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L’ Europa non è in uno dei suoi momenti migliori. Anzi probabilmente il progetto unitario varato nel dopoguerra sta incontrando una serie di difficoltà che richiederebbero uno slancio costruttivo tanto ambizioso quanto complesso da realizzare. Il vertice di metà settembre a Bratislava, pur se informale e senza obblighi sostanziali, ha comunque più segnato le divisioni che delineato possibili strade per affrontare i problemi. Proble- mi che si chiamano disoccupazione, crescita, immigrazione, sicurezza. Problemi che danno luogo a visioni diverse e che sembrano delineare più le rivendicazioni di tutti che la respon- sabilità di ciascuno. E peraltro siamo di fronte ad una globalizzazione del disagio con temi che si rispecchiano dalle due parti dell’Atlantico. Sia la banca centrale europea, sia la Federal Reserve americana, dopo anni di politiche basate sull’espansione monetaria, hanno ammesso pubblicamente che l’aver portato i tassi di interesse a zero, e in molti casi sottozero, non costituisce per nulla una soluzione, ma anzi è un nuovo problema aggravato dal fatto che nessuno conosce la strada per tornare alla normalità. E se in Europa abbiamo avuto il voto inglese e la crescita dei movimenti antieuropeisti in Germania come in Francia, negli Stati Uniti la possibile vittoria di Donald Trump alle elezioni pre- sidenziali comporterà inevitabilmente una progressiva chiusura nelle relazioni internazionali americane. Proprio la scelta inglese resta in primo piano non solo come simbolo della protesta, ma anche come possibile indicazione di una tendenza se non positiva, almeno praticabile. Nelle ultime settimane molti commentatori anti-europeisti hanno sottoline- ato come in fondo la scelta degli inglesi non abbia provocato quei grandi contraccolpi che si temevano sul fronte dell’eco- nomia dopo gli scossoni e le previsioni tempestose che erano state formulate. Anzi a prima vista i segnali sembrano essere positivi: il calo della sterlina ha favorito le esportazioni e il turi- smo, la Borsa di Londra dopo una breve caduta ha riconquistato i mas- simi dell’anno, la fiducia e i consumi hanno fatto segnare indici positivi. Ma forse bisogna osservare che la Gran Bretagna è ancora a tutti gli effetti un membro dell’Unione Europea, che le procedure per l’uscita non sono nemmeno iniziate e che ci vorranno almeno due anni perché la divisione sia definita e almeno altrettanti per valutarne le conseguenze a medio-lungo termine. Anche se la premier Theresa May ha detto a più riprese che “Brexit means Brexit”, cioè che non ci sarà tanto da discutere, la realtà è che il Governo inglese è ancora diviso addirittura sul quando avanzare la domanda ufficiale di uscita e già si sono manifestati profondi contrasti sull’obiettivo da raggiungere con i negoziati. Londra sembra puntare a ridurre il più possibile la li- beralizzazione della circolazione delle persone, ma continuando a poter avere il libero accesso al mercato unico e il “passaporto finanziario”, cioè la parificazione delle società finanziarie che hanno sede in Gran Bretagna con quelle europee. Due obiettivi che sembrano molto complessi da raggiungere insieme. La UE ha infatti sempre difeso la libera circolazione delle perso- ne come elemento essenziale della costruzione comunitaria. L’Europa non è un pranzo a la carte dove ognuno può scegliere i piatti che preferisce e magari pretendere di non pagare il conto. Ma anche gli stessi paesi europei sono divisi tra chi vorrebbe definire al più presto l’uscita e chi, come la Germania, appare disposta ad una trattativa più morbida anche per non compro- mettere i buoni rapporti economici. E intanto le grandi banche e le imprese estere in Gran Bretagna stanno comunque già prendendo le misure per un loro disimpegno. Lasciamo quindi che gli inglesi prendano la loro strada. Pensare che paesi come l’Italia possano seguirli è una truffa e un’illusio- ne. L’Italia può e deve condizionare l’Europa a coniugare ripresa e solidarietà. A lcune settimane fa mi è stato chiesto di entrare a far parte del Comitato per il SI della nostra provincia alla riforma Costituzionale. Geloso della mia “non appartenenza” e libertà di pensiero, ho preso tempo, ho voluto riflettere. Non sono un costituzionalista, né uomo di legge, faccio l’im- prenditore e degli argomenti di cui si tratta ho solo la cono- scenza di un comune cittadino che legge il giornale ed ascolta i notiziari. Ho sempre pensato fossero proposte non “originali”, discusse da molto tempo, portate all’attenzione dei cittadini da molte parti, anche contrapposte, nel corso degli ultimi anni. Diminuire il numero dei parlamentari (senatori), ridurre i costi della politica, modificare l’eterno iter per legiferare richiesto dal- le attuali norme: credo nessun politico degli ultimi 20 anni non abbia, almeno per una volta, gridato che tutto ciò faceva parte delle priorità per modernizzare l’Italia. Il dibattito che è nato attorno a tutto ciò mi ha però colpito più dei contenuti. Come purtroppo normale nel nostro paese, ci si scaglia “contro” quasi sempre non con argomentazioni di contenuto ma con un fine miseramente elettorale: mettere in difficoltà l’avversario politico, a prescindere. Se, nel frattempo, il paese continua con le sue vecchie liturgie, 1 Copia omaggio Anno VIII n. 33 del 24 Settembre 2016 Editoriale ILLUSIONE L’Italia che non può seguire la via inglese di Gianfranco Fabi Opinioni L’OCCASIONE DA NON PERDERE Referendum e speranza di cambiamento di Michele Graglia

L’ · 2016-09-23 · L’ Europa non è in uno dei suoi momenti migliori. Anzi probabilmente il progetto unitario varato nel dopoguerra sta incontrando una serie di difficoltà

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Page 1: L’ · 2016-09-23 · L’ Europa non è in uno dei suoi momenti migliori. Anzi probabilmente il progetto unitario varato nel dopoguerra sta incontrando una serie di difficoltà

L’Europa non è in uno dei suoi momenti migliori. Anzi probabilmente il progetto unitario varato nel dopoguerra

sta incontrando una serie di difficoltà che richiederebbero uno slancio costruttivo tanto ambizioso quanto complesso da realizzare.Il vertice di metà settembre a Bratislava, pur se informale e senza obblighi sostanziali, ha comunque più segnato le divisioni che delineato possibili strade per affrontare i problemi. Proble-mi che si chiamano disoccupazione, crescita, immigrazione, sicurezza. Problemi che danno luogo a visioni diverse e che sembrano delineare più le rivendicazioni di tutti che la respon-sabilità di ciascuno. E peraltro siamo di fronte ad una globalizzazione del disagio con temi che si rispecchiano dalle due parti dell’Atlantico. Sia la banca centrale europea, sia la Federal Reserve americana, dopo anni di politiche basate sull’espansione monetaria, hanno ammesso pubblicamente che l’aver portato i tassi di interesse a zero, e in molti casi sottozero, non costituisce per nulla una soluzione, ma anzi è un nuovo problema aggravato dal fatto che nessuno conosce la strada per tornare alla normalità. E se in Europa abbiamo avuto il voto inglese e la crescita dei movimenti antieuropeisti in Germania come in Francia, negli Stati Uniti la possibile vittoria di Donald Trump alle elezioni pre-sidenziali comporterà inevitabilmente una progressiva chiusura nelle relazioni internazionali americane.Proprio la scelta inglese resta in primo piano non solo come simbolo della protesta, ma anche come possibile indicazione di una tendenza se non positiva, almeno praticabile. Nelle ultime settimane molti commentatori anti-europeisti hanno sottoline-ato come in fondo la scelta degli inglesi non abbia provocato quei grandi contraccolpi che si temevano sul fronte dell’eco-nomia dopo gli scossoni e le previsioni tempestose che erano state formulate. Anzi a prima vista i segnali sembrano essere positivi: il calo della sterlina ha favorito le esportazioni e il turi-

smo, la Borsa di Londra dopo una breve caduta ha riconquistato i mas-simi dell’anno, la fiducia e i consumi hanno fatto segnare indici positivi. Ma forse bisogna osservare che la Gran Bretagna è ancora a tutti gli effetti un membro dell’Unione Europea, che le procedure per l’uscita non sono nemmeno iniziate e che ci vorranno almeno due anni perché la divisione sia definita e almeno altrettanti per valutarne le conseguenze a medio-lungo termine. Anche se la premier Theresa May ha detto a più riprese che “Brexit means Brexit”, cioè che non ci sarà tanto da discutere, la realtà è che il Governo inglese è ancora diviso addirittura sul quando avanzare la domanda ufficiale di uscita e già si sono manifestati profondi contrasti sull’obiettivo da raggiungere con i negoziati. Londra sembra puntare a ridurre il più possibile la li-beralizzazione della circolazione delle persone, ma continuando a poter avere il libero accesso al mercato unico e il “passaporto finanziario”, cioè la parificazione delle società finanziarie che hanno sede in Gran Bretagna con quelle europee. Due obiettivi che sembrano molto complessi da raggiungere insieme. La UE ha infatti sempre difeso la libera circolazione delle perso-ne come elemento essenziale della costruzione comunitaria. L’Europa non è un pranzo a la carte dove ognuno può scegliere i piatti che preferisce e magari pretendere di non pagare il conto. Ma anche gli stessi paesi europei sono divisi tra chi vorrebbe definire al più presto l’uscita e chi, come la Germania, appare disposta ad una trattativa più morbida anche per non compro-mettere i buoni rapporti economici. E intanto le grandi banche e le imprese estere in Gran Bretagna stanno comunque già prendendo le misure per un loro disimpegno. Lasciamo quindi che gli inglesi prendano la loro strada. Pensare che paesi come l’Italia possano seguirli è una truffa e un’illusio-ne. L’Italia può e deve condizionare l’Europa a coniugare ripresa e solidarietà.

Alcune settimane fa mi è stato chiesto di entrare a far parte del Comitato per il SI della nostra provincia alla riforma

Costituzionale.Geloso della mia “non appartenenza” e libertà di pensiero, ho preso tempo, ho voluto riflettere.Non sono un costituzionalista, né uomo di legge, faccio l’im-prenditore e degli argomenti di cui si tratta ho solo la cono-scenza di un comune cittadino che legge il giornale ed ascolta i notiziari.

Ho sempre pensato fossero proposte non “originali”, discusse da molto tempo, portate all’attenzione dei cittadini da molte parti, anche contrapposte, nel corso degli ultimi anni. Diminuire il numero dei parlamentari (senatori), ridurre i costi della politica, modificare l’eterno iter per legiferare richiesto dal-le attuali norme: credo nessun politico degli ultimi 20 anni non abbia, almeno per una volta, gridato che tutto ciò faceva parte delle priorità per modernizzare l’Italia. Il dibattito che è nato attorno a tutto ciò mi ha però colpito più dei contenuti. Come purtroppo normale nel nostro paese, ci si scaglia “contro” quasi sempre non con argomentazioni di contenuto ma con un fine miseramente elettorale: mettere in difficoltà l’avversario politico, a prescindere. Se, nel frattempo, il paese continua con le sue vecchie liturgie,

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Copia omaggioAnno VIII n. 33 del 24 Settembre 2016

Editoriale

ILLUSIONEL’Italia che non può seguire la via inglese di Gianfranco Fabi

Opinioni

L’OCCASIONE DA NON PERDEREReferendum e speranza di cambiamento di Michele Graglia

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amen: ci penseremo poi. È un atteggiamento che domina, anche a livello locale. Le scelte di chi go-verna o amministra sono criticate a priori: “prova di inciuci satanici” in qualche caso, “imbarazzanti” in altri perché coinvolgono perso-

ne fuori dal partito, o “inaccettabili” perché i coinvolti sono di un’altra parrocchia. Del merito e della competenza raramente si discute. Ho come la sensazione che, se esistesse la macchina della veri-tà, scopriremmo che molta parte di chi si dichiara contro queste riforme lo fa non tanto per il contenuto ma per la provenienza della proposta. Abbiamo trascorso più di 20 anni con un’opposizione che poco ha prodotto in contenuti e uomini nuovi, impegnata come era a demonizzare l’avversario Berlusconi. Oggi le parti si sono inver-tite, è il turno di Renzi, ma l’atteggiamento dell’opposizione è identico, anche se con bandiere di colore diverso. Poco importa se, nel frattempo, l’economia non si muove e nul-la, dico nulla di rilevante è stato fatto per far sì che il Sistema

Italia si tolga di dosso un po’ di inefficienze, costi, malcostumi che tanto zavorrano le nostre capacità.Non so se i contenuti tecnici di queste riforme siano i migliori possibili: so che non esiste cambiamento che non sia migliora-bile, che non esiste struttura, anche aziendale, che non tema modifiche allo “status quo” ma soprattutto so che non esiste speranza di miglioramento senza la volontà di cambiare. Sono stufo di un paese dove si ha paura a prendere decisioni scomode, dove il consenso elettorale prevale sempre sull’inte-resse generale, dove le proposte dell’avversario politico sono, ex ante, sempre da combattere, dove quel continuous impro-ving che le aziende devono giornalmente perseguire per essere competitive sui mercati non è minimamente considerato dalle procedure politiche: esiste solo la distruzione di ogni proposta che non sia della propria parte.Le mie sono valutazioni poco tecniche, e me ne scuso con i cultori della materia costituzionale, ma temo che se non ci si ribella a questo modo di fare politica non ci sarà mai riforma costituzionale o semplice procedura allo sportello pubblico che possa veramente andare nella direzione di migliorare il nostro Paese.

Mamma e papà avrebbero potuto, e forse dovuto, chiamar-lo Michele, come il santo arcangelo che si celebra (con i

colleghi Gabriele e Raffaele) nel suo dì natale, il 29 settembre. Invece – probabilmente per qualche aggancio di famiglia – gli preferirono Silvio, il Silvio, proprio lui il Berlusca, che quest’an-no, tra una manciata di giorni, festeggerà il suo ottantesimo compleanno.Ottanta, sedici lustri (e magari lui gli anni li ha proprio contati di cinque in cinque), mica paglia, dicono qui da noi, e anche a Milano. Oddio, certo che l’incedere del tempo qualche (piccola) offesa gliel’ha recata. A proposito, tanti auguri di vero cuore per una ripresa il più possibile rapida e completa, dopo un recentis-simo intervento da quella parte lì, che batte sempre forte. Offe-se al fisico e, soprattutto, allo spirito. Sì perché l’averlo tacciato (e condannato senza remissione, almeno in Italia) di evasione fiscale, lui che con i suoi denari in tutti questi anni l’erario l’ha sempre rimpinguato, gli brucia dentro più di ogni altra “opera-zione” a cuore aperto.A noi, lo diciamo subito, così ci togliamo ogni equivoco d’in-torno, il Silvio è stato sempre simpatico. Lo consideriamo il solo imprenditore italiano a essersi fatto un nome nel gotha dei ricchi, senza avere ereditato niente da chicchessia essen-do partito da zero nella costruzione del suo, o quasi. Almeno così si racconta. Avrà avuto qualche aiutino, ma specialmente nel campo delle televisioni e della pubblicità, e là dove altri con nomi ben più altisonanti avevano miseramente fallito, ha messo in piedi un impero. Vuoi per assenza di leggi – ma da noi è quasi una caratteristica – vuoi per qualche sua genialata che ancora viene sottolineata e mandata a memoria nei testi di economia. Sorriso aperto, barzelletta, blazer blu, stretta di mano vigorosa, e avanti così.Uomo di impresa, esempio probabilmente unico, e grande uomo di sport. Lo diciamo oggi che anche lui dopo tanti anni ha dovuto cedere ai cinesi, e ai loro portafogli, ma crediamo che non vi sia nessuno, tra i tifosi del Milan, nemmeno i più accesi populisti, estremisti, inveterati comunisti ecc. ecc. che non gli riconosca l’incommensurabile grandezza del suo impegno e

del suo “saperci fare”, a cominciare dal giorno in cui con il suo elicottero privato atterrava in quel di Milanello, giusto in terra varesotta, per presentarsi ai giovani rossoneri, appena trasloca-ti in campo Fininvest.Uomo di impresa – le costruzioni (ma quanti altri ce ne sono e ce ne sono stati senza il suo appeal!) – di televisioni, di informa-zione, di sport, di cinema di editoria… E in ogni caso sempre lì a inanellare successi. Anche chi non ha voluto vederci chiaro – per esempio Indro Montanelli che si vide salvare il suo Giornale un po’ in affanno – può dire che non sia stato un uomo di genio, un uomo che sì ha fatto il grano, ma che ha dato anche ad altri l’opportunità di farlo. Con il lavoro.E poi c’è la politica. Quando il Berlusca scese il campo – nel 1994 – ma si stava preparando già da diversi mesi –, anni ne aveva cinquantotto. Non più un ragazzino e nemmeno un bar-bogio. In quattro e quattr’otto mise insieme il diavolo e l’acqua santa. Sdoganò il Msi, facendone un fido alleato soprattutto nel Sud, e al Nord andò con la Lega, nonostante le amicizie/inimicizie, i tradimenti, i ritorni, e nonostante che il suo partito o movimento – Forza Italia – di fatto si affiancasse a Abbasso Italia… Dal ’94, quando poi sconfisse la gloriosa macchina da guerra di Achille Occhetto (ex comunista, ma lui non ci credeva né volle che ci credessero altri), al 2014 ha condizionato la politica italiana, così com’era accaduto in tutti gli altri settori in cui s’era cimentato. Non vent’anni l’uno dietro l’altro, perché non governò per così lungo tempo ininterrottamente – Romano Prodi per esempio gli diede del filo da torcere – ma una decina sì. E per gli altri dieci tutti gli s’erano dovuti adeguare.È difficile dire che il Berlusca, che s’è sempre proclamato libe-rale, ma non certamente un liberale alla Cavour o alla Giolitti, sia stato capace di dare fiato alla compagine dei moderati italiani, più che del centrodestra. La nostra rispo-sta sommessa purtroppo è no. Molti magistrati e la guardia di finanza ce l’han-no messa tutta,

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Attualità

L’ERA DI SILVIOBerlusconi compie ottant’anni di Maniglio Botti

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F a sinceramente sorridere l’agitarsi mediatico di alcuni espo-nenti delle forze di centrodestra (Lega in testa) che hanno

ininterrottamente governato Varese per ventitre anni e che ora gridano al degrado urbano di alcune zone della città quasi fosse nato e cresciuto all’improvviso, come un bucaneve a feb-braio, nel brevissimo lasso di tempo passato tra la loro sconfitta elettorale e l’oggi amministrativo della nuova Giunta Galimberti. Siccome la memoria su questi temi è tendenzialmente labile, occorre ribadire che l’attuale degrado altro non è se non il frut-to maturo di anni di sottovalutazioni, menefreghismo e accidio-sa tolleranza da parte degli inquilini che hanno abitato Palazzo Estense fino a ieri.Che le stradine interne al comparto edilizio compreso tra via Morosini e via Como siano allo sfascio è cosa nota da anni prova ne sia che il consigliere comunale Paolo Cipolat del PD, amministratore di alcuni stabili della zona, ha messo in risalto come già dal 2012 lettere ed esposti, a firma sua, siano appro-dati negli uffici comunali con la puntuale descrizione dell’a-vanzare endemico del disordine, degli imbrattamenti, di atti vandalici,di improvvide frequentazioni. Invano. Salvo gridare “al lupo al lupo” quando l’asticella delle trasgressioni si alza fino alla tentata violenza sessuale ai danni di una ragazza la notte di sabato 10 settembre. Basta poi allontanarsi di pochi metri per imbattersi in altre situazioni di abbandono davanti al supermercato dove sbuca il sottopassaggio di collegamento con le Nord, dismesso e chiuso, un simbolo di resa alla microcriminalità che certo non risparmia neppure la vicina via Milano, lo sciagurato complesso edilizio che fa angolo con via Adamoli e i piazzali adiacenti la Stazione sorella delle Ferrovie dello Stato.Eppure il 3 gennaio 2013, dunque quasi ben quattro anni fa,

con un’improvvida di-chiarazione ai media locali l’allora sindaco Attilio Fontana invita-va in buona sostanza i varesini a rasse-gnarsi a una città non esattamente sporca ma trasandata e sdrucita sì. Contro la maleducazione dila-gante, madre di storture e vandalismi di ogni genere, resistere non serve o quanto meno serve a poco, sembrava sottintendere il primo cittadino. Il suo pessimismo civico lo aveva del resto anticipato qualche settimana prima consolandosi nel confrontare Varese con Bologna e Parigi ovvero con due realtà fuori scala e per questa ragione di sicuro alle prese con manifestazioni di vandalismo più rilevanti rispetto a quelle della città giardino. Nell’invocarne il ritorno con manifesti affissi di fronte alle Nord, in via Milano e in via Como c’è da parte dei suoi fans un filo di involontaria ironia: sul terreno delle manutenzioni (risanamenti di aree a rischio, strade, marciapiedi, illuminazione, lotta ai graffiti abu-sivi) quanti sono stati a Palazzo fino al 19 giugno scorso bene farebbero a recitare una sorta di mea culpa anziché goffamen-te rigirare la frittata da loro stessi cucinata.Detto questo è chiaro che Varese deve in fretta cambiare passo mettendo in campo sia interventi di pronto soccorso sia terapie di più lungo periodo come antidoti a una sorta di rassegnazione strisciante al brutto. Qualcosa si sta vedendo e annunciando come l’entrata in funzione a novembre di una squadra antide-grado; ronde più frequenti delle forze di polizia tra loro meglio coordinate; l’apertura di un dialogo con i proprietari frontisti di edifici delle zone più a rischio per eliminare androni e rientran-ze propizie al degrado e all’abbandono. Certo non firmiamo al-cuna cambiale in bianco alla nuova giunta ma diamogli almeno il tempo necessario per cercare di onorarla.

e alla fine qualche risultato è stato raggiunto (perché solo lui, o quasi esclusivamente lui, tra i grandi imprenditori? E gli altri? tutti puri e candidi?). Anche potentati stranieri – così si dice ma non si va lontano dal vero – si sono dati da fare per metterlo nei guai. Non parliamo di suoi presunti “amici” politici e nuovi e vecchi alleati. Infine il bilancio è quello che è. Inconcludente e mai chiuso. Senza fare del moralismo da quattro soldi ci pare che la statu-ra, quella politica, più che quella fisica, del Berlusca abbia sem-pre necessitato di qualche centimetro di tacco in aggiunta, e la capigliatura – l’abito fa il monaco, eh sì – di qualche revisione e artificiale infoltimento. Non sbaglia, in senso lato, il beffardo che afferma che il Berlusca, in quanto alla politica, era seduto a un tavolo di poker con un tris d’assi nelle mani e si fece battere da una doppia coppia di donne. Nessun moralismo, si diceva, perché diversi eminenti della politica di questa qualità pokeristi-ca sono sempre stati capaci di fare un merito, più che un vizio

perdente. E in questo campo noi italiani siamo sempre stati indulgenti. Ma non con lui.Ancora… Oggi tra gli ex-forzitalioti, azzurri o che dir si voglia, le acque sono confuse. Parisi val bene una messa, ma i miscre-denti sono tanti. E magari non ha nemmeno tutti i torti chi affer-ma che il suo “figlioccio” vero, che di anni ne ha esattamente la metà, se ne stia seduto a Palazzo Chigi. Non si sa per quanto, ma intanto c’è. Un po’ la storia che si ripete, come nell’arte: il Giotto che incanta e supera il Cimabue.La resa è sempre dura e malinconica… Che mai ne è di quell’o-spedale per bambini, per esempio, che per suo merito sarebbe dovuto sorgere in Italia o in Africa? Un pochettino di nausea, solo un pochettino, non gli è ancora venuto da questo teatrino? Le candeline su cui soffiare oggi sono ottanta. Ancora auguri… Sebbene, fuor di retorica e in controtendenza, speriamo che non riesca a spegnerle tutte d’un botto. Resti viva almeno una luce di speranza per chi una volta gli ha voluto credere.

Nel settembre 1936, durante le celebrazioni del Congresso Eucaristico Diocesano che si stava svolgendo a Varese, l’Ar-

civescovo Schuster salì a Santa Maria del Monte. Come riportò

la Cronaca Prealpina, dopo aver pregato nel Santuario, benedì il neonato Museo Baroffio, sorto “in un luogo ove natura, religio-ne e arte si fondono armoniosamente, e in misura altissima nella luce e nell’amore di Dio”. Iniziava così la storia di una istituzione museale singolare, che è ancor oggi una delle realtà più vivaci e interessanti del panora-ma culturale varesino. Nasceva sotto il segno di due personalità molto diverse, da un lato il pittore e scultore Lodovico Pogliaghi, che aveva dedicato larga parte della sua attività professionale

Attualità

LA FRITTATA DA NON RIGIRARE Degrado, colpe di ieri e situazione di oggi di Cesare Chiericati

Cultura

IL BARONE GENEROSO Baroffio, 80 anni di un museo di Paola Viotto

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al Sacro Monte, e dall’altra il barone Giuseppe Baroffio dall’A-glio, che al Sacro Monte in vita non abitò mai, anche se volle esservi sepolto. Diplomatico e amministratore pubblico, per quarant’anni era stato sindaco di Lissago, di cui fu generoso benefattore, in particolare impegnandosi per la costruzione dell’asilo, che ancor oggi porta il nome suo e della moglie Anna Maria. Nel corso degli anni aveva incrementato la collezione di famiglia, fatta soprattutto di dipinti italiani e fiamminghi, ma an-che di porcellane, mobili e argenti. Alla sua morte nel 1929 ne lasciò erede il Santuario, insieme con una cospicua somma che servisse alla realizzazione di un museo, al suo mantenimento e

all’acquisto di nuove opere.La struttura architettonica e le scelte espositive furono opera del Pogliaghi, che sfruttò gli spazi immediatamente a valle del Santuario, a ridosso delle dimore quattrocentesche dei canoni-ci. Nel nuovo edificio trovarono posto anche le opere del prece-dente Museo del Santuario, che lo steso Pogliaghi aveva voluto nel 1905. Vi erano raccolti soprattutto oggetti e frammenti di sculture provenienti “dalle più antiche costruzioni della chiesa”, tra cui la bellissima Madonna con il Bambino oggi attribuita a Domenico e Lanfranco da Ligurno che costituisce il logo del Museo. Il nuovo Museo nacque così con una doppia fisionomia: luogo di ricovero e salvaguardia degli arredi antichi del Santua-rio, dagli stalli del coro ai paliotti ricamati, ma anche del mitico coccodrillo impagliato, e nel contempo scrigno di una collezione privata che porta i segni delle preferenze del suo creatore e del gusto eclettico della sua epoca. A questo nucleo iniziale si è aggiunta negli anni una collezione di arte moderna a tema mariano voluta da Monsignor Macchi. Oggi, dopo un lungo restauro e la riapertura nel 2002, il Museo Baroffio svolge una vivace attività didattica rivolgendo una particolare attenzione alle famiglie e ai bambini. Tra le ultime iniziative un libro nato in collaborazione con la Parrocchia di S. Maria del Monte che riprende lo spirito delle parole pronunciate ottant’anni fa dal Cardinal Schuster. Intitolato “Arte per la fede”, illustra un’opera del museo per ogni settimana liturgica, con le riflessioni dell’ar-ciprete monsignor Erminio Villa e le note iconografiche della conservatrice Laura Marazzi.

AttualitàPEDONALITÀ DA DIFENDEREUn problema da affrontare con urgenzadi Ovidio Cazzola

Cara VareseLA ROBUR, GLI OSSOLADue storie degne di memoriadi Pier Fausto Vedani

Pensare il futuroSTOP AL NUCLEAREGrande conquista del pacifismodi Mario Agostinelli

Apologie paradossaliSÌ O NO, UN CASO SERIOLa parola importante dei giuristidi Costante Portatadino

PoliticaVOCAZIONE E IMPEGNORicordo di Moro, a 100 anni dalla nascitadi Edoardo Zin

Zic&ZacUSA: TUTTI PROTAGONISTIL’avvicinamento al votodi Marco Zacchera

ParoleLE VACANZE E I COMPITIRisposta a un papà contrario di Margherita Giromini

CulturaBENEMERITO DEI MUSEI CIVICIMario Bertolone, il direttore che li rilanciòdi Alberto Pedroli

Stili di vitaCULTI PROFANIUn excursus nelle “teologie negative”di Valerio Crugnola

In confidenzaLUI CHE SI ABBASSAGesù e l’umanità peccatricedi don Erminio Villa

CulturaFRANCESCO IL POVERELLOIl santo che ci ha fatto conoscere il mondodi Felice Magnani

AttualitàLO SPAZIO DELL’ALTROConvegno sul dialogo Cristianesimo-Islamdi Sergio Redaelli

CulturaIL CONSENSO NELLE SOCIETÀ LIBERALI John Rawls: no a individualismi e utilitarismi di Livio Ghiringhelli

SocietàGIOCHI D’ESTATEMostri, mostriciattoli e mostri sacri di Gioia Gentile

NoterelleGENITORI E GENITORILa famiglia, i suoi aspetti, le prospettive di Emilio Corbetta

AmbienteRITROVIAMO IL LIBERTYDopo il neo-acquisto del Grand Hoteldi Arturo Bortoluzzi

SportCERCATORI D’OROParalimpiadi, sacrifici e gioie tricolori a Rio di Ettore Pagani

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Radio Missione Francescana

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