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Istituzioni di diritto pubblico AO a.a. 2016-2016– Prof.ssa Silvia Niccolai – F - Capitolo III Parte II Il tornante rivoluzionario e l'età napoleonica "Lo stato nuovo facendo della cura degli interessi generali il suo obiettivo essenziale e la sua ragion d'essere, l'amministrazione vi trova la sua piena legittimazione di funzione primaria". (L. Mannori e B. Sordi, Storia del diritto amministrativo, p.284) A.La stagione in cui si scrive la grammatica del potere pubblico nell’età contemporanea, e dei problemi che lo accompagnano. Con la Rivoluzione francese e l’Impero napoleonico la traiettoria, avviata con l’assolutismo, di annientamento dell’ordine antico raggiunge il suo culmine. Il risultato fu il delinearsi di una visione compiuta dello Stato, della sua organizzazione e delle sue finalità.

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Istituzioni di diritto pubblico AO a.a. 2016-2016– Prof.ssa Silvia Niccolai – F -

Capitolo III Parte II

Il tornante rivoluzionario e l'età napoleonica

"Lo stato nuovo facendo della cura degli interessi generali il suo obiettivo essenziale e la sua ragion d'essere,

l'amministrazione vi trova la sua piena legittimazione di funzione primaria".

(L. Mannori e B. Sordi, Storia del diritto amministrativo, p.284)

A.La stagione in cui si scrive la grammatica del potere pubblico nell’età contemporanea, e dei problemi che lo accompagnano.

Con la Rivoluzione francese e l’Impero napoleonico la traiettoria, avviata con l’assolutismo, di annientamento dell’ordine antico raggiunge il suo culmine. Il risultato fu il delinearsi di una visione

compiuta dello Stato, della sua organizzazione e delle sue finalità.

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1. Le Costituzioni rivoluzionarie. I contenuti

Durante il periodo rivoluzionario si succedettero in Francia più Costituzioni che segnarono, ciascuna, una tappa dei successivi e diversi assetti del potere in quel periodo. Considerando nel loro insieme le Costituzioni rivoluzionarie, risaltano alcuni elementi comuni:

1. L’abbattimento della società cetuale, con l’affermazione della eguaglianza naturale e eguaglianza giuridica dei cittadini e della titolarità in ogni uomo di alcuni diritti naturali che ne proteggono la sfera privata e che lo tutelano nei rapporti con le autorità pubbliche, con lo Stato. “L’Assemblea Nazionale, volendo stabilire la Costituzione francese sui principi che essa ha riconosciuto e dichiarato, abolisce irrevocabilmente le istituzioni che ferivano la libertà e l’eguaglianza dei diritti. Non vi è più nobiltà, né paria, né distinzioni ereditarie, né distinzione di ordini, né regime feudale, né giustizie patrimoniali. Né alcuno dei titoli, denominazioni o prerogative che ne derivavano, né alcun ordine di cavalierato, né alcuna delle corporazioni o decorazioni, per le quali si esigevano prove di nobiltà, o che presupponevano distinzioni di nascita, né alcuna altra superiorità se non quella dei funzionari pubblici nell’esercizio delle loro funzioni. Non vi è più né venalità, né ereditarietà di alcun ufficio pubblico. Non vi sono più giurande, né corporazioni di professioni, arti e mestieri. La legge non riconosce più né voti religiosi, né alcun altro impegno che sia contrario ai diritti naturali, o alla Costituzione”. (Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del Cittadino, 1789).

2. L’affermazione che la sovranità spetta non al sovrano né allo stato ma alla Nazione, intesa come universalità dei cittadini, i quali, tramite meccanismi elettivi di tipo rappresentativo, danno vita al potere legislativo: “La sovranità è una, indivisibile, inalienabile, imprescrittibile. Essa appartiene al popolo, nessuna frazione di popolo, né alcun individuo può attribuirsene l’esercizio”. (Cost. del 1791, titolo III, art. 1)

3. La superiorità della legge, intesa come espressione della volontà generale, su ogni altro atto, e dunque come volontà nella quale la sovranità della Nazione si esprime, cui corrisponde l’eguaglianza di tutti davanti alla legge. “La legge è l’espressione libera e solenne della volontà generale. Essa è la stessa per tutti, sia che protegga, sia che punisca.” (Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino).

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4. La subordinazione alla legge sia della amministrazione sia della giurisdizione e la contemporanea affermazione del principio di separazione dei poteri. “Gli amministratori non possono né ingerirsi nell’esercizio del potere legislativo, o sospendere l’esecuzione delle leggi, né compiere alcun atto sull’ordine giudiziario, né sulle disposizioni od operazioni militari” (Cost. 1791, art. 3 cap. 4). “I tribunali non possono né ingerirsi nell’esercizio del Potere legislativo, o sospendere l’esecuzione delle leggi, né compiere atti sulle funzioni amministrative, o citare davanti a loro gli amministratori in relazione delle relative funzioni.” (Costituzione del 1791, cap. V, art. 3).

5. La ristrutturazione dei territori secondo una divisione uniforme. “Il Regno è uno e indivisibile; il suo territorio è diviso in ottantatré dipartimenti, ogni dipartimento in distretti, ogni distretto in cantoni. Vi è in ogni dipartimento una amministrazione superiore, e in ogni distretto una amministrazione inferiore.” (Costituzione del 1791, titolo II, art. 1).

6. L’elenco di una serie di diritti imprescrittibili, inalienabili, fondamentali dell’Uomo e del Cittadino. Come torneremo a osservare, questo elenco di diritti serve a limitare la legge, che di essi non può disporre; al tempo stesso, è la legge che è incaricata di porli in essere e regolarli.

Vediamo alcuni di questi diritti (spesso connessi a norme organizzative), per come apparivano nella Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789, documento simbolo della Rivoluzione, e ancora oggi parte del patrimonio costituzionale francese (accanto in neretto la definizione di alcuni di essi).

Articolo 1: Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune. (Uguaglianza naturale)

Articolo 2: Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione.

Articolo 3: La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri: così l’esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di questi stessi diritti. Questi limiti possono essere determinati solo dalla Legge.

Articolo 7: Nessun uomo può essere accusato, arrestato o detenuto se non nei casi determinati dalla Legge e secondo le forme da essa prescritte. Quelli che procurano, spediscono, eseguono o fanno eseguire degli ordini arbitrari devono essere puniti; ma ogni cittadino citato o tratto in arresto, in virtù della Legge, deve obbedire immediatamente: opponendo resistenza si rende colpevole. (Libertà personale)

Articolo 8: Le legge deve stabilire solo le pene strettamente necessarie e nessuno può essere punito se non in virtù di una legge stabilita e promulgata anteriormente al delitto e legalmente applicata. (Principio di legalità delle pene e dei reati e principio di irretroattività della legge penale)

Articolo 9: Presumendosi innocente ogni uomo sino a quando non sia stato dichiarato colpevole, se si ritiene indispensabile arrestarlo, ogni rigore non necessario per assicurarsi della sua persona deve essere severamente represso dalla legge. (Principio di presunzione di innocenza e divieto di pene disumane)

Articolo 10: Nessuno deve essere molestato per le sue opinioni, anche religiose, purché la manifestazione di esse non turbi l’ordine pubblico stabilito dalla legge. (Diritto di libertà di opinione e religiosa)

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Articolo 11: La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo: ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi stabiliti dalla Legge (Diritto di libertà di manifestazione del pensiero)

Articolo 16: Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha Costituzione.

Articolo 17: La proprietà essendo un diritto inviolabile e sacro, nessuno può esserne privato, salvo quando la necessità pubblica, legalmente constatata, lo esiga in maniera evidente, e previa una giusta indennità. (Diritto di proprietà).

Ora esamineremo questi contenuti di fondo delle Costituzioni rivoluzionarie cercando di approfondirne il significato e di cogliere le connessioni tra essi, muovendo dal loro perno: l’eguaglianza.

2.Uguaglianza ‘naturale’ e ‘davanti alla legge’

A costo di inenarrabili e spaventose violenze, che ne fanno una delle pagine più sanguinose della storia del genere umano, la Rivoluzione francese realizza ciò che l’assolutismo non era riuscito a compiere, l’abolizione dei ceti e l’affermazione della eguaglianza:

a) come eguaglianza ‘naturale’ degli uomini nei dirittib) come eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge.

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Rileggiamo la fondamentale affermazione della Dichiarazione del 1789, che comprende ambedue gli aspetti: eguaglianza naturale e eguaglianza giuridica:

Tutti gli uomini sono eguali per natura e davanti alla legge. La legge è l’espressione libera e solenne della volontà generale. Essa è la stessa per tutti, sia che protegga, sia che punisca.

L’idea di ‘eguaglianza ‘naturale’ rifletteva convinzioni filosofiche che erano state agitate dagli Illuministi con una cosciente e forte intenzione polemica contro l’assetto dell’Ancien Régime. In contrapposizione al quadro offerto dalla realtà storica in cui vivevano, che conosceva la divisione della società in ceti, la differenziazione dei regimi giuridici a seconda dello status, da cui conseguivano pluralità di ordinamenti e trattamenti giuridici differenziati, i filosofi illuministi delinearono l’ordine della società che a loro avviso discendeva in modo evidente da alcune leggi di pura Ragione. Osservando la Natura, che ci fa nascere tutti eguali e ci sottopone tutti allo stesso destino mortale, non si può non desumere, essi sostenevano, che tutti dobbiamo avere uno stesso status davanti alla legge, e che quest’ultima deve valere allo stesso modo per tutti. Le idee dei filosofi illuministi si alimentavano a una corrente di pensiero che chiamiamo del Secondo Diritto Naturale, per distinguerla dalle dottrine, di radice romanistica, del Primo Diritto Naturale. Come sappiamo, il Primo diritto naturale era ispirato dall’idea che la ricerca della giustizia, animata dal principio del suum cuique tribuere, dovesse tener conto della “natura delle cose” cioè delle caratteristiche di ogni determinata situazione o problema; il richiamo alla ‘natura delle cose’ si legava a un modo di ragionare circostanziato, attento alle specificità di ogni problema, e restio all’idea che la realtà possa essere tutta organizzata dentro un ordine perenne, certo, universale e immodificabile. Al contrario, il Secondo Diritto Naturale postula proprio che un tale ordine esista, e possa essere identificato, utilizzando la Ragione, nell’osservazione delle eterne leggi naturali, o divine. Secondo i teorici del Secondo Diritto Naturale il diritto umano doveva a sua volta ispirarsi a queste eterne leggi naturali, essere composto da norme generali, chiare, semplici, universali, che non avrebbero richiesto i complessi ragionamenti dei giuristi, il ricorso all’analogia, alla ratio legis, nei quali, a loro giudizio, si annidava l’arbitrio e che comunque apparivano loro consustanziali alla società ‘innaturalmente’ divisa in ceti. Una volta che nel mondo, in ubbidienza alle leggi naturali, si fossero imposte leggi uguali per tutti, ai giuristi non sarebbe rimasto che il compito di stabilire le conseguenze che in ogni caso concreto discendevano automaticamente dalla previsione di legge.

Il principio dell’eguaglianza giuridica, per cui ‘tutti sono uguali davanti alla legge’ apparì dunque come una traduzione necessaria di una legge di Natura, che tutti non potremmo non scorgere e non intendere allo stesso modo se usassimo la Ragione.

(continua) Un principio a due facce

Il principio di eguaglianza davanti alla legge è peraltro un principio a due facce. Esso garantisce che ciascun cittadino è soggetto alla stessa legge di un altro. Questo significa che non ci sono più privilegiati che hanno un loro diritto particolare, o che possono sottrarsi all’applicazione della legge che vale per altri, in nome del ceto cui appartengono. Ma significa anche che il legislatore ha il potere di dettare norme alla cui osservanza nessuno si può sottrarre.

In nome della Legge di Natura e dell’eguaglianza naturale di tutti gli uomini, la Rivoluzione francese raggiunse l’obiettivo che i sovrani assoluti avevano cercato di conseguire, senza riuscirvi, vale a dire la conquista effettiva della sovranità, cioè del poter di dettare norme senza che alcun potere sociale, alcun soggetto, alcun organo o potere statale possa farvi obiezione o sottrarsene.

Questo elemento non sfuggì a Tocqueville, il quale osservò:

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“A meno di un anno dall’inizio della Rivoluzione Mirabeau scriveva segretamente al Re: ‘Paragonate il nuovo stato di cose con l’antico regime … Non conta dunque per nulla esser senza parlamenti, senza paesi di Stato, senza corpi di clero, di privilegiati, di nobili? L’idea di formare un’unica classe di cittadini sarebbe piaciuta a Richelieu: tale superficie tutta eguale facilita l’esercizio del potere’1.

3. L’uguaglianza davanti alla legge e il problema dell’onnipotenza del legislatore

La volontà del sovrano è legge per tutti, in effetti, solo dove c’è il principio di uguaglianza giuridica, davanti alla legge. Considerando le cose da questo punto di vista, può risultare chiaro che essere tutti uguali davanti alla legge significa che nessuno ha il potere di sottrarsi alla osservanza della legge, e cioè anche che tutti sono uniformati nel dovere di obbedienza, nella soggezione, appunto, alla legge.

Il principio di uguaglianza giuridica o davanti alla legge esprime perciò non solo una garanzia che noi abbiamo nei confronti della legge, ma anche la consacrazione il potere sconfinato che la legge rivendica su di noi, su tutti gli appartenenti alla società, dal momento che affermare l’eguaglianza di tutti davanti alla legge significa anche affermare che non esiste alcuno schermo che si frapponga tra un membro della società e la volontà che la governa. Di qui i timori che il principio ha sempre fatto sorgere. Abbiamo ottenuta l’eguaglianza per essere tutti egualmente schiavi? Si chiede Tocqueville, e con lui se lo sarebbe chiesto e si chiede una schiera di pensatori che sono venuti dopo.

Molti infatti hanno notato che, per come lo concepì la Rivoluzione francese, l’eguaglianza instaura un grande vuoto tra autorità pubblica e individuo: nella relazione tra potere e cittadino non si frappongono più – almeno nel disegno rivoluzionario – i poteri intermedi che fanno da cuscinetto e da argine. Come impedire che la legge, divenuta onnipotente, contenga prescrizioni che attentano alle libertà individuali o privano le persone dei loro diritti?

Va anche considerato che il principio di eguaglianza davanti alla legge, proprio perché si limita a stabilire che la legge vale per tutti, non affronta il problema delle ingiustizie che possono derivare proprio dall’applicazione di una legge eguale a casi diversi. E’ giusto punire con la stessa pena chi ruba per bisogno e chi ruba solo per arricchirsi ulteriormente?

Le dottrine del Secondo Diritto Naturale pensavano di avere risolto alcuni di questi problemi dal momento che esse prevedevano che siccome tutti sono uguali, e tutti hanno anche una serie di diritti naturali e ‘imprescrittibili’, cioè tali per cui nessuna legge può violarli, per esempio il diritto alla vita, alla proprietà, alla fede religiosa.

Si istituiva in tal modo una contrapposizione tra legge ‘positiva’ (quella dettata dalle autorità umane) e legge ‘naturale’. Da una parte, per non contravvenire alle leggi naturali, la legge umana (positiva) doveva essere onnipotente; ma, per lo stesso motivo, essa non poteva nemmeno disporre in modi contrari alle libertà naturali degli uomini.

Si può percepire qui un artificio razionalistico: una volta stabilito che la legge umana è onnipotente perché questo è legge di Natura, solo l’amore per le simmetrie teoriche ed astratte, può far credere che la legge umana si fermi davanti ad altre leggi naturali. Oppure, a far opinare in tal senso, può spingere anche una fede immensa nella virtù, nella moralità, di chi esercita il potere.

1 L’Antico Regime, cit.

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Nelle dichiarazioni rivoluzionarie, dunque, la proclamazione dell’eguaglianza giuridica si accompagnava sempre alla affermazione di una serie di diritti ‘naturali e imprescrittibili’ dell’essere umano2, che intendevano valere come limitazioni al potere della legge.

Tuttavia, come difendere effettivamente i diritti ‘naturali’ davanti alla legge diventata onnipotente, fu un interrogativo che la rivoluzione si limitò ad aprire drammaticamente. La stessa successione delle costituzioni rivoluzionarie dimostrò in via di fatto che diritti riconosciuti per legge (o per costituzione) sono cancellabili da altra legge o altra costituzione.

La razionalità illuministica era molto ostile alla forma di razionalità che era stata propria dell’ordine antico, e della quale era esempio principale la logica ‘del probabile e del ragionevole’ di cui erano stati portatori i giuristi del diritto comune. Quella logica non era certamente adatta a Rivoluzionari convinti di dovere, e di potere, cambiare il mondo con un atto di volontà. Nella logica equitativa, che imponeva ‘ragionevolezza’ al legislatore essi vedevano un pericolo, il pericolo che la volontà della legge fosse ostacolata. La logica equitativa dei giuristi antichi non era adatta a un’epoca in cui si credeva fortemente nella necessità di riforme, cambiamenti, modernizzazione che per riuscire richiedevano una volontà legislativa che non trovasse ostacoli; essa non si addice a concezioni che vedono nel diritto lo strumento del potere politico.

Non a caso, lo sforzo della Rivoluzione, poi dell’età napoleonica e infine dello stato liberale sarà quello di modificare il ruolo della giurisdizione rispetto a quello che le era proprio nell’ordine antico, riducendone la funzione a quella di eseguire la legge senza discutere. Si affermerà l’idea che il diritto è solo quello posto dalla legge, e che solo ciò che la legge stabilisce è diritto (positivismo giuridico). Si affermerà anche la tesi della ‘completezza dell’ordinamento giuridico’: la legge regola tutti i casi possibili, se non vi sono lacune, non c’è bisogno di ricorrere all’analogia; o, comunque, si limiteranno con legge le ipotesi in cui il giudice può utilizzare questo e altri strumenti interpretativi.

Tuttavia, nel corso del tempo, l’incapacità del solo principio di eguaglianza davanti alla legge di prevenire esiti ingiusti e arbitrari, da un lato; l’impossibilità che il diritto scritto preveda tutti i possibili casi della vita, dall’altro lato, hanno, come vedremo, mantenuto in vita, e poi riportato pienamente al centro dell’esperienza giuridica, la necessità di fare appello a quelle risorse della logica giuridica che risalgono all’eguaglianza come criterio della valutazione giuridica, cioè le risorse di un ragionamento equitativo capace di assicurare che ciò che è uguale sia trattato in modo eguale, e ciò che è diverso sia trattato in modo diverso.

4.(continua) Dagli status alla cittadinanza: altre conseguenze e implicazioni dell’affermazione dell’eguaglianza giuridica

L’ abolizione dei ceti3, presupposto e condizione della eguaglianza davanti alla legge, ebbe una serie enorme di conseguenze anche sul piano economico e sociale. Vennero travolte le due

2 Oltre alle disposizioni riportate in precedenza, possiamo ricordare, in questo senso queste prescrizioni: “Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione” (Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino). “ Governo è istituito per garantire all’uomo il godimento dei suoi diritti naturali e imprescrittibili.”(Costituzione del 1793)

3 Vero primo atto della Rivoluzione, posto che l’Assemblea nazionale costituente, l’organo in cui, inizialmente col nome di Assemblea Nazionale, i deputati del Terzo Stato trasformarono l’Assemblea degli Stati generali, si considerò rappresentativa del popolo e non dei ceti, con ciò realizzando ipso facto la rottura dell’ordine antico. L’abolizione della feudalità e dei privilegi fu poi deliberata, nei disordini violentissimi del periodo della Grande Paura, tra la ribellione della nobiltà in armi e il popolo che dava l’assalto ai castelli feudali, il 4 agosto 1789. La Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino, documento-simbolo della Rivoluzione, e ancora oggi parte del patrimonio costituzionale francese, fu approvata il successivo 26 agosto.

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fondamentali assi socio-economiche che si reggevano sulla esistenza dei ceti: la non-commerciabilità delle terre nobiliari ed ecclesiastiche, e la non-commerciabilità del lavoro, nonché il travolgimento di tutte quelle strutture pubbliche che, in quanto esercitate sulla base di uffici ereditari, il potere dei ceti riflettevano, e in particolare quelle relative alla giustizia, destinata a tramutarsi in un corpo di funzionari statali.

L’abolizione dei ceti realizza, si può dire, la definitiva creazione dello stato, e ispira di sé tutta la concezione rivoluzionaria degli istituti pubblici. Nel modo in cui le Costituzioni rivoluzionarie li disegnano, la preoccupazione centrale dell’abbattimento dei ceti si ripropone in ogni momento. L’insistenza sull’indivisibilità e unità della Nazione, sul fatto che nessun corpo e nessun individuo, può ‘arrogarsela’ va in questa direzione4, e in questa direzione va la centralità conquistata dalla cittadinanza: a come la si acquista, a come la si perde, sono dedicate norme che sono costituzionali perché l’idea stessa di cittadinanza è costitutiva della nuova concezione della sovranità che con la Rivoluzione si modella definitivamente. La cittadinanza è lo status che tutti condividono, l’insieme di diritti e obblighi di cui tutti sono titolari in quanto appartenenti allo stato, in un universo dove sono venuti meno gli status particolari. Alla stessa esigenza risponde anche la riorganizzazione del territorio, che ne annulla la storia particolare, e lo ridefinisce secondo strutture amministrative, in grado di ripartirvi la volontà che promana dal centro5.

5.Razionalismo

Il periodo rivoluzionario è il trionfo di una stagione razionalista e volontarista.

L’onnipotenza della legge corrispondeva alle convinzioni e alle speranze di chi era convinto che la vita sociale potesse essere regolata a poche e semplici regole di tipo geometrico, che riforme ben congegnate e calate dall’alto potessero cambiare le cose dall’oggi al domani e in meglio.

Questa mentalità si radicava nel cartesianesimo, e aveva germinato nel pensiero dei filosofi illuministi, e dei fisiocrati, negli ultimi decenni dell’Antico Regime6. Le traduzioni di queste concezioni in campo economico furono offerte dalla fisiocrazia, una scuola di economisti che cominciò a sostituirsi al mercantilismo nella seconda metà del ‘700. Secondo i fisiocrati, solo un illuminato dispotismo7 capace di organizzare la vita sociale intorno a poche e chiare regole 4 Ogni individuo che usurpa la sovranità, sarà all’istante messo a morte dagli uomini liberi (Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino 1791)

5 “Sarà fatta una nuova divisione del Regno in dipartimenti (…); ogni dipartimento sarà diviso in distretti (…) ogni distretto sarà diviso in cantoni” recitava già un decreto del 1789, poi recepito nella costituzione del 1791.Il dipartimento diventava l’unità stereotipa e uniforme di descrizione del territorio, lo strumento per evitare la ricostituzione di potenti istituzioni locali, un’arma contro la risorgenza di poteri signorili e locali. La consacrazione dell’unità amministrativa era consacrazione dell’unità dello stato: “Lo Stato è uno, i dipartimenti non sono che sezioni di un medesimo tutto, un’amministrazione comune deve dunque abbracciarli in un regime comune”, proclamavano le Istruzioni per la formazione delle assemblee rappresentative e dei corpi amministrativi dell’8 gennaio 1790”. Lo stesso decreto prevede che “ci sarà una municipalità in ogni città, borgo, parrocchia o comunità rurale” ma i contenuti dei compiti delle municipalità, delle comunità locali, sono stabiliti dalla legge: “da questo momento, ciò che è locale non dipende più da forme di autonomia corporativa, ma è definito dalla volontà generale: organizzazione, funzioni, compiti dei corpi locali sono integralmente disciplinati dal legislatore nazionale. Cfr. L. Mannori e B. Sordi, op. cit., p. 207.

6 Quando “sopra la società vera, con la costituzione ancora tradizionale, confusa e irregolare, con le leggi differenti e contraddittorie, i ranghi separati, le classi immutabili, e i gravami diseguali, si elevava a poco a poco una società immaginaria, nella quale tutto sembrava semplice e coordinato, eguale e giusto, conforme a ragione”: L’Antico Regime, cit., p. 193.

7 “Secondo i fisiocrati, lo Stato non deve solo comandare alla Nazione, ma foggiarla in un dato modo: tocca ad esso formare lo spirito dei cittadini sopra un dato modello che si è proposto in anticipo; è suo dovere penetrarli di certe idee e fornire al loro cuore i sentimenti che giudica necessari. In realtà i suoi diritti non hanno limiti e quanto può fare non ha confini: non soltanto riforma gli uomini, ma li trasforma; forse dipenderebbe soltanto da esso anche farne degli altri! “Lo Stato fa degli uomini tutto ciò che vuole” scrive Bodeau. Questa frase riassume tutte le loro teorie. Questo immenso

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avrebbe favorito il progresso e la ricchezza. Insieme all’illuminismo razionalista, la fisiocrazia fornisce la Rivoluzione francese di quella convinzione, anche ingenua, che gronda dalle Costituzioni rivoluzionarie: la convinzione che tutto l’assetto di una Nazione possa essere cambiato da un giorno all’altro, che una riforma, sol perché in sé logica, poi funzioni quando applicata a qualcosa di così complesso e vivo come la società.

Di fatto, lo sconvolgimento sanguinoso che la Rivoluzione significò, e i 25 e più anni di sconquasso che determinò in tutta Europa, dimostrano da soli quanto di inaspettato, di incontrollabile, di imprevedibile può scatenare l’applicazione alla società di una riforma pensata a tavolino.

6.La separazione dei poteri

Il principio rivoluzionario di supremazia della legge era connesso, almeno in origine, all’idea democratica di una legittimazione dal basso del potere (la legge come espressione della ‘volontà generale’). Tuttavia, la supremazia della legge non ha bisogno, per instaurarsi, della democrazia, e può funzionare anche contro i presupposti di essa. Una condizione di cui invece la supremazia della legge, per affermarsi, ha sicuramente necessità, è la ‘separazione dei poteri’, che fu affermata con enorme insistenza nella Rivoluzione francese, in polemica stridente con la concezione ‘mista’ dei poteri dell’ordine antico. Il principio di separazione dei poteri concepito dalle costituzioni rivoluzionarie è separazione tutta a garanzia della legge, da un lato, e dell’amministrazione, dall’altro lato. Esso serve ad affermare che i tribunali non si ingeriranno sulla interpretazione e applicazione della legge, né sulla attività dell’amministrazione. La Rivoluzione infatti non solo conserva, ma anzi rafforza, le autonomie e le immunità di cui l’amministrazione già godeva ormai, nei confronti della davanti alla giurisdizione, nell’assolutismo, e al giudice nega il potere di chiedersi se la legge che deve applicare è ‘giusta’ rispetto al caso regolato.

Ha scritto Gino Gorla che con la divisione dei poteri inizia la decadenza del giudiziario. La divisione dei poteri, ha osservato questo grande giurista italiano, “è pensata per garantire l’indipendenza del potere esecutivo e specialmente di quello legislativo contro il potere giudiziario”. Quest’ultimo, nell’età di mezzo, era l’unico che di indipendenza già godeva, anzi ‘invadeva’ il campo ‘altrui’ – osservava polemicamente il nuovo Razionalismo - amministrando e facendo leggi. La divisione dei poteri pone al giudiziario un freno, inteso a farlo tramontare dal rango di potere politico che aveva detenuto in passato.

7.La traiettoria delle forme di governo tra Rivoluzione e Impero

Secondo uno schema che sarà tipico di ogni costituzione contemporanea, tutte le Costituzioni rivoluzionarie contengono, oltre alle norme sui diritti e i doveri, e a quelle sulla amministrazione e sulla giurisdizione, sul territorio e la cittadinanza, norme che descrivono la forma di governo: ovvero stabiliscono chi esercita la legislazione, chi detiene il Governo, cioè la guida della amministrazione e della politica generale. Le costituzioni che si succedono nel periodo rivoluzionario segnano in questa materia i grandi cambiamenti politici che portarono alla sostituzione dell’una con un’altra. Gli smottamenti, le crisi, gli assestamenti che si verificarono a questo livello furono infatti la ragione del drammatico susseguirsi di diverse Costituzioni, e di diversi modelli di governo.

potere sociale immaginato dagli economisti non è soltanto più grande di tuti quelli che essi hanno sotto gli occhi, ma ne differisce per l’origine e per il carattere. Non deriva direttamente da Dio, non si riallaccia alla tradizione: è impersonale. Non si chiama più ‘il re’, ma ‘lo Stato’. Non è più l’eredità di una famiglia, ma il prodotto e il rappresentante di tutti e deve far piegare il diritto di ognuno sotto la volontà di tutti” (209)

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Dopo che il principio monarchico, ancora parzialmente conservato dalla Costituzione del 1789 – che formulava come forma di governo la monarchia limitata, ossia manteveva il Monarca (soggetto alla legge) affiancandogli i Corpi legislativi – venne definitivamente travolto, fu per sempre perduta la certezza che nei secoli aveva indicato, tramite la linea dinastica, il detentore del potere supremo.

Noi non ci soffermeremo sul complesso repertorio delle forme di governo di questo periodo, se non per segnalare che, attraverso la successione dalla monarchia limitata al Direttorio e poi al Consolato, che segna la salita al potere di Napoleone Primo Console, poi incoronato Imperatore nel 1801, la vocazione ‘democratica’ della rivoluzione fu inarrestabilmente travolta dall’accentramento nel Capo del Governo del potere di esprimere la volontà generale. E’ interessante ricordare che nella Costituzione del 1799 (che istituisce il Consolato: Napoleone è il Primo Console), il legislativo diventa chiamato solo ad approvare le proposte di legge del Governo (studiate e redatte dal Consiglio di Stato): “Saranno promulgare nuove leggi soltanto nel caso in cui il progetto sarà proposto dal governo e decretato dal Corpo legislativo”. Era la volontà del potere esecutivo che diventava legge, ossia il sogno dei sovrani assoluti che si realizzava

Mentre si svolgeva la serie impressionante di cambiamenti che tra Rivoluzione e Impero investono la forma di governo, due linee andavano consolidandosi, per essere consegnate come patrimonio acquisito allo stato ottocentesco: la burocratizzazione della giurisdizione e la consacrazione della amministrazione come cuore dell’attività dello stato.

B.La burocratizzazione della giurisdizione

1.La burocratizzazione della giurisdizione

Come abbiamo sin qui già osservato più volte, il vero soggetto pubblico che, con la Rivoluzione e il periodo napoleonico, riuscirà effettivamente subordinato a qualcosa, e molto ridimensionato rispetto al passato, è il giudice, di cui la Rivoluzione ricorda molto bene, e perciò esorcizza e annulla, il potere di valutare il diritto che è chiamato ad applicare, di domandarsene l’adeguatezza al caso regolato. Per chi era preoccupato di assicurare onnipotenza alla legge, la limitazione dei poteri della giurisdizione era un obiettivo essenziale: la legge avrebbe altrimenti troppo facilmente finito per risultare solo una delle tante fonti che il giudice prendeva in considerazione nella sua opera di riconoscimento del diritto applicabile e di cui, coi suoi strumenti interpretativi, definiva l’estensione e la portata.

La Rivoluzione per prima cosa sopprime, coi diritti feudali, la giustizia signorile, istituendo il principio per cui la giustizia è demandata “ai soli tribunali istituiti per legge e secondo le forme determinate dalla legge”8.

Poi si impegna a introdurre un ‘codice delle leggi’9, un riordino del diritto vigente che ponendo nel nulla il diritto antico e la storia, le tradizioni, gli usi e le mentalità di cui è espressione, e che stabilisca anche regole sui modi di ragionare consentiti ai giudici (per esempio stabilendo in che limiti si può ricorrere all’analogia, quando è vietata, ecc.).

Per ricondurre i giudici alla ‘soggezione’ e cioè all’”obbedienza” della legge, la Rivoluzione creò, inoltre, due istituti molto importanti e completamente nuovi, che servivano entrambi a impedire che

8 “Nous les avons enterrés tout vivants!” (Li abbiamo seppelliti ancora vivi!) esclamò un deputato all’uscita della seduta che, rinnovando un editto immediatamente anteriore alla Rivoluzione, del 1788, abolì i Parlamenti. La citazione in N. Picardi, La giurisdizione all’alba del terzo millennio, Giuffrè, Milano, 2005, p. 145.

9 Il codice delle leggi civili e penali è uniforme per tutta la Repubblica (1793).

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il giudice, nel decidere una controversia e nell’interpretare la legge, potesse contraddirne la volontà: il referé legislatif, in forza del quale il giudice, in caso di dubbio, doveva rivolgersi al corpo legislativo perché interpretasse esso stesso il proprio testo, e il Tribunale (poi Corte) di Cassazione, incaricato di “annullare le sentenze che contengono una violazione esplicita della legge”, che rimase come modello delle Corti di Cassazione, o Corti supreme di legittimità, adottate in tutti gli Stati europei continentali, e che sono le Corti chiamati verificare se, nel decidere un caso, un altro giudice ha scelto la norma adatta e ne ha dato una corretta interpretazione10. I poteri interpretativi del giudice venivano ridotti, se non esclusi; e la giurisdizione veniva organizzata secondo un ordine gerarchico che ricordava quello adottato per la amministrazione, cui in effetti la giurisdizione era ormai equiparata, come potere a sua volta chiamato a dare ‘ applicazione ‘ alla legge e ad esso subordinato.

La legislazione napoleonica proseguì in questo solco con una legge sull’organizzazione giudiziaria (1810) che organizzava la magistratura in gradi analoghi all’esercito; ribadiva l’unicità della giurisdizione (c’è una sola giurisdizione, quella dello stato); attribuiva al governo il controllo sul reclutamento e la carriera dei magistrati.

Anche l’impresa della codificazione, promessa ma non compiuta dalla Rivoluzione, fu realizzata da Napoleone, che nel 1804 fece approvare un codice, passato alla storia come Codice Napoleone, che raccoglieva il diritto privato vigente in Francia, che fornì il modello a tutte le codificazione cui posero mano gli Stati italiani preunitari e poi il Regno d’Italia, e che ha influito in modo determinante sulla concezione del diritto in Europa continentale.

2. La codificazione

10 Nella formulazione della Costituzione dell’anno III (1795): “Il tribunale di cassazione non può mai giudicare nel merito delle liti; ma cassa le sentenze pronunziate su procedure nelle quali le forme sono state violate, o che contengono qualche contravvenzione esplicita alla legge, e rinvia il merito del processo al tribunale che deve giudicarlo”. Nel modello del 1795 sedevano nella Corte rappresentanti del Governo (il Direttorio), che potevano denunciare al tribunale di cassazione gli atti nei quali i giudici hanno ecceduto dei loro poteri.

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La codificazione del diritto risponde in epoca moderna all’idea che uno stato nazionale, sovrano nel suo territorio, non potrebbe considerarsi tale se all’interno dei suoi confini e nei rapporti tra i suoi cittadini venisse applicato un diritto che lo stato non ha posto. La codificazione completa la formazione dello stato realizzando la ‘nazionalizzazione’ (o statizzazione) del diritto.

Naturalmente, la codificazione non significò e non poteva significare ricreare tutto il diritto ex novo11. I codici contennero quella che in gran parte non era che una riformulazione, una raccolta e una sistematizzazione del grande corpus del diritto comune per come si era venuto formando nei secoli. La vera novità non stava in ciò che il codice disponeva, ma nel principio che la esistenza del codice poneva: codificazione significa raccogliere in un unico testo il diritto allo scopo di stabilire che solo ciò che è in quel testo è diritto (proibisce, obbliga) perché solo l’autorità che ha approvato, voluto e promulgato quel testo è capace di porre il diritto.

Una prima conseguenza di questo principio è che il diritto diventava un prodotto dello stato, il legislatore era il suo autore.

Come ebbe a dire un giurista francese del tempo:

“Io non conosco il diritto romano; io insegno il Code Napoléon”

11 In effetti, si trattò, a differenza di molti altri istituti rivoluzionari, di una ‘innovazione nella tradizione, perciò saggia e durevole” (N. Picardi, op. cit., 151): se i codici sono ciò che di quell’epoca più ha durato e più ha avuto influenza, si deve al fatto che essi non furono scritti da quei philósophes iper-razionalisti ed astratti, e del tutto inesperti della cosa pubblica, contro cui Tocqueville indirizza il suo dileggio, ma da esperti giuristi dalla grande esperienza pratica, estremamente consapevoli di quello che facevano e della delicatezza dell’operazione di innestare il codice sul grande corpo del diritto comune. Parla da sé anche il fatto che, nell’adattamento del codice Napoleone per l’Italia, fu coinvolto uno dei più grandi giuristi italiani di tutti i tempi, Gian Domenico Romagnosi.

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che era tanto una chiara dichiarazione di rottura col passato quanto una orgogliosa rivendicazione del carattere ormai nazionale del diritto.

Le norme di procedura (norme del tutto nuove che disciplinarono il processo, che sino ad allora si svolgeva secondo le prassi giudiziarie, cioè in base a criteri forgiati dai giudici e consolidati nel corso del tempo) si preoccuparono di chiarire che le sentenze emesse in stati stranieri non valevano in Francia, ribadendo il carattere statuale del diritto, anche in questo senso non più “comune” ma diverso da stato a stato (perché risalente a diversi ‘sovrani’).

Una seconda conseguenza, o implicazione, della codificazione, è che con essa si accentua il carattere strumentale del diritto, che diviene un mezzo per perseguire i fini dello stato, o del legislatore. L’idea che la fonte del diritto fosse la legge dello Stato faceva del diritto uno strumento di quest’ultimo, dello Stato, appunto: un mezzo per realizzare fini di riforma, di cambiamento, di innovazione, di superamento dei vincoli, delle chiusure, dei privilegi del passato (perché il passato veniva sempre rappresentato come una cosa negativa e brutta, secondo l’atteggiamento che è tipico di ogni stagione riformatrice). Codificando il diritto, molto, infatti, del passato venne conservato, ma molto fu travolto. Istituti millenari ma non più consoni alle esigenze di una borghesia imprenditoriale vennero cancellati, a partire da tutti i limiti che circondavano la circolazione economica della proprietà immobiliare. Idee nuove sulla società e sui modi di vivere si imposero: per esempio una nuova idea di famiglia, e di come trasmettere i patrimoni familiari: il codice Napoleone introdusse il divorzio (ma non nella versione che ne fu stesa per l’Italia).

(continua) La legge delle leggi (lex legum).

Ogni ordinamento modellato sul tipo “stato nazionale” avrebbe in seguito adottato codici, e caratteristica di essi sarebbe stata quella di contenere una disposizione o più disposizioni che indicano quali sono le fonti del diritto, cioè gli atti al cui contenuto il giudice può guardare per risolvere le controversie, e una disposizione o più disposizioni che dettano ‘norme sull’interpretazione’ cioè stabiliscono i criteri che il giudice deve seguire per interpretare la legge; norme, anzi, per ‘applicare’ la legge, perché si suppone che non si tratti più di interpretazione.

In linguaggio contemporaneo chiamiamo norme sulla produzione le norme che indicano quali sono le fonti del diritto e norme sulla applicazione o sull’interpretazione quelle che indicano al giudice i criteri da osservare quando applica la legge. Nel loro insieme queste norme sono considerate ‘norme strumentali’ (che dicono come si fa o si trova il diritto) o norme di secondo grado (logicamente superiori alle norme che stabiliscono il diritto sostanziale, cioè che prescrivono diritti o doveri, comportamenti da tenere o non e relative conseguenze), o anche norme di riconoscimento (norme che dicono come si ‘riconosce’, cioè come si individua, il diritto applicabile).

Le norme sulle fonti e quelle sulla applicazione del diritto sono (e fanno del codice che le contiene) ‘leggi sulle leggi’ (leges legum).

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Esse consistono nel togliere alla giurisdizione e trasferire al legislatore quella che fino a quel momento era stata la essenza della attività giurisdizionale, o della attività interpretativa propria del giudice: individuare la norma applicabile attraverso una ricerca che, guidata dai criteri di una logica persuasiva e dialettica, tendeva alla soluzione più ragionevole. In questo senso, vi era per il giurista di diritto comune una unica grande fonte di riconoscimento, che era l’equità. In questa attività interpretare il caso e interpretare il diritto che lo regolava erano attività che si chiamavano in causa l’un l’altra: la scelta della norma applicabile non poteva prescindere dalle caratteristiche del caso regolato (dovendo, per esempio, escludersi le norme che comportassero, in un caso dato, conseguenze assurde o irragionevoli). Con le leges legum il problema si scinde: è la legge che dice al giudice quali sono le fonti del diritto, in che ordine deve dare loro applicazione, e seguendo quali criteri logici. Egli dovrà limitarsi, come diremo anche nel paragrafo successivo, a ‘sussumere’ il caso concreto alla ‘fattispecie’ legislativa, in maniera meccanica e avalutativa (per esempio e in particolare senza tener conto di eventuali conseguenze irragionevoli, tanto meno della contrarietà tra la legge nuova e il diritto antico).

La antica ‘interpretato’, guidata dalla logica del probabile e del ragionevole, e che presupponeva l’equità come grande norme di riconoscimento del diritto, viene dunque messa al bando: perché essa presuppone che la legge non esaurisce il diritto, ma che il diritto stia, semmai, accanto alla legge per mitigarne gli abusi, le conseguenze irragionevoli, o illogiche, in relazione ai casi singoli.

Ciò avviene vincolando il giudice al rispetto della ‘lettera’ della legge (cioè al tenore letterale della disposizione), e vietandogli di ricorrere a fonti ‘culturali’ come i precedenti giudiziari, la dottrina, o l’equità.

Si legge nel codice Napoleone per l’Italia (1796):

“A datare dal giorno in cui il Codice Napoleone sarà posto in attività, le leggi romane, le ordinanze, consuetudini generali o locali, gli statuti o regolamenti cesseranno di aver forza di legge generale o particolare nelle leggi che formano oggetto delle disposizioni contenute nel codice Napoleone”.

Ecco una tipica ‘norma sulle fonti’: il codice stabilisce che cosa non dovrà essere considerato diritto.

Da notare che, poiché ‘consuetudini’ erano anche, se non soprattutto, quelle interpretative (o usi del foro) ciò significava togliere al giudice la possibilità di riferirsi ai precedenti e alla sapienza giuridica.

“Le leggi hanno esecuzione in tutto il territorio italiano in forza della promulgazione fatta dal Re. Sono osservate in qualunque parte del Regno, dal momento in cui può esserne conosciuta la promulgazione.”

Altra tipica norma sulle fonti: il codice dice che cosa deve essere considerato diritto. La legge promulgata dal re.

La norma sulle fonti dice che cosa va considerato fonte: la legge promulgata. Questo vuol dire anche che le fonti del diritto iniziano a tipizzarsi (è fonte la legge, la legge è l’atto normativo che è promulgato dal Re. Ogni fonte del diritto deve corrispondere a un certo ‘tipo’ previsto dalla legge, la quale regola anche i rapporti tra i diversi tipi di atti (stabilendo quale ha la prevalenza in caso di contrasto), o risolvendo, come vedremo subito, il contrasto tra leggi diverse nel tempo.

La legge non dispone che per l’avvenire, essa non può avere effetto retroattivo.

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Ecco una fondamentale norma sulle fonti, decisiva per il rapporto tra legislazione e giurisdizione. Nel diritto comune il problema del valore della legge nel tempo non poteva essere risolto sempre allo stesso modo con la prevalenza della lex posterior (della legge più recente) perché questo poteva avere risultati ingiusti. Il problema del valore della legge nel tempo si mescolava a quello interpretativo. Ora si impone che sempre e in ogni caso la legge posteriore prevalga. Chiari i legami tra questo e la concezione del diritto come uno strumento che il legislatore usa per indirizzare e modellare la società secondo un suo disegno.

Le leggi di Polizia obbligano tutti quelli che dimorano nel territorio.

Altra norma sulle fonti: riconosce come fonti del diritto i regolamenti amministrativi e stabilisce il loro ambito di applicazione.

Se un giudice ricuserà di giudicare sotto pretesto di silenzio, oscurità o difetto della legge, si potrà agire contro di lui per denegata giustizia.

Ecco una norma sull’interpretazione: in passato l’’attività interpretativa poteva condurre a concludere che il caso non era contemplato dalla legge, o che la legge era in ‘difetto’, cioè assurda irragionevole contraddittoria. Quste naturali conseguenze della interpretatio, ora equivalevano a ‘denegata giustizia’. Il concetto è che al di fuori della legge non esiste diritto, il diritto sta tutto nelle leggi.

E’ proibito al giudice di pronunziare in via di disposizione generale o di regolamento sui casi di loro competenza.

Una norma che garantisce la ‘separazione dei poteri’ tra giurisdizione e amministrazione e impone al giudice di dichiararsi non competente su tutte le questioni amministrative.

3.Riflessi sulla logica giuridica: l’avvento della logica dimostrativa e del sillogismo giudiziale nel ragionamento giuridico

La codificazione è dunque un’opera di statizzazione del diritto che ha avuto enormi riflessi sulla ‘logica giuridica’ sul modo di ragionare cui i giudici sono autorizzati ed educati

L’idea di fondo della codificazione è che tutto il diritto sia solo quello espresso nella legge o nelle altre fonti che essa autorizza a produrlo. Conseguenza di questo è stato l’ingresso della convinzione per cui è possibile e doveroso per il giudice fare ricorso a una logica dimostrativa di tipo matematico (in grado, si pensava, di garantire una certezza dello stesso tipo di quella scientifica e perciò di evitare arbitri).

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La legge dettata dal sovrano, dallo stato, che si proponeva di essere generalmente valida e per una serie infinita di casi, di offrire la risposta a tutte le ipotesi, venne immaginata come la ‘premessa necessaria’ del ragionamento del giudice, che doveva dedurre dalla legge le conseguenze logiche, e in tal senso limitarsi ad ‘applicare’ la legge al caso concreto.

Questo tipo di ragionamento si chiama ‘sillogistico’ e serve a far apparire il ragionamento del giudice come neutrale ed avalutativo. Il sillogismo giudiziale consisterebbe in questo tipo di deduzione: Se è vero A (che la legge punisce l’omicidio con una certa pena) ed è vero B (che Tizio ha commesso omicidio) allora ne consegue C (la pena che A fissa). Questa ricostruzione, imponendo al giudice di farsi ‘bocca della legge’, vuole impedire al giudice di tener conto di elementi circostanziali e concreti, che differenziano tra loro i casi simili, vuol garantire all’applicazione della legge universalità e oggettività. Il sillogismo giudiziale vuole ottenere la neutralità del giudice; meglio, gli vuole imporre di proteggere gli stessi interessi, gli stessi valori, gli stessi punti di vista che il legislatore (cioè l’organo politico) ha inteso proteggere.

Col sillogismo il ragionamento giudiziale si formalizza

L’attività del giudice diventò così quella di tecnico specializzato nella esatta esegesi (interpretazione) della volontà del legislatore, una volontà che si differenzia da stato a stato. Così anche la formazione del giurista cambiò, il giurista iniziò a formarsi studiando il diritto (le leggi) valide nel suo paese e preoccupandosi specialmente di conoscere bene il diritto (cioè le leggi) del suo paese, e il diritto venne insegnato come un insieme autoreferenziale di precetti che avevano in sé la propria origine e giustificazione. Le ragioni politiche, economiche, storiche, che stavano dietro l’introduzione di questa o quella norma, non dovevano interessare al giurista. Tantomeno egli doveva preoccuparsi del contenuto di ciò che applicava, se fosse giusto, ingiusto, coerente o meno con altre leggi, ragionevole, contradditorio o meno. Era un altro modo per sancire la separazione tra diritto e politica, e tra diritto, società e storia, e, con questo, per negare le idee che circa il diritto, il suo ruolo e le sue espressioni avevano dominato prima della affermazione del nuovo modello organizzativo, lo Stato sovrano.

Si delineava un contesto in cui la legge è la fonte superiore a tutte le altre, e le deve essere data obbedienza da tutti, a partire dai giudici; essi non concorrono più, come un tempo, a creare il diritto, non sono portatori dei valori e delle tradizioni, né del punto di vista nascente da un sapere professionale che si forma autonomamente, e con il quale la legge potrebbe entrare in

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contraddizione; tanto meno essi sono portatori di un modo di usare la ragione, equitativo, volto alla ricerca di una composizione ragionevole delle controversie, alternativo a quello del legislatore.

Trasformare la giurisdizione in una funzione dello Stato ha significato, in una parola, tentare di eliminarne l’autonomia, nel senso di capacità di darsi criteri di giudizio.

Le metafore cambiarono: la magistratura (non si parlava più di ‘giurisdizione’) veniva paragonata normalmente all’esercito e su di esso rimodellata: i giudici-burocrati erano divisi per gradi, organizzati verticisticamente, e immaginati come i fedeli esecutori e difensori della legge dello Stato.

4. Il positivismo statualista e le concezioni imperativistiche del diritto

Superiorità della legge, statizzazione del diritto, avalutatività del giudice, sillogismo giudiziale sono i cardini del positivismo statualista e del connesso volontarismo e imperativismo. Con le trasformazioni che stiamo studiando, il diritto non è più il campo in cui si pondera il giusto e l’ingiusto, alla luce di un pensiero possibilista, ma quello in cui si applica la volontà della legge, che stabilisce ciò che si deve o non si deve fare e connette sanzioni all’inosservanza dei suoi precetti. Il diritto diventa un atto della volontà (del legislatore) non più un problema di conoscenza (che il giudice si pone), come invece era nell’intendimento antico e di diritto comune (volontarismo).

Il positivismo statualista asserisce che è diritto solo quello che viene posto, nelle forme previste dall’ordinamento e dalle autorità ciò preposte. Solo lo Stato (attraverso i suoi organi e con atti tipici) pone il diritto; solo ciò che è posto dallo Stato (attraverso i suoi organi e con atti tipici) è diritto.

Il diritto dello stato è legge grazie alla sua autorità (imperativismo), non in forza della sua ragionevolezza.

Il positivismo statualista si accompagna alla tesi della completezza dell’ordinamento giuridico: questa tesi afferma che nell’ordinamento, essendo quest’ultimo composto tutto e solo da norme dettate da legge o altri atti normativi, non vi sono lacune che possano essere colmate con l’interpretazione giuridica, con l’analogia; precisamente, il ricorso a questi metodi di ragionamento deve avvenire solo nei modi e nei casi che la legge stessa autorizza.

A.La consacrazione dell’amministrazione

1. L’acquisto dei compiti di concreta gestione, oltre a quelli regolamentari e contenziosi

Anche l’amministrazione compie, con la Rivoluzione una trasformazione epocale, ma, a differenza della giurisdizione, nel senso dell’espansione, della crescita e del rafforzamento dei suoi poteri. Intanto, l’attività dell’amministrazione non è più solo attività regolamentare o contenziosa, ma anche attività di concreta gestione degli interessi. Una volta scomparsi i corpi intermedi, ovverosia le comunità di villaggio, le corporazioni e gli ordini professionali, gli ordinamenti feudali, è infatti l’amministrazione ad assumere i compiti che un tempo venivano esercitati attraverso di essi: “Nel 1789 l’amministrazione è già vista sia come titolare di compiti di regolazione (tutela, sicurezza, salubrità) sia di erogazione (beneficienza, educazione, incentivazioni) sia di gestione patrimoniale (proprietà pubbliche, strade, foreste)”12.12 ) “La Nazione si è dotata di una amministrazione comune, di una amministrazione generale, di cui è titolare in via esclusiva, e proprio a questa amministrazione ha affidato il compito di colmare il vuoto creato dalla abolizione dei corpi”: Mannori e Sordi, cit., p. 216.

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2. La strutturazione in corpo burocratico gerarchicamente organizzato

Per tutto il periodo rivoluzionario, l’amministrazione rappresentò, peraltro, un organismo fragile e complicato perché le costituzioni rivoluzionarie ne fecero un corpo elettivo, che agiva collegialmente, ma che non era rappresentativo delle comunità e dei territori rispetto ai quali operava. Questa struttura contraddittoria si rivelò disfunzionale. Con Napoleone l’amministrazione venne trasformata in senso professionale e burocratica, cioè i suoi agenti e ufficiali avevano incarichi permanenti in cui entravano per nomina governativa. Agli organi amministrativi venne data una struttura monocratica, accentrata e gerarchica. Una legge del 1810 introdusse le nuove figure del Prefetto nel Dipartimento, Sottoprefetto nell’Arrondissement, Sindaco nel comune. Si trattava di altrettanti organi monocratici (cioè composti da una sola persona fisica) nominati dal governo e al cui fianco i sopravvissuti organi elettivi conservarono solo funzioni di proposta e di riparto dell’imposta13. Queste figure, lo si noti ora di passaggio, furono tosto imitate dal Piemonte sabaudo, e avrebbero fornito il modello dell’amministrazione italiana dello stato unitario.

Il carattere monocratico assunto dagli organi amministrativi ha una grande importanza: “negando la collegialità si nega definitivamente la rappresentanza, e con essa quella caratterizzazione sociale che l’amministrazione, pur in forme tanto variegate, aveva sempre mantenuto. Da questo momento il carattere collettivo degli interessi pubblici non sarà più associato all’idea elementare che, proprio per questa loro natura, essi richiedono di essere esercitati in forma parimenti collettiva. Proclamando che ‘soltanto il prefetto sarà incaricato dell’amministrazione nel suo Dipartimento’ la legge napoleonica dichiara in sostanza che la società è divenuta il semplice oggetto di una funzione amministrativa di esclusiva pertinenza statale, che il suo consenso è irrilevante davanti all’azione amministrativa, in quanto si considera già interamente speso nel momento di formazione della legge, e che perciò da quel momento lo Stato è diventato l’unico rappresentante di qualunque interesse pubblico14” .

3.Il consolidamento del principio per cui l’amministrazione si giudica da sé e la nascita della giustizia amministrativa

Anche il processo di immunizzazione della amministrazione dalla giustizia ordinaria che l’assolutismo aveva realizzato viene confermato e perfezionato dalla Rivoluzione, nonostante essa fosse partita dal proposito opposto. Le liti in materia di imposta diretta, sui lavori pubblici, sulla contrattualità amministrativa furono conferite alla conoscenza delle stesse amministrazioni distrettuali e dipartimentali, nel 1789; si ribadì che i ricorsi per incompetenza contro i corpi amministrativi non rientravano in alcun caso nella competenza dei tribunali ma dovevano essere portati al re, come capo dell’amministrazione generale, il che equivaleva a rimettere alla amministrazione il controllo su tutta la sua attività; nel 1795 e nel 1797 si vietò ai tribunali di ‘prendere conoscenza di atti dell’amministrazione, di qualunque specie essi siano “ e di sottoporre a giudizio “qualunque operazione si esegua dietro ordine del Governo, per mezzo dei suoi agenti immediati, e con fondi forniti dal Tesoro pubblico”15 .

Le ragioni della scelta della rivoluzione di affidare alla sola amministrazione il giudizio sui suoi atti sono almeno due. Da una parte vi era la diffidenza dei rivoluzionari verso un potere, quello giurisdizionale, che, benché fosse ormai un pallido riflesso del suo antenato premoderno, sollevava 13 Cfr. L. Mannori e B. Sordi, op. cit., p. 219 e 247.

14 L. Mannori e B. Sordi, op. cit., p. 248.

15 Op. ult.cit., p. 241 e 243.

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sempre il ricordo delle turbolente corti di antico regime e della loro scarsa disponibilità a farsi controllare e dirigere. Dall’altra parte vi era la consapevolezza del fatto che, proprio per essere stata la giurisdizione ridotta a una attività di meccanicistica applicazione della legge, essa era tanto più strutturalmente inidonea a statuire su quelle materie, quelle concernenti la cura dell’interesse pubblico, ‘in cui l’amministrazione dispone di una latitudine di apprezzamento che esclude l’esistenza di uno stretto rapporto di conformità alla legge’ 16. In altri termini, il gatto si mordeva la coda: avere ridotto la giurisdizione al sillogismo deduttivo, alla mera ‘esecuzione della legge’ diventava un motivo che giustificava la sottrazione cognizione dei giudici ordinari degli atti amministrativi, che eseguono la legge ma “per loro natura” devono anche integrarla, completarla, adattarla, tramite l’apprezzamento del caso concreto, dando conformazione concreta all’interesse pubblico che l’amministrazione persegue.

La legislazione dell’anno VIII , con Napoleone completa l’itinerario individuando nel Consiglio di Stato, a livello centrale, e nei Consigli di prefettura, a livello dipartimentale, i due organi di giustizia dell’amministrazione. Il giudice speciale per l’amministrazione, che veniva così istituito, era composto a sua volta di funzionari amministrativi nominati dal Governo.

4. La definitiva conquista dell’esecutorietà

Sommata ad una amministrazione che ormai agiva attivamente svolgendo una miriade di compiti che incidevano sui comportamenti e i beni dei privati, la sottrazione degli atti dell’amministrazione al controllo giudiziario generò una caratteristica rimasta da allora distintiva dell’atto amministrativo: l’esecutorietà, cioè la capacità dell’amministrazione di portare a compimento i propri atti, apprendendo i beni o la persona dell’interessato, da sola, senza bisogno, come invece deve fare il privato, di rivolgersi prima al giudice per vedere accertata la legittimità della propria pretesa: “il comando amministrativo divenne così capace di imporre al cittadino una immediata obbedienza solo in virtù di una sua propria e intrinseca forza17”.

Con questo, prendeva forma definitiva quel ‘potere esecutivo’ (l’insieme del Governo e della pubblica amministrazione) che, nel corso del tempo, si è dimostrato così bene capace di violare la libertà e i beni delle persone, che è contro di esso che si rivolgono, in essenza, le fondamentali garanzie costituzionali che proteggono i beni essenziali, come la libertà personale. L’art. 13 della vigente Costituzione italiana – per esempio - ha di mira proprio l’esecutorietà quando richiede, affinché qualcuno possa essere ‘arrestato o altrimenti privato della libertà personale’ che ciò non soltanto avvenga ‘nei casi e modi previsti dalla legge’ ma anche ‘dietro atto motivato dell’autorità giudiziaria’.

Il problema della tutela dei diritti davanti all’amministrazione e alla sua forza esecutoria è uno dei nodi più tormentosi del modello di convivenza realizzato dallo stato contemporaneo. In Francia, quando i cittadini si trovarono messi davanti in modo evidentissimo al fatto che ‘grazie alla loro immunità dal controllo dei tribunali, le statuizioni amministrative si erano aggiudicate la capacità di creare o modificare unilateralmente la posizione giuridica dei loro destinatari, indipendentemente dal consenso di questi ultimi”, in un momento storico in cui vi era però ancora chi ricordava il clima pan-processualistico, la concezione giustiziale del potere, viva nell’antico regime, qualche reazione si fece sentire subito, e si impose almeno nel campo dell’espropriazione.

“Preoccupato del diffuso malcontento che il meccanismo puramente amministrativo dell’esproprio inaugurato nel 1807 aveva suscitato, l’imperatore riconobbe che, in effetti, ‘se si può incidere la proprietà dei cittadini senza (…) che i magistrati nulla possano fare per opporvisi, è chiaro che la proprietà non è garantita

16 Op.ult.cit., 245. Le parole tra virgolette sono del francese Chevallier.

17 L. Mannori e B. Sordi, op. cit., p. 261.

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nell’ambito dell’Impero’. In una celebre nota indirizzata nell’estate del 1809 al ministro della giustizia egli sottolineava che, tutto sacrificando alla ‘ridicola mania’ della separazione dei poteri, ‘ si era voluto che la giustizia fosse indipendente dal Governo e per renderla indipendente la si era annullato e si erano messi tutti i proprietari alla mercé del Governo stesso”. Conformemente a questi rilievi, la legge 8 marzo 1808 riservò all’autorità giudiziaria la competenza esclusiva di pronunciare l’esproprio su istanza dell’amministrazione. Ciò non significò, ovviamente, un ritorno al ‘governo dei giudici’ di premoderna memoria, dal momento che i tribunali erano ora chiamati soltanto a verificare la correttezza del procedimento seguito dall’amministrazione per addivenire alla dichiarazione di pubblica utilità, e dunque all’esproprio, e non ad assumere decisioni di merito. Resta il fatto che in materia espropriativa l’amministrazione venne privata del suo privilegio formalmente più rilevante, quello di fabbricarsi autonomamente i suoi titoli esecutivi. Le fu anche imposto di seguire una procedura minutamente regolata e aperta alla partecipazione degli espropriandi e dei terzi per addivenire all’individuazione dei beni da espropriare, mentre la delicatissima determinazione dell’indennità espropriativa venne attribuita prima all’autorità giudiziaria, poi dal 1833, sull’esempio inglese, a una giuria di proprietari fondiari. Molti degli elementi propri dell’antica amministrazione giustiziale riemergono dunque in questa disciplina. Di fronte all’enorme valore simbolico della proprietà fondiaria, baluardo e palladio di tutti i diritti borghesi, i privilegi dell’amministrazione si smorzano, la distanza tra lo stato e il cittadino tende a ridursi, e il sindacato giudiziario a riespandersi correlativamente. Naturalmente si trattò di un regime di eccezione mai ritenute estensibile a materie diverse. Ma esso offre una prova di come la grande vittoria riportata dall’esecutivo all’inizio del secolo non avesse cancellato del tutto la memoria di un altro modo di amministrare in cui lo stato non si ponesse come super-soggetto, interprete unico e sovrano del rapporto tra interesse pubblico e privato18.

5. L’autonomia del potere regolamentare dalla legge

Oltre alla immunità dalla giurisdizione, l’amministrazione conquista nel periodo considerato anche una autonomia dal potere legislativo. Sebbene configurato dalla Rivoluzione come ‘esecuzione della legge’, il potere regolamentare dell’amministrazione “si libera subito dalla sua subordinazione alla legge, per conquistarsi uno spazio d’azione del tutto autonomo: il Direttorio emanò regolamenti a getto continuo nelle più svariate materie anche senza autorizzazione legislativa e talvolta modificando addirittura le leggi.” Negli anni della dittatura imperiale si arriverà a sostenere che ‘tutto ciò che è di amministrazione è oggetto di solo regolamento’ e che ‘ il legislatore ‘ non deve occuparsi che dell’imposta e delle leggi civili generali’. Furono scelte che si tradussero in concezioni molto durature: tutto l’Ottocento “non avrà dubbi sulla legittimità dei regolamenti autonomi, che appariranno come il naturale riflesso della missione generalista affidata all’amministrazione. Gli amministrativisti ottocenteschi insegneranno infatti che ‘la sorveglianza del potere esecutivo dovendo essere continuativa e il suo dovere essendo di mostrarsi nello stesso momento ovunque lo chiamino i bisogni della società, questo potere deve, anche per mezzo di regolamenti, agire con una attività eguale a quella del corso degli eventi’ e che ‘il potere regolamentare, indispensabile al compimento della missione affidata alla autorità amministrativa, costituisce uno degli elementi essenziali del potere esecutivo’19 “

D. Trasformazione senza rivoluzione: cenno all’“assolutismo illuminato” dell’area germanica

Prima di lasciare il tema dell’assolutismo, e delle sue trasformazioni, occorre gettare un sia pur rapidissimo sguardo all’area in cui la transizione tra ordine antico e moderno si è verificata senza rivoluzione, e cioè, per quanto riguarda l’Europa continentale, all’area germanica (Austria,

18 L. Mannori e B. Sordi, op. cit., p. 264.

19 L. Mannori e B. Sordi, op. cit., p. 253.

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Germania, paesi scandinavi). In questa area, la formazione dello stato è avvenuta in maggiore continuità con le strutture politiche e giuridiche preesistenti, rispetto alla esperienza francese. Oltre a significare, spesso, una maggiore conservazione delle autonomie politiche dei territori compresi nella sovranità statale, questo processo più graduale significò anche una molto più lenta, e meno traumatica, sostituzione del diritto di fonte statale al diritto tradizionale (romano e consuetudinario), che ha continuato, in Germania per esempio, a essere considerato vigente fino a tutta la metà dell’800 accanto al diritto di fonte statale - legislativa. In queste aree, minore fu anche la contrapposizione tra il potere sovrano e quello giurisdizionale, perché qui i magistrati storicamente non avevano avuto quella posizione di inamovibilità e indipendenza che aveva caratterizzato i giudici francesi, e pertanto “i magistrati non potevano rappresentare un serio ostacolo alla politica di concentrazione del potere perseguita dalla monarchia20”.

Nelle teorie di area germanica dedicate a giustificare la sovranità dello stato, l’insistenza non cade sulla ‘ragion di stato’, ma sull’idea di bene comune. Si insegnava che lo stato serviva a curare il bene comune (Gemeinwhol) della comunità, e si accentuava, nel caratterizzare la funzione sovrana, anziché la volontà, la doverosità. Le “quattro obbligazioni fondamentali del principe”, si teorizzò all’epoca, si distinguevano in due gruppi principali: quelle attinenti alla sicurezza (difesa esterna e ordine pubblico interno) e quelle attinenti al benessere (produzione e circolazione della ricchezza). Il potere pubblico, in quest’area, è messo a tema come ‘dovere’, come ‘servizio’.

Queste teorie insistevano in altri termini sul fatto che il sovrano aveva il dovere di curare il bene comune ed era per questo che aveva i corrispondenti poteri. Per questa via anche nell’area germanica vennero in evidenza e acquistarono speciale importanza le funzioni amministrative. L’obiettivo dello stato in questa area geografica e culturale fu prima formare i “funzionari del principe” (che diverranno i “servitori dello stato”), poi dare vita al “diritto del principe”. Prima vennero create numerose ed efficienti burocrazie, ripartite nei diversi rami dell’amministrazione e della giurisdizione, ma ciascuna di esse composte da funzionari nominati dal sovrano e ad esso gerarchicamente subordinati. Poi si provvide alla codificazione, razionalizzazione e unificazione dell’ordinamento normativo relativo all’azione amministrativa.

20 N. Picardi, La giurisdizione, cit., p. 136.