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Invisibile

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"Invisibile" è la storia di Beatrice e di tutti quelli che hanno da sempre rincorso il "sogno americano" in una città come New York. "Invisibile" è quella faccia di New York nascosta ai turisti, dissimulata nel caos della città che sembra non dormire mai. "Invisibile" è la pancia - piena e vuota allo stesso tempo - di Sonia, il sorriso innocente di Jay e l'umanità di Michael. "Invisibile" è tutto quello che fingiamo di non vedere o che forse non vediamo proprio.

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DESCRIZIONE:

"Invisibile" è la storia di Beatrice e di tutti quelli che hanno da sempre rincorso il "sogno americano" in una città come New York. "Invisibile" è quella faccia di New York nascosta ai turisti, dissimulata nel caos della città che sembra non dormire mai. "Invisibile" è la pancia - piena e vuota allo stesso tempo - di Sonia, il sorriso innocente di Jay e l'umanità di Michael. "Invisibile" è tutto quello che fingiamo di non vedere o che forse non vediamo proprio.

L'AUTORE:

Valeria Iannozzi è nata a Roma nel 1982. Ha conseguito la Laurea in Scienze Umanistiche con tesi in Filmologia sul cinema di Fritz Lang e la Laurea Magistrale con tesi in Regia Digitale sul cinema di Wim Wenders. Ha frequentato a NYC un corso in videogiornalismo presso la New York Film Academy. Lavora come producer.

"Invisibile" è il suo primo romanzo.

Titolo: Invisibile Autore: Valeria Iannozzi Editore: 0111edizioni Collana: I PiccoLibri Pagine: 68 Prezzo: 9,90 euro 8,41 euro su www.ilclubdeilettori.com

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LA BANDA DEL BOOKO (CHE SI LEGGE BUCO)

ANONIMA SEQUESTRI ovvero PERSONAGGI RAPITI

Hai un amico scrittore e vuoi fargli uno scherzo o un dispetto, oppure vuoi "vendicarti" per qualcosa ma non hai ancora trovato il sistema per "fargliela pagare"? RAPISCIGLI un personaggio e fallo rivivere in un tuo racconto, poi chiedi il riscatto all'autore: se paga, il suo personaggio ne uscirà indenne, altrimenti MORIRA'!

Se fra i libri che hai letto c'è un personaggio che ti ha particolarmente colpito e che ti è rimasto impresso per qualche motivo, puoi unirti alla Banda del BookO ( che si legge Buco) per un'IMPRESA A DELINQUERE assolutamente fuori dal comune: RAPISCI IL PERSONAGGIO, TIENILO IN OSTAGGIO E CHIEDI UN RISCATTO. Per rapire un personaggio è necessario renderlo protagonista di un racconto con DUE FINALI, uno a lieto fine e uno tragico (il personaggio MUORE!). Verrà reso pubblico un solo racconto, in base all'esito della richiesta di riscatto: se l'autore paga, il finale sarà "lieto", altrimenti il personaggio farà una tragica fine. Non ti senti abbastanza "scrittore" per buttare giù un racconto? Non fa niente! Rapisci ugualmente un personaggio: se l'autore del libro da cui lo hai rapito non pagherà il riscatto, daremo la notizia dell'uccisione della vittima. Se invece pagherà... bé, a morire sarai tu (ossia il bandito), durante il bliz di liberazione.

TUTTI I RACCONTI VERRANNO PUBBLICATI IN ANTOLOGIA

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Decine di libri in versione integrale da leggere online, liberamente.

EasyReader è una vastissima raccolta di libri da leggere online, in versione integrale oppure in versione "trailer", comunque sempre molto "corposa" (da un minimo di 30 pagine a un massimo di 50). Tutti i libri proposti in versione e-book su questo sito sono coperti da copyright e sono disponibili anche in formato libro, regolarmente pubblicati (e quindi muniti di codice ISBN) e disponibili anche in libreria. Il catalogo viene aggiornato MENSILMENTE.

Novità AvventuraBambini/Ragazzi

Fantasy/Fantascienza

Giallo/Thriller

Horror Narrativa Poesia Sentimentale Altri generi

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Valeria Iannozzi

INVISIBILE

www.0111edizioni.com

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www.0111edizioni.com www.ilclubdeilettori.com

INVISIBILE 2009 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2009 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2009 Valeria Iannozzi

ISBN 978-88-6307-237-2 In copertina: Foto di Paolo Belletti

Finito di stampare nel mese di

Dicembre 2009 da Digital Print

Segrate - Milano

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A mio padre.

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“New York era la sua città e lo sarebbe sempre stata”

(Manhattan)

“Sai cosa mi piace di questa città? Che ci si può perdere tranquillamente in un bicchiere d’acqua

credendo di nuotare nell’oceano” (Blue steel)

“Ma allora cosa posso fare?” “Il curioso”

“Non è un mestiere” “Non è ancora un mestiere. Viaggi, scriva, tra-

duca, impari a vivere ovunque, e cominci subito. L’avvenire è dei curiosi di professione”

(Jules e Jim)

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La prima cosa che feci quando misi piede a New York fu di tornare in quel sushi bar dove ero stata anni prima. Lo trovai lì, all’angolo della strada, splendente e affollatissimo in un martedì di luglio. Ricordo che da qualche parte, fra i qua-derni saturi dei miei pensieri, avevo annotato l’indirizzo esatto, per cui non fu poi così difficile ritrovarlo. Mangiai di gusto, come non facevo da tempo. Affacciata alla vetrina del sushi bar vicino al centro affaristico della città, intingevo nella salsa di soia i miei pensieri e mi apprestavo a ini-ziare la mia nuova vita nella scintillante metropo-li. Perché succede anche che ti guardi allo spec-chio e non sai più chi sei, o meglio lo sai talmente tanto che quello che vedi riflesso non ti rassomi-glia più e la tua immagine è troppo lontana dai tuoi sogni, che così non va bene. E allora decidi di rincorrere in curva quel destino di sogni che sembrava esserti sfuggito per un po’. Sono venuta a New York per riprendere in mano la mia vita; sono venuta qui per riprendere me stessa. Uno stipendio da mille euro e tu non ti ac-contenti. Non ci stai al destino del laureato che ha il posto fisso a mille euro al mese e per averlo manda giù anche bocconi amari, no, cazzo, tu non ci stai. Non ci stai neanche con un uomo che non ti ama più o che forse, anzi sicuramente, non ti ha

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mai amato ma tu eri troppo sorda barra cieca bar-ra innamorata per pensare potesse essere così. E allora ti si chiude il cuore, un’altra volta. Ti si chiude a doppia mandata dall’interno. E allora di-ci a te stessa che basta, stop, io così non vado a-vanti. E quindi parto. E quindi eccomi qua. “Si può scappare ovunque, ma non si può scappa-re da se stessi”. E’ una frase che mi ripeto ogni volta che voglio fuggire lontano, fuggire da tutto e tutti e non tornare per un po’. Lo faccio spesso, ogni volta che ho bisogno di stare solo con me. Prendo i miei pensieri, la mia musica, un buon libro e parto. Londra, Barcellona, Parigi, Berlino. Qualunque posto abbastanza interessante da farmi scordare il resto. Va bene tutto. Ma stavolta è di-verso, stavolta ho attraversato l’oceano. E mai viaggio fu più adatto a me. Ora. La mattina che partii, il mio orologio andava un quarto d’ora avanti. Non sapevo perché né quan-do decise di lasciarmi indietro. So solo che consi-derai quel quarto d’ora accademico come un se-gno, quello scorcio d’orologio che intercorre fra due lezioni all’università, minuscolo frammento che sa di caffè alla macchinetta e di chiacchiere assonnate. Lo considerai un regalo, senza mittente né tramite, ma con solo me come destinatario. Il tempo mi aveva regalato un po’ del suo sapore. Era in ritardo con me e io l’avrei atteso come si attende un figlio all’uscita di scuola. Ancora oggi, ripensandoci, mi viene da dire che fu un segno tangibile di come anche il tempo, giudice infles-sibile delle nostre azioni umane, mi disse qualco-sa, proprio a me e proprio allora. Misi indietro le lancette. Ancora ora ricordo lo stupore di quell’avvenimento. E sorrido.

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Ogni volta che accendo il mio lettore mp3 mi pia-ce lasciarlo andare random. Mi piace lasciare spa-zio alla casualità e al caso, al fatto che a scegliere sia io solo in parte. E succede che la maggior par-te delle volte mi stupisca di come quel piccolo e insignificante oggetto che per gli altri è solo un regalo della tecnologia, sia invece per me un esse-re nero dotato di anima. Mi legge dentro, scruta la mia, di anima, scegliendo con cura la dose giorna-liera di musica da somministrarmi. Lo fa con una precisione assoluta. Come un amico che ti legge il cuore quando non hai voglia di parlare, come una madre che ti culla quando hai voglia di dormire. Ricordo un giorno in particolare. Era passato un bel po’ di tempo e dovevo fare i conti con i miei sentimenti. Mi ritrovai a passare davanti casa sua, che poi in fondo era anche un po’ casa mia. Mi prese un nodo in gola che anco-ra mi sento addosso, ripensando a quel giorno. E lui, piccolo gioiello di tecnologia racchiuso in una custodia di plastica rosa, diventò per tutto il viag-gio di ritorno in scooter giudice dei miei pensieri e dei miei sentimenti. Mi riportò indietro all’anno precedente senza fermate intermedie, mi riportò nel cuore della mia storia, fra le pieghe del tempo e le piaghe che lui aveva lasciato sul mio cuore. Mi riportò ai caffè caldi la mattina, alle colazioni a letto, ai risvegli assonnati e pieni d’amore, ai giorni fatti di film libri pizza e coccole. Mi fece rivivere d’un tratto i suoi capelli, le sue mani su di me, il suo pianto, le mie urla. Ci sono delle strade che ti rimangono dentro e ogni volta che ci passi senti quella morsa allo sto-maco e portano la tua mente irrevocabilmente a ricordare un attimo, quell'attimo preciso, quell'i-stante che ha cambiato la tua vita e che rivivi niti-do come fosse successo ora.

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Flashback Così mi ritrovo a fare quel pezzo di strada dove tu mi hai spezzato il cuore, mi rintrona nella testa la mia voce che continua a ripetere al vento che "non si fida di te" e tu che non dici niente, che guidi in silenzio e basta e io che vorrei urlare, che vorrei fermare il mondo e la strada, guardarti ne-gli occhi e capire cosa si è rotto tra di noi. Con una dolcezza impensabile, ripenso a un anno in quella casa, ai momenti belli e pieni; fotografo mentalmente i sorrisi più belli e i gesti più veri, analizzo ciò che ho dato e quel poco che ho rice-vuto in cambio. Eppure mi sembrava l’immenso racchiuso in quattro mura. Mi sembrava l’infinito da racchiudere in noi due. E ti infili nelle pieghe dei miei sogni stropicciati e opachi. Rimani così. Ancora un po’, ancora un po’ con me. E' un ricordo che mi paralizza per un istante, un ricordo vivo come non mai, il ricordo della fine di un anno di finzioni e di non amore, vivo negli oc-chi di chi amavo, di chi forse amo ancora, di chi di certo non mi ha mai amato. E intanto il groppo in gola si è già trasformato in una dolce malinco-nia, mentre mi accompagnano le note di una can-zone, in quel tratto di strada che separa la mia ca-sa dalla tua vecchia casa. Queste parole mi strap-parono a quei ricordi, martellandomi nella testa incessantemente: “Tutto ciò da cui stavi fuggendo/torna come va-langa più grande/che ti trascina al punto di par-tenza/ se vestirai vecchi difetti” (“Vecchi difetti”, Marta Sui Tubi) Mi chiedo se il mio iPod nano abbia un’anima. Se ne ha una, di sicuro è rock. E’ sicuramente e fot-tutamente rock.

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E' come uscire da casa di Giulio con una strana sensazione, come di già fatto e già visto, con il presentimento che prima o poi anche questa storia finirà in cenere, seppellita in una serie di richieste e di attese disattese, di bisogno di attenzione e bi-sogno di stabilità, di gioie fugaci e di dolori per-manenti. E' come fare sesso e pensare che io non ho mai fatto l'amore così in tutta la mia vita, e come mi possiede lui non c'è mai riuscito nessu-no: ha un modo tutto suo di avermi e io impazzi-sco se solo ci penso e vorrei tenerlo con me per sempre e sempre così, ma subito dopo mi chiedo quanto e se durerà tutto questo. Se davvero sarà una storia a termine, con una data già scritta, pronta sul calendario e sul biglietto di andata per l'America, che arriverà, implacabile, a dividerci. O se invece stavolta sarà diverso. E' come sapere di avere tra le mani qualcosa di prezioso e non volerselo lasciar scappare per niente al mondo. E' come ringraziarti di avermi aperto gli occhi e il cuore. E' come dirti che non lo dimenticherò mai. E' come partire con la gioia nel cuore e sperare che al mio ritorno ti ritroverò lì dove ti ho lascia-to. Forse a un indirizzo diverso ma sempre allo stesso civico del cuore, allo stesso c.a.p. della mente.

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Flashback - lunedì, 12 maggio 2008 E' come ritrovarsi a due metri da te e saperlo. E' come sentire il tuo sguardo che mi osserva, men-tre io guardo altrove, un po' di lato per offrirti il mio profilo più bello. Guardo di lato e ti osservo con la coda dell'occhio, sento i tuoi occhi puntati sulla mia schiena, su quella schiena che conosci bene, su quella schiena che tante volte hai acca-rezzato per poi abbandonarla piegata da un dolore che non si aspettava di portare. Sento i tuoi occhi di ghiaccio, mentre mi guardi andare via di spalle dalla nostra vecchia storia, andare via di spalle incontro a un nuovo amore in una giornata di sole che di nuovo e ritrovato amore mi ha riempito. Mi sento morire, ferma al semaforo; quasi una metafora di noi. Di spalle a te, al semaforo rosso, io attendo il passaggio, con indosso una gonna bianca che lascia nude le mie gambe e le conduce a passi spediti verso un sentimento più puro e sin-cero. Mi senti ridere al telefono, quella risata che conosci bene, quella risata in cui trovavi consola-zione e senza la quale pensavi di non poter più stare. E invece eccoci qui, amanti distanti di un amore distante, giochi di luce e ombre, di sguardi che ti ho dimenticato addosso e che rivorrei indie-tro, uno per uno, con quegli occhi lì. Distanti co-me non lo siamo mai stati, persi per sempre nelle nostre vite che non ci appartengono più, in una vita in cui non ci apparteniamo più. Il semaforo rosso mi rende impaziente. Corro, at-traverso la strada, quasi per sfuggire ai tuoi occhi che mi hanno penetrato il cuore un'altra volta, an-che se non li ho incrociati. Attraverso la strada che mi distanzia da te, da noi. Corro incontro a un amore che mi si offre così, senza che io lo abbia inseguito e cercato, come se mi avesse trovato lui e salvato il cuore, che mi porta al mare e mi riem-

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pie gli occhi e il cuore. E chissà che non prenda il posto che fu tuo. Sorrido al destino beffardo che in un sabato asso-lato, in una piazza che ha visto nascere tante mie storie di vita e incontri di non amore, mi porta lontano da te. Via di spalle, via da un amore che non mi amò e che io amai più di me stessa. Via di corsa, verso un futuro che mi sorride. Che mi al-larga gli orizzonti e che mi porta lontano. Più lon-tano di quanto tu possa mai arrivare. Non so se partirò o no per l'America, sono in bal-lo molte cose della mia vita in questo periodo che non so che pensare, so solo che qualunque cosa succeda anche questa volta sono stata più forte del resto, più forte di te. Ed è solo merito mio.

Ripenso ai mesi appena trascorsi e a quanto la malattia mi abbia cambiato le prospettive del cuo-re e della mente. Ho passato un mese in ospedale per delle complicanze post-operatorie assurde e inaspettate ed ho deciso di partire. Ho lasciato un lavoro fisso e stabile, ho lasciato un nuovo amore ad attendermi e sono partita. La destinazione non era importante. “L’importante è il viaggio, non la destinazione”, ricordo lessi una volta da qualche parte. L’aereo stava decollando, lasciando alle spalle un cammino di sofferenza e d’amore inimmaginabile agli occhi degli altri. Altri visi, altri passeggeri, altre vite mi guardavano senza vedermi davvero. Sembravo una bambina in gita scolastica: portavo negli occhi un misto di paura ed eccitazione simi-le a quando si va in gita per qualche giorno. Vi-vevo tutto nello stesso modo: paura e felicità era-no la stessa cosa, un mix potente ed efficace che mi illuminava gli occhi e il volto.

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Ho detto quasi tutto di me. Dalle mie parole avre-te capito che sono una ragazza presumibilmente giovane, probabilmente innamorata, sicuramente messa a dura prova dalla vita, forse scontenta, di certo intraprendente. Vi ho parlato della malattia, del lavoro, di un amore in cui credevo ma che non era per me, di un amore che forse mi sta riapren-do il cuore. Non vi ho detto che sono un tipo inaf-fidabile, totalmente imprevedibile, un pozzo di idee e di voglia di fare. Non vi ho detto neanche che sto partendo per l’America non per una va-canza ma per un’esperienza professionale. Ho de-ciso di fare un workshop in giornalismo. Ho deci-so cosa voglio fare “da grande”. L’aereo sorvola Roma. Vedo i tetti della città che mi ha cresciuto e accudito come solo una madre premurosa sa fare. Ripenso all’ultima volta che ho volato, un’estate fa. Roma-Bangkok. Lo ricor-do e ricordandolo mi sembra un periodo così lon-tano. L’ultimo viaggio della mia vita precedente. Un viaggio splendido in una terra di cui mi sono innamorata quasi subito. Un amore che a breve mi avrebbe calpestato il cuore, strappandomelo dal petto a grandi manciate, sedeva accanto a me. Era bello, forse più fuori che dentro e io ero pazza di lui. Ma questa è una storia di cui non voglio più par-lare perché ogni volta che lo faccio, è come se riaprissi vecchie ferite. “Non è salutare chiudere le ferite con i cerotti”, mi scrisse una volta mia madre. Ripenso all’ultimo volo e a quanto il tra-gitto tra quello e questo sia stato lungo e pieno. Di vita, di morte, di persone, di pensieri. Scrivo per fissare tutto questo, per non dimenticarmi. Ci-catrici indelebili come i miei tatuaggi. Le porto addosso, le tocco. Per non scordarmi mai chi sono e da dove vengo. E toccandole, mi rendo conto che, come i miei tatuaggi, hanno una storia tutta loro, fatta di vita e di persone che i più non sanno.

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“Il tempo è galantuomo”, mi scrisse un giorno una cara amica in una mail. Ancora oggi, a di-stanza di anni, la ringrazio. E’ una frase bellissi-ma che le ripeteva spesso suo nonno. Me la ripeto spesso anch’io, quando mi sento in perenne ritar-do sul tempo Assoluto e su quello Relativo, sul Mio e su quello del Mondo. La racchiudo negli attimi senza memoria, persa in mezzo ai dolori più forti e alle gioie più pure. Me la ritrovo nelle frasi di incoraggiamento e nei consigli che di-spenso alle persone che ne hanno bisogno. La ri-pesco ogniqualvolta il mio cuore ne ha bisogno. Non potrò mai ringraziare abbastanza il nonno di Cristina per averla, in un modo o nell’altro, fatta arrivare fino a me. La seconda cosa che feci arrivata a New York fu attraversare a piedi il ponte di Brooklyn al tra-monto. Credo sia una cosa che almeno una volta nella vita debba essere fatta. Se fatta in compa-gnia di qualcuno che ami, ancora meglio. Io, in quel giorno assolato e caldo, mi amavo abbastan-za da bastarmi come romantica compagna di viaggio. E chi avrei voluto con me lo portavo nel cuore. Ero sicura che anche lui avrebbe apprezza-to quel tramonto, quella luce calda che si riversa-va sui grattacieli e che rendeva il fiume uno spec-chio d’acqua scintillante e dorato. Che illuminava le persone che si ritrovavano a camminare lungo il ponte, dirette verso casa o quelle che sempli-cemente camminavano, come me, per assaporare un sole di una giornata che sembrava non avere fine. Mangiare e camminare su quel ponte furono le prime cose che feci nel breve tratto di un po’ di quella Nuova Vita che mi stavo costruendo. Più tardi, mentre sistemavo le mie cose con cura, in una casa troppo grande per contenere me e quello che portavo dentro, ripensai a quello che mi disse Stefano una volta. Non so se l’avesse letto in

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qualche libro o fosse un pensiero elaborato da quella mente così simile alla mia, e che amavo immensamente. Ricordo che mi disse: “Le perso-ne sono ponti. A volte vanno attraversati e pur at-traversandoli magari sono solo un tramite che ti porta fino a qualcos’altro. Una strada, un burrone o il mare, chissà. Ma finché non le attraversi, non lo saprai mai dove vogliono condurti”. “E tu dove mi porti, se ti attraverso?”, chiesi un giorno al mio nuovo fidanzato. “Ti porto al ma-re”, mi rispose lui di getto. Già. Al mare. Ho sempre amato gli aeroporti. Amo l’aria d’indefinito e di senza confini che re-gna al loro interno, piccole isole che ci traghetta-no silenziose verso posti rumorosi. Amo l’affollarsi ai bar alle cinque di mattina, amo il buio fuori e le luci quando si viaggia di notte, i fusi orari e la sonnolenza che puntualmente mi prende in viaggio. Amo i duty free e i loro mille profumi, quelli che ci entri solo per provarli tutti, toccare tutti i peluches, assaporare con gli occhi ogni cioccolata, fumare con la bocca ogni stecca di sigarette anche se non fumi. Perché sono così belle, lì esposte e tutte colorate, che ti verrebbe voglia di iniziare a fumare solo per il gusto che si prova a comprarne una stecca e vederla uscire dalla borsa con cui viaggi. Amo il profumo di caffè che aleggia nei bar e le toilettes piene di specchi in cui sembri sempre troppo stanco e pie-no di occhiaie. Amo le mille facce che popolano questi luoghi, il loro correre e scontrarsi. Amo gli arrivederci che sono già un addio e gli addii che sembrano sempre degli arrivederci. Amo i saluti e gli abbracci. Quelli interminabili di chi non vor-rebbe mai ripartire e quelli entusiasti di chi arriva ed è accolto da qualcuno che ama. Mi piace da sempre osservare la gente. E anche stavolta mi piaceva guardare dentro quelle vite

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silenziose che non mi appartenevano; amavo im-maginare i perché dei loro viaggi. Chissà che loro non facessero lo stesso con me. Sull’aereo si siede accanto a me un ragazzo, avrà avuto 20 anni al massimo. Americano, iPod nero alle orecchie e mille giornali che sfogliava e leg-geva a tratti attentamente, a tratti distrattamente. Non mi dice niente durante tutto il volo e io fac-cio lo stesso. Ma al momento di scendere, mi sor-ride e mi dice “Good luck”. Chissà che non aves-se capito il motivo del mio, di viaggio. Non sono mai stata una tipa ordinata. Lascio ve-stiti sparsi per la stanza dopo una serata: le ore piccole e l’alcool mi impediscono di sistemarli al loro posto. Ma devo dire che nel mio nuovo loft a Brooklyn, ogni cosa, ogni oggetto, sembrava ave-re il suo giusto posto. O forse ero io a essere cambiata? Il frigo era semi-vuoto, ovviamente, ma anche gli alimenti avevano una loro precisa disposizione. Avevo sistemato persino i miei libri e i miei cd, che in quella casa nuova e luminosa sembravano aver acquistato un nuovo sapore. Il salone aveva vetrate immense che affacciavano su un piccolo terrazzino. Ricordo ancora oggi, a di-stanza di tempo, l’odore che veniva dalla strada nelle mattine assolate in cui amavo ritagliarmi uno spazio per la colazione su quel terrazzo quasi fosse un rito sacro e obbligato: latte freddo, cor-nflakes, caffè che ormai avevo imparato a bere americano, succo d’arancia e un buon libro ac-compagnavano il risveglio dei miei occhi stanchi che non avrei mai smesso di stropicciare. Nelle mattine in cui mi sentivo più in forma, mi recavo in palestra o a fare la mia lezione di spinning giornaliera; poi alle nove, puntuale, ero in acca-demia a imparare il mio futuro mestiere. L’accademia era un edificio bianco e scintillante nel cuore di Soho. Era bella e luminosa, faceva

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venir voglia di studiare e studiare ancora, anche se era luglio e fuori il caldo si faceva sentire ec-come, e sarebbe stato bello starsene in mutande a leggere e a guardare dvd per tutto il giorno e usci-re solo la sera ad assaporare le fresche brezze e i mille umori e le facce e i colori della città che non dorme mai. I primi giorni furono di puro adattamento all’ambiente. Dovevo spogliarmi delle mie abitu-dini che fino ad allora avevo creduto le uniche possibili al mondo, spogliarmi di quello che ero e lasciarmi alle spalle le cose negative che avevano segnato l’ultimo periodo. “Ricordati la strada che hai fatto”, mi ripetevo. Ci sono cose che non si dimenticano. Posti e persone con cui ti sei riempita il cuore negli ultimi anni e che difficilmente lascerai alle spalle. Le cose vere rimangono, il più delle volte. E sarebbero state lì anche al tuo ritorno, di questo ne potevi stare cer-ta. Allora perché quella malinconia nel cuore? Perché hai gli occhi lucidi, ora che ti guardi nello specchio del bagno, la Jacuzzi che ti aspetta per farti riposare ti sembra troppo vuota, solo per te. Il cinese a portar via è solo un ammasso di scato-le; ma sono poche, quando sei da sola. Non hanno niente delle cene improvvisate in cui nessuno ha voglia di cucinare, nulla della tavola che si riem-pie di udon, riso e pollo in ogni salsa. E’ questa, la solitudine? Quando non c’è condivi-sione? Poter sentire la mancanza, quasi toccarla come fosse una presenza tangibile e umana.

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Ieri sera ho cenato con Simone in un ristorante giapponese. Simone è stato il mio compagno di banco per tutti e cinque gli anni di liceo: ogni giorno insieme, compiti insieme, complicità e un’amicizia bellissima. Poi, si sa com’è, come tutte le cose belle e quotidiane, col tempo ci sia-mo persi un po’: vuoi per strade diverse, vuoi per i suoi trasferimenti. Prima Parigi, ora New York. Ci siamo incontrati sotto il cubo nero di Astor Place. “Ma dimmi tu se devo venire a New York per vederti” è stata la prima cosa che gli ho detto. E ci siamo abbracciati fortissimo. Abbiamo parla-to così tanto che quando è arrivato il menu e poco dopo il cameriere per prendere le ordinazioni, il menu non l’avevamo neanche guardato. Ci siamo raccontati gli ultimi anni di vita, da Parigi a New York e il suo lavoro in questa galleria d’arte da due anni a questa parte. Il mio amico era uno che aveva fatto della sua passione il suo lavoro e si scorgeva nei suoi occhi una luce potente di chi ama quello che sta facendo. Sono contenta per te, gli dicevo sorridendo e mi brillavano gli occhi a vederlo così: sempre bello, allegro, luminoso. E giù a ridere e a parlare ancora, come se il tempo non fosse passato e allo stesso tempo fosse passa-to così in fretta da farci ritrovare, a dodici anni dal nostro primo incontro sui banchi di scuola, ancora a parlare senza riserve con quella compli-cità che ci aveva legato dal primo sguardo; da quando, ancora adolescenti, avevamo capito i no-stri sogni e ci eravamo chiesti come rincorrerli. Tu li hai rincorsi ed eccoti qui. Io ci sto provando, Simo, ma chissà dove tutto questo mi porterà e quale sarà il prezzo da pagare. Ho attraversato l’oceano per ritrovare, tra le mille cose che vole-vo ritrovare, un’amicizia che avevo perso per strada, abbandonata lungo la via dell’università, dove ci aveva ancora legato qualche esame di sto-ria dell’arte e di cinema. Un amico ritrovato, bello e ironico e intelligente come avevo dimenticato

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potesse essere, così tenero mentre aspira le sue Marlboro light (“Simo, ma che hai cominciato a fumare??!” “Oh, Bea, non c’ho nessun vizio: non bevo, non mi drogo, lavoro come un negro, alme-no questo concedimelo!”). E fa fresco ma è un fresco piacevole mentre pas-seggi verso casa, esci dalla subway e incontri sempre il poliziotto alla fermata; dicono che sia perché Bushwick era fino a poco fa un quartiere poco sicuro. Ma mentre cammini verso il tuo loft niente ti sembra così sicuro come in questo mo-mento. E sorridi pensando alla serata appena tra-scorsa, perdi tempo cercando le chiavi nella borsa ma poi incontri il vicino che ti apre il portone, scambi due battute e richiudi la porta alle tue spalle. Sei di nuovo sola. Di nuovo ti scavi dentro. Fino a domattina. Ti aspetta un’altra lezione. Ti aspet-tano nuovi orizzonti. Forse è colpa del fuso orario o forse è semplice-mente che sei ancora troppo emozionata dell’avventura che stai facendo. Forse è solo che questa città l’hai sempre amata e sentirsi sua cit-tadina a tutti gli effetti, ora, è un’altra cosa. Forse è il profumo degli hot dogs e dei gyros dei vendi-tori ambulanti, le bancarelle la domenica a Soho, le passeggiate per Central Park e il tragitto Soho - Union Square - Brooklyn che fai ogni giorno in metropolitana. Forse sono i bar affollati alle sei di pomeriggio, il sushi a portar via a pranzo, le cola-zioni a base di caffè scuro e bagel consumate mentre vai all’accademia quando vai di fretta. Qui sembra che vadano sempre tutti di fretta. E tu ti sei semplicemente adattata al loro vivere. Forse sono tutte queste cose insieme ma questa ti sem-bra un’altra vita. E assomiglia molto di più alla vita che vorresti.

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Email indirizzata a Giulio, 19.07.2008

ore 11.10 pm Stasera sarei dovuta uscire per godermi il secon-do sabato sera di libertà ma mi sono addormen-tata alle otto, tanto ero stanca, e mi sono sveglia-ta mezz'ora fa, verso le dieci e mezza. Ho avvisa-to la mia amica con cui dovevo uscire che sareb-be stato meglio rimandare a domani e continuare a godermi il silenzio della mia casa vuota, con una tazza di tè alla mela e alla cannella, prende-re il nuovo giocattolo che è quel fantastico porta-tile che ho e mettermi seduta sul terrazzo per ri-posarmi ancora un po', lasciandomi cullare dalle note di Eddie Vedder, contemplando una luna piena che è gialla come fosse un sole sullo sfondo di un cielo rossastro che preannuncia un'altra giornata di caldo...Sono passati 18 giorni e mi sembrano volati da una parte, dall'altra è come se fossi sempre stata qui, cittadina di questa città un po’ caotica che non dorme mai, piena di con-traddizioni e di mille perchè nascosti negli occhi della gente. Non poteva esserci viaggio migliore per me in questo momento. Ho preso la decisione di partire in un momento in cui ero veramente a posto con me stessa e col mondo, quindi non è stata una fuga ma solo l'inizio di un percorso di crescita personale prima di tutto, e poi anche professionale. Ho continue conferme di affetto da parte delle persone a cui tengo, email piene di amore e di mancanza e di gioia per quello che sto vivendo e mi accorgo che quello che ti dicevo prima di partire è vero. Mi accorgo che non im-porta quanto si è lontani. Nessun posto è lontano, per dirla con Richard Bach. Si può essere molto più distanti con la freddezza quotidiana. E anche se non ti sento, anche se non sento la tua voce, non tocco le tue mani e non sento il profumo del-

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la tua pelle, è come se fossi sempre un po' con me. Ci sei nei miei pensieri distratti mentre sono in metropolitana, ci sei se parte una canzone de-gli Afterhours e mi riporta con la mente a te, ci sei ogni volta che mi sveglio di notte e mi collego e ti trovo online perché in Italia è mattina e tu stai lavorando. Non so se per te è abbastanza. Certo, si può aspirare a qualcosa di meglio, ma per ora mi accontento nella speranza di poterti sentire presto via Skype. (ripara questo computer, insomma!) Un bacio, Bea Pomeriggio di libertà. In realtà dovrei ricercare la notizia che voglio trattare nel mio servizio giorna-listico e buttare giù le domande per l’intervista. E soprattutto prendere i contatti, telefonare, manda-re email. Ma oggi non posso farcela. Oggi mi ser-vo io, oggi ho bisogno di me. Di camminare e perdermi, di arrivare in un bar e ordinare un cap-puccino bollente e addentare un muffin ai mirtilli mentre cammino a passi spediti senza una meta precisa. Ho bisogno di pensare, di ritrovarmi sola e fare un bilancio del primo mese passato qui. Del primo mese della mia Nuova Vita, come mi piace chiamarla. Agosto è quasi iniziato, il caldo co-mincia a farsi sentire: libertà di dormire in mu-tande e girare per casa allo stesso modo, ché tanto nessuno ti vede e pure se ti vede non m’importa. I turisti cominciano ad affollare i negozi della 5th Avenue: c’è la fila fuori da Tiffany, è tempo di saldi. Ricordo sempre il film, ogni volta che pas-so davanti a quel negozio. La scena di Audrey Hepburn che torna a casa all’alba camminando mentre smangiucchia un bagel, cappuccino in mano, che si ferma a guardare affascinata la ve-trina. CONTINUA...