali, che non ne posseggono l'equivalente, possiamocitare quella che in sanscrito è espressa dalla parola “dharma”;certamente non mancano le traduzioni proposte dagliorientalisti, ma la maggior parte di esse sono grossolanamenteapprossimative o addirittura completamente erronee, sempre acausa della confusione di prospettive che abbiamo giàsegnalato.

Così, si vuole talvolta tradurre dharma con “religione”,quando non soltanto il punto di vista religioso non è quiapplicabile, ma nemmeno questa parola può servire a designareun contenuto dottrinale, supposto a torto di natura religiosa. Nési tratta dell'esecuzione dei riti, anch'essi privi d'altronde diogni carattere religioso, dal momento che i riti sono designatinel loro insieme da un'altra parola, “karma”, che viene allorausata in un'accezione speciale, e in qualche modo tecnica, delsuo senso generale di “azione”.

Per coloro che a tutti i costi vogliono vedere nella tradizioneindù una religione, rimane ancora quella che essi credonoessere la morale, ed è questa che verrebbe chiamata piùspecialmente dharma: da ciò, secondo i casi, interpretazionidiverse e più o meno secondarie, come quelle di “virtù”,“giustizia”, “merito”, “dovere”, tutte nozioni in effettiesclusivamente morali, le quali quindi, proprio per questaragione, sono ben lontane dal rendere il concetto in questione.

Il punto di vista morale, in mancanza del quale questenozioni sono prive di senso, in India non esiste: su ciò abbiamogià sufficientemente insistito, e abbiamo anche detto che ilBuddismo, il quale sarebbe stato il solo in grado di introdurlo,

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non giunse a questo estremo sulla via del sentimentalismo.D'altronde, notiamolo di sfuggita, queste nozioni stesse nonsono tutte ugualmente essenziali, anche ponendosi dal punto divista morale; intendiamo dire che alcune di esse non sonoaffatto comuni a tutte le concezioni morali indistintamente:infatti l'idea di dovere o di obbligazione manca nella maggiorparte delle morali antiche, e in particolare in quella degliStoici; non è che coi moderni, e soprattutto dopo Kant, che essaè giunta ad assumere un'importanza preponderante.

A questo proposito, è importante notare, trattandosi d'unadelle più frequenti fonti d'errore, che le idee e i punti di vistadiventati abituali hanno una tendenza intrinseca a presentarsicome essenziali; è per questo che ci si sforza di trasferirlinell'interpretazione di tutte le concezioni, anche le più lontanenel tempo e nello spazio, sebbene talvolta non ci sia da risaliremolto lontano per scoprirne l'origine e il punto di partenza.

Detto questo per disfarci delle interpretazioni erronee, chesono anche le più correnti, cercheremo di indicare il piùnettamente possibile che cosa bisogna realmente intendere perdharma. Come risulta dal senso della radice verbale “dhri”, dacui è derivata, questa parola nel suo significato più generalenon designa nient'altro che un “modo d'essere”; si tratta, se sivuole, della natura essenziale di un essere, che comprende tuttol'insieme delle sue qualità o proprietà caratteristiche, edetermina, attraverso le tendenze e le disposizioni che le sonoimplicite, il modo in cui questo essere si comporta, tanto nellasua totalità quanto in rapporto a ogni circostanza particolare.

Questa stessa nozione può essere applicata, non soltanto adun unico essere, ma ad una collettività organizzata, a unaspecie, a tutto l'insieme degli esseri di un ciclo cosmico o diuno stato di esistenza, o anche all'ordine totale dell'Universo; sitratta allora, ad un grado più o meno diverso, della conformità

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La Legge di Manu

alla natura essenziale degli esseri, realizzata nella costituzionegerarchicamente ordinata del loro insieme; ed è anche, perconseguenza, l'equilibrio fondamentale, l'armonia integrale cherisultano da tale sistemazione gerarchica, a che d'altronde siriduce la nozione stessa di “giustizia” quando sia spogliata delsua carattere specificamente morale.

Considerato così come principio d'ordine, quindi comeorganizzazione e disposizione interiore, per un essere o per uninsieme di esseri, dharma può in un certo senso opporsi akarma, che è soltanto l'azione mediante la quale taledisposizione verrà manifestata esteriormente, purché l'azionesia normale, cioè conforme alla natura degli esseri e dei lorostati, e ai rapporti che ne derivano. In queste condizioni ciò cheè “adharma” non è affatto il “peccato” in senso teologico, né il“male” in senso morale, nozioni entrambe estranee allo spiritoindù; è semplicemente la “non-conformità” con la natura degliesseri, lo squilibrio, la rottura dell'armonia, la distruzione o ilrovesciamento dei rapporti gerarchici.

Nell'ordine universale la somma di tutti gli squilibriparticolari concorre indubbiamente sempre all'equilibrio totaleche nulla potrebbe alterare; ma in ogni punto preso a parte e inse stesso lo squilibrio è possibile e concepibile, e, si tratti diapplicazioni sociali o d'altro,ma non è affatto necessarioattribuirgli un carattere morale per definirlo, secondo la suaportata, contrario alla “legge d'armonia” che regge così l'ordinecosmico come l'ordine umano. Precisato in tal modo il sensodella “legge” e liberatolo da tutte le applicazioni particolari ederivate alle quali può dar luogo, possiamo accettare la parola“legge” per tradurre dharma, in modo senza dubbio imperfettoancora, ma meno inesatto che con gli altri termini adottati nellelingue occidentali; ancora una volta, però, non è affatto dilegge morale che si tratta, e le stesse nozioni di legge

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scientifica e di legge sociale o giuridica qui non si riferisconoche a casi particolari.

In linea di principio, la “legge” può esser considerata comeun “volere universale”, per una trasposizione analogica che inuna simile concezione non lascia però sussistere niente dipersonale e tanto meno di antropomorfico. L'espressione diquesto volere in ogni stato dell'esistenza manifestata èdesignato come Prajapati, o “Signore degli esseri prodotti”; e inogni ciclo cosmico particolare questo stesso volere si manifestacome il Manu che dà a tale ciclo la legge che gli è propria. Ilnome Manu non deve quindi essere inteso come il nome di unpersonaggio mitico, leggendario o storico; esso designapropriamente un principio che si potrebbe definire, secondo ilsignificato della radice verbale “man”, come “intelligenzacosmica” o “pensiero riflesso dell'ordine universale”.

Questo principio è d'altra parte considerato come ilprototipo dell'uomo, il quale è chiamato “manava” in quantovenga considerato essenzialmente come “essere pensante”,caratterizzato dal possesso del “manas”, l'elemento mentale orazionale; il concetto di Manu è dunque equivalente, almenosotto certi aspetti, a quello che altre tradizioni, in particolare laQabbalah ebraica e l'esoterismo musulmano, designano comel'“Uomo universale”, e che il Taoismo chiama il “Re”.

Abbiamo visto in precedenza che il nome Vyasa non designaun uomo, ma una funzione; soltanto, si tratta in qualche mododi una funzione storica, mentre qui si tratta di una funzionecosmica che non potrà diventare storica se non nella suaapplicazione all'ordine sociale e senza d'altronde che ciòimplichi nessuna “personificazione”. In definitiva, la “legge diManu” per un ciclo o per una collettività qualsivoglia non èaltro che l'osservanza dei rapportai gerarchici naturali esistentifra gli esseri sottoposti alle condizioni speciali di quel ciclo o

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La Legge di Manu

di quella collettività, e l'insieme delle prescrizioni chenormalmente ne risultano. Non insisteremo qui su quantoriguarda la concezione dei cicli cosmici, tanto più che perrenderla facilmente intelligibile occorrerebbe darne unosviluppo eccessivo; ci limiteremo a dire che fra di essi non v'èsuccessione cronologica, bensì concatenazione logica ecausale, per cui ogni ciclo è determinato nel suo insieme daquello antecedente e determina a sua volta il conseguente inuna produzione continua, sottomessa alla “legge d'armonia”che stabilisce l'analogia costitutiva di tutti i modi dellamanifestazione universale.

Quando si giunge all'applicazione sociale, la “legge”, nellasua accezione specificamente giuridica, potrà essere formulatain uno “shastra”, o codice, il quale, in quanto espressione del“volere cosmico” al suo particolare livello, sarà riferito a Manuo più precisamente al Manu del ciclo attuale; è evidente peròche questa attribuzione non ha affatto il senso di definire ilManu come l'autore dello shastra, almeno nel senso ordinarioin cui un'opera puramente umana si dice di questo oquell'autore. Anche qui, come per i testi vedici, non si puòparlare di un'origine storica rigorosamente definibile, ed'altronde, come già abbiamo detto, tale origine è diimportanza nulla dal punto di vista dottrinale; inoltre fra i duecasi vi è da segnalare una grande differenza: mentre i testivedici sono designati col termine “shruti”, come frutto di unaispirazione diretta, il dharma-shastra appartiene solamente allacategoria di scritti tradizionali chiamata “smriti”, la cui autoritàè meno fondamentale, e che comprende sia i Purana che gliItihasa, considerati dall'erudizione occidentale, incapace com'èdi cogliere il senso profondo che ne fa tutt'altra cosa chesemplice “letteratura”, unicamente come poemi “mitici” o“epici”. La distinzione fra shruti e smriti corrisponde in fondo

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alla distinzione fra l'intuizione intellettuale pura e immediata,che si applica esclusivamente al dominio dei principimetafisici, e la coscienza stessa, di natura razionale, che siesercita sugli oggetti di conoscenza appartenenti all'ordineindividuale, com'è appunto il caso quando si tratta diapplicazioni sociali o simili.

Ciò nonostante l'autorità tradizionale del dharma-shastranon deriva affatto dagli autori umani che hanno potutoformularla - senza dubbio oralmente all'inizio, per iscritto inseguito - ed è indubbiamente questa la ragione per cui taliautori sono rimasti sconosciuti o indeterminati; essa derivaesclusivamente da ciò che ne fa veramente l'espressione della“legge di Manu”, cioè dalla sua conformità con l'ordinenaturale delle esistenze che è destinata a governare.

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6 ‐ IL PRINCIPIODELL'ISTITUZIONE DELLE CASTE

Ad illustrazione e conferma di quanto abbiamo esposto nelcapitolo precedente, aggiungeremo ora qualche chiarimentoriguardante l'istituzione delle caste, la quale, mentre haun'importanza primordiale nella “legge di Manu”, è inveceprofondamente incompresa dalla quasi totalità degli Europei.

Daremo in primo luogo questa definizione: la casta,designata indifferentemente dagli Indù con l'una o l'altra delledue parole “jati” e “varna”, è una funzione sociale determinatadalla natura propria di ogni essere umano. La parola “varna”nel suo senso primitivo significa “colore”, ragione per cuiqualcuno ha voluto in essa trovare una prova, o per lo meno unindizio della verosimiglianza dell'ipotesi secondo cui ladistinzione delle caste si sarebbe fondata all'inizio su differenzedi razza; quest'argomento non ha in realtà alcun peso, giacchéla stessa parola ha, per estensione, il senso generale di“qualità”, dal quale discende il suo impiego analogico perdesignare la natura particolare di un essere; quel che, cioè, sipuò chiamare la sua “essenza individuale”, la quale di fattodetermina la casta senza che la considerazione della razza abbiaa intervenire se non come uno degli elementi che possonoinfluire sulla costituzione della natura individuale.

Quanto alla parola “jati”, il suo significato proprio è quellodi “nascita”, da che si vuole arguire che la casta siaessenzialmente ereditaria, ciò che è un altro errore: se di fattola casta è nella maggior parte dei casi ereditaria, per principioessa non lo è affatto in modo rigoroso, dal momento che nellaformazione della natura individuale il peso dell'eredità, puressendo preponderante nella maggioranza dei casi, è invero

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tutt'altro che esclusivo; ma ciò richiede spiegazioni ulteriori.L'essere individuale è nel suo insieme considerato comecomposto di due elementi chiamati rispettivamente “nama”, ilnome, e “rupa”, la forma; questi due elementi sono in definitival'“essenza” e la “sostanza” dell'individualità, ovvero ciò che lascuola aristotelica chiama “forma” e “materia”, termini aventiperò un senso tecnico ben diverso dalla loro accezionecorrente; occorre anzi far notare che il termine “forma”, invecedi designare l'elemento da noi chiamato in tal modo pertradurre il sanscrito “rupa”, designa in questo caso, al contrario,l'altro elemento, quello che è propriamente l'“essenzaindividuale”.

Aggiungeremo che la distinzione da noi indicata, benchéanaloga a quella di anima e corpo seconda gli Occidentali, èlungi dall'esserle rigorosamente equivalente; la forma non èesclusivamente la forma corporea, ancorché non ci sia quipossibile insistere sull'argomento; quanto al nome, essorappresenta l'insieme di tutte le qualità o attributi caratteristicidell'essere considerato. Occorre poi fare un'altra distinzioneall'interno dell'“essenza individuale”: “namika”, ciò che siriferisce al nome in un senso più ristretto, ovvero ciò che ilnome particolare di ogni individuo deve esprimere, è l'insiemedelle qualità che appartengono in proprio a quest'ultimo, lequali gli derivano da null'altro che da se stesso; “gotrika”, ciòche appartiene alla razza o alla famiglia, è l'insieme dellequalità che vengono all'essere dall'eredità.

Questa seconda distinzione potrebbe trovare unarappresentazione analogica nell'attribuzione a un individuo diun “nome”, che lo caratterizza, e di un “cognome”; d'altrondeci sarebbero molte cose da dire sul significato originario deinomi e su ciò che essi dovrebbero essere chiamati adesprimere, ma siccome queste considerazioni non rientrano nel

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Il Principio dell'istituzione delle Caste

quadro del presente lavoro, ci accontenteremo di far rilevareche la determinazione del nome vero si confonde, in linea diprincipio, con quella della natura individuale vera e propria. La“nascita” nel senso del sanscrito “jati” è propriamente larisultante dei due elementi “namika” e “gotrika”: in essa èdunque contenuta l'influenza dell'eredità, la quale può esserenotevole, ma bisogna pure tener conto che vi interviene inoltreil fattore per cui l'individuo si distingue dai genitori e dagli altrimembri della famiglia.

È infatti ovvio che non possono esistere due esseri chepresentino la stesso complesso di qualità, sia fisiche chepsichiche: accanto a ciò che li accomuna bisogna tener conto diciò che li differenzia, e coloro stessi che vogliono tutto spiegarenell'individuo con l'influenza dell'eredità, si troverebberoindubbiamente in grande imbarazzo se dovessero applicare laloro teoria a un qualunque caso particolare; non chequest'influenza si debba negare, sennonché accanto ad essabisogna tener conto di altri elementi, come precisamente fa lateoria che abbiamo esposto.

La natura propria di ogni individuo implicanecessariamente, fin dall'origine, tutto il complesso delletendenze e delle disposizioni che si svilupperanno emanifesteranno nel corsa della sua esistenza, le qualidetermineranno in particolare, giacché è di questo che stiamotrattando, le sue attitudini per questa o quell'altra funzionesociale. La conoscenza della natura individuale consentiràquindi di assegnare a ciascun essere umano la funzione che gliconviene in virtù di tale natura, ovvero, in altri termini, il postoche esso deve normalmente occupare nell'organizzazionesociale. È facile capire che si tratta del fondamento diun'organizzazione veramente gerarchica, vale a direstrettamente conforme alla natura degli esseri, secondo

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l'interpretazione da noi data della nozione di dharma; senzadubbio restano sempre possibili errori di applicazione,particolarmente nei periodi di oscuramento della tradizione, maessi non sminuiscono assolutamente il valore del principio, lacui negazione importa invece, almeno in teoria, anche se nonsempre in pratica, la distruzione di ogni legittima gerarchia.

Contemporaneamente appare in tutta la sua evidenzal'assurdità dell'atteggiamento degli Europei, i quali si indignanoal pensiero che un uomo non possa passare dalla propria castaad una casta superiore: ciò significherebbe in realtà un vero eproprio cambiamento della natura individuale, come se un taluomo cessasse di essere se stesso per diventare un altro, ed èun'impossibilità manifesta; ciò che un essere è potenzialmentealla nascita egli continuerà ad essere lungo tutto il corso dellasua esistenza individuale. D'altronde, perché un essere sia ciòche è e non un altro essere, è una di quelle questioni che nonhanno a porsi; la verità è che ognuno, secondo la sua proprianatura, è un elemento necessario dell'armonia totale euniversale.

Il fatto è che considerazioni di questo genere sonoperfettamente estranee a coloro che vivono in società la cuicostituzione manca di principio e non riposa su nessunagerarchia, come le società occidentali moderne, in cui qualsiasiindividuo può ricoprire quasi indifferentemente le più diversefunzioni (comprese quelle per cui è meno adatto), e nelle quali,per di più, la ricchezza materiale tiene luogo pressochéesclusivamente d'ogni superiorità vera ed effettiva.

Da quanto abbiamo detto sul significato del dharmaconsegue che la gerarchia sociale deve riprodurreanalogicamente, secondo le proprie condizioni, la costituzionedell'“Uomo universale”; intendiamo con ciò dire che esiste unacorrispondenza tra l'ordine cosmico e l'ordine umano, e che tale

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Il Principio dell'istituzione delle Caste

corrispondenza, che si ritrova naturalmente nell'organizzazionedell'individuo (sia esso visto nella sua integralità o anchesemplicemente nella sua parte corporea), deve attualizzarsiugualmente, seconda la modalità che più particolarmente leconviene, nell'organizzazione della società.

La concezione di un “corpo sociale”, con organi e funzionicomparabili a quelli di un essere vivente, è del resto congenialeai sociologi moderni; se non che costoro si sono troppo inoltratisu questa strada, dimenticando che corrispondenza e analogianon sono da confondere con assimilazione e identità, e chel'accostamento fra i due casi, per essere legittimo, deve lasciarpermanere le necessarie diversità nelle rispettive modalità diapplicazione; per di più, nell'ignoranza delle ragioni profondedell'analogia, i sociologi non hanno mai potuto trarre nessunaconclusione valida per la costituzione di una vera gerarchia.

Dopo queste riserve diventa evidente che le espressioni chepotrebbero far pensare ad un'assimilazione dovranno venireintese in senso puramente simbolico, così come accade quandole designazioni ricavate dalle diverse parti dell'individuoumano vengono applicate analogicamente all'“Uomouniversale”. Questi rilievi sono sufficienti a far capire senzadifficoltà la descrizione simbolica dell'origine delle caste qualesi incontra in numerosi testi, e in primo luogo nel “Purusha-sukta” del Rig Veda: “Di Purusha il Brahmana fu la bocca, loKshatriya le braccia, il Vaishya le anche; lo Shudra nacquesotto i suoi piedi”.

Si tratta come si vede dell'enumerazione delle quattro castela cui distinzione è il fondamento dell'ordinamento sociale,anche se ognuna di esse può essere suscettibile di ulteriorisuddivisioni più o meno numerose e secondarie: i Brahmanacostituiscono essenzialmente l'autorità spirituale e intellettuale;gli Kshatriya il potere amministrativo, il quale comprende le

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attribuzioni giudiziarie e militari, di cui la funzione regale nonè che il grado più elevato; i Vaishya l'insieme delle differentifunzioni economiche, industriali, commerciali e finanziarie;quanto agli Shudra, è loro attribuito il compimento di tutti ilavori necessari ad assicurare la sussistenza esclusivamentemateriale della collettività.

È necessario aggiungere che i Brahmana non sono affatto“preti” nel senso occidentale e religioso del termine: è indubbioche le loro funzioni comportino l'esecuzione di riti di differentispecie, dovendo essi possedere le conoscenze necessarie a darea tali riti tutta la loro efficacia; ma soprattutto esse comportanola conservazione e la trasmissione regolare della dottrinatradizionale; d'altronde presso la maggior parte dei popoliantichi la funzione dell'insegnamento, raffigurata dalla boccanel simbolismo precedente, era parimenti considerata comefunzione sacerdotale per eccellenza, poi che la civiltà nella suainterezza era fondata su di un principio dottrinale. Per la stessaragione le deviazioni della dottrina appaiono generalmentelegate a una sovversione della gerarchia sociale, il che sipotrebbe osservare in particolare nel caso dei tentativi fatti adiverse riprese dagli Kshatriya per rovesciare la supremazia deiBrahmana, supremazia la cui ragion d'essere appare evidenteda tutto ciò che ci è occorso di dire sulla vera natura dellaciviltà indù.

A completare le considerazioni da noi qui sommariamenteesposte, sarebbe opportuno segnalare le tracce che leconcezioni tradizionali e primordiali poterono lasciare nelleantiche istituzioni europee, in particolare per ciò che riguardal'investitura di “diritto divino” conferita ai re, la cui funzioneera considerata alle origini, com'è indicato dalla radice stessadella parola “rex”, regolatrice essenziale dell'ordine sociale;queste cose però non possiamo che notarle di sfuggita, senza

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Il Principio dell'istituzione delle Caste

insistervi come forse sarebbe utile per metterne in evidenzatutto l'interesse. La partecipazione alla tradizione è pienamenteeffettiva soltanto per i membri delle prime tre caste; ciò èespresso dalle diverse designazioni che sono loroesclusivamente riservate, come quella di “arya”, da noi giàricordata, e quella di “dwija”, o “nato due volte”; la concezionedella “seconda nascita”, intesa in senso puramente spirituale, èd'altronde di quelle comuni a tutte le dottrine tradizionali, e ilCristianesimo stesso, nel rito del battesimo, ne presental'equivalente in modo religioso.

Per gli Shudra, la partecipazione è soprattutto indiretta, e percosì dire virtuale, in quanto non deriva generalmente che dailoro rapporti con le caste superiori; d'altra parte, per riprenderel'analogia con l'“organismo sociale”, le funzioni che essiesercitano non sono propriamente funzioni vitali, bensì attivitàin certo qual modo meccaniche, ed è per questo che essivengono raffigurati come nascenti non da una parte del corpodi Purusha, o dell'“Uomo universale”, ma dalla terra sotto isuoi piedi, cioè dall'elemento in cui si elabora il nutrimento peril corpo.

Esiste però un'altra versione, secondo la quale lo Shudra ènato dai piedi stessi di Purusha; la contraddizione non è cheapparente, e in fondo si tratta soltanto di due punti di vistadiversi, di cui il primo mette in evidenza l'importante diversitàche esiste fra le prime tre caste e gli Shudra, mentre il secondosi riferisce al fatto che nonostante questa diversità anche gliShudra partecipano alla tradizione. Sempre a proposito diquesta rappresentazione, dobbiamo far notare ancora che ladistinzione delle caste viene talvolta applicata, pertrasposizione analogica, non soltanto all'insieme degli esseriumani, ma anche a quello di tutti gli esseri animati compresinella natura intera, essendo detto che essi tutti nacquero da

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Purusha: secondo questa concezione il Brahmana è consideratoil prototipo degli esseri stabili, superiori cioè al cambiamento, elo Kshatriya il prototipo degli esseri mobili, cioè soggetti alcambiamento, poiché le loro funzioni si riferisconorispettivamente alla sfera della contemplazione e a quelladell'azione.

Pensiamo che quanto abbiamo detto sia sufficiente a farintravedere le questioni di principio implicite in questo generedi considerazioni, la cui portata va del resto di gran lunga oltrei confini della sfera sociale, alla quale abbiamo inteso quiriferirci come ad una particolare applicazione di esse: mostratacosì la natura di tale applicazione nell'organizzazionetradizionale della civiltà indù, non ci soffermeremoulteriormente sullo studio delle istituzioni sociali il quale noncostituisce l'argomento principale del presente lavoro.

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7 ‐ SHIVAISMO E VISHNUISMO

Il Principio supremo, totale e universale, chiamato “Dio”nelle dottrine religiose d'Occidente, è da intendersi comeimpersonale o come personale? È questa una domanda che puòdare origine a interminabili discussioni, e tutte senza una veraragion d'essere; essa infatti è conseguenza di concezioniparziali e incomplete che è vano tentare di conciliare senzaelevarsi oltre la speciale sfera, teologica o filosofica, che è loropropria.

Dal punto di vista della metafisica occorre dire che ilPrincipio è allo stesso tempo impersonale e personale, aseconda dell'aspetto sotto cui sia considerato: impersonale, o,se si vuole, “sopra-personale” in sé; personale nei confrontidella manifestazione universale, ma, beninteso, senza che tale“personalità divina” presenti nessun carattere antropomorfico,non dovendosi confondere la “personalità” conl'“individualità”. Questa distinzione fondamentale, in virtùdella quale le apparenti contraddizioni delle moltepliciprospettive secondarie si risolvono nell'unità d'una sintesisuperiore, è nella metafisica estremo orientale espressa comedistinzione tra “Non-essere” e “Essere”; essa è non meno nettanella dottrina indù, come d'altronde è richiesto dall'identitàessenziale della metafisica sotto le forme diverse di cui puòrivestirsi.

Il Principio impersonale, quindi assolutamente universale, èdesignato col termine Brahma; la “personalità divina”, che diesso è una determinazione o una specificazione, implicante ungrado minore di universalità, ha per designazione piùuniversale quella di Ishwara. Brahma, nella sua infinità, nonpuò essere caratterizzato da nessun attributo positivo, ciò che è

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espresso dicendo di esso che è “nirguna”, o “di là da ognidistinzione”; Ishwara invece è detto “saguna”, o “qualificato”,e “savishesha”, o “direttamente concepibile”, perché puòricevere tali attribuzioni che s'ottengono per trasposizioneanalogica, nell'universale, delle diverse qualità o proprietàdegli esseri di cui è il principio.

È evidente che è in tal modo possibile la concezione diun'indefinità di “attributi divini”, e che è possibile inoltre latrasposizione, mediante “trasferimento” di esse nel loroprincipio, di tutte le qualità che abbiano un'esistenza positiva;d'altra parte, ognuno di questi attributi dev'essere in realtàconsiderato come una base o un “supporto” per la meditazionedi un determinato aspetto dell'Essere universale.

Quanto abbiamo detto a proposito del simbolismo dovrebbefar si che ci si renda conto di come l'incomprensione da cui haorigine l'antropomorfismo possa aver come risultato ditrasformare gli attributi divini in altrettanti “dei”, in entità, valea dire, concepite secondo il tipo degli esseri individuali, e a cuiè attribuita erroneamente un'esistenza propria e indipendente.Si tratta d'uno dei casi più evidenti di “idolatria”, che assume laforma del “politeismo” e in cui il simbolo è scambiato per lacosa simboleggiata; è chiaro però che nessuna dottrina potémai essere politeista in se stessa e nella sua essenza, e che talepoté diventare solo per una profonda deformazione,deformazione che si generalizza molto meno spesso di quantopossa pensare l'opinione corrente; a dire il vero, d'una similegeneralizzazione ci è dato di conoscere un solo esempio certo,e si tratta della civiltà greco-romana; senza tener conto delleeccezioni che, benché rare, sicuramente vi furono nella suaélite intellettuale.

In Oriente, ove non esiste la tendenza all'antropomorfismo,se si escludono le aberrazioni individuali sempre possibili, ma

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Shivaismo e Vishnuismo

rare e anormali, niente di simile ha mai potuto accadere; ciòstupirà probabilmente gran numero di Occidentali, spinti dallaconoscenza esclusiva dell'antichità classica a voler dappertuttoscoprire “miti” e “paganesimo”, e tuttavia le cose stanno inquesto modo. In India, in particolare, una raffigurazionesimbolica che rappresenti l'uno o l'altro degli “attributi divini”,la quale riceve il nome di “pratika”, non è punto un “idolo”, poiche non è mai stata intesa in altro modo che come un supportodi meditazione e un mezzo ausiliario di “realizzazione”; ciòessa è realmente, ciascuno essendo libero, inoltre, di servirsi atale scopo, e di preferenza, dei simboli che sono più conformialle sue disposizioni personali.

Ishwara è visto sotto tre aspetti principali, formanti laTrimurti, o “triplice manifestazione”, dalla quale hanno originealtri aspetti, più particolari, secondari nei riguardi deiprecedenti. Brahmâ è Ishwara in quanto principio produttoredegli esseri manifestati; è così chiamato perché considerato ilriflesso diretto, nella sfera della manifestazione, di Brahma, ilPrincipio supremo. Per evitare possibili confusioni è necessarioricordare che il termine Brahma è di genere neutro, mentreBrahmâ è maschile; l'uso, abituale negli orientalisti, dellaforma Brahman, comune ai due generi, ha l'inconvenientegrave di non lasciar vedere questa distinzione essenziale, laquale è talvolta accentuata da espressioni come Para-Brahma, o“Brahma supremo”, e Apara- Brahma, o “Brahma nonsupremo”.

Gli altri due aspetti della Trimurti, complementari l'unodell'altro, sono Vishnu, che è Ishwara in quanto principioanimatore e conservatore degli esseri, e Shiva, che è Ishwara inquanto principio trasformatore (e non distruttore come si dicegeneralmente); si tratta dunque propriamente di “funzioniuniversali”, e non di entità separate e più o meno

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individualizzate. Come abbiamo accennato, ognuno, per porsidal punto di vista che più s'adatta alle sue possibilità, puònaturalmente accordare la preminenza a questa o quella di talifunzioni, e prima di tutto, a causa della loro almeno apparentesimmetria, accordare la preminenza all'una o all'altra delle duefunzioni complementari di Vishnu e di Shiva: da ciò ladistinzione tra “Vishnuismo” e “Shivaismo”, i quali non sono“sette” come gli Occidentali pensano, ma soltanto differenti viedi realizzazione, legittime e ortodosse entrambe.

È tuttavia necessario aggiungere che lo Shivaismo, il quale èmeno diffuso del Vishnuismo, e dà meno importanza ai ritiesteriori, è, per contrapposizione, in certo qual modo piùelevato, e porta più direttamente alla realizzazione metafisicapura; ciò è facilmente comprensibile quando si pensi allanatura del principio al quale esso dà la preponderanza, poi chela “trasformazione”, che deve essere qui intesa nel sua sensorigorosamente etimologico, è il passaggio “di là dalla forma”, eassume l'apparenza di una distruzione soltanto se vengaguardata dall'angolo visuale particolare e contingente dellamanifestazione; in realtà è il passaggio dalla manifestazione al“non-manifesto” e per suo mezzo si opera il ritornoall'immutabilità eterna del Principio supremo, fuori dalla qualenulla può esistere se non in modo illusorio.

A ognuno degli “aspetti divini” è attribuita una “potenza”, oenergia propria, chiamata “shakti”, e rappresentatasimbolicamente sotto una forma femminile: la shakti diBrahma è Sarasvati, la shakti di Vishnu è Lakshmi, quella diShiva è Parvati. Alcuni tra i Shaiva e tra i Vaishnava accordanouna particolare considerazione alle shakti, e vengono perquesta ragione chiamati “shakta”. Inoltre, ciascuno dei principidei quali abbiamo detto può ancora essere considerato sottouna pluralità di aspetti particolari, e da ognuno di questi ultimi

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Shivaismo e Vishnuismo

hanno origine altri aspetti secondari, derivazione che nellamaggior parte dei casi è descritta come una filiazionesimbolica. In questa sede non possiamo evidentemente daresviluppo a tutti questi concetti, tanto più che il nostro fineparticolare non è tanto l'esposizione delle dottrine in se stessequanto piuttosto l'indicazione dello spirito più favorevole in cuiè necessario intraprenderne lo studio se si vuol giungere allaloro comprensione.

Tanto gli Shaiva quanto i Vaishnava hanno, nell'insiemedegli scritti tradizionali designato collettivamente col nome di“smriti”, i loro testi propri, i Purana e i Tantra, che piùparticolarmente corrispondono alle loro rispettive tendenze.Queste tendenze si affermano in special modo a propositodell'interpretazione della dottrina degli Avatara, o“manifestazioni divine”; è questa una dottrina strettamenteconnessa alla concezione dei cicli cosmici, e meriterebbe a sésola che le si dedicasse uno studio particolare, studio che nonpossiamo pensare di cominciare in questo momento.

Aggiungeremo soltanto, per concludere la questione delloShivaismo e del Vishnuismo, che qualunque sia la via scelta daognuno come più adatta alla propria natura, il termine finale acui essa tende, ammessa in linea di principio la sua perfettaortodossia, non può essere che rigorosamente identico in ognicaso: si tratta di una “realizzazione” effettiva di caratteremetafisico, la quale potrà soltanto essere più o menoimmediata, o più o meno completa, a seconda delle condizioniparticolari e dell'estensione delle possibilità intellettuali diciascun essere umano.

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8 ‐ GLI ANGOLI VISUALI DELLA DOTTRINA

Le osservazioni precedenti permettono di capire comenell'unità essenziale d'una stessa dottrina tradizionale possanocoesistere una molteplicità di punti di vista che noncompromettono punto l'unità in questione. Ciò è d'altrondevero della comprensione d'ogni cosa, giacché è connaturato aciascuno di noi un modo di vedere che gli è proprio, di sortache si potrebbe dire che esistono altrettanti modi di vedere lecose, più o meno diversi, quanti sono gli individui; ma ciò valesoltanto per gli inizi, giacché, quando si giunga di là dalla sferaindividuale, tutte queste diversità, che non importanoincompatibilità, scompaiono inevitabilmente.

Sennonché, a parte questa differenza costituzionalmenteinerente a ciascun essere umano, ognuno di essi può porsi, perstudiare la dottrina sotto questo o quell'aspetto, da angolivisuali diversi, e gli aspetti sotto cui la dottrina sarà studiatasaranno tanto più nettamente definiti quanto più sonoparticolari, vale a dire più lontani, nell'ordine discendente delleapplicazioni, dall'universalità principiale. La totalità deipossibili e legittimi punti di vista è sempre contenuta,sinteticamente e nel suo principio, nella dottrina stessa, e quelche già ci è occorso di dire riguardo alla pluralità dei significatiche un testo tradizionale presenta, è sufficiente a far vederecome tale pluralità possa essere in essa contenuta; non resteràdunque altro da fare che sviluppare rigorosamente, seguendo idiversi angoli visuali, l'interpretazione della dottrinafondamentale.

È esattamente ciò che accade in India ed è espresso daltermine sanscrito “darshana”, il quale null'altro significa che“vista” o “angolo visuale”, poi che la radice verbale “drish”, da

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cui esso deriva, ha il senso principale di “vedere”. I darshanasono dunque propriamente i punti di vista della dottrina, enull'affatto, come la maggior parte degli orientalisti pensano,dei “sistemi filosofici” che si facciano concorrenza es'oppongano gli unì agli altri; nella misura in cui questi “angolivisuali” sono rigorosamente ortodossi, essi non possono venirea conflitto o a contraddizione. Abbiamo chiarito come ogniconcezione sistematica, prodotto dell'individualismointellettuale proprio dei moderni Occidentali, sia la negazionedella metafisica, la quale forma l'essenza vera e propria delladottrina; abbiamo anche ricordato quale sia la distinzioneprofonda che separa il pensiero metafisico dal pensierofilosofico, dicendo di quest'ultimo che è soltanto un modospeciale, peculiare dell'Occidente, da non potersi applicare inmodo valevole alla conoscenza d'una dottrina tradizionale chesi sia mantenuta conforme alla sua purezza e alla suaintegralità.

Non esiste perciò una “filosofia indù”, come non esiste una“filosofia cinese”, sempre che si voglia conservare alla parola“filosofia” un significato relativamente ben definito, significatoche si trova ad essere determinato dalla corrente di pensieroche ha origine dai Greci; d'altra parte, soprattutto se si tienconto di come s'è trasformata la filosofia nei tempi moderni,bisogna dire che l'assenza di un tal modo di pensiero in unaciviltà non ha proprio niente di particolarmente rincrescevole.Sennonché gli orientalisti si compiacciono di vedere neidarshana nient'altro che filosofia e sistemi, ai quali per di piùinsistono nel voler affibbiare le etichette in corso in Occidente:e tutto ciò perché non sono capaci di uscire dalle magliedell'educazione “classica” e ignorano compiutamente ledifferenze più tipiche fra la mentalità orientale e quellaoccidentale.

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Gli angoli visuali della dottrina

Il loro atteggiamento, quanto all'aspetto che stiamoconsiderando, è rigorosamente paragonabile a quello d'unuomo che, non sapendo nulla dell'attuale civiltà europea, ecapitatigli per caso tra le mani i programmi d'insegnamento diuna Università, ne traesse la bizzarra conclusione che i dottieuropei si dividono in diverse scuole rivali, ognuna delle qualiha un suo proprio sistema filosofico, e di cui le più importantisono quelle dei matematici, dei fisici, dei chimici, dei biologi,dei logici e degli psicologi; si tratterebbe evidentemente d'unosbaglio alquanto grottesco, ma non più ridicolo della pretesadiffusa fra gli orientalisti; e per di più costoro non hannonemmeno la scusa dell'ignoranza, o, per dir meglio, proprio laloro ignoranza è imperdonabile.

Per quanto ciò possa sembrare incredibile, è manifesto chele questioni di principio, che essi sembrano farsi un punto dieludere, non hanno mai travagliato il loro intelletto, d'altrondetroppo ristrettamente specializzato per poterle ancoracomprendere e stimare al giusto valore; si tratta d'uno stranocaso di “miopia intellettuale” all'ultimo stadio, ed è certo che,con simili disposizioni, gli orientalisti non arriveranno mai apenetrare il vero significato del minimo frammento di qualcunadi quelle dottrine orientali che si sono dati come missioned'interpretare a modo loro, in conformità coi loro punti di vistasquisitamente occidentali.

Per ritornare alla comprensione vera delle cose, gli angolivisuali da cui la dottrina può esser presa in esame sonoevidentemente suscettibili di maggiore o minor suddivisione;né sono tutti ugualmente irriducibili, giacché qualcuno di essi èin qualche modo più fondamentale, e ad esso gli altri possonoessere subordinati. Sarà perciò sempre possibile raggruppare ipunti di vista secondari intorno a quelli principali, e sarannoallora soltanto questi ultimi ad essere considerati

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separatamente, quali ed altrettanti rami dello studio delladottrina, e gli altri saranno tenuti per semplici suddivisioni chenon sarà nemmeno necessario, nella maggioranza dei casi,precisare. Sono queste le grandi divisioni, i rami principali, chericevono propriamente il nome di darshana, nel senso assuntoabitualmente dalla parola; seguendo la classificazione ammessageneralmente in India essi sono distinti in sei, che occorre avercura di non confondere poiché il loro numero è uguale alnumero di quelli che vengono chiamati i sei “Vedanga”.

Il significato letterale del termine Vedanga è “membro delVeda”; questa denominazione si applica a talune scienzeausiliarie del Veda, assumendo come paragone le membracorporee per il cui mezzo un essere agisce esteriormente; itrattati fondamentali che si riferiscono a queste scienze, e deiquali daremo l'enumerazione, fanno parte della smriti, e anzi, ingrazia del loro diretto rapporto col Veda, occupano in essa ilposto più importante.

La “Shiksa” è la scienza della corretta articolazione e dellapronuncia esatta, e comporta, assieme alle leggi dell'eufonia (lequali sono in sanscrito più importanti e più sviluppate che inqualsiasi altra lingua), la conoscenza del valore simbolico dellelettere; nelle lingue tradizionali infatti l'uso della scritturafonetica non implica punto la scomparsa di un significatoideografico, un esempio di che è dato pure dall'ebraico edall'arabo.

Il “Chandas” è la scienza della prosodia, la quale determinal'applicazione dei diversi metri in corrispondenza con lemodalità vibratorie dell'ordine cosmico che essi debbonoesprimere, ciò che fa di essi qualcosa di ben diverso da forme“poetiche” nel senso semplicemente letterario della parola; delresto la conoscenza profonda del ritmo e delle sue relazionicosmiche è comune a tutte le civiltà orientali, mentre è

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Gli angoli visuali della dottrina

completamente sconosciuta agli Occidentali. Il “Vyakarana” è la grammatica, che non si presenta però

come un insieme di regole dall'apparenza più o meno arbitrariacome abitualmente avviene in Occidente, dove di queste regolenon si conoscono le ragioni; essa si fonda al contrario suconcetti e classificazioni sempre in strettissimo rapporto con ilsignificato logico del linguaggio.

Il “Nirukta” è l'esplicazione dei termini importanti o difficiliche s'incontrano nei testi vedici; tale esplicazione non riposasoltanto sull'etimologia, ma, la maggior parte delle volte, anchesul valore simbolico delle lettere e delle sillabe cheintervengono nella composizione delle parole; di qui gliinnumerevoli errori degli orientalisti, i quali non sono in gradodi capire, o anche semplicemente concepire, quest'ultimo tipodi spiegazione, esclusivamente proprio delle lingue tradizionali(analogo del resto a quello che si ritrova nella Qabbalahebraica), e non vogliono, né possono, vedere che etimologie difantasia, o addirittura volgari “giochi di parole” in ciò che è inrealtà, e ovviamente, tutt'altra cosa.

Il “Jivotisha” è l'astronomia, ovvero, più esattamente,l'astronomia e l'astrologia insieme, che in India non vanno mail'una senza l'altra, non altrimenti di come accadde presso tutti ipopoli antichi, Greci compresi, i quali si servivanoindifferentemente sia dell'una sia dell'altra parola per indicareuna stessa e unica cosa; la distinzione fra astronomia eastrologia è tipicamente moderna, ma c'è da aggiungere che lavera astrologia tradizionale, quale si è mantenuta in Oriente,non ha quasi nulla in comune con le speculazioni “divinatorie”che alcuni tentano di mettere in piedi, sotto lo stesso nome,nell'Europa contemporanea.

In ultimo, il “Kalpa”, termine che ha inoltre altri significati,è sotto questo aspetto l'insieme delle prescrizioni riferentisi

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all'esecuzione dei riti, e la cui conoscenza è indispensabileperché questi ultimi abbiano piena efficacia; nei sutra che leesprimono, tali prescrizioni sono condensate in formuledall'apparenza molto prossima a quella di formule algebriche,attraverso una notazione simbolica particolare.

Oltre i Vedanga occorre ricordare gli “Upaveda”, parola concui sono indicate conoscenze d'ordine inferiore e tuttaviafondantisi su basi rigorosamente tradizionali; la sfera a cuiqueste conoscenze si riferiscono è quella delle applicazionipratiche.

Gli Upuveda sono quattro, in relazione con i quattro Vedaintesi come loro rispettivi principi:Ayur-Veda è la medicina, riferita come tale al Rig-Veda;Dhanur-Veda, la scienza militare, riferita al Yajur-Veda;Gandharva-Veda, la musica, riferita al Sama-Veda; Sthapatya-Veda, la meccanica e l'architettura, riferite all'Atharva-Veda.

Si tratta, secondo le concezioni occidentali, di arti più che discienze nell'accezione corrente della parola; ma il principiotradizionale che viene loro fornito conferisce loro un carattereun po' diverso, Naturalmente questa enumerazione dei Vedangae degli Upaveda non esclude punto le altre scienze che, pur nonessendo in essa comprese, furono in India studiate fin dai tempipiù antichi; si sa infatti, in particolare, che le matematiche,sotto la denominazione generale di “ganita”, e comprendenti“pati-ganita” o “vyakta-ganita”, l'aritmetica, “bijaganita”,l'algebra, e “rekta-ganita”, la geometria, subirono in India unosviluppo notevolissimo (in particolare le prime due), sviluppodi cui l'Europa, attraverso la mediazione degli Arabi, avrebbepiù tardi beneficiato.

Data in questo modo un'idea approssimativa dell'insiemedelle conoscenze tradizionali dell'India, le quali del resto sonoaltrettanti aspetti secondari della dottrina, ritorneremo ora ai

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Gli angoli visuali della dottrina

darshana, anch'essi da vedersi come parte integrante di questoinsieme, senza di che si rischierebbe di non comprendernenulla. Di fatto, bisogna non dimenticare che tanto in Indiacome in Cina una delle ingiurie più gravi che possano esserrivolte a un pensatore è vantare la novità e l'originalità dellesue concezioni, originalità e novità che, qualora esistessero,sarebbero sufficienti, in una civiltà essenzialmente tradizionale,a privare tali concezioni di ogni portata effettiva.

È evidente che tra coloro che si dedicarono in modo specialeallo studio di questo o quel darshana hanno potuto formarsidelle scuole che si distinguevano tra di loro per qualcheinterpretazione particolare, ma tali divergenze non si sono maispinte troppo lontano senza che uscissero dai confinidell'ortodossia; nella maggior parte dei casi esse, riferendosi apunti soltanto secondari, sono in fondo più apparenti che reali,e costituiscono piuttosto delle differenze di espressione, utilianch'esse perché si adattano a modi di comprendere diversi.

Per di più, è evidente che un “punto di vista” non ha maipotuto essere la proprietà esclusiva di qualche scuola, anche se,quando ci si accontenti di riguardarlo in superficie invece dicercar di afferrarne l'essenza, può talvolta sembrareidentificarsi con la concezione della scuola che lo sviluppò inmodo particolare; questa confusione è anch'essa tipica degliOccidentali, abituati ad assegnare alle individualità, come veree proprie “invenzioni”, tutte le concezioni che gli sonofamiliari: è questo uno dei postulati per lo meno impliciti delloro “metodo storico”, e ai nostri giorni la stessa prospettivareligiosa non sfugge alle conseguenze di questo particolaremodo di vedere le cose che nei suoi riguardi fa uso di tutte lerisorse dell'esegesi anti-tradizionale da noi già ricordata.

I sei darshana sono il Nyaya e il Vaisheshika, il Sankya e loYoga, la Mimansa e il Vedanta; essi sono abitualmente

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enumerati in questo ordine e a coppie, allo scopo disottolineare le loro affinità; quanto al voler assegnare un ordinedi successione cronologica al loro sviluppo, è questa unaquestione inutile e senza vero interesse, per le ragioni da noigià addotte, giacché si tratta di punti di vista che all'origineerano contenuti in perfetta simultaneità nella dottrinaprimordiale.

Per caratterizzarli sommariamente si potrebbe dire che iprimi due di questi sei punti di vista sono analitici, mentre glialtri quattro sono sintetici; sennonché gli ultimi due sidistinguono dagli altri in quanto sono, in modo diretto eimmediato, interpretazioni dello stesso Veda, dal quale tutto ilresto è derivato soltanto meno direttamente; di conseguenza leopinioni eterodosse, anche solo in modo parziale, non hanno sudi essi nessuna presa, mentre nelle scuole dedicatesi allo studiodei primi quattro darshana fu possibile che qualcuna se neproducesse.

Siccome definizioni troppo concise sarebbero per forza dicose incomplete, poco intelligibili, e di conseguenza poco utili,abbiamo pensato che fosse meglio riservare altrettanti capitolialle indicazioni generali riferentisi a ciascuno dei darshana,tanto più che l'argomento è di un'importanza tale, al fine che ciproponiamo in questo studio, da meritare d'esser trattato con uncerto agio.

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9 ‐ IL NYAYA

Il significato proprio del termine Nyaya è “logica” o anche“metodo”; dire, come fanno certuni, che questa parola hacominciato col designare una scuola e in seguito è diventatasinonimo di logica, significa semplicemente rovesciare l'ordinenaturale delle cose, poiché, per poco che si voglia ammettereche una scuola dev'essere caratterizzata da un nome che abbiagià un suo significato proprio, è esattamente il contrario chedeve accadere, ammesso e non concesso che un darshana possaessere monopolio di una qualsiasi scuola.

L'argomento di questo darshana è ed è sempre stato, di fatto,la logica; il suo sviluppo viene attribuito a Gautama senza chequesto nome, che fu comune a molti personaggi oltre che amolte famiglie dell'antica India, e che non è nell'occasioneaccompagnato da nessuna sia pur vaga indicazione biografica,possa essere riferito a una individualità precisa. Si è prodotto inquesto caso ciò che si verifica spesso in simili occasioni inOriente, dove di fronte alla dottrina, le individualità noncontano; è possibilissimo che in un'epoca lontana eindeterminata sia esistito un uomo chiamato Gautama che siconsacrò allo studio e all'insegnamento di quel ramo dellaconoscenza che è la logica; ma questo fatto, molto verosimile,è del tutto privo di interesse in se stesso, e il nome se ne èconservato con un valore puramente simbolico, per designarein qualche modo “l'aggregato intellettuale” formato da tutticoloro che, per un periodo indeterminato come inizio e comedurata, si dedicarono allo stesso studio.

Questo tipo di “entità collettiva”, di cui abbiamo già avutoun esempio in Vyasa, non è d'altronde una scuola, almeno nelsenso ordinario della parola, bensì una vera e propria funzione

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intellettuale; altrettanto si può dire dei nomi propri che sitrovano analogamente legati a ciascuno degli altri darshana;queste considerazioni, fatte una volta per tutte, cidispenseranno dal ritornarci sopra in seguito.

Abbiamo detto che il Nyaya è essenzialmente la logica; madobbiamo aggiungere che il termine è preso qui in un'accezionemolto meno ristretta che in Occidente, in quanto ciò che vienedesignato sotto questo nome invece di essere concepito comeuna parte della filosofia è inteso come un punto di vista delladottrina totale. Sfuggendo alla ristretta specializzazione che èinevitabile alla logica considerata in modo filosofico, e nondovendo inoltre integrarsi in nessun sistema, la logica indù haper queste ragioni una portata molto maggiore; per ben capirloci si ricordi di quel che abbiamo detto a proposito dei caratteridella metafisica: non sono le cose in se stesse che costituisconol'oggetto di una speculazione, ma il punto di vista da cui essevengono studiate.

Precedentemente avevamo detto che la logica concerne lecondizioni della comprensione nell'uomo; tutto ciò che puòessere considerato in modo logico è dunque l'oggettodell'umana comprensione, in quanto sia considerataeffettivamente sotto questo aspetto. Per conseguenza la logicacomprende nella sua prospettiva le cose considerate come“oggetti di prova”, di conoscenza ragionata, cioè, o discorsiva:è questo nel Nyaya il senso del termine “padartha” e,nonostante certe differenze, è anche questo il vero significatoche nell'antica logica occidentale avevano le “categorie”. Se ledivisioni e le classificazioni stabilite dalla logica hannocontemporaneamente un valore ontologico reale è perché vi èun'effettiva corrispondenza tra i due punti di vista, dalmomento che non si stabilisce, come nella filosofia moderna,un'opposizione radicale e artificiosa fra soggetto e oggetto.

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D'altronde il punto di vista logico è analitico, perchéindividuale e razionale; non è che a titolo di sempliceapplicazione all'ordine individuale che i principi logici, anche ipiù generali, sono fatti derivare dai principi metafisici ouniversali.

Il Nyaya distingue sedici padartha, il primo dei quali vienechiamato “pramana”, parola che abitualmente ha il senso di“prova”, ma che può anche essere tradotta con “evidenza”;quest'ultima traduzione è però impropria in molti casi, edinoltre ha l'inconveniente di far pensare al concetto di evidenzacartesiano, il quale è valido solo in campo matematico.

Per definire il vero significato della parola pramana bisognaconsiderare che il suo primo significato è quello di “misura”,ed in effetti ciò che esso designa sono i mezzi legittimi dellaconoscenza d'ordine razionale, ciascuno dei quali non èapplicabile che in una certa misura e sotto certe condizioni, o inaltri termini entro i confini di un particolare dominio di cuil'estensione definisce la portata; l'enumerazione di questi mezzidi conoscenza o di prova fornisce le suddivisioni del primopadartha.

Il secondo è “prameya” o “ciò che dev'esser provato”, vale adire ciò che è suscettibile di essere conosciuto da unoqualunque dei mezzi di cui abbiamo parlato; comprende, comesuddivisioni, una classificazione di tutte le cose che possonoessere afferrate dalla comprensione dell'uomo nella suacondizione individuale.

Gli altri padartha sono meno importanti e si riferisconosoprattutto alle diverse modalità del ragionamento o delladimostrazione; non ci dilungheremo a darne l'enumerazionecompleta, contenendoci invece a segnalare in particolare glielementi che costituiscono un'argomentazione regolare.L'argomentazione di cui si tratta, che viene chiamata “nyaya”

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in un'accezione secondaria e ristretta di questo termine (e chein definitiva è il prototipo della dimostrazione metodica),comprende, nella sua forma interamente sviluppata, cinque“avayava”, cioè membri o parti costitutive: “pratijna”, laproposizione o l'asserzione che si tratta di provare; “hetu”, laragione giustificativa di questa asserzione; “udaharana”,l'esempio che viene ad appoggiare tale ragione, e che inqualche modo le serve da illustrazione, ricordando un casogeneralmente noto; “upanaya”, applicazione al caso specificoin questione, cioè alla proposizione enunciata all'inizio; infine“nigamana”, il risultato o la conclusione, che è l'affermazionedefinitiva di questa stessa proposizione così come è statadimostrata.

È questa la forma completa dell'argomentazionedimostrativa, ma talvolta quest'ultima è applicata in formesemplificate o abbreviate che comportano soltanto i primi treelementi, o gli ultimi tre; sotto quest'ultima forma, inparticolare, essa presenta una somiglianza nettissima colsillogismo com'è stato teorizzato da Aristotele. Si ritrova infattiequivalente del termine maggiore e del termine minoredesignati rispettivamente con i nomi di “vyapaka” ocontenente, e “vyapya” o contenuto, che si riferiscono allostesso punto di vista dell'estensione logica; quanto al terminemedio, la sua funzione è sostenuta dalla ragione, “hetu”,chiamata anche “linga”, o segno che permette di riconoscere la“vyapti”, il legame invariabile cioè che esiste fra contenente econtenuto.

Queste incontestabili analogie, le quali fanno supporre comeipotesi per lo meno verosimile che Aristotele possa aver avutoqualche conoscenza del Nyaya, non devono tuttavia fardimenticare, come abbiamo già detto, che sussistono differenzeessenziali fra i due punti di vista: mentre il sillogismo greco

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non verte che sui concetti o sulla nozione delle cose,l'argomentazione indù verte invece più direttamente sulle cosein se stesse.

Quest'ultima osservazione richiede qualche spiegazione;prima di tutto è evidente che essa riguarda non la formaesteriore del ragionamento, che può essere quasi identica neidue casi, ma il contenuto vero e proprio di esso. Abbiamo dettoche la separazione e l'opposizione di soggetto e oggetto sonoaffatto tipiche della filosofia moderna; ma già presso i Greci ladistinzione fra le cose e la loro nozione andava un po' troppolontano, nel senso che la logica considerava soltanto i rapportifra le nozioni, come se le cose potessero esser conosciutesoltanto attraverso queste ultime.

Senza dubbio la conoscenza razionale è propriamente unaconoscenza indiretta, ed è perciò che essa è suscettibiled'errore; tuttavia, se non afferrasse le cose, almeno in una certamisura, essa sarebbe completamente illusoria, e non sarebbe inrealtà una conoscenza sotto nessun aspetto; se dunque si puòdire che noi conosciamo un oggetto in modo razionale permezzo della sua nozione, ciò avviene perché questa nozione èancora qualcosa dell'oggetto, e partecipa della sua naturaesprimendola nei nostri confronti.

È questa la ragione per cui la logica indù tiene conto nonsoltanto del modo nel quale noi concepiamo le cose, ma,contemporaneamente, delle cose com'esse sono da noiconcepite, il nostro modo di concepirle essendo in veritàinseparabile dal suo oggetto, senza di che perderebbe tutta lasua realtà; sotto questo riguardo la definizione scolastica dellaverità come “adaequatio rei et intellectus”, a ogni grado dellaconoscenza, è ciò che in Occidente più s'avvicina alla posizionedelle dottrine tradizionali d'Oriente, essendo quanto v'è di piùconforme ai dati della metafisica pura.

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Inoltre la dottrina scolastica, pur continuando quella diAristotele nelle sue linee generali, l'ha in molti punti corretta ecompletata; è tuttavia rincrescevole che essa non sia riuscita adaffrancarsi del tutto dalle limitazioni ereditate dalla mentalitàellenica, e più ancora che non abbia, come appare, penetrato leconseguenze profonde del principio, già stabilito da Aristotele,dell'identificazione per mezzo della conoscenza. È infatti invirtù di tale principio che quando il soggetto conosce unoggetto, sia pure d'una conoscenza solo parziale o addiritturasuperficiale, qualcosa dell'oggetto è nel soggetto ed è diventatauna parte del suo essere; qualunque sia l'aspetto sotto cuiriguardiamo le cose, sono queste cose stesse che noiafferriamo, per lo meno sotto un certo rispetto, che in ogni casoforma uno dei loro attributi, vale a dire uno degli elementicostitutivi della loro essenza.

Se si vuole possiamo ammettere di star facendo del“realismo”; la verità è che le cose stanno in questo modo, e nonè certo un termine che possa cambiarle; del resto, a parlare conpieno rigore, i punti di vista particolari del “realismo” edell'“idealismo”, insieme con l'opposizione sistematica che laloro correlazione mette in risalto, non hanno posto in questasede, poi che ci troviamo ben di là dalla sfera ristretta delpensiero filosofico. Inoltre occorre non dimenticare che l'attodella conoscenza presenta due facce inseparabili: pur se èun'identificazione del soggetto con l'oggetto esso è anche, perla stessa ragione, una assimilazione dell'oggetto da parte delsoggetto: afferrando le cose nella loro essenza noi le“realizziamo” o “attualizziamo”, in tutta la forza del termine,come stati o modalità del nostro proprio essere; e se l'idea,nella misura in cui è vera e adeguata, partecipa della naturadella cosa, la ragione di ciò risiede nel fatto che, inversamente,la cosa partecipa della natura dell'idea. In breve, non esistono

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due mondi separati e radicalmente eterogenei, quali li supponela filosofia moderna chiamandoli “soggettivo” e “oggettivo”,né essi sono sovrapposti alla maniera del “mondo intelligibile”e del “mondo sensibile” di Platone; ma, come dicono gli Arabi,“l'esistenza è unica”, e tutto ciò che essa contiene non è che lamanifestazione, sotto molteplici modi ed aspetti, di un unico eidentico principio, che è l'Essere universale.

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10 ‐ IL VAISHESHIKA

denominazione del Vaisheshika è tratta dal termine“vishesha”, il cui significato è “carattere distintivo” e diconseguenza “cosa individuale”; questo darshana è perciòstabilito per la conoscenza delle cose individuali in quanto tali,riguardate in modo distintivo nella loro esistenza contingente.

Mentre il Nyaya prende in considerazione le cose nella lororelazione con l'umana facoltà di conoscere, il Vaisheshika leriguarda più direttamente in ciò che esse sono in sé; appareimmediatamente evidente la differenza delle due prospettive,insieme con la loro inevitabile correlazione, giacché quel che lecose sono nella conoscenza non può, alla fine, non essereidentico a quel che esse sono di per se stesse; tuttavia ladifferenza dei due punti di vista non scompare se non quandovengano l'uno e l'altro superati, sicché la loro distinzione èsempre opportuna entro i confini della sfera a cui essipropriamente si applicano.

Questa sfera è, di tutta evidenza, quella della naturamanifestata, fuori della quale il punto di vista individuale inquanto tale, di cui i due darshana in questione sono altrettantemodalità, perde ogni senso; la manifestazione universale puòperò essere riguardata sotto due aspetti differenti:sinteticamente, a partire dai principi da cui procede e dai qualiè determinata in tutti i suoi modi, e ciò fa il Sankhya, comevedremo in seguito; analiticamente, nella distinzione dei suoimolteplici elementi costitutivi, ed è ciò che fa il Vaisheshika.

Questa seconda prospettiva può addirittura contenersi aconsiderare specialmente uno dei modi della manifestazioneuniversale, quale ad esempio quello che forma l'insieme delmondo sensibile; anzi, di fatto, è a quest'ultimo che essa è

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costretta a limitarsi in modo pressoché esclusivo, poi che lecondizioni degli altri modi sfuggono di necessità alle facoltàindividuali dell'essere umano: ad essi non si può aver accessoper così dire che dall'alto, e cioè attraverso e per mezzo di ciòche nell'uomo va oltre i confini e le determinazioni relativeproprie dell'individuo.

Tutto questo eccede evidentemente il punto di vistadistintivo e analitico che stiamo presentemente delineando;tuttavia non si può comprendere in modo completo unaprospettiva particolare se non oltrepassandola, a condizionenaturalmente che tale punto di vista non si dia per indipendentee come avente tutta la propria ragion d'essere in se stesso, ma sipresenti legato a tali principi da cui deriva a mo' diapplicazione a una sfera contingente di qualcosa che appartienea un ordine differente e superiore.

Abbiam visto che questo ricollegamento ai principi, mentreassicura l'unità essenziale della dottrina in tutti i suoi rami, ècarattere comune di tutto l'insieme delle conoscenzetradizionali dell'India; esso costituisce la differenza profondaesistente fra il Vaisheshika e il punto di vista scientifico com'èinteso dagli Occidentali, punto di vista dal quale tuttavia,nell'insieme delle conoscenze tradizionali dell'India, ilVaisheshika è ciò che di meno distante esista.

In realtà il Vaisheshika è notevolmente più vicino a quellaprospettiva che presso i Greci formava la “filosofia fisica”; puravendo caratteristiche di analiticità esso è meno analitico dellascienza moderna, e per questa ragione non è soggetto allaristretta specializzazione che spinge quest'ultima a perdersinell'indefinita particolarità dei fatti sperimentali. Si tratta diqualcosa di più razionale e, in una certa misura, di piùintellettuale, intendendo quest'ultimo termine nel suo senso piùrigoroso: più razionale in quanto, pur mantenendosi nella sfera

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Il Vaisheshika

dell'individuale, è svincolato da ogni specie di empirismo; piùintellettuale, in quanto non perde mai di vista che la sferaindividuale nella sua integralità è ricollegata ai principiuniversali, da cui trae tutta la realtà di cui è capace.

Abbiam detto che con la parola “fisica” gli antichiintendevano la scienza della natura nella sua interezza; dunquequesto termine calzerebbe a pennello nella circostanza, mabisogna tener conto della restrizione che la sua accezioneoriginaria ha subito nei moderni, la quale è d'altrondeparticolarmente rivelatrice del mutamento di prospettiva che lecorrisponde. Per questa ragione, se si deve applicare unadenominazione occidentale a un punto di vista indù,preferiremmo per il Vaisheshika quella di “cosmologia”; ed'altra parte, poiché la “cosmologia” del medio evo presentavachiaramente i caratteri d'una applicazione della metafisica allecontingenze della sfera sensibile, essa è più vicina alVaisheshika della “filosofia fisica” dei Greci, la quale, in quasiogni caso, traeva i suoi principi dalla sfera delle contingenze, o,tutt'al più, entro i confini della prospettiva immediatamentesuperiore (e ancora particolare), a cui si applica propriamente ilSankhya.

Ciò nonostante, lo stesso oggetto del Vaisheshika può averprovocato, in una frazione di coloro che si dedicarono inparticolare al suo studio, una qualche tendenza di carattere“naturalistico”, che tuttavia, per essere in via generale alienaallo spirito orientale, non poté mai assumere in India losviluppo che le fu dato invece in Grecia presso i “filosofifisici”; o, per lo meno, furono soltanto alcune scuoleappartenenti alle forme più degenerate del Buddismo che laspinsero alle conseguenze a cui era logico dovesse giungere, eciò fu possibile soltanto perché queste scuole eranoapertamente fuori dell'unità tradizionale indù.

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Non è tuttavia contestabile che la tendenza affermatasi nellaconcezione atomistica fosse già presente nell'esposizioneregolare del Vaisheshika, giacché l'origine dell'atomismo,nonostante la sua potenziale tendenza eterodossa, è fattarisalire a Kanada, in una con lo sviluppo vero e proprio delVaisheshika al quale non è però necessariamente solidale. Lostesso nome Kanada sembra del resto contenere un'allusionealla concezione in questione, e se realmente esso è statoapplicato a un individuo, dovette trattarsi probabilmente di unsoprannome; il fatto che esso solo abbia potuto conservarsidimostra una volta di più quanta poca importanza gli Indùattribuiscano all'individualità.

Ad ogni buon conto, si può vedere in ciò che attualmente èil “supporto” di questo nome qualcosa che, a causa delladeviazione che si esprime in esso, si accosta maggiormente alle“scuole” dell'antichità occidentale di quanto d'analogo puòtrovarsi negli altri darshana. Similmente al Nyaya, ilVaisheshika distingue un certo numero di padartha,determinandoli naturalmente secondo un differente punto divista; i padartha del Vaisheshika non coincidono perciò conquelli del Nyaya, anzi possono rientrar tutti nelle suddivisionidel secondo di questi ultimi, prameya, o “ciò che è oggetto diprova”.

Il Vaisheshika rileva sei padartha, il primo dei quali èchiamato “dravya”; generalmente si traduce questa parola con“sostanza”, e tutto sommato la traduzione è corretta, acondizione però di intendere questo termine non in sensometafisico o universale, ma esclusivamente nel senso relativosecondo il quale è definita la funzione di soggetto logico, vale adire, in fondo, nel senso che esso ha all'interno dellaconcezione aristotelica delle categorie. Il secondo padartha è laqualità, chiamata “guna”, termine che ritroveremo trattando del

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Sankhya, ma applicato in modo diverso; in questa accezione lequalità sono gli attributi degli esseri manifestati, vale a direquelli che la dottrina scolastica chiama “accidenti”,raffrontandoli con la sostanza, ovvero con il soggetto che diessi è il supporto nella sfera della manifestazione in modoindividuale.

Quando si volessero trasferire le medesime qualità di là datale modo particolare per vederle nel principio stesso della loromanifestazione, esse dovrebbero essere intese come costituentil'essenza, nel senso in cui tale termine definisce un principiocorrelativo e complementare della sostanza, e ciò tantonell'ordine universale quanto (relativamente e percorrispondenza analogica), nella sfera individuale; tuttavial'essenza, anche al livello individuale (nella quale gli attributirisiedono “eminentemente” e non “formalmente”), sfugge allaprospettiva del Vaisheshika, che si pone dalla partedell'esistenza intesa nel suo senso più ristretto, ed è questa laragione per cui gli attributi non sono per esso veramentenient'altro che degli “accidenti”.

È a disegno che abbiamo esposto queste ultime osservazionidi carattere concettuale in un linguaggio che dovrebbe renderlepiù facilmente comprensibili a coloro che hanno qualcheabitudine della dottrine aristotelica e scolastica; tale linguaggioè del resto, nella fattispecie, il meno inadatto fra quelli offerticidall'Occidente. La sostanza, nei due significati di cui èsuscettibile la parola, è la radice della manifestazione, ma non èmanifesta in sé; manifestati sono soltanto i suoi attributi, chesono modalità di essa, e, inversamente, non hanno esistenzareale (all'interno della sfera contingente della manifestazione)se non nella sostanza e per la sostanza; è in quest'ultima chesussistono le qualità ed è in virtù di quest'ultima che l'azione èprodotta.

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Il terzo padartha è infatti “karma”, o l'azione; e l'azione,qual che sia la differenza che la separa dalla qualità, rientra conessa nella nozione generale degli attributi, poi che non è se nonuna “maniera d'essere” della sostanza; e ciò è espresso, nellacostituzione del linguaggio, dalla comune forma in verbiattributivi della qualità e dell'azione. L'azione è rilevata inmodo essenziale come movimento, o meglio ancora comecambiamento, la cui nozione (molto più estesa, e della quale ilmovimento è esclusivamente una specie), è quella che piùesattamente si applica sia nel nostro caso, sia a ciò che la fisicagreca presentava di analogo.

Si potrebbe di conseguenza dire che l'azione è per l'essereun modo transitorio e momentaneo, mentre la qualità è di essoun modo relativamente permanente e fino a un certo puntostabile; a considerare però l'azione nell'integralità delle sueconseguenze temporali e intemporali (che pure ha), anchequesta distinzione scompare, come è prevedibile quando sipensi che tutti gli attributi indistintamente procedono da unostesso principio, e questo tanto sotto il riguardo della sostanzaquanto sotto quello dell'essenza.

Non sarà necessario che ci dilunghiamo sui tre padartha cheseguono, i quali, tutto sommato, rappresentano delle categoriedi rapporti, vale a dire, nuovamente, determinati attributi dellesostanze individuali e dei principi relativi che costituiscono lecondizioni determinanti immediate della loro manifestazione.

Il quarto padartha è “samanya”, ossia la comunanza diqualità, che nei differenti gradi di cui è capace forma lasovrapposizione dei generi; il quinto è la particolarità o ladifferenza, chiamata in modo specifico “vishesha”, vale a direciò che appartiene in proprio a una determinata sostanza(ovvero ciò per cui tale sostanza è diversa da tutte le altre); ilsesto padartha è, infine, “samavaya”, l'aggregazione, cioè

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Il Vaisheshika

l'intima relazione di inerenza da cui sono uniti sostanza eattributi, la quale è essa stessa un attributo della sostanza.

L'insieme di questi sei padartha, che in tal modo comprendele sostanze e tutti i loro attributi, costituisce “bhava”, ol'esistenza; in opposizione correlativa a bhava è “abhava”,ovvero la non-esistenza, di cui talvolta si fa un settimopadartha, ma il cui concetto è esclusivamente negativo: si trattapropriamente della “privazione” intesa al modo d'Aristotele.

Per quanta riguarda le suddivisioni di queste categorie,insisteremo soltanto un po' su quelle della prima: esse sono lemodalità e le condizioni generali delle sostanze individuali. Inprimo luogo vengono i cinque “bhuta”, o elementi costitutividelle cose corporee, enumerati a partire da quello checorrisponde all'ultimo grado di questo modo di manifestazione,vale a dire secondo il senso che propriamente corrisponde allaprospettiva analitica del Vaisheshika: “prithwi”, la terra; “ap”,l'acqua; “tejas”, il fuoco; “vayu”, l'aria; “akasha”, l'etere; ilSankhya invece rileva gli stessi elementi in ordine inverso,quello cioè della loro produzione o della loro derivazione. Icinque elementi si manifestano rispettivamente mediante lecinque qualità sensibili che gli corrispondono e sono loroinerenti, e appartengono alle suddivisioni della secondacategoria; essi sono determinazioni della sostanza ecostituiscono tutto ciò che appartiene al mondo sensibile;sarebbe dunque un errore grave il considerarli come ancheapprossimativamente analoghi ai “corpi semplici” (d'altra parteipotetici), della chimica moderna, o il farli simili a “stati fisici”,seconda un'interpretazione piuttosto comune (ma noncompletamente corrispondente alla realtà), delle concezionicosmologiche dei Greci.

Dopo gli elementi, la categoria “dravya” comprende “kala”,il tempo, e “dish”, lo spazio; sono queste ultime le condizioni

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fondamentali dell'esistenza corporea, e per parte nostraaggiungeremo, senza poterci soffermare sull'argomento, cheesse formano, in quello speciale modo d'essere che costituisceil mondo sensibile, l'attività dei due principi che nell'ordinedella manifestazione universale sono denominatirispettivamente Shiva e Vishnu.

Queste sette suddivisioni si riferiscono esclusivamenteall'esistenza corporea; ma un essere individuale come l'essereumano, a intenderlo nella sua integralità, comprende, oltre lamodalità corporea, altri elementi costitutivi di natura diversa, esono questi ultimi a venir rappresentati dalle due ulteriorisuddivisioni della stessa categoria, “atma” e “manas”. Il manas,ovvero - per tradurre la parola con un termine di radice comune- il “mentale”, è l'insieme delle facoltà psichiche di naturaindividuale, vale a dire di quelle facoltà che appartengonoall'individuo in quanto tale e fra le quali nell'uomo la ragione èl'elemento caratteristico; quanto ad atma, che è molto maltradotto con “anima”, si tratta propriamente del principiotrascendente a cui l'individualità si ricollega essendogliinferiore; questo principio partecipa dell'intelletto puro e sidistingue dal manas, o meglio dall'insieme composta dal manase dall'organismo corporeo, come la personalità, in sensometafisico, si distingue dall'individualità.

È nella teoria degli elementi corporei che si fa posto laconcezione atomistica: un atomo, o “anu”, ha almenopotenzialmente la natura dell'uno o dell'altro degli elementi, edè in virtù della riunione di atomi di differenti specie sottol'azione d'una forza “nonpercepibile”, o “adrishta”, che tutti icorpi si sono formati. Ci è già occorso dire che tale concezioneè apertamente in contrasto col Veda, da cui è animata invecel'esistenza dei cinque elementi; tra essa e quest'ultima nonesiste di conseguenza nessuna relazione effettiva.

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Il Vaisheshika

In verità nulla è più facile che mettere in evidenza lecontraddizioni implicite nell'atomismo, il cui errore di fondoconsiste nel presupporre nella sfera della corporeità deglielementi semplici, quando in realtà tutto ciò che è corpo è pernecessità composto, soggetto com'è alla divisibilità perchéesteso, vale a dire sottoposto alla condizione spaziale; nulla sipuò trovare di semplice o d'indivisibile se non uscendo dallasfera dell'estensione, cioè dalla modalità particolare dimanifestazione che costituisce l'esistenza corporea.

Se si assume la parola “atomo” nel sua significato legittimo(quello di “indivisibile”), cosa che (anche se i fisici moderninon lo fanno ormai più) è necessario fare in questo caso, si puòdire che un atomo, in quanto senza parti, dev'esser senzaestensione; ora, una somma di elementi senza estensione nongenererà mai un'estensione; per cui se gli atomi sonoveramente quel che è implicito nella loro definizione, saràimpossibile che riescano a formare dei corpi. A questoragionamento ben noto (e inoltre perfettamente decisivo) neaggiungeremo un altro, di cui Shankaracharya si serve perconfutare l'atomismo: due cose possono venire a contatto peruna delle loro parti o per la totalità di se stesse; per gli atomi, iquali non hanno parti, la prima ipotesi è manifestamenteimpossibile; rimane la seconda, ciò che equivale a dire che ilcontatto o l'aggregazione di due atomi può soltanto esserrealizzato nella loro coincidenza, da che risulta chiaramentecome due atomi riuniti non possano esser niente di più di unatomo solo, e così via indefinitamente; come prima, dunque, unnumero qualsiasi di atomi non formerà mai un corpo.

L'atomismo si presenta dunque come un'impossibilità pura esemplice, e tale era stato da noi descritto quando precisammo ilsignificato secondo cui occorre intendere l'eterodossia.Atomismo a parte, la prospettiva del Vaisheshika, ridotto

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all'essenziale, è però perfettamente legittima, e l'esposizioneche precede ne definisce a sufficienza la portata e il significato.

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11 ‐ IL SANKHYA

Il Sankhya è anch'esso connesso con la sfera naturale, vale adire con la sfera della manifestazione universale; se non chequest'ultima è ora vista - come avevamo precedentementeindicato - in modo sintetico, partendo dai principi chedeterminano la sua produzione e dai quali essa trae tutta lapropria realtà. Lo sviluppo di questo aspetto della dottrina, inqualche modo intermedio fra la cosmologia del Vaisheshika ela metafisica, viene attribuito all'antico saggio Kapila; questonome non sta punto a rappresentare un uomo, e tutto ciò che sidice di lui ha un carattere puramente simbolico.

Quanto poi alla denominazione del Sankhya, essa haricevuto diverse interpretazioni; essa deriva da “sankhya”,parola che significa “enumerazione” o “calcolo”, e talvolta“ragionamento”; per suo mezzo viene indicata una dottrina cheprocede secondo l'enumerazione regolare dei differenti gradidell'essere manifestato; di fatto è questa la caratteristica delSankhya, il quale si può riassumere, nella sua integralità, nelladistinzione e nella considerazione dei venticinque “tattwa” oprincipi ed elementi veri, corrispondenti a tali gradi nella lorogerarchia.

Ponendosi dall'angolo visuale della manifestazione, ilSankhya assume come punto di partenza “Prakriti” o“Pradhana”, la sostanza universale, indifferenziata e non-manifesta in sé, dalla quale però procedono tutte le cose permodificazione; questo primo tattwa è la radice, o “mula”, dellamanifestazione, e i tattwa che lo seguono rappresentanoaltrettante modificazioni di esso a livelli differenti. Al primogrado è “Buddhi”, chiamata altresì “Mahat”, o “il grandeprincipio”, che è l'intelletto puro, trascendente nei confronti

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degli individui; a questo punto siamo armai nellamanifestazione, anche se ancora nell'ordine universale. Algrado che segue troviamo invece la coscienza individuale,“ahankara”, che procede dal principio intellettuale per unadeterminazione “particolaristica”, se è permessa un'espressionedi questo genere, e produce a sua volta gli elementi seguenti.

Questi sono prima di tutto i “tanmatra”, determinazionielementari incorporee e non percepibili che saranno i principirispettivi dei cinque “bhuta” o elementi corporei; il Vaisheshikaera tenuto a considerare soltanto questi ultimi, e non i tanmatra,il cui concetto non interviene se non quando si voglia riferire lanozione degli elementi o delle condizioni della modalitàcorporea ai principi dell'esistenza universale. Vengono inseguito le facoltà individuali, prodotte per differenziazionedella coscienza (della quale sono come altrettante funzioni),considerate in numero di undici, dieci esterne e una interna: ledieci facoltà esterne comprendono cinque facoltà diconoscenza, che nella sfera della corporeità sono facoltà disensazione, e cinque facoltà d'azione; la facoltà interna è il“manas”, insieme facoltà di conoscenza e facoltà d'azione,direttamente unito alla coscienza individuale.

Dopo di che ritroviamo i cinque elementi corporei,enumerati ora nell'ordine della loro produzione omanifestazione: l'etere, l'aria, il fuoco, l'acqua e la terra; sihanno così ventiquattro tattwa, compresavi Prakriti e tutte lesue modificazioni. Fino a questo punto il Sankhya vede le coseesclusivamente sotto il rapporto della sostanza, intesa in sensouniversale; sennonché, come dicevamo in precedenza, occorretener conto corrispondentemente, e in quanto secondo polodella manifestazione, d'un principio complementare delprecedente, al quale si può dare il nome di essenza. A questoprincipio il Sankhya attribuisce il nome di “Purusha” o

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Il Sankhya

“Pumas”, e lo riguarda come il venticinquesimo tattwa,completamente indipendente dai precedenti; tutte le cosemanifestate sono prodotte da Prakriti, ma senza la presenza diPurusha tali produzioni non avrebbero se non un'esistenzapuramente illusoria.

Contrariamente a quanto certuni pensano, il tener conto diquesti due principi va senza la minima traccia di dualismo: purnon derivando l'uno dall'altro e pur non essendo l'uno all'altroriducibili, questi due principi procedono entrambi dall'Essereuniversale, nel quale formano la prima di tutte le distinzioni.Del resto il Sankhya non è tenuto ad andar oltre taledistinzione, e il prendere in considerazione l'Essere puro nonrientra nella sua prospettiva; tuttavia, poiché non è punto unsistema, il Sankhya lascia possibile tutto ciò che lo sovrasta, edè questa la ragione per cui esso evita il dualismo nel modo piùassoluto.

Per mettere queste considerazioni in connessione con quantoci toccò dire precedentemente del dualismo, aggiungeremo chela concezione occidentale di spirito e materia non corrispondealla distinzione di essenza e sostanza che in un dominiospecialissimo e in qualità di mera applicazione particolare fraun'indefinità di altre analoghe e ugualmente possibili; da ciò sipotrà apprezzare quanto, pur senza essere ancora sul terrenodella metafisica pura, siamo già tuttavia lontani dallelimitazioni del pensiero filosofico.

Ma è necessario che ritorniamo brevemente al concetto diPrakriti: essa possiede tre guna o qualità costitutive, in perfettoequilibrio nella sua indifferenziazione primordiale; ognimanifestazione o modificazione della sostanza costituisce unarottura di questo equilibrio, e gli esseri, nei loro differenti statidi manifestazione, partecipano dei tre guna in grado diverso e,per dirla in questo modo, secondo proporzioni indefinitamente

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varianti. I guna non sono perciò stati, ma condizionidell'esistenza universale alle quali sono soggetti tutti gli esserimanifestati, e che bisogna aver cura di distinguere dallecondizioni speciali che determinano questo o quello stato, omodo, della manifestazione, quali lo spazio o il tempo, checondizionano lo stato corporeo ad esclusione di tutti gli altri. Itre guna sono: “sattwa”, la conformità all'essenza puradell'Essere o “Sat”, che viene fatta identica alla luceintelligibile o alla conoscenza e rappresentata quale unatendenza ascendente: “rajas”, l'impulso espansivo, secondo ilquale l'essere si sviluppa in un certo stato e, per così dire, a undeterminato livello dell'esistenza; infine, “tamas”, l'oscurità,fatta identica all'ignoranza e rappresentata quale una tendenzadiscendente.

È facilmente constatabile, ora, quanto siano insufficienti efinanco false le interpretazioni correnti degli orientalisti, inparticolare le interpretazioni dei primi due guna, le cuidenominazioni rispettive vengono tradotte come “bontà” e“passione”, quando non contengono invece proprio niente dimorale né di psicologico. Non abbiamo qui la possibilità diesporre più completamente questo importantissimo concetto,né di trattare delle applicazioni diverse a cui esso può darluogo, in ispecie per ciò che riguarda la teoria degli elementi; ciaccontenteremo di segnalarne l'esistenza.

D'altra parte sul Sankhya in generale non è il caso per noid'insistere molto a lungo; ciò sarebbe forse stato necessario senon avessimo già sottolineato buona parte delle caratteristicheessenziali di questo punto di vista insieme a quelle delVaisheshika e in paragone ad esse; ci resta dunque soltanto piùda chiarire qualche equivoco. Gli orientalisti che confondono ilSankhya con un sistema filosofico volentieri lo dicono unadottrina “materialistica” e “atea”; non è il caso di dire che è il

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Il Sankhya

concetto di Prakriti a esser da loro identificato con la nozionedi materia, ciò che è totalmente sbagliato, e che essi, nella lorointerpretazione deformata, trascurano bellamente di tener contodi Purusha. La sostanza universale non è niente affatto lamateria, la quale al massimo ne è una determinazione restrittivae speciale: ci è già occorso di dire che la nozione stessa dimateria, così com'essa si è venuta costituendo presso gliOccidentali moderni, presso gli Indù non esiste così come nonesisteva presso gli stessi Greci.

Non riusciamo dunque molto bene a capire a cosa si riducaun “materialismo” senza la materia; nello stesso Occidentel'atomismo degli antichi, se fu “meccanicistico” non fu perquesto “materialistico”, ed è meglio che si conservino per lafilosofia moderna quelle “etichette” che, inventate per essaesclusivamente, non aderiscono minimamente a nessun'altraconcezione. Il Sankhya del resto, pur avendo per oggetto lanatura, non rischia, per il modo in cui la riguarda, nemmeno didar luogo a una tendenza al “naturalismo” come quella da noiconstatata a proposito della forma atomistica del Vaisheshika; amaggior ragione non può essere “evoluzionistico”, come hannoimmaginato altri, quand'anche l'“evoluzionismo” sia intesonella sua più generale concezione e senza che si faccia di essoil sinonimo di un grossolano “trasformismo”; simile confusionedi prospettive è troppo insensata perché sia il caso di insistercisu ulteriormente.

Quanto all'accusa di “ateismo”, ecco com'essa è fondata: ilSankhya è “nirishwara”, non fa cioè intervenire il concetto diIshwara, ovvero della personalità divina; sennonché, se in essonon v'è traccia di tale concetto, è soltanto perché, per il tipo diprospettiva di cui si tratta, in esso non ha da trovarsi, così comenon si ritrova nel Nyaya e nel Vaisheshika. La noncomprensione di qualcosa in una prospettiva più o meno

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particolare diventa negazione soltanto quando la prospettiva inquestione abbia la pretesa di imporsi come esclusiva, vale adire quando essa si eriga a sistema, ciò che qui non avvieneaffatto; agli orientalisti potremmo chiedere, per tutta risposta,se la scienza europea, nella sua forma attuale, sia da dichiararsiessenzialmente “atea” in quanto non fa intervenire nel suocampo l'idea di Dio, idea di cui ad essa non tocca di tener contocome di alcunché che sfugge alla sua competenza.

D'altronde, a fianco del Sankhya, di cui abbiamo finito ditrattare, esiste un altro darshana che viene talvolta consideratocome un secondo ramo del Sankhya, complementare colprecedente, e che, perché sia distinto da questo, viene detto“seshwara” in quanto tiene conto, esso, del concetto diIshwara; questo darshana, di cui tratteremo ora, è quello cheviene abitualmente chiamato Yoga per un fenomeno diidentificazione della dottrina con il fine che esse si propone.

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12 ‐ LO YOGA

La parola yoga ha propriamente il significato di “unione”;incidentalmente diremo, quantunque la cosa abbia tuttosommato solo un'importanza relativa, che non ci rendiamo benconto del perché un buon numero di autori europei usi questotermine al femminile, quando esso è invece maschile insanscrito. Questo termine ha principalmente la funzione didesignare l'unione effettiva dell'essere umano con ciò che èuniversale; applicato a un darshana, la cui formulazione insutra è attribuita a Patanjali, esso indica che il darshana inquestione ha come fine l'attualizzazione di questa unione ecomporta i mezzi per pervenire a essa. Mentre il Sankhya èesclusivamente un punto di vista teorico qui si tratta dunqueinvece di realizzazione, nel senso metafisico da noi indicato,checché ne pensino coloro che pretendono trovare nello Yogauna “filosofia”, come gli orientalisti ufficiali, o coloro che,come certi sedicenti “esoteristi”, i quali si danno da fare persostituire con teorie di fantasia la dottrina che gli manca, ladicono essere “un metodo di sviluppo dei poteri latentidell'organismo umano”.

L'angolo visuale in questione si riconnette a un livelloassolutamente diverso, incomparabilmente superiore a quantoimportano interpretazioni di tal genere, e la sua comprensionesfugge sia agli unì sia agli altri; cosa del resto perfettamentenaturale, se si tien conto che in Occidente nulla di analogo èconosciuto. Dal punto di vista teorico lo Yoga completa ilSankhya introducendo la nozione di Ishwara, che, identicoall'Essere universale, permette prima di tutto l'unificazione diPurusha (principio multiplo se considerato esclusivamentenelle esistenze individuali), poi l'unificazione di Purusha e di

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Prakriti, per essere l'Essere universale di là dalla lorodistinzione in quanto loro principio comune. Lo Yoga ammettelo sviluppo della natura o della manifestazione tal quale èdescritta nel Sankhya; ma, assumendola come base perun'attualizzazione che deve condurre di là dalla naturacontingente, la vede per così dire in senso inverso di quello delsuo sviluppo, e come in via di ritorno verso il suo fine ultimo,il quale è identico al suo principio iniziale.

Nei rapporti con la manifestazione il principio primo èIshwara, o l'Essere universale; con ciò non è detto che taleprincipio sia primo assolutamente nell'ordine universale, giustala distinzione fondamentale, da noi già sottolineata, fraIshwara, l'Essere, e Brahma, che è di là dall'Essere; sennonché,per gli esseri manifestati, l'unione con l'Essere universale puòvenir considerata come uno stadio necessario sul camminodell'unione con il supremo Brahma. Del resto la possibilità diandare oltre l'Essere, sia teoricamente sia come“realizzazione”, presuppone la metafisica totale, che lo “Yoga-shastra” di Patanjali non ha affatto la pretesa di rappresentareda solo.

La realizzazione metafisica consiste essenzialmentenell'identificazione per mezzo della conoscenza, e tutto ciò chenon è conoscenza non ha in essa che un valore di mezzoaccessorio; lo Yoga assume come punto di partenza e comemezzo fondamentale quella che è chiamata “ekagrya”, o la“concentrazione”. Questa stessa concentrazione, Max Müller loammette, è qualcosa di completamente estraneo allo spiritooccidentale, uso ad appuntare tutta la propria attenzione sullecose esteriori e a disperdersi nella loro molteplicitàindefinitamente mutevole; questa concentrazione è diventataper gli Occidentali pressoché impossibile da ottenere, e tuttaviaessa è la più importante di tutte le condizioni d'una

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Lo Yoga

realizzazione effettiva. La concentrazione può assumere comesupporto, soprattutto agli inizi, un pensiero o un simbolo, comeuna parola o un'immagine; in seguito questi mezzi ausiliaridiventano inutili, così come inutili diventano i riti e gli altrimezzi che possano esser stati impiegati congiuntamente perottenere lo stesso scopo. È d'altronde evidente che questo scoponon può essere ottenuto coi soli mezzi accessori, esterni allaconoscenza, da noi nominati or ora; ma questo non impedisceche tali mezzi, senza nulla avere di essenziale, non siano pernulla da trascurare, poi che possono essere di una grandissimaefficacia nel facilitare la realizzazione e portare, se non al suotermine, almeno a stadi preparatori di essa. È questa la veraragion d'essere di tutto ciò che riceve la denominazione di“hatha-yoga” ed è destinato da un lato a distruggere (opiuttosto a “trasformare”), quanto nell'essere umano èd'ostacolo alla sua unione con l'Universale, dall'altro apreparare tale unione attraverso l'assimilazione di determinatiritmi legati principalmente alla regolazione della respirazione;del resto, per le ragioni già annesse in precedenza, non competea noi estenderci sulle modalità della realizzazione.

Ad ogni buon conto è opportuno tener sempre presente chedi tutti i mezzi preliminari la conoscenza teorica è l'unicoveramente indispensabile, e che in seguito, nella realizzazione,è la concentrazione che avrà l'importanza più grande e piùimmediata perché è in diretta relazione con la conoscenza; ementre un'azione di qualsivoglia genere permane sempreseparata dalle sue conseguenze, la meditazione ocontemplazione intellettuale, chiamata in sanscrito “dhyana”,porta in se stessa i suoi propri frutti; per concludere, l'azionenon può avere come effetto di far uscire dalla sfera dell'azione,la qual cosa è invece implicita nella realizzazione metafisicaintesa nel suo vero scopo.

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Di fatto, sulla via della realizzazione si può andar più omeno lontano, o anche fermarsi dopo aver ottenuto qualchestato superiore ma non definitivo; a questi gradi secondari siriferiscono soprattutto le speciali regole prescritte dallo Yoga-shastra; tali gradi, invece di superarli in successione, si puòperò, ancorché senza dubbio con molto maggior difficoltà,oltrepassarli d'acchito per raggiungere direttamente lo scopofinale, e spesso quest'ultima via è designata col termine di“raja-yoga”. Quest'ultima espressione deve però intendersianche, e più rigorosamente, riferita al fine stesso dellarealizzazione, quali ne siano i mezzi o i modi particolari, i qualidevono evidentemente adattarsi nel miglior modo possibile allecondizioni mentali e anche fisiologiche di ciascuno; in questosenso il hatha-yoga, a ogni suo stadio, ha come ragion d'essereessenziale di condurre al raja-yoga.

Lo Yogi, nel senso proprio della parola, è colui che harealizzato l'unione perfetta e definitiva; non è dunque senzaabuso che questo termine è applicato a colui chesemplicemente si dedica allo studio dello Yoga in quantodarshana, o anche a colui che in modo effettivo segue la via direalizzazione che è in esso indicata senza essere però ancorapervenuto al Fine supremo al quale essa tende. Lo stato delvero Yogi è quello dell'essere che ha raggiunto e possiede nelloro pieno sviluppo le possibilità più alte; tutti gli stadisecondari a cui abbiamo fatto allusione gli appartengono, conciò e per ciò, nello stesso tempo, ma, si potrebbe dire, insoprappiù, e senza che assumano più importanza di quanta nonne abbiano, ognuno al proprio livello, nella gerarchiadell'esistenza totale di cui sono altrettanti elementi costitutivi.Ugual cosa si può dire del possesso di taluni poteri particolari epiù o meno straordinari, quali quelli chiamati “siddhi” o“vibhuti”: lungi dal dover essere ricercati per se stessi, tali

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Lo Yoga

poteri sono esclusivamente dei semplici accidenti cheappartengono al grado d'essere della “grande illusione” al paridi tutto ciò che ha carattere fenomenico, e lo Yogi se ne servesolamente in circostanze del tutto eccezionali; consideratidiversamente essi non potrebbero essere che altrettanti ostacolialla realizzazione completa.

È evidente ora quanto sia priva di fondamento l'opinionecorrente secondo cui lo Yogi sarebbe una sorta di mago, oaddirittura di stregone; di fatto coloro che fanno sfoggio di taliloro facoltà eccezionali, le quali corrispondono allo sviluppo diqualche possibilità, e non soltanto di carattere “organico” ofisiologico, non sono affatto degli Yogi, ma uomini che, peruna ragione o per l'altra, e generalmente per insufficienzaintellettuale, si sono arrestati a una realizzazione parziale einferiore che non va oltre l'estensione di cui è capacel'individualità umana, e se c'è una cosa di cui si può esser sicuriè che essi non andranno mai più lontano. Grazie allarealizzazione metafisica vera, svincolata da ogni contingenza (eperciò essenzialmente sopra-individuale), lo Yogi è fattoidentico a quell'“Uomo universale” di cui abbiam detto qualcheparola in precedenza; sennonché, per trarre tutte leconseguenze che ciò importa, ci toccherebbe uscire dai confiniche intendiamo attualmente imporci.

E d'altra parte è principalmente al hatha-yoga (vale a direalla preparazione), che si riferisce il darshana al cui propositoabbiamo presentato queste poche osservazioni, osservazionidestinate soprattutto, nelle nostre intenzioni, a opporsi aglierrori più diffusi su questo argomento; il resto, vale a dire ciòche riguarda il fine ultimo della realizzazione, deve essererimandato di preferenza alla parte puramente metafisica delladottrina, cioè al Vedanta.

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13 ‐ LA MIMANSA

Il termine “mimansa” ha, letteralmente, il significato di“riflessione profonda”; esso si applica in modo generico allostudio profondo del Veda con lo scopo di determinare il sensoesatto della shruti e di trarne le conseguenze implicite cosìnella sfera pratica come in quella intellettuale. Intesa in talmodo la Mimansa comprende i due ultimi dei sei darshana, iquali vengono allora chiamati “Purva-Mimansa” e “Uttara-Mimansa”, vale a dire la prima e la seconda Mimansa, e siriferiscono rispettivamente alle due sfere d'applicazione da noiricordate.

A causa di ciò la prima Mimansa è anche chiamata “Karma-Mimansa”, in quanto riguarda il campo dell'azione, e laseconda “Brahma- Mimansa”, in quanto riguardaessenzialmente la conoscenza di Brahma; di notevole v'è dasegnalare che ora è il Brahma supremo, e non più Ishwara, aesser preso in considerazione, e ciò perché l'angolo visuale inquestione è l'angolo visuale della metafisica pura. La secondaMimansa è propriamente il Vedanta, cosìcché quando si parladi Mimansa senz'altra specificazione, come si fa nel presentecapitolo, sarà sempre la prima Mimansa che si intenderàesclusivamente. L'esposizione di questo darshana è attribuita aJaimini, e il metodo in esso seguito è il seguente: dapprima sisviluppano le opinioni errate su un argomento, poi le stesseopinioni sono confutate e infine, come conclusione di tutta ladiscussione, si dà la vera soluzione della questione; similemetodo di esposizione presenta una notevole analogia conquello della dottrina scolastica nel medio evo occidentale.

Quanto alla natura degli argomenti trattati, essa è definita, alprincipio dei sutra di Jaimini, come uno strumento che serva ad

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appurare le prove e stabilisca le ragioni d'essere del dharmanella sua relazione con “karya” o “ciò che deve esser fatto”.Abbiamo già insistito a sufficienza sulla nozione di dharma esu ciò che si deve intendere per conformità dell'azione coldharma, di cui è qui questione in particolare; ricorderemoancora che la parola “karma” ha un doppio significato: ingenerale è l'azione sotto tutte le sue forme, spesso opposta a“jnana”, o la conoscenza, ciò che corrisponde nuovamente alladistinzione dei due ultimi darshana; in senso particolare etecnico è l'azione rituale quale è prescritta nel Veda, e in questoultimo senso è naturalmente frequente nella Mimansa, il cuifine è di dar le ragioni di tali prescrizioni e precisarne laportata.

La Mimansa comincia col considerare i differenti pramana omezzi di prova, che coincidono con quelli indicati dai logici, ealcune altre fonti di conoscenza delle quali questi ultimi nonavevano da tener conto nel loro particolare campo; le differenticlassificazioni dei pramana sono facilmente conciliabili se siconsiderano semplicemente come più o meno sviluppate ecomplete, poi che esse non contengono nulla di contraddittorio.Si distinguono poi diversi tipi di prescrizioni e ingiunzioni, ladistinzione più generate tra le quali è quella di ingiunzionediretta e di ingiunzione indiretta; la parte del Veda che contienei precetti è chiamata “brahmana”, in opposizione al “mantra” oformula rituale, e tutto ciò che è contenuto nei testi vedici èmantra o brahmana.

Del resto il brahmana non contiene esclusivamente regole,giacché le Upanishad, le quali sono puramente dottrinali ecostituiscono il fondamento del Vedanta, rientrano in questacategoria; il brahmana pratico però, a cui si riferisce inparticolare la Mimansa, è quello che dà indicazioni sul modo dieseguire i riti, sulle condizioni della loro esecuzione, sulle

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La Mimansa

modalità applicantisi alle differenti circostanze, e spiega ilsignificato degli elementi simbolici che intervengono nei riti eil senso dei mantra da usare in ciascun caso determinato.Riguardo alla natura e all'efficacia del mantra, così come, inmodo più generale, riguardo all'autorità tradizionale del Veda ealla sua origine “non umana”, la Mimansa sviluppa la teoriadella perpetuità del suono a cui abbiam fatto precedentementeallusione e, più precisamente, la teoria dell'associazioneoriginaria e perpetua del suono articolato con il sensodell'udito, la quale fa si che il linguaggio sia cosacompletamente diversa da una convenzione più o menoarbitraria.

Nella Mimansa trova altresì posto una teoria dell'infallibilitàdella dottrina tradizionale, infallibilità da intendersi inerentealla dottrina in sé, e di conseguenza non appartenente puntoagli individui umani; questi ultimi partecipano di essa soltantonella misura in cui conoscono effettivamente la dottrina el'interpretano con esattezza, e anche in tal caso l'infallibilitànon deve essere riferita agli individui come tali ma, sempre,alla dottrina che attraverso essi si esprime. E' questa la ragioneper cui soltanto coloro che conoscono il Veda integrale sonoqualificati per comporre scritti tradizionali riconosciuti,l'autorità dei quali è come una partecipazione all'autorità dellatradizione primordiale, dalla quale discende e nella quale ha ilsuo esclusivo fondamento, senza che l'individualità umana viintervenga minimamente; questa distinzione, nella tradizione,fra l'autorità fondamentale e quella derivata è la distinzione trala shruti e la smriti, da noi già ricordata trattando della “leggedi Manu”.

Il concetto dell'infallibilità connessa esclusivamente alladottrina è d'altronde una nozione comune tanto agli Indùquanto ai Musulmani; si tratta in fondo della nozione applicata

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dal Cattolicesimo al punto di vista speciale della religione,giacché l'“infallibilità pontificale”, intesa nel suo principio,appare essenzialmente legata a una funzione: l'interpretazioneautorizzata della dottrina, e non a un'individualità, la quale nonè mai infallibile fuori dell'esercizio di tale funzione di cui lecondizioni sono rigorosamente determinate.

A causa della natura della Mimansa è a questo darshana chesi ricollegano direttamente i “Vedanga”, o scienze ausiliarie delVeda, da noi definite in precedenza; basta ritornare a questedefinizioni per rendersi conto dello stretto legame che le unisceall'argomento che stiamo ora trattando. La Mimansa insisteperciò sull'importanza che presentano, per la comprensione deitesti, l'ortografia esatta e la corretta pronuncia insegnate dallaShiksha, e distingue le differenti classi dei mantra secondo iritmi che sono loro propri, ciò che discende dal Chanda. Inoltresi trovano in essa considerazioni connesse col Vyakarana,considerazioni, vale a dire, di carattere grammaticale, quali ladistinzione fra l'accezione regolare delle parole e le loroaccezioni dialettali o barbare e osservazioni su talune formeparticolari usate nel Veda e sui termini che nel Veda hanno unsenso diverso dal senso abituale; restano da aggiungere, inmolte occasioni, le interpretazioni etimologiche e simbolicheche costituiscono l'argomento del Nirukta.

La conoscenza del Jyotisha è poi necessaria per ladeterminazione del tempo in cui i riti devono essere eseguiti e,quanto al Kalpa, abbiamo già visto che esso contiene leprescrizioni concernenti propriamente tale esecuzione. Oltreciò, la Mimansa tratta di un gran numero di questioni digiurisprudenza; e non deve stupire, perché nella civiltà indùtutta la legislazione è necessariamente e essenzialmentetradizionale; incidentalmente, è da osservare una certa analogiatra, da una parte, il modo in cui sono condotti i dibattiti

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giuridici, e, dall'altra, le discussioni della Mimansa; anzi si puònotare addirittura identità nei termini utilizzati per denominarele fasi successive degli uni e delle altre. Tale rassomiglianzanon è certo fortuita, ma occorre evitare altresì di attribuirle unsignificato diverso da quello che essa ha in realtà, quello cioèd'un segno esteriore rivelatore dell'applicazione d'uno stessospirito a due attività connesse, pur se distinte; ciò sia detto perridurre al loro giusto valore le pretese dei sociologi, i quali,spinti dall'impulso strano ma piuttosto comune di tuttoricondurre alla propria specialità, approfittano di tutte lesimilitudini di vocabolario che possono rilevare, in ispecie nelcampo della logica, per concludere che si tratta di apporti delleistituzioni sociali ad altre scienze, quasi che le idee e i modi delragionamento non potessero esistere indipendentemente daistituzioni del genere, le quali invece non sono altro, in fondo,che un'applicazione di idee necessariamente preesistenti.

Qualcuno ha creduto di poter uscire da questa alternativa emantenere la primordialità del punto di vista sociale, conl'inventare qualcosa a cui è stato dato il nome di “mentalitàprelogica”; ma tale bizzarra presupposizione, in una con lecongetture generiche sui “primitivi”, non si fonda su nulla diserio, anzi è addirittura contraddetta da tutto ciò che di sicuro siconosce dell'antichità, e meglio sarebbe relegarla nel campodella pura fantasia, insieme con tutti i “miti” che i suoiinventori attribuiscono gratuitamente ai popoli di cui ignoranola vera mentalità. Esistono già fin troppe differenze reali eprofonde tra i modi di pensare tipici di ogni razza e d'ogniepoca senza che sia il caso di immaginare oltre a esse dellemodalità che non esistono, le quali complicano le cose invecedi semplificarle, e senza andare a cercare il cosiddetto tipoprimordiale dell'umanità in qualche contrada abitata dadegenerati che, se non sanno nemmeno più loro quel che

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pensano, certamente non hanno però mai pensato quel che glisi attribuisce; il fatto è che i veri modi del pensiero umano, aparte quelli dell'Occidente moderno, sfuggono integralmente eai sociologi e agli orientalisti.

Tornando alla Mimansa dopo la nostra digressione,segnaleremo ancora l'esistenza di una nozione che in essa hauna parte molto importante: si tratta della nozione denominatacol termine di “apurva”, ed è di quelle che sonoparticolarmente difficili da chiarire in una lingua occidentale;ciò nonostante cercheremo di far capire in cosa essa consista equel che essa comporti. Nel capitolo precedente abbiam dettoche l'azione, in ciò come in tutto il resto ben diversa dallaconoscenza, non porta in se stessa le proprie conseguenze;sotto questo riguardo l'opposizione tra azione e conoscenza è,tutto sommato, l'opposizione tra successione e simultaneità, esono le condizioni stesse dell'azione sotto ogni aspetto a far siche essa non possa produrre i suoi effetti che in modosuccessivo.

Ciò nonostante, perché una cosa possa esser causa, occorreche essa esista attualmente, e questa è la ragione per cui il verorapporto causale non può esser concepito che come un rapportadi simultaneità; se si intendesse come un rapporto disuccessione, ci si troverebbe di fronte a un istante in cuiqualcosa che non esiste più provoca qualcosa che non esisteancora, la qual supposizione è manifestamente priva di senso.Per la qual ragione, perché una cosa, che è in sé soltanto unamanifestazione momentanea, possa avere dei risultati futuri epiù o meno lontani, occorre che essa abbia, nello stessomomento in cui si compie, un effetto non presentementepercepibile, il quale però, persistendo permanentemente (ciòalmeno in modo relativo), produrrà in seguito, a sua volta, ilrisultato percepibile.

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Questo effetto non percettibile, e in qualche modopotenziale, è chiamato apurva, in quanto sovrapposto e nonanteriore all'azione; esso può essere inteso o come uno statoposteriore dell'azione o come un precedente stato del risultato,poi che l'effetto deve sempre esser contenuto virtualmente nellacausa, dalla quale non potrebbe discendere in nessun altromodo.

D'altronde, anche quando un determinato risultato appareseguire immediatamente l'azione nel tempo, non perciòl'esistenza intermediaria di un apurva è meno necessaria, inquanto anche in tale caso esiste successione e non simultaneitàperfetta, e l'azione in se stessa è sempre separata dal suorisultato. È in questo modo che l'azione sfugge all'istantaneitàe, in una certa misura, ai limiti della condizione temporale;l'apurva infatti, germe di tutte le sue conseguenze future, nonrisiedendo nella manifestazione corporea e sensibile, è fuori deltempo ordinario, ma non fuori di ogni specie di durata, inquanto appartiene ancora alla sfera delle contingenze.

Ora, l'apurva può, per una parte aderire all'essere che compìl'azione, come elemento ormai costitutivo della suaindividualità intesa nella sua parte incorporea, nella qualerisiederà finché essa dura, e, per un'altra parte, uscire daiconfini di questa individualità ed entrare nel campo delleenergie potenziali d'ordine cosmico; in questa sua secondaparte, se viene immaginato, in una rappresentazione senzadubbio imperfetta, come una vibrazione emessa in un puntodeterminato, tale vibrazione dopo essersi propagata fino aiconfini della sfera ad essa accessibile, ritornerà, in sensocontrario, al suo punto di partenza; e ciò, come esige la legge dicausalità, sotto la forma di una reazione avente la stessa naturadell'azione iniziale. Si tratta, nel modo più esatto possibile, diquelle che il Taoismo denomina “azioni e reazioni

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concordanti”; qualsiasi azione, e più genericamente ognimanifestazione, è una rottura d'equilibrio (come ci occorse diretrattando dei tre guna), ed è necessario che vi sia una reazionecorrispondente perché l'equilibrio sia ristabilito, tenuto contoche la somma di tutte le differenziazioni deve equivaleresempre, in fine, all'indifferenziazione totale.

Così la sfera umana e la sfera universale si toccano, e quantoabbiam detto completa l'idea che può concepirsi della relazionedel karma col dharma; occorre aggiungere immediatamente chela reazione, in quanto conseguenza del tutto naturaledell'azione, non è affatto una “sanzione” nel senso morale,anzi, si potrebbe dire che molto probabilmente la prospettivamorale è nata dall'incomprensione di questi argomenti e dallaloro deformazione sentimentale. Comunque stiano le cose, lareazione, nel suo influsso di ritorno sull'essere che produssel'azione iniziale, riassume il carattere individuale e allo stessotempo temporale che aveva perduto l'apurva intermediario; sel'essere in questione non si trova più nello stato primitivo, ilquale non era altro che un modo transitorio della suamanifestazione, la stessa reazione, ma svestita delle condizionicaratteristiche dell'individualità d'origine, potrà raggiungerlo inun altro stato di manifestazione attraverso gli elementi cheassicurano la continuità del nuovo stato con quello antecedente:si afferma così il concatenamento causale dei diversi cicli diesistenza, e quanto è vero per un determinato essere lo è pure,secondo l'analogia più rigorosa, per tutto l'insieme dellamanifestazione universale.

Se abbiamo insistito un po' troppo su questa spiegazione nonè semplicemente perché essa offre un interessante esempio diun certo tipo di teorie orientali, né perché ci si offrirà in seguitol'occasione di segnalare una falsa interpretazione di essa inOccidente; ma perché la teoria in questione ha una portata

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effettiva tra le più notevoli, anche in campo pratico, pur se, suquesto punto, sia prudente mantenere un certo riserbo econvenga contenersi a dare indicazioni generiche (come stiamofacendo), lasciando a ciascuno di trarne sviluppi e conclusioniin conformità con le proprie facoltà e tendenze personali.

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14 ‐ IL VEDANTA

Con il Vedanta ci troviamo, come abbiam detto, nella sferadella metafisica pura; è dunque superfluo ripetere che non sitratta né di una filosofia né di una religione, quand'anche gliorientalisti vogliano vedere in esso l'una o l'altra, o, comeSchopenhauer, l'una e l'altra ad un tempo. Il nome diquest'ultimo darshana significa etimologicamente “fine delVeda”, e la parola “fine” dev'essere nell'occasione intesa nelsuo duplice significato (che ha tanto in francese quanto initaliano) di conclusione e di scopo; le Upanishad infatti, sullequali il Vedanta essenzialmente si fonda, formano l'ultima partedei testi vedici, e il contenuto del loro insegnamento, nellamisura in cui può venir trasmesso, è il fine ultimo e supremodella conoscenza tradizionale, sfrondata da tutte le applicazionipiù o meno particolari e contingenti alle quali può dare originenei campi più diversi.

La denominazione stessa di Upanishad sta ad indicare cheesse sono destinate a distruggere l'ignoranza, radicedell'illusione che rinchiude l'essere entro i confini dell'esistenzacondizionata, e che esse operano tale effetto col fornire i mezziper avvicinarsi alla conoscenza di Brahma; se a taleconoscenza si tratta d'avvicinarsi soltanto, la ragione ne è che,essendo rigorosamente incomunicabile nella sua essenza, essanon può ottenersi effettivamente se non mediante un lavororigorosamente personale, a cui nessun insegnamento esteriore,per quanto elevato e profondo, ha la virtù di sostituirsi.

L'interpretazione da noi data è l'interpretazione sulla qualesono d'accordo tutti gli Indù competenti; sarebbe dunqueridicolo preferirle l'opinione senza autorità di alcuni autorieuropei, seconda i quali l'Upanishad sarebbe la conoscenza

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ottenuta sedendo ai piedi di un docente; la stesso Max Müllerd'altronde, pur accettando quest'ultima spiegazione, è obbligatoa riconoscere che essa non sta a significare niente di veramentecaratteristico, e che altrettanto bene converrebbe a qualsiasisezione del Veda, l'insegnamento orale essendo di tutte il modocomune di trasmissione regolare.

Il carattere incomunicabile della conoscenza totale edefinitiva deriva da ciò che di necessariamente inesprimibilev'è della sfera metafisica, e dal fatto che tale conoscenza, peressere veramente tutto ciò che deve, non può confinarsi nellapura teoria, ma comporta quale parte integrante lacorrispondente realizzazione; per ciò diciamo che essa è tale dapoter essere insegnata in una certa misura soltanto, ed èevidente che questa restrizione si applica tanto alla teoriaquanto alla realizzazione, benché sia per quest'ultima chel'ostacolo è di più assoluta insormontabilità.

Di fatto, qualunque simbolismo può sempre suggerire,almeno, delle possibilità di concezione, quand'anche nonsuscettibili di completa espressione, anche a non voler parlaredi taluni modi di trasmissione che operano fuori e di là da ognirappresentazione formale, modi la cui semplice idea deve parertroppo inverosimile a un Occidentale perché sia utile, o anchesemplicemente possibile insisterci. D'altronde è pur vero che lacomprensione, anche soltanto teorica, e a partire dai gradi piùelementari, presuppone un indispensabile sforzo personale, edè condizionata dalle attitudini ricettive particolari di colui a cuil'insegnamento è comunicato; è di tutta evidenza che unmaestro, per quanto eccellente, non può capire per il proprioallievo, e che è a quest'ultimo soltanto che competel'assimilazione di quanto viene messo a sua portata.

Se così è, la spiegazione risiede nel fatto che ogniconoscenza vera e realmente assimilata è già di per se stessa, se

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non evidentemente una realizzazione effettiva, per la meno unarealizzazione virtuale, per quanto sia permesso unire questi duetermini, i quali di fatto, nell'occasione, si contraddiconosoltanto in apparenza; se così non fosse, non sarebbe possibiledire, con Aristotele, che un essere “è tutto ciò che essoconosce”.

Quanto al carattere puramente personale di ognirealizzazione, esso si spiega molto semplicemente con questaosservazione, la cui forma è forse strana, ma il cui contenuto èassiomatico: ciò che un essere è, un solo essere può esserlo adesclusione d'ogni altro, e questi è egli stesso; se ci è parsonecessario formulare una verità così immediata, gli è che sonoprecisamente queste ad essere più spesso dimenticate, e sonoesse tali da comportare conseguenze di ben altro momento diquel che possano credere gli intelletti superficiali oesasperatamente analitici. Insegnabili, e anche essiincompletamente insegnabili, sono soltanto i mezzi più o menoindiretti e mediati della realizzazione metafisica, comeaccennammo trattando dello Yoga, e il primo di tutti questimezzi, il più indispensabile, anzi l'unico assolutamenteindispensabile, è la conoscenza teorica.

È però necessario aggiungere che nella metafisica totale lateoria e la realizzazione non sono mai completamente separate;ad ogni piè sospinto ciò può esser constatato nelle Upanishad,ove è spesso ben difficile distinguere quel che si riferiscaall'una o all'altra rispettivamente, e ove, a dire il vero, le stessecose, secondo il modo in cui sono viste, si riferiscono e all'unae all'altra. In una dottrina completa sotto il profilo dellametafisica, il punto di vista della realizzazione reagiscesull'esposizione della teoria, la quale, almeno implicitamente,lo presuppone e non può in ogni cosa mai esserneindipendente, poi che la teoria non ha in sé che un valore di

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preparazione, e deve restar subordinata alla realizzazione comeil mezzo al fine in vista del quale è istituito.

Queste riflessioni sono necessarie alla comprensione dellaprospettiva secondo cui le cose sono viste nel Vedanta, o,meglio ancora, del suo spirito, giacché, non essendo il punto divista metafisico una prospettiva speciale, non può essere cosìchiamato se non in un senso del tutto analogico; del resto,considerazioni del genere similmente si applicherebbero aqualsivoglia altra forma di cui, in altre civiltà, la metafisicatradizionale si può ricoprire, codesta essendo, per le ragioni giàdette, essenzialmente una nella sua natura. Non sarà maiinsistito abbastanza sul fatto che sono le Upanishad che,facendo parte integrante del Veda, rappresentano in questo casola tradizione primordiale e fondamentale; il Vedanta, cosìcom'esso ne emerge direttamente, fu sinteticamente coordinato(ciò che non vuol però affatto dire “sistematizzato”) neiBrahma-sutra, la cui composizione è attribuita a Badarayana;quest'ultimo è anche assimilato a Vyasa, e ciò ha un valoreparticolare per chi conosca qual è la funzione intellettualeindicata da questo nome.

I Brahma-sutra, il cui testo è d'una estrema concisione,hanno dato origine a numerosi commenti, tra i quali quelli diShankaracharya e Ramanuja sono di gran lunga i piùimportanti; entrambi questi commenti sono rigorosamenteortodossi, nonostante le loro divergenze apparenti, le quali nonsono in tutto e per tutto se non differenze di adattamento:quello di Shankaracharya dà voce più particolarmente allatendenza Shaiva, e quello di Ramanuja alla tendenzavaishnava; le indicazioni generali da noi già date a questoproposito ci dispensano dallo sviluppare ora questa distinzione,la quale non fa che differenziare due vie tendenti a un identicofine.

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Essendo puramente metafisico, il Vedanta assumecaratteristiche essenziali di “adwaitavada”, ovvero di “dottrinadella non-dualità”; abbiamo spiegato il senso di questaespressione quando insistemmo sulla differenza tra pensierometafisico e pensiero filosofico.

A precisarne il più possibile la portata, diremo ora che,mentre l'Essere è “uno”, il Principio supremo, nominatoBrahma, può esclusivamente esser detto “senza-dualità”perché, di là da ogni determinazione (ivi compresa quelladell'Essere, che di tutte è la prima), non può esser caratterizzatoda nessun attributo positivo: questo esige la sua infinitezza, cheè di necessità la totalità assoluta, comprendente in sé tutte lepossibilità. In realtà, nulla può esistere che sia fuori di Brahma,poi che questa supposizione avrebbe il senso di porgli unlimite; conseguenza immediata di ciò, il mondo, intendendocon questo termine, secondo il significato più ampio di cui èsuscettibile, l'insieme della manifestazione universale, non èaffatto distinto da Brahma, o meglio, da esso si distingue inmodo puramente illusorio.

D'altra parte, Brahma è assolutamente distinto dal mondo,non convenendogli nessuno degli attributi determinativi che almondo si possono applicare, poi che l'intera manifestazioneuniversale è rigorosamente nulla nei confronti della suainfinitezza; è da notare che tale irreciprocità di relazioneimporta la condanna formale del “panteismo”, così come quellad'ogni tipo di “immanentismo”. Del resto, il “panteismo”, se sivuol conservare a simile denominazione un sensosufficientemente preciso e ragionevole, è inseparabile dal“naturalismo”, ciò che equivale a dire di esso che è nettamenteanti-metafisico; è perciò un assurdo che si possa trovare“panteismo” nel Vedanta, e, ciò nonostante, tale idea, perquanto assurda, è quella che gli Occidentali, anche gli

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specialisti, si fanno di esso: cosa che sembra proprio fattaapposta per dare agli Orientali che siano al corrente della veranatura del “panteismo”, un bel concetto della scienza europea edella perspicacia dei suoi rappresentanti!

Non è questo il luogo per dare una sia pur rapida scorsa alcontenuto generale della dottrina; alcune delle questioni che visono trattate, ad esempio quella della costituzione dell'essereumano considerato da un angolo visuale metafisico, potrannofornire l'argomento per studi particolari. Su di un unico puntoci soffermeremo, il quale è in relazione col fine supremo;quest'ultimo è chiamato “moksha” o “mukti”, vale a dire la“liberazione”, in quanto l'essere che vi perviene è liberato daivincoli dell'esistenza condizionata, in ogni stato e sottoqualsiasi modalità, grazie all'identificazione perfetta conl'Universale: si tratta di quella che nell'esoterismo musulmanoriceve il nome di “Identità suprema”, e soltanto in virtù di essaun uomo diventa uno Yogi secondo il vero significato dellaparola.

Lo stato dello Yogi non è perciò qualcosa d'analogo a unqualsiasi stato particolare, ma contiene in sé tutti gli statipossibili così come il principio contiene in sé tutte le sueconseguenze; colui che vi sia giunto è chiamato “jivan-mukta”,o “liberato durante la vita”, in opposizione a “videha-mukta”, o“liberato fuori della forma”, espressione che descrive l'essereper il quale la realizzazione non si attualizza (o meglio, davirtuale che era non diventa effettiva), se non dopo la morte, odissoluzione del composto umano. Tuttavia, sia nell'uno chenell'altro caso, l'essere è definitivamente affrancato dallecondizioni individuali, ovvero da tutto quel che nel suo insiemeè chiamato “nama” e “rupa”, il nome e la forma, e dallecondizioni stesse di ogni manifestazione; esso sfugge alconcatenamento causale indefinito delle azioni e delle reazioni,

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ciò che non accade nel semplice passaggio a un altro statoindividuale, quand'anche questo occupi un grado superiore allostato umano nella gerarchia degli stati dell'esistenza.

È d'altronde evidente che l'azione non può avereconseguenze che nell'ambito dell'azione stessa, e che la suaefficacia si arresta esattamente dove cessa il suo influsso;l'azione dunque non può avere l'effetto di liberare dall'azione edi far ottenere la “liberazione”; di conseguenza un'azione, diqualunque genere essa sia, potrà tutt'al più portare arealizzazioni parziali, le quali corrispondono a taluni statisuperiori, e sono però ancora determinate e condizionate.Shankaracharya dichiara espressamente che “non v'è altromezzo per ottenere la “liberazione” completa e finale se non laconoscenza; l'azione, la quale non si oppone all'ignoranza, nonpuò eliminarla, mentre la conoscenza la dissipa come la lucedissipa le tenebre”; scomparsa l'ignoranza, che è la radice e lacausa di tutte le limitazioni, l'individualità, che dalle limitazioniè caratterizzata, scompare a sua volta.

Questa “trasformazione”, nel senso etimologico di“passaggio di là dalla forma”, non cambia però nulla alleapparenze; nel caso del jivan-mukta, l'apparenza individualepersiste in modo naturale senza cambiamento esteriore,soltanto non ha più ripercussioni sull'essere che di essa èrivestito, e ciò perché questi si rende effettivamente conto dellasua illusorietà; evidentemente saper ciò di fatto è cosa del tuttodifferente dall'averne un concetto puramente teorico.

Continuando la sua esposizione, dopo il passaggio da noicitato, Shankaracharya descrive lo stato dello Yogi, sia pursoltanto nella misura ristretta in cui le parole possonoesprimerlo, o, meglio, suggerirlo; queste considerazioniformano la vera conclusione dello studio sulla naturadell'essere umano alla quale abbiamo fatto accenno, e tendono

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a mostrare come le possibilità più alte a cui quest'essere è ingrado di giungere siano il fine supremo e ultimo dellaconoscenza metafisica.

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15 ‐ CONSIDERAZIONI COMPLEMENTARISULL'INSIEME DELLA DOTTRINA

In questa trattazione, da noi voluta sintetica il più possibile,abbiamo cercato prima di tutto di mettere in evidenza, insiemecoi caratteri distintivi dei diversi darshana, come ognuno di essisi ricolleghi alla metafisica, la quale è il centro comune apartire da cui si sviluppano, in direzioni diverse, tutti i ramidella dottrina; in secondo luogo, questo modo di procedere ciha fornito l'occasione di precisare un certo numero di puntiimportanti quanto alla concezione d'assieme della dottrinastessa.

A tal proposito è però necessario sia chiaro che, se ilVedanta è tenuto per l'ultimo dei darshana in quantarappresenta la conclusione e il compimento d'ogni conoscenza,non è perciò men vero che esso sia, nella sua essenza, ilprincipio da cui tutto il resto discende, tale “resto” essendosoltanto una specificazione o una applicazione di esso. Unaconoscenza che non discendesse in tal guisa dalla metafisicamancherebbe letteralmente di principio, e di conseguenza nonavrebbe più nessun carattere tradizionale; in ciò consiste lacapitale differenza fra la conoscenza scientifica, nel senso datoa questa parola in Occidente, e quel che in India menoinesattamente vi corrisponde.

È chiaro che l'angolo visuale della cosmologia noncorrisponde per nulla a quello della fisica moderna, così comeil punto di vista della logica tradizionale non corrisponde aquello della logica filosofica vista, per fare un esempio, almodo di Stuart Mill; d'altronde, non è la prima volta chefacciamo rilevare la necessità di tali distinzioni. La cosmologia,anche intesa entro i confini del Vaiskeshika, non è punto una

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scienza sperimentale come la fisica attuale; grazie al suoriallacciarsi ai principi essa è, come gli altri rami della dottrina,molto più deduttiva che induttiva; vero è che la fisicacartesiana era del pari deduttiva, sennonché essa ebbe il grantorto di fondarsi, quanto ai principi, su una semplice ipotesifilosofica; ciò che fu causa del suo fallimento.

La differenza di metodo da noi così messa in evidenza, e incui si traduce una differenza profonda di concezioni, esisteanche quando si considerino scienze realmente sperimentali;queste però, per il loro essere, nonostante ciò, molto piùdeduttive di quanto siano quelle dell'Occidente, non vannosoggette al minimo empirismo; solo perché obbediscono a talicondizioni dette scienze hanno qualche titolo ad essereconsiderate conoscenze tradizionali, pur nella loro importanzasecondaria e nel loro ordine inferiore.

Nel fare questa affermazione pensiamo soprattutto allamedicina intesa come un Upaveda; e quanto diciamo valeugualmente per la medicina tradizionale dell'Estremo Oriente.Senza nulla perdere del suo carattere pratico, tale medicina èqualcosa di ben più esteso di quanto si è abituati a vederdesignato sotto lo stesso nome; oltre alla patologia e allaterapeutica essa comprende in particolare molte altreconsiderazioni che in Occidente verrebbero fatte rientrare nellafisiologia e financo nella psicologia, le quali sono però,naturalmente, trattate in modo del tutto differente. I risultatiapplicativi ottenuti da questa scienza possono in molti casisembrare straordinari a chi di essa si sia fatta un'ideaeccessivamente inesatta; d'altronde è nostra opinione che siaestremamente difficile per un Occidentale giungere ad unaconoscenza sufficiente in questo genere di studi, i cui mezzi diinvestigazione sono totalmente diversi da quelli ai quali gliOccidentali sono esclusivamente abituati.

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Considerazioni Complementari

La nostra ultima affermazione è stata che le conoscenzepratiche, anche quando si ricolleghino alla tradizione e in essaabbiano la loro origine, non sono mai altro che conoscenzeinferiori; ma è la loro derivazione stessa a determinarne lasubordinazione, e ciò è rigorosamente logico; gli Orientali delresto, i quali per temperamento e per convinzione profondapoco si curano delle applicazioni immediate, non hanno maipensato di trasferire nella sfera della conoscenza pura nessunapreoccupazione d'interesse materiale o sentimentale, unicielementi tali da alterare la gerarchia naturale e normale delleconoscenze.

È questa la causa di confusione intellettuale che,generalizzandosi nella mentalità d'una razza o di un'epoca,conduce alla scomparsa della metafisica pura, a cui fa sostituireillegittimamente prospettive più o meno particolari, mentre dàorigine a scienze che non possono darsi per conseguenza dialcun principio tradizionale. Queste ultime, pur se legittimefinché si mantengano entro confini sensati, non vanno prese perqualcosa di diverso da ciò che sono in realtà, vale a direconoscenze analitiche frammentarie e relative; così,separandosi nettamente e radicalmente dalla metafisica, con cuiin effetti il suo punto di vista non permette che abbia nessunrapporto, la scienza occidentale perde necessariamente inportata quanto guadagna in indipendenza, e il suo sviluppo nelsenso delle applicazioni pratiche è compensato da uninevitabile impoverimento speculativo.

Queste osservazioni servono a completare quel che giàabbiamo detto circa la profonda separazione fra i punti di vistarispettivi dell'Oriente e dell'Occidente: in Oriente la tradizioneè veramente tutta la civiltà, poi che abbraccia, con le sueconseguenze e quale che sia la sfera a cui esse si riferiscono,l'intero ciclo delle conoscenze vere e tutto l'insieme delle

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istituzioni sociali; tutto è dall'origine in essa contenuto ingerme, in virtù del fatto che essa stabilisce i principi universalidai quali ogni cosa deriva con le sue leggi e le sue condizioni,l'adattamento necessario a qualunque epoca non potendoconsistere che nell'adeguato sviluppo, secondo uno spiritorigorosamente deduttivo e analogico, delle soluzioni e delleesplicazioni che più particolarmente convengono alla mentalitàdi un'epoca.

È chiaro, in queste condizioni, che l'influsso della tradizioneè di tal forza da non permettere a nulla e a nessuno disottrarsene, e qualora uno scisma venga a prodursi è naturaleche si concluda immancabilmente nella costituzione di unapseudo-tradizione; di rompere apertamente e definitivamenteogni legame con la tradizione nessun individuo ha il desiderio,né la possibilità. Ciò permette inoltre di capire la natura e icaratteri dell'insegnamento attraverso il quale sono trasmesse,insieme con i principi, l'insieme delle discipline proprie aintegrare ogni cosa nell'intellettualità della civiltà.

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16 ‐ L'INSEGNAMENTO TRADIZIONALE

Abbiam detto che la casta superiore, la casta dei Brahmana,ha come funzione essenziale di conservare e di trasmettere ladottrina tradizionale; si tratta di fatto della sua ragion d'essere,perché è sulla dottrina che riposa l'intero ordinamento sociale,il quale in nessun altro modo che per mezzo dei Brahmanapotrebbe procurarsi i principi senza cui nulla esiste di stabile edi duraturo.

Dove la tradizione è tutto, anche coloro che ne sono idepositari debbono logicamente esser tutto; per esser più chiari,poiché la diversità delle funzioni necessarie all'organismosociale importa un'incompatibilità tra di esse e richiede chesiano adempiute da individui diversi, ne discende che taliindividui dipendono tutti essenzialmente dai detentori dellatradizione, giacché se essi non partecipassero effettivamente aquest'ultima non potrebbero di conseguenza partecipareefficacemente alla vita collettiva: è questo il senso vero ecompleto dell'autorità spirituale e intellettuale appartenente aiBrahmana. In ciò risiede parimenti la spiegazione del profondoe indefettibile legame che, non soltanto in India, ma in tuttol'Oriente, unisce il discepolo al maestro, di cui invano sicercherebbe qualcosa di corrispondente nell'Occidentemoderno; la funzione dell'istruttore è di fatto una vera e propria“paternità spirituale”, ed è questa la ragione per cui l'attorituale e simbolico col quale essa comincia è una “secondanascita” per colui che è ammesso a ricevere l'insegnamentosecondo una trasmissione regolare.

Questa idea di “paternità spirituale” è espressa moltoesattamente dalla parola “guru”, la quale presso gli Indùdesigna l'istruttore, avendo inoltre il senso di “avo”; a questa

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stessa idea allude, pressa gli Arabi, la parola “sheikh”, che colsenso proprio di “vecchio”, ha un identico impiego. In Cina ilconcetto predominante di “solidarietà di razza” conferisce alpensiero corrispondente una sfumatura diversa, facendocorrispondere la funzione dell'istruttore a quella d'un “fratellomaggiore”, guida e appoggio naturale di coloro che lo seguononella via tradizionale, e che diventerà “avo” solamente dopo lamorte; tuttavia anche qui, come dappertutto, l'espressione“nascere alla conoscenza” è d'impiego corrente.

L'insegnamento tradizionale viene trasmesso in condizionideterminate strettamente dalla sua stessa natura; per potere inmodo pieno produrre il suo effetto, esso deve sempre adattarsialle possibilità intellettuali di ognuno di coloro a cui si rivolge,e proporzionarsi secondo i risultati già ottenuti, cosa che esigeda parte di chi lo riceve e vuol procedere oltre, uno sforzocostante di assimilazione personale ed effettiva. Sono queste leconseguenze immediate del modo in cui l'intera dottrina èconcepita, e lasciano intravedere la necessità di uninsegnamento orale e diretto, a cui nulla può sostituirsi e senzail quale, del resto, il ricollegamento a una “filiazione spirituale”regolare e continua verrebbe inevitabilmente a mancare, se sieccettuano i casi del tutto eccezionali in cui la continuità puòessere assicurata diversamente, ma in modo troppodifficilmente esplicabile in una lingua occidentale perché sia ilcaso di intrattenerci sull'argomento.

In ogni caso l'Orientale è naturalmente immunedall'illusione troppo comune in Occidente secondo cui tutto sipuò apprendere dai libri, la quale ha per effetto di attribuire allamemoria il posto che spetta all'intelligenza; per lui i testi nonhanno mai più che il valore di un “supporto”, nel senso in cuiquesto termine è già stato da noi più volte impiegato, e il lorostudio non può essere, d'uno sviluppo intellettuale, che il

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L'Insegnamento Tradizionale

fondamento, senza che si confonda mai con lo sviluppo in sé:ciò contiene l'erudizione nei suoi confini normali, ponendola allivello inferiore che unicamente le compete, quello, vale a dire,di un mezzo subordinato e accessorio della vera conoscenza.

Ma vi è un altro aspetto, sotto il quale la via orientale è incompleta antitesi coi metodi occidentali: i modidell'insegnamento tradizionale, che fanno di esso, nonprecisamente un insegnamento “esoterico”, ma piuttosto uninsegnamento “iniziatico”, si oppongono evidentemente aqualsiasi diffusione sconsiderata, diffusione più nociva cheutile agli occhi di chiunque non si lasci trarre in inganno dalleapparenze. Prima di tutto è permesso dubitare del valore e dellaportata di un insegnamento impartito, senza distinzioni e informa sempre identica, agli individui più eterogeneamentedotati, dalle più diverse attitudini e dai più diversitemperamenti, come avviene attualmente presso tutti i popolieuropei: tale tipo di istruzione, sicuramente il più imperfetto ditutti, è il prodotto della mania d'ugualitarismo che ha ormaidistrutto, non soltanto la vera nozione, ma addirittura ogni siapur vago sentimento della gerarchia.

E dire che a gente per cui i “fatti” costituiscono l'unicocriterio di realtà, se si bada allo spirito della moderna scienzasperimentale, dovrebbe balzare agli occhi, fatto tra i più vistosi,l'esistenza tanto in campo intellettuale quanto in campo fisico,di disuguaglianze naturali; ma perché ciò avvenga costoro nondovrebbero essere così completamente accecati dai pregiudizisentimentali!

Secondariamente vi è un'ulteriore ragione per cuil'Orientale, il quale è privo del minimo senso della propaganda,poi che non trova nessun interesse nella diffusione a tutti i costidelle sue concezioni, è risolutamente ostile a qualsiasi generedi “volgarizzazione”: gli è che la “volgarizzazione”

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inevitabilmente deforma e snatura la dottrina pretendendo diporla al livello della mentalità comune, col pretesto direndergliela accessibile; in realtà non la dottrina deveabbassarsi e ridursi a misura della ristretta capacità di intenderedella massa, ma piuttosto tocca agli individui di elevarsi, se nesono capaci, alla comprensione della dottrina nella sua purezzaintegrale.

Sono queste infatti le uniche condizioni possibili per laformazione di una élite intellettuale, in cui per selezionenaturale ciascuno si arresti al livello che corrispondeall'estensione del proprio “orizzonte mentale”; ed è questaanche l'unica remora possibile ai disordini suscitati dalgeneralizzarsi di una quasi scienza ben più nefasta della pura esemplice ignoranza; per tutte queste ragioni dunque gliOrientali saranno sempre molto più convinti dei realiinconvenienti dell'“istruzione obbligatoria” che non dei suoialeatori benefici, e secondo il nostro modo di vedere hannoperfettamente ragione.

Ben altro ancora ci sarebbe da dire sulla naturadell'insegnamento tradizionale, alcuni aspetti del quale sonosuscettibili di interpretazioni più profonde; ma poiché non ènostra pretesa esaurire qui tali argomenti, ci fermeremo aqueste considerazioni, le quali hanno più diretta attinenzacoll'angolo visuale da cui ci poniamo in questo lavoro. Questeultime osservazioni, ripetiamo, non hanno valore soltanto perl'India, ma per tutto l'Oriente; pare dunque che esse avrebberodovuto trovar posto piuttosto nella seconda parte del nostrostudio, ma abbiamo preferito riservarle al termine di questaterza, pensando che avrebbero potuto esser meglio compresedopo quanto avevamo da dire delle dottrine indù in particolare,le quali costituiscono un esempio particolarmenterappresentativo delle dottrine tradizionali in generale. Prima di

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L'Insegnamento Tradizionale

concludere ci rimane ancora da precisare, il più brevementepossibile, cosa s'abbia da pensare delle interpretazionioccidentali di queste stesse dottrine indù; per talune di esse ciòabbiamo già fatto in modo pressoché esauriente, quandol'occasione se ne presentava, lungo il corso di tutta la nostraesposizione.

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PARTE QUARTA

1 ‐ L'ORIENTALISMO UFFICIALE

Poi che abbiamo già, nel corso del nostro studio, avutoripetute occasioni di mettere in rilievo l'insufficienza deimetodi e l'erroneità delle conclusioni dell'orientalismoufficiale, di esso non diremo più molto: se non l'abbiamo maiperso di vista, non preoccupandoci invece gran che delle altreinterpretazioni occidentali, la ragione ne è che per lo meno essosi presenta con una parvenza di serietà che le ultime non hanno,differenza che siamo obbligati ad attribuirgli a tutto suovantaggio.

Non è nostra intenzione contestare la buona fede degliorientalisti, generalmente fuor di dubbio, né la realtà della lorospeciale erudizione; contestabile è soltanto la loro competenzasu tutto quel che ecceda la semplice erudizione. È tuttaviaopportuno rendere omaggio alla modestia, apprezzabilissima,che impedisce a qualcuno di loro, cosciente dei limiti dellapropria competenza reale, dall'impegnarsi in un lavoro diinterpretazione delle dottrine; sfortunatamente si tratta di unaminoranza, il nerbo essendo costituito da coloro che, fattodell'erudizione un fine a sé, come affermavamo al principio,credono in tutta sincerità che i loro studi linguistici e storici glidiano il diritto di trattare d'ogni sorta di cose.

È verso costoro che noi pensiamo non possa esistere severitàeccessiva, e ciò a causa dei metodi di cui si servono e deirisultati a cui pervengono, quantunque siano da rispettare,evidentemente, come individualità, di che possono esser degnisotto ogni riguardo, irresponsabili come sono, o quasi, del loro“partito preso” e delle loro illusioni. L'esclusivismo è

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conseguenza naturale della ristrettezza di vedute, di ciò, vale adire, a cui abbiamo dato il nome di “miopia intellettuale”,difetto mentale che pare essere inguaribile così comeinguaribile è la miopia fisica; si tratta del resto, in entrambi icasi, d'una deformazione dovuta all'effetto di certe abitudiniche insensibilmente la producono senza che ci sia possibilità diaccorgersene, quantunque alla sua origine debba evidentementetenersi conto anche d'una certa predisposizione.

Stando così le cose, non è il caso di stupirsi dell'ostilità chela maggioranza degli orientalisti manifesta nei confronti dicoloro che non si piegano ai loro metodi e non fanno proprie leloro conclusioni; non si tratta che d'un caso particolare delleconseguenze provocate dall'abuso della specializzazione, ed'una delle innumerevoli manifestazioni di tale spirito“scientista” che troppo facilmente si confonde con il verospirito scientifico. Soltanto che, nonostante le scuse che èsempre possibile trovare all'atteggiamento degli orientalisti,resta la constatazione che i pochi risultati validi a cui i lorostudi hanno potuto condurre, naturalmente dall'angolo visualeparticolare dell'erudizione, sono quanto mai lungi dalcompensare il danno che essi possono arrecare all'intellettualitàgenerale coll'ostruire tutte le altre vie, le quali potrebberocondurre ben più lontano coloro che fossero in grado diseguirle: tenuto conto dei pregiudizi dell'Occidente moderno,basta, per stornare da queste vie quasi tutti coloro che fosserotentati dall'immettervisi, dichiarare solennemente che si trattadi qualcosa di “non scientifico”, perché non conforme aimetodi e alle teorie ammesse e insegnate ufficialmente nelleUniversità.

Quando si tratta della propria difesa contro un pericolo,nessuno in genere perde tempo ad andare alla ricerca delleresponsabilità; se certe opinioni sono pericolose, e pensiamo

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che questo sia proprio il caso, l'importante è sforzarsi didemolirle senza preoccuparsi di chi le abbia emesse o ledifenda, la cui onorabilità del resto non viene affatto posta ingioco. Le questioni personali, che nei confronti delle idee sonben poca cosa, non possono legittimamente impedire dicombattere le teorie che si oppongono a certe attualizzazioni;inoltre, siccome queste attualizzazioni, sulle quali ritorneremonella conclusione, non sono una possibilità immediata, insiemecol fatto che qualsiasi cura di propaganda ci è estranea, ilmezzo più efficace di combattere le teorie in questione non è didiscutere indefinitamente sul terreno su cui esse si pongono,bensì di mettere in rilievo le ragioni della loro falsitàrestaurando la pura e semplice verità, la quale sola importaessenzialmente a coloro che sono in grado di comprenderla.

È questa la gran differenza, su cui non è possibile accordo,tra noi e gli specialisti dell'erudizione: quando parliamo diverità non intendiamo soltanto una verità di fatto,indubbiamente importante, ma di un'importanza secondaria econtingente; quel che d'una dottrina ci interessa è la verità, nelsenso assoluto della parola, di quanto vi è espresso. Ebbene,coloro che si pongono dalla prospettiva dell'erudizione, dellaverità delle idee non si preoccupano affatto; in fondo non sannocosa sia, né che esista, né se lo domandano; per essi la veritànon è nulla, se non nel caso specialissimo ed esclusivo dellaverità storica.

La stessa tendenza si riscontra negli storici della filosofia:non li interessa se un'idea è vera o falsa, o in qual misura lo è;unico loro scopo è sapere chi tale idea ha concepito, in qualitermini l'ha formulata, in qual data e in quali circostanze; esimile storia della filosofia, che nulla sa vedere all'infuori deitesti e dei particolari biografici, ha la pretesa di sostituirsi allafilosofia in sé, la quale finisce così di perdere quel po' di valore

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intellettuale che poteva esserle rimasto nei tempi moderni. Ènaturalmente assiomatico che tale atteggiamento è il piùsfavorevole possibile alla comprensione di qualsivogliadottrina: applicandosi alla sola lettera esso non può penetrarnelo spirito, e in tal modo fatalmente gli sfugge proprio ciò chesolo meriterebbe d'esser conosciuto; l'incomprensione puòsoltanto dare origine a interpretazioni fantasiose e arbitrarie,ovvero a errori veri e propri, anche quando si trattidell'esattezza storica.

Ciò accade in misura più abbondante che in ogni altro casoproprio per l'orientalismo, il quale si trova alle prese conconcezioni completamente estranee alla mentalità di chi se neoccupa; è il fallimento del sedicente “metodo storico”, e ciò,come dicevamo, perfino sul terreno della semplice veritàstorica, la cui ricerca, come dice la denominazione che gli èstata data, costituisce la sua stessa ragion d'essere.

Coloro che si servono di questo metodo hanno il doppiotorto, da un lato di non rendersi conto delle ipotesi più o menoazzardate che esso importa, le quali possono esser ricondotteprincipalmente all'ipotesi “evoluzionistica”, e dall'altro diprendere abbaglio sulla sua portata, col crederlo applicabile atutto; abbiamo già detto perché esso non può assolutamenteapplicarsi al dominio della metafisica, dal quale ogni idea dievoluzione è bandita.

Secondo i gusti dei fautori di questo metodo la primacondizione per poter studiare le dottrine metafisiche èevidentemente di non essere dei metafisici; analogamente,coloro che questo metodo applicano alla “scienza dellereligioni”, vogliono, più o meno apertamente, che il solo fattodi appartenere a qualche religione sia una squalificazione pertale genere di studio: tanto varrebbe far che proclamarel'esclusiva competenza, in qualsiasi ramo del sapere, di chi non

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L'Orientalismo Ufficiale

ne ha che una conoscenza esteriore e superficiale, quella, peresser chiari, che l'erudizione basta a procurare, e ciò spiegaindubbiamente perché, quanto a dottrine orientali, il pareredegli Orientali sia tenuto per irrilevante e non dato. Si trattaprima di tutto d'un timore istintivo per tutto ciò che eccede iconti dell'erudizione e rischia di mostrare quanto quest'ultimasia mediocre e, tutto sommato, puerile; in più, questo timore sirafforza accordandosi con l'interesse, molto più cosciente,portato al mantenimento del monopolio di fatto che a loroprofitto hanno costituito in tutti i campi i rappresentanti dellascienza ufficiale, gli orientalisti forse ancor più di tutti gli altri.

D'altronde la volontà ben ferma di non tollerare quantopotrebbe esser pericoloso per le opinioni correnti e discreditarlo con tutti i mezzi, trova la propria giustificazionenegli stessi pregiudizi che accecano questi personaggi dallavista corta, e li spingono a negare ogni valore a quanto nonproceda dalla loro scuola; anche qui dunque noi nonincriminiamo la loro buona fede, ma semplicementeconstatiamo l'effetto di quella tendenza squisitamente umana atenersi meglio persuasi d'una cosa quanto più in essa si abbiainteresse.

Crediamo di aver detto abbastanza da precisare la nostraposizione nei riguardi dell'orientalismo ufficiale, tanto almenoda non lasciar adito ad equivoci e da non permettere che civengano attribuite intenzioni diverse da quelle che realmenteabbiamo. Con tutto ciò, e per definire questa questionedell'orientalismo, ancora ci rimane da trattare un punto al qualei recenti avvenimenti [L'autore si riferisce qui agli avvenimentiche costituirono e seguirono la “prima grande guerramondiale”. (NdT)] han dato un tipo d'attualità tutta speciale:intendiamo dire dell'influsso tedesco, di cui esso portal'impronta nettissima sotto il duplice rispetto dei metodi usati e

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dello spirito stesso nel quale pretende di interpretare le dottrine,soprattutto quando si tratti delle dottrine indù.

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2 ‐ L'INFLUSSO DEI TEDESCHI

È singolare che i primi indianisti, soprattutto inglesi, senzadar prova di una comprensione molto profonda, abbiano spessodetto cose più giuste di coloro che li hanno seguiti;indubbiamente hanno anch'essi fatto i loro errori, ma errori cheper lo meno non portavano i caratteri della sistematicità e nonprocedevano da preconcetti, quand'anche incoscienti. Che lamentalità inglese non abbia nessuna attitudine per le concezionimetafisiche è un fatto, ma bisogna dire che gli Inglesi nonaccampano nessuna pretesa ad averne, mentre la mentalitàtedesca, che tutto sommato non è meglio favorita, si fa invecele illusioni più infondate al proposito; per rendersi conto dellafondatezza di ciò che diciamo basta accostare quel che i duepopoli hanno prodotto in fatto di filosofia.

Lo spirito inglese esce raramente dalla sfera pratica,costituita da morale e sociologia, e dalla scienza sperimentale,costituita da quella psicologia di cui fu l'inventore; quandos'occupa di logica è soprattutto l'induzione che lo interessa, allaquale dà la preminenza sulla deduzione. Al contrario, quando siesamina la filosofia tedesca tutto ciò che vi si trova sonoipotesi e sistemi dalle pretese metafisiche, deduzioni da puntidi partenza cervellotici, idee che vorrebbero esser profonde esono semplicemente nebulose; questa pseudo-metafisica, dellaquale nulla è più lontano dalla metafisica vera, i Tedeschivorrebbero ritrovarla poi negli altri, le cui concezioniinterpretano sempre in funzione delle proprie: storturaquest'ultima in nessuno più incurabile che in loro, nessun altropopolo essendo affetto da usa così ristretta mentalitàsistematica. C'è da dire che i Tedeschi in fondo non fanno chespingere alle loro estreme conseguenze i difetti comuni a tutta

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la razza europea: il loro orgoglio nazionale li induce acomportarsi in Europa come gli Europei in genere, infatuatidella loro immaginaria superiorità, si comportano nel mondointero; l'anomalia è la stessa nei due casi, varia solo lagradazione.

Non stupisce perciò se i Tedeschi immaginano che i lorofilosofi hanno pensato tutto quanto era possibile all'uomo diconcepire, ed è fuor di dubbio che essi credano di tributaregrande onore agli altri popoli quando ne assimilano leconcezioni a quella filosofia di cui sono così orgogliosi. Il chenon toglie che Schopenhauer abbia ridicolamente distorto ilBuddismo riducendolo a una specie di moralismo “pessimista”e abbia dato la giusta misura del suo livello intellettualecercando “consolazioni” nel Vedanta; del resto vediamo ancheoggi degli orientalisti, tra cui il Deussen, pretendere d'insegnareagli Indù la vera dottrina di Shankaracharya, al quale fannodono longanime delle idee di Schopenhauer!

Il fatto è che la mentalità tedesca, per essere una formaesasperata della mentalità occidentale, è agli antipodi di quellaorientale, e di quest'ultima non potrà mai capire nulla; esiccome ha invece la sicumera di comprenderla, è fatale che ladeformi; il risultato sono quelle assimilazioni errate contro cuiin ogni occasione ci leviamo, in particolare l'applicazione alledottrine orientali delle “etichette” della filosofia moderna.

Se non si è capaci di esser metafisici, il meglio che si possafare è di non interessarsi di metafisica, e il positivismo,nonostante tutti i suoi limiti e le sue incompletezze, è ai nostriocchi di gran lunga preferibile alle elucubrazioni della pseudo-metafisica. Il maggior torto degli orientalisti tedeschi è dunquedi non rendersi conto della propria incapacità a capire, e diintestardirsi in lavori d'interpretazione senza nessun valore, iquali però s'impongono in tutta l'Europa e facilmente riescono

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L'Influsso dei Tedeschi

a “fare autorità”, dato che gli altri popoli nulla hanno daopporvi o da istituire a paragone, anche perché tali lavori siarroccano dietro un apparato d'erudizione che impressiona almassimo grado la gente, che per certi metodi ha un rispetto chesfiora la superstizione. Anche questi metodi sono del restod'origine germanica, e ingiusto sarebbe non riconoscere aiTedeschi le qualità ben reali che sotto il profilo dell'erudizionepossiedono: la verità è che essi eccellono nella compilazione didizionari e grammatiche, e di quelle voluminose opere dicollazione e di bibliografia che altro non richiedono se nonmemoria e pazienza; è estremamente rincrescevole che non sisiano interamente specializzati in questo genere di lavoriutilissimi all'occasione e, cosa assai pregevole, tali da farrisparmiar tempo a chi sia in grado di far dell'altro.

Non meno spiacevole è che questi stessi metodi, invece dirimanere prerogativa dei Tedeschi, al cui temperamento sonocosì adatti, si siano diffusi in tutte le Università europee, eparticolarmente in Francia, ove passano per essere i soli“scientifici”, quasi che la scienza e l'erudizione fossero lastessa cosa; cosicché, conseguenza di simile deplorevolementalità, l'erudizione si è spinta fino ad usurpare il posto dellascienza vera. L'abuso dell'erudizione coltivata per se stessa, lasupposizione falsa che essa possa esser sufficiente a farcomprendere le idee, tutto ciò può essere ancora comprensibilee fino a un certo punto scusabile nei Tedeschi; ma pressopopoli le cui attitudini sono totalmente diverse non può essereche il prodotto d'una servile tendenza all'imitazione, segnorivelatore d'uno scadimento intellettuale a cui sarebbe grantempo di porre rimedio prima di vederlo trasformarsi indecadenza irrimediabile.

I Tedeschi hanno saputo ben condurre il loro gioco apreparare la supremazia intellettuale da essi sognata, e sono

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riusciti a imporre tanto la loro filosofia quanto i loro metodi dierudizione, e il loro orientalismo, come abbiamo detto, è ilprodotto della combinazione di questi due elementi. Quel che èparticolarmente notevole è come queste cose siano diventateuno strumento al servizio d'una ambizione nazionale; alquantoistruttivo sarebbe, a questo proposito, studiare come i Tedeschiabbiano saputo trar partito dalla stravagante teoriadell'“arianesimo”, che non erano addirittura stati loro adinventare.

Per conto nostro, non crediamo affatto all'esistenza d'unarazza “indoeuropea”, quand'anche si smetta di chiamarla“ariana”, che non ha nessun senso; ma quel che è bello è chegli eruditi tedeschi han dato a questa razza immaginaria ladenominazione di “indogermanica”, prendendo cura di farapparire l'ipotesi verosimile col sostenerla di moltepliciargomenti etnologici e soprattutto filologici. Benché non sianostra intenzione ricominciare qui una discussione su talequestione, non possiamo esimerci dal far notare che la realerassomiglianza tra le lingue dell'India e della Persia e quelled'Europa non è affatto la prova d'una comunanza di razza; perdarne ragione è sufficiente ammettere che le civiltà antiche danoi conosciute siano state primitivamente introdotte in Europada elementi che si ricollegavano alla fonte da cui procedetterodirettamente le civiltà indù e persiana.

Si sa infatti quanto sia facile per un'infima minoranza, incircostanze particolari, imporre la propria lingua, insieme conle proprie istituzioni, alla massa d'un popolo straniero,quand'anche ne sia poi assorbita etnicamente in breve tempo:esempio sorprendente quello dell'intrusione della lingua latinanelle Gallie, ove i Romani, se si eccettuano alcune regioni delmeridione, non si stabilirono mai che in numero trascurabile; èindubbio che la lingua francese sia d'origine latina quasi pura, e

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tuttavia gli elementi latini sono entrati in misura debolissimanella formazione etnica della nazione francese; la stessa cosa sipuò dire della Spagna. D'altro canto l'ipotesidell'“indogermanesimo” è tanto meno sostenibile in quanto lelingue germaniche non hanno maggiore affinità con il sanscritodi quanta ne abbiano le altre lingue europee; però serve bene agiustificare l'assimilazione delle dottrine indù alla filosofiatedesca; sfortunatamente questa supposizione d'unaimmaginaria parentela non resiste alla prova dei fatti, e inrealtà niente è più dissimile da un Indù d'un Tedesco, tanto dalpunto di vista intellettuale quanto da quello fisico, anzi, forseancor più dal primo che dal secondo.

Di tutto ciò la conclusione è che per ottenere dei risultatiinteressanti sarebbe necessario, prima di tutto, sbarazzarsi diquesto influsso che da troppo tempo grava così pesantementesull'orientalismo; e pur se sappiamo che non è facile per certiindividui affrancarsi da metodi che per essi sono diventati veree proprie abitudini mentali, ormai inveterate, vogliamo sperareche, in generale, i recenti avvenimenti rappresentinoun'occasione favorevole per una liberazione del genere. Sicerchi di ben comprendere il nostro pensiero: se ci auguriamoche la scomparsa dell'influenza tedesca nel campodell'intellettualità diventi un fatto compiuto è perché lapensiamo in se stessa nefasta, indipendentemente da talicontingenze storiche che in tutto ciò non intervengono; anchese non sono queste contingenze a farci augurare che l'influssoin questione scompaia, occorre però che si approfitti dello statod'animo da esse determinato.

Nella sfera dell'intellettualità, la sola di cui ci occupiamo, lepreoccupazioni sentimentali non hanno posto; le concezionitedesche non hanno più valore oggi di quanto ne avesseroqualche anno fa, e fa ridere vedere degli uomini che avevano

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sempre professato un'ammirazione sconfinata per la filosofiatedesca mettersi bruscamente a denigrarla col pretesto d'unpatriottismo che con queste cose non ha niente a che vedere;ciò equivale in fondo ad alterare più o meno coscientemente laverità scientifica o storica per motivi d'interesse nazionale,proprio come i Tedeschi sono accusati di fare.

Quanto a noi, non dovendo niente all'intellettualitàgermanica, non avendo mai avuto la minima stima per lapseudo-metafisica in cui essa si compiace, non avendo maiaccordato all'erudizione e ai suoi procedimenti speciali se nonun valore e un'importanza dei più relativi, ci sentiamocompletamente a nostro agio nel dire quel che pensiamo; eavremmo detto esattamente le stesse cose anche se lecircostanze fossero state del tutto diverse, forse però con menoprobabilità di trovarci in ciò d'accordo con una tendenza cosìgeneralmente diffusa.

Aggiungeremo soltanto che per quanta riguarda la Franciaquel che più c'è da temere è che si sfugga all'influsso tedescoper cadere sotto altre influenze non meno funeste; che sireagisca contro la tendenza alla imitazione appare dunque a noicome una delle prime condizioni d'un vero risollevamentointellettuale: senza dubbio non si tratta d'una condizionesufficiente, ma se non altro d'una condizione necessaria; anzi,indispensabile.

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3 ‐ LA SCIENZA DELLE RELIGIONI

Un notevole esempio dell'influenza tedesca è dato da quellache viene chiamata “scienza delle religioni”, al cui propositovale la pena di dire qualche parola, poi che la sua origine èprecisamente dovuta agli studi di indologia; ciò mette subito inevidenza che il termine “religione” non è in essa intesonell'esatto senso da noi riconosciutogli. Il Burnouf infatti, ilquale sembra essere stato il primo ad aver attribuito a questascienza, o supposta tale, la sua denominazione, dimentica diintrodurre la morale negli elementi costitutivi della religione,che restano così ridotti a due: la dottrina e il rito; questo glipermette di far rientrare nella religione cose che con laprospettiva religiosa nulla hanno a che fare, giacché riconosceegli stesso che nel Veda non c'è traccia di morale.

È questa la confusione fondamentale che si trova alla basedella “scienza delle religioni”: una pretesa di riunire sotto lostesso nome tutte le dottrine tradizionali, qualunque sia la loronatura nella realtà; ben altre sono però venute a sovrapporlesicol tempo, soprattutto dopo che l'erudizione tedesca introdussein questo campo il suo temibile apparato d'esegesi, di “criticadei testi” e di “ipercritica”, molto più atto a impressionare gliingenui che a portare a conclusioni serie.

Questa pretesa “scienza delle religioni” riposa tutta su pochipostulati di cui si può dire che siano altrettanti preconcetti: siammette infatti che ogni dottrina sia cominciata da un“naturalismo” nel quale noi invece non riusciamo a vedere cheuna deviazione, la quale, dovunque si sia prodotta, si è sempreopposta alla tradizioni primordiali e regolari; comunque sia, èovvio che a forza di torturare testi che non si riesce a capire sifinisca prima o poi per estrarne qualche interpretazione

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conforme a questo famigerato spirito “naturalistico”. Ciòspiega come si sia giunti ad elaborare l'intera teoria dei “miti”,e in particolare quella del “mito solare”, di tutti il più famoso,uno dei principali propagatori del quale fu Max Müller, da noigià ripetutamente citato perché particolarmente rappresentativodella mentalità degli orientalisti, in ispecie di quelli tedeschi,anche se visse in Inghilterra e scrisse i suoi libri in inglese.

D'altronde, in questo come in molti altri casi, in particolarequello dell'“arianenesimo”, elucubrato dal Pictet e caldeggiatotra gli altri dal Burnouf, i Tedeschi non inventarono nulla, masemplicemente si appropriarono di concezioni da cuipensavano poter trarre vantaggio: la teoria del “mito solare”altro non è infatti se non la teoria astro-mitologica inventata esostenuta in Francia verso la fine del XVIII secolo da Dupuis eVolney. È noto quale sia stata l'applicazione di essa alCristianesimo e a tutte le altre dottrine, e già abbiamo segnalatola confusione che essa importa in modo essenziale; appena sinota nel simbolismo una qualche corrispondenza con certifenomeni astronomici, immediatamente si conclude per unarappresentazione di tali fenomeni, quando invece, nella realtà,si tratta dei simboli di qualcosa di natura del tutto diversa, lacorrispondenza constatata essendo semplicementeun'applicazione dell'analogia che armoniosamente lega tutti igradi dell'essere.

Con questa disposizione a deformare le cose non è difficiletrovare del “naturalismo” un po' dappertutto, anzi, sarebbeperfino un po' strano se non si trovasse, poi che il simbolo, ilquale appartiene alla sfera della natura, viene confuso con ciòche rappresenta; si tratta dunque di un errore analogo a quelloche commettono i “nominalisti”, che confondono l'idea con iltermine usato per esprimerla; è così che gli eruditi moderni,incoraggiati per di più dal pregiudizio che li fa immaginare

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ogni civiltà costruita sul tipo greco-romano, fabbricano con leproprie mani i “miti”, per incomprensione dei simboli; che èl'unico modo in cui possano nascere. Si riuscirà ora a capireperché uno studio di questo genere sia da noi qualificato conl'epiteto di “scienza presunta”, e come sia assolutamenteimpossibile per noi prenderla sul serio; e occorre ancoraaggiungere che pur se si dà arie d'imparzialità disinteressata,quando non pretenda addirittura di “dominare tutte le dottrine”,ciò che è effettivamente un po' troppo, questa “scienza dellereligioni” è il più delle volte un semplice e volgare strumentodi polemica nelle mani di gente la cui vera intenzione è diservirsene contro la religione, intesa stavolta nel suo sensoproprio e abituale.

Tale uso dell'erudizione in uno spirito di negazione e didissoluzione è naturale nei fanatici del “metodo storico”; sitratta anzi dello spirito stesso di simile metodo, essenzialmenteanti-tradizionale, per lo meno quando viene usato in campi chenon sono i suoi legittimi; ed è questa la ragione per cui tutticoloro che attribuiscono un valore reale alla prospettivareligiosa vengono respinti quali incompetenti. Ma tra glispecialisti della “scienza delle religioni” ve ne sono tuttaviaalcuni che, almeno in apparenza, non eccedono fino a questosegno: sono coloro che appartengono alla tendenza, anch'essatipicamente tedesca, del “Protestantesimo liberale”; se non checostoro, pur se di nome conservano il punto di vista religioso,tendono a ridurlo ad un semplice “moralismo”, ciò che di fattovale quanto eliminarlo, sopprimendone il dogma e il culto innome d'un “razionalismo” che non è se non mascheratosentimentalismo. Il risultato finale è dunque identico a quellodei puri e semplici areligiosi, fanatici della “moraleindipendente”, con l'aggravante, forse, di un'intenzione piùabilmente dissimulata; d'altronde è questo il risultato logico

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delle tendenze che la mentalità protestante, la quale si confondecon la mentalità tedesca moderna, portava in sé dall'inizio.Recentemente s'è avuto, fortunatamente sventato, un tentativodi far penetrare questo spirito nello stesso Cattolicesimo, sottola denominazione di “modernismo”, ed anche in tal caso è dallaGermania che il movimento è partito, il quale si proponeva disostituire la religione con una vaga “religiosità”, vale a dire conun'aspirazione sentimentale che la “vita morale” basta asoddisfare, e che per riuscire nel suo intento avrebbe dovutofare ogni sforzo per demolire i dogmi con l'applicar loro la“critica” e col costruire una teoria della loro “evoluzione”,servendosi naturalmente sempre di quel congegno di guerra cheè la “scienza delle 'religioni”, la quale in fondo non ha maiavuto altra funzione e altro scopo.

Abbiamo già ricordato che lo spirito “evoluzionistico” èlegato al “metodo storico”, e una prova di ciò, tra le molte altrepossibili, è fornita da questa originale teoria secondo la quale leconcezioni religiose, o supposte tali, avrebberonecessariamente dovuto passare attraverso una serie di fasisuccessive, di cui le principali portano comunemente i nomi difeticismo, politeismo e monoteismo. Questa ipotesi fa il paiocon quella, avanzata nel campo della linguistica, secondo cui lelingue nel corso del loro sviluppo passerebberosuccessivamente attraverso le forme monosillabica,agglutinante e inflessiva: si tratta d'una supposizione diun'assoluta gratuità, non confermata dal più insignificante deifatti, a cui anzi i fatti sono nettamente contrari, giacché non sisono mai potuti trovare indizi del passaggio reale dall'unaall'altra delle tre forme; ad esser presi per tre fasi successive, ingrazia di un'idea preconcetta, sono semplicemente stati tre tipidifferenti ai quali si ricollegano rispettivamente i diversi gruppilinguistici, ognuno dei quali non si scosta dal tipo al quale

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appartiene. Altrettanto si può dire di un'altra ipotesi di caratterepiù generale, quella formulata da Auguste Comte sotto il nomedi “legge dei tre stati”, e in cui sono presi per stati successividifferenti sfere del pensiero che possono sempre coesistere, matra le quali egli vuol vedere incompatibilità, avendoimmaginato ogni possibile conoscenza come avente peroggetto la spiegazione dei fenomeni naturali; ciò che in realtàsi applica soltanto alla conoscenza scientifica.

È facile vedere come simile fantasiosa concezione delComte, la quale, senza essere propriamente “evoluzionistica”,qualcosa aveva da spartire con tale mentalità, si ricolleghiall'ipotesi del “naturalismo” primitivo, poi che le religioni nonpossono in essa che far figura di tentativi prematuri eprovvisori, e allo stesso tempo di una preparazioneindispensabile, di ciò che più tardi sarà la spiegazionescientifica; nel corso dello sviluppo della fase religiosa, Comtepensa inoltre di poter riconoscere, quali altrettante divisioni, itre gradi del feticismo, del politeismo e del monoteismo.

Non insisteremo ulteriormente ad esporre questaconcezione, d'altronde abbastanza generalmente nota; soltantoci premeva mettere in rilievo la correlazione, troppo spessotrascurata, tra punti di vista differenti i quali tutti procedonodalle stesse tendenze generali della mentalità occidentalemoderna. Per meglio dimostrare quanto poco attendibile siaquesta teoria delle tre fasi attraverso cui passerebbero leconcezioni religiose, ricordiamo prima di tutto quanto abbiamogià detto in precedenza, vale a dire che mai esistette dottrinapoliteista nella sua essenza, e che, come i “miti” ai quali siricollega piuttosto direttamente, il politeismo non è che unagrossolana deformazione, risultato d'una incomprensioneprofonda; d'altronde politeismo e antropomorfismo sigeneralizzarono veramente soltanto presso i Greci e i Romani,

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e da tutte le altre parti si contennero nell'ambito degli erroriindividuali. Ogni dottrina veramente tradizionale è dunquemonoteista nella realtà, o, più esattamente, una “dottrinadell'unità”, trasformantesi in monoteismo quando venga“tradotta” in modo religioso; quanto poi alle religionipropriamente dette, Giudaismo, Cristianesimo e Islamismo, èdi manifesta evidenza che esse sono puramente monoteiste.

Ora, per quanto riguarda il feticismo, tale parola, d'origineportoghese, significa letteralmente “stregoneria”; quel che essadesigna non sarà dunque per nulla una religione o qualcosa dianalogo, bensì qualcosa che ha relazione con la magia, e,peggio, con una magia della specie inferiore. La si intendaoriginaria o deviata, la magia non è mai una forma di religione,né è, come qualcun altro ha sostenuto, qualcosa che s'oppongaper sua natura alla religione, una specie di contro-religione, seè permesso servirsi di un'espressione del genere; per finire, essanon è nemmeno quel qualcosa da cui avrebbero preso originereligione e scienza insieme, secondo una terza opinione nonmeglio fondata delle precedenti; tutte queste confusioni nonfanno che provare che coloro che ne parlano non sanno granche quel che dicono. La magia appartiene in realtà alla sferadella scienza, e più precisamente alla sfera della scienzasperimentale; essa si occupa della manipolazione di tali forzeche in Estremo Oriente ricevono il nome di “influenze erranti”,i cui effetti, per quanto strani possano apparire, sono tuttaviadei fenomeni naturali che seguono, come tutti gli altri, le loroleggi.

Certo questa scienza può avere basi tradizionali, ma ancheallora essa non ha mai più che il valore d'una applicazionecontingente e secondaria; e ancora bisogna aggiungere, perchés'abbia giusta misura della sua importanza, che essa ègeneralmente tenuta in nessuna considerazione dai veri

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detentori della tradizione, i quali, tranne casi speciali e bendeterminati, la lasciano praticare ai saltimbanchi, che netraggano profitto divertendo il popolino. Questi maghi, qualifrequentemente s'incontrano in India dove ricevonocomunemente la denominazione araba di “faqir”, ovvero“poveri” o “mendicanti”, sono uomini che l'incapacitàintellettuale ha fermato sulla via d'una “realizzazione”metafisica, come già ci è occorso di dire; sono soprattutto glistranieri che di essi s'interessano, e di fatto essi non meritanopiù considerazione di quanta gliene attribuiscono i lorocompatrioti.

Non è nostra intenzione contestare la realtà dei fenomeni intal modo prodotti, anche se talvolta soltanto imitati o simulati,in condizioni tali, del resto, che presuppongono una potenza disuggestione a petto della quale i risultati ottenuti dagliOccidentali che insistono nel dedicarsi allo stesso tipod'esperimenti appaiono compiutamente trascurabili einsignificanti; quel che contestiamo è l'interesse dei fenomeniin sé, dai quali la dottrina pura e la “realizzazione” metafisicache essa comporta sono assolutamente indipendenti. È questala sede per ricordare che tutto ciò che appartiene alla sferadell'esperimentazione non ha virtù di provare nulla, se nonnegativamente, e può tutt'al più servire come illustrazione d'unateoria; un esempio non è né un argomento né una spiegazione,e non esiste nulla di più illogico del far dipendere un principio,anche solo relativo, da una delle sue applicazioni particolari.

Se abbiamo voluto precisare in quest'occasione la veranatura della magia, gli è che ad essa si fa rappresentare unaparte di considerevole importanza in quella concezione della“scienza delle religioni” cui viene dato il nome di “scuolasociologica”; dopo aver passato un bel po' di tempo a cercar didare una spiegazione psicologica ai “fenomeni religiosi”, si

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cerca ora infatti di darne piuttosto una spiegazione sociologica,e già ne abbiamo detto a proposito della definizione direligione; secondo noi sia l'uno che l'altro di questi due punti divista sono falsi, e ugualmente inadatti a render conto di quelche sia veramente la religione; a maggior ragione la tradizionein generale. Auguste Comte comparava la mentalità degliantichi con quella dei bambini, la qual cosa è piuttosto ridicola;ma non meno lo sono i sociologi attuali che voglionoassimilarla a quella dei selvaggi, da essi chiamati “primitivi”,mentre noi li diremmo più volentieri dei “degenerati”.

Se i selvaggi fossero davvero stati sempre nelle condizioniinferiori in cui li troviamo, come si potrebbero spiegare lemolteplici usanze che esistono presso di loro e di cui essi stessinon sono in grado di dare una spiegazione, perché non lecapiscono più? Né si venga a dire che si tratta di importazionidall'esterno, ché, essendo cose estremamente diverse da tuttociò che si può trovare altrove, altro non si può fare checonsiderarle residui di civiltà scomparse, le quali dovetteroessere in tempi molto antichi, forse addirittura preistorici, leciviltà dei popoli di cui i selvaggi attuali sono i discendenti egli ultimi resti; diamo questa spiegazione incidentalmente e perrestare sul terreno dei fatti, ma ciò non toglie che esistano diquanto diciamo altre ragioni, più profonde, e ancor più decisiveai nostri occhi, le quali però rimangono inaccessibili aisociologi e agli altri “ricercatori” analitici.

Aggiungeremo solamente che l'unità essenziale efondamentale delle tradizioni permette spesso, grazie a un usosensato dell'analogia, e tenuto debito conto della diversità degliadattamenti, condizionata da quella delle mentalità umane, diinterpretare le concezioni a cui si ricollegavanooriginariamente le usanze di cui abbiamo parlato prima d'essereridotte allo stato di “superstizioni”; in modo analogo la stessa

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unità permette di capire in larga misura le civiltà che hannolasciato dietro di sé soltanto monumenti scritti o figurati;abbiamo già fatto cenno a ciò all'inizio, parlando dei servigiche la vera conoscenza dell'Oriente potrebbe rendere a tutticoloro che intendono studiare seriamente l'antichità e cercanodi trarne insegnamenti utilizzabili, non accontentandosi delpunto di vista del tutto esteriore e superficiale della sempliceerudizione.

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4 ‐ IL TEOSOFISMO

Se, pur deplorando la ristrettezza irrimediabile di vedutedegli orientalisti ufficiali, si deve tuttavia rispettarne la buonafede, questa necessità cade quando s'abbia a che fare con gliautori e i propagatori di certe teorie di cui dobbiamo oraoccuparci, le quali non hanno altro effetto che di gettare ildiscredito sugli studi orientali e di farne allontanare leintelligenze dotate di qualche serietà, ma mal informate,presentando loro come espressione autentica delle dottrinedell'India una congerie di divagazioni e d'assurdità veramentenon degne che ci si soffermi su di esse.

Per di più, la diffusione di queste fantasticherie non presentasoltanto l'inconveniente negativo, pur se già grave, da noiricordato; essa è inoltre, come quella di molte altre cose dellastessa natura, particolarmente atta a provocare lo squilibriodelle sensibilità più deboli e degli intelletti meno solidi chepossono prenderle sul serio, e costituisce perciò un vero eproprio pericolo per la mentalità generale, pericolo la cui realtàè proclamata da esempi già fin troppo numerosi e deplorevoli.

La pericolosità di queste iniziative è poi tanto maggiore inquanto gli Occidentali attuali hanno una tendenza spiccatissimaa lasciarsi attirare da tutto quel che si presenti sotto apparenzestrane e stupefacenti; lo sviluppo della loro civiltà in sensoesclusivamente pratico, privandoli d'ogni effettiva direzioneintellettuale, apre le porte a qualsiasi stravaganza pseudo-scientifica e pseudo-metafisica che sia tale da soddisfare quelsentimentalismo che, sempre a causa dell'assenzadell'intellettualità vera, ha su di essi un'influenza così grande.Per di più, l'abitudine di dare in campo scientifico lapreminenza all'esperimentazione, di dedicarsi quasi

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esclusivamente ai fatti attribuendo loro un peso maggiore chenon alle idee, viene a rafforzare la posizione di tutti coloro cheper costruire le più inverosimili teorie hanno la pretesa difondarsi su qualche fenomeno, vero o anche soltanto ipotetico,spesso mal controllato e in ogni caso mal interpretato, e sitrovano così ad avere molte più probabilità di favorevolesuccesso nel grosso pubblico di chi, volendo insegnare soltantodottrine serie e provate, si rivolga unicamente all'intelligenzapura.

In ciò risiede la spiegazione molto naturale dellaconcordanza, a prima vista sconcertante, esistente econstatabile in Inghilterra e specialmente in America, tra losviluppo esagerato della mentalità pratica e l'abnorme pullulared'ogni sorta di pazzie d'intonazione religiosa, nelle quali lospirito di sperimentazione e di pseudo-misticismo dei popolianglosassoni trova a volta a volta la propria soddisfazione; ilche prova che, nonostante le apparenze, la mentalità più praticanon è la meglio equilibrata. Né il pericolo che stiamosegnalando è, per essere meno visibile in Francia, piùtrascurabile; anzi, trascurabile è tanto meno in quanto lo spiritod'imitazione delle cose estere, l'influsso della moda e lastupidità “mondana” si alleano a favorire l'espansione delleteorie di questo genere in determinati ambienti e a far lorotrovare i mezzi materiali d'una diffusione sempre maggioremediante una propaganda che abilmente riveste le forme piùsvariate per toccare i pubblici più diversi.

La natura di tale pericolo e la sua gravità escludono ogniriguardo verso coloro che ne sono la causa; siamo infatti, conessi, nel regno della più pura invenzione e della più volgareciarlataneria, e se sono da compiangere sinceramente gliingenui che compongono la maggioranza di coloro che in essesi compiacciono, i tipi che coscientemente conducono questa

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Il Teosofismo

clientela di creduloni e la inducono a servire i propri interessi,in qualsiasi campo, non possono che ispirare il più profondodisprezzo. D'altra parte v'è in questo genere di cose più d'unmodo di restar presi in trappola, e l'adesione alle teorie non necostituisce che uno; tra coloro stessi che le combattono perragioni diverse, la maggior parte sono insufficientemente difesie commettono l'errore involontario, e tuttavia di capitaleimportanza, di scambiare per idee genuinamente orientaliquanto non è che il prodotto d'una aberrazione squisitamenteoccidentale; i loro attacchi, sovente portati con le miglioriintenzioni, perdono con ciò quasi completamente ogni effetto.

D'altronde perfino certi orientalisti ufficiali prendono sulserio queste teorie; non che le considerino in se stesse vere,giacché, data la prospettiva speciale dalla quale si pongono,non può per essi sorgere questione di validità o falsità; ma leriguardano a torto come rappresentanti una certa parte o uncerto aspetto della mentalità orientale, ed è in ciò che vengonotratti in inganno, per difetto di conoscenza di tale mentalità,cosa che in fondo gli conviene perfino, poi che unaconcorrenza del genere non è per loro di grandepreoccupazione.

Si vedono poi addirittura farsi i più singolari connubi, e ciòin particolare sul terreno della “scienza delle religioni”, dove ilBurnouf fu d'esempio; forse il fatto si spiega nel modo piùsemplice tenendo conto della tendenza anti-religiosa e anti-tradizionale di questa sedicente scienza, tendenza che la portanaturalmente a rapporti di simpatia e spesso di affinità con tuttigli elementi di dissoluzione che con altri mezzi perseguono unfine analogo. Per chi non voglia mantenersi al livello delleapparenze vi sarebbero da fare osservazioni molto curiose edistruttive, sia in questo che in altri campi, sui vantaggi che ètalvolta possibile trarre dal disordine e dall'incoerenza, o da ciò

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che ne ha le apparenze, in vista dell'attuazione d'un disegno bendefinito e all'insaputa di tutti coloro che ne sono solamente glistrumenti più o meno incoscienti; si tratta in qualche modo dimezzi politici, d'una politica però un tantino particolare; ed'altronde, contrariamente a quanto potrebbero credere alcuni,la politica, anche nel senso più ristretto in cui è abitualmenteintesa, non è mai completamente estranea a ciò di cui ci stiamooccupando attualmente.

Tra le pseudo-dottrine che esercitano un influsso nefasto susettori più o meno estesi della mentalità occidentale, e che peressere di origine recentissima possono per la loro maggiorparte essere raggruppate sotto la comune denominazione di“neo-spiritualismo”, ve ne sono alcune, come l'occultismo e lospiritismo, di cui non diremo nulla, non avendo esse nessunpunto di contatto con gli studi orientali; ciò di cui cioccuperemo invece qui più particolarmente, che peròd'orientale non ha se non la forma esteriore sotto cui sipresenta, è quel che chiameremo il “teosofismo”.

L'uso di questo termine, nonostante ciò che esso ha diinusitato, è giustificato a sufficienza dalla nostra cura d'evitarele confusioni; non è infatti possibile servirsi in questo caso deltermine “teosofia”, che da molto tempo esiste a designare, trale speculazioni occidentali, qualcosa di completamente diversoe molto più degno, la cui origine è da far risalire al medio evo;nel nostro caso si tratta invece soltanto di concezioniappartenenti all'organizzazione contemporanea che ha preso ilnome di “Società Teosofica”, i membri della quale sono“teosofisti” (espressione in uso, del resto, nell'inglese corrente),e nient'affatto “teosofi”.

Non possiamo né vogliamo far qui, fosse pursommariamente, la storia, sotto certi riguardi perfinointeressante, di questa “Società Teosofica”, di cui la fondatrice

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seppe, grazie allo strano ascendente da lei esercitato su coloroche la circondavano, mettere insieme la pseudo-dottrina dalleconoscenze abbastanza varie in suo possesso; conoscenze chemancano totalmente ai suoi successori. Questa pseudo-dottrina,formata di elementi appartenenti alle più svariate fonti, spessodi dubbio valore e accozzati in un sincretismo confuso e pococoerente, si presentò inizialmente sotto la forma di un“Buddismo esoterico” che, come già da noi ricordato, èattribuibile alla più pura immaginazione; ultimamente essa si fapassare per un “Cristianesimo esoterico” di natura non menofantastica.

Tale organizzazione è nata in America, e pur spacciandosiper internazionale è diventata, almeno nella sua direzione,esclusivamente inglese, ad eccezione di qualche ramodissidente d'una importanza piuttosto ridotta; ad onta di tutti isuoi sforzi, sostenuti da protezioni che tali considerazionipolitiche che non preciseremo le hanno procacciato, essa non èmai riuscita a reclutare se non un esiguo numero di Indù sviati,profondamente disprezzati dai loro compatrioti, i cui nomi peròpossono avere un certo effetto sull'ignoranza europea; in Indiasi crede in ogni caso, e abbastanza generalmente, che si trattid'una setta protestante di tipo un po' speciale, sospettogiustificato dal suo corpo direttivo, dai metodi della suapropaganda e dalle sue direttrici “moraleggianti”, per non diredella sua ostilità, a volte mascherata e a volte violenta, controtutte le istituzioni tradizionali.

Nel campo delle produzioni intellettuali si sono visticomparire principalmente, dopo le indigeste pubblicazionidegli inizi, una quantità di racconti di fantasia, prodotto della“chiaroveggenza” particolare che si ottiene, a quanta pare,grazie alla “sviluppo dei poteri latenti dell'organismo umano”;si sono avute anche delle traduzioni piuttosto ridicole di testi

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sanscriti, accompagnate da commenti e interpretazioni piùridicoli ancora, che però non s'ha il coraggio di diffonderetroppo pubblicamente in India, dove compaiono di preferenzalavori che distorcono la dottrina cristiana col pretesto diesporre un preteso senso nascosto: se veramente esistesse nelCristianesimo un segreto di questo genere, esso non avrebbegran possibilità di spiegazione né ragion d'essere valida,giacché non è nemmeno il caso di dire che ricercare misteriprofondi nelle elucubrazioni “teosofiste” significa soltantoperdere il proprio tempo.

Quel che a prima vista caratterizza il “teosofismo”, è l'uso diuna terminologia sanscrita piuttosto complicata, nella quale leparole sono spesso assunte in un senso lontanissimo da quelloche esse hanno in realtà, ciò che non stupisce gran che quandosi pensi che servono soltanto a mascherare concezionitipicamente occidentali e lontane il più possibile dalle ideeindù. Per fare un esempio, il termine karma, il quale comeabbiamo già ricordato significa “azione”, è costantemente usatonel senso di “causalità”, che è più di un'inesattezza; ma ancorpiù grave è il fatto che la causalità è intesa in modo del tuttoparticolare, e che, per una falsa interpretazione della teoriadell'apurva da noi esposta trattando della Mimansa, le cosesono deformate fino a vedere in essa una sanzione morale.

Abbiamo già dato a questo argomento sufficiente sviluppoperché non sia difficile rendersi conto della gran confusione dipunti di vista che tale deformazione presuppone, quand'anche,come facciamo, riducendola all'essenziale tralasciamo tutte leassurdità accessorie che le fanno corona; anche così essadimostra quanto il “teosofismo” sia compenetrato dellasentimentalità tipica degli Occidentali, e d'altronde per vederefino a qual punto esso spinga il “moralismo” e lo pseudo-misticismo basta aprire uno qualunque dei libri in cui sono

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esposte le sue concezioni; e osservando le opere più recenti cisi può render conto di come queste tendenze vadano semprepiù accentuandosi, forse perché la mediocrità della mentalitàdei capi dell'organizzazione va continuamente crescendo, maforse anche perché tale orientamento è effettivamente quelloche meglio risponde al fine che essi si propongono.

L'unica ragione della presenza d'una terminologia sanscritanel “teosofismo” è di dare a ciò che in esso tiene luogo didottrina, giacché non possiamo acconsentire a che vengachiamato dottrina, un'apparenza tale da gettar fumo negli occhidegli Occidentali e a sedurre quel certo numero di essi che,amanti del esotismo nella forma, sono poi ben contenti diritrovare, quanto al fondo, concezioni e aspirazioni conformialle loro proprie, e sarebbero del tutto incapaci di afferrareanche in minima parte le dottrine orientali autentiche; questomodo di pensare, frequente in coloro che appartengono alcosiddetto “bel mondo”, è notevolmente vicino a quello deifilosofi che sentono il bisogno di servirsi di parole fuor delcomune e trasudanti gravità presuntuosa per esprimere ideeche, tutto sommato, non sono molto differenti da quelle dellamaggior parte della gente.

Il “teosofismo” attribuisce un'importanza considerevoleall'idea di “evoluzione”, che è ben occidentale e ben moderna;e, in ciò simile alla maggior parte delle “scuole” dellospiritismo, al quale è in parte legato per le sue origini, associatale idea all'idea di “reincarnazione”. Quest'ultima teoria pareaver avuto origine da alcuni sognatori socialisti della primametà del XIX secolo, secondo i quali avrebbe dovuto esserdestinata a dare una spiegazione della disuguaglianza dellecondizioni sociali, ai loro occhi particolarmente offensiva,mentre è invece affatto naturale, e, per chi comprenda ilprincipio dell'istituzione delle caste, fondata sulla differenza

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delle nature individuali, sia una questione che non ha da porsi;del resto le teorie di questo tipo, così come quelle di tipo“evoluzionistico”, non spiegano in realtà un bel nulla, e nonfanno che arretrare la difficoltà, sia pur indefinitamente,lasciandola alla fine tal quale, se tuttavia difficoltà esiste;quando poi non esista, a cosa servono?

Quanto alla pretesa di far risalire la concezione della“reincarnazione” all'antichità, niente v'è di più infondato, salvochiamar fondamento l'incomprensione di alcune espressionisimboliche, da cui è nata una grossolana interpretazione della“metempsicosi” pitagorica intesa a darle il senso di una speciedi “trasformismo” psichico; nello stesso senso deviato sonostati intesi come vite terrestri successive quelli che non soltantonelle dottrine indù, ma pure nel Buddismo, sono una serie dimutamenti di stato d'un essere, stati di cui ciascuno presentacondizioni caratteristiche proprie differenti da quelle degli altri,e costituisce per l'essere un ciclo d'esistenza che non può esserepercorso che una sola volta; da che emerge come l'esistenzaterrestre, ovvero anche e più generalmente quella corporea, nonsia che uno stato particolare tra un'indefinità d'altri.

La vera teoria degli stati multipli dell'essere riveste la piùgrande importanza sotto il rispetto della metafisica; non ci èstato possibile svilupparla in quest'occasione, ma ci è occorsodi fare ad essa qualche allusione, in particolare quandotrattammo dell'apurva e delle “azioni e reazioni concordanti”.Ritornando al “reincarnazionismo”, se così ci è lecitochiamarlo, il quale di quest'ultima teoria non è se non unadisgraziata caricatura, tutti gli Orientali, senza distinzione, adeccezione forse di qualche ignorante più o menooccidentalizzato la cui opinione è di valore nullo, ad esso sioppongono in modo unanime; d'altronde la sua assurditàmetafisica è facilmente dimostrabile, poi che l'ammettere che

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Il Teosofismo

un essere possa passare più volte attraverso il medesimo statovale quanto il supporre una limitazione della possibilitàuniversale, ovvero negare l'Infinito, e una simile negazione è inse stessa contraddittoria nel modo più pieno.

Combattere quest'idea della “reincarnazione” è dunque diprimordiale importanza, prima di tutto perché essa èassolutamente contraria alla verità, come risulta dal poco chene abbiamo detto, in secondo luogo, e ragione di carattere piùcontingente, perché tale idea, resa soprattutto popolare dallospiritismo, dal punto di vista intellettuale la più goffa di tutte lescuole “neo-spiritualistiche” e in pari tempo la più diffusa, è diquelle che più efficacemente contribuiscono. allo sconcertomentale da noi segnalato all'inizio di questo capitolo, e le cuivittime sono disgraziatamente molto più numerose di quantopossano pensare coloro che non sono informati di queste cose.

Non ci è evidentemente possibile dilungarci in questeconsiderazioni; ma è necessario aggiungere che mentre glispiritualisti si danno da fare per dimostrare la cosìddetta“reincarnazione”, insieme con l'immortalità dell'anima,“scientificamente”, vale a dire col metodo sperimentale, ilquale è assolutamente inefficace a dare il menomo risultato inquesto campo, la maggioranza dei “teosofisti” paiono vedere inessa una sorta di dogma o d'articolo di fede, da ammettere permotivi di carattere sentimentale, senza che vi sia necessità ditrovare nessuna prova razionale o sensibile di essa.

È questa una prova lampante che si tratta di un tentativo didar vita a una pseudo-religione, in concorrenza con le verereligioni dell'Occidente, e principalmente col Cattolicesimo,giacché, quanto al Protestantesimo, esso chiude graziosamentetutti e due gli occhi davanti alla molteplicità delle sette, a cuianzi spontaneamente dà origine in conseguenza della suamancanza di principi dottrinali. La pseudo-religione

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“teosofista” tenta attualmente di darsi una forma definitaassumendo come punto centrale l'annuncio dell'imminentevenuta di un “grande istruttore”, presentato dai suoi profeticome un futuro Messia e una “reincarnazione” del Cristo: fratutte le trasformazioni del “teosofismo”, questa, che getta unaluce particolarmente rivelatrice sulla concezione del“Cristianesimo esoterico”, è l'ultima in ordine di tempo,almeno fino a questo momento, ma non certo la menosignificativa.

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5 ‐ L'OCCIDENTALIZZAZIONE DEL VEDANTA

Sempre in un ordine di idee più o meno connesso con quelloa cui appartiene il “teosofismo”, ci restano da ricordare alcuni“movimenti” che pur se ebbero il loro punto di partenzanell'India non per questo sono d'ispirazione meno occidentale,e sui quali si esercitò in modo massiccio l'influsso delletendenze politiche a cui accennavamo nel capitolo precedente.

L'origine di essi risale alla prima metà del XIX secolo,epoca in cui Ram Mohun Roy fondò il Brahma-Samaj, o“Chiesa indù riformata”, l'idea della quale gli era statasuggerita da missionari anglicani, e per cui fu stabilito un“culto” imitato particolareggiatamente dallo schema dei serviziprotestanti. Fino a quel momento non era mai esistito nulla acui fosse possibile applicare denominazioni come quella di“Chiesa indù” o di “Chiesa brahmanica”, a tale assimilazioneopponendosi tanto il punto di vista essenziale della tradizioneindù quanto il tipo d'organizzazione che gli corrisponde; difatto, si trattò del primo tentativo di trasformare ilBrahmanesimo in una religione nel senso occidentale dellaparola, approfittandosi dell'occasione per animarla di tendenzesimili a quelle che caratterizzano il Protestantesimo.

Questo movimento di “riforma” fu, com'era naturale,incoraggiato e sostenuto dal governo britannico e dalle societàmissionarie anglo-indiane; sennonché esso era troppoapertamente anti-tradizionale e troppo contrario allo spiritoindù per poter avere successo favorevole; ed infatti fu preso perquel che era in realtà: uno strumento della dominazionestraniera. Inoltre, per effetto inevitabile dell'introduzione del“libero esame”, il Brahma-Samaj ben presto si suddivise inmolteplici “Chiese”, a similitudini del Protestantesimo, al quale

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si veniva avvicinando sempre di più, fino al punto di meritarsil'appellativo di “pietismo”; finché, dopo vicissitudini che èinutile ricordare, finì con lo scomparire pressochécompletamente. Ma la speciale mentalità che aveva presiedutoalla fondazione di questa organizzazione non si contenne aquest'unica manifestazione, e altri tentativi analoghi ebberoorigine, sotto l'impulso delle circostanze e in generale senzamiglior successo; ricorderemo soltanto l'Arya-Samaj,associazione fondata cinquant'anni fa da Dayananda Saraswati,chiamato da qualcuno “il Lutero indiano”, il quale fu incontatto con i fondatori della “Società Teosofica”.

Di notevole c'è soltanto da dire che, tanto in questo casoquanto in quello del Brahma-Samaj, la tendenza anti-tradizionale assumeva a pretesto il ritorno alla semplicitàprimitiva e alla dottrina pura del Veda; è sufficiente, pergiudicare di tale pretesa, sapere quanto il “moralismo”,preoccupazione dominante di tutte queste organizzazioni, siaestraneo al Veda; se non che anche il Protestantesimo ha lapretesa di restaurare il Cristianesimo primitivo in tutta la suapurezza, e in questo accostamento si deve vedere ben altro cheuna semplice coincidenza.

Simile atteggiamento, bisogna riconoscerlo, non manca diuna certa abilità a far accettare le innovazioni, principalmentequando sia applicato a un ambiente fortemente attaccato allatradizione, e nel quale la rottura troppo aperta con quest'ultimasarebbe imprudente; è chiaro però che se i principifondamentali della tradizione fossero accettati veramente e inpiena sincerità, si dovrebbero ammettere anche tutti gli sviluppie le conseguenze che regolarmente ne derivano; è proprio quelche non fanno i sedicenti “riformatori”, ed è questa la ragioneper cui tutti coloro che posseggono il senso della tradizionepossono rendersi conto senza fatica che la vera deviazione non

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L'Occidentalizzazione del Vedanta

è affatto dalla parte dalla quale costoro affermano che sia. RamMohun Roy si era particolarmente accanito nell'interpretazionedel Vedanta secondo le sue proprie idee; pur insistendo conragione sul concetto dell'“unità divina”, che nessun uomocompetente aveva d'altronde mai contestato, e che egliesprimeva però in termini molto più teologici che metafisici,questo personaggio snaturava sotto più d'un aspetto la dottrinaper adattarla ai modi di vedere occidentali che aveva fatto suoi,e la riduceva a qualcosa che finiva col rassomigliare ad unafilosofia tinta di religiosità, ad una sorta di “deismo” neiparamenti di una fraseologia orientale.

Simile interpretazione è perciò, nel suo spirito stesso,lontana al massimo dalla tradizione e dalla metafisica pura;essa si presenta come una semplice teoria individuale senzaautorità, e ignora totalmente la realizzazione, unico vero scopodell'intera dottrina. Si può dire che si trattasse del prototipodelle deformazioni del Vedanta, poi che in seguito altre se neprodussero, e tutte nel senso di un ravvicinamentoall'Occidente, ravvicinamento di cui l'Oriente avrebbe fatto lespese, a gran detrimento della verità dottrinale: un'intrapresaveramente insensata, e diametralmente contraria agli interessiintellettuali delle due civiltà, da cui però la mentalità orientaleè in generale poco toccata, ché le cose di questo genere leappaiano in tutto e per tutto trascurabili.

Secondo logica non tocca certo all'Oriente riavvicinarsiall'Occidente, per seguirlo nelle sue deviazioni mentali, cosìcome insidiosamente ne lo invitano, invano del resto, ipropagandisti d'ogni stampo inviatigli dall'Europa; al contrario,è all'Occidente che tocca di ritornare, quando lo vorrà e potrà,alle fonti pure d'ogni vera intellettualità, dalle quali per contosuo l'Oriente non si è mai dipartito; e in quel giorno l'intesa sieffettuerà da sola, quasi per soprammercato, su tutti i punti

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secondari che non appartengono che alla sfera dellecontingenze. Ritornando alle deformazioni del Vedanta, sequasi nessuno in India vi annette importanza, come dicevamoprima, tuttavia è necessario fare eccezione per alcuneindividualità, le quali vi portano un interesse al tuttoparticolare, che con l'intellettualità non ha assolutamente nientea che vedere; di fatto, diverse di queste deformazioni non sonoche il prodotto di determinati interessi politici. Non è certonostra intenzione intraprendere qui il racconto delle circostanzein cui tale Maharaja usurpatore, Shudra alla stregua diChandragupta e di Ashoka, fu spinto, per ottenere il simulacrodi un'investitura tradizionale impossibile, a espropriare dei suoibeni la scuola autentica di Shankaracharya, e a sostituirviun'altra scuola, la quale abusivamente si decora del nome edell'autorità dello stesso Shankaracharya dando al suo capo iltitolo di Jagad-Guru o “istruttore del mondo”, titolo chelegittimamente appartiene al solo vero successore spirituale delgrande maestro indù.

Quel che è certo è che questa scuola insegna una dottrinaimmiserita e parzialmente eterodossa; per adattare l'esposizionedel Vedanta alle attuali condizioni essa pretende di darlel'appoggio della scienza occidentale moderna, le cui concezioninon hanno nulla a che fare su questo terreno; di fatto talescuola si rivolge soprattutto agli Occidentali, molti dei qualihanno perfino da essa ricevuto il titolo onorifico di“Vedantabhushana”, ovvero “ornamento del Vedanta”, ciò chenon manca di una certa ironia.

Un altro ramo ancor più deviato, e più generalmenteconosciuto in Occidente, è quello fondato da Vivekananda,discepolo infedele dell'illustre Kamakrishna; questa scuolarecluta i suoi aderenti soprattutto in America e in Australia,paesi nei quali mantiene “missioni” e “templi”. In essa il

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L'Occidentalizzazione del Vedanta

Vedanta è diventato ciò che Schopenhauer aveva creduto divedervi, una religione sentimentale e “consolante”, con unaforte dose di “moralismo” protestante; sotto tale formadecaduta esso si avvicina stranamente al “teosofismo”, delquale è piuttosto un alleato naturale che non un rivale o unconcorrente.

Le parvenze “evangeliche” di questa pseudo-religione legarantiscono un certo successo nei paesi anglosassoni e, ciòche dimostra chiaramente fin dove giunga il suosentimentalismo, la maggioranza della sua clientela è costituitada elementi femminili, nei quali essa trova anzi gli agenti piùentusiasti per la sua propaganda; giacché è assiomatico che latendenza tutta occidentale al proselitismo imperversi in questeorganizzazioni che di orientale non hanno altro che il nome eun'apparenza meramente esteriore, i quali bastano però adattirare i curiosi e i dilettanti di un esotismo della più bassalega.

Prodotto di quella singolare invenzione americana, anch'essadi provata ispirazione protestante, che si intitola “Parlamentodelle religioni”, e tanto più adatto all'Occidente in quanto piùprofondamente snaturato, questo sedicente Vedanta che non ha,se così si può dire, più nulla di comune con la dottrinametafisica per la quale cerca di farsi passare, non meritacertamente che ci soffermiamo ulteriormente su di esso; ciò cheinvece ci premeva, era di segnalare la sua esistenza, insiemecon quella delle altre istituzioni dello stesso genere, e ciò permettere in guardia contro le assimilazioni errate che coloro chele conoscono potrebbero essere tentati di fare; senza contareche è pure nell'interesse di coloro che non le conoscono diavere qualche informazione su tale genere di cose, le qualisono molto meno inoffensive di quanto potrebbero sembrare alprimo sguardo.

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6 ‐ ULTIME OSSERVAZIONI

Trattando delle interpretazioni occidentali ci siamovolontariamente mantenuti, per quanto abbiamo potuto, sulinee generali, al fine di evitare d'incappare in questionispecifiche riguardanti questa o quella persona, questioni spessospiacevoli e se non altro inutili quando sia in causa un punto divista puramente dottrinale.

È straordinario quanto gli Occidentali provino difficoltà,nella loro maggioranza, a rendersi conto che le considerazionidi questo genere non aggiungono assolutamente nulla in favoreo in sfavore d'una teoria; ciò sta a testimoniare a qual limiteessi abbiano spinto l'individualismo intellettuale, insieme colsentimentalismo, dal quale è inseparabile. È noto infatti quantospazio i particolari biografici più insignificanti tengano inquella che dovrebbe essere la storia delle idee, e quanto diffusasia l'illusione che quando si sappia un nome proprio o una datasi possieda con ciò stesso un'effettiva conoscenza; nulla distupefacente in ciò, d'altra parte, quando si sia giunti a darmaggior peso ai fatti che alle idee.

Quanto poi alle idee in sé, giunti che si sia a tenerle perinvenzione e proprietà di questo o quell'individuo, e persoprammercato si sia in potere e dominio d'ogni sorta dipreoccupazioni morali e sentimentali, è del tutto naturale che illoro apprezzamento venga condizionato da quel che si sa delcarattere e delle azioni dell'uomo al quale sono state attribuite;in altre parole, si farà riverberare sulle idee, in sé e per sétenute in scarso valore, l'attrazione o l'antipatia provata per chile abbia concepite, quasi che la loro verità o falsità possadipendere da contingenze di tal fatta. Così stando le cose, siarriverà forse ancora ad ammettere, un po' a malincuore, che un

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individuo in tutto rispettabile abbia potuto formulare opatrocinare idee più o meno assurde; ma mai si consentirà chetal altro individuo, giudicato spregevole, abbia avuto un certovalore intellettuale, oppure artistico, o dell'ingegno, o anchesoltanto del talento sotto qualche rispetto; e tuttavia casi delgenere sono lungi dall'esser rari.

Se un pregiudizio c'è senza nessun fondamento, è proprioquesto, caro ai sostenitori dell'“istruzione obbligatoria”,secondo cui il vero sapere dovrebbe essere inseparabile da quelche s'è convenuto di chiamare la morale. Non si vede infatti,secondo logica, perché un criminale debba esserenecessariamente un allocco o un ignorante, o perché siaimpossibile che un uomo si serva della propria intelligenza edella propria scienza per nuocere ai suoi simili, cosa che inrealtà accade invece piuttosto di frequente; così come non sicapisce bene perché la verità di un concetto debba dipenderedall'esser esso stato emesso da questo o da quell'altroindividuo; sennonché nulla esiste di meno logico delsentimento, anche se certi filosofi hanno creduto di poterparlare di una “logica dei sentimenti”.

I pretesi argomenti in cui sono tirate in ballo questionipersonali sono perciò senza portata alcuna; che di essi ci sipossa servire in politica, campo in cui il sentimento ha unaparte di prima importanza, è cosa fino a un certo puntocomprensibile, per quanto anche così se ne faccia spesso abuso,sottintendendo una fondamentale mancanza di rispetto per lepersone a cui ci si rivolge e di cui il solo sentimentalismo è intal modo sollecitato; ma che gli stessi metodi di discussione siintroducano nella sfera dell'intellettualità, è veramenteinammissibile. Ci è parso opportuno insistere su questoargomento perché, questa tendenza essendo troppo comune inOccidente, se non avessimo chiarito le nostre intenzioni

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Ultime Osservazioni

qualcuno avrebbe potuto esser tentato di rimproverarci comemancanza di precisione, o di “riferimenti”, un atteggiamentoche invece è da parte nostra perfettamente voluto e meditato.

Pensiamo inoltre d'aver risposto in anticipo, e a sufficienza,alla maggior parte delle obiezioni e delle critiche che ci sipotrebbero rivolgere; non sarà certo questo, naturalmente, adimpedire che esse ci siano rivolte di fatto, ma in questo casochi le farà proverà soprattutto con ciò la sua incomprensione.Saremo dunque forse accusati di non piegarci a certi metoditenuti per “scientifici”, che sarebbe in fondo la minima delleincongruenze, dato che tali metodi, in verità esclusivamente“letterari”, sono proprio quelli di cui abbiamo cercato di farrisaltare l'insufficienza, e la cui applicazione agli argomenti inquestione, per le ragioni di principio da noi esposte, teniamoper impossibile ed illegittima. Ma la mania dei testi, delle“fonti” e della bibliografia è ai nostri giorni talmente diffusa edha assunto tali arie di sistema, che molti, particolarmente tra gli“specialisti”, si troveranno a disagio davanti alla loromancanza, come sempre accade a coloro che subiscono latirannia di un'abitudine; così come ben difficilmentearriveranno a capire, se pur ci riusciranno (o se vorrannopiegarsi a questa fatica), la possibilità di porsi come noifacciamo da un angolo visuale diverso da quellodell'erudizione, l'unico che essi abbiano mai avuto il modo diconoscere.

Sicché questi “specialisti” sono le ultime persone a cuiabbiamo inteso rivolgerci in particolare, il nostro discorsoessendo bensì con gli intelletti meno angusti, meno schiavi deipregiudizi, sui quali non si faccia sentire l'influsso delladeformazione mentale inevitabilmente prodotta dall'usoesclusivo di certi metodi, deformazione che corrisponde a unavera e propria infermità, che noi chiameremmo volentieri,

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come già abbiamo fatto, “miopia intellettuale”. Siingannerebbe però chi pensasse che il nostro sia un richiamo al“gran pubblico”, nella competenza del quale non abbiamo laminima fiducia, atteggiamento che si accompagna in noi a unvero e proprio raccapriccio davanti a tutto ciò che possarassomigliare alla “volgarizzazione”, e i motivi di ciò liabbiamo già esposti; soltanto, quel che non commettiamo èl'errore di confondere la vera élite intellettuale con gli eruditi diprofessione, e ai nostri occhi una ben sviluppata facoltà dicomprensione vale incomparabilmente più dell'erudizione, laquale, quando diventi “specializzazione”, può tutt'al più esserled'ostacolo, mentre dovrebbe normalmente esserne al serviziocome un semplice strumento, tenuto conto che la comprensionedi cui parliamo altro non è che la conoscenza pura e la veraintellettualità.

E giacché siamo in tema di spiegazioni contro possibilicritiche, ci resta da rilevare, nonostante il suo poco interesse,un punto secondario che potrebbe prestarcisi: non c'è parsoutile seguire, per i termini in sanscrito, la trascrizionecomplicata e strana in uso presso gli orientalisti. Poi chel'alfabeto sanscrito ha molti più caratteri degli alfabeti europei,è evidente la necessità di rappresentare più lettere distinte conuno stesso carattere, il suono del quale s'avvicini tanto alle unequanto alle altre, pur se esistono tra di esse differenze sensibili,le quali sfuggono alle risorse di pronuncia particolarmentelimitate delle lingue occidentali.

Non si potrà perciò avere mai una trascrizione veramenteesatta, ed è certo che la miglior cosa sarebbe, dalle trascrizioni,astenersi: ma, a parte che è quasi impossibile ottenere per unapubblicazione stampata in Europa caratteri sanscriti di formacorretta, quand'anche ciò fosse attuabile, la loro letturarappresenterebbe una difficoltà affatto inutile per coloro che

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Ultime Osservazioni

non li conoscono, i quali, con tutto ciò, possono essere nonmeno atti di altri a capire le dottrine indù; senza contare che,per quanto ciò possa parere incredibile, esistono degli“specialisti” che per leggere i testi sanscriti non possono fare ameno di servirsi di trascrizioni, della qual cosa sono prova leedizioni eseguite in questa forma e a loro destinate. È senzadubbio possibile rimediare in certa misura, ricorrendo aqualche artificio, all'ambiguità ortografica risultante dalnumero esiguo di lettere di cui è formata l'alfabeto latino; ciò èprecisamente quanto hanno voluto fare gli orientalisti,sennonché il tipo di trascrizione al quale si sono fermati è lungidall'essere il migliore, implicando, come fa, convenzioni troppoarbitrarie; se la cosa avesse presentato per noi un'importanza diqualche rilievo, non sarebbe stato così difficile trovare unsistema più adatto, il quale deformasse meno le parole e siavvicinasse maggiormente alla loro reale pronuncia.

Siccome però coloro che hanno qualche conoscenza delsanscrito non avranno probabilmente difficoltà a ristabilirel'ortografia esatta, e tutti gli altri non ne hanno affatto bisognoper la comprensione delle idee (la quale è in fondo quella cheveramente conta), abbiamo pensato che non sarebbe accadutoniente di grave se ci fossimo dispensati da qualsiasi artificio discrittura e da ogni complicazione tipografica; così ci siamolimitati ad adottare la trascrizione che ci sembrava più semplicee al tempo stesso più conforme alla pronuncia, e rimandiamoalle opere specializzate coloro che si interessano piùparticolarmente a queste singolarità.

Quale sia il valore che si può attribuire a queste cose, talespiegazione dovevamo alle menti analitiche, sempre disposte aicavilli, come una delle poche concessioni che ci sentiamodisposti a fare alle loro abitudini, concessione dovuta allacortesia di cui si ha ad usare quando si tratta con persone in

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buona fede, e al nostro desiderio di evitare i malintesi chepotrebbero sorgere su punti secondari e su questioni accessoriee non vertano strettamente sull'irriducibile differenza tra gliangoli visuali nostri e quelli dei nostri eventuali contraddittori;quanto alle difficoltà che insorgessero per quest'ultima ragione,non è nelle nostre capacità di evitarle, impossibilitati comesiamo a procurare a chicchessia le facoltà di comprensione chegli fanno difetto.

Ciò detto, passiamo a trarre dal nostro studio le conclusioniche ancora si impongono, e a precisarne la portata meglio diquanto ci sia finora occorso di fare; in tale conclusione non cisarà posto, com'è facile prevedere, per le questioni di sempliceerudizione; si troverà invece indicato, accompagnato da uncerto riserbo indispensabile sotto più di un riguardo, ilbeneficio effettivo che deve risultare essenzialmente da unaconoscenza vera e profonda delle dottrine orientali.

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CONCLUSIONE

Se alcuni Occidentali potessero, attraverso la lettura diquanto siamo andati esponendo, prender coscienza di ciò che faloro difetto intellettualmente; se potessero, non diciamo capirloma per lo meno intravederlo e presentirlo, questo lavoro nonsarebbe stato fatto invano. Non è nostra intenzione parlareunicamente dei vantaggi inapprezzabili che potrebbero otteneredirettamente, per se stessi, coloro che fossero così condotti astudiare le dottrine orientali, nelle quali troverebbero, per pocoche possiedano le attitudini indispensabili, conoscenze di cuil'Occidente non può presentare nulla di paragonabile e neiconfronti delle quali le filosofie che passano per geniali esublimi non sono che passatempi da bambini; tra la veritàassentita nella sua pienezza, attraverso una concezione dallepossibilità illimitate e in una realizzazione ad essa adeguata, ele ipotesi, di qualunque natura siano, immaginate da fantasieindividuali a misura della loro capacità dalle limitazioniinevitabilmente ristrette, non vi è comune misura.

Esistono però altri risultati, di interesse più generale, i qualisono legati ai precedenti quali conseguenze più o menolontane; intendiamo alludere alla preparazione, a lungascadenza senza dubbio, e ciò nonostante effettiva, di unriavvicinamento intellettuale tra l'Oriente e l'Occidente.Trattando della divergenza dell'Occidente nei confrontidell'Oriente, la quale è andata più che mai accentuandosinell'evo moderno, dicemmo di non pensare, ad onta delleapparenze, che essa possa continuare ad aumentareindefinitamente. In altri termini, ci sembra difficile chel'Occidente, per la sua mentalità e per l'insieme delle suetendenze, continui ad allontanarsi progressivamente

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dall'Oriente, come va attualmente facendo, senza che prima opoi si produca una reazione che potrebbe avere, sotto certecondizioni, i più benefici effetti; più difficile ancora questo ciappare se si tien conto che la sfera in cui si sviluppa la civiltàoccidentale moderna è, per sua propria natura, la piùcircoscritta di tutte. Inoltre il carattere mutevole e instabiletipico della mentalità occidentale permette di non esserecompletamente scettici di fronte alla possibilità che l'Occidenteprenda, all'occasione, una direzione affatto diversa o addiritturaopposta, così che il rimedio scaturirebbe proprio da ciò che ainostri occhi costituisce l'indizio stesso della sua inferiorità; senon che, ripetiamo, vero rimedio esso non sarebbe che a certecondizioni, fuori dall'influenza delle quali potrebbe trattarsiinvece di un male ancor maggiore dello stato attuale.

Ciò può sembrare estremamente oscuro, e in effettiriconosciamo che esiste una certa difficoltà a renderlointelligibile in tutta la misura che sarebbe auspicabile,quand'anche ci si ponga dall'angolo prospettico dell'Occidentee ci si sforzi di parlare il suo linguaggio; tuttavia lo tenteremo,avvertendo però che le spiegazioni che daremo non possonocorrispondere al nostro pensiero nella sua totalità.

Per prima cosa siamo costretti a dichiarare formalmente, perparare alle conseguenze della speciale mentalità di certiOccidentali, che non intendiamo assolutamente enunciare nullache in qualsiasi modo si apparenti con quelle che sonochiamate “profezie”; darne l'illusione non è forse così difficilecome appare: basterebbe esporre in forma appropriata i risultatidi speciali deduzioni; ma questo modo di agire porta l'improntad'una certa ciarlataneria, a meno che chi le emette sia afflitto dauno stato d'animo che predispone a una sorta diautosuggestione. Dei due termini di questa alternativa il primoci ispira una ripugnanza invincibile, e il secondo caratterizza un

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Conclusione

caso che non è fortunatamente il nostro. Eviteremo perciò diesporre tutte le precisazioni che, per qualsiasi ragione, nonpotremmo giustificare, e che, qualora anche non fosserorischiose, sarebbero per lo meno inutili; non appartenendo noialla schiera di coloro che ritengono la conoscenzaparticolareggiata dell'avvenire vantaggiosa per l'uomo,reputiamo al tutto legittimo il discredito di cui è circondata inOriente la pratica delle arti divinatorie. E questo sarebbe già unmotivo sufficiente a far condannare l'occultismo e le altrespeculazioni del genere che tanta importanza attribuiscono aquesta specie di cose, anche se non esistessero, in campodottrinale, considerazioni ancor più gravi e decisive per farrespingere in modo netto concezioni così stravaganti e insiemepericolose.

Ammetteremo dunque che non sia possibile prevedereattualmente le circostanze che potranno determinare unmutamento di direzione nello sviluppo dell'Occidente; se nonche la possibilità di tale cambiamento può esser contestata soloda coloro che credono che questo sviluppo, nel suo sensoattuale, costituisca un “progresso” assoluto. Ai nostri occhisimile idea di “progresso” assoluto è priva di significato, e giàabbiamo segnalato l'incompatibilità di tali sviluppi la cuiconseguenza è che un progresso relativo in un determinatocampo porta in un altro ad una regressione corrispondente; (sinoterà che non diciamo “equivalente”, giacché non si puòparlare di equivalenza tra cose che non hanno la stessa naturané appartengono allo stesso ordine). È quanto è occorso allaciviltà occidentale: le ricerche condotte esclusivamente in vistadelle applicazioni pratiche e del progresso materiale hannoprovocato, come necessariamente dovevano, una regressionenel campo della speculazione e dell'intellettualità pura; esiccome non esiste comune misura tra le due sfere, ciò che

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andrà perduto da una parte è di valore incommensurabilmentemaggiore di quanto fu acquisito dall'altra; solo l'inauditadeformazione mentale degli Occidentali moderni può giudicarele cose in modo diverso.

Ad ogni buon conto, per poco che s'abbia di aperturamentale da poter riflettere che uno sviluppo unilineare soggiaceineluttabilmente a certe condizioni limitative, ancor piùrigorose qualora esso si compia in campo materiale, si può benaffermare che il mutamento di direzione di cui parliamo nonpotrà mancare di prodursi ad un determinato momento. Quantoalla natura degli avvenimenti che dovranno contribuirvi, èpossibile che si finisca con l'accorgersi che le cose a cui siannette attualmente una così esclusiva importanza non sono ingrado di produrre i risultati che da esse si attendono; ma anchesoltanto ciò presupporrebbe già una certa modificazione dellamentalità comune, pur se la delusione potrà essere soprattuttosentimentale e vertere, per esempio, sulla constatazionedell'inesistenza di un “progresso morale” parallelo al progressocosiddetto scientifico.

Di fatto, i mezzi della trasformazione, se non proverrannoda qualche altra parte, dovranno essere di una mediocritàproporzionata a quella della mentalità su cui dovranno agire; senon che tale mediocrità potrebbe non lasciar presagire nulla dibuono per ciò che dovrà risultarne. Si può anche supporre chele invenzioni meccaniche, spinte a gradi sempre più massicci,giungano al punto di apparire talmente pericolose che ci sivedrà costretti a rinunciarvi, o per il terrore che alcuni dei loroeffetti potranno provocare, o addirittura in seguito a uncataclisma che lasciamo a ciascuno di rappresentarsi a piacere.Anche in questo caso il motivo del cambiamento sarebbe dicarattere sentimentale, ma di quella sentimentalità che siapparenta da vicino alla sfera fisiologica; e facciamo rilevare,

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senza entrare in particolari, che sintomi dell'una e dell'altra diqueste due possibilità già si sono verificati, pur se in nonrilevante misura, in seguito agli avvenimenti che hannofunestato l'Europa, i quali però, checché se ne possa pensare,non sono ancora così consistenti da poter determinare risultatiprofondi e duraturi [Anche qui l'autore si riferisce agliavvenimenti connessi con quella che si è usi chiamare la“prima guerra mondiale”, scoppiata nel 1914 e terminata nel1918.

La prima edizione dell'opera da noi tradotta apparve nel1921. (NdT)]. Cambiamenti come quelli che consideriamopresentemente, come possono avvenire lentamente egradualmente e richiedere dei secoli per concludersi, cosìpossono risolversi all'improvviso in sconvolgimenti rapidi eimprevisti; quantunque, anche nel primo caso, sia verosimileche giunga un momento in cui una rottura più o meno bruscadeve prodursi, cioè una vera e propria soluzione di continuitànei confronti dello stato anteriore.

In tutti i modi, ammetteremo che non sia possibile fissare inanticipo, anche solo approssimativamente, la data di unmutamento del genere; e tuttavia la verità ci impone di dire checoloro i quali hanno qualche conoscenza delle leggi cicliche edella loro applicazione ai periodi storici potrebbero per lomeno permettersi qualche previsione e determinare delleepoche comprese entro certi limiti; se non che noi ci asterremoda qualsiasi considerazione di tal natura, tanto più che cose delgenere sono state talvolta simulate da gente che non avevanessuna reale conoscenza delle leggi a cui veniamo dal fareaccenno, e per la quale era tanto più facile parlare di tali cosequanto più completamente le ignorava: quest'ultimaaffermazione può suonare un tantino paradossale, eciononostante essa risponde alla più rigorosa realtà.

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La questione che ora si pone è questa: ammesso che adun'epoca determinata e in seguito ad avvenimenti di nonimporta qual natura, s'abbia in Occidente a produrre unareazione, ed essa provochi l'abbandono di ciò di che consiste inmodo esclusivo la civiltà europea, quali ne potranno essere leconseguenze? Sono possibili diversi casi, ed è opportunoprendere in esame le differenti ipotesi che vi corrispondono; lapiù sfavorevole è che nulla venga a prendere il posto di taleciviltà, e che, essa scomparsa, l'Occidente abbandonato a sestesso si trovi precipitato nella peggiore delle barbarie.

Per afferrare tutto il senso di questa possibilità bastariflettere sul fatto che, senza che sia neppur necessario risalireoltre i tempi cosiddetti storici, si può trovare più di un esempiodi civiltà completamente scomparse; esse erano talvolta civiltàdi popoli che anch'essi si estinsero, ma quest'ultima è unasupposizione che non si può verificare se non per civiltàlocalizzate in modo piuttosto ristretto, mentre per civiltà a piùgrande estensione è più verosimile che i loro popolisopravvivano, ridotti ad uno stato di degenerazione più o menocomparabile, come da noi detto in precedenza, a quello degliattuali selvaggi; non è necessario insistere ulteriormente perchéci si renda conto di quanto questa prima ipotesi è inquietante.

La seconda ipotesi è costituita da ciò: che i rappresentanti dialtre civiltà, vale a dire i popoli orientali, per salvare il mondooccidentale da un simile irrimediabile decadimento, loassimilino con le buone o con le cattive, ammessa la cosapossibile e a patto che l'Oriente vi consenta, nella sua totalità oin qualcuna delle parti che lo compongono. Pensiamo che, perquanto accecato dai pregiudizi occidentali, non vi sia chi nonveda quanta sarebbe preferibile il realizzarsi di questa ipotesi aquello della precedente: è evidente che in circostanze simili siavrebbe un periodo transitorio occupato da rivoluzioni etniche

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estremamente dolorose, quali è ben difficile poterrappresentarsi, sennonché il risultato finale sarebbe di talnatura da compensare i danni fatalmente causati da similecatastrofe; ma in questo caso l'Occidente dovrebbe rinunciarealle proprie caratteristiche e verrebbe a trovarsi assorbitopuramente e semplicemente.

Per tale ragione è opportuno che si prenda in considerazioneuna terza ipotesi come ben più favorevole dal punto di vistaoccidentale pur se equivalente, in fondo, dal punto di vistadell'insieme dell'umanità terrestre, ché se essa dovesserealizzarsi, l'effetto ne sarebbe di far scomparire l'anomaliaoccidentale, non per soppressione come nella prima ipotesi,ma, come nella seconda, per ritorno all'intellettualità vera enormale; soltanto che questo ritorno invece di essere imposto eforzato, o al massimo accettato e subito passivamente dal difuori, si effettuerebbe volontariamente e come spontaneamente.

Appare ora più chiaro ciò che implica, per essere attuabile,quest'ultima possibilità: occorrerebbe che l'Occidente, nelmomento in cui il suo sviluppo nel senso attuale giungesse allasua fine, trovasse in se stesso i principi di uno sviluppo in unaltro senso, che da quel momento potrebbe condurre innanzi inmodo del tutto naturale; tale nuovo sviluppo, mentrerenderebbe la sua civiltà comparabile a quelle dell'Oriente, glipermetterebbe di conservare nel mondo, non diciamo unapreminenza che non gli spetta di nessun diritto e che deveesclusivamente all'uso della forza bruta, ma per lo meno ilposto che può legittimamente occupare come rappresentanted'una civiltà tra le altre, e d'una civiltà che, in tali condizioni,cesserebbe d'essere un elemento di squilibrio e d'oppressioneper il resto degli uomini.

Non è da credere infatti che la dominazione occidentalepossa esser giudicata in modo diverso dai popoli delle altre

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civiltà, su cui essa si esercita al presente; non parliamonaturalmente di tali popolazioni degenerate per le qualid'altronde questa dominazione è forse ancora più nociva cheutile, giacché dei loro conquistatori esse non hanno assimilatoche le cose più dannose.

Per quel che riguarda gli Orientali, abbiamo già fattorilevare a più riprese quanto ci pare giustificato il loro sprezzoper l'Occidente, accresciuto dal fatto che la razza europeainsiste in modo massiccio sulla sua pretesa odiosa e ridicola aun'inesistente superiorità mentale e sull'imposizione a tuttiindistintamente gli uomini di un'assimilazione che, inconseguenza dei suoi caratteri instabili e mal definiti, èfortunatamente impotente a realizzare. È necessaria tuttal'illusione e tutta la cecità che il più assurdo partito preso puòprovocare, per credere che la mentalità occidentale riuscirà maia conquistare l'Oriente, e che uomini per i quali non esiste altrasuperiorità vera se non quella dell'intellettualità possanogiungere a lasciarsi sedurre da quelle invenzioni meccanicheper le quali essi provano sì molta ripugnanza, ma non laminima ammirazione.

Indubbiamente può accadere che gli Orientali accettino, omeglio, subiscano certe necessità dell'epoca attuale, tenendoleper transitorie e per ben più moleste che utili, e aspirando infondo soltanto a sbarazzarsi di tutto questo “progresso”materiale al quale non si interesseranno mai veramente; ma, aparte il caso specialissimo del Giappone, sul quale ci siamo giàspiegati, sotto questo aspetto non si potranno ottenere che dellemodificazioni del tutto superficiali, nonostante gli sforzi delpiù acceso e intempestivo proselitismo occidentale. GliOrientali non hanno oggi, intellettualmente, maggior interessea cambiare di quanto n'ebbero durante i secoli precedenti; tuttoquel che abbiamo detto in questo lavoro sta a provarlo, ed è

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questa una delle ragioni per cui un riavvicinamento vero eprofondo non può derivare, com'è normale e logico, che da unmutamento che si compia da parte dell'Occidente.

Ci tocca ora tornare alle tre ipotesi da noi descritte, percaratterizzare con più precisione le condizioni chedeterminerebbero l'attuazione dell'una o dell'altra di esse; tuttodipende evidentemente dallo stato mentale in cui il mondooccidentale si troverebbe nel momento in cui si giungesse alpunto d'arresto della sua civiltà attuale. Se questo stato mentalefosse allora quale esso è oggi, sarebbe necessariamente laprima ipotesi a verificarsi, giacché non esisterebbe nulla dasostituire a quanto ci si vedrebbe costretti a rinunciare egiacché, inoltre, l'assimilazione da parte di altre civiltà siavvererebbe impossibile, la differenza delle mentalitàgiungendo fino all'opposizione.

Tale assimilazione, la quale corrisponde alla nostra secondaipotesi, presupporrebbe quale minima condizione l'esistenza inOccidente di un nucleo intellettuale il quale, anche se formatosoltanto da una élite poco numerosa, dovrebbe essere tuttaviacostituito in modo sufficientemente solido da poter agire comel'indispensabile mediatore per riportare la mentalità generale,coll'imprimerle una direzione che del resto non ci sarebbenessun bisogno fosse cosciente per la massa, verso le fontidella vera intellettualità.

Tenuta per possibile la supposizione di un arresto di civiltà,la costituzione preventiva di tale élite appare dunque come solain grado di salvare l'Occidente, al momento opportuno, dalcaos e dalla dissoluzione; e d'altronde, per interessare idetentori delle tradizioni orientali alla sorte dell'Occidentesarebbe necessario dimostrargli che, pur se i loroapprezzamenti più severi non sono ingiusti nei riguardidell'intellettualità occidentale presa nel suo insieme, possono

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per lo meno esistere onorevoli eccezioni, le quali stanno adindicare come il decadimento di essa non sia assolutamenteirrimediabile. Abbiamo detto che il verificarsi della secondaipotesi non sarebbe privo, almeno transitoriamente, di certiaspetti incresciosi, in quanto la parte dell'élite vi si ridurrebbe aquella di servire come punto d'appoggio d'una azione di cuil'Occidente non avrebbe l'iniziativa; se non che questa funzionesarebbe tutt'altra quando gli avvenimenti le dessero il tempo diesercitare un'azione del genere direttamente e da se stessa, ciòche corrisponderebbe alla possibilità della terza ipotesi. Si puòinfatti pensare a ragione che l'élite intellettuale, una voltacostituita, agirebbe sul mondo occidentale a mo' di “fermento”per preparare quella trasformazione che, quando diventasseeffettiva, le permetterebbe di trattare, se non da pari a pari, perlo meno come potenza autonoma con i rappresentantiautorizzati delle civiltà orientali.

In tal caso la trasformazione avrebbe un'apparenza dispontaneità, e per di più potrebbe avvenire senza urti, per pocoche l'élite abbia acquistato in tempo un'influenza sufficiente dapoter dirigere realmente la mentalità generale; l'appoggio degliOrientali al suo tentativo di raggiungere questa meta non leverrebbe naturalmente a mancare, poi che essi saranno semprefavorevoli, com'è naturale, ad un riavvicinamento che si operisu tali fondamenti, tanto più che esisterebbe a ciò un interesseanche per loro, il quale, se pur d'altra natura, sarebbe lungidall'essere trascurabile, ma che è alquanto difficile e del restoinutile definire in questa sede. Ad ogni modo, ciò su cui ciimporta insistere è che per preparare il mutamento di cuitrattiamo non è assolutamente necessario che la massaoccidentale, anche a contenersi alla massa cosiddettaintellettuale, vi prenda parte agli inizi; anche se ciò non fossedel tutto impossibile, sarebbe sotto certi aspetti piuttosto

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nocivo; per cominciare è dunque sufficiente che alcuniindividui capiscano, di questo mutamento, la necessità, acondizione però che la capiscano realmente e profondamente.

Abbiamo messo in evidenza il carattere essenzialmentetradizionale di tutte le civiltà orientali; la mancanza di uneffettivo collegamento ad una tradizione è, di fatto, l'origine ela causa vera e propria della deviazione occidentale. Il ritornoad una civiltà tradizionale nei suoi principi e in tutto l'insiemedelle sue istituzioni si presenta perciò come la condizionefondamentale della trasformazione di cui abbiamo parlato, opiuttosto come identica a questa trasformazione stessa, che sicompirebbe quando tale ritorno fosse compiutamenteeffettuato, e in condizioni che permetterebbero perfino diconservare quanto la civiltà occidentale può contenere diveramente utile sotto qualche rispetto, pur che le cose nonprecipitino prima fino al punto in cui si imponga una totalerinuncia.

Il ritorno alla tradizione appare dunque come il piùessenziale degli scopi che l'élite intellettuale dovrà fissare allapropria attività; la difficoltà consiste nell'attualizzareintegralmente tutto ciò che esso implica nei campi più diversi,e nel determinare esattamente le modalità di questaattualizzazione. L'unica cosa che diremo è che il medio evooffre l'esempio d'uno sviluppo tradizionale propriamenteoccidentale; si tratterebbe, in conclusione, non di copiare o diricostruire pedissequamente quanto esistette a quell'epoca, madi ispirarsene per l'adattamento reso necessario dallecircostanze. Se una “tradizione occidentale” esiste, è là cheessa si trova, e non nelle fantasie degli occultisti e deglipseudo-esoteristi; questa tradizione era allora concepita inmodo religioso, e noi non vediamo che l'Occidente sia atto aconcepirla in modo diverso, oggi meno che mai; sarebbe

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sufficiente che alcune intelligenze avessero coscienza dell'unitàessenziale di tutte le dottrine tradizionali nel loro principio,come ciò dovette avvenire in quell'epoca, giacché molti sonogli indizi che consentono di affermarlo quand'anche non neesistano prove tangibili e scritte, la cui assenza è affattonaturale ad onta del “metodo storico”, sotto la cui giurisdizionequeste cose non possono assolutamente cadere.

Nel corso del nostro studio abbiamo accennato, quandol'occasione se ne presentava, ai principali caratteri della civiltàdel medio evo e alle sue analogie, reali anche se incomplete,con le civiltà orientali, e non è il caso di ritornare su questoargomento; ora vogliamo soltanto far rilevare che l'Occidente,trovandosi in possesso della tradizione più appropriata alle sueparticolari condizioni, e sufficiente inoltre alla maggioranzadegli individui, sarebbe con ciò dispensato dall'adattarsi più omeno faticosamente ad altre forme tradizionali non fatte perquesta parte dell'umanità; non è difficile rendersi conto diquanto questo vantaggio sarebbe apprezzabile.

Il lavoro da compiere dovrebbe mantenersi, agli inizi, sulpiano puramente intellettuale, il più essenziale di tutti, peressere quello dei principi da cui tutto il resto dipende; è chiaroche le conseguenze di questo lavoro si estenderebbero inseguito, più o meno rapidamente, a tutti gli altri campi, e ciòper una ripercussione affatto naturale; la modificazione dellamentalità di un ambiente è l'unico mezzo per produrvi, nelcampo sociale come in tutti gli altri, un cambiamento profondoe duraturo, e voler cominciare dalle conseguenze è un metodoeminentemente illogico, degno soltanto dell'agitazioneimpaziente e sterile degli Occidentali attuali. E inoltre il puntodi vista intellettuale è il solo ad essere immediatamenteaccostabile, l'universalità dei principi essendo quella che lirende assimilabili a tutti gli uomini, a qualunque razza

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appartengano, alla sola condizione di una capacità dicomprensione sufficiente; può apparir strano che ciò che in unatradizione v'è di più facilmente accessibile sia precisamentequel che di essa è più elevato, e tuttavia si tratta di unastranezza solo apparente, essendo di fatto ciò che è svincolatoda ogni contingenza. Così si spiega anche come le scienzetradizionali secondarie, le quali sono soltanto delle applicazionicontingenti, non siano completamente assimilabili dagliOccidentali sotto la loro forma orientale; quanto a fondare o aricostituire qualcosa di equivalente, in una forma che convengaalla mentalità occidentale, è questa una impresa la cuirealizzazione può apparire solo come una possibilitàestremamente lontana, e la cui importanza del resto, pur'ancoragrandissima, non è tutto sommato che accessoria.

Se ci conteniamo alla considerazione del punto di vistaintellettuale gli è che si tratta di fatto, sotto ogni aspetto, delprimo che occorra considerare; ma è necessario ricordare chebisogna intenderlo in tal guisa che le possibilità in essocontenute siano veramente illimitate, come già ci accadde dispiegare quando caratterizzammo il pensiero metafisico.

È di metafisica che essenzialmente si tratta, giacchénull'altro che la metafisica può esser detto propriamenteintellettuale; e questo ci porta a precisare che per l'élite di cuiabbiamo parlato, la tradizione, nella sua essenza profonda, nondev'esser concepita sotto la forma specificamente religiosa, laquale dopo tutto è soltanto il prodotto di un adattamento allecondizioni della mentalità generale e media. D'altra partel'élite, ancor prima di aver ottenuto una modificazione sensibilenell'orientamento della mentalità comune, potrebbe già, con lasua influenza, ottenere alcuni risultati di notevole importanzanel campo delle contingenze, quali il far scomparire ledifficoltà e i malintesi altrimenti inevitabili nelle relazioni con i

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popoli orientali; ma, ripetiamo, si tratta semplicemente diconseguenze secondarie dell'unica intrapresa primordialmenteindispensabile, e codesta, la quale condiziona tutto il resto enon è condizionata da null'altro, è di natura totalmenteinteriore.

Ciò che dunque deve rappresentare la parte più importante èla comprensione dei principi, di cui abbiamo in quest'operacercato di mettere in rilievo la vera natura, e questacomprensione comporta in definitiva l'assimilazione dei modiessenziali del pensiero orientale; del resto, fintantoché sipenserà in modi differenti, e soprattutto senza che da una delledue parti s'abbia coscienza della diversità, nessuna intesa èevidentemente possibile, come se si parlassero due linguediverse e uno degli interlocutori ignorasse la lingua dell'altro.Tale è la ragione per cui i lavori degli orientalisti non possonoessere di alcun aiuto per l'intesa in questione, quando non sianoinvece, per le ragioni già da noi portate, addirittura un ostacolo;tale è la ragione per cui, avendo ritenuto utile scrivere questecose, ci proponiamo di precisare e di sviluppare inoltre altripunti particolari in una serie di studi metafisici nei qualiesporremo direttamente taluni aspetti delle dottrine orientali, inparticolare quelle dell'India, o adatteremo queste dottrine nelmodo che più ci parrà intelligibile, giudicato che abbiamo unsimile adattamento preferibile alla pura e semplice esposizione;in ogni caso, quanto presenteremo sarà sempre, nello spirito senon nella lettera, l'interpretazione la più scrupolosamente esattae fedele delle dottrine tradizionali, di nostro non potendoviaggiungere che le imperfezioni fatali dell'esposizione.

Nel tentativo di far capire la necessità d'un riaccostamentoall'Oriente ci siamo mantenuti, fatta eccezione per laconsiderazione del beneficio intellettuale che ne sortirebbecome risultato immediato, ad un punto di vista ancora affatto

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contingente, o che tale può apparire qualora non vengacollegato ad altre considerazioni che ci è impossibile prenderein esame ed hanno soprattutto relazione con il senso profondodi quelle leggi cicliche delle quali ci siamo contenuti asegnalare l'esistenza; ciò non toglie che, così come l'abbiamoesposto, anche questo punto di vista ci paia eminentemente attoad attirare l'attenzione delle intelligenze serie e a farle riflettere,sotto l'unica condizione che non siano irreparabilmenteaccecate dai pregiudizi comuni all'Occidente moderato.

Questi pregiudizi sono stati esasperati ed hanno acquistato laloro massima consistenza presso i popoli germanici e anglo-sassoni, i quali sono perciò, ancor più mentalmente chefisicamente, quelli che maggiormente s'allontanano dagliOrientali; considerato che l'intellettualità è negli Slavi inqualche modo ridotta a un minimo e che il Celtismo esistesoltanto più allo stato di ricordo storico, rimangono, in tutto eper tutto, i popoli denominati latini, e che di fatto lo sono invirtù delle lingue che parlano e delle modalità rivestite dallaloro civiltà, ad esser quelli presso cui l'attuazione d'un disegnocome quello di cui veniamo dal tracciare le linee fondamentalipotrebbe prendere origine con qualche speranza di successo.

Tale piano comporta, in breve, due fasi principali: lacostituzione dell'élite intellettuale e la sua azione sull'ambienteoccidentale; sennonché sui mezzi e sui modi sia dell'una chedell'altra, attualmente nulla si può dire, ché sarebbe, sotto ognirispetto, prematuro. Tutto ciò che abbiamo voluto fare,ripetiamo, è stato di indicare delle possibilità, lontane senzadubbio ma possibilità non di meno; e questo è sufficiente arenderle degne di considerazione. Fra le cose che precedono vene sono alcune che forse avremmo esitato a scrivere primadegli ultimi avvenimenti [Si tratta sempre della “prima guerramondiale”. (NdT)], dai quali tali possibilità paiono esser state

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alquanto avvicinate o almeno aver ricevuto discretaillustrazione; senza annettere importanza eccessiva allecontingenze storiche, dalle quali la verità rimane al tuttointangibile, occorre non dimenticare l'esistenza di unaquestione di opportunità che, nella formulazione esteriore dellaverità, sovente interviene.

Molte cose mancano a che questa conclusione sia completa,e cose tali che si può ben dire siano quelle che riguardano gliaspetti più profondi, e per tal ragione più veramente essenziali,delle dottrine orientali e dei risultati che dal loro studio sipossono attendere coloro che siano in grado di condurlosufficientemente innanzi; è quanto può essere intuito epresentito in certa misura dopo quel poco da noi detto aproposito della realizzazione metafisica (e già costì abbiamoindicato le ragioni per cui non ci era possibile insisterviulteriormente, specie in un'esposizione preliminare comequesta); forse su ciò ritorneremo in altra sede, ma già ora èopportuno tener presente la formula estremo-orientale secondocui “chi sa dieci insegni nove soltanto”. Checché ne sia, ciò chepuò ricevere sviluppo senza riserve, vale a dire tutto quel ched'esprimibile c'è nell'aspetto puramente teorico dellametafisica, è di gran lunga più che sufficiente perché, a coloroche possono capirlo, quand'anche non procedano oltre, lespeculazioni analitiche e frammentarie dell'Occidente modernoappaiano quali in realtà esse sono: una ricerca vana e illusoria,senza principio e senza termine finale, i cui mediocri risultatinon valgono né il tempo né gli sforzi di chiunque abbia unorizzonte intellettuale sufficientemente esteso per noncircoscrivervi la propria attività.

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