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1 La Cappella Palatina nel Palazzo dei Normanni Di Croce Magda, Galipò Silvia, Rizzo Giorgia, Sansone Rosa Maria

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La Cappella

Palatina nel

Palazzo dei Normanni

Di Croce Magda, Galipò Silvia, Rizzo Giorgia, Sansone Rosa Maria

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Introduzione

Fra gli elementi di cui fu composta la ricca cultura artistica voluta e creata dai dominatori normanni della Sicilia

nel secolo decimosecondo – cultura che riunì in giustapposizione e sintesi del tutto uniche apporti greci, arabi

e occidentali – il contributo greco per eccellenza è costituito dagli scintillanti mosaici pittorici creati per

adornare chiese e palazzi. Alcuni studiosi hanno creduto di vedere in quest’arte un’eredità del passato

bizantino nella stessa Sicilia, nonostante i secoli di dominazione araba che erano intercorsi. Oggi invece per lo

più si è concordi nel pensare che l’impiego della decorazione musiva da parte dei sovrani normanni non sia

che uno dei tanti esempi della loro tendenza ad imitare costumi ed espressioni esteriori della corte imperiale di

Costantinopoli; inclinazione derivante dall’ambizione di rivaleggiare con quella corte potente e prestigiosa, e di

soppiantarla possibilmente perfino nei suoi stessi domini. Pertanto l’arte del mosaico nella Sicilia normanna fu

diretta importazione dall’Oriente greco. Poiché molte delle decorazioni musive siciliane sono giunte fino a noi,

mentre è scomparsa la maggior parte di quelle eseguite entro i confini dell’Impero d’Oriente durante la

medesima epoca, la Sicilia offre in pratica un tesoro inestimabile per lo studio e il godimento di uno dei

principali aspetti dell’arte bizantina in una fase importante della sua evoluzione.

Si deve a Ruggero II (incoronato nel 1130 e morto nel 1154), il più grande fra i sovrani normanni e il

fondatore della monarchia, l’introduzione in Sicilia del mosaico parietale figurato. Ancor oggi ci è dato di

ammirare le decorazioni create durante il suo regno nella splendida Cappella del Palazzo Reale di Palermo,

nella cattedrale di Cefalù e nella piccola chiesa della Martorana. Sono queste le grandi opere pioniere, quelle

che stabilirono la consuetudine di impiegare la più bizantina delle tecniche pittoriche nella Sicilia dei

normanni, dove tuttavia esse adornano edifici che in gran parte non sono bizantini nelle loro forme

architettoniche e sono quasi completamente estranei al mondo greco nelle funzioni liturgiche a cui servivano.

Monreale, invece, è prodotto di un’epoca successiva.

La cattedrale grandiosa, situate nelle colline che sovrastano Palermo, e il monastero benedettino per il quale la

chiesa fu costruita, furono fondazioni personali e predilette di Re Guglielmo II. Il regno intermedio, quello di

Guglielmo I, aveva veduto il completamento della decorazione della Cappella regale palermitana e alcune

aggiunte ai mosaici del presbiterio di Cefalù. Monreale fu nondimeno un’impresa interamente nuova,

concepita su una scala che non aveva precedenti. I suoi mosaici, che coprono tutto l’interno della vasta chiesa,

sorpassano di gran lunga quelli delle chiese più antiche nella misura, se non nella qualità in senso assoluto. È

chiaro che fu ambizione del giovane Re superare i suoi predecessori. Al medesimo tempo appare ovvio a

prima vista quanto la decorazione di Monreale debba alle decorazioni dei regni che precedettero.

Particolarmente stretti e molteplici sono i legami con la Cappella Palatina.

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Storia del XII secolo in Sicilia e a Palermo

La Sicilia è collocata geograficamente al centro del Mediterraneo e la sua appartenenza alla civiltà occidentale

ne segnano la storia dalla colonizzazione greca alle attuali relazioni internazionali.

Questa isola ha ospitato molte popolazioni che nel corso dei secoli l'hanno cambiata, basti pensare alla

colonizzazione greca e romana, alla popolazione fenicia, agli arabi e ai normanni e poi molte altre fini ad

arrivare ad oggi.

Con la conquista degli arabi si aggiunse un'altra etnia a quelle già presenti in Sicilia, la parte più arabizzata fu

quella occidentale e la Val di Mazara dove arrivarono molti soldati e coloni arabi, la loro conquista durò per

circa due secoli sotto il dominio degli Aghlabidi, dei Fatimidi e dei Kalbiti del nord Africa, che contribuirono

alla diffusione della cultura araba sull'isola e l'eccezionale sviluppo economico a differenza del carattere

decadente del Medioevo nell'Europa continentale. L'agricoltura e l'economia siciliana trassero enormi benefici

grazie a dei nuovi sistemi di irrigazione, a nuove colture e a nuovi impianti. Furono gli arabi a introdurre l'uso

della carta per scrivere (il primo documento su carta d'Europa è conservato a Palermo ), diedero forte impulso

alle scienze religiose e costruirono numerose moschee, questa cultura influenzerà molto quella successiva,

ovvero quella normanna, in quanto lo stile moresco ( cioè dei "mori" ) è evidente in molti monumenti non

costruiti da loro e all'influenza che gli Arabi esercitarono alle corti di sovrani normanni quali Ruggero II e

Guglielmo. La città di Palermo divenne la capitale della cultura araba in Sicilia ed era una città paragonabile a

Cordoba, il Cairo, Gerusalemme e molte altre ancora.

Intorno al 1040 la Sicilia araba entrò in crisi e i Bizantini ne approfittarono per tentare la riconquista dell'isola,

infatti tra il 1037 e il 1045 occuparono la Sicilia orientale. La crisi era dovuta a dei conflitti trai gruppi

musulmani, ma soprattutto alla riscossa che il mondo cristiano cominciava ad organizzare contro l'islamismo, la

svolta si ebbenel 1060 quando Al Thumna, capo militare di Siracusa, chiese aiuto ai Normanni di Puglia e

Calabria contro le mire di Bisanzio.

I Normanni si presentarono in Sicilia come i paladini della Chiesa di Roma contro quella di Bisanzio e contro

gli infedeli arabi, poiché nella battaglia di Civitate del 1053 Roberto il Guiscardo sconfisse le truppe pontificie e

prese prigioniero lo stesso papa Leone IX che vide nei Normanni i difensori della Chiesa romana e nel

Concilio di Melfi del 1059 Roberto pronunciò il giuramento di fedeltà alla Chiesa e du incaricato di

riconquistare la Sicilia , che si considera il primo passo verso la riconquista al cattolicesimo dei territori

bizantini e di quelli islamici.

Roberto e il fratello Ruggero conquistarono in trent'anni la Sicilia nonostante disponevano di un esercito

inferiore a quello musulmano, il successo fu dovuto non solo alle grandi capacità strategiche di Roberto e

Ruggero e alle nuove tecniche di combattimento, ma anche al fatto che questa guerra fu vista come una guerra

santa contro gli infedeli.

Nel 1071 la flotta normanna lasciò Reggio alla volta di Catania; visti i buoni rapporti di Ruggero con i

musulmani di Catania, non fu per lui difficile entrare nel porto con la scusa di un rifornimento per poi dirigersi

a Malta, ma una volta dentro il porto scatenò l’attacco e conquistò la città. Una guarnigione al comando di

Ruggero rimase a difendere il territorio conquistato, mentre Roberto marciò alla volta di Palermo. In

contemporanea i Pisani, dopo l’ennesimo rifiuto di Ruggero di attaccare Palermo insieme, fecero tutto da soli e

con una flotta riuscirono a spezzare le catene del porto e saccheggiare la città; con il ricco bottino costruirono il

duomo di Pisa.

Intanto Roberto, dopo aver attraversato Nebrodi e Madonie, arrivò ai confini di Palermo e in un luogo nei

pressi di Pizzo Antenna, chiamato da allora Piano Battaglia, si scontrò coi musulmani.

Roberto li sconfisse facilmente, si accampò vicino alla riva del fiume Oreto e cominciò l’assedio alla città

bloccando i rifornimenti. Durante l’assedio, Roberto venne attaccato dai musulmani d’Africa venuti in

soccorso che riuscirono, anche se con gravi perdite, a entrare nella città prolungando la resistenza. Ma il

destino della città era ormai segnato: Roberto, visto che non riusciva ad aver ragione dei musulmani, chiese

aiuto al fratello che era rimasto a Catania.

Così, nel 1072, i due fratelli attaccarono la città dal mare e dalla terra e il primo gennaio 1072 Roberto espugnò

la Kalsa, passando per la porta BaB Al Futuh. I due fratelli si divisero i territori siciliani conquistati e Palermo

toccò a Roberto.

Egli dimostrò di essere un ottimo politico; riuscì ad amalgamare diversi gruppi etnici tenendo conto della loro

lingua, usanze e tradizioni. Gli arabi rimasero nel quartiere della Kalsa e si occuparono di commercio; i latini

occuparono le zone dell’Albergheria e i Greci si stanziarono attorno alla Cattedrale.

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Roberto divenne duca di Sicilia e Ruggero fu nominato conte vassallo del fratello, ma in realtà ebbe il dominio

personale dell'isola e divenne il fondatore di uno Stato destinato a diventare molto potente, mentre ai

musulmani venne lasciata la libertà di culto oltre ai loro beni, ma vennero privati dei diritti politici e delle armi.

Alla morte di Roberto gli succedette il figlio Ruggero Borsa, suo secondogenito, ma il primogenito Boemondo,

ignorato per l’eredità, si ribellò e dichiarò guerra al fratello ed intervenne lo zio Ruggero in difesa del nipote

omonimo e riportò alla calma Boemondo; per il servizio offerto, Ruggero ricevette i diritti su Palermo.

Il 22 giugno del 1101 morì Ruggero, lasciando l’eredità ai due figli Simone e Ruggero II entrambi troppo

giovane per governare un regno avuti da Adelaide di Monferrato, che resse le sorti dell'isola fino al 1112,

quando il figlio, Ruggero II prese il potere diventando in breve tempo uno dei più grandi principi europei.

Nel 1127 la morte del cugino Guglielmo di Puglia gli offrì l'opportunità di unificare il Mezzogiorno e nel 1130

diventò re per volontà del papa.

Il regno di Ruggero si fondava da un lato sull'organizzazione feudale che gli garantiva aiuto armato e dall'altro

su una forte burocrazia gestita direttamente alla corte di Palermo, l'amministrazione centrale del potere fu la

novità più rilevante del suo regno, furono create una cancelleria, dove si registravano i documenti più

importati, e la Dohana, un ufficio incaricato di gestire e di controllare i confini dei feudi assegnati dal re.

Raggiunto un periodo di stabilità, Ruggero II si occupò dell’organizzazione interna dello stato, creando un

regno ordinato, solido, dove tutti i nobili, seppur godendo di molte libertà, erano sottoposti a vincoli di

vassallaggio.

Egli affidò i vari rami della pubblica amministrazione a dei funzionari di fiducia: La “Magna Curia”, che aveva

funzione di governo e consiglio del Re; il “Gran Connestabile”, che era il capo delle forze armate; il “Gran

Giustiziere”, che aveva la carica di giudice penale e capo della polizia. Riempì le casse del regno grazie a un

efficiente controllo fiscale che gli permise di avere una corte invidiata da tutti i sovrani occidentali, ricca di

palazzi di fattura orientale, fiorentissima nell’arte e nel commercio; il suo palazzo era adorno di preziosi

arredamenti e disponeva di un enorme esercito di cui facevano parte anche soldati saraceni. La corte di

Palermo divenne un centro importante di cultura e di raffinata civiltà che univa e amalgamava culture e

tradizioni diverse.

Dopo 24 anni di regno e dopo una campagna d’espansione che aveva assoggettato tutta l’Italia meridionale e

buona parte dei paesi del mediterraneo, nel 1154 Ruggero II morì e venne sepolto nel Duomo di Palermo,

dove ancora oggi riposa. Due mesi dopo la morte del più grande sovrano del Medioevo, nasceva la sua ultima

figlia: Costanza.

Alla morte di Ruggero II prese il suo posto il figlio Guglielmo I detto il Malo, ovvero il Cattivo, mancava

dell'investitura papale che legittimasse il suo potere nel regno di Sicilia. Guglielmo I era la brutta copia del

padre: non aveva la sua audacia, autorevolezza e maestria per governare, era cresciuto nella corte più brillante

d’Europa e questo aveva portato a viziare il suo carattere, così quando assunse il potere era portato più a

godersi le ricchezze che occuparsi dello stato.

Al momento della sua successione i baroni si ribellarono e la repressione di Guglielmo fu durissima: centinaia

di ribelli furono condannati a morte e Bari fu rasa al suolo. Al contrario fu molto più diplomatico con il papa

Adriano IV che sconfitto in Puglia, riconobbe la sua sovranità sulla Sicilia su tutta l'Italia meridionale fino a

Napoli in cambio della fedeltà della Chiesa romana. Dato che il Re era troppo occupato con le donzelle di

corte, affidò l’amministrazione del regno al primo ministro Maione di Bari; quest’uomo, di umili origini, favorì

la borghesia artigianale e mercantile a discapito della nobiltà e dei grandi proprietari terrieri.

I nobili, infastiditi anche dalla perdita dei territori africani, passarono al contrattacco e la situazione degenerò;

Matteo Bonello, conte di Caccamo, attirò con l’inganno Maione e lo uccise; l’11 novembre 1160, un gruppo di

nobili entrò nel palazzo reale e imprigionò il Re, in tutta la città si scatenò la caccia agli amici di Maione.

Dopo tre giorni, Guglielmo venne liberato dal popolo, riprese il suo posto e scatenò la sua vendetta: nominò

Gran Cancelliere Matteo D’Ajello, catturò con un agguato Bonello e lo fece rinchiudere al castello, dove poco

tempo dopo morì dopo essere stato accecato e sottoposto a tremende torture.

Il 7 maggio 1166, a soli 46 anni, Guglielmo I morì, ma essendo troppo giovane il figlio per regnare prese il suo

posto la madre, Margherita di Navarra. Gli anni che seguirono furono caratterizzati dalle lotte tra la forte

burocrazia di corte, l'aristocrazia locale e l'aristocrazia spagnola e francese legate alla vedova per il controllo del

potere.

Nel 1172 il figlio Guglielmo II salì al trono e grazie al nuovo Re il regno ritornò a splendere: Guglielmo tentò

di rimediare agli errori del padre e in buona parte vi riuscì. Nominò Vicecancelliere Matteo d’Ajello, ebbe un

grande rispetto di tutti i gruppi etnici presenti in città, riaffidò ai musulmani le vecchie cariche sottratte e diede

la giusta importanza ai feudatari ai quali affidò moltissime cariche a corte e nell’esercito; fece edificare un

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nuovo duomo a Monreale, dove fece trasportare la tomba del padre e si permise il lusso di costruire la Cuba,

un castello di caccia.

Il regno era tornato al suo vecchio splendore, ma Guglielmo, sposatosi nel frattempo con Giovanna, figlia di

Enrico II d’Inghilterra, non aveva ancora eredi e non ne avrebbe mai avuti; questo pesò molto sul futuro dei

Normanni in Sicilia.

Decise a di dare in sposa Costanza, figlia di Ruggero II, a Enrico, figlio di Federico Barbarossa. Nel 1189, a

soli 36 anni, Guglielmo II morì, un'antica tradizione lo ricorda come Guglielmo il Buono. La sua morte

provocò una fortissima crisi nel regno in quanto non lasciò eredi diretti, ma aveva nominato erede la zia

Costanza, ma questa era sposa di Enrico VI di Germania, figlio dell’imperatore Barbarossa: questo provocò un

malcontento nel popolo e nei nobili che non volevano una dominazione germanica e allora fecero nominare re

Tancredi, Conte di Lecce, nel 1189. Intanto Enrico IV, incoronato imperatore a Roma nel 1191, si preparava

a conquistare il regno con l'aiuto di Genova e Pisa e attaccò Tancredi, ma venne fermato nel Garigliano, dove

cadde prigioniera anche Costanza la regina, ma invece di approfittare della situazione Tancredi la lasciò libera

e si occupò di riorganizzare l’esercito per difendere i territori, nel 1193 Tancredi riuscì a fermare le forze

imperiali, ma l'anno successivo morì. L’erede al trono Guglielmo III era ancora un bambino e il potere venne

affidato alla vedova Sibilla, non adatta per carattere a governare; di questo era ben consapevole Enrico VI, che

si riporto all’attacco e questa volta riuscì ad arrivare fino a Palermo.

La regina e il fanciullo Guglielmo si rifugiarono nel castello di Caltabellotta, ritenuto inattaccabile, allora Enrico

per evitare l’assedio, propose alla regina la libertà per lei e i suoi figli in cambio del trono; Sibilla accettò, ma

Enrico non mantenne le promesse e li fece processare e condannare, rinchiudendo Guglielmo III in una

fortezza dove morì nel 1198; con la sua morte ebbe fine il periodo normanno in Sicilia.

La conquista normanna riportò l'isola nell'ambito della cultura occidentale e della religione cristiana, riuscendo

a fondere con intelligenza le culture diverse che si trovarono in Sicilia in quel tempo, le quali avevano radici a

Bisanzio, nel mondo islamico, a Gerusalemme e a Roma. Inoltre a Palermo ci furono molti illustri studiosi,

ecclesiastici ed uomini politici inglesi che costituivano, insieme ai greci, agli arabi e ai francesi, parte integrante

di una corte raffinata e cosmopolita.

Il giorno di Natale del 1194 Enrico IV si incoronò re di Sicilia e impose il nuovo ordine con ferocia inaudita: il

tesoro normanno fu portato al Nord. Il giorno successivo all'incoronazione nacque il figlio di Enrico e

Costanza: Federico.

Storia della Cappella Palatina

“La Cappella Palatina, più bella del mondo, il più prezioso gioiello religioso sognato da mente

umana ed eseguito da mano di artista, è chiusa nell’antica fortezza costruita dai Normanni. All’entrarvi si

rimane incantati come davanti a una cosa sorprendente di cui si è intuito il fascino prima ancora di

averla compresa. La bellezza colorata e calma, penetrante ed irresistibile di questa piccola chiesa che è,

senza dubbio il più bel capolavoro che si possa immaginare, ti lascia immobile davanti alle pareti coperte

da grandiosi mosaici su fondo d’oro che illuminano tutto il monumento con una luce tenue e

richiamano il pensiero ai paesaggi biblici e divini dove si vedono, in alto, in un cielo fiammeggiante, tutti

quelli che furono uniti alla vita dell’uomo-Dio. Due file di colonne, differenti per colore, conducono alla

cupola dove ti guarda un Cristo colossale, circondato da angeli ad ali spiegate…” (Guy de Maupassant), il

monumento siciliano ritenuto un capolavoro dell’arte medievale, massima testimonianza di convivenza

tra culture di Oriente e Occidente.

Attraverso una gradinata si sale al piano d’acceso dello scalone, costruito nel 1735 sul lato

occidentale del cortile Maqueda a completamento delle opere interne. Ampio e scenografico, lo scalone

ha impianto quadrato con comode rampe in marmo rosso. Nel primo pianerottolo si conserva la

carrozza d’oro appartenuta a un casato di principi palermitani. Attraverso l’andito si accede al magnifico

cortile Maqueda, fatto edificare nel 1600 con tre ordini di portici di ampio respiro e classica cadenza. Si

sale al primo livello; nel muro di destra attraverso un’apertura si scorge un grazioso cortiletto triangolare

da dove si sviluppano vani a ventaglio sul ciglio del costone meridionale, dette “prigione politiche”. Sul

lato orientale del loggiato è un’altra scala che scende al piano terra dove è posta una statua ottocentesca

di Federico II, già a Villa Giulia. Nell’angolo sud-orientale è l’ingresso a eleganti ambienti con buoni

arredi del XVIII e XIX secolo, utilizzati come uffici e studi.

Dal lato settentrionale una stretta loggia, ove sono mosaici moderni immette alla CAPPELLA

PALATINA, intitolata a San Pietro, vero gioiello dell’arte normanna.

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Costruita tra il 1130 e il 1332 ai tempi del regno di Ruggero, e decorata negli anni immediatamente

successivi, la Cappella è la sintesi, perfettamente riuscita dell’aspirazione dei re normanni a ripristinare il

mondo culturale della religione cristiana, attingendo nel contempo al collaudato mondo musulmano per

decorazioni sfarzose degne del potere reale.

In Sicilia quattro famose chiese conservano, più o meno intatta, la decorazione musiva del periodo

normanno. Tre di esse sono fondazioni regali: la Cappella Palatina dei sovrani normanni, edificata a

Palermo da Ruggero II nel 1130; il Duomo di Cefalù, ugualmente fondato da Ruggero II; il Duomo di

Monreale, fondato dal nipote di Ruggero, Guglielmo II, nel 1170. La quarta è una piccola chiesa

dedicata alla Vergine, fondata dall’ammiraglio di Ruggero, Giorgio d’Antiochia.

La Cappella fu fondata, come abbiamo affermato sopra, da Ruggero II: la sua costruzione

probabilmente iniziò subito che egli si era fatto incoronare nel 1130.

Il primo documento scritto relativo alla Cappella è del 1132, un diploma rilasciato dall’arcivescovo

di Palermo, Pietro, cadendo dalle istanze di Ruggero II eleva a parrocchia la cappella del Palazzo Reale,

dedicata a S. Pietro Apostolo: “cappellam vestram in honore beati Petri, apostolarum Principis, intra

Castellum superius panomitanum fundatam, …parochiali dignitate…munire decernimus” [

Evidentemente questo Documento non può riferirsi all'attuale Cappella; è improbabile che nel 1132

fosse stata già costruita, consacrata ed elevata a Parrocchia, ma ci si deve riferire alla Chiesa inferiore,

impropriamente detta Cripta, di S. Maria di Gerusalemme, poi detta di S. Maria delle Grazie].

Della pergamena del 1140 contenente l'istituzione della Regia Cappella di S. Pietro fatta dal Re

Ruggero, esistono due esemplari, uno membranaceo e la copia sincrona su carta tinta in violetto e scritta

con lettere d'oro. Un' altro documento del genere è custodito nella stessa Cappella, di cui C. M. Braquet

afferma non contenere lino, né canapa, né cotone.

Segue in ordine di tempo il privilegio Ruggero II dell’anno 1140, conservato in doppio esemplare,

col quale il munifico Re dota la Cappella e gli ecclesiastici proposti al suo servizio di congrue prebende.

Sono due parole “…sotto il titolo del beato Pietro, Principe degli Apostoli, dentro il nostro regale

palazzo… abbiamo voluto edificare una chiesa con somma devozione”.

La Cappella Palatina fu consacrata esattamente il 28 aprile del 1140, “die dedicationis ecclesiae”,

anno decimo del regno, e dedicata ai santi Pietro e Paolo, si dice “palatina” una chiesa o una cappella

riservata ad un regnante e alla sua famiglia, infatti il termine latino “palatinus” deriva da palatium,

"palazzo imperiale", nel medioevo l'aggettivo prese il significato di “appartenente al palazzo imperiale”.

Inoltre, che il 28 aprile fosse ricordato come anniversario della dedicazione, lo si desume anche da

una nota marginale, apposta al martyrologium di epoca ruggeriana.

La dedica di Ruggero interessa l’ecclesiologia medievale: tra i discepoli del Signore Pietro è detto

“il primo in dignità” (prokritos), e il “corifeo”, (koryphaios); è ancora “l’arcipastore” (poimenarches): lo

stesso titolo che il Nuovo Testamento riserva a Cristo.

Inoltre Ruggero si qualifica come Rex e Skeptrokrator (Scettropossente): questo suppone una

teologia della regalità. Un anno prima, in una lapide tutt’ora esposta in parete vicina alla Cappella, nella

redazione greca il re si era qualificato come kratoios Despotes rhogerios rex, ek theou Skeptrokrator: “il

potente signore Re Ruggero, Scettropossente per grazia di Dio”. È fin troppo evidente il desiderio, che

non fosse riduzione: dopo Cristo, che è l’unico Pantokrator ( “tuttopossente”, come è detto al vertice

della cupola inoltre), accanto al basileus di Costantinopoli, che è Autokrator (“autopossente”,

Imperatore), Ruggero Scettropossente, ma Scettropossente per grazia di Dio (ek Theou Skeptrokrator),

inoltre, lascia intendere il noto Filagato da Cerami nella sua famosa omelia dove era presente anche lo

stesso Ruggero, che i sudditi inclusi, quelli di cultura bizantina, ai quali non potevano sfuggire le finezze

della lingua greca, erano perfettamente d’accordo col loro sovrano. In questa omelia conclude

“…preghiamo incessantemente, o diletti, …che sia conservato il potere (kratos) del nostro pio basileus…

a lui conservi lo scettro (ta skeptra) nella pace e nella quiete Colui che gli ha dato il potere, Cristo: il

quale col Padre e con lo Spirito Santo… Amen”.

Mentre la citata pergamena dell’Arcivescovo Pietro ci parla di “Cappellam… in honore beati

Petri…”, il privilegio di Ruggero anch’esso di “Ecclesiam…titulo beati Petri”, la dedica in greco ci assicura

che la Cappella Palatina fu dedicata “al primo dei discepoli del Signore, all’Arcipastore e Corifeo

Pietro”; alla luce di questo si è creata una disputa ai tempi che si alimenta ancora tra i dotti del nostro

tempo: Pietro e Paolo, o solo Pietro, il titolare della Cappella? Intanto però non si può negare il fatto

che nella navata di destra furono decorati i fatti della vita di Paolo, e quella di sinistra chiaramente con i

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fatti della vita di Pietro; però col tempo fu sempre più negata la concomitanza dei due apostoli, tanto che

la Cappella Palatina di Palermo finì col chiamarsi la Cappella di San Pietro nel Palazzo Reale.

Quando i due fratelli Normanni, Roberto il Guiscardo e Ruggero, nel 1072 conquistarono Palermo

togliendola ai Musulmani, vi era nella città una comunità di Cristiani, guidata dal vescovo Nicodemo,

greco di nazione e “timido di carattere”. A questo gli fu restituita la vecchia cattedrale, convertita già in

moschea, e la lingua greca fu l’unica lingua che venne utilizzata nella liturgia e nella teologia.

E dunque, quando il secondo Ruggero (a distanza di settanta anni) al culmine della sua carriera

decise la fondazione di una chiesa di Palazzo, degna della sua gloria e del suo Dio, dovette fare i conti

con quella realtà culturale, linguistica, sociale, liturgica etc. molto complessa. La sua figura era

interamente circondata da sudditi di lingua araba, sudditi bizantini di lingua greca e sudditi latini di

lingua franco-normanna, un tempo, ora il volgare siciliano.

Ai tempi il clero latino stava crescendo e inoltre nuovo arrivato, quello bizantino, invece, era in

continua diminuzione, mentre il rito greco nel XV secolo cesserà di esistere completamente a Palermo,

sebbene il popolo continuerà a pensare la sua fede alla base di quella greca.

Possiamo dunque dedurre che la Cappella nacque così tra esigenze disparate e con finalità diverse,

anche se complementari: il decoro della dinastia regnante e lo splendore di un culto, che doveva essere

tributato a Dio da ministri greci e latini con le loro necessità liturgiche.

Chi entra per la prima volta nella Cappella la osserva estasiato dallo splendore dei suoi mosaici,

dall’armonia che regge tra profano e religioso, artisticamente parlando, con le immagini dottrinale e

sacre del magnifico complesso musivo, vero miracolo d’armonia tra culture molte diverse, impianto

centrale bizantino, schema basilicale latino, soffitto e oltre islamico.

Ugo Falcando afferma che: “A coloro che entrano nel palazzo da quella parte che guarda si

presenta per prima la Regia Cappella col pavimento rivestito di un magnifico lavoro, con le pareti

decorate in basso con lastre di marmo prezioso e in alto invece con tessere musive, parte dorate e parte

di vari colori, che contengono dipinta la storia del vecchio e del nuovo testamento. Adornano poi

l'altissimo tetto di legno la particolare eleganza dell'intaglio, la meravigliosa varietà della pittura e lo

splendore dell'oro che manda raggi dappertutto”.

L’accostamento di una pianta greca e una pianta latina non diede, chiaramente, una soluzione

compiuta, dal momento che la cupola non è messa al suo posto come invece alla Martorana. A

Monreale si avrà la fusione delle due piante: ma sarà necessariamente sacrificata la cupola, e, dunque,

prenderà un altro orientamento tutta la decorazione musiva del monumento, stemperata naturalmente

in un tessuto alquanto differente.

Dimodoché con la sua incompiutezza la Palatina è la dimostrazione dei lunghi travagli degli artisti

che lavorarono a Palermo nel XII secolo, i quali tentarono, ecco, di conciliare il verticalismo orientale

con l’orizzontalismo occidentale. Raggiunto comunque in buona parte lo scopo di dare una sede unica

per la liturgia dei greci e dei latini, anche se in realtà è chiaramente più adatta ai greci che ai latini.

Quando poi la cattedrale di Monreale verrà fatta edificare, avverrà la fusione e di fatto sarà un

monumento di culto solo per i latini.

La committenza regale

Per capire la particolarità e l’esemplarità dell’arte che rappresentò la produzione artistica legata ai

Re normanni in Sicilia dobbiamo fare qualche riflessione sulla committenza regale in generale.

Il sovrano, il re o l’imperatore, vogliono creare un’opera mai vista, unica e incomparabile, dunque

non si accontentano mai della semplice produzione artistica, ma desiderano superare i loro predecessori

in magnificenza.

Vi sono tre ben noti monumenti che dalla tarda antichità fino alla fine del Medioevo sono prova di

questo atteggiamento.

I palazzi dei due tetrarchi Diocleziano e Galerio sono così innovativi che sono rimasti senza

precedenti e senza seguito. Questi imperatori amavano fregiarsi della retorica dell’unicità, dell’alterità,

importavano materiali da costruzione da paesi lontani, ingaggiavano artisti da ogni dove. Come

sappiamo, le prime parole dell’iscrizione del 1143 della cupola della Cappella Palatina corrispondono

ad uno specifico modello retorico che era già stato utilizzato da Giustiniano nell’iscrizione dedicatoria

della chiesa dei Santi Sergio e Bacco a Costantinopoli, in modo che il ruolo di Ruggero II viene

paragonato a quello di Giustiniano.

Un nesso troppo frequentemente trascurato tra l’ambito storico del committente e il concetto

artistico è l’intenzione, la pretesa che l’opera d’arte o di architettura veicola, o la retorica che tradisce.

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Per quanto riguarda l’ambizione un caso eclatante è l’iscrizione dell’architetto del Duomo di Pisa,

Busketus, che dice: “Non habet exemplum niveo de marmore templum” (la chiesa costruita di marmo

bianco neve è senza esempio).

Questa retorica dell’ambizione e della rappresentazione venne espressa anche dall’iscrizione greca

nella cupola della Cappella Palatina, però in un altro modo: “Fra gli imperatori dei tempi antichi, alcuni

hanno eretto diversi santuari per i santi/ ma io, Ruggero, re potente con lo scettro ho eretto un tempio a

Pietro, il primo fra i discepoli scelto dal Signore, il pastore capo e la guida in cui Cristo ha stabilito la

Chiesa che lui stesso ha mantenuto per mezzo del miracoloso spargimento del suo sangue […] nella sesta

indizione, esattamente dopo cinquanta e un anno, contando che insieme a questi ne siano passati seimila

e seicento”.

Nel Palazzo Reale, costruito attorno ad una precedente fortezza araba, esisteva già una chiesa, che

Ruggero non reputò però adeguata alle sue aspirazioni. Le date di inizio e fine dei lavori per la

costruzione della nuova chiesa del palazzo, cioè la Cappella Palatina, sono ignote. È certa la data della

sua consacrazione ai santi Pietro e Paolo: il 28 aprile 1143, come riportato dall’iscrizione sul tamburo

della cupola. La chiesa precedente sopravvive al di sotto della Cappella e il confronto tra la sua

architettura semplice e il nuovo edificio dà l’idea della radicale differenza tra l’arte del nuovo regno

normanno e quella precedente.

Inventori e restauri

I primi restauri a noi noti avvennero sotto il governo aragonese nel XIV secolo: sono registrati in

due iscrizioni, anch’esse eseguite in mosaico, collocate sotto le finestre nella terminazione occidentale

della navata laterale nord. La prima iscrizione, che è in cattivo stato di conservazione, fornisce la data

1344 o 1345, e la regina Elisabetta, moglie di Pietro II, è nominata quale macenate responsabile

dell’opera. Nella seconda iscrizione appaiono i nomi di re Luigi, figlio di Elisabetta e Pietro, e di

Orlando de Brunello, cantore della Cappella dal 1344 al 1355. Anche se oggi non possiamo identificare

con certezza nessuno dei restauri in questione, il fatto che le iscrizioni siano state poste sull’estremità

occidentale della navata laterale nord suggerisce che il lavoro fosse concentrato generalmente in quella

zona: l’oggetto principale può essere stato il grande mosaico al di sopra della tribuna del trono sulla

parete ovest della navata centrale, che immediatamente adiacente. Ma molto di quanto fu fatto nel XIV

secolo probabilmente è stato sostituito da interventi successivi. Una prolunga e sistematica campagna di

restauri intrapresa nel XV secolo da Re Giovanni, infatti, ebbe inizio nella navata laterale nord.

Possiamo seguire con una certa precisione l’andamento di questi lavori, di nuovo, grazie a iscrizioni in

mosaico che li ricordano. Gli interventi cominciarono vicino alla terminazione orientale di questa navata

e precedettero verso ovest per poi proseguire vicino nella navata laterale sud in senso inverso, da ovest

verso est. Un iscrizione del 1460 sotto la finestra a destra della scena che raffigura l’incontro di Pietro e

Paolo riporta la data 1460 e presenta lo stemma e il nome di Re Giovanni. Lo stemma aragonese,

sostenuto da due angeli ma non accompagnato da iscrizione, appare di nuovo nello spazio al di sotto

della successiva finestra a ovest. Restauri intrapresi nel 1462 sono registrati in una fascia musiva, che

mostra ancora una volta lo stemma reale, al di sotto della finestra successiva. Veniva poi un’iscrizione,

non più esistente, del 1463 sotto la finestra nella parete occidentale della navata laterale sud. Il

contenuto di questa iscrizione, che includeva il nome di Re Giovanni, è incorporato nell’iscrizione che

ne prese il posto e che registra un successivo restauro dei mosaici in questa zona, cominciato quasi tre

secoli dopo nel 1753. L’ultima di questa serie di iscrizioni fu posta sotto la finestra più a est della navata

laterale sud, vicino alla scena iniziale delle storie di Paolo. Di questa rimangono solo poche lettere; nel

1840 Buscemi era però ancora in grado di leggere il nome di Re Giovanni e la data 1473. Senza dubbio

la campagna di Re Giovanni riguardò anche i mosaici della navata centrale: lo stemma aragonese fu

aggiunto al grande riquadro sulla parete occidentale, enfaticamente ripetuto tre volte; con la coppia di

aquile omessa in un solo caso. La data 1478, che appare nella cornice superiore del riquadro in una

iscrizione dipinta, chiaramente si riferisce al restauro dei dipinti del soffitto ligneo, ma può essere presa

come indicazione che i lavori su questi dipinti seguirono immediatamente il restauro dei mosaici e che

entrambi gli interventi erano parte di un’unica impresa volta a ridare lustro alla Cappella. La campagna

ha lasciato il suo segno anche nelle scene dell’Antico Testamento sulle pareti della navata centrale. Deve

essere stato durante questo intervento che molte scene del primo registro, in alto, persero i loro bordi

superiori e che alcune iscrizioni adiacenti a questi bordi furono in parte rifatte. Fu intrapreso anche un

importante restauro su una delle scene del registro inferiore. Drastici furono i metodi usati dai

restauratori di Re Giovanni: la tradizione medievale della tecnica musiva era andata perduta e i

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restauratori, considerando ovviamente l’arte del proprio tempo superiore, non si curarono di

conformarsi allo stile a alla tecnica dell’opera del XII secolo e, con uno spirito di aggressivo

“modernismo”, introdussero motivi patentemente anacronistici. Abbiamo un documento che si riferisce

a questi lavori: il 24 gennaio 1472 fu fatto un pagamento al maestro Domenico Cangemi, momorarius,

per opere di restauro sui mosaici della Cappella Palatina. Il maestro in questione fu identificato da

Gioacchino di Marzo con Domenico Gagini, identificazione che è stata generalmente accettata. Non vi è

certezza se egli sia stato associato all’intervento di Re Giovanni fin dall’inizio. Come prova del suo

coinvolgimento nei restauri dei mosaici della navata laterale nord, eseguiti sin dal 1460, è stato portato

un particolare nella scena di Pietro che resuscita Tabita: un edificio a cupola, chiaramente aggiunto sullo

sfondo della scena in quel periodo; si è pensato rappresentasse la Cattedrale di Firenze e che fosse stato

introdotto come omaggio al Brunelleschi, del quale il Gagini, come si può desumere per altre ragioni,

era allievo. Per i restauri effettuati nei mosaici della Cappella fra la fine del XV secolo e l’inizio del

XVIII non abbiamo documenti scritti. L’unico lavoro musivo che si sa esser stato con certezza eseguito

in questo periodo, ebbe luogo nel portico che fiancheggia il lato sud della Cappella: qui nel 1506 una

decorazione, comprendente santi (“Divi Novi Testamenti”9 come pure animali, fu commissionata, per

gli spazi della parete lasciati privi di ornamenti nel XVI e XVII. Ma questo fu un periodo in cui il livello

di comprensione e di interesse per le opere medievali era molto basso. L’introduzione di combinazioni

di lettere senza senso per colmare le lacune nelle iscrizioni con i nomi dei santi sugli intradossi degli

archi della navata centrale può essere attribuita proprio a questo periodo.

Per XVIII secolo furono intraprese nuove iniziative. La breve attività di Leopoldo del Pozzo,

l’artista fatto venire da Roma per fare restaurare i mosaici, non lasciò tracce identificabili nella Cappella,

a parte un’iscrizione con la data 1719 nella cornice della tribuna del trono. È possibile che del Pozzo

fosse coinvolto solo nella figurazione ornamentale. Ampi lavori sui mosaici figurati iniziarono con

l’arrivo di Mattia Moretti nel 1753. In quello stesso anno una nova iscrizione fu posta sotto la finestra

nella parete occidentale della navata laterale sud: citando l’iscrizione di Re Giovanni, del 1463, che

chiaramente sostituiva, e implicando l’inizio (“ab anno…”) di un programma che doveva protrarsi per un

certo periodo di tempo, l’iscrizione, che riporta i nomi di Re Carlo III e di suo figlio Ferdinando,

suggerisce rispetto per l’opera fatta dai suoi predecessori aragonesi dei regnanti Borboni e un intendo di

uguagliarla con un analogo impegno. I restauri effettuati da Moretti e, dopo 1779, dal suo successore

Cardini, furono infatti sistematici e ampi. Nella metà occidentale della Cappella, a parte le figure

immediatamente adiacenti all’iscrizione del 1753 che chiaramente furono il primo obiettivo del Moretti,

l’eredità più cospicua della campagna è il gruppo delle tre scene dell’antico testamento create ex novo

sulla parete nord della navata centrale. Nel suo rapporto del gennaio 1783 il Cardini elenca tra i restauri

allora completati “tutti gli archi dalla parte delle ali” e “li due archi vicino al Soglio di S.E con sue pareti

della nave di mezzo”. Se ne deduce che, per quanto riguarda i mosaici della navata centrale, soltanto

quelli della coppia di archi più a ovest erano stati allora restaurati e che tutto il resto doveva essere

ancora trattato. Ammettendo che le tre scene create completamente ex novo per riempire il vuoto vicino

alla parte terminale della parete nord della navata fossero considerate normale lavoro di restauro, si può

prendere il gennaio 1783 come terminus post quem per la loro realizzazione. La campagna Moretti-

Cardini coinvolse anche dei medaglioni con i busti di santi sulle pareti sulle pareti della navata centrale e

sugli intradossi degli archi che separano questa dalle navate laterali.

I mosaici della parte occidentale della Cappella furono di nuovo oggetto di attenzione per un

restauro quando nel 1838 re Ferdinando II ordinò un altro generale intervento di cosmesi della

Cappella. Un ampio restauro della scena della Conversione di Saulo nella navata laterale sud fu

intrapreso nel 1840 da giovane Rosaio Riolo che lavorava contemporaneamente dell’ala nord del

transetto. Uno degli obiettivi della campagna di re Ferdinando era l’ornamentazione musiva degli

intradossi delle finestre della navata centrale che fino ad allora presentavano soltanto una decorazione

dipinta. Documenti nell’archivio di quella che oggi è diventata la Soprintendenza ai Beni Ambientali e

Architettonici per la Sicilia Occidentale mostrano che quest’opera era in corso nel sesto decennio del

XIX secolo, ma fu completata solamente cent’anni dopo. I documenti mostrano anche che questo

intervento si estese alle zone limitrofe dei mosaici narrativi adiacenti alle finestre.

Nel 1857 fu rilevato un danno strutturale nella parte centrale del colonnato settentrionale della

navata centrale. Fu applicato allora per la prima volta il metodo del distacco di sezioni di mosaico e della

loro ricollocazione in situ dopo che erano state eseguite le riparazioni necessarie sulla muratura. Le zone

toccate da questo intervento, che fu intrapreso negli anni dopo il 1860 ne che implicava il restauro dei

relativi mosaici, erano quelle al di sopra della terza e quarta colonna. Misure analoghe si dovettero poi

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adottare per l’arco occidentale e per quello settentrionale del quadrato centrale del presbiterio e per

l’imposta (“somarotta”) che li sopporta. In questo intervento devono essere stati implicati anche i

mosaici all’intradosso dell’arco più a est del colonnato nord della navata centrale.

Dai documenti nell’archivio della Soprintendenza risulta che il restauro sistematico intrapreso dal

Patricolo tra il 1884 e il 1896 sui mosaici del presbiterio, si estese alla parte occidentale della Cappella

solo per un breve periodo all’inizio del 1888, quando l’oggetto principale dei restauratori era la scena di

Pietro che guarisce lo storpio, collocata nella terminazione occidentale della navata laterale nord. È

probabile, comunque, che anche altre zone della decorazione della parte occidentale della Cappella

fossero incluse in questo intervento e, in particolare, alcuni medaglioni sugli intradossi dei colonnati che

fiancheggiano la navata centrale.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale le teste dei due angeli sull’arco trionfale, che erano

state distaccate negli anni dopo il 1930 insieme a tutti i mosaici che coprivano quell’arco, dovettero

essere sostituite da copie, dato che gli originali, messi in un deposito durante la guerra erano scomparsi.

Nel 1971 furono eseguiti restauri su alcuni mosaici nella navata centrale e nella navata laterale sud. Nel

1986/87 è stato necessario, ancora una volta, intraprendere dei restauri sui mosaici della navata laterale

nord, fin dal XIV secolo uno dei principali punti dolenti.

Vi è, inoltre, un documento grafico relativo a due scene della navata laterale nord, eseguito agli inizi

del XIV secolo e, quindi, precedente alla prima di tutte le campagne di restauro: questo documento ci

mostra come le scene in questione sono giunte fino a noi sostanzialmente intatte.

Con l’avvento della dinastia Hohenstaufen, nel corso del XIII secolo il palazzo dei normanni perde

gradualmente il suo carattere di reggia per diventare sede amministrativa e militare, fino a che nella

seconda metà del XVI secolo, con la dominazione spagnola, non torna ad avere funzione di residenza e

rappresentanza.

Ovviamente, l’aspetto del palazzo muta nel corso dei secoli e sopravvivono oggi solo poche parti di

epoca normanna, tra cui la cosiddetta “sala di Ruggero”, decorata da preziosi mosaici, la torre pisana è la

torre gioaria.

La Cappella Palatina rimase per lo più alterata dalla forma a eccezione della chiusura di alcune

finestre, mentre si sono registrati nel corso dei secoli interventi nella decorazione pittorica dei soffitti e

nei mosaici. L’iscrizione latina che si trova alla base del muqarnas, per esempio, ricorda i restauri voluti

da Ferdinando II d’Aragona e ha probabilmente preso il posto di un’originaria iscrizione araba.

Allo stesso periodo risalgano i rifacimenti di pannelli di muqarnas danneggiati da infiltrazione

d’acqua dal tetto con cui si introducono nel programma figurativo del soffitto immagini strettamente

cristiane. Nel XIX secolo i mosaici hanno invece subito restauri e, in alcuni casi, veri e propri

rifacimenti. Gli interventi di restauro più recenti sono quelli che si sono svolti tra il 948 e il 1953 e tra il

2005 e il 2008.

Appannata dai danni del tempo e dalle scosse sismiche che colpirono la città nel 2002, è stata

restituita alla comunità il 7 luglio 2008, grazie ad un accurato intervento di restauro, svoltosi dal 2004 al

2008, sponsorizzato dalla Fondazione e dal Gruppo Würth.

“Restituire la Cappella Palatina ai siciliani, all’Italia ed al mondo intero”. È questo il proclama

dell’impegno di Reinhold Würth quando il 16 maggio 2003 è stato sottoscritto il finanziamento del

Gruppo Würth a sostegno dei lavori di restauro della Cappella Palatina, danneggiata dalle scosse

telluriche che colpirono la città di Palermo nel settembre del 2002. Così dopo circa 800 giorni di lavoro,

il progetto di restauro vergato dalla Soprintendenza ai Beni culturali di Palermo ha trovato il suo

completamento, restituendo alla città ed al mondo intero il capolavoro dell’arte bizantina, consentendo

nuovamente la fruizione degli splendidi tesori artistici della Cappella Palatina inseriti nel complesso

monumentale di Palazzo dei Normanni a Palermo.

Il 7 luglio, con inizio alle 10,30 nella Sala Gialla di Palazzo dei Normanni, Antonello Antinoro,

Assessore Regionale ai Beni Culturali ed Ambientali e Reinhold Würth , Presidente delle Fondazioni

Würth, che ha firmato nel 2003 il protocollo d’intesa con la Regione Siciliana, presenteranno i lavori di

restauro della Cappella Palatina, realizzati dalla Soprintendenza ai Beni Culturali di Palermo e finanziati

dal gruppo tedesco. All’incontro erano presenti il Presidente della Regione Siciliana Raffaele Lombardo,

il Presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana, Francesco Cascio, e l’arcivescovo di Palermo Paolo

Romeo.

Tesoro, Cappella Palatina, Tyrikòn della Confraternita di Lepanto

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La Cappella Palatina è famosa nel mondo per gli splendidi mosaici e per il soffitto ligneo

(muqarnas). Ma la Cappella custodisce al proprio interno un altro “tesoro”. Si tratta di un ricco

patrimonio di paramenti sacri, realizzati con materiali preziosi, come sete pregiate e con ricami in oro e

argento. Questi sfarzosi ornamenti rievocano la solennità che caratterizzava i sacri riti nei secoli passati.

È stata aperta al pubblico nel 2011 e nel 2012, nei locali delle “segrete” di Palazzo dei Normanni, la

mostra dei paramenti sacri della Cappella Palatina. Hanno collaborato alla realizzazione della mostra la

Fondazione Federico II, il F.E.C., la Soprintendenza ai BB.CC.AA. di Palermo e la Parrocchia

Palatina.

I paramenti rappresentano una preziosa testimonianza degli usi e costumi della Sicilia tra il XVII e

XX secolo. Proprio in quel periodo fu commissionata la maggior parte dei paramenti sopravvissuti al

terribile incendio del 1963.

Osservando i magnifici paramenti, si possono individuare le diverse tipologie tessili e ornamentali

della temperie culturale siciliana e italiana del periodo in cui furono realizzati. Tra essi, infatti, si

riconoscono tutti i disegni tipici dei vari passaggi di stile che caratterizzano i secoli in questione: dai

tessuti con i disegni “a pizzo”, a quelli “bizzarre”, quelli “effetto Revel”, alle composizioni lussureggianti

della metà del XVIII secolo; poi ancora quelli “a meandro” ed infine i revival storici, tipici delle stoffe

ottocentesche. Di rilevante interesse storico-artistico all’interno di questa collezione è l’ombrellino

ricamato in oro; esso testimonia il notevole utilizzo dei preziosi filati metallici, usati nelle decorazioni

isolane dalla seconda metà del XVIII secolo. L’elegante originalità degli ornati siciliani, li rese facilmente

riconoscibili rispetto a quelli prodotti in altri ambiti geografici.

Oggi l’ampia collezione della Cappella Palatina permette di scoprire l’intensa attività e

professionalità dei maestri ricamatori presenti in Sicilia nei secoli passati, i quali lavoravano alla

produzione dei manufatti liturgici, proponendo tecniche e motivi di complessa operosità e ricchezza.

Spettacolari e diversi giochi di policromia, ricami, inventiva e genialità contraddistinguono i paramenti

sacri della Cappella Palatina, degni della massima considerazione, essi sono un patrimonio artistico che

vale la pena di vedere e ammirare.

Committenti di questi sfarzosi manufatti tessili non furono soltanto le Istituzioni ecclesiastiche, ma

regnanti ed aristocratici i quali spesso donavano gli abiti dismessi, dai quali venivano poi ricavate le vesti

sacerdotali.

Decorazione musiva

I mosaici della Cappella Palatina

Dio è luce e per rappresentare Dio bisogna utilizzare la cosa più preziosa che esista, ecco

perché nella cappella palatina vengono utilizzate piccole foglie d'oro da 24 Karati, incollate

con il bianco d'uovo, che, quando il sole le illumina, crea tanti piccoli giochi di luce; infatti

è stato utilizzato il mosaico e non la pittura per due motivi: uno religioso, ed è appunto che

Dio è luce, e uno filosofico. Il mito di Dioniso ci narra che questo dio viene ucciso e

smembrato così le Muse, figlie della Memoria, cercano tutti i suoi pezzi per ricomporli,

questo a scopo di ricordare il dio.

I colori utilizzati di più sono il rosso e l'oro, che rappresentano il divino, e il blu che

rappresenta l'umano, come la madonna vestita di blu ma ricoperta di rosso.

La cappella palatina è un primo esempio di molte culture messe insieme: è normanna,

araba, romanica e bizantina. Vengono utilizzate le immagini, poiché la popolazione è

analfabeta e tutti devono conoscere il Vangelo, e queste vengono accompagnate da piccoli

passi del Vangelo, scritti in latino, greco e arabo, come il libro tenuto da Gesù nell'abside

che contiene una scritta, "Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle

tenebre, ma avrà la luce della vita", in greco e in latino. Le immagine sono statiche, ferme

non danno sensazione di movimento poiché sono di epoca normanna.

La navata centrale

La narrazione inizia sulla destra della navata centrale con la genesi, ovvero la creazione del

cielo, della terra e della luce, del firmamento e la separazione delle acque, la separazione

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della terra dal mare e la creazione delle piante, la creazione del sole, della luna e delle

stelle, la creazione degli uccelli e dei pesci, la creazione degli animali terrestri e di Abramo,

il riposo di Dio, l'albero del bene e del male e infine la creazione di Eva.

Li descriviamo contrassegnati nelle lettere da “a” a “v”.

a) Inizio della creazione e opera del primo giorno (la creazione della luce). Entro un

cerchio a colori concentrici degradanti, il busto di Dio piegato a destra, in atto di

benedire. Fuori del cerchio, alla sua destra si partono dieci brevi raggi di luce bianca,

che si riproducono in colori che tendono più all’azzurro. Da sotto il cerchio scendono

parallele dieci onde di acqua azzurrina e si piegano ai due lati lasciando il numero in

evidenza. In centro a sinistra: In principio Dio creò il cielo e la terra; in alto a destra:

Sia la luce e la luce fu; in basso a destra: Lo spirito di Dio aleggiava sulle acque; il

restauro riscrisse male il latino.

b) Opera del secondo giorno (creazione del firmamento) e prima opera del terzo giorno

(la separazione della terraferma dal mare). In alto: Sia il firmamento in mezzo alle

acque: la didascalia non è completa. Il Creatore (Dio) sta in parte nascosto dietro le

mole dell’universo, che benedice con la destra piegata ad angolo ottuso. L’artista, che

dipende da raffigurazioni a lui coeve, ha superato gli schemi ordinari della cultura a lui

familiare, ed ha inserito in un'unica visione originaria le componenti dell’universo

secondo la cultura biblica ed orientale. Al centro la terraferma, divisa nei tre continenti

allora conosciuti, Europa, Asia ed Africa, è circondata dall’Oceano o “acque inferiori”.

Il tratto divisorio delle terre emerse è dato sinteticamente da tre mari (Mediterraneo,

Ellesponto-Ponto Eusino, Mar Rosso), disposti non più a T, ma ad Y. La fascia

circolare è il “firmamento” al di sopra del quale gravitano “le acque superiori”.

c) Seconda opera del terzo giorno: creazione delle piante. La didascalia, disposta in tre

righi (Si raccolgano le acque, che sono sotto il cielo, in un solo luogo e appaia l’asciutto: 1, 9) si rifece piuttosto alla separazione della terraferma dal mare, descritta

nel quadro precedente. Qui Dio sta di fronte a uno squarcio di natura primitiva, dove

il mare è alimentato da una sorgente a sinistra, che avanza in quattro ruscelli, e da altra

sorgente a destra, che si biforca all’uscita dal monte. La vegetazione abbonda di erbe a

fiori rossi, e di cinque altri campioni di flora locale, tra cui spicca una palma carica di

datteri maturi.

d) Opera del quarto giorno: il sole, la luna, e le stelle. Sempre in piedi, il Creatore

benedice la volta stellata con la destra, mentre con la sinistra stringe il rotolo sigillato di

legislatore della natura. La sfera celeste racchiude il sole e la luna e di uguale

superficie: la si distingue per il bianco dei corni a sinistra. Le 16 stelle, di uguali

dimensioni, sono ad otto punte, dorate come i due astri maggiori. Sulla terra quattro

ciuffi di erbe rossastre, un ciuffo verdastro, due ciuffi a colore misto. Sullo sfondo due

montagne dal cocuzzolo caratteristico. In alto: Ci siano dei luminari nel firmamento (1,

14).

e) Opera del quinto giorno: creazione dei pesci e dei volatili. La materia è disposta

secondo una schema a diagonale. Nelle onde agitate dal mare, in basso, appaiono in

trasparenza sei pesci guizzanti, due dei quali spingono la testa fuori dalle acque. La

terra si articola in forma di monte scosceso, dominato da tre alberi dal tronco

ondulato, che si stagliano sullo sfondo dell’oro. Dei sei uccelli due sono appollaiati

sulla cima degli alberi in proporzioni maggiorate, due poggiano a terra in

atteggiamento di osservazione e due sono in volo leggero. Il Creatore benedice alla

greca. Due righi di commento: Producano le acque rettili viventi, e volatili sopra la

terra (1, 20).

f) Prima opera del sesto giorno: la creazione degli animali terrestri. Con inizio a sinistra,

in alto, in due righi: Produca la terra animali viventi, rettili e bestiame della terra (1,

24). Nella raffigurazione mancano i rettili. Gli animali presenti sono sedici, in otto

coppie disposti in quattro registri, in cammino verso destra, su una strada che è reale

solo nel quarto registro, l’inferiore. Sono a partire dall’alto, da sinistra; due pecore,

due leoni, due tori, , due orsi bruni, due asini, due cani, due cavalli; l’ultima coppia

sono un dromedario a testa alta e un cervo dalle corna alla terza ramificazione. Manca

la linea divisoria tra questo quadro e il seguente, come manca pure la figura del

Commento [C1]:

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creatore. Gli animali sono immaginati non al momento della creazione, ma nell’atto di

essere presentati all’uomo, secondo Gen. 2, 19: “E plasmò YHWH Dio dalla Terra

ogni bestia del campo e ogni volatile del cielo, e li fece venire dall’uomo per vedere

come li avrebbe chiamati…”.

g) Seconda opera del sesto giorno: la creazione dell’uomo. In alto a sinistra, in due righi:

Dio creò l’uomo ad immagine sua. Il testo biblico citato ci riporta a quello che oggi si

suol chiamare “il primo racconto della creazione”; ma la scena descritta dal mosaicista

è tratta dal “secondo racconto” biblico, dove l’origine dell’uomo è narrata nella

maniera antropomorfica ben nota. Qui l’artista ha collocato Dio in posizione eretta,

con le spalle volte al monte raccordo, mentre benedice con la destra e regge il rotolo

con la sinistra: con lo sguardo osserva lontano. L’uomo (Adamo), seduto, allarga le

braccia come per accogliere il dono dall’alto, e orienta la faccia alla faccia di Dio, che

gli comunica il soffio della vita. L’uomo volge le spalle ad un’alta montagna, parallela

alla montagna di Dio, come a significare che l’umanità è chiamata alle altezze del

divino amore del Creatore. È un corpo vivo quello di Adamo che ha superato l’inerzia

della materia, e vive la prima trepida ora di comunione con l’Altro. È un corpo vivo, e

anche nudo, ma non completo nella sua nudità. Come nel corpo dell’uomo e della

donna dei quadri seguenti, manca volutamente la connotazione della piena virilità e

dell’intera femminilità. Per motivi teologici; teologici anche se discutibili. L’artista cioè

si allinea con alcuni maestri antichi del pensiero cristiano, i quali ritennero che l’uomo

prima del peccato fosse sessualmente differenziato, ma in maniera diversa da quella

attuale: restava escluso il dono totale di sé dell’uno all’altra. “La prima intenzione di

Dio – scrive S. Atanasio – era che noi (uomini) non nascessimo attraverso il

matrimonio e la corruzione; ma la trasgressione del comandamento (di Dio)

introdusse il matrimonio a causa della disobbedienza di Adamo, cioè per avere egli

disprezzato la legge, che Dio gli aveva data…” (frammento sul Salmo 50, 7). Gli fa eco

S. Giovanni Crisostomo: “la (necessità dell’) unione sessuale fu interrotta dalla

prevaricazione (dei nostri progenitori); infatti fino alla prevaricazione vivevano nel

paradiso come angeli, non bruciati dalle concupiscenze, non soggiacenti alle necessità

della natura; al contrario, creati (da Dio) assolutamente incorruttibili ed immortali, non

sentivano neppure il bisogno di coprirsi con le vesti…” (Omelie sulla Genesi, 15, 4)

h) Il riposo di Dio nel settimo giorno. In alto da sinistra, in due righi: Si riposò Dio il

settimo giorno da ogni opera sua, che aveva fatta (2, 2). Con le spalle rivolte all’alto

monte di destra, che fa da sfondo lontano, seduto u un ricco trono regale, provvisto di

cuscino e di sgabello, il Creatore si riposa dalle fatiche della prima settimana del

mondo. Le braccia stanche cadono inerti sulle ginocchia, e dal volto patetico sono

passate in rassegna le opere dei sei giorni. È l’unica immagine di Dio nella Genesi, che

guarda a sinistra, lo sguardo si volge al passato, verso le cose chiamate all’esistenza,

come per attrarle a sé prima, prima di riprendere con essa la via. È difficile stampare la

stanchezza di Dio.

i) Dio mette l’uomo alla prova. Al centro un albero ad alto fusto, con i rami e le fronde

disposti in modo da sembrare un’unica grande foglia trilobata, tra il verde del fogliame

si distinguono sedici frutti maturi, rotondi colorati di rosso arancione. A sinistra Dio

benedicente, a destra l’uomo in piedi (Adamo), con le braccia aperta in atto di docile

sottomissione, mentre ascolta le parole della proibizione; disposte in un solo rigo,

come a chiudere in alto il quadro a modo di cornice, le parole: Dell’albero della

scienza del bene e del male non mangerai (2, 17). Tra Dio l’uomo campeggia l’albero

della prova.

l) La creazione della donna. Quadro a due diagonali. Sotto la diagonale destra una

montagna verdeggiante, su cui si stagliano quattro piante agitate dal venticello del

Paradiso, l’uomo riposa, adagiato sulla nuda terra, con il corpo parallelo alla sagoma

della montagna, e le gambe incrociate all’altezza della caviglia; dal suo fianco destro si

erge dolce e solenne il corpo della prima donna (Eva) dai fianchi in su; le braccia e iol

volto sono orientati verso il volto di Dio, che ieratico alla destra benedice la prima

coppia umana fissandola in profondità. In tre righi dal centro a destra: Il Signore fece

cadere un sopore in Adamo e tolse Eva dalle sue coste (2, 2)

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m) Il primo peccato. Quadro equilibrato e studiato nei particolari, come quello della

lettera i. Al centro domina l’albero “della scienza del bene e del male” con quattrodici

frutti; ai lati come due piccoli accoliti, due alberelli. Alla sinistra eretto Adamo; a

destra, ma protesa verso l’uomo, la donna (Eva). La scena descrive il momento

culminante della disobbedienza: l’uomo e la donna stanno mangiando il frutto

proibito, uno per ciascuno; anzi l’uomo ne sta raccogliendo dell’albero un secondo

con la destra; il suo corpo è meno bello che nei quadri precedenti, il volto ha perso la

somiglianza col Creatore. Eva conserva la sua bellezza, anzi ha i capelli annodati con

due strisce di esile nastro bianco; il suo sguardo si incontra con lo sguardo del serpente

che, attorcigliato al fusto dell’albero, la guarda con impressionante fissità. A sinistra, in

quattro righi, sul capo dell’uomo, la descrizione della scena; la didascalia che fin ora è

stata tratta letteralmente dal testo sacro, qui varia la dizione, facendo precedere al

brano biblico un breve tratto di prosa libera: “la donna, suggestionata dal serpente,

prese del frutto e ne mangiò e ne diede a suo marito” (3, 6).

n) Il castigo dopo il peccato. La scena è ubicata in sito diverso dal precedente. A destra

Dio, in piedi, tende la mano all’uomo non più per benedire, ma per renderlo

conoscente della mancata obbedienza: lo sguardo interroga, accompagnando il gesto

della mano. Accanto, tra Dio e la coppia prevaricatrice, un albero di fico, che lascia

contare 28 foglie trilobate e una quindicina di frutti maturi disposti le une e gli altri

entro un cerchio ideale che dà alla chioma della pianta l’armonia della sfera. In mezzo

a floride felci, che raggiungono le altezze delle ginocchia l’uomo (Adamo) e la donna

(Eva) tengono la sinistra sulla larga foglia trilobata di fico, con cui coprono gli inguini

per la vergogna. Adamo, dal volto contrariato, indica con la destra, piegata ad angolo

retto, in Eva la colpevole; Eva, col capo piegato malinconicamente e con gli occhi

vogliosi di pianto, allunga verso il suolo il braccio libero e piegando il medio e

l’anulare, punta con l’indice e il mignolo il serpente ingannatore che giace col corpo

parallelo al suolo in ampie volute e col capo sospeso in ascolto della condanna. La

didascalia riferisce la parola dell’uomo a Dio: Ho udito il rumore dei tuoi passi nel

giardino e ho avuto paura, perché ero nudo; e mi sono nascosto (3, 10).

o) La cacciata dei progenitori dal Paradiso. Scostandosi dal testo biblico, il compito della

cacciata dell’uomo dal paradiso l’artista lo fa assolvere da un angelo ad ali spiegate,

aureolato, nell’abbigliamento consueto: con le due mani imprime alle spalle di Adamo

il movimento della severa condanna. L’uomo (Adamo) e la donna, dal volto

rabbugliato e intristito, da cui traspare la contrazione dei nervi, rivestiti di tuniche di

pelle dal collo al gomito e al ginocchio si avviano lentamente a scontare la pena. A

custodire la porta del paradiso sta, a sinistra, un Cherubino con la spada sguainata,

colorato interamente di rosso; ha volto umano con capigliatura, veste una tunica fino

alle caviglie. Le sei ali, forate da occhi frequenti (cfr. Ezechiele 1, 11-14), lasciano

libero il capo, i piedi e la destra; le due piccole stanno elevate dietro la chioma, le altre

quattro sono piegate in basso, in posizione di riposo e di vigilanza. In alto dal centro

alla destra: Dio caccio l’uomo dal paradiso e vi pose come custode un Cherubino dalla

spada fiammeggiante (cfr. 3, 23-24).

p) I primi uomini al lavoro. La scena vuole narrare artisticamente la realizzazione del

castigo divino, espresso con le parole, che Dio rivolse all’uomo dopo il peccato; sono

riprodotte in alto in due righi: Col sudore della tua fronte mangerai il tuo pane.

Mentre Eva seduta sopra un masso poggia il capo inclinato sul palmo della mano

sinistra, in attesa che maturi nel dolore la desiderata maternità, Adamo con la zappa in

mano e intento al lavoro dei campi. Il volto dell’uomo è rassegnato coi segni visibili

della dura fatica; il volto della donna è meditabondo. Tra le due montagne, che fanno

da sfondo a destra e a sinistra, due arbusti sono cullati dal vento.

q) Il sacrificio di Caino e di Abele. Altra costruzione a rette diagonali. Sopra un rialzo

naturale, che si erge su un campo erboso, è sistemato l’altare per il sacrificio. A sinistra

Abele, rivestito di tunica bianca succinta e di mantello, coi calzari dei pastori, offre un

bianco agnellino poggiato sull’altare; il suo sguardo di ragazzo buono, elevato al cielo,

sembra in colloquio col suo Dio. A destra è in arrivo Caino, che, mentre da l’ultimo

passo, osserva il fratello cogli occhi torvi e fronte corrugata. L’età di primogenito è

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messa in evidenza dalla barba incipiente e dai baffi. Rivestito anche lui di tunica scura

e mantello, calzato fino ai polpacci; porta per il sacrificio un fascio di spighe. Tra i due

fratelli, in basso, ai piedi del rialzo, cinque piantine a uno, due e tre rami. La presenza

di Dio è data da una calotta sferica tinta di azzurro; il gradimento del sacrificio di

Abele è segnato con un raggio verticale rossastro, che unisce il tondo celeste al capo

dell’agnello. La didascalia ha offerto per i restauri: in due righi, incompleto il secondo;

attualmente le si può tradurre così: Caino offre un sacrificio con Abele. Viene

riprovato (da Dio). L’originale intatto non doveva suonare diversamente (cf. 4,3 sgg).

Da questo tratto sino alla fine della serie a-v), con esattezza della metà di r) all’inizio di

v), i musaici non sono più quelli originali. Gli originali erano stati danneggiati in

maniera irreparabile dalla collocazione di un palchetto, che doveva servire

probabilmente al Vicerè nelle funzioni straordinarie. La collocazione a quell’altezza

della navata centrale fu condizionata dall’accesso al palchetto attraverso il vano che

sovrasta la navatina di sinistra. Tolto alla fine del sec. XVIII il palchetto, il lavoro di

ripristino fu affidato al musaicista Santi Cardini di Arezzo; il quale lavorò

mediocremente, senza imitare l’antico, ma ricreando le scene secondo i canoni artistici

del suo tempo. Anche lo spettatore meno preparato nota facilmente lo stridente

contrasto, e nel colore e nello stile, tra quanto precede e le scene rimanenti. Forse si

era perduta la memoria delle scene ivi raffigurate nel sec. XII: anche i soggetti rifatti

risultano frutto d’invenzione e innovazione; almeno però fanno da raccordo tra i fatti

di Caino e Abele e i fatti susseguenti del Diluvio.

r) L’uccisione di Abele e la riprovazione di Caino. Un taglio netto tra le due scene è dato

dalla diagonale, che da sinistra scende a destra con le ondulazioni di una montagna

che fa da sfondo. I volti dei due fratelli riproducono le sembianze del quadro

precedente; Abele in tunica bianca stramazza a terra e Caino in succinto abito azzurro

sta per vibrare un colpo di accetta: dalla disposizione dell’arma in mano al fratricida la

morte sarà procurata non dal taglio ma dall’anello entro cui si inserisce l’impugnatura.

In alto a sinistra: Caino si levò contro Abele, suo fratello, e l’uccise (4,8); sebbene

riscritta dal restauratore, l’epigrafe conserva l’equivalenza grafica. Dietro la sagoma

della montagna emerge il busto di Dio che intende rimproverare Caino; il quale, dal

volto invecchiato, rivestito in tunica romana, fa l gesto dell’innocente, voltando le spalle

al divino interlocutore. In alto a sinistra, sul capo di Caino: il Signore disse a Caino:

dov’è tu fratello Abele? Quello rispose: Non lo so (4,9).

s) Lamech a colloquio con le mogli. A torso nudo e a piedi scalzi, vigoroso nelle forme

erculee, coperti con un drappo i muscoli dal bacino alle ginocchia, Lamech appoggia

un gomito sul ginocchio sinistro, mentre la gamba sorregge il peso del corpo gravando

su un alto sgabello; i mano un arco da guerra, mentre la bocca pronuncia propositi di

vendetta sfrenata: Disse Lamech alle sue mogli: Io uccido un uomo per una mia ferita,

un giovane per una mia lividura! (4,23). Le due mogli, vestite come matrone romane,

ascoltano trepidanti: una gli sta accanto in piedi, l’altra siede di fronte su un seggio di

classica tipologia.

t) Enoch rapito al cielo. Mentre si consuma un agnello, posto sull’altare in fiamme come

olocausto a Dio, il patriarca Enoch prende il volo verso le regioni superiori,

spalancando le braccia. Dei tre spettatori quello di sinistra in piedi fa il gesto come per

trattenerlo; accanto a lui, quasi di spalle, un altro patriarca cade in ginocchio e

protende le mani in segno di rassegnazione; un terzo è prostrato bocconi davanti

all’altare come per adorare i disegni del Cielo. All’altezza delle spalle di Enoch, in due

righi: Enoch camminò come un Dio e non fu più vinto (5, 22.24).

u) La famiglia di Noè. Costruzione a diagonale, che scende dalla destra alla sinistra. In

piedi, a destra, Noè barbato, mentre poggia il gomito destro sulla spalliera nella sedia

smisurata, su cui è assisa la moglie, che gli dà le spalle. Il patriarca ha il dorso nudo;

col mantello copre il corpo fino ai polpacci delle gambe; la signora è abbigliata da

matrona imperiale. Dei tre figli Sem ha il torso nudo e si appoggia a nodoso bastone;

Cam è coperto fino al gomito e alle ginocchia e, assieme al piccolissimo Jafet, sta

davanti alla madre. In alto in quattro righi: Noè poi, all’età di cinquecento anni, generò

Sem, Cam e Jafet (5,32).

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v) La costruzione dell’arca. Eretto nella persona, che il restauro ha ingigantito nelle

dimensioni, Noè ascolta la voce di Dio, che gli parla dall’alto da qualcosa che non è

bene individuabili (nube, calotta sferica? ...). Frattanto i tre figli attendono alla

costruzione dell’arca; il lavoro è quello delle rifiniture. Il legno del salvataggio consta di

una parte inferiore, che riproduce nei particolari le imbarcazione del periodo

normanno, e di una parte superiora disposta come una casa dal tetto a due spioventi,

con ingresso, quattro finestre ad arco acuto e cinque piccoli tondi tra le arcate e il

soffitto. Uno dei tre fabbri è impegnato col martello sulle tegole, un altro a terra lavora

di sega, e il terzo con la scure. In alto in due righi: Fatti un’arca con legni lavorati (6,

14).

Secondo registro, dalla navata destra alla sinistra.

1. La colomba, mandata fuori dall’arca, ritorna con il ramoscello di ulivo. Sulle

acque del diluvio galleggia l’arca, da cui appaiono sei inquilini: Noè

dall’apertura dell’ingresso; in ordine Sem, Cam e Jafet nelle sembianze delle

tre età dell’uomo; dalla quarta arcata appare il volto della madre. La colomba

vola da destra col ramoscello di ulivo proteso in avanti. Il restauratore ha

prolungato il tetto oltre i limiti originari (inspiegabilmente), e ha riscritto la

didascalia senza comprenderla: in tre righi a destra, sopra la colomba;

interpretando si può tradurre: Noè fece uscire la colomba, ma (?) quella (?)

ritornò con un ramoscello di ulivo.

2. Uscita dall’arca. Mentre a sinistra un corvo nerissimo è intento a nutrirsi di un

cadavere umano disteso su una roccia emersa, nell’arca, al centro, comincia la

discesa. L’imbarcazione poggia le due estremità su due cocuzzoli sporgenti.

Quattro animali, già fuori, stanno attorno ad una conca di acqua piovana; due

di essi lambiscono il liquido dopo le prime boccate di erba fresca, mentre una

capra e un bue sollevano lo sguardo verso la prigione dei quaranta giorni.

Attraverso una scala a pioli stanno guadagnando terra una vacca e una

giumenta. Il patriarca Noè aiuta con le mani le bestie a lasciare l’arca, ma tiene

lo sguardo fisso a Dio, che – a destra – sotto l’arcobaleno che poggia

sull’imbarcazione, tiene il rotolo con la sinistra e benedice con la destra

l’umanità purificata e rinnovata. La didascalia ha sofferto per i restauri.

Rinunciando alla traduzione la si dà come suona in latino: Hic egreditur Noe

de Archa T cuntta nuo animantia (cfr. 8, 17-19).

3. La prima vendemmia e la vendetta di Noè. A sinistra sotto una vite di arboree

dimensioni, carica di grossi grappoli, due giovani sono intenti a raccogliere

l’uva, che depongono in un paniere, tenuto dall’uomo di sinistra, senza dubbio

è una scena dal vero. A destra, lungo la curva dall’arcata basilicale, Noè dorme

profondamente, sdraiato sulla nuda terra; il vasetto col primo vino traditore è

poggiato al capezzale. Il vecchio ubriaco ha la tunica rialzata fino ai fianchi.

Cam indica con gesto compiaciuto ai fratelli la nudità del padre, mentre Sem,

evitando di guardare, copre col mantello la dignità paterna, involontariamente

esposta, Iafet, di cui è visibile solo la testa, guarda anche lui lontano,

prendendo le distanze da Cam. In parte restaurato. Il titolo è: Qui Cam

mostra ai fratelli le vergogne del padre ubriaco.

4. La torre di Babele. Due scene, cui fa da raccordo la mole della torre, disposta

nella parte centrale. A sinistra davanti a una fornace in attività un giovane

operaio sta per inserire tra le fiamme un fascio di ferri sorretti da una lunga

tenaglia; altri due fasci gli stanno tra i piedi. Alla base della torre un uomo

maturo è intento a stemperare la calce in una vasca rettangolare. Un operaio al

primo piano e un altro al secondo sono intenti a sistemare i cornicioni

sporgenti con accette ad uno o a due tagli. In una riga a sinistra: I discendenti

di Noè edificano la città di Babele. Al lato opposto un gruppo di sette uomini,

in piedi, contestano la costruzione; mentre un operaio al secondo piano,

cazzuola alla mano, sembra interloquire col gesto della sinistra. Il manovale

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col la caldarella tiene la mano destra protesa verso il gruppo di fronte e, con

gesto naturalissimo, alzo lo sguardo verso il piano di sopra per interessare

anche gli altri costruttori. A destra in due righi: I discendenti di Noè, confusi

nella lingua, si rifiutano di edificare la città.

5. L’ospitalità di Abramo. “Il Signor appare ad Abramo alle querce di Mambre,

mentre questo sedeva all’ingresso della tenda durante il caldo di giorno”. I fatti

di questa descrizione biblica, l’artista li dispone in due scene, abilmente

simmetriche, collocando la tenda circolare di Abramo all’estrema sinistra e la

quercia al centro; la figura di Abramo fa da raccordo tra le due parti: prostrato

alla maniera orientale davanti tre angeli in piedi, ritto col vaso delle vivande in

mano davanti agli angeli seduti a mensa. Si nota come l’Abramo del primo

piano è intero, in posizione orizzontale; l’Abramo del secondo piano continua

verticalmente la figura del primo, ma rimane nascosto dalle ginocchia in giù: il

primo è sovrapposto al secondo; la quercia poi in terzo piano, continua le

figure del patriarca. Gli angeli della prima scena recano lo scettro della loro

dignità, ma solo il primo benedice Abramo. La mensa della seconda scena è

adorna di ricco parato orientale; vi stanno sopra tre pani, ciuffi di verdura, due

scodelle ricolme: la mancanza di spazio impedisce la raffigurazione della terza

scodella. Mentre il primo e il terzo angelo guardano Abramo, quello di centro

ha lo sguardo fisso lontano, ma con dolcezza.

6. Il peccato dei Sodomiti. Da una porta a due battenti, semiaperta, Lot è intento

a discutere coi Sodomiti, che fanno ressa numerosi, uomini di ogni età, per

ottenere di tradurre in pratica le loro voglie impudiche. Nell’interno della casa

i due Angeli, oggetto dell’insano desiderio, siedono su una panca, e sembrano

commentare la discussione animata che si svolge all’aperto. I fatti sono narrati

nella Gen. 1, 19; questa è l’unica parte della Cappella che attualmente manca

di “titolo”.

7. Il castigo di Sodoma. A sinistra la città è in fiamme; le vampe salgono verso il

cielo e verso destra lasciando vedere case crollate e teste umane orribilmente

scuoiate. A destra i due Angeli tengono per mano Lot e le due figlie per

sottrarli al pericolo; un po’ discosta, tra le rovine fiammeggianti e il gruppo

degli evasi, la moglie di Lot, rivolta verso la città con gesto di meraviglia: è già

statua di sale, punizione di una curiosità non dominata. Sopra il gruppo

umano la scritta: Sodoma è subissata.

8. La prova di Abramo. A sinistra la prima scena dell’episodio, a destra l’ultima e

decisiva. Sopra la curva architettonica dell’arco Dio parla ad Abramo, che lo

fissa negli occhi e protende a lui le mani accoglienti: eretti ambedue, ma posti

su piani diversi, a sottolineare la dignità del Padrone, che comanda, e la

sottomissione del servo che ubbidisce. Le parole del comando, in tre righi, sul

capo di Abramo: Prendi il figlio tuo diletto, Isacco, e offrimelo in olocausto.

Alle spalle del Patriarca un’alta montagna conica, come quella della creazione

dell’uomo”. A sinistra, mentre Abramo sta conficcando il coltello sul collo di

Isacco, dagli occhi bendati e dalle mani legate, posto già sull’altare

dell’olocausto nella posizione di vittima cruenta, un Angelo lo interrompe

liberato in volo a sinistra: Abramo! Abramo! non stendere la mano sul

ragazzo!

9. La partenza di Rebecca per il Canaan. Due scene studiatamente equilibrate.

Sullo sfondo di tre tipiche montagne, di cui la più a destra segna la sutura dei

due quadri, la giovane Rebecca versa in un abbeveratoio rettangolare l’acqua

attinta dal pozzo attiguo, su cui si vede sospeso un secchio, legato al contegno

che lo aziona; la ragazza porta un copricapo ornato; le trecce le scendono sul

petto. Mentre due dromedari bevono alla fonte, due servi di Abramo

s’intrattengono in conversazione con la futura sposa di Isacco. L’altro episodio

è narrato in perfetta simmetria: si osservano i quattro cammelli e il gioco delle

code intrecciate, la disposizione ritmata delle gambe e gli effetti grafici e

cromatici delle bardature e delle cavezze. Ai due servi in piedi corrispondono

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ora Rebecca ed Eliezer montati in sella, le cui mani ripetono specularmente il

gesto dei servi. Alla figura isolata di Rebecca con la brocca in mano

corrisponde la figura isolata dell’altro servo che precede la via, con un bastone

appoggiato alle spalle, dalla cui estremità posteriore pende un panno e una

brocca. La didascalia si riferisce soltanto alla prima parte: Il servo di Abramo

aspetta alla fontana. Viene Rebecca e dà da bere a lui e ai suoi cammelli.

10. Isacco benedice Giacobbe alla presenza di Rebecca. La prima scena inizia

all’estrema sinistra con un alberello, cui segue come sfondo una tenda

circolare, collegata ad un caseggiato, su un letto sta seduto Isacco, in tunica e

mantello, mentre con le mani palpa le mani e il capo del giovane Giacobbe: gli

occhi del vegliardo non mostrano i segni della cecità. Giacobbe è

inginocchiato davanti al padre, al quale mostra la testa, il collo e le mani

rivestite di pelle, per simulare la carnagione vellosa del fratello. Dietro il

giovane, in piedi, con una scodella in mano, rivestita di un drappo bianco per

evitare le scottature, è presente Rebecca, che osserva lo svolgimento dei fatti.

Una montagna alle sue spalle, di notevole altezza, acuta come un obelisco,

segue la satura con la scena seguente. In una valletta Esaù sta scoccando un

dardo contro due grossi uccelli appollaiati sui rami di un albero vicino, due

uccelli sono già caduti a terra senza vita, un terzo pende dalla cintura del

cacciatore. Il volto di Esaù, sul quale cresce una foltissima peluria che riveste

anche il collo, appare contratto nello sforzo di colpire il segno; le mani sono di

fattura grossolana, ma senza tracce di peli. Il restauro ha interessato le gambe

di Isacco, la spalla di Giacobbe, gli indumenti di Esaù, che ne rivelano le

tracce; deformata totalmente la figura di Rebecca nella sua interezza. La

didascali appare riscritta per intero: Qui Isacco benedisse suo figlio Giacobbe.

11. Il sogno di Giacobbe a Betel. Sdraiato, in preda al sonno, Giacobbe occupa la

parte più basse del quadro, là dove termina il piedritto e si iniziano le curve

degli archi a destra e a sinistra. Poggiata al suo capezzale una scala a pioli, che

raggiunge il cielo: da un tondo, che è riempito dal busto di Dio, esce un

braccio e una mano benedicente; un Angelo sale da Giacobbe a Dio, un

Angelo scende da Dio a Giacobbe. La sinistra del quadro è occupata

interamente da un panorama ad alte montagne con ciuffi d’erbe ed alberi. In

alto la didascalia, riscritta dal restauratore: Giacobbe vide una scala, la cui

sommità toccava il cielo. Anche la raffigurazione di Dio, totalmente rifatta,

contrasta col resto nei colori e nella derivazione iconografica: risente del

rinascimento italiano. Al lato opposto il giovane Giacobbe consacra come stele

votiva la pietra del suo capezzale, versandovi sopra l’olio dell’orciolo: è la

fondazione ebraica del santuario di Betel. In alto, la didascalia, restaurata:

(Giacobbe) prese la pietra e la eresse in memoria versandovi sopra dell’olio. Il

volto del giovane si direbbe originale, ma i capelli svolazzanti sembrano frutto

di restauro.

12. La lotta di Giacobbe coll’Angelo al torrente Jacob. In località Fanuel un uomo

(Israele) tiene stretto un Angelo ad ali spiegate, il quale con la sinistra cerca di

svincolarsi dalle strette, le due figure campeggiano sullo sfondo oro; solo a

sinistra un’alta montagna dalla caratteristica configurazione occupa l’orizzonte.

L’autore ha variato il volto di Giacobbe-Israele, aggiungendo i baffi e una

leggera barbetta, dalla cinta in giù i corpi sono restaurati, rifatte anche le

pieghe del mantello dell’uomo. In alto in due righi si legge: Giacobbe lotta con

l’Angelo perché lo benedica. L’angelo lo benedice: Ti chiamerai Israele.

La navata nord

Le due navate laterali, coperte da un tetto spiovente in legno, molto più strette di quella

centrale, contengono sulle pareti dei mosaici con le storie di San Pietro e San Paolo,

chiaramente progettate con lo scopo di presentare una visione bilanciata e armonica della

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vita dei santi. La cappella palatina era dedicata a San Pietro, sarebbe stato del tutto naturale

riservare lo spazio disponibile sulle pareti soltanto agli avvenimenti della sua vita. Al

contrario la sequenza si apre, alla terminazione orientale della navatella Sud, con quattro

riquadri che illustrano la conversione di Paolo così come è raccontata nel capitolo nono

degli atti degli apostoli. Cinque riquadri sono poi dedicati a eventi della vita di San Pietro,

registrati nei stessi atti. Le ultime tre scene, basate su atti apocrifi dei due apostoli,

mostrano il loro incontro Roma e il loro trionfo su Simon Mago.

L'interno degli archi che le separa dalla navata centrale è decorato anche esso a mosaico,

con immagini di santi. Sulla parete di fondo della navata Nord, opposta all'attuale porta di

accesso alla chiesa, si trova un'acquasantiera in porfido, realizzata forse nel XVII

Assemblando materiali di epoche precedenti, così come quella simile che si trova nella

navata sud.

Al di sotto di tre delle finestre che intervallano i mosaici (la prima, la seconda e la quarta) si

possono leggere iscrizioni che documentano i restauri svolti in diverse epoche.

Le storie di San Pietro e San Paolo si sviluppano nei mosaici delle due navate laterali.

L'ordine di lettura delle storie è spezzato tra una lavata e l'altra: la navata nord ospita così

sia l'inizio della vita apostolica di Pietro (la guarigione dello storpio, la guarigione di Enea a

Lida, la resurrezione di Tabita a Ioppa) sia episodi che vedono protagonista anche Paolo

(San Pietro e San Paolo si incontrano a Roma, la disputa con Nerone, la caduta di Simon

Mago). Il modello di questi mosaici è ben radicato nella tradizione occidentale, mentre è

insolito che non siano rappresentate le scene del martirio dei due santi, questo perché

Ruggero II non voleva che il sangue raffigurato nei mosaici "sporcasse" la cappella.

La vita apostolica di San Pietro inizio con la guarigione di uno storpio nel tempio di

Gerusalemme, indicato dalla porta socchiusa sormontata da una cupola. Alle spalle di

Pietro, ma sulla parete adiacente, si trova un altro apostolo, San Giovanni. La scena ha

subito diversi restauri, alcuni dei quali abbastanza riconoscibili. L'iscrizione in latino riporta

il relativo brano degli atti degli apostoli. Il ciclo degli atti miracolosi di Pietro, dopo la

guarigione di un uomo paralizzato, culmina con la resurrezione di una donna, Tabita, a

Ioppe.

Pietro e Paolo, sulla sinistra, disputano con Simon Mago alla presenza di Nerone e di un

suo cortigiano. I testi apocrifi contengono diverse descrizioni di questa sfida, a base di

prodigi, tra lo stregone e due apostoli, ma il mosaico sceglie di non mostrare nessun otto

sovrannaturale, solo quella che sembra essere una disputa verbale. In seguito, Simone

spicca il volo per dimostrare i suoi poteri. Ma Pietro, sostenuto dalla preghiera di Paolo,

ordina ai demoni che in realtà lo sorreggono di lasciarlo andare. Qui le versioni

differiscono: in alcuni testi Simone si rompe una gamba in tre punti e muore in seguito

all'amputazione o lapidato dalla folla, in altre la caduta gli è fatale. Gli atti di Paolo e Pietro

raccontano che Nerone ordinò di conservare il corpo di Simone intatto, convinto che

sarebbe resuscitato dopo tre giorni. Gli atti di Paolo e Pietro raccontano che Nerone

ordinò di conservare il corpo di Simone intatto, convinto che sarebbe resuscitato dopo tre

giorni.

La parete opposta della navata presenta tondi con busti di Sante ritratte e Sante a figura

intera. Tutte le Sante reggono una croce nella mano sinistra e hanno la mano destra aperta

o, come nel caso di Santa Perpetua, chiusa in un gesto, le "corna", che insieme ad altri gesti

augurali di probabile provenienza orientale compare spesso nella cappella. Altri tondi con

busti di santi si trovano all'interno degli archi.

Seppur numerosa, questa serie di ritratti dei due santi, è meno cospicua della schiera di

profeti e santi che orna il presbiterio. I vescovi, a figura intera, negli spazi che sovrastano le

colonne della navata centrale, e i presbiteri, sempre a figura intera, sulle pareti occidentali

delle navate laterali, possono essere considerati come il seguito dei padri della Chiesa e dei

vescovi nel transetto e nella campata che precede l'abside principale. I 58 busti di martiri e

dei confessori dei medaglioni che ornano gli intradossi delle arcate della navata, come pure

gli spazi delle pareti della navata centrale al di sopra delle chiavi degli archi, sono il

corrispettivo dei ritratti dei martiri sugli intradossi dei grandi archi che limitano il quadrato

centrale al di sotto della cupola. I nomi sono scritti in latino invece che in greco e tutti

santi, scelti per essere raffigurati, provengono dal calendario latino e molti di essi furono

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oggetto di culto soltanto in Occidente. Sant'Agata è innanzitutto una santa siciliana e

inoltre, quattro dei 27 e busti di martiri sugli archi del quadrato centrale sono connessi con

Roma. Ma la maggior parte di questi ritratti corrisponde al contingente normale di martiri

rappresentati nelle chiese greche.

Molti dei santi raffigurati nella navata centrale e in quelle laterali, invece, non sono

commemorati affatto dalla Chiesa greca. Non c'è dubbio che in questa parte della cappella

la selezione dei santi fu basata sul calendario latino e che nel determinarla giocarono un

ruolo importante interessi locali e regionali.

Rimane ancora da indagare se le variazioni nell'abbigliamento corrispondono sempre al

rango cui il santo apparteneva in vita.

La navata sud

La navata sud della cappella palatina contiene la porzione delle Storie di San Pietro e San

Paolo che riguarda la vita di San Paolo e la fuga miracolosa dal carcere di San Pietro.

Come già nella navata Nord, la parete che la separa dalla navata centrale è decorata da

immagini di sante, quattro a figura intera al di sopra delle colonne e quattro come busti

all'interno di medaglioni. I busti di altri santi si trovano, insieme a decorazioni floreali e

astratte, sulla superficie interna degli archi.

La porta in bronzo che dà sul nartece, l'ambiente alle spalle della parete di fondo, risale al

XII secolo come quella che si trova nella navata Nord. Il fatto però che entrambe siano

decorate solo nella parte interna, quella che dà sulla cappella, è che le loro dimensioni non

combacino del tutto con quelle degli stipiti, fa pensare che si tratti di porte realizzate per

altre aree del palazzo, collocate qui solo in un secondo tempo. La porta si apre sul nartece

fortemente rimaneggiato, nel quale si trova il fonte battesimale del 1930.

I mosaici delle storie di San Pietro e San Paolo sul lato sud della navata meridionale si

aprono con le vicende di San Paolo. Le ultime due ne raccontano la liberazione di Pietro

da una prigione di Gerusalemme. In questo modo, anche questa porzione del ciclo delle

vite dei santi si conclude con una vittoria dovuta alla Fede e non con una scena di martirio.

La scena della conversione di Saulo, o Paolo, contiene diverse parti restaurate, le più

evidenti delle quali sono le teste dei due personaggi alle sue spalle, ottocentesche.

La prima scena ritrae Paolo che difende la fede cristiana davanti ai membri della sinagoga

che lo attendevano per condurre la persecuzione contro i seguaci di Cristo. L'esito del

dibattito è facilmente intuibile dalla scena a destra: Paolo é costretto a fuggire dalla città, le

cui porte sono presidiate da guardie incaricate di arrestarlo, facendosi calare dalle mura in

una cesta.

Colpisce l'espressione addolorata di Paolo nella cesta, talmente esagerata da sembrare

quasi comica, e la ricca decorazione dell'armatura del soldato di guardia. Con questa scena

si concludono le vicende di Paolo nella navata sud, che riprendono con l'incontro a Roma

con Pietro, nella navata Nord.

Le ultime due sono sulla parete della navata sud riguardano di Pietro che, imprigionato a

Gerusalemme per ordine di Erode, fugge dal carcere grazie ad un angelo che addormenta

le guardie e gli spalanca la porta della cella.

Cristo seduto sul trono

Il trono, posizionato alla fine della navata centrale, è sovrastato dal Cristo pantocreatore

("Signore di tutte le cose") affiancato da San Pietro e San Paolo, sopra i quali si trovano gli

arcangeli Michele e Gabriele. La figura centrale è Cristo seduto in trono; solitamente infatti

gli imperatori bizantini erano soliti porre sopra il proprio trono l'immagine di Cristo seduto

in trono.

Le figure dei due santi che si volgono verso di lui è un motivo ricorrente nell'arte romana,

sopra le due figure dei santi sono rappresentati due angeli adoranti. Al centro della parete

si apriva forse una finestra, come nelle tre absidi, richiusa e sostituita con il mosaico del

Cristo attorno al 1180. Il significato di questa composizione e della sua posizione è tutto

chiaro: Cristo e i fondatori della Chiesa romana sovrastano e legittimano i re normanni e i

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loro animali araldici (i leoni), dando un valore sacrale alla regalità terrena. Sotto la figura

del Cristo seduto sul trono vi è una fascia a mosaico con un'intricata decorazione vegetale

abitata da uccelli e due leoni all'interno di medaglioni.

Le arcate

1. Santi Vescovi. Procediamo dalla navata centrale, arcata di destra, salendo fino al

Presbiterio e ritornando in senso inverso da sinistra. Indossano i paramenti liturgici,

come i Santi Gerarchi delle pareti destra e sinistra del Presbiterio (“asse aulico o

dinastico”): lo sticario (o camice), l’epitrachelio (o stola doppia), il felonio,

l’epigonation pendente al fianco destro dalla cintura al ginocchio, l’omoforio. Con la

sinistra reggono il libro dei Vangeli all’altezza del petto; la destra, variamente atteggiata,

benedice<, con la sola eccezione di S. Cataldo.

Atanasio (S. Atanasio): vegliardo dai capelli e dalla barba fluenti; patriarca di

Alessandria d’Egitto (328-373);

Leone Magno, papa (S. Leone Papa): volto giovanile con barba e baffi

incipienti, tonsura al vertice del capo, capelli all’altezza delle orecchie; la

mano, che regge il libro, è divaricata; Papa, I di questo nome, dal 440 al 461;

Cataldo (San Cataldo): ha il capo coperto di mitria; con la sinistre regge un

pastorale dal vertice superiore ricurvo; Vescovo di Rachau in Irlanda. A

Palermo gli fu dedicata, nel XII, una chiesa da Maione di Bari, Ammiraglio

del Regno: le pareti non sono mai state decorate a mosaico. L’iconografia che

lo rende così diverso va ricercata nella grande diffusione del suo culto nel sec.

XII;

Giuliano (San Giuliano): Vescovo di Le Mans (Sarthe, Francia); il suo culto fu

diffuso in Inghilterra;

Sabino (San Sabino): la mano destra benedice divaricata all’altezza delle

spalle; vescovo di Canosa nelle Puglie;

Ambrogio (Sant’Ambrogio): vegliardo dall’ampia fronte e dalla barba bianca

fluente; Vescovo di Milano;

Agostino (Sant’Agostino): uomo maturo, barba scura; tiene con ambe le mani

il libro trasverso sul petto; Vescovo di Ippona nella Numidia proconsolare;

Biagio (San Biagio): vescovo di Sebaste nell’Armenia, e Martire.

2. I Santi Presbiteri

Felice (S. Felice): prete di Nola in Campania. Il Mrt. Della Cappella al 14

gennaio annota: “natale di S. Feluice, Prete e Confessore, del quale scrisse del

beato Vescovo Paolino; e cioè che, essendo stato gettato in carcere dai

persecutori… fu liberato di notte da un Angelo e fu fatto uscire” forse per

questa notizia biografica fu raffigurato vino all’Angelo liberatore di Pietro, con

questa sequenza di personaggi: Pietro liberato, Angelo liberatore, finestra,

Felice (liberato). Restaurato e rifatto dalle ginocchia in giù;

Girolamo (S. Girolamo): il notissimo Prete di Stridone in Dalmazia morto il

420; traduttore della Bibbia in latino dall’origine ebraico; sequenza dei

personaggi: Girolamo presbitero, finestra, Giovanni Apostolo; Pietro.

3. Sante Donne. A motivo dell’ubicazione, passano inosservate dai comuni visitatori e

forse non ricevono dagli studiosi l’attenzione che meritano: l’angustia delle navate

laterali non facilita la visuale, che richiederebbe un punto di osservazione molto più

distante. Non possiamo asserire categoricamente che il posto loro riservato abbia da

solo un fondamento teologico di rilievo; tuttavia non si può prendere atto che queste

sante Donne stanno erette sui piedritti delle colonne, alle spalle dei Vescovi, colonne

della Chiesa. Quello che si può invece asserire con certezza è che la loro scelta fu

motivata dai ciclo paolino e pietrino, fu subordinata cioè alla presenza di Paolo nella

navata destra e alla presenza di Pietro nella navata sinistra.

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Navata destra. I prime tre tondi sono occupati da S. Carità, S. Speranza, S. Fede, le

quali sarebbero tre sorelle martirizzate a Roma sotto l’imperatore Adriano. Di fronte a

questi tre tondi, sulla parete meridionale, un po’ a destra è raffigurato “S. Pietro in

vincoli”, la cui ricorrenza liturgica cade il 1 agosto. Ciò che dovette agire in modo più

decisivo fu il valore teologico, evocato da questi tre nomi, tre virtù teologali, fede,

speranza e carità. Sotto il tondo di Santa Carità la figura intera di S. Scolastica, omaggio

al mondo benedettino. A Santa Speranza è abbinata la figura intera S. Tecla, Vergine e

Martire, originaria di Iconio e venerata specialmente a Seleucia. Il rapporto di Tecla e

Paolo non ha bisogno di essere sottolineato, basti ricordare gli apocrifi “Atti di Paolo e

Tecla”.

Sotto il tondo di S. Fede sta S. Radegonda, regina di Francia, poi monaca a Poitier. È

vestita da basilissa; in più regge il globo cruciato con la sinistra spalancata all’altezza del

petto; con la destra regge la croce. La corona non è a cuffia, ma ripete quella di

Ruggero II nel mosaico della Martorana.

Il quarto è riservato a S. Anastasia, martire di Sirmio nell’Illirico. Il collegamento con

Paolo è dato dal significato del suo nome (“risurrezione”). La risurrezione di Cristo

per l’Apostolo è la chiave di volta della teologia.

S. Margherita, Vergine e Martire di Antiochia, è abbinata a S. Anastasia anche per un

atto di omaggio alla Regina Margherita di Navarra, sposa di Guglielmo I.

Navata sinistra. Il primo tondo è riservato a S. Petronilla, Vergine e Martire a Roma,

che viene detta “figlia del beato Apostolo Pietro”.

Il tondo seguente è riservato a S. Prassede, Vergine e Martire Romana, figlia di

Pudente. Eretta è S. Eufemia, Vergine e Martire di Calcedonia.

Il terzo tondo raffigura S. Eufrosina, Vergine di Alessandria d’Egitto. È abbinata a S.

Perpetua, romana, discepola di S. Pietro, martire a Roma sotto lo sguardo

dell’Apostolo e da lui generata alla fede.

L’ultimo tondo è dedicato a S. Colomba, Vergine e Martire a Sans nella Gallia al

tempo di Aureliano. A figura intera S. Candida, il cui corpo fu traslato da Papa

Pasquale I nella Chiesa di S. Prassede.

Le sante della navata di Paolo sono disposte in modo da richiamare alla pratica delle

virtù teologali, la fede, la speranza e la carità che portano l'uomo alla risurrezione finale

(Anastasia). Così le donne della navata di Pietro esortano l’uomo a vivere come

candida colomba, per godere di perpetua letizia (Eufrosina), senza dimenticare che la

vita è operosità continua (Prassede), con la quale acquistiamo buona reputazione (Eu-

femia) tra i fratelli; poi, il cristiano sappia che per essere di Cristo (Cristina), deve

essere pure di Pietro (Petronila).

4. I Santi dei Sottrarchi

Transetto nord

Oltre la navata Nord, adiacente al presbiterio, nella posizione in cui nelle chiese bizantine

è collocata solitamente la prothesis, la tavola su cui vengono preparati il pane e il vino per

l'eucarestia, si trova il transetto. In questo caso però non si tratta di un ambiente autonomo,

ma dipende dal presbiterio, dal quale è separato solo da una balaustra in marmo intarsiato.

A ovest un arco si apre sulla navata nord e a sud uno sul presbiterio, mentre a est si trova

l'abside del transetto. Alcuni gradini, affiancati da scale che conducono alla chiesa

inferiore, separano navata e transetto.

Al di sopra dell'arco che dà sulla navata si trovano due pavoni, sormontati da tre sante,

Sant'Agata, Santa Caterina d'Alessandria (raffigurata come un'imperatrice bizantina) e Santa

Venera. Mentre particolari delle prime due Sante si ritrovano nei mosaici della cupola del

tamburo, l'ultima è in gran parte restaurata e non è allineata in altezza con le altre due.

Non è ben chiaro il motivo per cui queste tre sante si trovano in questa posizione, allo

stesso livello dei santi guerrieri bizantini raffigurati nell'arco verso il presbiterio. Un'ipotesi

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plausibile è che fossero poste a protezione della tomba della regina Elvira, prima moglie di

Ruggero II, la cui tomba è documentata nel 1140 nella Cappella Palatina, forse proprio nel

transetto Nord.

La parete nord di questo transetto ha subito nel corso dei secoli un gran numero di

cambiamenti. In origine aveva quattro finestre, ma le due superiori sono state chiuse per

problemi di stabilità nel XIX secolo e sostituite da un arco a sesto acuto. Qui si trovava un

balcone di legno usato dalla corte per seguire le funzioni, demolito l'inizio dell'XIX secolo.

La fascia superiore, con la predica di San Giovanni Battista, è stata realizzata dal 1140 da

Rosario Riolo che ricalcò lo stile antico; I mosaicisti locali responsabili della parete destra

del mosaico usato la stessa cura. Questo mosaico è stato comunque descritto con

entusiasmo dallo scrittore Guy de Maupassant nel resoconto del suo viaggio siciliano nel

1185. Sono invece originali i padri della Chiesa (San Gregorio di Nissa, San Gregorio di

Nazianzio, San Basilio, San Giovanni Crisostomo, San Nicola) della fascia sottostante.

Anche la decorazione dell'abside del transetto settentrionale, con la Madonna con Gesù

bambino e San Giovanni Battista sulla parete in fondo, è inusuale e in qualche modo

riecheggia la Natività presente nella stessa posizione nel transetto. Giovanni battista, in

questo caso, avrebbe la funzione di richiamare la futura morte di Cristo: la pergamena che

regge riporta, in greco, la citazione evangelica "Ecco l'agnello di Dio che togli i peccati del

mondo".

L'abside vera e propria presenta, nella cupoletta, il ritratto di Sant'Andrea, molto

restaurato. È stato suggerito che in origine vi si trovasse, per simmetria con San Paolo

nell'altro transetto, San Pietro e che il santo attuale sia frutto di lavori di fine XII secolo.

Sant'Andrea era venerato come fondatore della Chiesa di Costantinopoli e la sua presenza

sarebbe quindi una scelta politica che riconosce pari dignità alla Chiesa cattolica (San

Paolo) e quella bizantina.

Al centro dell'abside si trovava in origine una finestra, chiusa nel XVIII secolo è sostituita

da un mosaico di Santi Cardini che raffigura San Giuseppe e Gesù bambino. Ai lati, sono

in Brasile originali San Barnaba, a sinistra, e Santo Stefano, a destra; reliquie di questi due

santi erano conservate nell'altare dell'abside, sostituito nel XIX secolo.

Sulla arco tra transetto e presbiterio sono riprodotti a mosaico cinque santi, quattro dei

quali ritratti con armi e armatura in virtù del loro essere stati soldati. Unico, per così dire,

intruso, e San Nicola, che compare anche sulla parete opposta, uno dei santi bizantini più

venerati e che ebbe un ruolo molto importante tanto per il cristianesimo bizantino quanto

per quello latino. È interessante notare un dettaglio dell'equipaggiamento militare di San

Teodoro, cioè i gambali bianchi sui quali è visibile un motivo ornamentale che richiama la

grafia arabo. Si può immaginare che il mosaicista abbia voluto richiamare le iscrizioni

presenti in altri punti della cappella. Questo è un esempio dell'interscambio che si verificò

tra gli artisti di diverse scuole nel corso della decorazione dell'edificio; icone bizantine di

San Teodoro che uccide un drago furono probabilmente usate dagli artisti egiziani che

dipinsero il soffitto come modello per le numerose immagini di cavalieri che uccidono un

drago da loro realizzate.

Nestore, santo guerriero il cui busto è collocato sul vertice dell'arco, regge una lancia nella

mano destra e la spada rinfoderata nella sinistra. È affiancato da altri due santi in armi,

Demetrio e Mercurio, che portano entrambi scudi su cui bordi si trovano se non le

iscrizioni in caratteri arabeggianti.

Nella volta a botte del transetto è raffigurata l'ascensione di Cristo. L'opera ha subito un

gran numero di restauri, tra cui quelli del 1810 che rifecero completamente il medaglione

con il volto di Cristo, dal quale si erano distaccati pezzi. La disposizione dei personaggi e

delle scene prevede tre orientamenti diversi: il medaglione va visto guardando verso

l'abside, il gruppo centrale con Maria verso nord e gli altri apostoli verso sud.

Il presbiterio

Il presbiterio si presenta come uno spazio quadrato, separato dalla navata centrale, dai

transetti e dall'abside per mezzo di archi, su due dei quali si trovano raffigurate

l'Annunciazione e la Presentazione di Gesù al Tempio.

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Al di sopra del presbiterio si innalza la cupola, sorretta da un tamburo decorato con le

immagini di evangelisti e profeti. Al centro della cupola si trova invece il Cristo

Pantocreatore circondato da angeli e arcangeli. Un altro Cristo Pantocreatore è raffigurato

nel catino absidale, al di sopra di un mosaico del XVII secolo con la madonna tra la

Maddalena e San Giovanni Battista.

L'annunciazione occupa l'arco che si apre verso l'abside. La conformazione dello spazio ha

portato l'autore a disporre l'angelo a sinistra e Maria a destra, separati al centro dall'arco di

cielo dal quale fuoriesce la mano di Dio che proietta verso la donna il raggio di luce che,

insieme alla colomba, rappresenta nella Cappella l'intervento divino. Sia Maria sia l'angelo

sono stati restaurati XVIII secolo ed entrambi si estendono sulla parete a loro adiacente.

La dimora di Maria è raffigurata alle sue spalle, sulla parete sud, come un edificio sontuoso

e articolato. I due personaggi sono uniti dall'iscrizione latina che dal ginocchio dell'angelo

arriva al ginocchio di Maria recita "La Luce, la Vita e la Via riempirono te, Vergine Maria,

che beata credi nelle parole [dell'angelo] e non rendi il tuo cuore il superbo".

La scena della Presentazione di Gesù al Tempio si trova sull'arco che dà verso la navata

centrale. Sulla sinistra dell'arco si trovano la Madonna con Gesù, mentre alla destra è

raffigurato Simeone, l'anziano sacerdote del tempio che riconosce la natura divina di Gesù

e vede in lui il compimento della profezia di Isaia. Altri due personaggi che appartengono

alla sera si trovano sulle pareti adiacenti: San Giuseppe con la gabbia con gli uccelli per il

sacrificio a sinistra, sulla parete verso la navata sud, e la profetessa Anna sulla parete verso

la navata Nord. Il tempio è simboleggiato dall'edificio che si trova al centro dell'arco.

L'abside centrale ospita mosaici tra i più restaurati nella Cappella Palatina. Sulla parete di

fondo si apriva, come nelle absidi laterali, una finestra, poi chiusa e oggi sostituita da un

mosaico del XVII secolo che raffigura la Madonna, affiancata verso nord da Maria

Maddalena e San Pietro e verso sud da San Giovanni Battista e San Giacomo Maggiore.

Tutte queste figure, probabilmente originali delle XII secolo, presentano comunque segni

evidenti di restauro. L'iscrizione sottostante, invece, nomina gli arcangeli Michele e

Gabriele, raffigurati nell'arco interno dell'abside ai due lati dell'Etimasia. Gli altri due

personaggi che si trovano sotto agli arcangeli sono San Gregorio magno e San Silvestro,

entrambi papi.

Il grande Cristo Pantocreatore nel catino absidale, al di sotto del quale si trovava una

finestra, doveva apparire come una fonte luminosa, coerentemente con un programma

decorativo che pone l'accento sull'importanza della luce, ribadito più volte nelle iscrizioni,

non ultima quella in greco e latino riportata sul libro che regge la mano sinistra ("io sono la

luce del mondo…"). Al di sopra del Cristo si trova un medaglione con i simboli della

passione, l'Etimasia: la croce, la corona di spine, la lancia e la spugna imbevuta di aceto,

mentre su un cuscino ai piedi della croce si trova la colomba dello spirito Santo. Si tratta

dell'unico accenno presente nella cappella alla morte di Cristo, ricordata da una delle due

iscrizioni latine sulla cornice dell'arco esterno che precede l'abside: "La lancia, la spugna, la

croce, i clavi e la corona ispirano timore e pianto intenso. Peccatore piangi quando vedrai

queste cose e adora". Tutta via, posti su un trono regale, gli strumenti della passione

diventano anche strumenti di rappresentazione regale, chiarendo così il loro collegamento

con il Pantocreatore.

I mosaici della cupola sono considerati i migliori della cappella dal punto di vista tecnico e

artistico. La struttura della cupola vera e propria poggia sul tamburo cilindrico nel quale si

aprono quattro nicchie, ciascuna contenente un evangelista, alternate a quattro personaggi

biblici e rappresentati a figura intera. Al di sopra di questi, intervallati, si trovano i busti di

otto profeti, ciascuno con un rotolo in greco che riporta un brano delle loro profezie.

La cupola vera e propria è decorata da quattro arcangeli disposti in cerchio (Michele,

Gabriele, Uriele e Raffaele) e da quattro angeli non identificati, che fanno da corona un

Cristo Pantocreatore iscritto in un medaglione.

Cristo è il fulcro e il perno della grande ruota di profeti, evangelisti e angeli della cupola.

L'iscrizione in greco che lo circonda (" Così parla il Signore: il cielo è il mio trono e la terra

lo sgabello per i miei piedi) lo identifica esplicitamente come Pantocreatore. Si tratta di un

uso inconsueto di questo termine per indicare un busto di Cristo: solitamente accompagna

il Messia a figura intera su un trono, come nella parete di fondo della cappella. Ma in

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questo caso basta, simbolicamente, la sua presenza al centro di una cupola che riflette la

struttura del regno celeste, culmine dell'intero progetto decorativo del presbiterio. Come

vuole la tradizione bizantina, la metà destra del volto è leggermente più grande di quella

sinistra, ma la mancanza di una scriminatura centrale nei capelli identifica questa figura

come tipica del periodo normanno.

Architettura

Le tre navate sono separate da colonne in granito e marmo cipollino a capitelli compositi

che sorreggono una struttura di archi ad ogiva. Completa la costruzione la cupola, eretta

sopra le tre absidi del santuario. La cupola e il campanile originariamente erano visibili

dall'esterno prima di venire inglobate nel Palazzo Reale in seguito alle costruzioni

successive.

Mosaico del Cristo Pantocratore

La cupola, il transetto e le absidi sono interamente decorate nella parte superiore da

mosaici bizantini, tra i più importanti della Sicilia, raffiguranti il Cristo Pantocratore

benedicente, l'immagine di maggiore impatto della cappella, gli evangelisti e scene bibliche

varie. I mosaici di datazione più antica sono quelli della cupola, risalenti alla costruzione

originaria. I mosaici della volta con il Cristo Pantocratore e gli angeli attorno evocano il

Salmo 11,4: " Il Signore nel tempio santo, il Signore ha il trono nei cieli".

Il soffitto in legno della navata centrale e le travature delle altre navate sono decorate con

intagli e dipinti di stile arabo (muqarnas). In ogni spicchio sono presenti stelle lignee con

rappresentazioni di animali, danzatori e scene di vita della corte islamica e del paradiso

com'è descritto nel Corano.

Il soffitto

La Cappella è abbellita da quello che costituisce il maggiore splendore, la più

imprevedibile copertura che si possa immaginare: il soffitto di legno con alveoli intagliati

come si possono ammirare al Cairo ed a Damasco, dalle intricate decorazioni pittoriche, le

più antiche che si conoscono. “E il fiore ultimo di una lunga serie di cui gli antecedenti

sono andati distrutti. È un capolavoro d’arte della carpenteria araba e Ruggero ricorse a

questi artisti per decorare la sua Cappella” (Monneret de Villard)

Sfarzosamente più ricco ed artisticamente più complesso è il soffitto della navata centrale.

Su una poderosa ed alta fascia nei quattro lati sono due file di grandi cassoni in forma di

stelle a otto punte che chiudono una cupoletta lobata ad otto spicchi curvi che sono la

riduzione di una struttura architettonica più sviluppata nella cupola sullo spazio antistante

al mihrab della moschea di Cordova eseguita nel 970. La stella è formata da due facce:

l’interna con la decorazione geometrica, la esterna con iscrizione a caratteri cufici. Le

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iscrizioni contengono una serie di parole senza nesso e senza che costituiscano una frase,

tanto che le 280 lettere si riducano fra sostantivi e aggettivi ad una trentina di vocaboli:

“prosperità, incolumità, protezione, benevolenza, affabilità…” che si riferiscono al

possessore come augurio: sono evidenti lodi al sovrano.

Il legno è rivestito di tela con varietà di pitture a tempera, uso rarissimo nel secolo XII. Tra

ornamenti vegetali ed animali nelle più svariate forme sono scenette tratte dalla vita

ordinaria e dalla mitologia orientale: uomini che cavalcano cammelli, altri che uccidono

leoni, altri che si apprestano a bere con coppe nelle mani tra scene musicali e varietà di

strumenti dal liuto alle nacchere, dal flauto al piffero, dall’arpa al tamburo; scene

distribuite a caso, o meglio secondo il semplice piacere dell’artista, creando così una

atmosfera di sogno. Le lodi di Teofane di Cerami sono anche per il soffitto “ornato di

certe sculture munitissime e variate e di ogni parte d’oro rilucendo imita il cielo quando

splende nel puro cielo stellato.”

È evidente in questo prestigioso complesso pittorico la derivazione dallo stile iracheno che

può essere frutto di una collaborazione con artisti egiziani fatimiti oppure originari di

Tunisi dove erano rimasti influssi iracheni (Pottino).

Pure a lacunari è il soffitto delle navate laterali con piccole travi che poggiano nei muri

perimetrali.

Il pavimento e le pareti

Le pareti fino ad una certa altezza sono rivestite di lastre di marmo bianco con riquadri a

mosaico e tondi di porfido, terminate da un fregio a fiorami; le quattro croci greche

ricordano la consacrazione della Cappella.

Il presbiterio fa parte a sé, sopraelevato rispetto al piano della navata di cinque gradini; ha

tre absidi una centrale e due laterali.

Ampie arcate, sostenute da colonne di granito, ne determinano il quadrato; su questo che

si trasforma in ottagono con nicchie di raccordo agli angoli, si alza il tamburo e sopra la

cupola emisferica con otto piccole finestre. È chiuso ai lati da gradi lastre di marmo ornate,

all’esterno, di mosaico che formano da spalliera agli stalli del coro e lo separano dal

diaconico e dalla protesi; dalla parte del centro è separato da una balaustra di marmo

bianco traforato con cancello di ottone e da due lastre di porfido con cornice in marmo.

Due colonne di marmo cipollino a spirale unite a due di granito sostengono l’arco

trionfale. L’altare centrale non il paliotto di porfido e quelli delle absidi minori risalgono

alla fine del 1700 ed ai primi del 1800.

Candelabro per il cero Pasquale

L’ambone è formato da due elementi di forma cubica sostenute da due colonne in marmo

striate e due piccoli pilastri scolpiti con motivi fogliacei. Dei due parapetti il primo,

sporgente, è di porfido, l’altro un po’ rientrante è di marmo con disegni geometrici in

mosaico; nel primo fa da sostegno al libro sacro un’aquila ad ali spiegate, nell’altro un

leone.

A fianco si erge il superbo candelabro in marmo bianco alto m. 4, 30. Poggia su quattro

leoni che divorano uomini ed animali; su di essi innalza il fusto di un solo blocco con

figure umane ed animali tra foglie e viticci aggruppati in diversi piani con somma eleganza;

al termine tre figure seminude che sorreggono il disco in cui si poneva il cero pasquale.

Mirabile per il nitore e la raffinatezza ornamentale delle forme snellissime e per l’alternarsi

di motivi fogliacei a quelli figurali è l’opera più antica della scultura romanica in Sicilia che,

come afferma il Salvini, ha le sue origini nella scultura romanica della Provenza. Lo

conferma il Cristo benedicente chiuso nella mandorla coi baffi pronunziati proprio come

nelle figure provenzali. La figura dell’offerente al lato del Cristo è identificata con quella di

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Ruggero II per la mitria che porta in testa, ma, dal momento che ha addosso anche il

pallio, è più probabile che si tratti della figura del donatore. Se è così il candelabro

potrebbe essere stato donato dall’arcivescovo Ugo in occasione dell’incoronazione di

Guglielmo I che ebbe luogo nella Pasqua del 1151. Le tre figure seminude del

coronamento, secondo il Venturi, sarebbero state aggiunte dopo.

È una scultura in tre parti Diego che il sarto, la cui collocazione attuale è probabilmente

successiva alla risistemazione del pulpito nelle XVII secolo alla quale risalgono elementi

come il leggio con L'Aquila e il leone. Alla base del candelabro si trovano quattro leoni che

sbranano le loro prede, due uomini e due quadrupedi, raffigurazione del dolore del

peccato. Il fusto, ottenuto dalla lavorazione di una colonna antica, è diviso in tre sezioni,

separati da corone di foglie. La prima delle tre sezioni contiene aquile e una scena di

caccia al leone, ispirata dai sarcofagi romani. Nella seconda si trova Cristo in trono, ai cui

piedi si trova si prostra un personaggio identificato con un arcivescovo. Sul lato opposto,

un'altra figura umana è accompagnato da un angelo, mentre nella sezione superiore

quattro aquile con prede strette negli artigli allungano il collo per beccare le code dei

pavoni sovrastanti. Il fusto si conclude in un piatto decorato. A questa struttura, Dalla forte

coerenza stilistica, si sovrappone un bocciolo con quattro telamoni che sorreggono una

tazza decorata, di fattura differente dal resto, probabilmente aggiunto in un secondo

tempo. Le ipotesi per la datazione del candelabro contemplano la possibilità che sia il

contemporaneo alla cappella oppure della fine del XII.

Bibliografia

I mosaici del Presbiterio, Ernst Kitzinger (I fascicolo);

I mosaici delle Navate, Ernst Kitzinger (II fascicolo);

La Cappella Palatina nel Palazzo dei Normanni, Stefano Giordano;

La Cappella Palatina di Palermo: lettura teologica, Rocco Benedetto;

Le pitture musulmane al soffitto della Cappella Palatina (1950), Monneret de

Villard Ugo;

Cappella Palatina a Palermo, Mirabilia Italia.

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Navata nord

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Cristo Pantocreatore, particolare cupola

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Particolare tetto a muqarnas

Particolare tetto navata nord

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Abside

Cristo in trono affiancato da San Pietro, a sinistra, e San paolo, a destra

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Navata centrale

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Particolare arcata, navata sud

Particolare Santo, arcata navata laterale

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Candelabro per il cero pasquale

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Particolare base candelabro: due leoni che mangiano un uomo, a sinistra, e un bue, a destra