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Michail Bulgakov
I racconti di un giovane medico
Titolo originale: Записки юного врача (Zapìski jùnogo vračà), 1925-1926
Traduzione di Chiara Spano
L'asciugamano con il gallo Se uno non ha mai viaggiato su un carro a cavalli per le strade vicinali che
collegano villaggi sperduti, è inutile stargli a raccontare che cosa significhi:
tanto non capirebbe. A chi invece ci ha viaggiato non voglio neppure
ricordarlo.
Dirò brevemente: per percorrere le quaranta verste che separano il
capoluogo del distretto, Gràčevka, dall'ospedale di Mùr'ev, ci mettemmo, il
vetturino e io, esattamente ventiquattro ore. Una precisione addirittura strana:
alle due del pomeriggio del sedici settembre del millenovecentodiciassette
eravamo presso l'ultima bottega di grano e farina situata proprio all'estremo
limite di quella meravigliosa città che è Gràčevka, e alle due e cinque minuti
del diciassette settembre dello stesso indimenticabile diciassette, io stavo in
piedi sull'erba pesta, morente e umida di pioggia settembrina nel cortile
dell'ospedale di Mùr'ev.
Questo era il mio stato: le gambe mi si erano irrigidite e a tal punto che
ancora lì, nel cortile, cominciai a sfogliare mentalmente e in modo confuso le
pagine dei manuali, sforzandomi ottusamente di ricordare se esistesse
davvero una malattia che fa ossificare i muscoli, o se l'avessi invece sognato
il giorno prima, nel villaggio di Grabìlovka. Come si chiamava, maledetta, in
latino? Ognuno di questi muscoli mi doleva in una maniera insopportabile,
che ricordava il mal di denti. Delle dita dei piedi non c'è neanche da parlare:
ormai non si muovevano più dentro gli stivali, giacevano quiete, simili a
moncherini di legno. Confesso che in un accesso di vigliaccheria maledissi
sottovoce la medicina e la domanda di ammissione che cinque anni prima
avevo indirizzato al rettore dell'università. Per giunta, in quel momento
l'acqua veniva giù come attraverso un setaccio. Il mio cappotto si era gonfiato
come una spugna. Con le dita della mano destra cercavo inutilmente di
afferrare il manico della valigia. Alla fine rinunciai e sputai sull'erba bagnata.
Le mie dita non potevano più stringere nulla e di nuovo, infarcito com'ero di
nozioni di ogni genere tratte da interessanti libri di medicina, ricordai un'altra
malattia: la paralisi. Paralisis mi dissi disperato e sa il diavolo a che scopo.
«Per... viaggiare sulle vostre strade», cominciai con le labbra di legno,
bluastre, «bisogna essere abituati.»
E così dicendo, chissà perché, guardai con malanimo il vetturino, benché
egli in realtà non fosse responsabile dello stato della strada.
«Eh, compagno dottore», rispose il vetturino, anch'egli muovendo appena
le labbra sotto i baffetti chiari, «sono quindici anni che viaggio e ancora non
mi sono abituato.»
Io rabbrividii, diedi un'occhiata malinconia all'edificio a due piani
dall'intonaco scrostato, alle pareti della casetta dell'infermiere fatte di travi
non imbiancate, alla mia futura residenza, una casa a due piani molto pulita,
dalle misteriose finestre sepolcrali e sospirai profondamente. Subitanea,
confusa, invece delle parole latine, mi balenò in testa una dolce frase che, nel
mio cervello stordito dal freddo e dallo sballottamento, era cantata da un
grasso tenore con le cosce azzurre: «Salute a te... sa — acro rifuu — gio...».
Addio, addio per molto tempo. Teatro Bolšòj rosso e dorato, Mosca, le
vetrine... ah, addio.
«La prossima volta mi metterò un tulùp1», pensavo con disperazione
rabbiosa e diedi uno strattone alle cinghie della valigia con le dita rigide.
«Io..., per quanto la prossima volta sarà già ottobre... te ne puoi mettere anche
due di tulùp... Ma prima di un mese non ci vado a Gràčevka, non ci vado...
Rendetevi conto... anche dormire fuori mi è toccato. Fatte venti verste, ci
siamo trovati in un buio di tomba... di notte... abbiamo dovuto pernottare a
Grabìlovka... ci ha ospitato il maestro ... E questa mattina siamo partiti alle
sette... e poi si viaggia, vedete... santa misericordia!... più lentamente che a
piedi. Una ruota precipita in una buca, quell'altra si solleva per aria, la valigia
sui piedi, bum!... poi su un fianco, poi sull'altro, poi sbatti con il naso, poi con
la nuca. L'acqua continua a venir giù e le ossa si gelano. Avrei mai potuto
credere che a metà del mese di settembre, aspro e grigio, in campagna si può
gelare come in pieno inverno?! Eh, pare di sì! E mentre muori di morte lenta,
hai sempre di fronte una sola immagine e sempre la stessa. A destra un campo
gobbo, rosicchiato, a sinistra, lungo un boschetto appassito, cinque o sei isbe
grigie, cadenti. E sembra che dentro non ci sia anima viva. Silenzio, silenzio
tutt'intorno...»
La valigia finalmente cedette. Il vetturino ci premette sopra la pancia e
riuscì a cacciarla fuori, giusto addosso a me. Io volevo trattenerla per la
cinghia, ma la mano si rifiutò di funzionare e il mio compagno, furioso e
tumefatto, piombò dritto sull'erba, insieme con i libri e varie altre carabattole,
pestandomi i piedi.
«Signore Idd...», cominciò, spaventato, il vetturino, ma io non protestai
affatto: i miei piedi erano comunque da buttare.
1 Lunga pelliccia che indossano i contadini russi (N.d.T.).
«Ehi, c'è nessuno? Ehi!», gridò il vetturino e batté le mani come un gallo le
ali. «Ehi! Ho portato il dottore!»
Allora apparvero alcune facce dietro i vetri scuri della casa dell'infermiere
e ci si incollarono, poi sbatté una porta e io vidi un uomo vestito di un
cappottino lacero, che portava certi stivaletti leggeri dirigersi arrancando
verso di me. Fece due passi di corsa e si tolse in fretta il berretto in segno di
deferenza, chissà perché sorrise timidamente e mi salutò con una vocetta
rauca: «Salve, compagno dottore!».
«Lei chi è?» domandai.
«Sono Egòrič», si presentò l'uomo, «il guardiano di qui. Come
l'aspettavamo!...»
E subito afferrò la valigia, se la caricò in spalla e la portò via. Io gli andai
dietro zoppicando, tentando invano di infilare la mano nella tasca dei calzoni,
per tirare fuori il portamonete.
In sostanza, l'uomo ha bisogno di molto poco. E prima di tutto ha bisogno
del fuoco. Ricordo che ancora a Mosca, nell'accingermi a partire per
quell'angolo sperduto che è Mùr'ev, mi ero ripromesso di mantenere un
contegno grave. Il mio aspetto giovanile mi avvelenava l'esistenza fin dai
primi passi. Ero costretto a presentarmi a tutti: «Dottor tal de tali».
E tutti immancabilmente inarcavano le sopracciglia e domandavano:
«Possibile? E io che la credevo ancora studente!».
«No. Ho finito gli studi», rispondevo cupo e pensavo: «Mi debbo mettere
gli occhiali, ecco cosa». Ma mettere gli occhiali non serviva a nulla: i miei
occhi erano sani e la loro limpidezza non era stata ancora offuscata
dall'esperienza. Non avendo la possibilità, quindi, di difendermi con l'aiuto
degli occhiali dagli eterni sorrisi indulgenti e affettuosi, cercavo di assumere
un atteggiamento che ispirasse rispetto. Mi sforzavo di parlare in modo grave
e misurato, di trattenere, nei limiti del possibile, i movimenti bruschi, di non
correre come fa la gente a ventitré anni, appena finita l'università, ma di
camminare. E tutto questo, adesso che sono passati tanti anni lo capisco, mi
riusciva molto male.
In quel momento, tuttavia, violai il mio codice di condotta non scritto.
Sedevo rattrappito, con ai piedi solo i calzini, non nello studio, ma in cucina;
come un adoratore del fuoco mi tendevo, ispirato, appassionatamente verso i
ciocchi di betulla che ardevano nella stufa. Con la mano sinistra tenevo una
tinella capovolta, sulla quale stavano le mie scarpe e accanto c'era un gallo
mondato, spennato, con il collo insanguinato; vicino al gallo, il mucchio delle
sue penne multicolori. Perché in realtà, ancora intirizzito, avevo tuttavia
compiuto una serie di azioni, che era la vita stessa a esigere. Avevo nominato
mia cuoca la moglie di Egòrič, Aksìnija dal naso impertinente. E in
conseguenza di ciò il gallo aveva perso la vita per opera sua. Io dovevo
mangiarlo. Feci intanto conoscenza con tutti. L'infermiere si chiamava
Dem'jàn Lùkič, le ostetriche Pelagèja Ivànovna e Anna Nikolàevna. Feci il
giro dell'ospedale e potei convincermi pienamente che di attrezzature e
strumenti era ricchissimo.
Con la stessa certezza fui costretto a riconoscere (tra di me, naturalmente)
che la funzione di molti di quegli strumenti dallo splendore virgíneo mi era
completamente sconosciuta. Non soltanto non li avevo mai tenuti in mano,
ma, lo riconosco francamente, non li avevo neanche mai visti.
«Hmm...», borbottai in maniera indistinta, ma molto significativa. «Avete
degli strumenti magnifici, però. Hmm...»
«Certo», osservò dolcemente Dem'jàn Lùkič, «e tutto per merito del suo
predecessore, Leopòl'd Leopòl'dovič. Operava dalla mattina alla sera.»
A questo punto mi sentii inondare di sudore freddo e guardai tristemente i
lucenti armadietti a specchi.
Dopo, facemmo il giro delle camerate vuote e io constatai che si potevano
comodamente sistemare quaranta persone.
«Leopòl'd Leopòl'dovič a volte ne aveva anche cinquanta», mi consolò
Dem'jàn Lùkič e Anna Nikolàevna, una donna con una corona di capelli
canuti, disse non so a che proposito:
«Lei, dottore, ha un aspetto così giovanile, così giovanile... Davvero è
strano. Pare uno studente».
«Ah, diavolo», pensai. «Sembra che si mettano d'accordo, parola d'onore.»
E borbottai tra i denti, seccamente:
«Hmm... no, io... cioè io... sì, ho un aspetto giovanile...».
Poi scendemmo nella farmacia e io vidi subito che ci mancava solo il latte
d'uccello. Nelle due stanze piuttosto buie c'era un forte odore di erbe e sugli
scaffali si trovava di tutto. C'erano perfino farmaci brevettati all'estero, e c'è
forse bisogno di aggiungere che io non li avevo mai sentiti neppure
nominare?
«Li ha ordinati Leopòl'd Leopòl'dovič», riferì con orgoglio Pelagèja
Ivànovna.
«Doveva essere davvero un tipo geniale, questo Leopòl'd», pensai e mi
sentii pervadere di stima per il misterioso Leopòl'd, che aveva appena
lasciato la tranquilla Mùr'ev.
Oltre che del fuoco, l'uomo ha bisogno di assuefarsi. Il gallo, l'avevo
mangiato da un pezzo, il pagliericcio, che Egòrič mi aveva riempito, era stato
coperto con un lenzuolo, nello studio della mia residenza la lampada era
accesa. Io sedevo e guardavo come incantato la terza realizzazione del
leggendario Leopòl'd: la libreria era piena zeppa di libri. Contai rapidamente
circa trenta manuali solo di chirurgia, in russo e in tedesco. E la terapia!
Meravigliosi atlanti di dermatologia!
Si avvicinava la sera e io mi assuefacevo.
«Io non ho alcuna colpa», pensavo ostinato e sofferente, «ho la laurea, ho
quindici "cinque"2. Anche in città l'avevo pur detto che volevo lavorare come
secondo medico. No! Hanno sorriso e hanno detto: "Si abituerà". Sì, prenditi
anche questo: si abituerà! E se mi portano un'ernia? Spiegatemi come mi ci
abituerò. E soprattutto, come si sentirà il malato in mano mia? Si abituerà
all'altro mondo, lui (e qui mi passò un brivido lungo la schiena)... E una
peritonite? Ah! E i ragazzini con la difterite? In quali casi si consiglia la
tracheotomia? Ma anche senza tracheotomia non starò certo troppo bene...
E... e... un parto! Eh? Ho dimenticato il parto! Le posizioni anormali. Cosa
farò? Eh? Come sono stato sconsiderato! Dovevo rifiutare questo
circondario. Dovevo. Che si trovassero un Leopòl'd qualsiasi.»
Angosciato, passeggiavo nella penombra dello studio. Quando arrivavo
all'altezza della lampada, vedevo nella finestra il mio viso pallido balenare
accanto al lume nella infinita oscurità dei campi «Sembro il falso Dmìtrij!»,
pensai stupidamente all'improvviso e di nuovo sedetti al tavolo.
Per due ore, nella mia solitudine, mi tormentai al punto che i miei nervi non
controllavano più le paure che io stesso mi andavo creando. Allora cominciai
a tranquillizzarmi e addirittura a fare qualche progetto.
«Già, dicono che adesso alla visita non ci sia quasi nessuno; nei villaggi
maciullano il lino, le strade sono quasi impraticabili...»
«E proprio per questo ti porteranno un'ernia», rimbombò una voce severa
nel mio cervello. «Perché quando le strade sono impraticabili, uno non si
mette in viaggio per un raffreddore (una malattia semplice), ma un'ernia, stai
tranquillo, te la portano fin qua, caro collega dottore.»
La voce non era mica sciocca, non è vero? Io rabbrividii.
«Taci!», le dissi. «Perché per forza un'ernia? Cos'è questo isterismo?
Siamo in ballo e bisogna ballare.»
«Hic Rodus, hic salta», rispose la voce malignamente.
«Intanto non abbandonerò il prontuario neppure per un momento... Se
dovrò prescrivere qualcosa, mentre mi lavo le mani posso pensarci su. Il
prontuario resterà aperto sul registro dei pazienti. Farò prescrizioni utili e
semplici. Beh, per esempio, salicilato di sodio in pastiglie da zero virgola
cinque grammi, tre al dì...»
2 Massimo voto nel sistema scolastico e universitario russo: il minimo voto è tre
(N.d.T.)
«Puoi ordinare anche bicarbonato!», rispose con evidenti intenti
canzonatori il mio interlocutore interno.
«Cosa c'entra il bicarbonato? Prescriverò anche infusi di ipecacuana, a
centoottanta o anche a duecento. Mi scusi.»
E benché lì, nella solitudine, vicino alla lampada, nessuno mi chiedesse
ipecacuana, io sfogliai vilmente il ricettario, controllai l'ipecacuana e, nel far
questo, macchinalmente lessi che al mondo esiste anche un certo insipin.
Questi non è altri che il «solfato di etere di acido diglicolico di chinino»... E
pare che non abbia sapore di chinino. Ma a cosa serve? E come si prescrive?
E cos'è poi, una polverina? Che il diavolo lo porti?
«L'insipin è insipin, ma, insomma, con l'ernia, come la metteremo?» La
paura, fattasi voce, mi importunava ostinata.
«Proverò con un bagno», mi difendevo esasperato. «Con un bagno. E
cercherò di farla rientrare.»
«Strozzata angelo mio. Che diavolo di bagni! Strozzata!» cantava la paura
con voce demoniaca. «Tagliare, bisogna...»
A questo punto mi arresi e quasi mi misi a piangere. E inviai una supplica
all'oscurità che si stendeva oltre la finestra: tutto, ma non un'ernia strozzata.
La stanchezza canticchiava: «Va' a dormire, sventurato Esculapio. Fa' una
buona dormita e domattina si vedrà. Ti abituerai. Calmati, giovane
nevrastenico. Guarda, fuori dalla finestra le tenebre sono tranquille, dormono
i campi gelati, non ci sono ernie. Domattina si vedrà. Ti abituerai... Dormi...
Lascia perdere l'atlante. Tanto adesso non raccapezzi nulla. L'anello
dell'ernia...».
Non mi accorsi neppure di come aveva fatto irruzione... Mi ricordo che si
udì il rumore del catenaccio della porta. Aksìnija piagnucolò qualcosa. E poi
fuori della finestra si era sentito scricchiolare un carretto.
Era senza berretto, il pellicciotto sbottonato, la barba in disordine e lo
sguardo folle.
Si segnò, cadde in ginocchio e batté forte sul pavimento. E questo per me.
«Sono perduto», pensai tristemente.
«Che fa, che fa, che fa?!», borbottai e lo tirai per la manica grigia. Una
smorfia gli contrasse il viso ed egli cominciò a rispondere singhiozzando e
borbottando parole sconnesse:
«Signor dottore... Signore... l'unica, l'unica... l'unica!», gridò
improvvisamente con una voce così sonora e giovanile che fece tremare
l'abat-jour della lampada. «Oh, signore, oh...» In preda all'angoscia prese a
torcersi le mani e di nuovo batté la fronte sulle tavole del pavimento, come se
volesse spaccarle. «Perché? Perché questo castigo?... In che cosa abbiamo
mancato?».
«Cosa? Cos'è successo?!», gridai sentendo che il mio viso si faceva freddo.
Egli balzò in piedi, prese ad agitarsi e sussurrò:
«Signor dottore... quello che vuole... le darò denaro... Prenda quello che
vuole. Quello che vuole. Le troveremo anche viveri... Basta che non muoia...
Basta che non muoia! Se rimane storpia, non fa nulla. Non fa nulla!», gridava
rivolto al soffitto. «Ce l'abbiamo di che darle da mangiare, ce l'abbiamo.»
Il viso pallido di Aksìnija pendeva nel riquadro nero della porta. L'angoscia
avvolgeva il mio cuore nelle sue spire.
«Cosa c'è?... Cosa? Parli!», gridai dolorosamente.
Si calmò e mi disse in un sussurro, come in segreto, mentre i suoi occhi
sembravano non aver più fondo: «È caduta nella maciulla...».
«Nella maciulla... Nella maciulla?...», domandai. «Che cos'è?»
«Il lino, maciullavano il lino... signor dottore...» mi spiegò sottovoce
Aksìnija. «La maciulla... ci maciullano il lino...»
«Ecco, si comincia. Ecco. Oh, perché sono venuto qui?», pensai in preda al
terrore.
«Chi?»
«Mia figlia», rispose sottovoce e poi gridò: «Mi aiuti!». E di nuovo si
accasciò, e i capelli tagliati in tondo, gli ricaddero sugli occhi.
La luce della forte lampada, con il paralume di latta storto, splendeva calda
in due fasci. Vidi la donna sul tavolo operatorio, sull'incerata bianca e
odorosa, e il ricordo dell'ernia impallidì.
I capelli chiari, appena rossicci, pendevano dal tavolo arruffati in una plica
secca. La treccia era gigantesca e la sua estremità sfiorava il pavimento. La
gonna di indiana era tutta strappata, macchiata di sangue di diversi colori: una
chiazza bruna, una grassa, scarlatta. La luce della lampada mi parve gialla e
viva, il viso di lei bianco e cartaceo, il naso affilato.
Su questo viso bianco, immobile, come di gesso, si andava spegnendo una
bellezza davvero rarissima. Non sempre, e neppure spesso, capita di vedere
un viso così.
In sala operatoria, per circa dieci secondi, regnò un silenzio profondo, ma
da dietro le porte chiuse si sentiva qualcuno gridare sordamente e battere,
battere con la testa.
«È fuori di sé», pensavo. «E si vede che le infermiere gli danno qualcosa
per calmarlo... Come mai una bellezza simile...? Anche lui però ha lineamenti
regolari... Probabilmente anche la madre era bella... È vedovo...»
«È vedovo?», sussurrai macchinalmente.
«Vedovo», rispose piano Pelagèja Ivànovna.
A questo punto Dem'jàn Lùkič, con un gesto brusco, quasi rabbioso,
strappò la gonna dall'orlo fino in cima e la scopri di colpo.
Gettai uno sguardo: ciò che vidi era più di quanto mi fossi aspettato. La
gamba sinistra praticamente non c'era. A cominciare dal ginocchio
frantumato c'erano dei brandelli insanguinati, i muscoli rossi, schiacciati, e da
ogni parte spuntavano aguzze le ossa bianche e rotte. La destra si era spezzata
in modo tale che tutte e due le ossa erano uscite fuori, bucando la pelle. Per
questo, il piede giaceva voltato da una parte, senza vita, come staccato.
«Già», disse piano l'infermiere e non aggiunse altro.
Mi riscossi dal mio stupore e le presi il polso. Nel suo braccio freddo non si
sentiva nulla. Solo dopo qualche secondo avvertii un'onda rada, appena
percettibile. Passò... poi ci fu una pausa, durante la quale io potei dare uno
sguardo al naso che diventava blu e alle labbra bianche... Volevo già dire: è
finita... per fortuna, ma mi trattenni... Di nuovo passò un'onda sottile.
«Ecco come si spegne una persona lacerata», pensai. «Qui non c'è più nulla
da fare...»
Ma d'improvviso dissi severamente, senza riconoscere la mia voce:
«Canfora».
E Anna Nikolàevna si chinò e mi sussurrò all'orecchio:
«Perché, dottore? Non la tormenti. Perché farle anche una iniezione?
Adesso se ne va. Non la salverà».
Io la guardai rabbioso, tetro e dissi:
«Per favore, la canfora...».
Così Anna Nikolàevna, con un viso gonfio e offeso, si precipitò verso il
tavolino e spezzò una fiala.
Anche l'infermiere, evidentemente, non approvava la canfora.
Tuttavia prese la siringa rapidamente e con abilità e il liquido giallo sparì
sotto la pelle della spalla.
«Muori. Muori presto», pensavo. «Muori. Cosa farò di te, altrimenti?»
«Adesso muore», sussurrò l'infermiere, quasi avesse indovinato il mio
pensiero.
Guardò di traverso il lenzuolo, ma poi, evidentemente, ci ripensò: gli
dispiaceva sporcarlo di sangue. Qualche secondo dopo, tuttavia,
dovemmo coprirla. Giaceva come un cadavere, ma non era ancora morta.
D'improvviso nella mia testa si fece chiaro come sotto il soffitto di vetro del
nostro ormai lontano teatro anatomico.
«Ancora canfora», dissi rauco.
E di nuovo l'infermiere docile iniettò il liquido.
«Possibile che non muoia?», pensai disperato. «Possibile che mi tocchi...»
Il mio cervello continuava a rischiararsi e d'un tratto, senza l'ausilio di
alcun manuale, senza consigli, senza aiuto, compresi, con certezza ferrea, che
ora, per la prima volta nella mia vita, avrei dovuto amputare un arto a una
persona in fin di vita. E questa persona sarebbe morta sotto i ferri. Ah,
sarebbe morta sotto i ferri. Perché ormai non aveva più sangue! Le era uscito
tutto, in dieci verste di strada, dalle gambe schiacciate e non si capiva
neppure se ora sentiva, se avvertiva qualcosa. Taceva. Ah, perché non
moriva? E cosa mi avrebbe detto il padre, ormai folle?
«Preparate per l'amputazione», dissi all'infermiere con una voce che non
era più mia.
«L'ostetrica mi lanciò un'occhiata selvaggia, ma negli occhi dell'infermiere
balenò una scintilla di simpatia ed egli cominciò a darsi da fare intorno agli
strumenti. Tra le sue mani il primus prese a fischiare...
Trascorse un quarto d'ora. Con un terrore superstizioso io guardavo
attentamente l'occhio spento, sollevando di tanto in tanto la palpebra fredda.
Non ci capisco nulla. Come può vivere un semicadavere? Da sotto il berretto
bianco, senza posa, mi scendevano giù per la fronte gocce di sudore salato,
che Pelagèja Ivànovna asciugava con una garza. Ora nelle vene della povera
ragazza scorreva, mescolata ai resti del suo sangue, la caffeina. Avevo fatto
bene a iniettarla, o no? Anna Nikolàevna, sfiorandole appena i fianchi,
spianava le protuberanze prodotte dalla soluzione fisiologica. E la ragazza
continuava a vivere. Presi il bisturi, sforzandomi di imitare (una sola volta in
vita mia, all'università avevo visto effettuare un'amputazione) chissà chi...
Adesso imploravo la sorte che non la facesse morire nella prossima
mezz'ora... «Che muoia in corsia, dopo che avrò finito l'operazione...»
Per me lavorava solo il mio buon senso, stimolato dalle circostanze
insolite. Abilmente, come un macellaio esperto, incisi l'anca tutto in tondo
con un bisturi affilatissimo, la pelle si aprì senza stillare una goccia di sangue.
«Cosa faccio, se si produce un'emorragia?», pensavo e guardavo di sbieco,
come un lupo, il mucchio delle pinze a torsione. Tagliai un pezzo enorme di
carne di donna e un vaso sanguigno, era un tubicino biancastro, ma non ne
uscì neanche una goccia di sangue. Lo chiusi con una pinzetta a torsione e
proseguii. Ficcavo pinzette dappertutto, dove solo supponevo ci fossero vasi.
«Arteria... arteria... come diavolo si chiama?...» La sala operatoria divenne
simile a quella di una clinica. Le pinze a torsione pendevano in grappoli. Con
della garza le ritirarono verso l'alto, insieme con la carne, e io presi a segare
l'osso rotondo con una sega lucente dai denti piccoli. «Perché non muore?... È
stranissimo... Oh, com'è attaccato alla vita l'essere umano!»
E l'osso si staccò. Nelle mani di Dem'jàn Lùkič restò ciò che era stata una
gamba di fanciulla. Brandelli di carne, ossa. Tutto questo fu gettato in un
canto e sul tavolo operatorio rimase una ragazza come accorciata di un terzo,
con un moncherino proteso da un lato. «Ancora, ancora un po'... Non
morire», pensavo ispirato, «resisti fino alla corsia, lasciami uscire sano e
salvo da questa orribile circostanza della mia vita...»
Poi facemmo alcune legature e poi, facendo schioccare l'ago, presi a cucire
a grandi punti la pelle... ma mi fermai, fulminato da un'idea, riflettei. .. lasciai
un'apertura... applicai un tampone di garza... il sudore mi velava gli occhi, e
mi sembrava di essere al bagno...
Soffiai, guardai sofferente il moncherino, il viso cereo. Domandai: «È
viva?».
«Viva...», come un'eco silenziosa, risposero a una voce l'infermiere e Anna
Nikolàevna.
«Vivrà ancora un minuto», mi disse in un orecchio l'infermiere, muovendo
solo le labbra. Poi incespicò e, delicatamente, mi consigliò: «Forse, dottore,
sarà meglio lasciar stare l'altra gamba. La possiamo magari bendare con la
garza... se no, non arriva neanche in corsia... Eh? È meglio se non muore in
sala operatoria».
«Prepari il gesso», risposi rauco; una forza sconosciuta mi spingeva.
Tutto il pavimento era imbrattato di macchie bianche, noi eravamo tutti
sudati. Il semicadavere giaceva immobile. La gamba destra era ingessata,
sulla parte inferiore si apriva la finestrella che, in un momento di ispirazione,
avevo lasciato in corrispondenza della frattura.
«È viva...», disse meravigliato l'infermiere con voce roca.
Poi l'alzarono, e sotto il lenzuolo si vedeva un vuoto enorme. Avevamo
lasciato un terzo del suo corpo in sala operatoria.
Alcune ombre si agitarono in corridoio. Le nottanti passavano correndo e
io vidi una scomposta figura maschile, che emetteva un lamento secco,
scivolare lungo la parete; ma lo allontanarono. E fu silenzio.
In sala operatoria io mi lavavo le braccia insanguinate fino al gomito.
«Dottore, certo lei ha fatto molte amputazioni?», mi domandò
improvvisamente Anna Nikolàevna. «Molto, molto bene. Non meno bene di
Leopòl'd...»
In bocca sua il nome Leopòl'd suonava proprio come Duein.
Gettai un'occhiata di sottecchi sui loro visi. E negli occhi di tutti, di
Dem'jàn Lùkič e di Pelagèja Ivànovna scorsi rispetto e stupore.
«Hmm... io... Veramente ne ho fatte solo due...»
Perché mentii? Adesso non lo capisco più.
Nell'ospedale si era fatto silenzio. Del tutto.
«Quando muore, fatemi chiamare senz'altro», ordinai sottovoce
all'infermiere ed egli, chissà perché, invece di dire «Va bene», rispose con
rispetto «Signorsì.»
Qualche minuto dopo ero nello studio del mio appartamento, vicino alla
lampada verde. La casa taceva.
Il mio viso pallido si rifletteva nel vetro nerissimo.
«No, non assomiglio al falso Dmìtrij e, anzi, sono invecchiato, in un certo
senso... Una ruga alla radice del naso... Adesso busseranno per dirmi che è
morta... Già, ora vado, le dò un'ultima occhiata... Adesso bussano...»
Bussarono alla porta. Fu due mesi e mezzo dopo. Fuori splendeva uno dei
primi giorni dell'inverno.
Entrò lui; potei guardarlo bene solo allora. Sì, effettivamente aveva
lineamenti regolari. Sui quarantacinque anni. I suoi occhi splendevano. Poi
un fruscio... Saltellando su due stampelle, entrò una ragazza d'incantevole
bellezza, con una sola gamba, vestita di una larghissima gonna orlata di
rosso.
Mi guardò e sulle sue guance si diffuse un lieve rossore.
«A Mosca... a Mosca», e cominciai a scrivere l'indirizzo, «là le faranno una
protesi, una gamba artificiale.»
«Bacia la mano», disse inaspettatamente il padre.
Io mi confusi al punto che invece delle labbra le baciai il naso.
Allora lei, tenendosi in equilibrio sulle stampelle, aprì un pacchetto e
srotolò un lungo asciugamano candido come la neve con un gallo rosso
ricamato alla buona. Ecco, dunque, cosa nascondeva sotto il cuscino, quando
passavo a visitarla! Già, mi ricordo che sul tavolino c'erano dei fili.
«Non lo prendo», dissi severo e scossi anche la testa. Ma lei fece una
faccia, certi occhi, che lo presi...
E per molti anni rimase appeso nella mia camera da letto a Mùr'ev e poi
viaggiò con me. Infine divenne vecchio, si consumò, si bucò e sparì come si
consumano e spariscono i ricordi.
1926
Gola d'acciaio E così, ero rimasto solo. Intorno a me la tenebra di novembre e la neve che
turbinava; la casa ne era sommersa, il vento ululava nei tubi. Tutti i
ventiquattro anni della mia vita io li avevo vissuti in una grande città e
pensavo che la tormenta ululasse soltanto nei romanzi; risultò invece che
ulula davvero. Qui le sere erano straordinariamente lunghe; la lampada
coperta da un abat-jour azzurro si rifletteva nel vetro della finestra e io
sognavo, fissando quella macchia luminosa. Sognavo il capoluogo del
distretto, lontano ben quaranta verste da me, e avevo un gran desiderio di
fuggire laggiù, via dalla mia condotta. Lì c'era l'elettricità, c'erano quattro
medici e con loro sarebbe stato possibile consultarsi; in ogni caso non
sarebbe stato così terribile. Ma di fuggire non c'era alcuna possibilità, e a
volte io stesso capivo che sarebbe stata viltà. Proprio per questo in fondo
avevo studiato medicina...
«...Sì, ma se portano una donna con un parto difficile? Oppure, mettiamo,
un malato con un'ernia strozzata? Cosa dovrò fare? Consigliatemi, per
favore. Ho finito la facoltà quarantotto giorni fa, con la lode; ma la lode è un
conto, e l'ernia tutto un altro. Una volta ho visto un professore che operava
un'ernia strozzata: ma lui operava e io stavo seduto nell'anfiteatro. E
soltanto...»
Un sudore freddo mi colava lungo la spina dorsale ogni volta che pensavo
all'ernia. Ogni sera sedevo sempre nella stessa posizione, e bevevo il tè; alla
mia sinistra giacevano tutti i manuali di chirurgia ostetrica, con in cima il
piccolo Doderlein, e alla mia destra dieci diversi tomi di pratica chirurgica,
con illustrazioni. Io sbuffavo, fumavo e bevevo tè freddo e nero.
E una volta mi addormentai; ricordo perfettamente quella notte, il 29
novembre: mi svegliai per il fracasso alla porta e cinque minuti dopo,
indossati i pantaloni, non riuscivo ancora a staccare gli occhi imploranti dai
libri divini della pratica chirurgica. Sentivo lo scricchiolìo dei pattini nel
cortile, le mie orecchie erano diventate straordinariamente sensibili. Si
trattava di qualcosa, se è possibile, ancora più terribile di un'ernia o di un feto
in posizione trasversale. Mi portarono nel piccolo ospedale di Nikòlsk, alle
undici di notte, una bambina. L'infermiera di turno mi disse con voce sorda:
«Una bambina molto debole, sta morendo... Venga in ospedale, dottore...».
Ricordo che attraversai il cortile, che andavo verso il fanale a petrolio che
stava all'ingresso dell'ospedale e che lo guardavo quasi affascinato.
L'ambulatorio era già illuminato e i miei assistenti, al completo, mi
aspettavano con il camice già indosso. C'erano l'assistente Dem'jàn Lùkič,
giovane ancora ma molto capace, e due esperte ostetriche, Anna Nikolàevna
e Pelagèja Ivànovna. Io ero soltanto un medico ventiquattrenne, diplomato da
due mesi e comandato alla condotta di Nikòlsk.
L'assistente spalancò la porta e apparve la madre della bambina; entrò
quasi volando, scivolando sugli stivali di feltro e con ancora la neve sul
fazzoletto. Tra le braccia teneva un fagotto che sibilava e fischiava
ritmicamente; aveva il viso sconvolto e piangeva senza rumore. Quando si
tolse il tulùp e il fazzoletto, e disfece il fagotto, potei vedere una bambina di
tre anni. La guardai e per un momento dimenticai la pratica chirurgica, la
solitudine, il mio inutile bagaglio universitario, dimenticai proprio tutto tanto
la bambina era bella. A cosa paragonarla? Soltanto sulle scatole di caramelle
ci sono bambini simili: capelli naturalmente ondulati in grossi anelli di segale
quasi matura, occhi azzurri, grandissimi, gote di bambola. Così un tempo
erano raffigurati gli angeli. Soltanto, una strana torbidezza si annidava nel
fondo di quegli occhi e capii che era terrore: non riusciva più a respirare.
«Morirà tra un'ora», pensai con assoluta certezza e il cuore mi si strinse
dolorosamente. Delle fossette si scavavano ad ogni respiro nella gola della
bambina, le vene si gonfiavano e il viso cambiava colore, dal rosato al lilla
chiaro. Notai subito e valutai quel colorito; compresi immediatamente di che
cosa si trattava e formulai la mia prima diagnosi in modo del tutto corretto e,
quel che è più importante, contemporaneamente alle ostetriche che avevano,
loro, molta esperienza. «La bambina ha la difterite, la gola è già piena di
placche e presto sarà chiusa del tutto...»
«Da quanti giorni è malata la piccola?», domandai; i miei aiutanti tacevano
attenti.
«È il quinto giorno, il quinto», rispose la madre con occhi asciutti, e mi
guardò intensamente.
«Difterite», mormorai tra i denti all'assistente e alla madre dissi:
«Tu, a cosa pensavi? A cosa?».
E in quel momento risuonò alle mie spalle una voce piagnucolosa:
«Il quinto, bàtjuška3, il quinto!».
Mi voltai e vidi una donnetta silenziosa dal volto rotondo, col fazzoletto in
testa. «Sarebbe bene se al mondo queste donnette non ci fossero affatto»,
pensai con un triste presentimento di pericolo, e dissi:
«Tu, donna, taci, disturbi!», e alla madre: «Ma tu a cosa pensavi? Cinque
giorni, eh?».
3 Padre. Modo rispettoso e affettuoso di rivolgersi alle persone più anziane o
superiori. (N.d.T.)
D'improvviso la madre con un gesto automatico diede la bambina in
braccio alla vecchia e si mise in ginocchio davanti a me.
«Dalle le gocce», disse e batté la fronte sul pavimento. «Io m'impicco se lei
muore.» «Alzati immediatamente», risposi, «altrimenti con te non starò
neanche a parlarci.»
La madre si alzò svelta, facendo frusciare la larga gonna, prese la bambina
alla vecchia e cominciò a cullarla. La vecchia cominciò a pregare rivolta
verso lo stipite della porta, mentre la bambina continuava a respirare con un
sibilo da serpente.
«Fanno tutti così», disse l'infermiere, «il po-po-lo...» e mentre diceva
questo i baffi gli si storsero da un lato.
«Allora, che vuol dire, morirà?», domandò la madre guardandomi, così mi
parve, con furia selvaggia.
«Morirà», dissi io con voce bassa ma ferma. La vecchia arrotolò l'orlo della
gonna e con quello prese ad asciugarsi gli occhi; ma la madre mi gridò con
voce cattiva:
«Dagliele, aiutaci! Dalle le gocce!».
Io capivo benissimo quel che mi aspettava e non mi feci scuotere.
«Che razza di gocce debbo darle? Dimmelo tu. La bambina sta soffocando,
ha la gola già otturata. Tu per cinque giorni l'hai lasciata morire a quindici
verste da me. E adesso, cosa comandi di fare?»
«Tu devi saperlo meglio di noi, bàtjuška», si lamentò la vecchia dietro la
mia spalla sinistra con voce artefatta, e subito presi ad odiarla.
«Sta' zitta!», le dissi e ordinai all'infermiere di prendere la bambina: la
madre la consegnò all'ostetrica, e lei cominciò a dibattersi e voleva
evidentemente gridare; ma ormai non aveva più voce. La madre voleva
difenderla, ma noi l'allontanammo e io riuscii a guardarle la gola alla luce
della lampada. Fino a quel momento non avevo mai visto una difterite, a parte
casi leggeri e presto dimenticati. Nella gola c'era qualcosa di gorgogliante,
bianco, lacero. La bambina all'improvviso aspirò e mi sputò sul viso, ma io,
non so perché, occupato dei miei pensieri, non ebbi paura per gli occhi.
«Ecco», dissi, meravigliandomi io stesso della mia calma, «le cose stanno
così. È tardi. La bambina sta morendo, e soltanto una cosa può salvarla:
l'operazione.»
Mi spaventai io stesso di quel che avevo detto; ma non avevo potuto non
dirlo. «E se acconsentono?», mi balenò nella mente.
«Come sarebbe?», domandò la madre.
«Bisognerà tagliare la gola alla base», spiegai «e metterci dentro un
tubicino d'argento per dare alla bambina la possibilità di respirare; allora,
forse, si salverà.»
La madre mi guardò come se fossi impazzito e stese le braccia a proteggere
da me la bambina, mentre la vecchia borbottava di nuovo:
«Che fai? Non devi permettere che la taglino! Ma sei matta, la gola?».
«Vattene, vecchia!», le dissi con odio. «Fatele un'iniezione di canfora»,
ordinai all'assistente.
Quando la madre vide la siringa, non voleva più darci la bambina, ma noi le
spiegammo che non c'era nulla di cui aver paura.
«Forse questo le farà bene?», domandò.
«Assolutamente no.»
Allora la madre si mise a singhiozzare.
«Smettila», dissi. Tirai fuori l'orologio e aggiunsi: «Ti dò cinque minuti per
decidere. Se non acconsenti, tra cinque minuti sarò io che non potrò più
impegnarmi a operare».
«Non voglio», disse la madre.
«Non avete il nostro consenso», aggiunse la vecchia.
«Va bene, come volete», risposi sordamente, e poi pensai: «Ecco è tutto.
Sto meglio. L'ho detto, l'ho proposto, le ostetriche hanno gli occhi fuori per la
sorpresa. Loro rifiutano e io sono salvo». E avevo appena formulato questi
pensieri, che qualcun altro disse per me con una voce sconosciuta.
«Ma che fate, siete impazzite? Come sarebbe a dire "non vogliamo"?
Volete far morire la bambina? Date il vostro consenso. Possibile che non
abbiate pietà?»
«No!», gridò di nuovo la madre.
Dentro di me pensavo: «Cosa sto facendo? Sicuramente sgozzerò la
bambina». Ma dicevo tutt'altro: «Avanti, presto; presto, acconsentite.
Guardate, le unghie le stanno già diventando blu».
«No, no!»
«Insomma, va bene. Conducetele in corsia; che restino là.»
Le accompagnarono via, per il corridoio semibuio e io sentivo il pianto
delle donne e il sibilo della bambina. L'infermiere tornò quasi subito e disse:
«Acconsentono!».
Dentro mi sentii diventare di pietra, ma dissi con voce chiara: «Sterilizzate
immediatamente il bisturi, le forbici, le grappette e la sonda».
Un minuto dopo attraversavo di corsa il cortile dove, come un demone, la
tormenta volava e strisciava; di corsa arrivai in casa e contando i minuti,
afferrai il libro; lo sfogliai e trovai l'illustrazione della tracheotomia.
Nell'illustrazione tutto era chiaro e semplice: la gola aperta, il bisturi piantato
nella trachea. Cercai di leggere il testo ma non capivo niente, le parole mi
saltellavano davanti agli occhi. E non avevo mai visto come si fa una
tracheotomia. «Beh, ormai è tardi», pensai e guardai con rimpianto il colore
azzurro e il disegno a colori vivaci dell'illustrazione, sentii che mi era
piombato addosso un compito difficile, terribile e tornai all'ospedale senza
far caso alla tormenta.
Nell'ingresso un'ombra dalla larga gonna si attaccò a me e una voce prese a
lamentarsi:
«Bàtjuška, come è possibile tagliare la gola alla bambina? Può forse essere
una cosa ragionevole? Lei, è una donna sciocca, ha dato il permesso. Ma io
no, io non permetterò. Curatela pure con le gocce, ma che le si tagli la gola,
non lo permetterò!».
«Via questa donna», gridai, e per la rabbia aggiunsi: «Tu sei una stupida,
tu! Quell'altra è intelligente. E poi, nessuno ti ha chiesto niente. Mandatela
via!».
L'ostetrica, con fermezza, prese la donna e la spinse fuori dalla corsia.
«È tutto pronto», disse improvvisamente l'infermiere.
Entrammo nella piccola sala operatoria e io, come attraverso un velo, vidi
gli strumenti splendenti, la lampada accecante, l'incerata... Per l'ultima volta
mi avvicinai alla madre alla quale avevano appena portato via la bambina.
Udii soltanto una voce rauca che diceva: «Mio marito non c'è, è in città.
Quando torna e sa quel che ho combinato, mi ammazza».
«L'ammazzerà», disse la vecchia guardandomi terrorizzata.
«Non lasciatele entrare nella sala operatoria», ordinai.
Restammo soli, nella sala operatoria, i miei aiutanti, io e Lìdka, la bambina.
Ella sedeva sul tavolo, svestita, e piangeva silenziosamente. La stesero sul
tavolo e la legarono; le lavarono la gola, gliela spalmarono di iodio e io presi
il bisturi; e mentre lo prendevo, pensavo: «Cosa sto facendo?». Nella sala
operatoria c'era un gran silenzio. Io presi il bisturi e incisi con un taglio
verticale la gola bianca e gonfia. Non uscì una sola goccia di sangue. Passai
una seconda volta il bisturi sulla piccola striscia bianca che era apparsa tra i
due lembi di pelle. Di nuovo, niente sangue. Lentamente, cercando di
ricordare certe illustrazioni dell'atlante anatomico, cominciai, aiutandomi
con una sonda ottusa, ad aprire i delicati tessuti. E allora da non so quale
punto del taglio, in basso, sprizzò del sangue scuro che istantaneamente
inondò tutta la ferita e cominciò a colare per il collo. L'assistente tentò di
asciugarlo con i tamponi, ma il sangue continuava a sgorgare. Ricordando
tutto ciò che avevo visto all'università, cominciai a stringere gli orli della
ferita con le pinzette, ma non servì a nulla.
Mi venne freddo e la fronte mi s'inumidì. Rimpiansi amaramente di aver
scelto gli studi di medicina e di essere capitato in quel posto fuori dal mondo.
Con astiosa disperazione affondai le pinzette a caso in un punto vicino alla
ferita, le strinsi e subito il sangue smise di sgorgare. Asciugammo la ferita
con tamponi di garza ed essa mi si presentò pulita e assolutamente
incomprensibile. Non c'era alcuna trachea, da nessuna parte. La mia ferita
non assomigliava a nessuna illustrazione. Passarono ancora due o tre minuti
durante i quali io frugai meccanicamente e inutilmente nella ferita, ora col
bisturi, ora con la sonda, cercando la trachea. Alla fine del secondo minuto
disperavo ormai di trovarla. «È la fine», pensai, «perché ho fatto questo? In
fondo potevo non proporre l'operazione, e Lìdka sarebbe morta
tranquillamente in corsia, mentre ora morirà con la gola squarciata, e mai, in
nessun modo potrò dimostrare che sarebbe comunque morta, che io non ho
potuto nuocerle...» L'ostetrica mi asciugò la fronte senza parlare. «Posare il
bisturi, dire: non so più che fare», pensai questo e mi vidi dinnanzi gli occhi
della madre. Di nuovo alzai il bisturi e, senza scopo, inflissi a Lìdka un altro
taglio netto e profondo. I tessuti si aprirono e inaspettatamente apparve la
trachea.
«Grappe», dissi con voce rauca.
L'infermiere me le porse: io ne piantai una da una parte e una dall'altra, e
gliene restituii una terza. Ora vedevo solo una cosa, gli anelli grigiastri della
trachea. Infilai nella gola il bisturi affilato e mi sentii gelare: la trachea si
stava sollevando fuori dalla ferita: l'infermiere, così mi passò per la mente,
era impazzito: aveva cominciato improvvisamente a tirarla fuori. Alle mie
spalle tutte e due le ostetriche gemettero. Sollevai lo sguardo e compresi di
che si trattava: per il caldo soffocante l'infermiere stava svenendo e, poiché
non lasciava andare la grappa, stava lacerando la trachea. «Tutto è contro di
me, è il destino; oramai, sicuramente abbiamo sgozzato Lìdka», e nel
pensiero aggiunsi severamente: «Appena arrivo a casa, mi sparo...». A questo
punto la prima ostetrica, evidentemente molto esperta, si gettò quasi come un
rapace sull'infermiere, gli prese la grappa e disse stringendo i denti:
«Continui, dottore».
L'infermiere cadde con un fracasso e picchiò per terra, ma noi non gli
prestammo attenzione. Io affondai il bisturi nella trachea e poi vi infilai il
tubicino d'argento che scivolò dentro facilmente; ma Lìdka rimase immobile.
L'aria non le entrò in gola come era necessario. Sospirai profondamente e mi
fermai: non c'era più nient'altro da fare. Avevo voglia di chiedere perdono a
qualcuno, di pentirmi della mia leggerezza, del fatto che mi ero iscritto alla
facoltà di medicina. C'era silenzio. Vedevo che Lìdka stava diventando blu.
Volevo ormai lasciar perdere tutto e mettermi a piangere, quando
improvvisamente lei ebbe un sussulto violentissimo, rigettò attraverso il
tubo, come da una fontana, i grumi malefici, e l'aria con un sibilo le entrò in
gola; poi la respirazione divenne più frequente e la bambina cominciò a
piangere. Nello stesso momento l'infermiere si tirò su pallido e sudato; gettò
uno sguardo ottuso e spaventato alla gola di Lìdka, poi mi aiutò a ricucire.
Insonnolito e attraverso un velo di sudore che mi copriva gli occhi, vidi i volti
felici delle ostetriche e una di loro mi disse:
«È stata proprio una magnifica operazione, dottore!».
Pensai che si prendesse gioco di me e la guardai di traverso, tetramente. Poi
spalancarono le porte e ci fu una ventata di aria fresca. Lìdka fu portata fuori
avvolta in un lenzuolo e subito sulla porta apparve la madre. Aveva gli occhi
di una belva. Ella mi chiese:
«Allora?».
Al suono di quella voce, il sudore mi corse per la schiena; soltanto allora mi
resi conto di ciò che sarebbe accaduto se Lìdka fosse morta sotto i ferri. Le
risposi però con voce molto tranquilla:
«Sta' calma. È viva. E sopravviverà, spero. Soltanto, finché non le
toglieremo il tubo non potrà dire neanche una parola, così non spaventatevi».
E a questo punto emerse di sotto terra la vecchia e si segnò rivolta alla
maniglia della porta, a me, al soffitto; ma non mi arrabbiai più con lei. Mi
voltai e ordinai una iniezione di canfora a Lìdka e che la vegliassero a turno.
Poi me ne andai a casa attraverso il cortile. Ricordo che nello studio brillava
la luce azzurra, sul tavolo giaceva il Doderlein, c'erano dei libri sparpagliati.
Mi avvicinai al divano, vestito.
Mi coricai e subito non ci fu più nulla intorno a me; mi addormentai e
dormii senza sognare.
Passò un mese, un altro. Ormai avevo visto molte cose e qualcuna ancora
più terribile della gola di Lìdka; così non ci pensavo più. Intorno c'era la neve
e ogni giorno il numero delle visite aumentava. E un giorno, già l'anno dopo,
entrò da me nell'ambulatorio una donna che teneva per mano una bambina
tutta intabarrata. La donna aveva gli occhi raggianti, io la guardai
attentamente e la riconobbi:
«Ah, Lìdka! Beh, come va?».
«Tutto bene.»
Fu scoperta la gola a Lìdka che si schermiva e aveva paura; ma riuscii
ugualmente a sollevarle il mento e a darle un'occhiata. Sul collo roseo c'era
una cicatrice verticale bruna e i due segni sottili dei punti.
«Va tutto bene», dissi, «non c'è bisogno che ritorniate ancora.»
«La ringrazio, dottore; grazie!», disse la madre e ordinò a Lìdka, «Di'
grazie allo zietto.»
Ma lei non aveva nessuna intenzione di dirmi niente.
Non l'ho mai più rivista e cominciavo a dimenticarla. Le mie visite
continuavano ad aumentare e arrivò il giorno che visitai centodieci persone.
Cominciammo alle nove del mattino e finimmo alle otto di sera. Barcollando,
mi tolsi il camice. La prima assistente-ostetrica mi disse:
«Per tutte queste visite, lei deve ringraziare la tracheotomia. Lo sa cosa
dicono nei villaggi? Che a Lìdka, quando era malata, lei ha messo una gola
d'acciaio al posto della sua e poi ha ricucito. Vanno apposta nel suo villaggio
per poterla vedere. Ecco quanto è famoso, dottore; congratulazioni !».
«E ci vive con la gola d'acciaio?», mi informai io.
«Sì, ci vive. E lei, dottore, è proprio bravo. E il sangue freddo con cui
opera! una meraviglia!»
«Mah, io, sa, non mi agito mai», dissi, chissà perché, ma capii che per la
stanchezza non avevo nemmeno la forza di vergognarmi; soltanto voltai lo
sguardo da un'altra parte. Salutai e me ne andai a casa. La neve scendeva a
grossi fiocchi e aveva coperto tutto quanto intorno, il fanale brillava e la mia
casa era solitaria, tranquilla e seria. E io, quando arrivai, volevo una cosa
sola: dormire.
1925
Il primo parto Cominciarono a scorrere i giorni nell'ospedale di N. e io presi a poco a poco
ad abituarmi alla nuova vita.
Nei paesi, come sempre, maciullavano il lino, le strade rimanevano
impraticabili e io ricevevo, per le visite, non più di cinque persone. Le serate
erano completamente libere, io le dedicavo all'esame della biblioteca, alla
lettura dei manuali di chirurgia e a lunghe e solitarie bevute di tè vicino al
samovàr che cantava sommesso.
Giorno e notte pioveva e le gocce battevano senza tregua sul tetto, l'acqua
scrosciava sotto la finestra e, attraverso la grondaia, andava a raccogliersi nel
tino. Nel cortile c'erano fango, nebbia e una tenebra nera, nella quale, come
macchie fioche e vaghe, rilucevano le finestre della casa dell'infermiere e la
lampada a petrolio sul portone.
In una di queste serate, io sedevo nel mio studio, intento all'atlante di
anatomia. Intorno, il silenzio era fondo, e solo di rado veniva rotto dal rumore
dei topi dietro il buffet della stanza da pranzo.
Lessi fino a che le palpebre appesantite non cominciarono a chiudersi.
Finalmente sbadigliai, misi da parte l'atlante e decisi di coricarmi.
Stirandomi, e già pregustando un sonno tranquillo, accompagnato dal
tamburellare della pioggia, passai in camera da letto, mi spogliai e mi coricai.
Non avevo ancora toccato il cuscino, che, tra le nebbie del sonno, mi
apparve il viso della diciassettenne Anna Pròchorova, del villaggio di
Toròpovo.
A Anna Pròchorova bisognava strappare un dente. Senza rumore mi
veleggiò davanti l'infermiere Dem'jàn Lùkič, con in mano una pinza lucente.
Mi ricordai di come egli dicesse «codesto» invece di «questo» per amore
dello stile elevato, sorrisi e mi addormentai.
Ma non più tardi di mezz'ora dopo mi svegliai di colpo, proprio come se
qualcuno mi avesse dato uno scossone, mi rizzai a sedere e, guardando nel
buio, spaventato, mi misi in ascolto. Qualcuno picchiava con insistenza e
fracasso al portone, e questi colpi mi parvero subito di malaugurio.
Battevano ora anche alla porta di casa.
I colpi cessarono; ci fu il rumore del chiavistello, si udì la voce della cuoca
e la risposta di una voce sconosciuta e poco chiara, poi qualcuno salì le scale,
facendole scricchiolare, attraversò pian piano lo studio e bussò alla porta
della mia stanza da letto.
«Chi è?»
«Sono io», mi rispose un sussurro rispettoso, «io, Aksìnija, la nottante.»
«Che cosa è successo?»
«Mi ha mandato a chiamarla Anna Nikolàevna. Dice di andare subito
all'ospedale.»
«Ma che cosa è successo?», domandai e avvertii nettamente il balzo del
mio cuore.
«Hanno portato una donna da Dùl'cevo. Il parto si presenta male.»
«Ecco che si comincia!», mi passò per la mente, e non riuscivo a infilare i
piedi nelle scarpe, «ah, diavolo! I fiammiferi non si accendono. E va bene,
presto o tardi doveva ben succedere. Mica sempre laringiti e gastriti!»
«Bene. Vai, dì che vengo subito!», gridai e mi alzai dal Ietto. Dietro la
porta si udì Aksìnija ciabattare e di nuovo ci fu il rumore del chiavistello. Il
sonno si dileguò in un istante. Frettolosamente, con le mani tremanti accesi la
lampada e cominciai a vestirmi. Le undici e mezza... Cos'avrà questa donna,
che il parto le si presenta male? Hmm... posizione anormale... il bacino
stretto. Oppure può darsi anche qualcosa di peggio. Sta' a vedere che toccherà
usare il forcipe. O mandarla addirittura in città. No, questo è assurdo! Non c'è
male, come dottore, non c'è niente da dire, direbbero tutti! E poi non ho il
diritto di fare una cosa simile! No, ormai debbo farlo io. Ma fare cosa? Lo sa
il diavolo. Che disgrazia se mi perdo, una vergogna davanti alle ostetriche.
Del resto, bisogna prima vedere, non vale la pena agitarsi prima del tempo...
Mi vestii, mi gettai sulle spalle il cappotto e, sperando fra me e me che tutto
si risolvesse per il meglio, corsi all'ospedale sotto la pioggia: le tavole
risuonavano sotto i passi. Nell'oscurità, vicino all'ingresso, si intravedeva una
carretta, il cavallo batteva lo zoccolo sulle tavole marce.
«È lei che ha portato la partoriente?», domandai chissà perché alla figura
che si muoveva vicino al cavallo.
«Noi... eccome, noi, bàtjuška», rispose lamentosa una voce di donna.
Nell'ospedale, nonostante l'ora tarda, c'era animazione, trambusto. In sala
d'attesa era accesa e sfavillava una forte lampada. Nel piccolo corridoio che
portava al reparto maternità, mi passò accanto di corsa Aksìnija con una
bacinella. Improvvisamente da dietro la porta venne un debole lamento e
subito tacque. Apersi la porta e entrai in sala parto. La piccola camera dalle
pareti imbiancate era fortemente illuminata dalla lampada attaccata al
soffitto. In un letto, vicino al tavolo operatorio, giaceva una giovane donna
con una coperta tirata su, fino al mento. Il suo viso era alterato da una smorfia
di dolore e i capelli le si erano incollati alla fronte in ciocche umide. Anna
Nikolàevna, con un termometro in mano, preparava una soluzione in una
ciotola, mentre l'altra ostetrica, Pelagèja Ivànovna, tirava fuori dall'armadio
lenzuola pulite. L'infermiere stava appoggiato alla parete, in una posa da
Napoleone. Vedendomi tutti si animarono. La partoriente aprì gli occhi, si
torse le mani e di nuovo si lamentò penosamente.
«Allora, cosa c'è», domandai, e mi meravigliai del mio tono sicuro e
tranquillo.
«Posizione trasversale», rispose rapidamente Anna Nikolàevna
continuando a versare acqua nella soluzione.
«A-ah», feci io accigliandomi, «beh, vediamo...»
«Aksìnija, dà al dottore di che lavarsi le mani!», gridò a questo punto Anna
Nikolàevna. Il suo viso era solenne e serio.
Mentre l'acqua scorreva, sciogliendo la schiuma sulle mie mani arrossate
dalla spazzola, io feci ad Anna Nikolàevna alcune domande senza
importanza: di dove veniva la partoriente? l'avevano portata da molto
tempo?... La mano di Pelagèja Ivànovna tirò via la coperta e io, sedutomi sul
bordo del letto, cominciai a palpare leggermente il ventre gonfio. La donna
gemeva, si tendeva, si piantava le unghie nel palmo delle mani, gualciva il
lenzuolo.
«Pianino, pianino... abbi pazienza», dicevo io, poggiando delicatamente le
mani sulla pelle calda, tesa e asciutta.
In realtà, una volta che l'esperta Anna Nikolàevna mi aveva suggerito di
che cosa si trattasse, questa visita non era affatto necessaria. Per quanto
esaminassi non avrei potuto venirne a sapere di più di Anna Nikolàevna. La
sua diagnosi era certamente giusta: posizione trasversale. La diagnosi c'era.
Beh, e poi?... Accigliato, continuavo a tastare il ventre da tutte le parti e a
sbirciare i visi delle ostetriche. Erano entrambe serissime e i loro occhi
approvavano le mie azioni. Effettivamente i miei movimenti erano sicuri e
giusti e io mi sforzavo di nascondere il più possibile la mia inquietudine, di
non rivelarla in nessun modo.
«Già», dissi sospirando, e mi alzai dal letto, giacché oramai dall'esterno
non c'era più nulla, da guardare, «vediamo dentro.»
Di nuovo negli occhi di Anna Nikolàevna passò un lampo di approvazione.
«Aksìnija!»
Ancora una volta si udì scorrere l'acqua.
«Eh, poter dare adesso un'occhiata al Doderlein!», pensai tristemente,
insaponandomi le mani. Purtroppo far questo in quel momento non era
possibile. E poi, come avrebbe potuto aiutarmi il Doderlein? Mi risciacquai le
mani dalla schiuma densa e le spalmai di iodio. Il lenzuolo pulito frusciò tra
le mani di Pelagèja Ivànovna e io, chino sulla partoriente, cominciai, attento e
timido, l'esplorazione interna. Nella mia memoria affiorò involontariamente
un ricordo: la sala operatoria della clinica ostetrica. Le forti lampade
elettriche che brillavano in globi opachi, il pavimento di mattonelle
splendenti, dappertutto rubinetti e strumenti lucenti. L'assistente, con un
camice bianco come la neve, si dà da fare intorno alla partoriente e intorno a
lui ci sono tre aiuti, medici praticanti, una folla di studenti. Si sta bene, c'è una
luce chiara, e non c'è pericolo.
Qui, invece, io sono solo soletto, ho tra le mani una donna sofferente, e
rispondo di lei. Ma che fare per aiutarla, io non lo so, perché di parti, da
vicino, ne ho visto solo due in vita mia, in clinica, e quelli poi erano
perfettamente normali. Adesso faccio l'esplorazione, ma questo
non reca sollievo né a me, né alla partoriente; io proprio non capisco nulla e
non è là dentro che posso trovare una spiegazione.
Ormai devo decidere: fare una cosa qualunque.
«Posizione trasversale... visto che la posizione è trasversale, quindi,
bisogna... bisogna fare...»
«Il rovesciamento per la gamba», non resistette e notò quasi fra sé Anna
Nikolàevna.
Un medico vecchio e esperto l'avrebbe guardata di traverso, perché gettava
avanti le sue conclusioni... Ma io sono uno che non si offende...
«Sì», confermai significativamente, «il rovesciamento per la gamba.»
E davanti ai miei occhi balenarono le pagine del Doderlein. Rovesciamento
diretto... rovesciamento combinato... rovesciamento indiretto...
Pagine, pagine... e disegni. Il bacino, neonati contorti, schiacciati, con teste
enormi... una manina inerte, avvolta in un nodo.
Eppure l'avevo letto da poco. E avevo anche sottolineato, riflettendo
attentamente su ogni parola, immaginando il rapporto tra le parti e tutti i vari
procedimenti. E mentre leggevo, sembrava che tutto il testo mi si imprimesse
nel cervello per sempre.
E adesso di quello che avevo letto affiorava una sola frase:
«La posizione trasversale è una posizione decisamente poco felice».
Quello che è giusto, è giusto. Veramente infelice, sia per la donna che per un
medico che abbia finito l'università sei mesi prima.
«Allora... lo faremo», dissi, alzandomi.
Il viso di Anna Nikolàevna si animò.
«Dem'jàn Lùkič», si rivolse all'infermiere, «prepari il cloroformio.»
Meno male che l'aveva detto, perché infatti non ero ancora sicuro che per
quella operazione occorresse l'anestesia! Ma certo, occorreva, e se no, come?
Però, nonostante tutto, dovevo dare un'occhiata al Doderlein.
E quando ebbi finito di lavarmi le mani, dissi:
«Beh, bene... preparate lui Io per l'anestesia, sistemate lei, io vengo subito,
vado a casa a prendere le sigarette.»
«Va bene, dottore, c'è lempo», rispose Anna Nikolàevna
Mi asciugai le mani, l'infermiera di notte mi gettò sulle spalle il cappotto e
io, senza neanche infilare le maniche, corsi a casa
A casa, nello studio, accesi la lampada e, dimenticando di togliermi il
berretto di pelo, mi gettai verso la libreria
Eccolo! Il Doderlein! Chirurgia ostetrica. Cominciai a sfogliare di furia le
piccole pagine lucenti.
«...il rovesciamento è sempre un'operazione pericolosa per la madre...»
Un brivido mi corse lungo la spina dorsale.
«...il pericolo fondamentale è rappresentato dalla possibilità che si
producano lacerazioni spontanee dell'utero...»
Spon-ta-ne-e...
«...se l'ostetrico, nell'introdurre la mano nell'utero, incontra difficoltà ad
arrivare alla gamba, per mancanza di spazio o per via delle contrazioni delle
pareti dell'utero, deve desistere da ulteriori tentativi di effettuare il
rovesciamento.»
Bene. Quand'anche, per qualche miracolo, io fossi riuscito a individuare
queste «difficoltà» e avessi desistito da «ulteriori tentativi», si domanda: cosa
avrei fatto di una donna cloroformizzata del villaggio di Dùl'cevo?
Più avanti:
«...È assolutamente vietato tentare di arrivare alla gamba lungo la schiena
del feto...».
Ne avrei tenuto conto.
«È da considerarsi errata la presa per la gamba che si trova più in alto,
perché in questo modo può facilmente prodursi una rotazione sull'asse del
feto, la quale può provocare una grave lesione del feto stesso e, quindi, le
conseguenze peggiori.»
«Le conseguenze peggiori.» Parole un po' vaghe, ma molto convincenti!
Che fare se il marito della donna di Dùl'cevo fosse rimasto vedovo? Mi
asciugai il sudore sulla fronte, raccolsi le forze e, saltando tutti quei passi
terribili, cercai cosa, praticamente, dovevo fare, come e dove introdurre la
mano. Ma, scorrendo le righe mi scontravo continuamente con nuove cose
orribili. Mi colpivano gli occhi.
«...per via del grave pericolo rappresentato dalle lacerazioni...»
«...i rovesciamenti interno e combinato sono, tra le operazioni ostetriche,
le più pericolose per la madre...»
E come accordo conclusivo:
«...ogni ora di indugio aumenta il pericolo».
Basta! La lettura aveva dato i suoi frutti: nella mia testa tutto si era
definitivamente confuso e di colpo mi resi conto di non capire nulla e in
primo luogo di non sapere quale rovesciamento, in pratica, dovessi effettuare:
combinato, non combinato, diretto, indiretto!...
Lasciai perdere il Doderlein e mi lasciai cadere sulla poltrona, sforzandomi
di rimettere in ordine i miei pensieri slegati... Poi diedi un'occhiata
all'orologio. Diavolo! Ero a casa già da dodici minuti. E là aspettavano.
«Ogni ora di indugio...»
Le ore sono fatte di minuti e i minuti in questi casi volano via frenetici.
Scaraventai da una parte il Doderlein e tornai di corsa all'ospedale. Era già
tutto pronto. L'infermiere stava vicino al tavolino e preparava la maschera e
una fiala di cloroformio. La partoriente giaceva già sul tavolo operatorio.
Nell'ospedale echeggiava, continuo, il suo lamento.
«Pazienza, pazienza», borbottava carezzevole Pelagèja Ivànovna,
chinandosi sulla donna, «adesso il dottore vi aiuta...»
«Oh, ohi! Non ce la faccio più... Oh, non ce la faccio! Non resisto!»
«Ma sì... ma certo...», brontolava l'ostetrica, «ce la farai! Adesso ti diamo
qualcosa da annusare; non sentirai nulla.»
Dai rubinetti scrosciò l'acqua e Anna Nikolàevna e io cominciammo a
pulirci e a lavarci le braccia nude fino al gomito. Anna Nikolàevna, tra i
lamenti e gli urli, mi raccontava di come il mio predecessore, un chirurgo
esperto, effettuasse i rovesciamenti. Io la ascoltavo avidamente cercando di
non lasciarmi sfuggire neanche una parola. E quei dieci minuti mi diedero di
più di tutto quanto avevo studiato di ostetricia per gli esami di Stato, dove,
proprio in ostetricia, avevo avuto «ottimo». Da parole slegate, frasi
frammentarie, allusioni buttate lì, imparai le cose più necessarie, quelle che
non si trovano in nessun libro. E al momento in cui cominciai ad asciugarmi
con una garza sterile le mani, di un biancore e di una pulizia ideali, la
risolutezza si impadronì di me e nella mia testa si delineò un piano
assolutamente preciso e fermo. Combinato o no, non era a questo che dovevo
pensare ora.
Tutte quelle parole dette in quel momento erano inutili. Era importante una
sola cosa: io dovevo introdurre una mano all'interno, con l'altra, dall'esterno,
dovevo facilitare il rovesciamento, e, affidandomi non ai libri, ma al senso
della misura, senza il quale un medico non vale niente, con attenzione, ma
con decisione, dovevo estrarre una gamba e quindi tutto il neonato.
Dovevo essere tranquillo e prudente, e nello stesso tempo infinitamente
deciso e coraggioso.
«Su», ordinai all'infermiere e cominciai a spalmarmi le mani di iodio.
Pelagèja Ivànovna subito compose le mani della partoriente, e l'infermiere
le coprì il viso sofferente con la maschera. Dall'ampolla giallo-scura
lentamente cominciò a stillare il cloroformio. Un odore dolce e nauseante
riempì la stanza. I visi delle infermiere e delle ostetriche divennero severi,
come ispirati...
«Ah, ah!», gridò improvvisamente la donna. Per qualche secondo si dibatté
convulsamente, cercando di gettare via la maschera.
«Tenetela!»
Pelagèja Ivànovna l'afferrò per le mani e gliele premette sul petto. La
donna gridò ancora un paio di volte, sottraendo il viso alla maschera. Ma
sempre più di rado... Borbottò con voce sorda:
«Ah, ah... lasciami!... ah...».
Poi sempre più debolmente. Nella stanza bianca si fece silenzio. Le gocce
trasparenti continuavano a cadere sulla garza bianca.
«Pelagèja Ivànovna, il polso?»
«Va bene.»
Pelagèja Ivànovna sollevò la mano della donna e la lasciò cadere; ricadde
sul lenzuolo, senza vita, come una frusta. L'infermiere, tolta la maschera,
esaminò la pupilla.
«Dorme.»
Una pozza di sangue. Le mie braccia insanguinate fino al gomito. Macchie
di sangue sulle lenzuola. Batuffoli e pezzi di garza rossi. E Pelagèja Ivànovna
già scuote il neonato e lo sbatte. Aksìnija, versando acqua nei catini, fa
rumore con i secchi. Tuffano il bimbo ora nell'acqua fredda, ora in quella
calda. Egli tace e la sua testa senza vita, come attaccata a un filo, dondola da
una parte all'altra. Ma ecco all'improvviso un cigolio o un sospiro, e subito
dopo il primo grido rauco.
«È vivo... è vivo...», brontola Pelagèja Ivànovna e adagia il neonato su un
cuscino.
E anche la madre è viva. Per fortuna non è successo nulla di terribile. Ecco,
io stesso tasto il suo polso. Già è nitido e regolare, e l'infermiere scuote
leggermente la donna per la spalla e dice:
«Su, zia, zia, svegliati!».
Buttano da una parte le lenzuola insanguinate e in fretta ricoprono la madre
con lenzuola pulite, poi l'infermiere e Aksìnija la portano in corsia. Il bimbo,
fasciato, parte sul cuscino. Il visino rugoso e marrone guarda dalla sua cuffia
bianca e non cessa il pigolìo sottile e piagnucoloso.
L'acqua scorre dai rubinetti dei lavandini. Anna Nikolàevna tira
avidamente dalla sua sigaretta, socchiude gli occhi per il fumo, tossisce.
«Dottore, l'ha fatto proprio bene, questo rovesciamento, così sicuro!»
Mi strofino diligentemente le mani con la spazzola, con la coda dell'occhio
ogni tanto la guardo: non ride, per caso? Ma sul suo viso c'è un'espressione
sincera di soddisfazione orgogliosa. Ho il cuore pieno di gioia. Guardo il
disordine bianco e di sangue che regna intorno, l'acqua rossa nella bacinella e
mi sento un vincitore.
Ma da qualche parte, giù in fondo, si agita il verme del dubbio.
«Vedremo cosa succederà», dico.
Anna Nikolàevna, meravigliata, alza gli occhi su di me.
«E cosa può succedere? È andato tutto bene.»
Io rispondo brontolando qualcosa di indefinito. Insomma, ciò che voglio
dire è questo «è davvero a posto? Non avrò fatto danno durante
l'operazione?...». È questo che tormenta il mio cuore. Perché le mie nozioni
di ostetricia sono così poco chiare, così libresche e incomplete! Lacerazioni!
E come si manifestano? E quando? Subito, o forse più là?... No, è meglio che
non cominci questo discorso.
«Beh, ne capitano tante», dico, «non si può escludere la possibilità di
un'infezione», ripeto la prima frase da manuale che mi viene in testa.
«Ah, questo!», fa tranquillamente Anna Nikolàevna, «se Dio vuole non
succederà nulla. E poi come potrebbe? È tutto sterilizzato, pulito.»
Era l'una passata, quando tornai a casa. Sul tavolo dello studio, nella
macchia di luce della lampada giaceva tranquillamente aperto sul capitolo I
pericoli del rovesciamento il Doderlein. Rimasi ancora circa un'ora seduto a
sfogliarne le pagine, bevendo il tè ormai freddo. A questo punto accadde una
cosa interessante: tutti i passi che mi erano sembrati oscuri si fecero
perfettamente comprensibili come si fossero riempiti di luce, e lì, al lume
della lampada, di notte, in quel posto sperduto, compresi che cosa sia il vero
sapere.
«In campagna si può fare molta esperienza», pensavo addormentandomi,
«però bisogna studiare, studiare di più... studiare...»
1925
La tormenta A volte urla come una fiera,
a volte piange come un bambino.
Tutta questa storia cominciò per via del fatto che, come diceva
l'onnisciente Aksìnija, lo scrivano Pàl'čikov, residente a Šalomèt'evo, si era
innamorato della figlia dell'agronomo. Un amore ardente, che aveva reso
esausto quel povero cuore. Egli fece un viaggio fino al capoluogo del
distretto, Gràčevka, e si fece fare un vestito. Un vestito splendido. Ed è molto
probabile che siano state le righine sui calzoni grigi dello scrivano a segnare
la sorte di quell'infelice. La figlia dell'agronomo acconsentì a diventare sua
moglie.
Io, medico dell'ospedale di N., circondario del governatorato di X, dopo
che ebbi amputato una gamba a una ragazza caduta nella maciulla, divenni
talmente celebre, che per poco non persi la vita sotto il peso della mia gloria.
Ogni giorno venivano a farsi visitare, per la strada spianata dalle slitte, cento
contadini. Cessai di pranzare. L'aritmetica è una scienza crudele.
Supponiamo che io impiegassi per ognuno dei miei pazienti soltanto cinque
minuti... Cinque! Cinquecento minuti sono otto ore e venti. Senza intervallo,
notate. Inoltre avevo un reparto con trenta degenti. E inoltre operavo. In una
parola, tornando dall'ospedale, alle nove di sera, non desideravo mangiare, né
bere, né dormire. Non volevo nulla; solo desideravo che non venissero a
chiamarmi per un parto. E capitava, invece, che mi portassero via, di notte,
sulla slitta, almeno cinque volte in due settimane.
Nei miei occhi apparve una luce scura e umida e sulla radice del mio naso
si formò una ruga verticale, come un verme. La notte vedevo, in una nebbia
fluttuante, operazioni mal riuscite, costole esposte, e le mie mani lorde di
sangue umano, e mi svegliavo attaccaticcio e freddo, nonostante il calore
della stufa di maiolica.
Durante la visita della mattina tenevo un'andatura decisa; mi seguivano
l'infermiere, l'infermiera e due portantine. Quando mi fermavo accanto a un
letto, sul quale, sciogliendosi di febbre e respirando faticosamente, soffriva
un uomo, cercavo di spremere dal mio cervello tutto ciò che conteneva. Le
mie dita scorrevano su quella pelle asciutta, bruciante, io guardavo dentro le
pupille, tamburellavo il torace, ascoltavo il cuore battere misteriosamente in
profondità. Portavo dentro di me una sola idea: come salvarlo? E salvare
quest'altro. E questo! Tutti!
Era in corso una battaglia. Cominciava ogni giorno al mattino, alla pallida
luce della neve e finiva sotto il giallo sfavillìo della potente lampada.
«Come finirà questa storia? Mi piacerebbe saperlo», mi dicevo la notte,
«perché è chiaro che continueranno a venire con le loro slitte in gennaio, in
febbraio e anche in marzo.»
Scrissi una lettera a Gràčevka, facendo gentilmente presente che, per il
circondario di N. era previsto un secondo medico. La lettera partì in slitta:
quaranta verste di oceano nevoso. Tre giorni dopo giunse la risposta:
dicevano che naturalmente, naturalmente... certo... ma non subito... per il
momento non veniva nessuno...
Chiudevano la lettera alcuni apprezzamenti positivi sul mio lavoro passato
e auguri per quello a venire.
Rianimato, ricominciai a mettere tamponi, a iniettare siero antidifterico, a
incidere ascessi di dimensioni mostruose, a ingessare...
Il martedì vennero non cento, ma centoundici persone. Terminai le visite
alle nove di sera. Mi addormentai cercando di prevedere quante ne sarebbero
venute il giorno dopo, mercoledì. Sognai che erano novecento.
Il mattino si affacciò alla finestra della mia stanza da letto particolarmente
bianco. Apersi gli occhi, non capivo cosa mi avesse svegliato. Poi mi resi
conto che avevano bussato alla porta.
«Dottore», riconobbi la voce dell'ostetrica Pelagèja Ivànovna. «È sveglio?»
«Eh, eh», risposi con la voce selvaggia del risveglio.
«Sono venuta a dirle di non affrettarsi a andare all'ospedale. Ci sono solo
due persone.»
«Che dice? Scherza?»
«Parola d'onore. C'è la tormenta, dottore, la tormenta», ripeté contenta,
attraverso il buco della serratura. «E questi due hanno i denti cariati. Glieli
toglie Dem'jàn Lùkič»
«Ma no...», e addirittura saltai giù dal letto, chissà poi perché.
Fu una giornata meravigliosa. Terminata la visita del mattino, per tutto il
giorno passeggiai nei miei appartamenti (al medico era riservata
un'abitazione di sei stanze e, chissà perché, a due piani: tre camere di sopra, e
la cucina e le altre tre stanze di sotto), fischiavo pezzi d'opera, fumavo,
tamburellavo sui vetri... Fuori dalla finestra succedeva qualcosa che io non
avevo mai visto. Non c'era più il cielo e neanche la terra. Il bianco turbinava e
volteggiava, di sbieco e per traverso, in lungo e in largo: sembrava che il
diavolo si fosse messo a giocare con la pasta dentifricia.
A mezzogiorno impartii a Aksìnija, che svolgeva mansioni di cuoca e di
domestica presso l'abitazione del medico, un ordine: far bollire tre secchi e un
paiolo d'acqua. Era un mese che non facevo il bagno.
Aksìnija e io tirammo fuori dal ripostiglio una tinozza di dimensioni
incredibili. La sistemammo sul pavimento in cucina. (Di vasche da bagno a
N. non c'era naturalmente neanche da parlarne. Ce n'erano solo all'ospedale e,
del resto, erano rotte.)
Verso le due del pomeriggio il reticolato turbinoso fuori dalla finestra si era
notevolmente diradato e io sedevo, nudo e con la testa insaponata, nella
tinozza.
«Questo mi piace...», borbottavo voluttuosamente, facendomi scorrere
l'acqua calda sulla schiena. «Questo mi piace! E poi, se permettete,
pranzeremo e poi andremo a dormire. E se dormirò abbastanza, che vengano
anche centocinquanta persone, domani! Che novità ci sono, Aksìnija?»
Aksìnija sedeva dietro la porta in attesa che avesse termine
l'operazione-bagno.
«Si sposa lo scrivano del podere di Šalomèt'evo», rispose.
«Ma no! Lei ha acconsentito?»
«Come no? L'amooo-ore...», cantò Aksìnija, facendo rumore con le
pentole.
«E è bella, la fidanzata?»
«Una vera bellezza. Bionda, sottile...»
«Dimmi un po'.»
In quel momento picchiarono alla porta. Rannuvolato, mi versai addosso
altra acqua e mi misi in ascolto.
«Il dottore sta facendo il bagno...», balbettava Aksìnija.
«Ba... ba..», faceva una voce di basso.
«C'è un biglietto per lei, dottore», piagnucolò Aksìnija attraverso il buco
della serratura.
«Passamelo per la porta.»
Saltai fuori dalla tinozza, stringendomi nelle spalle, indignato contro il
destino, e presi dalle mani di Aksìnija una busta umida.
«Questo poi no! Non lascio la mia tinozza. Sono un essere umano anch'io.»
Mi dissi non troppo sicuro e aprii la busta, di nuovo nel bagno.
Distinto collega, (grosso punto esclamativo). La scong. (cancellato) la
prego vivamente di venire subito. C'è una donna con una emorragia delle
cavità (cancellato) del naso e della bocca, a seguito di un colpo alla testa. È
svenuta. Non so cosa fare. La prego vivamente. I cavalli sono ottimi. Il polso
è cattivo. Ho della canfora. Dottor (firma illeggibile).
«Non sono fortunato nella vita», pensai tristemente, guardando la legna
calda nella stufa.
«È un uomo che ha portato il biglietto?»
«Sì.»
«Fallo entrare.»
Entrò, e mi parve un antico romano, per via del casco lucido che portava
sopra il berretto di pelo con i paraorecchi. Era avvolto in una pelliccia di lupo;
un soffio gelato mi colpì.
«Perché porta il casco?», domandai, mentre coprivo con un lenzuolo il mio
corpo non ancora lavato.
«Sono un pompiere di Šalomèt'evo. C'è la caserma, la...», rispose l'antico
romano.
«Chi è questo dottore che scrive?»
«È uno che era venuto a trovare il nostro agronomo. Un medico giovane. È
successa una disgrazia, e che disgrazia...»
«Chi è la donna?»
«La fidanzata dello scrivano.»
Aksìnija gemette dietro la porta.
«Cos'è successo?» (Si sentì il corpo di Aksìnija incollarsi all'uscio.)
«Ieri c'è stato il fidanzamento; e, dopo, lo scrivano voleva portarla a fare un
giro sulla slitta. Ha attaccato il cavallo da trotto, ha fatto accomodare la
ragazza e via, per il portone. Ma nel partire la bestia ha dato un tale strattone
che la fidanzata ha sbattuto la fronte contro il bordo della slitta. E così è
volata di fuori. Una disgrazia da non dire... Lo scrivano, lo tengono d'occhio,
perché non si impicchi. È uscito di senno.»
«Sto facendo il bagno», dissi pietosamente, «perché non l'avete portata
qui?» E mi versai acqua sulla testa. Il sapone scese nella tinozza.
«Non c'è da pensarci, egregio cittadino dottore!», disse il pompiere
emozionato e giunse le mani in segno di preghiera, «non è proprio possibile.
La ragazza morirebbe.»
«Come facciamo ad andare fin là? c'è la tormenta!»
«È passata. Cosa dice? È passata completamente. I cavalli sono svelti, uno
dietro l'altro. Facciamo una volata; in un'ora siamo là.»
Gemetti mansueto e uscii dalla tinozza. Mi rovesciai addosso due secchi
d'acqua esasperato. Poi mi accoccolai davanti alle fauci della stufa e ci infilai
dentro la testa per asciugarla almeno un po'.
«Mi prenderò sicuramente una polmonite. E crupale, dopo un viaggio
simile. E poi, in fondo, cosa le posso fare? Questo medico, si vede già dal
biglietto, ne sa meno di me. Io non so nulla, a parte quello che ho imparato in
sei mesi di pratica, ma lui neanche quello. Si vede che ha appena finito
l'università. Mi prende per uno che ha esperienza...»
Immerso in tali riflessioni, non mi accorsi neppure di essermi già vestito. E
dire che non era una cosa semplice! I calzoni, la camicia, gli stivali di feltro,
sopra la camicia una giacca di cuoio, poi il cappotto e, sopra, una pelliccia di
agnello, il berretto di pelo, la borsa con la caffeina, la canfora, la morfina,
l'adrenalina, le pinzette a torsione, materiale sterilizzato, una siringa, la
sonda, la brauning, le sigarette, i fiammiferi, l'orologio e lo stetoscopio.
Sembrava che non ci fosse nulla da temere, sebbene scendesse la sera; il
giorno già si struggeva, quando uscimmo dal cortile. Nevicava di meno. Per
traverso, in una sola direzione, da destra.
Il pompiere, come una montagna, mi nascondeva la groppa del primo
cavallo. Effettivamente le bestie partirono allegramente, allungarono il collo
e la slitta si lanciò per i fossi. Mi abbandonai sul fondo, subito mi riscaldai,
pensai alla polmonite crupale, al fatto che forse la ragazza aveva una frattura
interna del cranio, che una scheggia poteva esserlesi conficcata nel cervello...
«Sono i cavalli dei pompieri?», domandai attraverso il collo d'agnello.
«Mmmh... mmh..», mugolò il vetturino, senza voltarsi.
«E il dottore cosa le ha fatto?»
«Ma lui... uuh, uuh... vedi, quello ha studiato per malattie veneree... uuh,
uuh...»
«Uuh... uuh..», urlò nel bosco la tormenta, poi fischiò da un lato e venne
giù... Fui cullato, cullato, cullato, finché non mi ritrovai a Mosca ai bagni
Sandunòvskij. Proprio nello spogliatoio, ancora con la pelliccia, mi coprii di
sudore. Poi si accese una fiaccola, qualcuno lasciò entrare il freddo, io aprii
gli occhi e vidi splendere un elmo rosso sangue, pensai che ci fosse un
incendio... poi tornai in me e compresi che eravamo arrivati. Mi trovavo sulla
soglia di un edificio bianco con le colonne, evidentemente dell'epoca di
Nicola I. Intorno la tenebra era profonda; mi accolsero i pompieri e la fiamma
danzava sulle loro teste. Tirai fuori da sotto la pelliccia l'orologio e vidi che
erano le cinque; eravamo dunque in viaggio da due ore e mezza e non da una.
«Preparatemi subito i cavalli per tornare indietro», dissi.
«Va bene», rispose il vetturino.
Mezzo assonnato e umido nella giacca di cuoio, come in un impacco,
varcai la soglia. Da una parte si accese una lampada e una striscia di luce si
posò sul pavimento verniciato. In quel momento corse fuori un giovane dai
capelli chiari, gli occhi spiritati, la piega dei calzoni stirata di fresco. La
cravatta bianca a pallini neri gli era andata per traverso, il pettino gli veniva
fuori come una gobba, ma la giacca era nuova fiammante, con delle pieghe
quasi metalliche.
L'uomo agitò le mani, si aggrappò alla mia pelliccia, si strinse e cominciò a
gridare sommesso:
«Carissimo mio... dottore... presto... muore. Io sono un assassino». Guardò
da una parte, spalancò gli occhi neri e selvaggi e disse a qualcuno: «Sono un
assassino, ecco cosa».
Poi scoppiò in singhiozzi, si afferrò i capelli radi e cominciò a strapparli, e
io vidi che si arrotolava le ciocche intorno alle dita e le strappava davvero.
«La smetta», gli dissi e gli strinsi un braccio. Qualcuno lo condusse via. Si
affacciarono alcune donne. Mi levarono la pelliccia e mi fecero passare sui
pavimenti puliti per la festa fino a un letto bianco. Un giovanissimo medico si
alzò da una sedia e mi venne incontro. I suoi occhi erano tormentati e
sperduti. Per un istante il fatto che io fossi giovane come lui li accese di
stupore. E difatti ci somigliavamo come due ritratti della stessa persona, e
anche fatti nello stesso anno. Ma poi egli si rallegrò talmente nel vedermi, che
si mise addirittura a balbettare:
«Come sono contento... collega... ecco... vede... le pulsazioni
diminuiscono. Io, veramente, sono specialista in venereologia. Sono
estremamente felice che lei sia venuto...».
Sul tavolo, appoggiata a un batuffolo di garza, giaceva una siringa con
alcune fiale di liquido giallo, oleoso. Si udiva il pianto dello scrivano fuori
della porta, che qualcuno accostò; alle mie spalle apparve una figura vestita
di bianco. La camera da letto era in penombra. La lampada, in un canto, era
stata ricoperta con un panno verde. E sul cuscino, in quell'ombra verdastra,
era adagiato un viso cartaceo. I capelli chiari pendevano in ciocche sparse. Il
naso si era affilato e le narici erano state riempite di ovatta che il sangue
aveva fatto rosa.
«Il polso...», mi sussurrò il medico.
Io presi quella mano senza vita, con un gesto ormai abituale, tastai con le
dita e sussultai. Sentivo un battito tenue, frequente, poi cominciò a mancare,
a tendersi in un filo. Mi passò un brivido per la schiena, come sempre, quando
vedo in faccia la morte. Io la odio. Feci in tempo a spezzare una fiala e ad
aspirare in una siringa il denso liquido. Ma lo iniettai macchinalmente
oramai, lo spinsi invano sotto la pelle del braccio della ragazza. La sua
mandibola si tese in una contrazione, come se ella soffocasse, poi cadde in
giù, il suo corpo si inarcò sotto la coperta, sembrò fermarsi, poi si rilassò. E
l'ultimo filo si perse sotto le mie dita.
«È morta», dissi all'orecchio del dottore.
La bianca figura dai capelli candidi cadde sulla coperta distesa, si
inginocchiò e cominciò a tremare.
«Piano, piano», dissi alla donna vestita di bianco, mentre il dottore gettava
un'occhiata sofferente in direzione della porta
«Mi ha martirizzato», disse molto piano.
Facemmo così: lasciammo la madre in lacrime nella camera da letto, non
dicemmo nulla a nessuno, conducemmo lo scrivano in una camera più
lontana. Là io gli dissi:
«Se non si lascia fare un'iniezione, noi non possiamo far niente. Lei ci
tormenta. Ci impedisce di lavorare».
Allora acconsentì; piangendo piano, si tolse la giacca; noi rimboccammo la
manica della sua camicia nuova da fidanzato e gli facemmo un'iniezione di
morfina. Il medico se ne andò dalla morta, come dovesse assisterla, ed io mi
trattenni accanto allo scrivano. La morfina agì più rapidamente di quanto mi
aspettassi. In un quarto d'ora, lo scrivano, lamentandosi e piangendo sempre
più piano e in modo più sconnesso, cominciò a sonnecchiare, poi appoggiò
sulle braccia il viso segnato dalle lacrime e si addormentò. E non sentì la
confusione, il pianto, il fruscio e i lamenti soffocati.
«Ascolti, collega, partire è pericoloso. Potete perdervi», mi diceva il
medico sottovoce, nell'ingresso. «Resti, pernotti qui...»
«No, non posso. Partirò a qualunque costo. Mi hanno promesso che mi
avrebbero riportato subito indietro.»
«Ma sì, loro la riportano, solo faccia attenzione...»
«Ho tre ammalati di tifo, che non posso abbandonare. Debbo vederli di
notte.»
«Beh, veda un po' lei...»
Egli allungò un po' di alcol puro con acqua e me lo diede da bere, e io,
sempre lì nell'ingresso, inghiottii un pezzo di prosciutto.
Lo stomaco si riscaldò e nel cuore l'angoscia si attutì. Entrai un'ultima volta
nella stanza da letto, guardai la morta, passai dallo scrivano, lasciai una fiala
di morfina al medico e, tutto imbacuccato, uscii sul terrazzino d'ingresso.
Fuori la tormenta fischiava, e i cavalli, frustati dalla neve, parevano abbattuti.
Si agitava una fiaccola.
«La strada la sa?», domandai coprendomi la bocca.
«La strada la sappiamo», rispose molto triste il vetturino. (Ormai non
portava più l'elmo.) «Ma se restasse a dormire qui, lei...»
Perfino il paraorecchi del suo berretto diceva che avrebbe preferito morire
piuttosto che partire.
«Deve restare», aggiunse un altro, che teneva la fiaccola indiavolata, «in
campagna è brutto.»
«Dodici verste», brontolai, cupo, «ce la faremo. Ho degli ammalati
gravi...», e mi arrampicai sulla slitta.
Confesso che non aggiunsi che la sola idea di rimanere in una casa visitata
dalla sventura, e dove io ero inutile e impotente, mi riusciva insopportabile.
Il vetturino, senza ormai alcuna speranza, cadde in serpa, si accomodò, di
dondolò e uscimmo di corsa dal portone. La fiaccola sparì, come se fosse
sprofondata, o forse si spense. Ma un minuto dopo, la mia attenzione fu
richiamata da un'altra cosa. Voltatomi a fatica, vidi che non solo non c'era più
la fiaccola, ma tutto Šalomèt'evo, con le sue case, era sparito come in un
sogno. Avvertii una fitta spiacevole.
«Mah, questa è buona...», pensai o brontolai. Per un momento tirai fuori il
naso, ma subito lo ricacciai dentro, tanto si stava male. Tutto il mondo si era
arrotolato in un gomitolo e veniva sballottato da una parte all'altra.
Un'idea mi attraversò la testa: e se tornassimo indietro? Ma io la respinsi,
mi lasciai andare giù nel fieno sul fondo della slitta, come in una barca, mi
raggomitolai, chiusi gli occhi. Subito mi apparve il panno verde della
lampada e il viso bianco. Improvvisamente ebbi la folgorazione: «Una
frattura della base del cranio... Sì, sì, sì... Aah!... proprio così!» Si accese in
me la certezza di aver formulato la diagnosi giusta. Poi pensai: ma a cosa
serve? Adesso non serve a niente, e neppure prima sarebbe servito. Cosa gli si
può fare? Che sorte terribile! Com'è stupido e spaventoso vivere in questo
mondo! Che succederà adesso in casa dell'agronomo? Soltanto pensarci, fa
venire la nausea e l'angoscia! Poi provai pietà per me stesso: com'era difficile
la mia vita. La gente ora dormiva, le stufe erano accese e io non avevo potuto
neanche finire di fare il bagno. La tormenta mi trascinava al pari di un foglio
di carta. E poi, arrivato a casa che fossi, non c'era niente di più facile, che
venissero a prendermi per portarmi da qualche altra parte. Mi sarei buscato
una polmonite e sarei morto lì... E così, impietosito di me stesso, mi
abbandonai alla tenebra, ma non so quanto tempo ci rimasi. Non capitai in un
bagno e cominciai, invece ad avere freddo. E sempre più freddo.
Quando aprii gli occhi, scorsi una schiena nera e soltanto poi mi resi conto
che stavamo fermi.
«Siamo arrivati?», domandai sgranando gli occhi. Il nero vetturino si
mosse tristemente, di colpo scese giù, mi parve che qualcosa lo facesse
rigirare da tutte le parti... e disse senza alcuna deferenza ormai:
«Arrivati, arrivati... Bisognava dare ascolto alla gente... E clic roba è
questa! Ci perderemo e noi perderemo i cavalli...».
«Possibile che abbiamo perso la strada?» Mi passò un brivido per la
schiena.
«Ma che strada e strada!», rispose il vecchio vetturino con voce turbata.
«Per noi adesso tutto il mondo è una strada. Ci siamo perduti per nulla... Sono
quattro ore che siamo in viaggio, e dove andiamo?... Ma guarda che roba!...»
Quattro ore. Cominciai a darmi da fare, trovai l'orologio e tirai fuori i
fiammiferi. A che scopo? Era inutile; neanche un fiammifero si accese.
Strofinavi, quello risplendeva e subito si spegneva.
«Dico, quattro ore», fece il vetturino, funebre, «che facciamo, adesso?»
«Ma ora dove siamo?»
La domanda era talmente sciocca, che il vetturino non ritenne necessario
rispondere. Si rigirava da tutte le parti, ma a momenti mi pareva che stesse
immobile e fossi io a girare sulla slitta. Mi tirai fuori a stento e subito vidi che
vicino al pattino la neve mi arrivava al ginocchio. Il cavallo di dietro era
impantanato fino al ventre in un mucchio di neve. La criniera gli scendeva
giù, come i capelli sciolti di una donna.
«Si sono fermati da soli?»
«Sì, non ne potevano più.»
Improvvisamente mi tornarono in mente certi racconti e, chissà perché,
odiai Lev Tolstoj. «Lui sì che stava bene a Jàsnaja Poljàna», pensai, «mica lo
portavano dai moribondi...»
Provai pena per il pompiere e per me stesso. Poi di nuovo una vampa di
terrore selvaggio. Ma lo soffocai in petto.
«Questa è vigliaccheria», borbottai tra i denti. Colsi un impeto di energia
dentro di me.
«Ecco, zietto», cominciai a dire, sentendo che i denti mi si serravano, «qui
non bisogna lasciarsi prendere dallo sconforto, sennò davvero andiamo a
finire male. Adesso sono stati un po' fermi, si sono riposati, bisogna andare
avanti. Lei vada, prenda il cavallo davanti per la briglia e io guiderò. Bisogna
andar via, altrimenti saremo ricoperti.»
I paraorecchi del suo berretto avevano un'aria disperata, tuttavia il vetturino
si avviò. Arrancando e affondando, si trascinò sino al primo cavallo. La
partenza mi parve infinitamente lunga. La figura del vetturino era sparita. La
neve secca della tormenta mi colpiva gli occhi.
«O-ooh», si lamentava il vetturino.
«O-ooh», gridavo io, facendo schioccare le redini.
I cavalli si mossero lentamente, cominciarono a trascinarsi. La slitta si
dondolava, come su un'onda. Il vetturino a momenti diventava più grande,
poi più piccolo, mentre si spingeva in avanti.
Per circa un quarto d'ora ci muovemmo così, finché non sentii la slitta
scricchiolare più regolarmente. Fui invaso dalla gioia quando vidi brillare gli
zoccoli posteriori dei cavalli.
«Ecco la strada!», gridai.
«Oh, oh...», rispose il vetturino. Si trascinò fino a me e subito sembrò più
grande.
«A quanto pare, è la strada», rispose felice il pompiere, quasi con un trillo
nella voce. «Basta non perdersi di nuovo... Forse...»
Ci scambiammo i posti. I cavalli si incamminarono più vivaci. La tormenta
si era placata, cominciava a scemare, così almeno mi parve. Ma in alto, e da
ogni parte, non c'erano altro che turbini. Io ormai non desideravo di arrivare
proprio all'ospedale. Volevo arrivare in un posto qualsiasi. E una strada porta
sempre a un'abitazione.
Improvvisamente i cavalli dettero uno strappo alla slitta e si misero a
trottare più allegramente. Io ne fui contento, pur non conoscendo ancora la
ragione di quel mutamento.
«Forse hanno sentito odore di casa?», domandai. Il vetturino non mi
rispose. Io mi alzai sulla slitta, presi a guardarmi intorno. Uno strano suono,
angoscioso e cattivo, echeggiò da qualche parte nel buio, ma subito si spense.
Chissà perché ebbi una sensazione spiacevole e mi tornò in mente lo scrivano
e il suo lamento acuto, quando aveva appoggiato la testa sulle braccia. A un
tratto, vidi alla mia destra un punto scuro che crebbe fino a diventare un gatto
nero; poi crebbe ancora e si avvicinò. Il vetturino si volse improvvisamente
verso di me, e io potei vedere che gli tremava la mascella; domandò:
«Ha visto, cittadino dottore?».
Un cavallo si gettò a destra, l'altro a sinistra, il pompiere mi cadde per un
secondo sulle ginocchia; gemette, si tirò su, si puntellò e cominciò a tirare le
redini. I cavalli nitrirono e partirono di corsa. Sollevavano fiocchi di neve, li
facevano volare, correvano in modo ineguale, tremavano.
Anche il mio corpo fu ripetutamente percorso da brividi. Tornato in me,
misi una mano nella giubba, tirai fuori la brauning e maledissi me stesso per
aver dimenticato a casa il caricatore di riserva. No, se non ero voluto restare a
dormire là, perché non avevo almeno preso con me la fiaccola? ! Immaginai
il giornale che riportava una breve notizia su di me e sullo sfortunato
pompiere.
Il gatto crebbe fino a diventare cane e scivolò non lontano dalla slitta. Io mi
voltai e vidi proprio dietro a noi un altro quadrupede. Posso giurare che aveva
le orecchie aguzze e correva leggero come su un parquet. C'era qualcosa di
minaccioso e di sfacciato nel suo atteggiamento. «Sono un branco, o solo
due?» pensai, e alla parola «branco» mi sentii inondare di pece liquida sotto
la pelliccia, mentre le dita dei miei piedi non erano più gelate.
«Tienti forte e trattieni i cavalli, adesso sparo», dissi con una voce che non
mi parve più mia.
Per tutta risposta il vetturino gemette e ritirò la testa tra le spalle. Fui
accecato e assordato. Una volta, due, tre. Non ricordo per quanti minuti
rimasi a tremare sul fondo della slitta. Sentivo lo sbuffo selvaggio e stridulo
dei cavalli, stringevo la brauning, battevo la testa, cercavo di emergere dal
fieno e, in preda a un terrore mortale, pensavo che a un tratto avrei potuto
ritrovarmi addosso l'enorme corpo muscoloso. Già mi figuravo il mio
intestino dilaniato...
«Ooh... oh... via... Vi-ia... Signore, portaci fuori, portaci via...»
Io venni infine a capo della pesante pelle di pecora, liberai le mani, mi
alzai. Le belve nere non si vedevano più. La neve scendeva rara e discreta e,
attraverso quel velo sottile, baluginava un occhio incantevole, che avrei
riconosciuto tra mille, che riconoscerei anche oggi: il fanale del mio
ospedale. Alle sue spalle si accatastava l'oscurità. «Quant'è più bello di un
palazzo...» e, come in estasi, d'improvviso sparai ancora due colpi con la
brauning nella direzione in cui erano spariti i lupi.
Il pompiere stava a metà della scala che conduce al piano superiore della
meravigliosa abitazione del dottore, io stavo in cima e Aksìnija, con un
pastrano, in fondo.
«Mi dovrà coprire d'oro», cominciò a dire il vetturino, «perché io, un'altra
volta...» Non finì, bevve d'un fiato l'alcol allungato e soffiò in maniera
orribile, si volse verso Aksìnija, stendendo le braccia per quanto gli era
possibile:
«Della grandezza...».
«È morta? Non l'ha salvata?», mi domandò Aksìnija.
«È morta», risposi indifferente,
Un quarto d'ora dopo era silenzio. Dabbasso la luce fu spenta. Io rimasi di
sopra da solo. Sorrisi convulsamente, senza motivo. Mi sbottonai la camicia,
poi la riabbottonai, andai verso lo scaffale dei libri, presi un volume di
chirurgia; volevo guardar qualcosa sulle fratture della base cranica, ma gettai
via il libro.
Quando mi spogliai e scivolai sotto le coperte fui preso da un tremito, poi
mi calmai e tutto il mio corpo si riscaldò.
«Mi dovrete coprire d'oro», brontolai sonnecchiando, «ma io non mi
muov...»
«Ci andrai, ci andrai...», fischiò con scherno la tormenta. Passò con
fracasso sul tetto, poi cantò nei tubi, ne uscì, frusciò vicino alla finestra e si
perse.
«Ci andrà... ci an-drà...» batteva l'orologio, sempre più sordo.
E più niente. Silenzio. Sonno.
1926
Oscuro, come una notte egiziana Cosa fa il mondo il giorno del mio compleanno? Dove sono i lampioni di
Mosca? La gente? Il cielo? Dietro i vetri non c'è nulla! La tenebra...
Siamo tagliati fuori dal mondo. I lampioni a gas più vicini si trovano a nove
verste da qui, alla stazione ferroviaria. Là, c'è forse un fanalino che
occhieggia, soffoca nella tormenta. A mezzanotte passerà con un fischio il
rapido per Mosca e non si fermerà neanche, non sa che farsene di una
stazione dimenticata, sepolta nella tempesta. Forse, se la neve ricoprisse le
rotaie...
I lampioni elettrici più vicini sono a quaranta verste, nel capoluogo del
distretto. Là, la vita è dolce. C'è il cinema, ci sono i negozi. Mentre sui campi
scende la neve e ulula il vento, sullo schermo dondola un giunco, si piegano
le palme, appare un'isola tropicale...
E noi soli.
«Una tenebra da Egitto», osservò l'infermiere, Dem'jàn Lùkič, sollevando
la tenda.
Si esprime solennemente, con molta precisione. Già, proprio una tenebra
da Egitto.
«Prego, ancora un bicchierino», offrii. (Non disapprovateci: un medico,
l'infermiere, due ostetriche, anche noi siamo esseri umani! Per mesi interi non
vediamo nessuno, eccetto gli ammalati, a centinaia. Lavoriamo, siamo sepolti
nella neve. Perché non dovremmo bere un paio di bicchierini di alcol,
allungato secondo le regole, e accompagnato con alicette di produzione
locale nel giorno del compleanno del medico?).
«Alla sua salute, dottore!», disse Dem'jàn Lùkič, commosso.
«Le auguriamo di abituarsi alla nostra vita!» disse Anna Nikolàevna e, nel
brindare, si rassettò l'abito della festa, tutto arabeschi.
L'altra levatrice, Pelagèja Ivànovna, brindò, bevve un poco e subito si
accovacciò davanti alla stufa e smosse il fuoco con l'attizzatoio. Uno
splendore caldo passò sui nostri visi, la vodka ci scaldava il cuore.
«Io non mi spiego proprio», dissi agitato, guardando la nuvola di scintille
che sprizzavano sotto l'attizzatoio, «cosa abbia fatto quella donna con la
belladonna. È una cosa terribile!»
Sui visi dell'infermiere e delle ostetriche aleggiò un sorriso. La storia era
questa. Quel giorno, di mattina, era venuta da me, allo studio, una contadina
colorita, sui trent'anni. Si inchinò davanti alla sedia ginecologica, posta dietro
di me, poi tirò fuori un flacone dal collo largo e canterellò adulatrice:
«Grazie, cittadino dottore, per le gocce. Mi hanno fatto così bene, ma così
bene...! Per favore, me ne dia ancora una boccetta».
Le presi dalle mani il flaconcino, diedi una occhiata all'etichetta e mi parve
di vedere verde. Sull'etichetta era scritto, con i larghi caratteri di Dem'jàn
Lùkič, «Tinct. Belladonn.... etc. 16 dicembre 1917.»
In altre parole, ieri avevo prescritto alla donna una notevole dose di
belladonna e oggi, il giorno del mio compleanno, diciassette dicembre, lei era
tornata con il flacone asciutto a chiedere una nuova prescrizione.
«Tu... tu l'hai presa tutta ieri?», domandai con voce selvaggia.
«Tutta, bàtjuška, caro, tutta», cantò la donnetta con voce pastosa. «Che Dio
le dia salute per queste gocce... Mezza boccetta appena arrivata, e mezza
prima di coricarmi. Mi ha fatto rinascere...»
Mi chinai sulla sedia ginecologica.
«Quante gocce ti avevo detto di prendere?», cominciai con voce soffocata.
«Cinque gocce per volta.. Cosa fai, donna? Tu... Io...»
«Le giuro, l'ho presa», diceva la donna, pensando che io non credessi che si
era curata con la mia belladonna.
Le presi con le mani le guance colorite e mi misi a guardarle le pupille. Ma
le pupille erano a posto. Abbastanza belle, assolutamente normali. Anche il
polso era buono. E in genere non si riscontrava nessun sintomo di
avvelenamento da belladonna.
«Non può essere!...», cominciai a dire e urlai.
«Dem'jàn Lùkič! ! !»
Dem'jàn Lùkič, in camice bianco, accorse dal corridoio della farmacia.
«Guardi, Dem'jàn Lùkič, cosa ha fatto questa bellezza! Io non ci capisco
nulla...»
La donna voltava la testa, spaventata; capiva di essere in colpa. Dem'jàn
Lùkič si impadronì del flacone, lo annusò, lo rigirò fra le mani e proferì
severamente:
«Tu menti, mia cara, tu non l'hai presa, la medicina!».
«Lo giù...», cominciò la donna.
«Donna, non cercare di buttarci fumo negli occhi», diceva Dem'jàn Lùkič
duramente e torcendo la bocca, «noi sappiamo perfettamente ogni cosa. Di' la
verità, chi hai voluto curare, con quelle gocce?»
La donna alzò al soffitto imbiancato quei suoi occhi del tutto normali e si
fece il segno della croce.
«Ecco, perché mi...»
«Lascia perdere», borbottò Dem'jàn Lùkič, e si rivolse a me:
«Lo sa, dottore, come fanno. Viene una così all'ospedale, le prescrivono
una medicina, e quando arriva al villaggio, ne offre a tutte le donne».
«Ma che dice, cittadino infermiere....»
«Lascia stare», tagliò corto l'infermiere. «Sono otto anni che sto qui. So
bene. Certamente ha sgocciolato la boccetta dappertutto», continuò rivolto a
me.
«Datemene ancora di queste goccette», chiese la donna dolcemente.
«Eh no, donna», risposi asciugandomi il sudore sulla fronte. «Non ti
curerai più con queste gocce. Va meglio la pancia?»
«Ma mi ha fatto proprio rinascere.»
«Beh, magnifico. Te ne dò delle altre, pure buonissime.»
E prescrissi alla donna valeriana e quella, delusa, se ne andò.
Proprio di questo fatto stavamo parlando, riuniti nel mio appartamento di
dottore, il giorno del mio compleanno, mentre oltre i vetri, come un pesante
sipario, si stendeva l'oscurità, tempestosa e fonda, come una notte egiziana.
«Ecco», diceva Dem'jàn Lùkič, masticando delicatamente il pesce sott'olio,
«ecco: noi qui ci siamo abituati oramai. Ma lei, caro dottore, dopo
l'università, dopo la capitale, farà molta, molta fatica ad abituarsi. È la
provincia!»
«E che provincia!» fece eco Anna Nikolàevna.
La bufera fischiò da qualche parte nei camini, frusciò dietro il muro. Un
riflesso rossastro venne a posarsi sulla lamiera scura vicino alla stufa. Sia
benedetto il fuoco che riscalda in provincia il personale sanitario.
«Le hanno parlato del suo predecessore, Leopòl'd Leopòl'dovič?»,
cominciò a dire l'infermiere e si accese una sigaretta, dopo averne offerto con
delicatezza ad Anna Nikolàevna.
«Era un dottore meraviglioso!», proferì entusiasta Pelagèja Ivànovna,
fissando gli occhi splendenti sul fuoco benefico. Un pettinino nuovo con
pietre false brillava a tratti tra i suoi capelli neri.
«Eh sì, una persona straordinaria», confermò l'infermiere. «I contadini lo
adoravano addirittura. Li sapeva prendere. Se bisognava farsi operare da
Lipòntij, erano pronti! Lo chiamavano Lipòntij Lipònt'evič invece di
Leopòl'd Leopòl'dovič. Avevano fiducia in lui, Beh, lui sapeva parlare con
loro. Senta, una volta andò da lui un suo conoscente, Fjòdor Kosòj, da
Dùl'cevo a farsi visitare. "Così e così", dice, "Lipòntij Lipònt'evič, ho come
un peso sul petto, non riesco a respirare. E poi mi sembra di essere stato
graffiato in gola"....»
«Laringite», dissi macchinalmente io, che in un mese al villaggio avevo
ormai fatto l'abitudine a fare delle diagnosi fulminee.
«Esatto. "Beh", dice Lipòntij, "ti dò una medicina. Fra due giorni sarai a
posto. Questi sono cataplasmi francesi. Te ne metti uno sulla schiena, tra le
scapole, l'altro sul petto. Li tiene dieci minuti e li togli. Marsch! Eseguire!".
Quello prese i cataplasmi e partì. Dopo due giorni torna a farsi vedere. "Che
succede?", domanda Lipòntij. E Kosòj, di rimando: "Ecco", dice, "Lipòntij
Lipònt'evič, non mi fanno niente i suoi cataplasmi". "Menti!", rispose
Lipòntij Lipònt'evič, "non è possibile che i senapismi francesi non ti abbiano
fatto nulla. Probabilmente non te li sei messi.'' "Come, non me li sono
messi?" dice, "ce li ho anche adesso..." E volta la schiena. L'impiastro stava
attaccato sul cappotto!...»
Io scoppiai a ridere e Pelagèja Ivànovna ridacchiò e batté l'attizzatoio su un
ciocco.
«Scusate, questa è una barzelletta», dissi, «non è possibile!»
«Una barzelletta?! Una barzelletta?!», esclamarono le ostetriche a una
voce.
«Eh no», proruppe inferocito l'infermiere, «da noi, sa, tutta la vita è una
storia così... Qui da noi succedono certe cose...»
«E lo zucchero?!», disse Anna Nikolàevna. «Racconti la storia dello
zucchero, Pelagèja Ivànovna!»
Pelagèja Ivànovna socchiuse lo sportelletto della stufa e cominciò a dire:
«Una volta vado, sempre a Dùl'cevo, da una partoriente...».
«Questo Dùl'cevo è un posto famoso», non si trattenne l'infermiere e
aggiunse, «mi scusi, continui, collega!»
«Beh, naturalmente, faccio la visita», continuò l'ostetrica, Pelagèja
Ivànovna, «e sento, sotto le dita, nella vagina, qualcosa di strano... In polvere,
o a pezzetti... insomma zucchero!»
«Ecco una bella storia», osservò solennemente Dem'jàn Lùkič.
«Scusate... non capisco...»
«Donnacola!», rispose Pelagèja Ivànovna. «È stata una megera ad
insegnarglielo. Dice che il parto era difficile. Il bambino non voleva venire al
mondo. E perciò bisognava invogliarlo. E così, ecco, l'hanno attirato con il
dolce.»
«È terribile!», dissi io.
«Alle partorienti danno da masticare capelli», disse Anna Nikolàevna.
«E perché?!»
«E che ne so, io! È capitato almeno tre volte. La povera donna sta a letto e
sputa. Tutta la bocca piena di capelli. C'è una credenza, secondo la quale il
parto così è più facile...»
Gli occhi delle levatrici brillarono al ricordo. Restammo ancora a lungo
intorno al tavolo del tè e io ascoltavo come incantato. Di come, quando capita
di portare una partoriente da un villaggio al nostro ospedale, Pelagèja
Ivànovna si mette sempre dietro con la sua slitta: per evitare che, per la
strada, ci ripensino e rimettano la donna in mano alla strega.
Di come una volta avevano appeso al soffitto per le gambe una partoriente,
perché il bambino, che era in posizione giusta, si voltasse. Di come una
donna di Koròbovo, che aveva sentito dire che i medici bucano la placenta
con un coltello da tavola, fece a pezzi la testa del bambino, al punto che
neanche un uomo famoso e abile come Lipòntij, lo poté salvare, e anzi, per
fortuna, riuscì a salvare la madre. Di come...
La stufa era spenta da un pezzo. I miei ospiti erano tornati a casa. Per un po'
di tempo potei vedere la finestrella di Anna Nikolàevna fiocamente
illuminata. Poi la luce si spense e tutto sparì. La densa notte di dicembre si
mescolò alla bufera e un velo nero mi nascose la terra e il cielo.
Passeggiai un po' per lo studio, il pavimento scricchiolava sotto i miei
passi, la stufa di maiolica scaldava bene e da qualche parte si sentiva un topo
rosicchiare indaffarato.
«Beh, no», pensai, «mi batterò contro questa oscurità, per tutto il tempo che
il destino mi terrà qui in provincia. Lo zucchero, ma ditemi un po'!...»
Tra i miraggi apparsi alla luce della lampada dal paralume verde, mi
apparve l'enorme città universitaria e la clinica e l'enorme sala, il pavimento
di mattonelle, i rubinetti splendenti, le lenzuola bianche e sterilizzate,
l'assistente con la sua barbetta saggia, grigia e appuntita...
In momenti così, sentir picchiare alla porta mette in allarme, spaventa. Io
sobbalzai.
«Chi c'è di là, Aksìnija?», domandai sporgendomi dalla balaustra della
scala interna (l'appartamento riservato al dottore era a due piani: di sopra
c'erano lo studio e le camere da letto; di sotto, la sala da pranzo, un'altra
camera, la cui funzione non era ben chiara e la cucina, in cui abitava anche la
cuoca, Aksìnija, insieme con il marito, l'unico guardiano dell'ospedale).
Si udì il rumore del pesante catenaccio, insieme con un lume, che prese a
dondolare al piano di sotto, entrò un soffio di freddo.
Poi Aksìnija riferì:
«È arrivato un malato...».
Per dire la verità, fui contento. Non avevo ancora sonno e poi mi ero sentito
un po' triste e solo per via dei ricordi e del rumore dei topi. Inoltre si trattava
di un malato, cioè non di una donna, cioè non del peggio, un parto.
«Cammina?»
«Sì», rispose Aksìnija, sbadigliando.
«Fallo salire nello studio.»
La scala scricchiolò a lungo, Era una persona robusta, pesante, quella che
saliva. Intanto mi ero già seduto alla scrivania, cercando di impedire, per
quanto era possibile, alla mia vivacità giovanile di lasciarsi intravedere sotto
la scorza professionale da Esculapio che mi ero fabbricato. Tenevo la mano
destra sullo stetoscopio, come su di un revolver.
Dalla porta entrò una sagoma avvolta in una pelliccia di montone e con gli
stivali di feltro. Teneva in mano il berretto di pelo.
«Come mai così tardi, bàtjuškal», domandai serio, ma anche per scarico di
coscienza.
«Mi scusi, cittadino dottore», rispose l'uomo con una voce di basso dolce e
piacevole. «La bufera è proprio una rovina! E così, abbiamo fatto tardi; che ci
si può fare, mi scusi, la prego!»
«Una persona gentile», pensai soddisfatto. Quel tipo mi era piaciuto molto
e persino la folta barba rossiccia mi aveva fatto una buona impressione: era
chiaramente una barba cui veniva dedicata una certa cura. Il suo proprietario
non solo la tagliava, ma la ungeva anche con una sostanza che un medico, per
quanto nuovo del villaggio, non aveva difficoltà a riconoscere come olio
vegetale
«Cos'è successo? Si tolga la pelliccia. Da dove viene?»
Il cappottone si accasciò sulla sedi: sembrava una montagna.
«Mi tormenta la febbre», rispose l'ammalato, lanciandomi un'occhiata
triste!
«La febbre! Ah, lei è di Dùl'cevo?»
«Esattamente. Sono il mugnaio.»
«E cosa si sente? Mi dica!»
«Ogni giorno, verso mezzogiorno, mi comincia a dolere la testa, poi mi
viene un caldo... Mi fa tremare per circa due ore e poi mi lascia.»
«Diagnosi pronta!», uno squillo vittorioso mi attraversò la mente.
«E negli altri momenti, non ha nulla?»
«Le gambe deboli...»
«Ah, si sbottoni! Hmm... già.»
Alla fine della visita, il paziente mi aveva conquistato. Dopo tutte quelle
vecchiette inconcludenti, quei ragazzi spaventati, che balzavano via in preda
al terrore di fronte alla paletta metallica, dopo la storia della belladonna di
quella stessa mattina, il mio sguardo di universitario riposava sul mugnaio.
Le sue parole erano sensate. Sembrava istruito e ogni suo gesto esprimeva un
profondo rispetto per la scienza che io amo di più: la medicina.
«Ecco, carissimo», dicevo, picchiettando sul suo largo, tiepido petto, «lei
ha la malaria, la febbre intermittente... In questo momento abbiamo un'intera
corsia vuota. Le consiglio vivamente di farsi ricoverare qui. La terremo sotto
osservazione, come si deve. Le darò intanto certe polverine, se poi non
migliorasse, le faremo alcune iniezioni. Vedrà che la guariremo. Allora? Si fa
ricoverare?...»
«La ringrazio di cuore!» rispose il mugnaio molto gentilmente. «Ho sentito
molto parlare di lei. Tutti sono molto contenti. Dicono che è bravissimo...
Sono disposto a farmi fare anche le iniezioni, pur di guarire.»
«Sì, questo è davvero un raggio di luce nell'oscurità!»4, pensai e sedetti al
tavolo per scrivere. Mi sentivo bene, come se fosse venuto mio fratello a
trovarmi, lì all'ospedale, e non un mugnaio sconosciuto.
Scrissi su un foglio:
«Chinini mur. 0,5
D.t. dos. N. 10
Mugnanio Chudòv
1 cartina a mezzanotte».
E firmai baldanzoso.
Poi, su un altro foglio:
«Pelagèja Ivànovna! Sistemi il mugnaio nella corsia numero due. Ha la
malaria. Gli dia una cartina di chinino, come è prescritto, quattro ore prima
dell'attacco, cioè a mezzanotte. Eccole l'eccezione! Un mugnaio evoluto!».
Ero già a letto, quando Aksìnija, assonnata e scontenta, mi portò la risposta.
«Caro dottore, ho fatto ogni cosa. Pel. Lbòva.»
Mi addormentai.
...e mi svegliai.
«Che vuoi? Che c'è, Aksìnija?», borbottai.
Aksìnija stava in piedi e si copriva pudicamente con una gonna scura a
pallini bianchi. Una stearica illuminava a tratti il suo viso allarmato e pieno di
sonno.
«E venuta Marija, Pelagèja Ivànovna la manda a chiamare.»
«Che c'è?»
«Dice che il mugnaio sta morendo nella corsia numero due.»
«Cosa? Sta morendo? Come sarebbe? Sta morendo?»
Non trovando le scarpe, i miei piedi nudi toccarono subito il pavimento
freddo. Spezzai parecchi fiammiferi e a lungo mi affannai intorno al becco a
gas, prima di riuscire ad accendervi un fuoco azzurrastro. L'orologio segnava
le sei esatte.
«Che succede?... Che succede?... Possibile che non sia malaria?! Che cosa
avrà mai? Il polso era perfetto...»
Ma non più tardi di cinque minuti dopo, con le calze a rovescio negli stivali
di feltro, la giacca sbottonata e i capelli arruffati, attraversavo il cortile ancora
buio e entravo di corsa nella corsia numero due.
4 Allusione al saggio di A.N. Dobroljùbov, Un raggio di luce nelle tenebre (N.d.T.).
Sul letto sfatto, accanto al lenzuolo appallottolato, vestito del pigiama che
gli aveva passato l'ospedale, sedeva il mugnaio. Lo illuminava soltanto una
piccola lampada a petrolio. La sua barba rossiccia era composta e gli occhi mi
parvero neri e immensi. Si dondolava come un ubriaco. Si guardava intorno
terrorizzato, respirava a fatica...
La nottante, Marija, guardava a bocca aperta il suo viso rosso scuro.
Pelagèja Ivànovna, il camice infilato per traverso e i capelli sciolti, mi
venne incontro di corsa.
«Dottore!», esclamò con voce rauca. «Le giuro, io non ho colpa! Chi se lo
poteva aspettare? L'ha scritto anche lei: evoluto...»
«Ma che cosa è successo?»
Pelagèja Ivànovna batté le mani e disse:
«S'immagini, dottore! Ha ingoiato tutte e dieci le cartine di chinino in una
volta! A mezzanotte!».
Era una torbida alba invernale. Dem'jàn Lùkič riponeva la sonda gastrica.
Si sentiva odore di canfora. Sul pavimento c'era un catino pieno di liquido
scuro. Il mugnaio giaceva esausto, pallidissimo, con un lenzuolo bianco tirato
su fino al mento. La sua barba rossiccia stava dritta. Mi chinai, gli tastai il
polso e fui certo che se l'era cavata.
«Beh, come va?», domandai.
«Mi sembra buio, scuro, come una notte egiziana... oh... oh...»
«Anche a me», risposi, irritato.
«Come?», disse il mugnaio, che si sentiva ancora nulle.
«Spiegami una sola cosa, zio. Perché l'hai fatto?!», gli gridai più forte,
nell'orecchio.
La voce di basso, cupa e oscura, rispose:
«Mah», ho pensato, «che mi sto a gingillare con le cartine, una alla volta.
Le prendo tutte e così non se ne parla più».
«È mostruoso!», esclamai.
«Una barzelletta!», rispose l'infermiere assorto e sarcastico.
«Ma no... io lotterò... Io farò... Io....» E un dolce sonno mi colse,
dopo la difficile nottata. Come un velo si stese l'oscurità egizia... e mi parve
di... non so se con una spada... o con lo stetoscopio... Cammino... Lotto... In
luoghi remoti, ma non sono solo. C'è la mia brigata: Dem'jàn Lùkič, Anna
Nikolàevna, Pelagèja Ivànovna. Tutti con il camice bianco e andiamo avanti,
avanti...
Il sonno è una gran bella cosa!...
1926
L'occhio perduto E così è passato un anno. Un anno giusto, da quando sono arrivato in questa
casa. Allora, proprio come adesso, fuori dalla finestra pendeva un velo di
pioggia e sulle betulle appassivano nello stesso modo triste le ultime foglie
gialle. Tutt'intorno sembra non essere cambiato nulla. Ma io sono cambiato
molto. E festeggerò in tutta solitudine questa serata di ricordi...
Facendo scricchiolare il pavimento, passai in camera da letto e mi guardai
allo specchio. Sì, c'era una gran differenza. Un anno fa, nello specchio tirato
fuori dalla valigia, si rifletteva un viso rasato. A quel tempo una scriminatura
obliqua adornava la mia testa ventitreenne. Oggi è scomparsa. I capelli sono
tirati indietro senza troppe pretese. A trenta verste dalla strada ferrata non c'è
nessuno da sedurre con una scriminatura. Tanto vale anche per la faccia
rasata. Sopra il labbro superiore si è affermata una striscia simile a uno
spazzolino da denti, duro e ingiallito, le mie guance sono diventate come una
grattugia, sicché è piacevole, se mi prude una spalla mentre sto lavorando,
grattarmi con la guancia. Succede sempre così, se ci si rade solo una volta alla
settimana, invece di tre.
Ecco, una volta ho letto da qualche parte... ho dimenticato dove... di un
inglese capitato su un'isola deserta. Ci rimase così a lungo che gli vennero le
allucinazioni. E quando una nave si avvicinò all'isola e da una barca vennero
degli uomini a salvarlo, egli, l'eremita, li accolse sparando, perché li credette
un miraggio, un inganno della vuota distesa d'acqua. Ma era rasato. Si radeva
ogni giorno, sull'isola deserta. Ricordo che questo orgoglioso figlio di
Albione aveva suscitato in me un enorme rispetto. E quando ero venuto
quaggiù, nella mia valigia c'era un rasoio di sicurezza Gillette con una
dozzina di lame, un rasoio normale e un pennello. E io avevo deciso
fermamente che mi sarei rasato un giorno sì e uno no, perché la mia
situazione qui non aveva nulla da invidiare all'isola deserta.
Ma ecco che una volta, era nel chiaro mese di aprile, avevo disposto tutte
queste meraviglie inglesi in un obliquo raggio dorato, e avevo appena finito
di tirare a lustro la guancia destra, quando Egòrič entrò di corsa, scalpitando
come un cavallo, con certi stivaletti logori, e riferì, che tra i cespugli, sul
fiumicello vicino al Parco, c'era una donna che partoriva. Mi ricordo che
ripulii con l'asciugamano la guancia sinistra e mi lanciai fuori insieme con
Egòrič. Tra i nudi arbusti della vincaia, eravamo in tre a correre in direzione
del fiume torbido e gonfio. L'ostetrica, con le pinzette a torsione, un involto
di garza e una boccia di tintura di iodio, io con gli occhi stralunati, cupi, e,
dietro, Egòrič. Ogni cinque passi si accucciava in terra e, con mille
maledizioni, strappava un pezzo dello stivale sinistro: gli si era staccata la
suola. Ci soffiava in faccia il vento, il vento dolce e selvaggio della primavera
russa; l'ostetrica, Pelagèja, Ivànovna, aveva perso il pettine, che aveva in
testa, il nodo dei suoi capelli si era sfatto e ciondolava battendole sulle spalle.
«Perché diavolo ti bevi tutti i soldi?», brontolavo, mentre correvamo,
contro Egòrič. «È uno schifo. Sei il guardiano dell'ospedale e vai in giro
come uno zingaro.»
«E che, quelli sono soldi?», rimbeccò Egòrič con astio. «Per venti rubli al
mese, il martirio mi tocca soffrire... Ah, maledetta!» Batteva il piede in terra
come un trottatore furioso. «Soldi... altro che stivali! Qui non bastano
neanche per mangiare e bere...»
«Bere, ecco quello che conta, per te», dicevo rauco, soffocando. «È per
questo che vai in giro come uno straccione.»
Vicino al ponticello fradicio si udì un debole lamento, che volò sulla piena
impetuosa e si spense. Arrivammo di corsa e vedemmo una donna
scarmigliata contorcersi. Le era caduto il fazzoletto e i capelli le si erano
incollati sulla fronte sudata; in preda ai dolori, faceva roteare gli occhi e, con
le unghie, si strappava il cappotto. Il sangue rosso vivo aveva imbrattato la
prima erba rada, di un verde pallido, che cresceva sulla terra grassa, imbevuta
di acqua.
«Non c'è ancora. Non c'è ancora», diceva in fretta Pelagèja Ivànovna e,
anche lei con i capelli sciolti, come una strega, disfaceva l'involto.
E lì, ascoltando l'allegro mugghio dell'acqua, che correva tra gli scuri piloni
di travi del ponte, Pelagèja Ivànovna e io raccogliemmo un neonato di sesso
maschile. Era vivo e salvammo anche la madre. Poi, due portantine e Egòrič,
con il piede sinistro scalzo, ché finalmente si era liberato dell'odiosa suola
putrefatta, trasportarono in barella la puerpera all'ospedale.
E quando lei, ormai silenziosa e pallida, giaceva coperta dal lenzuolo,
quando il bimbo fu sistemato nella culla accanto e tutto fu rimesso in ordine,
le domandai:
«Ma tu, madre, non potevi trovare un posto migliore del ponte per
partorire? Perché non sei venuta con il carretto?».
«Mio suocero non me l'ha dato, "cinque verste in tutto" ha detto, "ce la farai
da sola. Sei una donna robusta. È inutile affaticare i cavalli per nulla..."»
«È un idiota, tuo suocero. E un maiale», risposi.
«Ah, che gente ignorante!», aggiunse Pelagèja Ivànovna, compassionevole
e poi rise di qualcosa.
Io colsi il suo sguardo rivolto alla mia guancia sinistra.
Uscii, e nella sala parto, mi guardai allo specchio. Lo specchio mi mostrò
ciò che mostrava di solito: una faccia storta, chiaramente degenere, con
l'occhio destro come pesto. Ma, e qui lo specchio non aveva colpa, sulla
guancia destra di questo degenerato, si sarebbe potuto ballare come su un
parquet, mentre sulla sinistra cresceva una folta vegetazione rossiccia. Il
mento fungeva da linea di separazione. Mi ricordai di un libro dalla copertina
gialla, intitolato «Sachalin». Conteneva le fotografie di diversi uomini.
«Assassinio, scasso... una scure insanguinata», pensai, «dieci anni... Però,
com'era originale la mia vita su quest'isola deserta! Bisogna che vada a finire
di radermi...»
Respirando l'alito d'aprile, portato dai campi neri, ascoltavo i corvi
gracchiare in cima alle betulle, strizzavo gli occhi per il primo sole, mentre
attraversavo il cortile per andare a finire di radermi.
Erano circa le tre pomeridiane. Ma terminai la rasatura alle nove di sera. A
Mùr'èv, per quanto io ho potuto notare, queste sorprese, sul genere del parto
tra i cespugli, non arrivano mai sole. Avevo appena afferrato la maniglia
della porta sul terrazzino d'ingresso, quando il muso di un cavallo si affacciò
nel portone, un carretto coperto di fango si fermò con uno strattone. Lo
guidava una donna, che gridava con voce sottile:
«Eh, eh, diavolo!».
E di lì dal terrazzino, sentii un bambino che piagnucolava dentro un
mucchio di stracci.
Naturalmente, aveva una gamba rotta e l'infermiere e io lavorammo due ore
a mettere l'ingessatura al piccolo che urlò per due ore di seguito. Poi dovetti
pranzare, poi non ebbi voglia di radermi, volevo leggere un po' ma, a questo
punto, arrivò strisciando, l'oscurità della sera, lo spazio fuori si restrinse, e io,
con una smorfia triste, finii di radermi.
Già... radersi due volte alla settimana era inutile. Di tanto in tanto
restavamo completamente bloccati dalla neve, la tormenta era
inimmaginabile. Rimanevamo anche due giorni dentro l'ospedale di Mùr'èv,
non mandavamo neanche a prendere i giornali a Voznesensk, a nove verste di
lì, e io passavo intere lunghe serate misurando il mio studio su e giù e
desiderando ardentemente i giornali, così ardentemente, come nell'infanzia
avevo desiderato «La guida» di Cooper. Tuttavia questi vezzi inglesi non si
spensero del tutto sull'isola deserta di Mùr'èv, e, di tempo in tempo, tiravo
fuori dal suo astuccio nero il mio lucido giocattolo e mi radevo indolente,
uscivo liscio e pulito come l'orgoglioso isolano. Peccato, solo, che non ci
fosse nessuno a ammirarmi.
Scusate... già... ci fu un altro caso, ricordo, in cui tirai fuori il rasoio e
Aksìnija mi aveva appena portato nello studio la brocca sbocconcellata con
l'acqua bollita, che bussarono minacciosamente alla porta e mi chiamarono. E
Pelagèja Ivànovna e io partimmo per un posto lontanissimo, imbacuccati nei
mantelli di pecora; passammo, nero fantasma formato dai cavalli, dal
cocchiere e da noi, attraverso il bianco oceano indemoniato. La tormenta
fischiava come una strega, urlava, sputava, rideva, tutto era sparito, al
diavolo, e io provai un noto brivido di freddo vicino al plesso solare, all'idea
che saremmo potuti uscire di strada in quella turbinante tenebra satanica e in
una notte saremmo periti tutti: Pelagèja Ivànovna, il cocchiere, i cavalli e io.
E ancora, ricordo, ebbi l'idea idiota che quando fosse cominciato
l'assideramento e noi fossimo già metà ricoperti di neve, avrei fatto al
cocchiere, all'ostetrica e anche a me stesso un'iniezione di morfina...
Perché?... Ma così, per non soffrire... «Morirai assiderato benissimo anche
senza morfina, medico» ricordo che mi rispose una voce secca e robusta
«lascia perdere...» U-uh-uh! Sss-ssò... fischiava la strega e noi eravamo
scrollati, scrollati nella slitta... Beh, un giornale della capitale scriverà in
ultima pagina, che insomma, così e così, sono periti nell'adempimento del
loro dovere il dottor tal dei tali e Pelagèja Ivànovna con il cocchiere e un paio
di cavalli. Pace ai loro resti nel mare di neve. Accidenti. .. Cosa non ti salta in
mente, quando il cosiddetto dovere ti trascina di qua e di là...
Non perimmo, non ci smarrimmo, ma arrivammo al villaggio di Grìsevo,
dove effettuai il secondo rovesciamento per la gamba della mia vita. La
partoriente era la moglie del maestro del villaggio e, mentre Pelagèja
Ivànovna e io, insanguinati fino ai gomiti e bagnati di sudore fino agli occhi,
combattevamo la nostra battaglia alla luce della lampada, da dietro la porta di
assi sentivamo il marito lamentarsi e agitarsi nella metà cieca dell'isbà5. Tra i
lamenti della partoriente e i singhiozzi incessanti di lui, io, lo dico in segreto,
spezzai il braccio del neonato. Raccogliemmo un bimbo morto. Ah, come mi
scorreva il sudore lungo la schiena. Per un istante pensai che sarebbe arrivato
qualcuno, un tipo terribile, nero enorme, sarebbe entrato di corsa nell'isbà e
avrebbe detto con voce di pietra: «A-ah! Ritirategli la laurea!».
Io, spegnendomi, guardavo il giallo corpicino esanime e la madre cerea,
che giaceva immobile nell'oblìo procuratole dal cloroformio. La tormenta
batteva come un getto sullo sportellino della finestra. Noi l'aprimmo un
momento per disperdere l'odore soffocante del cloroformio e questo getto si
trasformò in una nuvola di vapore. Poi io chiusi con un colpo lo sportellino e
tornai a fissare lo sguardo sul braccino che pendeva indifeso tra le mani
dell'ostetrica. Ah, non so esprimere la disperazione che mi prese mentre
5 Capanna contadina russa. Molto spesso nell'isbà, divisa in due da un tramezzo,
l'unica apertura è la porta (N.d.T.).
tornavo a casa solo; avevo lasciato Pelagèja Ivànovna a assistere la madre.
Ero sballottato nella slitta in mezzo alla tormenta che scemava, i boschi cupi
mi guardavano pieni di rimprovero, sconforto, disperatamente. Mi sentivo
vinto, distrutto, schiacciato da un destino crudele, che mi aveva gettato in
quella provincia e mi costringeva a lottare da solo, senza alcun aiuto, senza
consigli. Che incredibili difficoltà mi toccava superare! Potevano portarmi un
caso qualsiasi insidioso o complicato, il più delle volte da operare, ed io
dovevo affrontarlo, con la mia faccia non sbarbata, e vincerlo. E se non vinci,
soffri, come ora, mentre vieni trascinato per i fossi e dietro ti sei lasciato un
cadaverino di neonato e la madre. Domani, appena si sarà placata la tormenta,
Pelagèja Ivànovna me la condurrà all'ospedale e il grosso problema è questo:
riuscirò a salvarla? E cosa devo fare per salvarla? Come si deve intendere
questa parola sublime? In sostanza, io agisco a caso, non so nulla. Eh, fino ad
ora ero stato fortunato; mi riuscivano felicemente cose meravigliose; oggi,
invece, non ho avuta fortuna. Ah, mi sento stringere il cuore per la solitudine,
per il freddo, perché non ho nessuno vicino. E può darsi anche che abbia
commesso un delitto: il braccino. Potessi andare in un qualche posto,
gettarmi ai piedi di qualcuno, dire che, ecco, insomma, così e così, io, il
dottor tal dei tali, ho spezzato il braccino a un neonato. Ritiratemi la laurea,
non ne sono degno, cari colleghi, mandatemi a Sachalin. Uff! Che isterismo!
Mi abbandonai sul fondo della slitta, mi rannicchiai perché il freddo non mi
divorasse così orribilmente. Sembravo a me stesso un misero cagnolino
inetto senza rifugio.
Viaggiammo a lungo, a lungo, finché non occhieggiò il piccolo, ma allegro,
sempre amato fanale sul cancello dell'ospedale. Lampeggiava e si scioglieva,
si accendeva e di nuovo spariva e chiamava invitante. Il vederlo sollevò un
poco la mia anima solitaria, e quando il fanale si fermò saldamente davanti ai
miei occhi, quando prese a crescere e a avvicinarsi, quando le pareti
dell'ospedale da nere diventarono biancastre, entrando nel portone, io ormai
mi dicevo:
«Che sciocchezza, il braccino! Non ha nessuna importanza. L'hai spezzato
a un bambino già morto. Non è a questo che devi pensare, ma al fatto che la
madre è viva».
Il fanale mi aveva rinfrancato e anche il ben noto terrazzino d'ingresso, ma
tuttavia, già in casa, mentre salivo nel mio studio, sentivo il tepore della stufa
e pregustavo il sonno che libera da ogni tormento, borbottavo: «È così, certo,
però è terribile. Come sono solo, tanto solo!».
Sul tavolo c'era il rasoio e accanto la caraffa dell'acqua bollita, ormai
fredda. Ficcai con disprezzo il rasoio nel cassetto. Proprio di radermi avevo
bisogno...
Ed ecco un anno intero. Mentre trascorreva sembrava che fosse diverso,
vario, complesso e spaventoso, invece adesso capisco che è passato volando
come un uragano. Ma ecco, mi guardo allo specchio e vedo la traccia che esso
ha lasciato sul mio viso.
Gli occhi sono diventati più severi e inquieti. La bocca, invece, più sicura e
virile, la ruga sulla fronte mi resterà tutta la vita, così come resteranno i
ricordi. Io li vedo nello specchio correre in una sfilata impetuosa. Sapeste
quanto io tremavo per la mia laurea, all'idea che un qualche fantastico
tribunale mi avrebbe giudicato e giudici terribili mi avrebbero domandato:
«Dov'è la mandibola del soldato? Rispondi, mascalzone laureato!».
Come non ricordarsene! Il fatto è che, sebbene al mondo esista l'infermiere
Dem'jàn Lùkič, il quale strappa i denti con la stessa abilità con cui un
falegname sradica chiodi arrugginiti da vecchie assicelle sottili, tuttavia il
tatto e il senso della mia dignità mi avevano suggerito, ancora ai miei primi
passi all'ospedale di Mùr'ev, di imparare a strappare i denti anche da solo.
Dem'jàn Lùkič poteva allontanarsi o ammalarsi, e le nostre ostetriche
possono fare tutto eccetto una cosa: i denti, scusate, loro non li cavano, non è
affar loro...
E così... ricordo perfettamente il viso colorito, ma consumato, sullo
sgabello di fronte a me. Era un soldato, tornato, come altri, dal fronte in
sfacelo dopo la rivoluzione. Ricordo benissimo anche l'enorme, fortissimo
dente con il buco, saldamente piantato nella mandibola. Socchiudendo gli
occhi con espressione sapiente e emettendo suoni inarticolati con aria
preoccupata, applicai le tenaglie al dente, ma nel far questo, mi tornò limpido
in mente il ben noto racconto di Čèchov, in cui il diacono si fa strappare un
dente; e allora, per la prima volta, mi parve che quella novella non fosse
affatto buffa. Nella bocca ci fu un forte scricchiolìo e il soldato urlò
brevemente:
«Oho-oh!».
Dopodiché la mia mano non incontrò più resistenza e dalla bocca saltarono
fuori le tenaglie che stringevano un oggetto bianco e insanguinato. Il mio
cuore ebbe un balzo perché le dimensioni di quella cosa superavano quelle di
qualsivoglia dente, compreso il molare di un soldato. Da principio non capii
nulla, ma poi per poco non mi misi a singhiozzare: dalle tenaglie spuntava il
dente, è vero, con le sue lunghissime radici, ma, attaccato al dente, pendeva
un pezzo enorme di osso bianchissimo e ineguale.
«Gli ho spezzato la mandibola...», pensai e le gambe mi si piegarono.
Ringraziando il destino per l'assenza dell'infermiere e delle ostetriche,
avvolsi con fare furtivo il frutto della mia cattiva azione in una garza e lo
nascosi in tasca. Il soldato si dondolava sullo sgabello; si era aggrappato con
una mano a una gamba della sedia ginecologica e con l'altra a una zampa del
suo panchetto e mi guardava con occhi stralunati, assolutamente istupiditi.
Smarrito, gli tesi un bicchiere con una soluzione di permanganato di potassio
e ordinai:
«Sciacqua!».
Fu una sciocchezza; egli si riempì la bocca di soluzione e, quando la rigettò
nel catino, quella venne fuori mescolata al suo purpureo sangue di soldato e,
per via, si trasformò in un liquido scuro di colore mai visto. Poi, dalla bocca
del soldato il sangue prese a sgorgare in un modo che mi fece raggelare. Se
avessi inciso la gola di quel poveretto con un rasoio, difficilmente sarebbe
venuto fuori più rapido. Lasciato il bicchiere con il permanganato, mi gettai
sul soldato con dei batuffoli di garza per otturare il buco spalancato nella
mandibola. La garza diventava immediatamente rossa e io, estraendola,
vedevo con terrore che in quel buco si sarebbe potuto sistemare
comodamente una prugna Reine Claude di notevoli dimensioni.
«Ho conciato il soldato per le feste», pensavo disperato e tiravo fuori dal
barattolo lunghe strisce di garza. Finalmente il sangue cessò e io spennellai la
fossa nella mandibola con lo iodio.
«Non mangiare nulla per tre ore», dissi al mio paziente con voce tremante.
«La ringrazio umilmente», rispose il soldato guardando piuttosto stupito la
tazza piena del suo sangue.
«Amico mio», dissi con voce meschina, «ecco... ripassa domani o
dopodomani a farti vedere da me. Vedi... devo guardare... accanto c'è un altro
dente sospetto... Va bene?»
«Umilmente ringraziamo», rispose il soldato accigliato e si allontanò con
una mano sulla guancia. Io tornai di corsa nell'ambulatorio e là rimasi a
sedere un bel po' di tempo con la testa tra le mani e dondolandomi come se
avessi mal di denti anch'io. Cinque volte almeno tirai fuori dalla tasca il duro
batuffolo insanguinato per tornare poi a nasconderlo.
Per una settimana vissi come nella nebbia... dimagrivo, intristivo.
«Al soldato verrà la cancrena, la setticemia... Ah, diavolo! Perché ho
voluto mettergli le tenaglie in bocca!»
Mi figuravo scene assurde. Il soldato comincia a tremare. Dapprincipio va
in giro, racconta di Kerènskij e del fronte, poi diventa sempre più inquieto.
Ormai non gli importa più di Kerènskij. Il soldato giace su un cuscino di
indiana e delira. Ha 40° di febbre, tutto il villaggio gli fa visita. E poi è disteso
sul tavolo, sotto le immagini sacre, e il suo viso è appuntito.
Cominciano i commenti, in paese.
«Cosa sarà stato?»
«Il dottore gli aveva tolto un dente...»
«Ah, ecco...»
E più passa il tempo e peggio è. L'inchiesta. Arriva un tipo severo:
«E lei che ha tolto il dente al soldato?».
«Sì, ...io.»
Esumano la salma. Il processo. L'ignominia. Sono io che ho causato la sua
morte. Ed ecco che non sono più un medico, ma un uomo infelice, fuori dei
ranghi, anzi più esattamente un ex-uomo.
Il soldato non si faceva vedere, io mi angosciavo, il batuffolo secco si
ossidava nel cassetto della scrivania. Per ritirare lo stipendio bisognava
andare nel capoluogo del distretto, ogni due settimane. Quella volta io partii
dopo cinque giorni e prima di tutto mi recai dal medico dell'ospedale
distrettuale. Quest'uomo, con barbetta affumicata, lavorava lì da venticinque
anni. Ne aveva viste di tutti i colori. La sera, seduto nel suo studio, bevevo
tristemente un tè al limone e gualcivo la tovaglia; infine non resistetti più e,
con vari rigiri di parole, cominciai un discorso nebuloso, falso: che, ecco,
insomma, ci sono certi casi... se uno strappa un dente... e spezza la
mandibola... certo, può intervenire un processo di cancrena, non è vero?... sa,
un articolo... ho letto....
Quello ascoltava, ascoltava, fissandomi con i suoi occhietti stinti, sotto le
sopracciglie ispide e a un tratto disse:
«Lei gli ha spezzato l'alveolo. Strapperà bene i denti... lasci stare il tè,
andiamo a berci una vodka, prima di cena!».
Allora, e per sempre, mi uscì di mente il mio soldato-aguzzino.
Ah, specchio dei ricordi! È passato un anno. Com'è buffo per me ricordare
quell'alveolo! Io, veramente, non saprò mai togliere i denti come Dem'jàn
Lùkič. Ci mancherebbe! Lui ne strappa almeno cinque al giorno, e io uno
ogni due settimane. Ma tuttavia, molti vorrebbero saperli estrarre come
faccio io. E non spezzo alveoli, o, se anche li spezzassi, non mi spaventerei.
Lasciamo stare i denti, cosa volete che siano ! Ma che altro non ho visto e
non ho fatto in questo irripetibile anno!
La sera scendeva nella stanza. La lampada era già accesa e io, nuotando nel
fumo amaro del tabacco, tiravo le somme. Il cuore traboccava di orgoglio.
Avevo fatto due amputazioni del femore; quelle delle dita non le conto. E
raschiamenti. Qui sono annotati: diciotto. E l'ernia. E la tracheotomia. L'ho
fatta e con successo. Quanti ascessi enormi ho inciso! E le ingessature delle
fratture! Ho rimesso a posto arti lussati. Ho effettuato intubazioni. I parti!
Venite pure con quello che volete. Tagli cesarei non ne faccio, questo è vero.
Si può mandare la paziente in città. Ma forcipe, rovesciamenti, prego, quanti
ne volete!
Mi ricordo l'ultimo esame di Stato, quello di medicina legale. Il professore
mi disse:
«Mi parli delle ferite a bruciapelo».
Io cominciai in modo sconnesso e parlai a lungo, mentre una pagina del
grosso manuale veleggiava davanti agli occhi della mia memoria. Finalmente
tirai il fiato, il professore mi rivolse uno sguardo sprezzante e disse con una
voce che scricchiolava:
«Niente di simile a quanto lei ha esposto accade in caso di ferite a
bruciapelo. Quanti cinque ha?».
«Quindici», risposi.
Egli mise un tre accanto al mio cognome e io uscii avvolto di nebbia e di
vergogna...
Uscii e non molto tempo dopo partii per Mùr'ev, e qui eccomi da solo. Lo
sa il diavolo cosa succede in caso di ferite a bruciapelo, ma forse che mi sono
perso d'animo, quando qui davanti a me, sul tavolo operatorio c'era un uomo,
dalle cui labbra usciva una schiuma rosa di sangue? No, anche se il suo petto
era stato sfondato da una scarica di pallini da caccia, sparata a bruciapelo e gli
si vedeva il polmone e la carne gli pendeva a brandelli, mi sono forse perso
d'animo? E un mese e mezzo dopo è uscito dal mio ospedale vivo.
All'università non ho meritato di tenere in mano il forcipe neanche una volta e
qui, tremando, è vero, ma l'ho applicato in un minuto. Non nascondo che il
bambino, che tirai fuori, era strano: metà testa era gonfia, azzurro-purpurea,
senz'occhio.
Mi sentii gelare. Udii vagamente le parole consolatrici di Pelagèja
Ivànovna:
«Non è nulla, dottore, gli ha messo un cucchiaio del forcipe sull'occhio».
Per due giorni tremai, ma due giorni dopo la testa tornò normale.
Che ferite ho ricucito! Che pleuriti purulente ho visto e come, in questi
casi, ho aperto le costole! Che polmoniti, tifi, cancri, sifilidi, ernie (e ne ho
rientrate), emorroidi, sarcomi!
Ispirato, aprii il registro dell'ambulatorio e per un'ora contai. Ecco.
In un anno, cioè fino a quella sera, avevo ricevuto
quindicimilaseicentotredici malati. Degenti ne avevo avuto duecento, ne
erano morti solo sei.
Chiusi il libro e mi trascinai a dormire. Avevo ventiquattro anni compiuti,
giacevo nel letto, e, nel prendere sonno, pensavo che la mia esperienza era
ormai enorme. Cosa avevo da temere? Nulla. Avevo tirato fuori piselli dalle
orecchie dei ragazzini, avevo tagliato, tagliato, tagliato... la mano era
coraggiosa, non tremava. Avevo visto insidie di ogni genere e avevo
imparato a comprendere certi discorsi di contadine, che nessuno saprebbe
intuire. Mi ci ritrovavo a mio agio come Sherlock Holmes tra i documenti più
misteriosi... Il sonno si faceva vicino...
«Io», mormorai addormentandomi, «non so assolutamente immaginare un
caso che mi metta in imbarazzo... forse, là, nella capitale, direbbero che
questo è lavoro bruto, da infermieri... e va bene... loro stanno bene... nelle
cliniche, nelle università... nei gabinetti di radiologia..., io invece, sono qua...
basta... e i contadini senza di me non possono vivere... Come tremavo, un
tempo, quando bussavano alla porta, come mi contorcevo dentro di me per la
paura... e adesso...»
«Quando è successo?»
«Una settimana fa, bàtjuška, una settimana, caro... È venuto fuori...»
Luceva il grigio mattino d'ottobre del primo giorno del mio secondo anno.
Ieri sera ero orgoglioso, nel prendere sonno, mi vantavo. Questa mattina
stavo lì, in camice, a guardare smarrito...
La donna teneva in braccio, come un ciocco, un bambino di un anno e a
questo bambino mancava l'occhio sinistro. Al suo posto, dalle palpebre tese e
consunte, spuntava una sfera gialla, grande come una meletta.
Il bambino sofferente gridava e si dibatteva, la donna piangeva. E io mi
persi d'animo.
Mi avvicinavo da ogni parte. Dem'jàn Lùkič e l'ostetrica stavano dietro di
me. Tacevano, non avevano mai visto nulla di simile.
«Che cos'è... Un'ernia cerebrale... hmm,... ma è vivo... Un sarcoma...
hmm... un po' troppo molle... Un tumore mai visto, orrendo... Ma da dove si è
sviluppato?... Dall'occhio perduto... E può anche darsi che l'occhio non ci sia
mai stato... in ogni caso ora non c'è...»
«Ecco», dissi ispirato, «sarà necessario tagliare questo affare.»
E immaginai come avrei tagliato la palpebra, allargato i labbri e...
«E poi... che altro. Forse, davvero, viene dal cervello... Ah, diavolo... Un
po' troppo molle,... però sembra cervello...»
«Tagliate cosa?», domandò la donna impallidendo. «Tagliate sull'occhio?
Non dò il consenso...»
E, terrorizzata, cominciò a riavvolgere il bimbo nei suoi stracci.
«Ma non ha occhio!», risposi categorico. «Guarda! Dove l'avrebbe? Il tuo
bambino ha uno strano tumore...»
«Gli dia delle goccette», diceva, spaventata, la donna.
«Ma che, scherzi? Che gocce? Non ce ne sono, che possano giovargli.»
«E allora? Deve restare senz'occhio?»
«Ma non ce l'ha, l'occhio, ti dico...»
«Tre giorni fa, ce l'aveva!» gridò la donna, disperata.
«Diavolo!...»
«Nonio so, può darsi che ci fosse... diavolo... Ma adesso non c'è... E poi,
sai, cara, porta tuo figlio in città. E là immediatamente gli faranno
l'operazione... Dem'jàn Lùkič. Eh?»
«Hmm-sì», sentenziò l'infermiere, che, evidentemente, non sapeva che
dire. «Una cosa mai vista.»
«Tagliare? In città?», domandò la donna, in preda allo spavento. «Non
lascerò che gli si faccia nulla.»
Finì che si portò via il bambino, senza permettere neppure che gli si
toccasse l'occhio.
Per due giorni continuai a spaccarmi la testa, mi stringevo nelle spalle,
frugavo nella piccola biblioteca, guardavo disegni che raffiguravano bambini
con certe vesciche che spuntavano al posto degli occhi... Diavolo!
Passò una settimana.
«Anna Ţùchova!», gridai.
Entrò una donna gaia, con un bambino fra le braccia.
«Che c'è», domandai per abitudine.
«Mi fa male il fianco; non posso respirare», mi annunziò la donna e sorrise,
chissà perché, ironicamente. Il suono della sua voce mi fece trasalire.
«Mi ha riconosciuto?», domandò con ironia.
«Aspetta... aspetta... ma è... aspetta... è lo stesso bambino?»
«Lui in persona. Si ricorda, signor dottore, lei diceva che l'occhio non c'era
e che bisognava tagliare...»
Rimasi di stucco. La donna mi guardava vittoriosa. Nei suoi occhi brillava
il riso. Il bambino stava in silenzio tra le sue braccia e guardava la luce con i
suoi occhi castani. Della vescica non restava neanche il ricordo.
«C'è sotto qualche stregoneria», pensai prostrato.
Poi, tornato in me, sollevai con prudenza la palpebra.
Il bambino piagnucolava, cercava di voltare la testa, ma io vidi lo stesso
una piccolissima cicatrice sulla mucosa... Ah, ah...
«Come siamo andati via di qui, quel giorno stesso... È scoppiato...»
«Non fa nulla, donna, non raccontare», dissi confuso, «ho già capito...»
«E lei diceva che l'occhio non c'era... Vedi un po': gli è cresciuto!», e la
donna rise canzonatoria.
«Ho capito, che il diavolo mi porti... Sulla palpebra inferiore gli si era
formato un enorme orzaiolo che, crescendo, aveva completamente coperto
l'occhio... eppoi, appena è scoppiato, il pus è uscito... e tutto è andato a
posto...»
No, mai più neanche nel prendere sonno, borbotterò orgogliosamente che
nulla può stupirmi. No. È passato un anno, ne passerà un altro e sarà
altrettanto ricco di sorprese... Quindi bisogna studiare umilmente...
1926