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i sapori Le ricette dal passaparola al blog STEFANO BARTEZZAGHI e LICIA GRANELLO l’incontro Angelopoulos e il tempo in trappola MARIO SERENELLINI cultura Leonardo Sciascia scrittore e politico TANO GULLO e CONCETTO VECCHIO l’immagine Hänsel e Gretel secondo Mattotti GIUSEPPE MONTESANO l’attualità Video, l’era del tecno-testimone MICHELE SMARGIASSI FOTO THOMAS DWORZAK / MAGNUM/ CONTRASTO R amzan Kadyrov, il giovane presidente della Cecenia è, come tutti sanno, «il più grande costruttore del mondo», e dunque è una felice coincidenza quella che fa giungere il visitatore straniero a Grozny il 27 aprile, la vigilia del Den stroitelej, la “Giornata dei co- struttori”, così designata per festeggiare il quinto an- niversario del ministero dell’Edilizia. Tamir, un giovane addetto stampa ceceno incaricato di assisterci (io e il fotografo Thomas Dworzak), ci ha invitati quel giorno a raggiungerlo nel teatro co- munale; in piedi accanto a lui, nel salone principale, davanti a un enorme pianoforte a coda rosso fuoco, contornato dai ritratti di Kadyrov (padre e figlio), guardo la nomenclatura cecena fare la sua entrée, passando uno per uno sotto i metal detector, circondati da un cordone di agenti degli Omon, le forze speciali. I capi distretto indossano grandi Rolex in oro ben visibili, e anel- li di diamanti; i ministri, camicie rosa o violette con cravatte assor- tite, completi di seta color crema e scarpe appuntite in pelle di al- ligatore. Molti sfoggiano spillette decorate con il volto di Ramzan, oppure l’Ordine di Kadyrov, una medaglia d’oro con inciso il bu- sto del suo defunto padre Akhmad-Khadzi appesa a una bandiera russa, che vista da vicino si scopre composta da file di diamanti co- lorati. Molti portano anche il pes, una calotta di velluto con una pic- cola ghianda attaccata a un cordone. Chiedete a chiunque in Ce- cenia e vi sentirete rispondere che è il copricapo nazionale: pochi sembrano ricordarsi che fino a non molto tempo fa era indossato unicamente dagli anziani del wird sufi dei Kunta-Khadzhi, la con- fraternita a cui appartengono i Kadyrov: adesso, lo indossano qua- si tutti, a prescindere dal wird o dalla tariqat di appartenenza; per- fino alcuni ingusci lo portano. Tamir mi presenta a suo zio Olgozur Abdulkarimov, il ministro dell’Industria; Dukvakha Abdurakhma- nov, il presidente del Parlamento ceceno, fa un’entrata rumorosa, aggirando ostentatamente il metal detector, senza rallentare la sua marcia, per raggiungere Akhmad Gekhaev, il ministro dell’Edilizia di cui si celebra la giornata; un po’ più lontano, in uniforme Nato, con un berretto nero e una pistola alla cintola, c’è Sharip De- limkhanov: comanda il Neft Polk, un battaglione incaricato di as- sicurare la sicurezza delle installazioni petrolifere. L’uomo con cui parla, Magomed Kadyrov, fratello del defunto Akhmad-Khadzhi, è uno dei pochi, fra i presenti, a non indossare né giacca e cravatta né uniforme, ma una semplice giacca con pantaloni jeans sottili, di ottima qualità, probabilmente costosi e di fattura italiana. (segue nelle pagine successive) spettacoli Billy the Kid, il santo dei fuorilegge VITTORIO ZUCCONI DOMENICA 8 NOVEMBRE 2009 D omenica La di Repubblica Ritorno in Cecenia JONATHAN LITTELL Due guerre, il controllo russo, il regime e il nuovo terrore per chi si oppone Il reportage esclusivo di un grande scrittore JONATHAN LITTELL Repubblica Nazionale

JONATHAN LITTELL Ritorno inCecenia - La Repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2009/08112009.pdf · stipata di “volontari” reclutati nei diversi ... «Se il capo è

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i sapori

Le ricette dal passaparola al blogSTEFANO BARTEZZAGHI e LICIA GRANELLO

l’incontro

Angelopoulos e il tempo in trappolaMARIO SERENELLINI

cultura

Leonardo Sciascia scrittore e politicoTANO GULLO e CONCETTO VECCHIO

l’immagine

Hänsel e Gretel secondo MattottiGIUSEPPE MONTESANO

l’attualità

Video, l’era del tecno-testimoneMICHELE SMARGIASSI

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Ramzan Kadyrov, il giovane presidente della Ceceniaè, come tutti sanno, «il più grande costruttore delmondo», e dunque è una felice coincidenza quellache fa giungere il visitatore straniero a Grozny il 27aprile, la vigilia del Den stroitelej, la “Giornata dei co-struttori”, così designata per festeggiare il quinto an-

niversario del ministero dell’Edilizia. Tamir, un giovane addettostampa ceceno incaricato di assisterci (io e il fotografo ThomasDworzak), ci ha invitati quel giorno a raggiungerlo nel teatro co-munale; in piedi accanto a lui, nel salone principale, davanti a unenorme pianoforte a coda rosso fuoco, contornato dai ritratti diKadyrov (padre e figlio), guardo la nomenclatura cecena fare la suaentrée, passando uno per uno sotto i metal detector, circondati daun cordone di agenti degli Omon, le forze speciali.

I capi distretto indossano grandi Rolex in oro ben visibili, e anel-li di diamanti; i ministri, camicie rosa o violette con cravatte assor-tite, completi di seta color crema e scarpe appuntite in pelle di al-ligatore. Molti sfoggiano spillette decorate con il volto di Ramzan,oppure l’Ordine di Kadyrov, una medaglia d’oro con inciso il bu-sto del suo defunto padre Akhmad-Khadzi appesa a una bandiera

russa, che vista da vicino si scopre composta da file di diamanti co-lorati. Molti portano anche il pes, una calotta di velluto con una pic-cola ghianda attaccata a un cordone. Chiedete a chiunque in Ce-cenia e vi sentirete rispondere che è il copricapo nazionale: pochisembrano ricordarsi che fino a non molto tempo fa era indossatounicamente dagli anziani del wird sufi dei Kunta-Khadzhi, la con-fraternita a cui appartengono i Kadyrov: adesso, lo indossano qua-si tutti, a prescindere dal wirdo dalla tariqatdi appartenenza; per-fino alcuni ingusci lo portano. Tamir mi presenta a suo zio OlgozurAbdulkarimov, il ministro dell’Industria; Dukvakha Abdurakhma-nov, il presidente del Parlamento ceceno, fa un’entrata rumorosa,aggirando ostentatamente il metal detector, senza rallentare la suamarcia, per raggiungere Akhmad Gekhaev, il ministro dell’Ediliziadi cui si celebra la giornata; un po’ più lontano, in uniforme Nato,con un berretto nero e una pistola alla cintola, c’è Sharip De-limkhanov: comanda il Neft Polk, un battaglione incaricato di as-sicurare la sicurezza delle installazioni petrolifere. L’uomo con cuiparla, Magomed Kadyrov, fratello del defunto Akhmad-Khadzhi,è uno dei pochi, fra i presenti, a non indossare né giacca e cravattané uniforme, ma una semplice giacca con pantaloni jeans sottili,di ottima qualità, probabilmente costosi e di fattura italiana.

(segue nelle pagine successive)

spettacoli

Billy the Kid, il santo dei fuorileggeVITTORIO ZUCCONI

DOMENICA 8NOVEMBRE 2009

DomenicaLa

di Repubblica

RitornoinCeceniaJONATHAN LITTELL

Due guerre, il controllo russo, il regimee il nuovo terrore per chi si oppone

Il reportage esclusivo di un grande scrittore

JONATHAN LITTELL

Repubblica Nazionale

È stato nella repubblica caucasica durante le guerredel ’96 e del ’99, quando “la vita di un uomo non valevaun copeco”. Ora ecco il terzo viaggio di Jonathan Littellin un Paese che “cerca di trasmettere un’illusionedi normalità,ossia una normalità per quelli che non sonotoccati dal terrore”. In esclusiva per l’Italia, il suo racconto

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8NOVEMBRE 2009

(segue dalla copertina)

uesta semiotica ostentatoria del potere cecenopuò far sorridere, ma non è priva di interesse; i co-dici sono molto precisi: in un mondo dove tutticercano di mostrare, con tutti i mezzi possibili, ilproprio posto nell’ordine delle cose, a quantosembra più si è in alto e più ci si può permettere di

essere informali, meno si è costretti a esibirsi. […] La gestualitàdi questi uomini è impressionante, è la stessa dei ribelli ceceni diun tempo: questo modo di salutarsi, di abbracciarsi, di ridere, diparlare, di scivolare dall’uno all’altro in un balletto elaborato maostentatamente informale, ha anche un senso, quello di mo-strare che possono anche servire un Governo filorusso, possonoanche essere di fatto dei burocrati russi, ma qui non siamo inRussia e loro non sono russi, sono ceceni.

La cerimonia stessa trasporta direttamente dalla semioticacecena a quella sovietica, in una versione postmoderna rivisita-ta, che a volte sfiora il surrealismo spontaneo. La grande sala èstipata di “volontari” reclutati nei diversi ministeri e all’univer-sità; per ingannare l’attesa, gli organizzatori hanno fatto venireda Mosca una band femminile che per l’occasione sfoggia il ve-lo sui capelli, in aggiunta alle minigonne, e suona una sorta di fu-sion fra musica classica e musica pop, con violini e un violoncel-lo superamplificati. All’ingresso di Kadyrov, circondato da ungruppo compatto di guardie del corpo e commensali, tutta la fol-la scatta in piedi per applaudire, mentre il presentatore tuona so-lennemente nel microfono: «Il presidente della Repubblica ce-cena, Eroe della Russia, Ramzan Akhmadovich Kadyrov!».

Quando l’Eroe della Russia prende posto, lo spettacolo puòcominciare: si parte con un montaggio video che mostra i suc-cessi del ministero dell’Edilizia — creato grazie a «una delle ulti-missime disposizioni firmate da Akhmad-Khadzhi Kadyrov» —e si prosegue con un lunghissimo discorso di Gekhaev, che ripe-te l’elenco di quegli stessi successi col tono del rapporto buro-cratico. Il discorso si conclude bruscamente: mutando imme-diatamente contegno, con un sorriso idiota, Gekhaev aggiunge,

in tono imbarazzato e servile al tempo stesso: «Forse vi statechiedendo perché ho letto tanto in fretta. È che poco fa ho in-contrato Razman Akhmadovich, che mi ha chiesto: “Akhmad, iltuo discorso è lungo?”, e quando io ho risposto di sì, mi ha detto:“Allora leggilo in fretta”». Infine, Razman Akhmadovich stesso,«il più grande costruttore del mondo», come ci ricorda ancorauna volta il presentatore, salta sul palco e si impadronisce del mi-crofono senza fili.

Mentre Gekhaev e gli altri si sono espressi in russo, Kadyrovparla in ceceno, con una voce profonda e granulosa, sottolinea-ta da una gestualità espressiva, suscitando risate e applausi conle sue battute, e in altri momenti ribadendo brutalmente i fon-damenti della sua filosofia: «Se il capo è bravo, allora tutti sonobravi, i colleghi, i sottoposti». Non sono in grado di giudicare ilsuo ceceno; mi dicono che lo scrittore ceceno German Sadulaevlo definisce estremamente letterario e articolato, ma altri, al con-trario, affermano che è limitato quasi quanto il suo russo, che è,per citare un amico, «non soltanto povero, ma infarcito di erro-ri grossolani di genere e declinazione», cosa che posso confer-mare. Sia come sia, sembra assolutamente a suo agio in questagrottesca messa rituale, è un vero animale da palcoscenico, luile masse le adora; alla televisione, dove si vede solo lui, lo mo-strano spesso mentre si ferma in un villaggio, in una scuola o inun ospedale, per tuffarsi tra la folla distribuendo consigli, am-monimenti e banconote; è come se estraesse la sua favolosaenergia direttamente dall’amore (accuratamente orchestrato)dei suoi sudditi. […]

La cerimonia si conclude con un’ode sicofantica pronuncia-ta da Dukvakha Abdurakhmanov all’«uomo che è sempre statoal fianco della famiglia Kadyrov e del popolo ceceno, VladimirVladimirovich Putin. Gloria a Putin!», scandisce in mezzo ad ap-plausi assordanti. Al centro della folla, con la sua immagine fil-mata proiettata sul grande schermo che fa da sfondo al palco-scenico, Ramzan ride, applaude, scherza con le sue guardie epalpeggia il suo cellulare. Back in the USSR…

1937

«La Cecenia è come il 1937, 1938», mi dichiara nel suo pic-colo ufficio moscovita Aleksandr Cherkassov, uno deidirigenti di Memorial, la più grande organizzazione

russa per la difesa dei diritti umani. «Là si sta portando a termi-ne un vasto programma di costruzioni edilizie, la gente ricevedegli alloggi, ci sono parchi dove giocano i bambini, teatri, con-certi, tutto apparentemente è normale… e la notte, qualcunoscompare». Questa comparazione la si sente ripetere spesso trai militanti russi per i diritti umani e, come mi fa notare Cherkas-

zione, quando non venivano uccisi o mutilati da una bomba, dauna mina, da un cecchino annoiato; in cui le shakhidki, le “ve-dove nere”, che si suicidavano facendosi saltare in aria e por-tandosi dietro qualche russo, lo facevano non per convinzionereligiosa, ma per pura e semplice disperazione, perché non re-stava loro più nemmeno un uomo, più nemmeno un bambino.Per la maggior parte dei ceceni, che non hanno dimenticato nul-la di tutto questo, è evidente che le cose vanno “meglio”. […]

Quelli di Memorial sarebbero quasi d’accordo con questopunto di vista. A Mosca, in giugno, Aleksandr Cherkassov, chesegue gli eventi nel Caucaso settentrionale fin dalla prima guer-ra, quella del 1994-1996, mi aveva descritto la “cecenizzazione”(il nome che è stato dato alla decisione assunta da Vladimir Pu-tin nel 2002 di insediare un potere ceceno filorusso forte, com-posto principalmente di ex ribelli e diretto dall’ex muftì indi-pendentista Akhmad-Khadzhi Kadyrov) come «il trasferimentodei pieni poteri di compiere violenze illegali dalle strutture fe-derali a quelle locali». E Cherkassov, come i suoi colleghi, erad’accordo che questa “cecenizzazione” aveva determinato uncambiamento reale. «Le violenze sono feroci quanto prima»,aveva aggiunto, «ma sono più selettive». […] Oleg Orlov, il presi-dente dell’ufficio esecutivo di Memorial, mi ha fatto un discorsosimile a Mosca: «Nel 2007, con l’arrivo al potere di Ramzan Kady-rov, il numero delle torture e delle sparizioni è bruscamente di-minuito. Nel suo primo anno al potere, Kadyrov ha perfino co-minciato a usare la retorica del difensori dei diritti umani!».

Memorial è l’unica organizzazione che raccoglie dati siste-matici sulle sparizioni e gli omicidi in Cecenia: anche se sono lar-gamente inferiori alla realtà — «Secondo i nostri calcoli, venia-mo a conoscenza di circa il trenta per cento dei casi», ipotizza Or-lov — danno un’idea abbastanza precisa dell’evoluzione delletendenze. Nel 2006, l’ultimo anno di potere di Alu Alkhanov, ilpresidente a interim nominato da Putin dopo l’omicidio, nelmaggio del 2004, di Akhmad-Khadzhi Kadyrov, Memorial ha re-gistrato 187 casi di rapimenti: undici di questi si sono conclusicol ritrovamento del cadavere del rapito, e in sessantatré casi lavittima è scomparsa per sempre (gli altri sono stati liberati, nel-la maggioranza dei casi dopo essere stati torturati, oppure sonoricomparsi nel sistema giudiziario ufficiale, per essere proces-sati); nel 2007, hanno documentato trentacinque casi di rapi-menti, con un morto e nove desaparecidos. Al momento dellemie conversazioni con Orlov e i suoi colleghi, a maggio e giugno,Memorial aveva constatato un netto incremento nel 2009, conun numero di sparizioni e di omicidi nei primi quattro mesi del-l’anno già uguale al livello raggiunto in tutto il 2008. […]

L’ampiezza del terrore forse è staliniana in termini di percen-

tuali, ma resta ben lontana dal modello se si vanno a guardare lecifre nude e crude. Sui settantaquattro casi di sparizioni (o piut-tosto, arresti illegali), recensiti da Memorial fra gennaio e giugno,cinquantasette si sono conclusi con il rilascio, anche se nellamaggior parte dei casi dopo torture. Quattro dei rapiti sono statigiustiziati e dodici sono «scomparsi senza notizie», il che signifi-ca quasi certamente che sono stati ammazzati anche loro. Sedi-ci in sei mesi: siamo lontani dalle cifre dei primi anni della guer-ra, o anche da quelle del periodo di Alkhanov. Ma ha senso fare si-mili paragoni? Kadyrov accusa regolarmente quelli di Memorialdi vedere solo il lato negativo delle cose, di rifiutarsi di vedere il la-to positivo, la ricostruzione, lo sviluppo. Ma per Memorial la ri-costruzione e lo sviluppo non possono essere fondati sull’omici-dio, la tortura e il terrore, in Cecenia come in Russia, dove il regi-me attuale è diventato esperto nell’arte di far tacere la stragran-de maggioranza delle persone uccidendo o lasciando uccidere inmodo estremamente selettivo, e contemporaneamente tenendosotto controllo qualunque accesso a una reale informazione.Ramzan, come il suo padrone di Mosca, sa perfettamente che ba-sta qualche esempio per tenere in piedi la paura. […]

È raro riuscire a rendersi conto di quanto le nostre rappresen-tazioni condizionino le nostre esperienze: in teoria lo sappiamo,ma ce lo dimentichiamo costantemente, e il nostro spirito vuo-le sempre credere che ciò che abbiamo visto, sentito e compre-so concorra a creare una rappresentazione fresca e “obiettiva”.Quando Aleksandr Cherkassov mi dichiarava, a giugno: «L’in-ferno è diventato confortevole, ma è pur sempre l’inferno», oquando Oleg Orlov mi diceva che «il risultato di questa guerra in-terminabile, di questa colossale quantità di sangue versato, del-la violenza, è che ora laggiù stanno costruendo un sistema di ti-po totalitario», io pensavo tra me e me: «Sì, forse, ma magari esa-gerano un po’, è talmente tanto tempo che sono dentro a questefaccende, gli manca la prospettiva». Tutti siamo invischiati nel-le nostre rappresentazioni, questo lo sapevo bene: il mio erroreera di pensare che le mie fossero più vicine alla realtà delle loro.E chi è che sa qualcosa della realtà? La realtà sono due pallottolein testa. E solo quelli a cui è successo hanno potuto vedere, perun istante più o meno lungo, la realtà piombargli addosso contutto il suo peso, schiacciando qualunque rappresentazione,

JONATHAN LITTELL

Grozny, l’inferno confortevoledel Grande Costruttore

per sempre. La mattina del 15 luglio, poco più di una settimana dopo aver

completato una prima versione di questo reportage, ho comin-ciato a ricevere delle mail che mi dicevano che Natalja Estemi-rova, una delle principali militanti di Memorial a Grozny, quel-la che aveva più contatti e portava più informazioni, era stata ra-pita qualche ora prima; secondo i suoi colleghi, che si eranopreoccupati quando non l’avevano vista arrivare per delle riu-nioni, e che erano andati a casa sua e avevano parlato con dei vi-cini che avevano assisto alla scena, «è stata spinta a forza, vicinoa casa sua, in una Vaz-2107 bianca, e ha gridato che la stavano ra-pendo». […]

La sera stessa sono venuto a sapere che il suo cadavere era sta-to ritrovato in un bosco alla frontiera con l’Inguscezia, con pa-recchie pallottole in corpo e in testa. Dev’essersi sentita terribil-mente sola in quei lunghi momenti nella Vaz-2107, ai piedi de-gli uomini venuti per ammazzarla, deve aver continuato a spe-rare il più a lungo possibile che non sarebbe andata a finire così,ma quando l’hanno tirata fuori dalla macchina, in un garage o inuna foresta, rompendole il naso col calcio della pistola e legan-dole le mani talmente strette da bloccarle la circolazione, c’è sta-to un momento in cui ha capito: dopo tutto, era talmente tantotempo che non faceva altro che occuparsi di casi del genere, e oratoccava a lei, proprio a lei, e proprio perché si era occupata diquello di cui non doveva occuparsi, perché anche se non sei ob-bligato a cantare le lodi di Ramzan Kadyrov ai quattro venti, de-vi lasciargli uccidere e torturare in pace quelli che devono esse-re uccisi e torturati, non devi immischiarti nei suoi affari a quelmodo, e se lo fai diventi tu stesso il nemico, un altro da cancella-re da questa terra, e tanto peggio per i figli e gli amici che ti lascidietro, anche loro non dovranno far altro che tenere la boccachiusa o faranno la stessa fine; ed è a questo che doveva pensareNatalja, alla sua figlia di quindici anni che da moltissimo tempoaveva talmente paura per lei che lei faceva di tutto per rassicu-rarla, pur sapendo che aveva ragione ad aver paura, e che ades-so l’avrebbe lasciata sola.

Nessuno saprà mai che cosa le sia passato per la testa, in queimomenti, nessuno saprà mai se abbia parlato con gli uomini ve-nuti ad ammazzarla, se abbia tentato di ragionare con loro,mentre loro la picchiavano; sapeva bene che tipo di uomini era-no, il tipo di uomini a cui niente fa paura e niente fa pietà, gen-te per cui il colmo dello sconforto umano non rappresenta nul-la di nulla; ma se devo immaginarmi una cosa, mi immagino chein quegli ultimi istanti abbia pensato fortissimamente a sua fi-glia, e le si deve essere contorto lo stomaco all’idea di lasciarlacosì; e poi è morta, orribilmente e brutalmente, e hanno getta-

sov, non è forzata come sembra: dopo dieci anni, in Cecenia, ilnumero di persone uccise o scomparse ogni diecimila abitantisarebbe, secondo lui, superiore in proporzione alle cifre dellevittime delle grandi purghe staliniane. Ma quello che la Ceceniacerca soprattutto di trasmettere è l’illusione di una normalità,ossia la realtà di una normalità per tutti coloro che non sono toc-cati dal terrore.

Ho trascorso due settimane nella repubblica caucasica, fra lafine di aprile e l’inizio di maggio, e se avessi pubblicato subitoquesto reportage avrei messo l’accento sulla normalizzazione,su una Cecenia che, malgrado alcuni grossi problemi, comples-sivamente va meglio di prima. La ricostruzione è un fatto, impo-nente e concreto; quanto al terrore, nessuno dei miei amici e deicomponenti delle varie Ong, a parte quelli di Memorial, che la-vorano direttamente sui casi di sparizioni, torture ed esecuzio-ni extragiudiziali sembrava preoccuparsene troppo; sapevanovagamente che cose di questo genere ancora, in parte, succede-vano, sulle montagne, ma non conoscevano nessuno che ne fos-se stato toccato direttamente: erano molto più inquieti e preoc-cupati per il dilagare della corruzione.

E parlare di normalizzazione in un certo senso sarebbe stato“corretto”, perché il problema qui non è un problema di fatti, èun problema di prospettive, di punti di vista. Ho lavorato in Ce-cenia durante entrambe le guerre, prima nel 1996, poi per unaquindicina di mesi dall’inizio della seconda all’autunno del1999, e ho sempre mantenuto contatti stretti laggiù: così, comei ceceni stessi, mi ricordo molto bene di quegli anni in cui la vitadi un ceceno non valeva un copeco; in cui un uomo poteva scom-parire, torturato e poi ammazzato, perché aveva incrociato losguardo di un soldato ubriaco a un posto di blocco; in cui le ra-gazze venivano prima violentate e poi uccise come si getta via ungiocattolo rotto; in cui si ritrovavano i cadaveri di giovani uomi-ni presi nelle grandi zashistki (le operazioni di “pulizia” dei Fe-derali), legati col filo spinato e bruciati vivi; in cui le famiglie, inpreda al panico, si affannavano disperatamente a mettere insie-me qualche migliaio di dollari per riscattare i loro uomini primache fosse troppo tardi, e dovevano comunque, quando era trop-po tardi, spendere quel denaro per riscattare i cadaveri mutila-ti; in cui i bambini crescevano in campi putridi, quasi senza istru-

Q

la copertinaRitorno in Cecenia

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 8NOVEMBRE 2009

viali, ma nulla di quello che li costeggiava, individuavo gli edificidalla loro collocazione, più che dal loro aspetto: sapevo bene chelì, in un certo punto, doveva trovarsi l’ospedale numero 9, maquando poi effettivamente compariva non riconoscevo nulla,nulla di nulla. […]

Il figlio del padre

«Ramzan è l’unico che abbia ragione», mi dice retorica-mente “Mussa”, un militante ceceno per i diritti uma-ni. «Lui è il khozjain», il boss, «lui è il barin e tutti gli al-

tri devono eseguire la sua volontà». […] Kadyrov è un dittatore,onnipotente nel suo piccolo regno, ma non è un dittatore samo-stojatelni, come direbbero i russi, cioè un dittatore che ricava ilproprio potere da se stesso. Proprio come il suo defunto padre,Ramzan è stato investito da Putin, e il suo potere si fonda innan-zitutto sulla protezione personale dell’attuale primo ministro, ilkrysha — il “tetto”, eufemismo russo per indicare la protezione— migliore che ci sia in un Paese interamente strutturato sui rap-porti di krysha. «Non è un segreto che Ramzan ha un rapportomolto speciale con Putin», commenta Dmitrij Peskov, il porta-voce di Putin, nel suo grande ufficio al sesto piano della Casa

Bianca, dove risiede Putin da quando halasciato il Cremlino a Dmitrij Medvedev.

«Ha un rispetto speciale, da parte di Pu-tin e per Putin». È un rapporto che risale,beninteso, a quello instaurato da Putincon Akhmad-Khadzhi Kadyrov, all’epoca,era il 2000, in cui ne fece il suo uomo fidatoin Cecenia. «Putin», spiega Peskov, «hascoperto in Akhmad Kadyrov un mondointeriore molto ricco, era una persona cheaveva una visione molto chiara di un futu-ro possibile per la Cecenia». […] Il “Proget-

to Kadyrov” sembrava rispondere alla perfezione a questa con-cezione, che ha avuto fin dall’inizio un successo indiscutibile, dalpunto di vista dei russi. Ma il 9 maggio 2004, in occasione delle ce-lebrazioni della Festa della vittoria nel nuovo stadio di Grozny,una bomba nascosta sotto al suo seggiolino uccise AkhmadKadyrov. Appena appresa la notizia, Putin convocò Ramzan, chequel giorno si trovava a Mosca, al Cremlino: la famosa foto del lo-ro incontro, che mostra Putin, che dissimula male una smorfiaannoiata, di fronte a un Ramzan sotto shock e sul punto di scop-piare a piangere, ancora vestito in tenuta sportiva, con i jeans, fuda subito percepita come l’immagine di una cerimonia di inve-stitura. […]

Ramzan, nei suoi sforzi per mantenere e sviluppare il propriopotere, con le sue politiche e i suoi metodi, segue alla lettera la li-nea tracciata dal padre. «Non ho un programma, il programma ègià stato elaborato quando era vivo mio padre», dichiarava all’ini-zio di agosto a un giornalista di Radio Libertyche gli chiedeva di de-scrivere il suo programma. «Noi portiamo a compimento tuttoquello che è stato indicato dal nostro primo presidente, oggi noirealizziamo interamente il suo programma, lo portiamo fino alla

sua conclusione logica». Tale “program-ma”, beninteso, include la repressione sen-za pietà dei combattenti islamisti e degli op-positori, ma ci sono anche alcuni aspetti“positivi”. Kadyrov, non si può negare, di-spone di una certa legittimità sociale; anchese la sua popolarità è grossolanamente esa-gerata dalle autorità, anche se non è chiarose e quanto si estenda al di là del suo clan,del suo teip, e anche se è impossibile misu-rarla in un sistema politico che non preve-

de né elezioni né sondaggi di opinione né stampa libera, e dovequalunque oppositore dichiarato viene minacciato, torturato oammazzato, esiste e Kadyrov fa di tutto per rafforzarla.

I suoi sforzi si concentrano su tre settori: la ricostruzione e losviluppo economico, la cooptazione o il ritorno dei vecchi com-battenti indipendentisti e la promozione di un Islam presentatocome “tradizionale”. Il suo potere, si potrebbe dire, poggia su cin-que pilastri. Il pilastro centrale rimane il sostegno di Putin, quel-lo su cui si regge l’intero edificio; il giorno in cui Putin, per una ra-gione o per l’altra, mollerà Ramzan, questi scomparirà rapida-mente. I quattro pilastri angolari sono il terrore, la ricostruzione,la cooptazione e l’Islam. Sembrano solidi, e Ramzan ne è fiero, sene vanta. Ma ognuno di essi, in un modo o nell’altro, è minato dal-l’interno. Il terrore, naturalmente, serve solo a generare nuovi ne-mici, a spingere nuove generazioni a «partire per la foresta»;quanto allo sviluppo economico, affoga nell’immensa paludedella corruzione; la cooptazione costringe tanti ex indipendenti-sti a partecipare a loro volta alla repressione dei loro ex commili-toni; e il rinnovamento islamico si traduce in gran parte in unaguerra strisciante contro la modernità, e soprattutto contro lostatus femminile.

A Grozny, quando parli con la gente dei suoi problemi (e primadell’omicidio della Estemirova, perfino quando parlavi con i ce-ceni di Memorial), non è la paura o la repressione la prima cosache senti citare, ma la corruzione. […] «È tutto marcio, marcio,marcio», borbotta “Issa”, un amico ceceno. Siamo seduti nella cu-cina di casa sua a berci delle birre, comprate illegalmente in un ne-gozietto: Ramzan, in nome del nuovo moralismo islamico, auto-rizza la vendita di alcolici solo dalle otto alle dieci del mattino. «Latragedia peggiore è che i giovani non conoscono altro. Vanno ascuola, i loro genitori pagano. Vanno all’università, i loro genitoripagano. Passano gli esami, i loro genitori pagano. Vogliono un la-voro, i loro genitori pagano. Tutto questo lo vedono. Non cono-scono altro, per loro la vita è questo. Ma qui non è mai stato così,tutti lo dicono. Mai. Viviamo come asiatici», conclude amaro.

(segue nelle pagine successive)

FINO a qualche anno fa, Jonathan Littell, nato a New Yorknel 1967 e in seguito divenuto cittadino francese, era sco-nosciuto al grande pubblico. Nel 2006, la pubblicazionein Francia de Le Benevole (tradotto in italiano da Einau-di) lo ha catapultato al centro del dibattito culturale. Per-ché il suo romanzo d’esordio, lungo più di novecento pa-

gine, è il racconto in prima persona diMaximilien Aue, un alsaziano che fa car-riera nelle Ss negli anni cruciali del TerzoReich. Con dovizia di particolari, Littellnon descrive solo la violenza, pubblica eprivata, della Germania nazista, ma an-che la vita sul fronte orientale nella Se-conda guerra mondiale. Ecco allora ilCaucaso, Stalingrado accerchiata dal-l’Armata rossa: la regione che lo scrittore,

in passato attivo nei Balcani e in Cecenia con l’ong Actioncontre la faim, torna a raccontare da testimone in questepagine. Dopo i taccuini di viaggio dalla Georgia, semprepubblicati in esclusiva dalla Domenica di Repubblical’anno scorso, ecco in queste pagine il suo viaggio in Ce-cenia, una selezione di un lavoro più lungo che sarà pub-blicato in Francia da Gallimard. Le foto sono di ThomasDworzak

to il suo corpo nel bosco come un vecchio sacco bucato, «per in-coraggiare gli altri». […]

L’anno scorso, Natalja Estemirova si era permessa di critica-re, alla televisione russa, la politica kadyroviana sul velo, avevadichiarato che lei se lo metteva, per rispetto, quando andava afar visita a delle famiglie in un villaggio, ma rifiutava di indossar-lo nei luoghi dove lavorava, alla Prokuratura o nei ministeri, e che«il Governo non doveva intromettersi nella vita privata dei citta-dini»; qualche giorno dopo, era stata convocata da Ramzan, chel’aveva insultata e minacciata, le aveva gridato che i capelli sco-perti lo eccitavano, forse lei lo voleva eccitare, allora era soltan-to una puttana, non una donna, e poi le aveva detto, secondo Me-morial: «Sì, è vero, le mie mani sono coperte di sangue. E non mene vergogno. Ho ucciso e continuerò a uccidere persone malva-gie. Noi ci battiamo contro i nemici della Repubblica».

Natalja Estemirova, evidentemente, era una persona malva-gia, un nemico della Repubblica. Oleg Orlov, che conosco un po’,non è un uomo che perde facilmente il sangue freddo e il sensodella misura; ecco perché, quando ho letto quello che ha scrittola sera dell’omicidio, ho potuto misurare tutta la rabbia e l’ama-rezza, e anche la folle colpevolezza che deve provare: «Io lo so, iosono sicuro su chi è il colpevole dell’omici-dio di Natalja Estemirova. Conosciamotutti quell’uomo. Si chiama Ramzan Kady-rov, è il presidente della Repubblica cece-na. Ramzan aveva già minacciato Natalja,l’aveva insultata, la considerava un nemi-co personale. Non sappiamo se abbia datolui stesso l’ordine o se sia arrivato dal suostretto entourage, per fare piacere al capo.E il presidente Medvedev, evidentemente,è contento di avere un assassino alla testadi una delle componenti della Federazio-ne russa». Orlov si sente colpevole di questa morte, lo dice piùavanti nel suo comunicato, ma sa anche chi ne porta la respon-sabilità, e lo afferma, e infine dice apertamente e a voce alta quel-lo che tutti sanno, che Ramzan è forse tante cose, ma è innanzi-tutto un assassino. […]

«Il più grande costruttore del mondo»

Già dall’aereo, sorvolando la lunga StaropromyslovskijShosse a nord di Grozny, avevo potuto farmi un’idea del-la portata della ricostruzione. Tutti gli edifici lungo il viale

sembrano nuovi, con i tetti verdi e le facciate giallo canarino cherallegrano il tetro paesaggio circostante; perfino là, alla periferiadella città, bisogna guardare a lungo, e sapere che cosa si cerca,per notare le cicatrici delle vecchie trincee, o delle posizioni deiblindati sui crinali delle colline. Nel centro, tutto è nuovo di zec-ca, assolutamente tutto: non soltanto i bei palazzi del Dicianno-vesimo secolo, interamente restaurati, che costeggiano il Pro-spekt, ma i marciapiedi, le strade, le strisce di erba verde ai mar-gini delle strade, con l’irrigazione automatica, gli alberelli avvol-ti di ghirlande di luci rosse e blu piantati nel terrapieno fra le duecarreggiate, i cartelli stradali, i semafori e isegnali per i pedoni, che scandisconoquanti secondi mancano per poter attra-versare.

Dentro allo Zum, i grandi magazzini delcentro con i loro negozi di dvd, di elettro-domestici e di vestiti all’ultima moda, unmanichino di plastica con una borsa a tra-colla a righe bianche e blu indossa una ma-glietta dove campeggia uno slogan in in-glese: Who the fuck is Bush? Ramzan is thebest president! Più lontano, in fondo al viale, di fronte al monu-mento in bronzo di Kadyrov padre — recentissimamente smon-tato in pompa magna, apparentemente per contrastare le accu-se di idolatria lanciate dagli islamisti —, si erge, circondata da pra-ti e fontane, la faraonica Grande Moschea di Grozny, una copiadella Moschea Blu di Istanbul costruita interamente in marmo edecorata a mano da un esercito di artigiani turchi; un po’ più inbasso brillano sfolgoranti i bulbi dorati della cattedrale ortodos-sa, interamente ricostruita da Ramzan in uno spirito di perfettoecumenismo, nonostante, al contempo, i rari civili russi che per-sistono a voler vivere in Cecenia continuino a essere perseguita-ti e assassinati.

E dall’altro lato, in cima al viale, si erge nuovamente, intera-mente ricostruita, l’orrenda statua dei tre rivoluzionari della zo-na, un georgiano, un inguscio e un ceceno, quella che i locali chia-mano «i Tre Imbecilli», accanto alla grande terrazza di un caffè,sotto a dei capitelli dove tornerò regolarmente per i miei appun-tamenti, e accanto a un monumento dedicato, in russo e in cece-no, ai «Giornalisti morti per la libertà di parola» (eretto dalle au-torità con gusto perlomeno cinico, è comunque servito, il 16 lu-glio, come punto di raduno per la manifestazione di cordoglio inonore di Natalja Estemirova). La nostra giornata si concluderà inun ristorante giapponese, lo Iaponski Dvor, dove i giovani ven-gono a bere il tè seduti su poltrone Ikea di pelle nera, e dove deicuochi ceceni istruiti l’anno scorso da chef giapponesi, prepara-no un sushi e un sashimi abbastanza corretti, anche se il pescedelle volte arriva a tavola ancora congelato.

Mentre Thomas fotografava i sushi, io pensavo alla curiosasensazione che avevo provato mentre Tamir ci guidava attraver-so la città, la sensazione di una realtà fantasma che veniva a so-vrapporsi a un’altra, la bella città nuova di zecca poggiata sul trac-ciato della vecchia città in rovina, distrutta, devastata, senza riu-scire ad annullarla, come se l’una fosse il sogno dell’altra. In pas-sato ho trascorso mesi interi in questa città, e ne conosco bene ipunti di riferimento e i quartieri, ma ora la mia bussola internaera completamente disorientata, riconoscevo le direzioni dei

Le violenze sono ferociquanto prima, ma sono

più selettive. Comel’omicidio della giornalistache aveva sfidato Kadyrov

I pilastri su cui si fondail regime sono terrore,

ricostruzione, cooptazionee Islam. Tutto tenuto

insieme dalla corruzione

Jonathan Littell

LE TAPPE

INDIPENDENZAIl primo novembre ’91

la Cecenia dichiara

l’indipendenza

dall’Urss:

Dudaev è eletto

presidente

L’11 dicembre ’94

Eltsin ordina

di invadere il Paese

PRIMA GUERRAIl 21 aprile 1996

Dudaev è ucciso

da un missile russo

Pochi mesi dopo

i ribelli conquistano

Grozny. Falliscono

i tentativi

di soluzione

pacifica con Mosca

SECONDA GUERRANell’estate 1999

con gli attentati

a Mosca inizia

la fase terroristica

del gruppo

indipendentista

di Basaev. Putin

bombarda Grozny

che cade nel 2000

GOVERNI FILORUSSIUn referendum

sancisce nel 2003

l’appartenenza

della Cecenia

alla Federazione

russa. Il presidente

Kadyrov (padre),

filorusso, è ucciso

nel 2004 a Grozny

ATTENTATIIl primo settembre

2004 terroristi

ceceni sequestrano

una scuola

a Beslan. Le truppe

russe irrompono:

331 le vittime

Nel 2006 viene

ucciso Basaev

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Repubblica Nazionale

la copertinaRitorno in Cecenia

Nella “società tradizionale” che vuole imporre Kadyrovsono le donne a farne le spese. Ogni capo famigliaha il diritto di picchiare e uccidere mogli e figlie. Lo stessopresidente ha dichiarato: “Se non le uccide, che razzadi uomo è?”. E il muftì Kuruev ama ripetere:“L’intelligenza femminile è come la coda della rana”

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8NOVEMBRE 2009

(segue dalle pagine precedenti)

Oggi, a Grozny, bisogna pagare millecento dollari perdiventare guidatore di marshrutka, i taxi collettiviche Ramzan ha interamente preso sotto il suo con-trollo, da milletrecento a duemila dollari per avereun posto da infermiera, tremila dollari per diventa-re pompiere: somme che corrispondono a tre-

quattro mesi di salario. Se si conservasse il posto, andrebbe anchebene; ma, come mi spiega Issa, «regolarmente i ministeri ricevonoun ordine dall’alto: assumete quindici persone. Dunque bisognalicenziarne altre quindici, che hanno già pagato per il loro posto,per incassare i soldi di quelli nuovi. Oppure sono gli uomini diTsentoroj, loro devono tutti avere un posto». Perché il regno diRamzan è in gran parte un regno fondato sul clan: come mi spiegaun’altra amica cecena, che chiamerò Ayshat: «Basta dire “Sono diKhossi-Jurt” (il nome storico di Tsentoroj) i vsio, è tutto». […]

Non è sempre facile, in Cecenia, dissociare il fenomeno globaledella corruzione da quelli che bisognerebbe chiamare «circuiti difinanziamento pubblico fuori bilancio», una forma di tassazioneparallela. Perché, con almeno una parte del denaro che maneggia,sottrae o estorce, Ramzan costruisce delle cose utili per gli abitan-ti del suo regno: strade, scuole, ospedali e altre infrastrutture an-cora. […] Tutto questo, beninteso, è reso possibile dai soldi russi,somme considerevoli iscritte a bilancio e versate da parecchi anniper la ricostruzione della Cecenia. Ma i soldi russi non bastano aspiegare tutto: lo si è visto bene nel caso dell’Ossezia del Sud, dovele centinaia di milioni offerti da Mosca dopo la guerra della scorsaestate sono semplicemente evaporati, forse su conti in Svizzera oa Cipro, lasciando la città di Tskhinvali distrutta come prima. Ram-zan, invece, i soldi li fa lavorare, e se altri si arricchiscono en pas-sant, tanto meglio: come Reagan, o come Mobutu, Kadyrov è ungrande adepto della trickle-down economics.

Il fatto è che i soldi saccheggiati dai funzionari, dai più piccoli aipiù grandi, vengono per la maggior parte reinvestiti localmente,sotto forma di posti di lavoro nel settore edilizio, di acquisti, di re-gali ad amici di famiglia; stando a quello che mi hanno detto, Ram-zan ci mette poco a innervosirsi se i suoi sbirri cercano di investirefuori dalla Cecenia. Ci tiene molto che la sua politica produca ri-sultati visibili da tutti, la ricostruzione innanzitutto, e tutti i suoi mi-nistri sanno che i loro conti in banca personali, i loro appartamen-ti e i loro bei mobili dipendono direttamente dai risultati prodottidai loro collaboratori. Come ammette Vakha, un mio amico cece-no, che pure detesta il sistema Kadyrov: «Il figlio ha dei lati positivi.Ha un buon cervello ed è molto forte. Costringe la gente a lavorare.Alla fine del 2005, quando era ancora primo ministro, ha fatto rifa-re il Prospekt Pobeda (il grande viale centrale, ribattezzato Pro-spekt Putin) in due settimane, in tempo per il Capodanno. Ha ob-bligato la gente a lavorare ventiquattro ore su ventiquattro, perfi-no i ministri. È stata un’ottima esperienza per lui, ha imparato mol-to». […] Natalja Estemirova, che non negava certamente la porta-ta delle realizzazioni materiali di Kadyrov, diceva un giorno: «I pro-gressi economici sono inversamente proporzionali ai progressimorali». […]

Dio è grande

Valid Kuruev, il vicemuftì di Cecenia, mi riceve un venerdì po-meriggio nel piccolo ufficio situato all’angolo della GrandeMoschea, dove quel giorno è di servizio. […] La strategia re-

ligiosa del potere ceceno è limpida: promuovere un Islam cosid-detto tradizionale, sufi, per contrastare l’ascesa del salafismo deicombattenti islamici, quelli che i russi chiamano i “wahhabiti”. LaCecenia, storicamente, è sempre stata sufi: l’islamizzazione deiteip, nel Diciottesimo secolo, è stata effettuata da predicatori sufidell’ordine, o tariqat, Naqshbandi, di cui il più celebre esponenteè l’imam Shamil, che diresse la resistenza contro la penetrazionerussa. Alla fine degli anni Cinquanta dell’Ottocento, quando Sha-mil fu infine costretto alla resa dal principe Barjatinskij, un giova-ne pastore ceceno tornato da Bagdad dove era stato iniziato allaQadiriyya, Kunta-Khadzhi Kichev, si mise a predicare un nuovomessaggio religioso quasi quietistico, dove il jihad interiore e l’ac-cettazione del male del mondo esterno prendevano il posto deljihad esteriore e permanente dei Naqshbandi. Anche se i russi,piuttosto stupidamente, ritennero che rappresentasse una mi-naccia per il loro ancor fragile dominio e lo deportarono in Siberia,dove morì, il messaggio di Kunta-Khadzhi si diffuse fra la popola-zione stremata dalla guerra come una scia di polvere.

I Kadyrov, padre e figlio, sono degli adepti del wird (una sotto-branca della tariqat) di Kunta-Khadzhi, e il padre, una volta arri-vato al potere, evocava spesso il messaggio quietista di quest’ulti-mo per giustificare la sua politica di resa e collaborazione. Mirzaev,il nuovo muftì, è anche lui naturalmente un Kunta-Khadzhi, comeKuruev. Ma Ramzan fa attenzione a trattare con riguardo gli altriwirdQadiri, e anche i Naqshbandi: mentre i muftì discutevano perdecidere a quale wird assegnare la direzione della grande mo-schea, Ramzan ha ordinato che ci fosse un imam diverso per ognigiorno, in modo che tutti fossero soddisfatti: e così i Kunta-Khadzhihanno tre giorni a settimana, e i Bamat-Girej di Avturi, un altro po-tente wird Qadiri, un giorno; i Naqshbandi, da parte loro, hannotre giorni, due per la dinastia di Yussup-Khadzhi e uno per quelladi Tasho-Khadzhi. Questa politica piuttosto raffinata, che seppel-lisce definitivamente i conflitti che hanno contrapposto le tariqatnel corso degli anni, forse è un’idea di Akhmad-Khadzhi, che es-sendo un muftì padroneggiava perfettamente le sottigliezze dellapolitica religiosa in Cecenia. […]

Perché è la sharia, in una forma o nell’altra, il cuore di questo pro-getto. Ramzan e i suoi muftì possono richiamarsi quanto voglionoalla tradizione, di quella c’è solo il nome. Mirzaev e Kuruev hannoservito entrambi presso l’Alta corte shariatica di Maskhadov, e Ku-ruev, come quasi tutti i suoi colleghi, ha studiato in Egitto, com-

glienza, si era lanciato in una tirata interminabile, tradotta in rus-so sul sito Prague Watchdog: «Lui [il ceceno della diaspora] deve sa-pere già che non è più un uomo, se sua figlia ha il numero di telefo-no della polizia nella rubrica del suo cellulare. Ogni ceceno ha pau-ra che farà quella telefonata, provate a dirmi che uno solo tra voinon ha paura che componga quel numero! Se lui dice che oggi è unuomo, domani forse già non sarà più un uomo, domani forse giànon potrà più rispondere di sua figlia, dire “dark” [fa il rumore diuna pistolettata] e piantargli una pallottola in mezzo alla fronte conuna pistola. Se non puoi ucciderla così, è ridicolo! E se non la ucci-de, che razza di uomo è? Prova vergogna di se stesso? Oggi è un uo-mo e domani non è più un uomo. Non può vendere così il suo fu-turo!». […]

Ora, il punto è che queste pratiche non hanno assolutamentenulla di tradizionale. Certo, le donne cecene sono sempre state sot-toposte a un forte controllo sociale, ma questo controllo poteva es-sere esercitato solo dagli uomini della loro famiglia, padre, maritoo fratelli. La questione del comportamento delle donne era unaquestione strettamente familiare, e ogni famiglia poteva deciderequanta libertà accordare o non accordare alle sue donne. […] Ma isuoi interlocutori tra i muftì o al Governo non vedono alcun pro-

blema in questa politicizzazione del con-trollo sociale. Come scriveva a marzo il gior-nalista ceceno Magomed Torev, in un arti-colo pubblicato sul sito Prague Watchdog,«la concezione [di Razman] della tradizio-ne c’entra con l’adat [il diritto tradizionale]ceceno quanto, ad esempio, la Legge dei la-dri [il codice dei criminali sovietici] c’entracon la Dichiarazione dei diritti dell’uomo».

Valid Kuruev, da parte sua, prega Allahaffinché il Governo approvi una legge cherenda obbligatorio il velo: «Se le donne co-

prono la loro pelle, la loro bella pelle, non ci saranno più stupri,no?». Mi spiega che la sua nonna materna di 129 anni, a Gojty, con-tinua a vestirsi come una volta, con parecchi strati a coprirle la te-sta e tutto il corpo: «Un tempo, tutti vivevano così! E lei, lei vive an-cora così. Una volta, quando un uomo usciva, una donna non at-traversava nemmeno la strada! Se vedeva un vecchio, tornava in-dietro! C’era rispetto per gli anziani, per gli uomini. E ora guarda-te: le gonne con lo spacco, Da Vinci, come si chiama? Armani, Ver-sace, tutta questa roba non è per i ceceni. Al governo sono tuttimusulmani, no? Nemmeno loro vogliono che le ragazze vadano ingiro così».

E non sono solo gli imam: perfino Nurdi Nukhadzhev, il respon-sabile per i diritti umani di Kadyrov, la pensa come loro riguardo aidiritti delle donne: «Da cosa è fatto il governo? Questa è una repub-blica monoetnica. Chi sono i fratelli, i cognati, i mariti, i padri? Noilavoriamo tutti insieme. Il Parlamento, sono quelli che abbiamoeletto noi. Non ci sono stranieri qui, per così dire. Ma non è neces-sario approvare una legge, questo no. Quello che dice il presidenteè una raccomandazione». Almeno non si spinge lontano quantoKuruev, che conclude la sua diatriba con questo pensiero profon-do: «L’intelligenza di una donna è come la coda della rana». […]

È la parola “modernizzazione”, pronunciata da una ragazzacon cui discutevo di questi argomenti, che mi ha fatto tornare inmente un’idea che mi aveva colpito lasciando il teatro dopo il Denstroitelej, o piuttosto un’ipotesi: la Cecenia, a causa della guerrae dell’imponente destrutturazione della società che la guerra hadeterminato, sarebbe passata direttamente dall’epoca tradizio-nale all’epoca postmoderna, all’epoca globalizzata contempo-ranea, saltando la tappa della modernità. Non è del tutto esatto,perché la Cecenia una modernità ce l’ha avuta, la modernità so-vietica, che, anche se è penetrata nei villaggi (Grozny, all’epoca,era una città russa) solo nelle sue forme più elementari (il mae-stro, il poliziotto, il segretario del partito) e non è mai stata piena-mente integrata, ha tuttavia lentamente diluito e indebolito lestrutture sociali arcaiche. […]

Nel 1996, a Grozny la maggior parte dei miei colleghi beveva sol-tanto vodka e pensava che fosse perfettamente legittimo digiuna-re solo tre giorni per il Ramadan; e una sera, a Vedeno, mi sono ri-trovato, con un collega francese, nella curiosa posizione di doverspiegare i fondamenti e la storia dell’islam a un gruppo di combat-tenti di Shamil Bassaev. Ma gli anni di guerra, se da un lato hannofortemente contribuito — come tutte le guerre — a una rinascitadella religiosità se non della religione, hanno anche finito di de-strutturare i codici sociali più profondamente radicati, i codici dicondotta e comportamento personale che sono alla base stessadella “cecenità”. I giovani che sono cresciuti in quegli anni, con pa-dri morti, assenti o pietrificati dalla loro impotenza, non hanno su-bito la formattazione sociale dei loro fratelli maggiori, lo vedevocontinuamente durante quel viaggio: non hanno nemmeno ap-preso le regole di educazione di base, come alzarsi quando una per-sona più grande entra nella stanza.

Ma quando si vede il proprio presidente picchiare pubblica-mente uomini molto più vecchi di lui, a volte addirittura perso-ne vicine a suo padre, come Taus Dzhabrailov, degradato e pic-chiato per aver osato trattare Ramzan come un uomo ceceno hail dovere di trattare uno più giovane, chi può stupirsene? E dun-que hanno dovuto ripitturare tutto quanto con un discorso sul-la “tradizione” rabberciato, messo insieme alla bell’e meglio:hanno ripiegato l’Islam, che prima era una cosa ben distinta, sul-la cecenità, hanno identificato la cecenità con l’Islam escluden-done tutte le altre componenti, troppo indebolite, erose, per nondire cancellate, dalla guerra. Le strutture arcaiche rimangono,alla base dei comportamenti, ma sopra di esse si accumula unospesso strato fatto di un miscuglio di soldi, affari, telefoni cellu-lari, Porsche Cayenne e Hummer, di un dispotismo all’orienta-le, di una totale assenza di freni e di una religione semireinven-tata e semiradicalizzata, con il kitsch neotradizionale a cospar-

plessivamente per otto anni. Man mano che mi espone il suo pro-gramma religioso, faccio sempre più fatica a distinguerlo, teologi-camente parlando, da quello predicato su YouTube da DokkuUmarov o dal suo nuovo ideologo, un buriato convertito che si fachiamare shaykh Sayeed. Certo, ci sono distinzioni “tecniche”molto importanti, come il zikr, il culto dei morti, e il rigetto, da par-te dei religiosi cooptati, della guerra santa contro la Russia, alme-no quando parlano in pubblico. Ma lo spirito mi sembra lo stesso,o quasi.

«Tutto quello che volevamo all’epoca, ora lo abbiamo», mi ave-va detto Umar, il comandante tornato da Londra, mentre mi de-cantava le lodi di Ramzan e della sharia. Ho sentito la stessa iden-tica frase da Kuruev, ribadita con convinzione. Ma come ho detto,è difficile giudicare fino a che punto siano sinceri. Un altro giorno,sempre a Grozny, ho intervistato Akhmad-Khadzhi Shamaev, l’exmuftì di Cecenia sostituito da Mirzaev, che mi ha propinato un di-scorso molto simile a quello di Kuruev. A un certo punto della con-versazione, mentre mi spiegava che «senza la politica di Ramzan,la metà dei ceceni sarebbe nella foresta», si è interrotto per rivol-gere qualche parola in ceceno a un mio amico che ascoltava in si-lenzio. «Sai che cosa mi ha detto?», mi ha raccontato ridendo que-st’ultimo, dopo che abbiamo lasciato Sha-maev. «Ora bisogna parlare così. Se non di-co questo, mi portano laggiù». Laggiù, natu-ralmente, vuol dire Tsentoroj.

Perché anche i muftì hanno paura diKadyrov, anche se lo elogiano con convin-zione. Mirzaev, il muftì, sarebbe in rapportifreddi con Kadyrov dalla primavera scorsa:quando ero a Grozny, in maggio, era più diun mese che non passava in televisione, eRamzan, da quello che avevo sentito, l’a-vrebbe addirittura picchiato in pubblico;quanto a sapere perché, è un altro paio di maniche: c’è chi dice cheMirzaev sarebbe stato sorpreso dentro a una sauna con delle ra-gazze, altri dicono che è solo una questione di soldi, vallo a sapere.Tensioni o no, il desidero di sharia, o piuttosto di una neosharia àla carte, mi sembra reale in seno all’attuale classe governante ce-cena.

La coda della rana

La nuova islamizzazione della Cecenia avanza in modo mol-to discontinuo; lo si è visto nel caso dell’alcol, facilmente di-sponibile e bevuto da tanti, nonostante i tentativi di vietarlo.

[…] Ma sono soprattutto le donne che fanno le spese del “ritornoalla tradizione” di Ramzan, dei suoi siloviki e dei suoi imam. «Ladittatura che si insedia poggia anche sull’umiliazione delle don-ne», constatava Natalja Estemirova ad aprile davanti alla teleca-mera di Mylène Saulois. Il velo è già obbligatorio in tutti gli edificipubblici e all’università; all’ingresso della sede della stampa cece-na, ad esempio, un cartello annuncia: «Care donne! Allo scopo dimostrare rispetto verso le tradizioni e i costumi nazionali, vi pre-ghiamo con insistenza di entrare nell’edificio del “Dom Pechati”con la testa coperta». Tanja Lochkina, a Mosca, mi racconta che ungiorno, malgrado la sua croce e il suo viso russo che più russo nonsi può, le guardie all’ingresso dell’università le avevano impeditodi entrare perché si era dimenticata il suo foulard.

Ramzan e il suo entourage predicano (e praticano) anche, aper-tamente, la poligamia, adducendo ripetutamente come motiva-zione la mancanza di uomini ceceni dopo la guerra e l’obbligo perle donne di “comportarsi bene”, minacce alla mano: «È meglio peruna donna essere la seconda o la terza moglie che essere ammaz-zata [per la sua cattiva condotta, sottinteso]», ha dichiarato Kady-rov ad aprile in un’intervista concessa alla Rossijskaja Gazeta. […]Il problema del comportamento delle donne sembra in effetti os-sessionare Kadyrov. In un’intervista molto eloquente realizzata daKsenja Sobchak, una celebrità russa del genere Paris Hilton, e dauna giornalista moscovita sua amica, e pubblicata sull’edizionerussa di GQ nel giugno 2008, Ramzan ha spiegato che «la donna de-ve apprezzare [la protezione degli uomini] e saper stare al suo po-sto. Per esempio, nella nostra famiglia nessuna donna ha mai lavo-rato e nessuna donna lavorerà mai».

Le provocazioni insistenti delle due giovani donne, che gli rive-lano ridendo che un noto stilista che lui aveva invitato in Cecenia eomaggiato di un orologio svizzero del valore di quasi centomila eu-ro è un omosessuale, lo destabilizzano visibilmente; ma quando laSobchak gli chiede: «Ci dica, quali cose sono assolutamente tabù,vietate, in una famiglia cecena?», Ramzan risponde senza esitare.«Fra quello che è vietato è compreso: tutto quello che fate voi. Tut-to quello che fate voi, per le nostre figlie e le nostre sorelle, è catego-ricamente vietato. È vietato perfino pensarci!... Voi», conclude conaria triste, «siete merce guasta. Peccato!». Ed è assolutamente evi-dente che Ramzan ritiene che sia suo dovere, in quanto presiden-te, imporre personalmente queste regole di buona condotta.

Quando nei dintorni di Grozny, a novembre dell’anno scorso,furono ritrovati i cadaveri di numerose donne, lui provocò scan-dalo dichiarando (senza la minima prova) che si trattava di omici-di d’onore e segnalando che lo trovava normale. […] Il diritto di pic-chiare o uccidere le proprie donne o le proprie figlie sembra tal-mente fondamentale a Kadyrov che ne ha fatto un argomento perincoraggiare i ceceni esiliati in Occidente a tornare in patria. A feb-braio, ha riunito in uno studio televisivo quasi quattrocento excombattenti, fra cui alcuni personaggi molto noti, per arringarli indiretta per quattro ore e venti minuti (quando il presentatore hacercato di interromperlo, dopo due ore, dicendogli che era il mo-mento del notiziario, Ramzan ha replicato: «Chi se ne frega del no-tiziario! Tanto comunque fanno vedere solo me»).

Tornando su un incidente a cui aveva già dato forte risonanza,la storia di una ragazza cecena della diaspora che, picchiata da suopadre, aveva sporto denuncia alla polizia del suo paese di acco-

Chi ha vinto realmente qui?Anche la vittoria

è un concetto fluido,e soggetto a numerose

interpretazioni

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 8NOVEMBRE 2009

biamo l’indipendenza di fatto. Ramzan grida sempre la sua fedeltàalla Russia, ma qui è lui il proprietario. La legge russa non si appli-ca qui. I russi non potranno mai tornare a vivere a Grozny». UmarKhanbev, Kuruev, l’altro Omar, dicevano la stessa cosa o quasi.Quando lo riferisco a Peskov, lui fa uno strano sorriso: «Davvero?Ah, beh… Non l’avevo mai sentito». Ma per lui, come per il suo pa-drone Vladimir Putin, una sola questione conta davvero, quella del«bacillo del separatismo», come lo chiama lui: tutto il resto si puònegoziare. Mosca potrebbe prendere tranquillamente in conside-razione, secondo Peskov, l’idea di «uno statuto autonomo allarga-to […] come per il Tatarstan. Ma soltanto fino a una certa linea ros-sa», aggiunge, «una linea rossa esiste per tutti».

È proprio con questa linea rossa che Ramzan sembra giocare co-stantemente, ed è questo, forse, che genera tanta confusione. La“linea rossa” dei russi era esclusivamente simbolica, sacramenta-le perfino — “l’infezione del separatismo” — la sua applicazionepratica nel mondo reale, una volta stabilito che i ceceni rinuncia-no formalmente all’idea dell’indipendenza giuridica, resta alta-mente soggetta a interpretazione. E Ramzan dà l’impressione ditestarne permanentemente i limiti, di cercare di vedere fino a do-ve si spingono; per il momento, pubblicamente o meno, nessuno

sembra avergliene imposti di molto preci-si. […] Sembrerebbe inoltre che Kadyrov,con tutta la sua esuberanza, la sua megalo-mania e la sua violenza, sia animato da mo-tivazioni più profonde che non il potere inse stesso o l’interesse.

«Suo padre aveva una missione, pensa-va di avere una missione per salvare il suopopolo», mi spiega il giornalista russo An-drej Babitskij nel suo appartamento pra-ghese, davanti a una bottiglia di vino e a untelevisore perennemente acceso sul cana-

le satellitare ceceno. Babitskij, uno dei pochissimi giornalisti russirimasti in Cecenia all’inizio della seconda guerra, ha dovuto au-toesiliarsi nel 2000 dopo essere stato vittima di un’operazione con-torta messa in piedi dal Fsb, dove per poco non era rimasto ucciso;da allora, continua a scrivere sulle faccende russe per Radio Libertye ha creato un sito web d’informazione, il Prague Watchdog, a cuicontribuiscono parecchi ceceni. «Ramzan», continua Babitskij,«ha ripreso questa missione. È una missione ricevuta direttamen-te da Dio: salvare il suo popolo, dare un futuro alla Cecenia… Noisiamo tutti dei prodotti del sistema sovietico», aggiunge un po’ piùtardi, «abbiamo imparato a sacrificare il presente in nome del fu-turo. Moralmente, siamo dei sovietici, dei bolscevichi. Non è cam-biato niente. Io credo che anche Ramzan sia così. Il presente nonsignifica nulla per lui, conta soltanto il futuro… E in nome di que-sto futuro tutti i metodi sono consentiti». […]

Resta da vedere come riusciranno i russi a gestire tutto questosul lungo periodo. Anche se per il momento possono accontentar-si della situazione, anche se ritengono che tutto sia ancora sottocontrollo, sanno benissimo che le cose possono cambiare da unmomento all’altro. Come dice con lucidità Majrbek Vachagaev:«Tutto è costruito su un unico uomo… E oggi la Repubblica interadeve pregare per Ramzan Kadyrov, perché se gli succede qualco-sa, loro perdono tutto… E questo significa che non è un sistema.Non è una politica a lungo termine… È un momento regalato allaCecenia». Un ambasciatore europeo mi ha riferito che l’argomen-to era stato affrontato in occasione di un incontro con Bortnikov, ilnuovo capo del Fsb: «Quando ho sollevato la questione di Ramzan,lui mi ha risposto: “Non è certo l’ideale, ma non abbiamo una so-luzione di ricambio”». […] E lui ne è perfettamente consapevole.

***

L’inconscio, si sa, riesce ad accedere alla verità delle cose inmodo molto più efficace della ragione cosciente. In Cece-nia, all’inizio di maggio, la situazione appariva quasi nor-

male, il Paese era visibilmente ricostruito, il terrore sembrava unacosa lontana, che ormai riguardava solo qualche villaggio. I mieiamici recriminavano per la corruzione, ma non sembravano trop-po inquieti; e sulle montagne, il Fsb lasciava che i giornalisti an-dassero a fare picnic. Non provavo nessuna paura, nessuna in-quietudine quando andavo in giro, né a Grozny né sulle montagne.E perché avrei dovuto avere paura? Che problema avrebbe potutorappresentare per Kadyrov uno scrittore straniero, che passa quisolo qualche giorno? Che cosa avrebbe potuto apprendere da so-lo, anche in due settimane, di diverso da ciò che possono dirgliquelli di Memorial? Che riparta, che scriva quello che vuole, che cene importa; ecco che cosa si saranno detti, ecco che cosa mi dice-vo si saranno detti.

E poi, durante una delle ultimissime notti che trascorrevo in Ce-cenia, ho sognato Ramzan. Ero sdraiato in un grande prato verdeleggermente in pendenza, circondato da alberi, forse un parco, eguardavo il cielo. Sopra la mia testa, dietro di me, si innalzava unagrande gru, grande come le gru da container dei porti, blu con del-le parti rosso scuro. Ramzan stava in cima, al termine del segmen-to orizzontale, e faceva gettare nel vuoto, due a due, uomini legatiinsieme, alcuni in uniforme, altri in abiti civili. Li vedevo rotearecadendo, poi scomparivano dal mio campo visivo per venire a sfra-cellarsi intorno a me, con un gran rumore sordo che sentivo con or-rore, un terrore muto. Mentre cadevano, pensavo: là, sono ancorain vita, e nel momento in cui colpiscono il suolo, ecco che sonomorti. Ce n’erano molti; e Ramzan, là in alto, li guardava sfracel-larsi ridendo. Poi, quando alla fine si ritrovò da solo, saltò a sua vol-ta, dispiegando un paracadute che lo conduceva dolcemente,sempre ridendo, fino a terra.

Traduzione di Fabio Galimberti© Jonathan Littell 2009

gere il tutto. E tutto questo con la benedizione del Cremlino.

Nella foresta

La vittoria è un concetto soggettivo. A volte, è anche un con-cetto burocratico. Quella, ufficialmente dichiarata il 16 apri-le scorso, della Russia in Cecenia è l’una e l’altra cosa insie-

me, come dimostra il comunicato pubblicato dal Comitato nazio-nale antiterrorismo: «Il presidente [del Comitato], il direttore delFsb Aleksandr Bortnikov […] ha annullato il decreto che designa-va il territorio della Repubblica [cecena] come zona di operazioniantiterroristiche». Una decisione di questo genere ha un valoreperformativo: anche se non è del tutto certo fino a che punto saràseguita da effetti concreti, come un ritiro delle truppe russe o la ri-mozione delle limitazioni per i giornalisti, modifica la situazione epermette di vederla sotto una nuova luce. E modifica anche i rap-porti di forza politici: richiesta da Ramzan, e rapidamente autoriz-zata, certamente dallo stesso Vladimir Putin, contro le numeroseobiezioni che provenivano principalmente dalle forze armate e daiservizi di sicurezza, conforta il potere pressoché assoluto del pre-mier e rafforza di un altro centimetro l’ambiguità delle sue relazio-ni con la Russia. Chi ha “vinto” realmente, qui? Anche la vittoria èun concetto fluido, e soggetto a numerose in-terpretazioni. […]

Dopo l’annullamento del Kto, il regimeoperativo antiterroristico, i ribelli islamisticeceni sono di nuovo relativamente attivi, edall’inizio dell’estate non passa settimanasenza un attentato o un colpo di mano, sen-za che i federali o le forze di polizia di Ramzannon subiscano delle perdite. La situazione ènettamente peggiore nelle repubbliche vici-ne, in Daghestan e in Inguscezia, ma in Cece-nia, per la prima volta da qualche anno a que-sta parte, c’è l’impressione che le autorità comincino a perdere ilcontrollo. Oleg Orlov, il dirigente di Memorial, mi diceva già primadell’omicidio di Natalja Estemirova che secondo lui c’era un lega-me diretto fra l’aumento delle sparizioni e l’incapacità di Kadyrovdi riportare una vittoria “definitiva”, o anche solo di arginare l’e-morragia di giovani verso la resistenza; gli eventi, da allora, non fan-no che confortare la sua analisi.

Perché è evidente che malgrado tutti gli sforzi messi in campoda Ramzan e dal suo regime, malgrado i posti in polizia distribui-ti agli ex comandanti ribelli e la promozione di un Islam quasi in-tegralista, i giovani continuano a «partire per la foresta». Secon-do Majrbek Vachagaev è logico: «I giovani vedono che i wird sufifanno il ruolo dei lacchè del potere. Non sono idioti. E di colpo,questo li rispedisce fra le braccia dei wahhabiti». L’arbitrarietà, lacorruzione, il clanismo del regime disgusta parecchi: come mispiegava Oleg Orlov a Mosca, «nella società cecena tradizionale— che io non idealizzo, tutt’altro — c’erano sempre dei contrap-pesi. Oggi c’è una sola forza. E contro questa forza niente, né glianziani, né i legami fra i clan, né i teip possono nulla. … Quandoun Kadyrovets rapisce una ragazza per farne la sua seconda o ter-za moglie, chi può opporsi? […]

Naturalmente una parte della società questo non lo può accet-tare, e uno dei modi per protestare — praticamente l’unico — è an-dare con i bojeviki». Il fenomeno è impossibile da quantificare, edifficile perfino da delimitare; si ha l’impressione, stando alle po-che informazioni disponibili, che resti relativamente localizzato,soprattutto nei villaggi intorno a Vedeno, nucleo storico della ri-bellione cecena. Ma non sono solo i contadini poveri ad avercelacon Ramzan. Mi è stato confermato da diverse fonti, a Mosca e aGrozny, che nell’aprile del 2008 Kadyrov è scampato per un pelo aun tentativo di eliminarlo compiuto da alcuni giovani del suo vil-laggio natale, Tsentoroj. La faccenda è stata tenuta segreta e i par-ticolari restano vaghi — si dice che i cospiratori abbiano approfit-tato di un matrimonio per avvicinare il loro bersaglio (normal-mente Tsentoroj è inaccessibile e tutti gli abitanti poco fidati sonostati cacciati via da tempo, ma per i matrimoni o i funerali si lascia-no ancora entrare degli invitati) — ma tutte le fonti confermanoche uno dei principali responsabili dell’attentato era il figlio di unesponente della nomenclatura di Ramzan, uno dei suoi capi di-stretto, di nome Bajmuradov. Zolotaja molodiozh, li chiama lagiornalista della Novaja Gazeta, la gioventù dorata. Circolano vo-ci di un altro tentativo serio di assassinare Ramzan, che sarebbe av-venuto quest’estate, nella stessa Grozny. […]

Il Khozjain

Kadyrov, per i russi, è un’arma a doppio taglio. E il meno chesi possa dire è che il rapporto con i suoi padroni del Cremli-no e della Casa Bianca è sotto il segno dell’ambiguità. In oc-

casione della mia conversazione con Dmitrij Peskov, gli avevochiesto: «Uno dei grandi temi di Vladimir Putin, al momento delsuo arrivo al potere, era quello della “verticale del potere”, ripren-dere in mano le regioni e i loro dirigenti. Ma la sua soluzione al pro-blema ceceno è stata quella di mettere al potere un presidente ul-trapotente, che controlla un esercito privato di ventimila uomini erisorse considerevoli, e su cui Mosca ha poche leve di controllo.Non c’è una contraddizione in tutto questo?». Peskov, natural-mente, aveva traccheggiato prima di ammettere che Ramzan, l’u-nico dirigente di regione nella federazione russa che abbia il pote-re di nominare i suoi siloviki, «si sta costruendo la sua verticale.Questo è comprensibile». — «Ma il problema della fedeltà di que-sta verticale a Mosca rimane aperto, no?» — «Una verticale può es-sere fedele, in blocco, a una verticale più grande».

Mosca certo ci può sperare, ma è difficile garantirlo, soprattut-to, quando si ha a che fare con una “verticale” tanto dinamica. I ce-ceni, in maggioranza, sono convinti di aver vinto la guerra. Il mioamico Vakha aveva esclamato, in una delle nostre conversazioni:«Che ha ricavato la Russia da tutto questo? La Russia ha perso. Ab-

L’ho sognato che guardava,ridendo, i suoi sudditi

cadere da una gruPoi si lanciava e, ridendo,

apriva il paracadute

LE TAPPE

POLITKOVSKAJAIl 7 ottobre 2006

è uccisa la reporter

Anna Politkovskaja

Sulle pagine

della Novaja Gazetadenunciava

le violenze

dell’esercito russo

in Cecenia

NUOVO PRESIDENTEDopo le dimissioni

di Alkhanov,

il 15 febbraio 2007

Putin sceglie

Ramzan Kadyrov,

figlio del presidente

ucciso nel 2004,

come nuovo capo

dello Stato ceceno

RITIRO RUSSOIl 26 marzo 2009

la guerra cecena

è ufficialmente

chiusa. La Russia

annuncia il ritiro

delle sue truppe

e la regione viene

dichiarata

“sotto controllo”

DISSIDENTI UCCISIIl 15 luglio 2009

Natalia Estemirova

dell’Ong Memorial

viene uccisa, così

come gli attivisti

Zarema Sadulayeva

e il marito Alik

Dzhabrailov

il mese dopo

KAMIKAZEIl 21 agosto 2009

un doppio attentato

kamikaze a Grozny

viene rivendicato

dal Battaglione

dei martiri Riyadus

Salikhiyn, costituito

dai seguaci

di Basaev

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© RIPRODUZIONE RISERVATA

Repubblica Nazionale

L’architetto Dan Kiley disegnò l’au-la del processo di Norimberga co-me una sala cinematografica. Ilgrande schermo dominava la pa-rete di fondo, in modo che sia i giu-dici sia gli imputati potessero sem-

pre averlo sotto gli occhi. Su quello schermo fluiro-no quasi senza sosta i filmati girati dagli operatorialleati sull’orrore nazista, le cataste di membrascarnificate, le fosse colme di cadaveri, tutto losconvolgente paesaggio della Shoah scoperto die-tro i cancelli dei lager. Le immagini di celluloide inquell’aula parlarono più spesso, e furono più deci-sive, delle testimonianze di carne degli stessi so-pravvissuti. I vincitori si erano impegnati a dimo-strare «fatti incredibili per mezzo di prove credibi-li». E per la prima volta nella storia, in quel tribuna-le-cinema le immagini in movimento furono con-siderate più credibili delle parole.

Nel 1945 il cinema è ancora giovane, appena cin-quantenne. Il suo potere evocativo è noto fin dall’i-nizio, la sua potenza persuasiva è stata poi scoper-ta dalle propagande totalitarie. A Norimberga loschermo vive la sua terza incarnazione: quella deltestimone perfetto. Più ancora della fotografia, dicui eredita la fama (abusiva) di veridicità, ma a cuiaggiunge la carta vincente: il realismo del movi-mento e del suono. Nella storia dei media quel pro-cesso per immagini è uno spartiacque antropologi-co. A noi, circondati dai nostri acquari a 42 pollicisempre accesi, può sfuggire la portata della rivolu-zione mentale che ebbe corso allora.

Ma guardiamo indietro, solo alla scorsa settima-na. Di cosa abbiamo discusso? Del video che ha in-castrato senza scampo il governatore del Lazio Pie-ro Marrazzo, distruggendone la reputazione e lacarriera: un video che peraltro quasi nessuno ha vi-sto, ma ci è bastato sapere che esiste. E poi di quel-l’altro video, quello di Napoli, quello che mostra co-me in un pulp l’esecuzione camorrista di MarianoBacioterracino nei vicoli del rione Sanità. Pensia-moci bene: in entrambi i casi viene rovesciata la ge-rarchia della prova, per prime vengono le immagi-ni del fatto, e sono già complete in sé, inconfutabili;solo dopo si cercano le testimonianze che le con-fermino. L’occhio di vetro ha visto: noi possiamosolo accettare, perché quello è l’iper-sguardo dellatecnica, e la tecnica è precisa, fredda, sicura, men-tre i nostri occhi e la nostra memoria sono distratti,fallaci, lacunosi.

Rendiamoci conto di quel che è cambiato con la

com-parsa del testimo-

ne perfetto. Mai più Rashomon,mai più Così è (se vi pare), mai più la battaglia

delle testimonianze equivalenti e contrapposte, illabirinto del relativo e del soggettivo spianato di col-po dall’imperiosa faciesdella versione filmata, inat-taccabile perché “presa dal vero”. Tutte le nostreabitudini e convinzioni sul processo di formazionedi una verità condivisa si ribaltano di colpo, davve-ro tutte, dalle più drammatiche alle più banali: tra ifilmati di Norimberga e la moviola di Carlo Sassi al-la Domenica sportiva, nessuno si senta offeso, nonc’è soluzione di continuità. La comparsa (in tivù...)di quell’aggeggio diabolico declassò istantanea-mente l’arbitro di calcio, singolare figura di giudiceche è simultaneamente anche testimone e poli-ziotto, a spettatore tecnologicamente arretrato esoggetto a revisione di giudizio. Persino ConcettoLo Bello, principe dei fischietti, nella sofferta pun-tata del 20 febbraio 1972 dovette ammettere che latelecamera aveva «visto meglio», il rigore per il Mi-lan in effetti c’era.

Be’, rallegriamoci, no? Abbiamo trovato chi si ca-rica sulle spalle il pesante e spesso rischioso fardel-lo della testimonianza. Telecamere pronte a solle-varci dal peso ormai ce ne sono ad ogni angolo, eogni passante distratto ha ormai in tasca, integratanel telefonino, una macchinetta che registra scenein movimento. Citate loro, in tribunale, cari procu-ratori e avvocati: basta con i ricordi imprecisi. Sonoanche meno omertose e ricattabili, e difficilmenteritrattano. Le immagini testimoni piacquero tantoai giudici di Norimberga proprio perché non pote-vano subire controinterrogatori, non potevanoconfondersi, impantanarsi, contraddirsi. La loroversione è implacabile. Resiste perfino alle senten-ze contrarie. Il 29 aprile del 1992 l’assoluzione di trepoliziotti dall’accusa di aver pestato a sangue il ne-ro Rodney King, episodio ripreso dalla videocame-ra di un passante e diffuso da tutti network, scatenala sanguinosa rivolta di Los Angeles. I giudici ven-gono messi in mora dalle immagini, perfino il sin-daco Bradley arriva ad affermare che «il verdettonon può renderci ciechi a ciò che abbiamo visto sulvideotape». Nel successivo processo federale duedei poliziotti saranno condannati: il video ha vinto,ha imposto il suo giudizio.

Questa è la potenza della prova audiovisiva:sconvolge le parti in causa, letteralmente. Trasfor-ma noi tutti da giurati a testimoni oculari; e tra-

Video, il testimone perfetto

l’attualitàTecnologia

Quello che ha incastrato Marrazzo, quello pulp che ha registratol’omicidio del rione Sanità. In entrambi i casi l’occhio di vetroha visto e noi non possiamo che credergli: perché è l’iper-sguardodella tecnica mentre i nostri occhi e la nostra memoria sono fallacie lacunosi. La videocrazia viene da lontano ed è sempre più potentee pervasiva. Ma siamo sicuri che sia davvero infallibile?

MICHELE SMARGIASSI

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8NOVEMBRE 2009

BIN LADENDa sinistra, il video

di Bin Laden, dopo l’11 settembre

2001; il bambino palestinese

ucciso dai soldati israeliani

durante una manifestazione

nel 1998; la moviola nella partita

Milan - Lazio durante

il campionato del 2003

Repubblica Nazionale

sforma se stessa da testimone agiudice. La sua credibilità è straor-

dinariamente alta. Una ricerca Usariferita dal polemista John Ralston

Saul nel suo Il sistema del dubbio so-stiene che là dove tre americani su

quattro scoprono una menzogna “me-dia” nascosta in una notizia riferita a vo-

ce, uno su due ci casca quando la stessa notizia ècorredata da immagini. E un esperimento appenapubblicato su Applied Cognitive Psychology rivelache in caso di contraddizione tra i propri ricordi eun video che riferisce il medesimo evento, la gran-de maggioranza dei testimoni oculari tende a cre-dere a quest’ultimo.

Così è. Se vi pare, però. E solo se vi pare. L’autoe-videnza delle sequenze video non è affatto assolu-ta. Ne seppe qualcosa il giudice Jim Garrison, quel-lo che ha il volto di Kevin Costner nel film JFKdi Oli-ver Stone: pensava che il filmino amatoriale del si-gnor Zapruder, pochi terribili secondi che tutti gliamericani sanno a memoria, girati proprio mentreuno o forse più proiettili colpiscono il cranio del Pre-sidente sulla macchina scoperta a passeggio perDallas, contenesse le prove formidabili del “com-plotto” contro John Kennedy; ma una volta smon-tato, sezionato fotogramma per fotogramma, ilsenso di quelle immagini finì per evaporare, pernon significare nulla oltre alla propria esistenza.Non c’è video, in realtà, che parli davvero con la suasola voce. Te ne accorgi quando la battaglia sul sen-so di una sequenza coinvolge antagonisti potenti eposte molto alte. All’indomani dell’11 settembre2001 il video con la “rivendicazione” di Osama BinLaden per l’attentato viene immediatamente con-siderato attendibile dalle potenze occidentali, e al-trettanto immediatamente contestato dal mondoislamico. Alla fine servirà a giustificare una guerra,ma Bush dovrà ribaltare il ragionamento: «Chi noncrede a questo video fa un favore a un uomo che èun diavolo». La cattiveria del suo protagonista di-venta la prova che il video è vero, e non l’inverso.

Bisogna proprio ricordare che nessun video si gi-ra da solo, che c’è sempre un autore, un’intenzione,un progetto? Molte delle cose che i video ci mostra-no avvengono solo per finire su un video, come granparte del bullismo digitale che infesta YouTube, oper essere chiari lo stesso attentato alle TwinTowers. Alcuni eventi vengono recitati come unafiction, per finire su un video: la caduta della statuadi Saddam, la commovente storia del soldato Jessi-ca Lynch. Che anche dove c’è una volontà onesta edocumentaria, la presenza di una telecamera alte-

ra la scena: se neaccorge adesempio Ame-deo Ricucci,giornalista e re-gista Rai, e lo rac-conta con onestànel suo La guerrain diretta, quan-do nel 2000, a Ra-fah, in piena Inti-fada, vede che iragazzini palestinesi inscenano una sfida contro imilitari israeliani quando sanno di essere ripresidalla sua telecamera (ma le granate di risposta,quelle piovono veramente e ne feriscono due).

Non esistono video innocenti, non esiste l’oc-chio indifferente e imparziale della videocamera,neppure di quelle automatiche. Non c’è immagi-ne che non possa essere indotta a mentire, comeun testimone in carne ed ossa. Anche i video, co-me loro, andrebbero escussi, interrogati, contrad-detti. Tutto parte e ritorna nell’arena dei conflittiumani, ed è solo in quell’ambito che un’approssi-mazione alla verità può essere tentata. Il 30 set-tembre del 2000 un video di 55 secondi commuo-ve il mondo: mostra il piccolo palestinese Moha-med Al-Dura terrorizzato, inutilmente protettodal corpo di suo padre e poi ucciso durante un con-flitto a fuoco a Netzarim. Il video è accusato di ma-nipolazione, l’esercito israeliano dà versioni con-traddittorie sulle proprie responsabilità, l’autoredel video, il cameraman Talal Abu Rahma giurasulla sua onestà ma viene tacciato di essere un fal-sario, un propagandista filo-Intifada, la stampa in-ternazionale si spacca fra fiduciosi e diffidenti, do-po nove anni la controversia è ancora infuocata ein Francia ha dato origine a un processo.

La morale: cacciato dalla porta, Rashomonrien-tra dalla finestra. L’irruzione della prova per im-magini non ha reso più “scientifiche” le sentenzegiudiziarie, ma ha irrimediabilmente incrinatol’autorevolezza del vecchio processo indiziario. Lapossibilità di cercare una “prova schiacciante” (unvideo, ma anche il test dna) fa sì che, là dove quellaprova non c’è o non è poi così schiacciante, qual-siasi sentenza diventa debole, e il buon vecchio “li-bero convincimento” del giudice, raggiunto sullabase degli indizi e delle testimonianze, apparemacchiato di insostenibile soggettività. La speran-za che un deus ex machina tecnologico liberi persempre l’umanità dalla perenne discordanza delleopinioni diventa una beffarda illusione. Peggio: al

conflitto fra gli umani si aggiunge il frastuono as-sordante di una sovrabbondanza, di un «troppopieno» di figure che non riusciamo a gestire e che citravolgono. E così «innumerevoli immagini o spe-cies delle cose visibili si affollano disordinatamen-te nel fondo dell’anima, con tanta varietà e discor-dia che finiscono per opprimerla e confonderla. Lìsi annida la piaga dei “fantasmi” che disperdono edistruggono l’intelligenza». Lo scrisse qualchetempo fa un acuto osservatore dei media. Si chia-mava Francesco Petrarca.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 8NOVEMBRE 2009

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TIENANMENDa sinistra, il ragazzo disabile malmenato a scuola e ripreso

su Youtube; giovani di Riva del Garda che lottano con le cinghie;

i carri armati cinesi che invadono piazza Tienanmen nel 1989

NORIMBERGAA sinistra, un “gioco” di studenti

alle prese con una bomboletta

di gas videotrasmesso

su Youtube; in basso,

una seduta del processo

di Norimberga svoltosi

tra il 1945 e il 1946

L’ATTENTATO A JFKA sinistra, Dallas

22 Novembre 1963;

a destra il pestaggio

dell’afroamericano

Rodney King da parte

dei poliziotti

di Los Angeles nel 1991

Repubblica Nazionale

Vent’anni fa, il 20 novembre 1989, morival’autore de “Il giorno della civetta”. Oggi la sua

analisi sul Paese è ancora viva. Lo dimostra Andrea Camilleri, che ne haraccolto le interpellanze parlamentari presentate quando era deputatoradicale. Ma lo testimoniano anche le lettere inedite, che qui mostriamo,scambiate per un trentennio con un editor dell’Einaudi molto speciale

CULTURA*

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8NOVEMBRE 2009

«Vado a guastare i giochi». Nel maggio del 1979Leonardo Sciascia motiva così il suo ingresso inparlamento, con i radicali. Vi rimarrà una legi-slatura, l’ottava, fino all’83. I radicali hannoquadruplicato i voti, eleggendo diciotto depu-tati, tra cui Bonino, Melega, Teodori, la cattoli-

ca Maria Luisa Galli. Italia infestata di trame rosse e nere. L’onore-vole Sciascia, l’autore di Todo modoe Il Contesto, ci dovrebbe sguaz-zare. E invece quell’esperienza accresce, se possibile, il suo pessi-mismo. Poteva trovarsi a suo agio in quel gran teatro che è Monte-citorio uno che Montanelli, dopo una cena comune, descrive neisuoi diari «immoto e inespressivo; parla alla velocità di una parolaall’ora»? «Una delle cose che più mi sgomentano — rivela nella se-duta del 23 gennaio 1980 — è la constatazione di una doppiezza trail dire e il fare e tra il dire e il dire che si realizza in scarti minimi ditempo e di spazio, cioè tra questa aula e il Transatlantico». Infatti«nell’aula della Camera parlò pochissimo» ricorda Marco Boato,che gli sedeva accanto e raccoglieva i foglietti dei discorsi.

Nel ventennale della morte Un onorevole siciliano (Bompiani),condensa undici interpellanze di Sciascia, chiosate da Andrea Ca-milleri. Il primo intervento è sul governo Cossiga, che l’anno primasi è dimesso da ministro dell’Interno dopo l’uccisione di Moro. «Co-me cittadino — lo incalza Sciascia — ritengo che avrei avuto il dirit-to di conoscere le precise ragioni per cui lei si è dimesso, e ritengo diaverne ancora il diritto, poiché lei non solo non si è ritirato dalla vi-ta politica, ma si affaccia oggi a presiedere il governo della Repub-blica». L’anno dopo Cossiga è tirato in ballo dal pentito Roberto San-dalo per un incontro segreto avuto con Carlo Donat Cattin sul de-stino del figlio di quest’ultimo, Marco, terrorista di Prima Linea. ESciascia: «Cossiga, invece di levare “al ciel ch’è suo, le ciglia” o dirglidi non toccare l’argomento, ha tenuto un diverso comportamento».

Nel 1975 è consigliere comunale del Pci a Palermo, convinto daOcchetto, ma già nel gennaio 1977 sbatte la porta. Il caso Moro e l’o-stilità al compromesso storico sanciranno in seguito la definitivarottura con i comunisti. Il 27 aprile 1979 Marco Pannella piomba a

Palermo e nella sede della casa editrice Sellerio chiede a Sciascia ladisponibilità a candidarsi, a liste praticamente chiuse. Nella sua Ra-calmuto prenderà 636 voti, ma non quello delle figlie. Renato Gut-tuso, comunista, suo amico da quarant’anni, su Repubblica nonglielo perdona: «La notizia della tua candidatura nel partito radica-le mi ha fatto riflettere sulla misura e la qualità dell’amicizia per te».Replica Sciascia: «Il tuo essere comunista negli anni del realismo so-cialista, durante la polemica Vittorini-Togliatti di fronte ai fattid’Ungheria e di Cecoslovacchia, in questi anni di compromessostorico, non mi hanno mai fatto riflettere sull’amicizia che sentivoper te. Il mio più vecchio e caro amico è stato democristiano per al-meno vent’anni». Non si riappacificheranno più.

Quando Leoluca Bagarella, il 26 luglio 1979, ammazza il com-missario Boris Giuliano, Sciascia rivela in aula che Giuliano gli dis-se che un ministro dell’Interno, per combattere la mafia, avrebbedovuto essere altoatesino. «Non credo che i ministri dell’Internodebbano essere altoatesini, credo però che debbano comportarsicome tali». Belle le pagine della polemica con il ministro Rognoniper la mancata assegnazione della scorta al magistrato CiaccioMontalto. Scrive la relazione di minoranza della commissione sulcaso Moro e affina l’interesse per la crisi della giustizia, il tema do-minante degli ultimi romanzi, da Porte Aperte a Una storia sempli-ce. «Già la giustizia in Italia non è mai stata celere, ma affermare chearrivando dopo una dozzina di anni può significare ancora giusti-zia, vuol dire avere smarrito il senso della realtà», ammonirà il 23gennaio 1980. E pare detto oggi.

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Un siciliano pessimistanell’Italia delle trame

CONCETTO VECCHIO

LA RISPOSTA

A GUTTUSO

L’amicizia vista

da due ottiche diverse

Da un lato Renato Guttuso

che ne ha una visione

vincolante con connotazioni

di forte dipendenza, non solo

dalla persona ma dalle idee

che quella persona incarna;

dall’altro lato Sciascia

che separa solidarietà amicale

e libertà di pensiero

Si può essere amici

e pensarla diversamente,

come scrive additando

l’esempio del suo amico storico

Stefano Vilardo,

la cui ventennale militanza

democristiana non aveva

messo in discussione

il loro forte legame

Sicché quando il pittore

stigmatizza la scelta

di Sciascia di candidarsi

con i radicali, affermando

che questa decisione lo

induceva a riconsiderare

la “misura” e la “qualità”

del loro rapporto, lo scrittore

gli replica che nessuno,

in forza di un sentimento

di amicizia può arrogarsi

la pretesa di salvare l’anima

a chicchessia. Riproponiamo

la versione originale di questa

risposta di Sciascia,

già apparsa su Repubblicanel maggio del 1979

IL DISEGNOUn ritratto di Sciascia

di Tullio Pericoli

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 8NOVEMBRE 2009

TANO GULLO

Quando apprende che i chirurghi hanno deciso di tentare undisperato intervento sul cervello di Italo Calvino in coma, aLeonardo Sciascia spuntano le lacrime. «Incurante dei paler-

mitani che sul marciapiede del Teatro Massimo guardano incuriosi-ti dentro l’auto in cui ci troviamo, piange affranto — racconta Nino De

Vita, l’amico poeta che lo accompagna — “Mi è quasi insopportabilepensare che qualcuno possa mettere le mani in questo grande cervel-

lo”, dice con la voce rotta». Lo scrittore singhiozza. Un pianto angoscio-so, termometro che misura la stima e l’affetto che unisce i due intellet-

tuali. E l’amico di una vita, lo scrittore Stefano Vilardo, conferma: «Duesole volte ho visto piangere Leonardo, quando apprese che dovevano

operare Calvino dopo l’ictus e nel sentire la notizia della morte di Pasoli-ni. E dire che non lo avevo visto piangere neppure per la morte suicida del

fratello Giuseppe, venticinquenne».

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IL LIBRO

Un onorevole siciliano - Le interpellanze parlamentaridi Leonardo Sciascia pubblicato da Bompiani

(194 pagine, 12 euro) è il libro in cui Andrea Camilleri

ha raccolto e raccontato le testimonianze

dell’esperienza di Leonardo Sciascia in Parlamento

È il ritratto impietoso di un’Italia incapace

di fare i conti con il proprio passato e con la verità

AUGURIA destra, dall’alto al basso,

un cartoncino di auguri di Natale

dell’Einaudi che Calvino manda

a Sciascia nel 1955; la prima

lettera che Calvino invia

a Sciascia nel 1953, dandogli

ancora del lei; una lettera

in cui Calvino parla di ritardi

di collane

e una in cui scrive all’amico:

“Stai in guardia” del 1960

È un sodalizio lungo e solido — per niente incrinato dalla di-vergenza di opinioni su fatti importanti, come il processo di To-

rino ai capi storici delle Brigate rosse e l’assassinio di Moro —quello che lega Sciascia e Calvino, comprovato dal centinaio di

lettere che si scambiano in ventotto anni. Nella prima, datata 22maggio 1953, Calvino si congratula per la rivista Galleria che Scia-

scia dirige a Caltanissetta; nell’ultima, del 26 maggio 1981, gli chie-de di scrivere un’introduzione per una nuova edizione di Annuzza

la maestrina di Elvira Mancuso. Nel mezzo opinioni, valutazioni,critiche, collaborazioni per Einaudi, di cui uno è autorevole consu-

lente e l’altro autore, manifestazioni di amicizia, rimpianti, inviti. Inun crescendo di stima, che via via l’autore de Il barone rampante va

maturando per il siciliano, all’inizio appellato «Sciascia» e poi «Leo-nardo», infine «caro amico». Delle sessantasei lettere a Sciascia ne so-

no state pubblicate otto sul Meridianodella Mondadori dedicato a Cal-vino. Siamo venuti in possesso delle altre cinquantotto. Ne pubblichia-

mo stralci in occasione del ventennale della morte dello scrittore di Ra-calmuto che cade il 20 novembre.

In una missiva — 2 marzo 1956 — Calvino è amareggiato per essersi la-sciato sfuggire le Cronachette scolastiche, il nucleo originario da cui poi sa-

rebbe scaturito il libro Le parrocchie di Regalpetra. Incerto se farne un “Get-tone”, lo dirotta ad Alberto Moravia che le pubblica su Nuovi argomenti. L’e-

ditore Laterza leggendole gioca d’anticipo e chiede a Sciascia di ampliarne icontenuti. Nasce così il testo Le parrocchie, un unicum che rivela le qualità

del giovane scrittore isolano. A Calvino non resta che annotare con un pizzi-co di rimorso: «Mi mordo le mani dalla rabbia di aver perso i tuoi ricordi di

scuola. Da anni punto su di te, ma non mi aspettavo di trovarti narratore, e unnarratore sicuro come ti dimostri. Bravissimo!».

Per quanto dall’epistolario emerga un rapporto di genuina amicizia, Calvinonon si sottrae mai alle sue responsabilità di consulente editoriale. Esprime qual-che riserva sul racconto La morte di Stalin e sul Consiglio d’Egitto e gli suggerisceun finale meno scontato de L’antimonio. L’idea di inserire nella prestigiosa col-lana “I coralli” (aperta solo agli autori consacrati) la nuova edizione de Gli zii diSiciliacon l’aggiunta del racconto L’antimonio, ambientato in Spagna sullo sfon-do della guerra civile, diventa l’occasione per un serrato confronto sul rapportotra invenzione letteraria e realtà storica. «Calvino è dubbioso sulla possibilità discrivere di avvenimenti contemporanei senza averne avuto esperienza — diceSimone Gatto, studioso che a Sciascia ha dedicato la tesi di dottorato di ricerca—. Gli sembra un’usurpazione dei testimoni diretti. Problema che a suo dire nonsi pone quando si affronta la storia del passato, perché offre al narratore marginidi maggiore libertà. Va tutto bene per Calvino quando Sciascia scrive i gialli sul-la mafia perché ha una conoscenza personale della Sicilia che descrive». E ne ètalmente consapevole che chiude la lettera del primo dicembre ’60 con «Sta inguardia». Poi divertito spiega: «Avevo scritto: Sta in gamba, ma la mia segretariaha battuto Sta in guardia, il che — con la mafia che tira — non è fuor di luogo».

L’ossessione di quegli anni per i premi letterari è un altro motivo ricorrente.Calvino configura scenari per dare una mano a Sciascia. Quest’ultimo si prodigain recensioni degli scritti dell’amico su L’Ora e su Il Ponte. Nessuno però potràmai sostenere che l’uno aiutasse l’altro per convenienza, lusinga e interesse. Lastatura morale dei due è al di sopra di ogni sospetto. E ogni parola spesa a favoredell’amico scaturisce da un’assoluta stima. In una lettera — 4 luglio 1958 — unatiratina d’orecchio all’autore de Il mare colore del vino, che batte cassa da Einau-di. «Dici che devi avere dei soldi — scrive Calvino divertito censore —. Ma chec’entrano i soldi coi libri? Soldi e libri, purtroppo, appartengono a due universidiversi, non comunicanti». Gli interessi sono una cosa, infatti, la letteratura conla L maiuscola un’altra.

“Caro Leonardo...”il lungo carteggiocon Italo Calvino

Repubblica Nazionale

Centocinquanta anni fa, il 23 novembre 1859,nasceva il bandito che inventò il Far WestSu di lui sono stati girati diciassette film,

composti nove album di ballate, scritti trentacinque libri.Eppure nessuno è mai riuscito a trasformare la leggenda in cronaca certa e ancora oggiresiste il dubbio che “the Kid” non sia stato davvero ucciso da Pat Garrett

SPETTACOLI

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8NOVEMBRE 2009

FURIA SELVAGGIA (1958)Nel film di Arthur Penn, qui

al suo esordio, il fuorilegge

è interpretato da Paul

Newman. La pellicola

ha influenzato Peckinpah

THE OUTLAW (1943)Nel film di Howard Hughes

a lasciare il segno

è la performance femminile

di Jane Russell censurata

dal severo codice Hays

TERRA SELVAGGIA (1941)Una versione idealizzata

della storia con Robert

Taylor nel ruolo di Billy

e una suggestiva fotografia

a colori candidata all’Oscar

BILLY THE KID (1930)Girato da King Vidor

parzialmente in 70 mm,

è il primo sontuoso

western sonoro

sulla storia del fuorilegge Del bambino, Billy aveva la faccia, il sor-riso, il soprannome e l’anima che portòin cielo con altre ventuno anime che luistesso aveva provveduto a separare daicorpi con i proiettili della sua Colt e conle lame dei suoi coltelli. Non era neces-

sariamente il paradiso di angeli, arcangeli, cherubini eserafini, quello che Billy detto “the Kid”, appunto ilbambino, raggiunse con le sue vittime, era il cielo del-la leggenda, dove lui regna da centocinquant’anni co-me il bandito che inventò il Vecchio West.

Se anche i cattivi avessero le loro chiese e i loro san-ti, la cattedrale più imponente sarebbe stata erettacertamente tra i territori della Frontiera per il ragazzi-no con gli occhi azzurro pallido come il cielo dell’Ir-landa dalla quale proveniva, le guance appena spor-cate dalla prima peluria maschile e i dentoni storti diquando non avevano ancora inventato gli ortodonti-sti. Ma invece di un santuario, per ricordare il Billy theKid, resta soltanto un nome su una pietra, nel cimite-rino di Fort Sumner, nel New Mexico, senza neppureuna croce. Circondata da una gabbia di ferro con lesbarre, come fosse una cella per morti.

Ammesso che sia morto davvero in quel 1881, ilgiorno in cui il suo ex amico e compagno di sparatoriePat Garrett, divenuto sceriffo secondo quella porta gi-revole che nel Vecchio West trasformava fuorilegge inuomini di legge con una stella di latta sul petto, lo at-tirò in un’imboscata e lo ammazzò. Ammesso che loabbia ammazzato. Ammesso che il suo corpo sia se-polto in quel cimitero, perché anche davanti alla pie-tra della sua tomba ingabbiata, anche dopo trenta-cinque volumi di ricerche storiche, diciassette filmprodotti fra il 1930 e il 2006, nove album di ballate,sinfonie e canzoni su di lui composte da Bon Jovi,Woodie Guthrie, Aaron Copland e naturalmente BobDylan, e sei documentari televisivi, del “santo dei fuo-rilegge” non sappiamo nulla di certo. Neppure comesi chiamasse.

La storia di Billy il Bambino Cattivo non esiste. Esi-stono le storie che sembrano tutte convergere vaga-mente nell’Irlanda della grande carestia delle patate enella folla famelica rovesciata dai bastimenti a Bostone a Brooklyn, dove lui potrebbe essere nato, nel 1859,con il nome di Henry McCarty, da un uomo chiamatoPatrick. O William. O Michael. O Edward. Ma se “pa-ter” notoriamente “semper incertus”, nel suo casoneppure la madre è certa: se essa si chiamasse Cathe-rine McCarty o Katherine Beaujean maritata Bonney,il cognome che lui, “the Kid” preferiva. Quando non sifaceva chiamare Atrim, un altro nome con il quale eraconosciuto.

Se non ci fossero sue varie fotografie, immagini im-presse direttamente dalla luce su lastre di metallospalmate di emulsione sensibile, come la più famosache lo ritrae sotto uno sghembo sombrero floscio confucile al piede e fondina della pistola sull’anca, si po-trebbe dubitare che sia mai esistito e pensare che il ra-gazzino irlandese, rotolato lungo il piano inclinatodell’America dall’Atlantico verso le Montagne Roc-ciose, sia una invenzione dei deserti, delle praterie,dei bivacchi di bovari. Ma sul fatto che abbia vissuto,e abbia battuto quell’immenso territorio che oggi va

anche nel Vecchio West, ma il totale veramente ac-certato è di appena quattro, fabbro ferraio escluso, inquella guerra per il bestiame di Lincoln County. Nien-te di eccezionale.

Due di quei morti accertati furono le malcapitateguardie incaricate di sorvegliare la cella nella quale ilbambino era stato rinchiuso in attesa di essere impic-cato. La sua fazione aveva perduto la guerra e luiavrebbe dovuto pagare per la sconfitta. Pagarono in-vece le guardie, che uccise con un pistola lasciata daun amico nel gabinetto del carcere. Forse. Pare. Si can-ta e si racconta. Evase, già all’ombra del patibolo che icarpentieri avevano costruito per lui, e vagò per mesitra tavoli di poker, furti di bestiame, lavoretti e saloondove incontrò un giocatore che non lo conosceva edebbe la cattiva idea di vantarsi di essere colui che un

giorno avrebbe «ucciso Billy the Kid», agi-tando la pistola. «Era una partita a due»,

avrebbe detto “the Kid” in una dellepoche frasi che gli siano state attri-buite, «e io feci la prima mossa». Ilgiocatore vanesio e imprudente cad-de con la faccia sul tavolo per il con-

traccolpo di una pallottola fra gli oc-chi.

Aveva ventuno anni quando accettò diincontrare il nuovo sceriffo, un ex barman, ex la-

dro di vacche ed ex cacciatore di bisonti che aveva sen-

Le mille e una vitadel santo fuorilegge

VITTORIO ZUCCONIdall’Oklahoma a Las Vegas non ci sono dubbi.

Sappiamo che seguì la signora McCarty dai termi-tai umani della New York di metà Ottocento oltre imonti Appalachiani, nelle grandi praterie del MidWest, ruzzolando tra retrobottega di lavanderie cine-si, camere in affitto, snodi ferroviari, furtarelli di for-maggi in empori, carri bestiame, mandrie, fino al suoesordio ufficiale sulla scena della violenza che loavrebbe reso immortale. L’assassinio di un fabbro fer-raio a Fort Grant, in Arizona, che l’aveva tormentato eprovocato, per la sua statura piccina, il corpo minutoe la faccia da bambino. Il fabbro lo spintonò fino a but-tarlo a terra. McCarty, o Bonney, o Antrim, insommail futuro Billy the Kid estrasse la pistola e le fece secco.Era il 1877 e aveva diciassette anni.

E fino all’assassinio del fabbro dell’Arizona, che pu-re molti testimoni giurarono fosse legittima difesa, lavita di questo figlio di nessuno divenuto ufficialmen-te orfano quando la signora McCarty fu definitiva-mente consunta dalla tubercolosi non sarebbe statanulla da ricordare, o da immortalare nel pantheon delWest. Fu da quel momento in poi, con prima la fugadal carcere arrampicandosi su per il camino della pri-gione e poi tuffandosi nell’immensità del New Mexi-co, che le storie di Billy the Kid escono dalla normalitàdi un ragazzo qualsiasi con la “sei colpi” a tamburo pervolare nel mito dal quale nessuno storico riuscirà piùa farlo scendere.

Fu nel New Mexico, che in quell’ultimo quarto di se-colo era ancora molto più Mexico che Stati Uniti d’A-merica, che l’immigrato irlandese divenne Billy theKid. Lo fece entrando in una zuffa sanguinosa, e tra-scinata per mesi, tra i commercianti, i possidenti ter-rieri e i mandriani che si contendevano, a colpi di pi-stola, di fucile a ripetizione, di governatori, sindaci esceriffi corrotti, il controllo di una contea intitolata alpresidente da non molto assassinato per riportare, po-veretto, la pace nel proprio popolo, “Lincoln County”.Billy, o come si facesse chiamare all’epoca (pare che ilnomignolo da lui preferito fosse “the Antrim Kid”) sischierò dalla parte dei giusti, cioè dalla parte sbaglia-ta. Si unì a una banda di giustizieri e ribelli contro i piùprepotenti, chiamata i “Regulators”: quelli che vole-vano imporre regole a difesa dei più deboli e soprat-tutto dei messicani, che, insieme con i nativi indiani,erano la terra umana che tutti calpestavano.

Fu assoldato da un celebre e giusto ranchero dellacontea, John Chisum, che un secolo più tardi avrebbeavuto l’onore di assumere il volto di John Wayne in unfilm del 1970, e prima come soldato semplice, poi viavia come leader dei “Regulators” a mano a mano chei compagni venivano ammazzati negli scontri a fuo-co, il bambino fece la propria carriera di assassino ebandito, secondo le autorità. Di giustiziere e perse-guito per amore di giustizia, secondo i bovari e i con-tadini. Si cominciò a dire che fosse messicano perchéparlava lo spagnolo, e che fosse un fulmineo e infalli-bile “pistolero” capace di battere chiunque al giocomortale di estrarre per primo la sei colpi, ma anchequesta storia, fra le storie, non ha mai retto alle ricer-che successive. Billy sparava molto e bene, come tut-ti coloro che volessero restare vivi da quelle parti, manon meglio di altri. Il numero dei suoi avversari ab-battuti cresceva passando di bocca in bocca, fino araggiungere il numero di ventuno, cifra rispettabile

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 8NOVEMBRE 2009

LA VERA STORIA DI BILLY THE KID (1989)

Gore Vidal firmal’ennesimo adattamento

con Val Kilmerprotagonista. Per la tv

LUCKY LUKE (2009)Adesso nelle sale

d’Oltralpe, è l’ultimo filmche racconta la storia

Billy, interpretato dalla starfrancese Melvil Poupaud

YOUNG GUNS (1988)Cast con giovani promessedegli anni Ottanta (Charlie

Sheen, Emilio Estevez,Kiefer Sutherland)

per rinverdire il mito

PAT GARRETT E BILLY THE KID (1973)James Coburn e Kris

Kristofferson, Bob Dylan,la sua musica. Il mito Billysecondo Sam Peckinpah

tito improvvisa la vocazione dei codici e della legge,Pat Garrett, sua antica conoscenza. Forse. Si canta.Pare. Un amico comune aveva invitato il bambino daidenti storti a un incontro di pace con lo sceriffo e Billyaveva accettato. Entrò nel saloon, perché ci deve sem-pre essere un saloon nelle leggende del Vecchio West,quasi completamente buio. «Chi sei?», disse in spa-gnolo alla sagoma scura appoggiata al banco e la sa-goma rispose con due pallottole, una nel ventre, l’al-tra diritta al cuore.

Ma le storie non finiscono qui. Lo sceriffo che ave-va teso la trappola pubblicò una biografia dal titoloche avrebbe dovuto insospettire subito il lettore, Lavera storia di Billy the Kid, scritta con l’aiuto di uno diquei giornalisti nomadi da Far West che sfornavanoleggende a cinque centesimi di dollaro per articolo eventi centesimi per un libro. Un cadavere fu sepoltonel cimitero dove oggi sta la pietra tombale, ma pochidecenni più tardi, e ancora nel Novecento, il “Kid” sa-rebbe risorto. Almeno tre uomini dissero di essere lo-ro il “bambino” e raccontarono che l’agguato nel sa-loon era stata tutta un’invenzione dello sceriffo, chevoleva la gloria di avere abbattuto il santo dei banditie i soldi della biografia, con la complicità dello stesso“Kid” che mettendo in scena la propria morte aveva fi-nalmente potuto continuare la propria vita in pace,sotto un nome qualsiasi.

La resurrezione del santo con la pistola non fu maiprovata, ma neppure smentita. Sono state proposte,anche in questi anni, riesumazioni, test del dna su fi-gli e nipoti dei pretesi Billy the Kid, senza mai arrivarea un risultato convincente. Forse per questo, nel dub-bio, attorno alla tomba è stata costruita la gabbia conle sbarre di ferro. Con i bambini cattivi non si è maitroppo prudenti.

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Anche recentemente c’è chi ha propostoriesumazioni e test del dna senza mai

arrivare a un risultato convincenteAttorno alla sua tomba è stata costruitauna gabbia con le sbarre di ferro

RICERCATOSotto, un giovanissimoBilly the Kid; a sinistra, il suo

nemico, lo sceriffoPat Garrett

Nella foto grande,ancora Billy the Kid fotografato spalle al muro

• RAI, PROFONDO ROSSO IN BILANCIOOccupata dalla politica, attenta alle nomine, in viale Mazzini a restare indietro sono le strategie per contrastare il crollodella pubblicità, che è il doppio di quello registrato da Mediaset

• LA RI-REGULATION DELLA FINANZAL’amministrazione Obama sta faticando più del previsto ma alla fine riporterà sotto controllo i meccanismi distorti del mercatoche hanno causato la crisi

• SCUDO FISCALE, ARRIVANO I SOLDI MA NON ALLE IMPRESESecondo le banche soltanto la metà andrà a finanziare i progetti industriali, il resto servirà a far crescere i consumi di lusso

• GLI INDUSTRIALI TEDESCHI VOGLIONO PIÙ TASSEIl nuovo governo di Angela Merkel vorrebbe tener fede alla promessa elettorale di abbassare il carico fiscale, ma gli stessiimprenditori temono che così si amplierebbe il deficit pubblico

Nel numero in edicola domani con

Repubblica Nazionale

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8NOVEMBRE 2009

Niente ritorni a casa rassicuranti, niente lieto fine,nessuno sconto alle profondità del sangue e dell’angosciada cui nascono tutte le favole: questo non è un paesaggioper bambini. Un immenso affresco gotico, un luogo oscuro,un labirinto senza colori, senza speranza. Ecco la fiaba dei fratelli Grimm ridisegnata da Lorenzo Mattotti

na pece oscura che sorge dai sot-terranei dell’anima si innalza inselvaggi marosi, ondate di tenebraliquefatta sono sul punto di in-goiare tutto, un’ansia incontrolla-bile contorce i segni e i sentieri delbosco, ciechi serpenti d’ombra siannodano e azzannano, è buio enotte dovunque, ma in quel boscofuribondo e soffocante un bambi-no e una bambina corrono nel so-lo spazio di luce rimasto, corrononel cuore della tempesta nera, for-se verso un’uscita, forse in salvo:sono Hänsel e Gretel come li ha vi-sti Lorenzo Mattotti nelle tavoleche ha dipinto per la grandiosa fia-ba dei Grimm.

Il racconto dei Grimm è rapido,musicale, terribile. Due fratellinivengono abbandonati nel boscodal padre, istigato dalla matrigna;la prima volta si salvano segnandoil cammino con dei sassolini bian-chi, ma la seconda volta le bricioledi pane che Hänsel ha fatto cadereper ritrovare la via del ritorno a ca-sa, sono mangiate dagli uccelli: il

bosco notturno ingoia i fratelli, lafame li assale. È la fine? No, nel bo-sco c’è una casa, una straordinariacasa fatta di pane, focaccia e zuc-chero che i bambini cominciano amangiare; una vecchia gentile liinvita a entrare, e li fa pranzare de-liziosamente. Ma la vecchia èun’orchessa: chiude in gabbiaHänsel e costringe Gretel a portar-gli cibi sopraffini per farlo ingras-sare e mangiarselo. Semicieca, lavecchia va ogni giorno a tastare l’a-nimaletto Hänsel, ma lui le fa toc-care un osso di pollo, e la vecchia,delusa, rimanda il pasto: finché,stufa, decide di cuocerlo al forno.Con un trucco Gretel la sbilancia,la spinge nel forno, chiude il por-tello e torna a casa con Hänsel: lamatrigna è morta, e il padre li ac-coglie in lacrime. Happy End.

E invece no, nessun lieto finenelle tavole di Mattotti. La storiacomincia in una casa che sembra

uscita da un gothic tale di Love-craft, continua in un bosco che èun labirinto funereo da far impal-lidire Terry Gilliam e Murnau, e siconclude nella casa gotica dove ibambini infine ritornano: avven-tandosi letteralmente verso il pa-dre. Per abbracciarlo o per far co-sa? E cos’altro succederà in quellacasa cupa?

Mattotti ha sollevato il velo ras-sicurante steso dai Grimm nel fi-nale, e ha riportato Hänsel e Gretelnel cuore di tenebra da cui eranonati. Per lui la dimora della vecchiaè una chiesa preistorica, un altarepronto per un sacrificio umano;un’aria rituale circola in tutte leimmagini, viscida, ombrosa, pe-sante; l’uccisione della vecchia daparte di Gretel non è taciuta, maurlata. Mattotti ha lasciato chel’inconscio fuoriuscisse dalle feri-te che i Grimm avevano caritate-volmente suturato, illustrando inuna straordinaria sequenza da ci-nema muto ciò che Kafka rivelòsulle favole: «Tutte le fiabe proven-gono dalle profondità del sangue edell’angoscia…». Ma al contrario

che nel suo Dottor Jeckill e MisterHydee nel suo Pinocchio, dove ros-si sontuosi e abbacinanti erano ilsegnale del sangue e della violen-za, in Hänsel e Gretel Mattotti hapietrificato l’angoscia nel nerodenso dell’inchiostro, in una sortadi ebbra e ossessa radiografia po-st-barocca.

E l’uscita dalla foresta dell’in-conscio? Forse per sottrarsi al labi-rinto, così sembra dire il ritmo in-quietante che Mattotti ha dato aHänsel e Gretel, bisogna impararea leggere le scarne tracce salvifichesommerse nel buio che ci circon-da, e trovare il ritmo e il tempo giu-sti per evadere dalla trappola: unamusica alla Charlie Parker, nevro-tica e dissonante, veloce e sinco-pata, graffiata e eccitata sul filo del-l’emergenza e dell’improvvisazio-ne. Forse la sola musica che spettaa noi, i contemporanei dell’orrore.

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IL LIBRO

Sarà in libreria da domani Hänsel e Greteldi Jacob e Wilhelm Grimm illustrato da Lorenzo Mattotti

(52 pagine, 20 euro). Il volume è pubblicato da Orecchio acerbo editoreIl libro uscirà in contemporanea

anche in Francia pubblicato da Gallimard

UGIUSEPPE MONTESANO

l’immagineClassici

La dimora della vecchiaè un altare pronto

per un sacrificio umanoUn’aria rituale circola

ovunque, viscida e pesante

L’avventura si concludenella casa dove infineritornano, avventandosiletteralmente verso il padrePer abbracciarlo o no?

Il cuore di tenebradi Hänsel e Gretel

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 8NOVEMBRE 2009

le tendenzeTempo d’inverno

La calosce gommate e coloratissime invadonoil guardaroba femminile e “contaminano” perfino il look da sera. Così il mondo del fashionha fatto di quel fastidioso fenomeno meteoche contraddistingue la stagione fredda, una nuovaoccasione di sfoggio

Lo scorso anno, in Italia, èraddoppiata la percentualemedia della pioggia caduta.Uniche a gioire della notizia,resa nota con preoccupazio-ne dall’Osservatorio agrocli-

matico dell’Ucea, sono le appassionate diuna nuova tendenza del fashion. Quellache suggerisce alle don-ne di “bardarsi” comeper affrontare il più insi-dioso dei temporali. Ciòche un tempo era sino-nimo di disagio, per gliinspiegabili capriccidel mondo della mo-da, diventa chic. Il ma-linconico fascino dellapioggia non è una no-vità. Lo conoscono beneregisti del calibro di AbbasKiarostami e Krzysztof Kie-slowski che, per esaltare labellezza delle loro dive pre-ferite, hanno sempre scel-to paesaggi piovosi. Ma ilset è un’altra cosa. Ora an-che la vita reale diventaun’irrinunciabile occasio-ne per sfoggiare imper-meabili, borse water-proof, cappellini e clo-che. E, soprattutto, sti-vali di gomma.

Le tradizionali ca-losce si confermano,tra i maniaci dellatendenza, come ilnuovo tormentone del-l’inverno. Coloratissime e al-te sino a mezza gamba. O più mo-destamente disegnate per sfiorare ilginocchio, fanno comunque impazziretutte. La nuova tentazione è, per molte,

d’indossarle quando fuori c’è il sole. O anche, formula assai inconsueta, do-po le 21 abbinate ad un abito da sera. Le più audaci direttamente a gambanuda. Di fronte a tanto entusiasmo i più perplessi sono gli uomini che ve-dono mogli, fidanzate e amiche abbandonare tacchi e plateau per glistivaloni mutuati dal guardaroba dei pescatori. L’importante è sa-perlo e non preoccuparsi se, in occasione di qualche party, leospiti si presentano in dress code e stivale gommato.

Ed è un momento di rinnovata gloria anche per l’ingle-sissimo trench. Lasciato negli armadi e riesumato solonell’estrema urgenza dettata dal cielo grigio, l’im-permeabile diventa il passe-partout per le giorna-te d’inverno. Magari rivisitato in colori accesi,con impunture contrasto e fantasie inaspetta-te. Impazzano anche le giacche antipiog-gia: sono leggere e si ripiegano in valigiaoccupando meno spazio di un libro. Lanovità dell’inverno, poi, è l’abbina-mento della gomma con lamaglia. Stivali con cal-zettoni incorporatidal cui bordospuntano calza-maglie a coste lar-ghe o calde imbotti-ture di pile.

Anche gli ombrelli,infine, risorgono dal-l’ordinario e diventanoformato tascabile, colora-tissimi o extrasize. Un vezzopiù che una necessità.

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IRENE MARIA SCALISE

CON O SENZA SOLEIl massimo dello chicper gli stivali di Dior con logoben in vista. Sono talmente belliche, anche con il sole, sarà difficile lasciarli a casa

PICCOLO MA INDISPENSABILEOmbrellino formato minimoper Carpisa. Può esserecomodamente contenutonella borsetta da cittào nella tasca della giacca

FASCINO SCOZZESENati in Scoziaper risponderealle esigenzedi pescatorie cacciatori,gli Hunter sonotornati di modaanche nelle grandicittà. Ideali per sdrammatizzareil look nei giornipiù grigi

DA TEMPORALELook da modernaTwiggy:un impermeabilecolor melanzanacon cappuccioe stivali cuissardessopra il ginocchiodi SealupPer essereimpeccabilianche sottoil temporale

ANTI-SCIVOLOLo stivale Pirelliresiste all’asfaltopiù scivolosoPossiede una pararealizzatanello stessomaterialedegli pneumatici

ROSSO PASSIONEIl rosso è il colore dell’inverno

Ed è rosso lacca lo stivaleproposto da Murphy & Nye

con logo sulla gambae tacco a contrasto

RIECCO LE GHETTEGhette di gomma rosa confettocon lettere a contrasto. Il tocco

di comodità in più è l’elasticoper regolare la dimensione

della circonferenza

DOUBLE FACEPer le perenni indecise ecco la ballerina che trasformaqualsiasi scarpa in uno stivaleimpermeabile. Una voltaall’asciutto, si possono riporrenella borsetta

CALDA MAGLIAStivali in gomma

di Penny Blackcon risvolto

in magliadi colore scuroPer affrontarecon comodità

i più violentitemporali

e mantenerei piedi al caldo

Gocce d’eleganzamodello pescatore

Repubblica Nazionale

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8NOVEMBRE 2009

Il tempo delle e-ricette. Migliaia di fogli con impressa l’im-pronta del pollice (unto o bagnaticcio), quintali di libristrapazzati, pieni di orecchie, segni, sottolineature, notescarabocchiate, centinaia di telefonate esitanti, curiose,imploranti, tronfie, appagate. Pratiche in via di estinzio-ne, se anche Artusi e Carnacina si concedono dai link de-

dicati, testimoni loro malgrado della cucina approdata alla co-municazione planetaria grazie al codice binario.

A supporto della rivoluzione gastro-tecnologica, i numeri. InItalia, gli appassionati dichiarati di cibo sono poco meno di cin-que milioni, di cui quasi la metà cerca (e trova) soddisfazione su

i saporiCucina nella rete

Forum, community, chat. Sempre più i segreti della buonatavola vengono diffusi online. Sono oltre due milionigli italianiche, prima di cimentarsi ai fornelli, cedonoa un consulto web. L’arte del dubbio culinario è coltivatada principianti e professionisti: per condividere esperimenti,ma anche per salvare tradizione e semplicità

Vellutata di zuccaLa torineseSandra Salerno si divide tral’attività di cuoca a domicilio e la scuola

di gastronomia online. Tra le tantericette pubblicate spicca la vellutatadi zucca, castagne e pancettawww.untoccodizenzero.it

Millefoglie di pere e brieRicette e dintorniper il sito che abbraccia la cucina a 360gradi, dai videoalla gastronomia

etnica, fino ai consigli su come usaremicroonde e congelatore. Tra le ultimericette, la millefoglie di pere e briewww.giallozafferano.it

Zuppa di ceciStefano Bonilli,fondatore del GamberoRosso, oggiconsulente di Giunti Editore,

anima di molte discussioni sull’essenzadella gastronomia. Tra le ultime ricettecommentate, la cisrà (zuppa di ceci)blog.paperogiallo.net

Crumble di nocciole Sigrid Verbert,giovane e bravafotografa belgatrapiantata aRoma, racconta il cibo nel suo blog

da cui ha tratto Il libro del cavolo,in vendita su Internet. Goloso il suo crumble di nocciole e taleggiowww.cavolettodibruxelles.it

La Bibbia gourmetLa versione onlinedella galassiagastronomica che comprende magazine, guide gourmand,

canale satellitare e Città del GustoMolto attivo anche il forum, dove si discetta di ristoranti e tendenzewww.gamberorosso.it

Il pranzo è servito...Su Internet

Ricette blog

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LICIA GRANELLO

Internet. Come dire che oltre due milioni di persone, più o menol’intera Roma, usano abitualmente la rete come un oracolo gour-mand.

Il miracolo Internet applicato ai fornelli è un’onda straripanteche tutto travolge. Prendiamo la panna cotta, le melanzane alcioccolato, il peposo, piatti che nessuna ricetta pubblicata è ingrado di esaurire nella loro ancestrale magia. I segreti della pre-parazione sono custoditi nella memoria e nelle mani di cuochiprofessionisti senza pietà: la panna cotta più setosa del pianeta,le melanzane in versione dessert, carnali e irresistibili, il peposopiù aromatico e morbido della storia senza chance di ripetibilitàfuori dal ristorante con l’imprimatur della ricetta primordiale.

Fino a ieri. Perché oggi la panna cotta trova spazio in oltre unmilione di pagine web e l’unico problema è trovare il tempo perconfrontare varianti e dettagli, fino a formulare la giusta alchimiaper quella impalpabile, goduriosa sequenza di cucchiaini lattei,dalla consistenza impudica. Alla faccia dello chef egoista e tacca-gno. E in scia, melanzane al cioccolato, peposo e altre migliaia diricette che tolgono il sonno ai loro esecutori amatoriali trovanosul web la loro definizione senza ombre.

In più, basta sollevare un minimo dubbio (la bacca di vanigliafin dall’inizio? panna da cucina o da montare?) per scatenareun’ordalia di risposte, suggerimenti, affermazioni perentorie etestimonianze amorevoli. A guardarla con occhi virtuali, la cuci-na in rete appare come una sterminata sequenza di piani di lavo-ro & cottura, dove milioni di femmine e maschi, di qualsivogliaetà, ceto, preferenze, nazionalità, si passano idealmente il barat-tolo della farina e il burro chiarificato, controllano la temperatu-ra del forno o sondano la cottura al cuore dell’arrosto, sformanoil soufflé più delicato e la tarte tatin più golosa.

Per chi coltiva l’assennata arte del dubbio culinario, d’obbligofrequentare i preziosi siti d’indagine alimentare, da Trashfood aMalacibus currunt, o scoprire i segreti della scienza in cucina gra-zie alle web-rivelazioni di ricercatori gourmand come DarioBressanini e Davide Cassi. Se poi siete attratti dalle sfide virtuali,non perdetevi l’appuntamento del 18 novembre, quando la vin-citrice del “Macchianera blog Awards 2009” affronterà ai fornel-li il titolare di acetaiasangiacomo. com in diretta stream su www.piacerevero. it, a corredo della presentazione della ricerca Niel-sen per Voiello, “Il Web dei Golosi”. Tenete il pc vicino ai fornelli.

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 8NOVEMBRE 2009

Passaparola con malintesocosì il piatto è da sempre virtuale

STEFANO BARTEZZAGHI

Da una madre a una figlia, o meglio da una suo-cera a una nuora: deve essere stato questo ilpassaggio della prima ricetta che sia mai stata

scritta, con scetticismo pari all’apprensione con cuifu ricevuta. Si inaugurava così quel genere letterarioche tuttora tramanda una sapienza acquisita sulcampo, almeno nelle sue parti tramandabili. Le altresi lasciano all’intuito altrui: sale, q. b. (= quanto basta);e arràngiati.

Il passaggio “in verticale” delle ricette ha la forza,dolce e ferrea, della tradizione: «In famiglia si è sem-pre fatto così» (per chi ci crede). Quello “in orizzonta-le”, per esempio tra amici, ha invece un carattere piùludico, specie quando, in una compagnia di com-mensali, isola i pochi che cucinano, e li unisce in quel-la confidenza operativa («dài retta a me, mettici mez-zo dado») che ha anche le sue malizie.

Prima di Internet c’era una piramide. Sopra, i corsidi cucina; subito sotto, i libri; sotto ancora, il brulica-re del passaparola, ovvero della variante personale edel vero e proprio errore, perché il passaparola è untelegrafo senza fili. Se ti dicono basilico e capisci ori-gano partirai per nuove, sensazionali (anche in sensoetimologico) avventure. Ma dato che ogni mediumnon accoglie i media precedenti senza modificarli, si-ti di cucina e blog hanno dischiuso al vecchio ricetta-rio l’universo dell’interattività.

Avete dato una ricetta a un amico e quello vi telefo-na a ogni momento: Cosa intendi esattamente per

“scamone”? Solo rosso o anche albume? Secondo teposso usare il porro al posto del cipollotto? Povero lui,ma anche poveri voi. La prossima volta non gli consi-glierete un piatto, ma un ristorante.

È che la logica della ricetta è contraddittoria. Allasua superficie testuale, la ricetta è imperativa: fa’ que-sto, non far quello, e questo prima di quello; accendi,soffriggi, scola, manteca, trita, prova, correggi, guar-nisci, servi. La lingua della culinaria ha un dizionario(la lista degli ingredienti) e una sintassi (la proceduraper combinarli): solo travisando la ricetta si dovrebbepoter sbagliare. Ma, come sanno legioni di smorzato-ri di soufflé e di impazzitori di maionese, mai quantoin cucina sono sonore e gioiose le pernacchie che lapratica infligge alla grammatica. In Italia non c’è ta-glio di carne, tipo di pesce, verdura, teglia che abbia lostesso nome a distanza anche di pochi chilometri.

E poi come spiegare l’esatta consistenza o colora-zione che deve raggiungere un ingrediente? In cucinasolo raramente la realtà empirica assomiglia, se nonpallidamente, a quella prevista e descritta dal testo,con beffarda sicurezza e sostanziale, infida vaghezza.Fuoco troppo alto? Troppo zucchero rispetto alla fa-rina? Chi lo sa. L’aspirante cuoco si trova così alle pre-se con un testo che gli ordina, e perentoriamente,qualcosa che non è comprensibile o non si può rea-lizzare. Da quando c’è Internet, si può sperare di otte-nere consiglio. O, almeno, disperare insieme.

le pagine web con la ricetta del tiramisu

4,3 milioni

le pagine di Cookaroundvisitate ogni anno

170 milioni

i siti web dedicatiall’enogastronomia

30 milioni

le visite quotidiane di un food-blog italiano

3.000

Orecchiette al pesce spadaEleonora Cozzellafirma il portalegastronomico del gruppoEspresso:all’interno, i blog

degli autori delle guide, ricette e video-ricette. Tra le più cliccate,quella delle orecchiette al pesce spadaespresso.repubblica.it/food

Costolette di agnelloIl portaleprofessionale di Elvio Gorelli,dedicato a chef e appassionati, è caratterizzato

da notizie, focus, offerte di lavoroAttenzione alle tecniche base, comenella ricetta delle costolette di agnellowww.chefdicucinamagazine.com

Pasta e fagioliEcco il sitodell’istituzione-ammiraglia natanel 1929, vanta un plateau di ricette che sfiora

quota diciottomila, tutte sperimentatein redazione e spiegate con foto Tra le più cliccate, la pasta e fagioliwww.lacucinaitaliana.it

Insalata di cavolo e algheIspirato al bel librodi Karen Blixen, un mix goloso di viaggi&ricette, che Chiara Bellasioinsaporisce

con le spezie di cui è appassionata La sua insalata di cavolo, senape e alghe è un trionfo di profumi e coloriwww.ilpranzodibabette.com

Stufato di manzo alla birraLa trentina ElenaChesta trasforma la passione per il cibo comecultura, scambio e condivisione

nelle ricette del sito ComidademamaTre ore di cottura per la carbonnade,stufato di manzo alla birrawww.montag.it/comida

IL LIBRO

Mercoledì 11 esce per CastelvecchiEditore Cookaround. La cucina

degli italiani. Marco Colantuono e Luca Pappagallo hanno selezionato800 foto (di cui quattro sono riprodotteal centro delle pagine) e più di centoricette tra le migliaia pubblicate su www.cook around.com, sito di ricette attivo dal 1999, cliccato ogni mese da oltre due milioni di utenti

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Repubblica Nazionale

l’incontroUomini contro Per tutta la sua vita da regista ha teso

trappole al tempo che passa. Il tempoibernato nel marmo della sua Greciae quello del Novecento che ha vissuto

da protagonista. E oggi che l’Europa affonda nella sua mancanza di identità, ripete: “Siamosempre alla storia di Omero, all’Odissea, si decide di partire

e si finisce per tornare. Anche se nonsi sa, alla fine, se si è tornati davvero”

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Credevamoche saremmo rinatia nuova vita,ma tutto quelloche ci aspettavamodi fare e di ottenereè precipitatoNon siamo riuscitia cambiare il mondo

MONTREAL

«Tutto esiste già primadi un film: linee, for-me, ritmi, la musicache ci portiamo den-

tro. Realizzare un’opera d’arte significaritrovare questo tutto preesistente. Nonal cinquanta per cento, altrimenti è unfallimento, ma al cento per cento». Nelsuo quasi mezzo secolo di cinema, TheoAngelopoulos ha ogni volta cercato d’in-ghiottire per intero quel tutto e, film do-po film, di riconsegnarcelo intatto: nonsolo negli intrecci spaziali, ma nella suaanima più intima e inafferrabile, il tem-po. Angelopoulos, per tutta la vita, ha te-so trappole al tempo. Contraendolo insimultaneità visionarie («Il passato è so-lo il presente in altra forma», dice, citan-do Brecht) o, talvolta, cogliendolo di sor-presa, strappando alla sua immutabile,regolata macina d’ore supplementiinattesi, tipo L’eternità e un giorno. Tut-to, nel cinema di Angelopoulos, è tempoe oltre il tempo, come quel giorno in più,aggiunto a un cronologico infinito.

In La recita, il film di quattro ore chenel 1975 l’ha introdotto trionfalmentenel nuovo cinema europeo, quattordi-ci anni di storia nazionale (1939-1952)diventano un viavai tra teatro, politica evita privata, scheggia di memoria col-lettiva da Elettra a Hitler, dalla Resi-stenza all’occupazione angloamerica-na. Memoria che si amplifica nei filmsuccessivi, da Viaggio a Citeraa Un pae-saggio nella nebbia, a Lo sguardo diUlisse, disponendo i tasselli di ieri sem-pre più lontani e di domani incomben-ti in un eterno presente: «In Grecia ilpassato è solido marmo, è presentesempre, sin dalla nascita, sia nella gen-te comune che nei poeti, come Kavafis,

Seferis, che non han fatto che dialogarecon l’antichità. Nel mio nuovo film, Lapolvere del tempo, è come se il temponon esistesse e tutto fosse al presente.Come scrive Eliot, il tempo non è pas-sato né futuro ma presente: il presenteè il futuro al passato».

Proiettato a Montreal al Festival desFilms du Monde, dopo la partecipazio-ne alla Berlinale, secondo episodio del-l’ennesima trilogia sui “sogni infranti”,aperta nel 2004 da La sorgente del fiume,il film è una saga visiva sulla perdita diogni illusione di un mondo migliore,riassunta dalla sequenza glaciale, al-l’alba del Duemila, della neve che cadesilenziosa su una Berlino deserta eun’era consunta. La polvere del tempo,coprodotto dall’Italia, è un nuovo, lun-go viaggio dentro la storia, dilatato alNovecento più sanguinoso e cieco, na-zismo, Stalin, Vietnam, fino alla cadutadel Muro di Berlino.

«Sono un maratoneta del cinema»,scherza il regista greco, accolto dal pub-blico canadese con una standing ova-tion alla prima del film. «A Maratona hola mia casa di campagna, scampata dipoco all’incendio che ha devastato lanostra estate. I miei film sono percorsitenaci, senza traguardi possibili, den-tro il mio secolo, devastato da altri in-cendi, altre tragedie. Il Novecento è lamia storia. Sono nato ad Atene il 27 apri-le 1935 e mi sono trovato faccia a facciacon la prima dittatura in Grecia, quelladel generale Matexas. Trentadue annidopo, golpe e regime Papadopoulos.Poi, la destra di Karamanlis. Ora rieccoPapandreu, che però non ha nulla a chefare con la politica di suo padre. Ognivolta, impossibile rimanere solo spet-tatori: sono avvenimenti di cui abbia-mo subìto ogni minima conseguenza, igreci, la mia famiglia, io. La mia vita s’èiscritta in questa vergogna, come quel-la di mia madre, delle nostre famiglie:ecco la storia, la nostra e quella degli al-tri».

La sua, in particolare? «Ad Atene hoseguito i corsi di diritto, ma senza l’am-bizione di divenire avvocato. È stato so-lo un modo di congelare l’attesa, primadi partire. Mi sono sorbito anche il ser-vizio di leva: due anni. È stata la primavolta che mi sono sentito lontano dallaGrecia, Paese di luce, dove, secondo ipiù allettanti slogan turistici, il solesplende sempre. Da soldato, sono statosballottato in posti senza sole, senzaamici, ricoperti di neve e solitudine». Lafuga? «A venticinque anni. Sono partitocon il biglietto in tasca: e nient’altro. So-no arrivato a Parigi, nel 1960, in pienaNouvelle Vague, utopia di cinema, dicultura, di politica. Ognuno aveva l’im-

pressione che tutto sarebbe cambiato,che saremmo rinati a nuova vita».

E invece? «Quel che oggi gli spettato-ri apprezzano nel mio cinema, cioè l’af-flato poetico, un lirismo estenuato, èsolo un profondo senso di disillusione:tutto quel che ci aspettavamo di fare e diottenere è precipitato, non siamo riu-sciti a cambiare il mondo. Anche La pol-vere del tempo, come i film precedenti,è una dichiarazione di disfatta: se ilpubblico non lo percepisce, è perché,come diceva François Truffaut, il cine-ma è sempre meno di quel che abbiamovoluto dire. In quella Parigi di paradiso,ho trascorso quattro anni, seguendocorsi di letteratura e antropologia allaSorbonne e studiando cinema al-l’Idhec, dove ho conosciuto Jean Rou-ch. Sono tornato in Grecia nel 1964, cri-tico cinematografico d’un quotidianodi sinistra, Allaghi, chiuso tre anni dopodai colonnelli».

Spezzata la stagione di critico, iniziaquella di cineasta, già assaggiata con unpaio di corti e prove d’attore. «Sono pas-sato dietro la cinepresa per fare politicasotto forma di cinema, con ampio ri-

corso, dati i tempi, alla metafora. Sin dalprimo titolo, nel 1970, Ricostruzione diun delitto, girato con una manciata disoldi, in bianco e nero, in acrobaticaclandestinità, ho inserito numerose al-lusioni alla Grecia contemporanea. Pri-ma proiezione, al Forum della Berlina-le, dove l’ho portato senza permesso, lepizze nascoste in una valigia di metallo.In Grecia, dove ho poi partecipato al Fe-stival di Salonicco, sono rientrato senzapiù preoccuparmi di occultare le pizze.La condizione di clandestinità che hasegnato le riprese di vari miei film, l’hotrovata sempre eccitante: avevo l’im-pressione di prender parte, in altro mo-do, alla Resistenza. Sensazione captatada alcune scuole di cinema, come pro-va il giudizio espresso da Andrzey Way-da quando ha visto La recita a Parigi: “Èfondamentale che il film sia stato giratoin clandestinità, costruendosi all’inter-no di sé”».

Clandestino è oggi l’allarme d’unarealtà più cruda, che non riguarda più ilcinema ma la nostra quotidianità, inItalia come in Grecia. «Il mio Paese nonè l’ultimo approdo, ma solo una tappadell’immigrazione che si rovescia sul-l’Europa. Da noi arrivano dalla Turchia,in fuga soprattutto dall’Afghanistan,esodo iniziato quando gli Usa vi hannoportato la guerra. Sono soprattutto igiovani che partono, per non morire nelproprio Paese. Purtroppo, è stato oradistrutto un villaggio di rifugiati a Pa-trasso, punto di partenza, magari su ca-mion di trasporto merci dove i clande-stini spesso soccombono, per l’Italia ealtri paesi del miraggio-Europa. È l’U-nione Europea che dovrebbe interveni-re, affrontando il problema di questiviaggi della morte, stabilendo regoleprecise contro le attuali allergie razzisteagli sbarchi».

Il suo cinema è stato subito sensibilea queste emergenze. «Come ignorarle?Stiamo attraversando un periodo digrandi immigrazioni, come nel Me-dioevo. Fin dal 1991, con Il passo sospe-so della cicogna, ambientato in un vil-laggio straripante di rifugiati, alla fron-tiera di due paesi immaginari, ero ricor-so al paradosso per mostrare l’assurdodelle divisioni artificiali, razziali, reli-giose, politiche, tra gli uomini, facendounire in matrimonio gli sposi, uno al diqua, l’altro al di là del confine. L’ideam’era venuta durante un viaggio a NewYork, quando ho visto nel Bronx due ne-ri che in perfetta sincronia danzavanoai due lati opposti d’una strada. Ciò mo-stra tra l’altro l’imprevedibilità dell’i-spirazione. Occorre avere sempre oc-chi aperti e mente sveglia: solo se si è ri-cettivi si riceve».

Non è anche Angelopoulos, con i suoiviaggi continui, gli espatri, gli andirivie-ni grande schermo tra miti antichi erealtà contemporanea, un uomo divi-so, di frontiera? «Non ho mai lasciatodavvero la Grecia, se non per studi o perlavoro. Viaggio molto, è vero, ma in unamaniera che definirei brutale: due gior-ni in un posto, e via. Attraversare unpaese: l’espressione abituale per defi-nire un viaggio va presa, nel mio caso,alla lettera. La mia identità è dunque in-tegra. Ma da rivedere alla luce di quelche mi hanno fatto capire in Sardegna,quando ho presentato Alessandro ilGrande all’Università di Cagliari: “Nonc’è Grecia, non c’è Italia, non c’è Spagnané Francia, c’è il Mediterraneo. Quelche conta è l’affinità di temperamenti”.Dunque, dovrei definirmi, prima anco-ra che greco, meridionale. Sarà per que-sto che mi sono divenuti subito familia-ri, quasi fratelli, gli attori italiani con cuiho lavorato, Omero Antonutti, Marcel-lo Mastroianni, Gian Maria Volonté, e ilmio sceneggiatore del cuore, ToninoGuerra. E sarà soprattutto per questoche un caffè così, non riesco proprio aberlo!», ride Angelopoulos, fissando ilsuo espresso canadese, derelitto sulfondo d’una tazza gigante.

Il suo cinema non è anche una rispo-sta a questo caffè, ibrido clone? Attentoalle ferite del distacco, della distanza,spaziale e temporale, non è un cinemad’esilio, magari interiore? «Heideggerdice che la nostra identità è la lingua dinostra madre. Ma anche l’aroma del-l’infanzia, i suoni, i visi, i profumi, con-tribuiscono a creare un’identità, chenon è, si voglia o no, quella dichiarata.Siamo sempre alla storia di Omero,all’Odissea: si decide di partire e si fini-sce per tornare. Anche se non si sa, allafine, se si è tornati davvero».

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MARIO SERENELLINI

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Theo Angelopoulos

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8NOVEMBRE 2009

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