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LA COMPAGNIA DELLA SOLITUDINE Sentirsi soli quando si è in compagnia Don Paolo Gessaga Itinerari d’amore Edizione ottobre 2012 Versione e-book marzo 2016 a cura di Luciano Folpini

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LA COMPAGNIA DELLA SOLITUDINE

Sentirsi soli quando si è in compagnia

Don Paolo Gessaga

LA COMPAGNIA DELLA SOLITUDINE Sentirsi soli quando si è in compagnia

Don Paolo Gessaga

Itinerari d’amore

Edizione ottobre 2012 Versione e-book marzo 2016

a cura di Luciano Folpini

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La compagnia della solitudine

Itinerari d’amore

LA COMPAGNIA DELLA SOLITUDINE

Sentirsi soli quando si è in compagnia

Don Paolo Gessaga

Dedicato ai miei parrocchiani

di San Benedetto in Roma

e ai nuovi

del Beato Cardinal Ferrari in Legnano

Con tanti ringraziamenti

edizione ottobre 2012

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La compagnia della solitudine

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1 Prefazione

Solitudine.

È il nuovo nome della grande paura che portiamo in noi, quella di rimanere soli, in-compresi, senza alcuno che ci dica una parola, ci faccia una carezza, si interessi delle nostre difficoltà. Il libro che avete tra le mani nasce dall’incontro con tante persone che, confidandosi con don Paolo Gessaga, fino all’agosto 2012 parroco romano ed ora parroco milanese, hanno manifestato il loro malessere e paura della solitudine. Il testo non solo affronta il problema, ma aiuta il lettore a trovare un’uscita alla propria situa-zione o paura che porta nel cuore sia per il presente che per il futuro, sapendo che nessuno potrà mai sfuggire alla tentazione di sentirsi solo.

Io stesso, con sorpresa, mi sono sentito coinvolto ed anche ritrovato nei vari perso-naggi che sapientemente si susseguivano, quasi che fosse la mia storia.

Consiglio di leggere il testo con calma perché ci si potranno trovare suggerimenti utili ed anche occasioni per discussioni in gruppi. A don Paolo un sincero ringraziamento per questa sua ultima fatica che pubblica in un momento così importante della sua vi-ta in quanto chiamato a cambiare città oltre che parrocchia, ed anche un augurio: che, a sua volta, non si senta solo laddove il Signore vorrà mandarlo sapendo che il Dio del-la vita si è fatto compagno di viaggio dell’umanità intera e con ciascuno vuole affron-tare la grande avventura dell’esistenza.

Inoltre, come sacerdote romano, non posso far altro che ringraziarlo per quanto ha fatto per la mia Diocesi con dedizione ed impegno ed anche per la sua sincera amici-zia, tesoro grande che vince ogni tipo di solitudine.

Mons. Paolo Mancini

Segretario Generale

del Vicariato di

Roma

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2 Presentazione

Questo è il sesto libro della collana Itinerari d’amore che prosegue lo sviluppo dei tempi legati alle relazioni che nascono tra le persone con una particolare attenzione ai rapporti tra le coppie e tra genitori e figli. Questo libro ha posto l’attenzione sulla real-tà dell’amicizia mostrando che a volte ci sono rapporti che ne assumono le vesti ma la-sciano nella solitudine.

Spesso le persone non sanno nemmeno definire il significato della parola amicizia ri-tenendo amici tutti quelli di cui ci può fidare o stare insieme, caratteristiche non suffi-cienti per definire un rapporto così complesso. La parola amicizia in greco ha la stessa radice della parola amore mentre in aramaico significa essere uniti, due idee forti per comprendere la dimensione individuale e collettiva dell’amicizia.

Oggi siamo in una società dominata dall’individualismo dove l’amicizia, spesso virtua-le, è basata sulla ricerca del piacere o dell’utile, invece di essere virtù che tira fuori il meglio da ognuno ed è capace di trovare compagni con cui compiere almeno una par-te del proprio cammino in un contesto aperto verso il prossimo. Ma nei nostri giorno è così difficile trovare forme adeguate per formare piccole comunità di amici in cui vive-re gioiosamente in solidarietà?

Così anche nella famiglia, sempre più fragile, nessuno si sacrifica per mantenerla unita. Basta un piccolo dissidio per arrivare alla rottura. È vero che non tutto dipende dalle nostre scelte ma è anche vero che molto dipende dalla nostra volontà.

Ognuno deve riflettere su cosa è per lui l’amicizia e decidere che parte deve avere nel-la sua vita e quali spazi lasciare a un’utile solitudine che non faccia però cadere nell’abbandono.

Ognuno ricerca la felicità e prima o poi scopre che da soli è impossibile raggiungerla ma occorre cercare e trovare persone che condividano gli stessi obbiettivi e valori. An-che gli eremiti non restano mai soli perché cercano un rapporto mistico che li porti all’amicizia perfetta con un essere che non può tradirli.

La vera amicizia è indispensabile per coltivare tutte le forme d’amore perché abitua a superare l’egoismo che vuole ricevere senza donare. Non sono pochi coloro che rovi-nano l’amicizia ricoprendola d’ironia e luoghi comuni, nel sadico divertimento di tra-sformare il senso delle parole e dei sentimenti per svuotarli e confonderli tra loro.

Spesso questa confusione porta a distinguere tra i rapporti d’amore e quelli di amicizia solo per le pratiche sessuali spesso in un rapporto temporaneo e occasionale che con-suma il desiderio di possesso e finisce presto perché non da la felicità che si sperava lasciando un senso di vuoto e fallimento.

Il vero compagno e il vero innamorato sono coloro che sanno tutto di te, non ti con-sumano ma trovano piacere anche solo nello stare insieme con te pur conoscendo i tuoi difetti e non sono gelosi dei tuoi successi e anzi si allietano.

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Ma amicizia significa anche riconoscere i propri limiti cercare di non farli pesare sugli altri e di comprendere i loro sapendo che solo l’amore e non il tempo guarisce le feri-te. L'amicizia va coltivata con cura per non lasciarla inaridire e morire nella consapevo-lezza che sotto la corazza di ciascuno c’è sempre qualcuno che vuole essere amato e apprezzato per quello che è.

L'indulgenza e il pronto perdono persino di fronte al tradimento non sono segni di de-bolezza ma consapevolezza della comune fragilità. Se non si è capaci di stabilire rap-porti d’amicizia imparando a non serbare rancore, amarezza, desiderio di vendetta ed essere sempre pronti a perdonare, ad ascoltare e sorridere non si potrà mai veramen-te amare e raggiungere la felicità.

Luciano Folpini

3 Introduzione

Viviamo in un contesto nel quale tutte le persone cercano rapporti basati sulla fiducia e sulla certezza di essere voluti, amati e accompagnati. Nel momento storico in cui vi-viamo, pare che nessuno possa fare a meno di qualcuno o qualcosa che possa tenergli compagnia. Ma quale compagnia cerca? Spesso solo virtuale. Pensiamo a quante ore si trascorrono di fronte ai media moderni che entrano nelle case e nella vita di ciascu-no? Sembra che la compagnia delle persone che si parlano e si cercano sia passata di moda, o comunque non rivesta più un'importanza elevata nei rapporti sociali e perso-nali.

Non sono poche le situazioni di persone sole o senza un’affidabile compagnia in grado di assicurare solidarietà. Quanta solitudine non è riempita da una sicura e forte com-pagnia? Dall'altra parte abbiamo giovani e anche meno giovani assai preoccupati sol-tanto di colmare il tempo vuoto da una qualsiasi forma di comunicazione.

Perché durante le camminate in montagna con i ragazzi della parrocchia, alcuni adole-scenti portano delle strane cuffiette alle orecchie e rinunciano a comunicare le proprie emozioni di fronte allo scenario meraviglioso fatto di vallate, ghiacciai e vento sibilan-te tra le rocce e i larici dell’alta montagna?

Semplice, sono storditi dalle cuffiette collegate a diaboliche scatolette che trasmetto-no musica, voci e ritmi estranei e impediscono loro di gustare il dolce rumore delle ca-scate e dei torrenti o il simpatico verso di qualche marmotta indispettita dai passi degli improvvisati alpini.

Loro non possono fare a meno di udire voci, suoni, rumori anche assordanti, per non sentirsi soli. Ascoltare il silenzio non è facile, loro ne sono spesso infastiditi e lo rifiuta-no.

Questo testo intende affrontare il tema della solitudine, dimensione propria di ogni persona che attraversa senza tregua la vita dal primo all’ultimo istante. Ognuno è sempre solo con sé stesso e ha sempre la necessità di trovare una compagnia, che condivida la sua vita per renderla più bella, più sollevata, e con maggior significato.

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Ciascuno cerca il contatto con gli altri ma nello stesso tempo ama, desidera e vuole stare solo, avere uno spazio per se stesso dove ritrovare la propria identità e capire ciò che gli accade.

Essere soli per assaporare la compagnia delle persone, ma anche saper stare in com-pagnia avendo compreso la dimensione della solitudine quale prima compagna nella propria esistenza. Non si è mai davvero soli quando ci si accetta e non si è mai in com-pagnia fin quando non si è in grado di lasciare entrare gli altri.

Il nostro testo vuole così percorrere tre strade:

confrontare se stessi col bisogno della compagnia a partire da riflessioni bibliche ed esperienziali

capire il valore e la necessità di qualificare il proprio io a partire dalla propria storia personale e da quanto altri possono affermare sul proprio conto;

pensare la propria identità personale in rapporto alle persone che si incontrano e alle scelte operate per definire lo scambio tra sé ed il mondo.

Sono strade che si unificano nel punto centrale della solitudine quale migliore e indi-spensabile compagnia per la propria vita.

Il testo tende a metterla in risalto nel suo valore unico e insuperabile per agire in sin-tonia con gli altri nella piena consapevolezza delle proprie scelte e convinzioni, per ca-pire che non si è mai soli quando si accetta la realtà e si riesce a essere valorizzati per le proprie qualità uniche e irripetibili.

4 Dialettica solitudine e relazionalità

Ci introduciamo all’argomento a partire dalla Genesi, il primo libro della Bibbia, che narra la creazione dell’uomo e ovviamente della donna. Il racconto procede per gradi. A fianco alla creazione di ogni realtà terreste e celeste si parla dell’uomo e del suo compito di dominio sul creato e sugli animali ai quali impone il nome, esercita un po-tere, ma come giustamente è rimarcato direttamente da Dio:

Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile. (Gn.2,18)

Lo stesso primo uomo, pur avendo assolto a tutto il gravoso compito di custodire la creazione e organizzare la propria vita come coltivatore della terra nel giardino prepa-rato dalla Divinità, si accorge di “non aver trovato un aiuto che gli fosse simile” (2,20).

4.1 Il racconto della creazione dell’uomo

Le prime pagine della Bibbia raccontano gli arbori della storia dell’umanità per far sco-prire il significato profondo del disegno di Dio che vede nella donna, colei che condivi-de le responsabilità dell’uomo e lo completa. In effetti la compagnia della donna non è un’aggiunta, ma la piena realizzazione dell’uomo che può esclamare costei è: “osso delle propria ossa e carne della propria carne”(v.23). Di conseguenza la chiamerà uo-ma, poi tradotto impropriamente con donna.

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Il bisogno immediato, non è tanto la compagnia per non restare soli, quanto quello del completamento di se stessi tramite la piena sintonia dei cuori e la fusione dei corpi. É vero che il testo si presta soprattutto per la definizione primordiale della vita coniuga-le, ma esso è aperto anche alla presa di coscienza della necessità di unire la persona sola con l’altra per completarla e arricchirla, fino al punto di non poterne più fare a meno. Il bisogno di confronto e d’incontro tra i due, dà valore alla persona e la rende un dono insuperabile, tanto che come afferma il testo, non vi era creatura che potesse eguagliare la presenza di un altro essere umano.

Che cosa sarebbe stato il primo uomo (Adamo) senza la prima donna (Eva)? Difficile darne una risposta esaustiva, ma una cosa è certa, il primo uomo non ne poteva fare a meno, senza sentirsi mancante di qualcosa. Solo questo completamento poteva dare pieno significato e valore alla sua attività di dominatore del creato, collaboratore di Dio.

Questo consente all’uomo di affermare le sue qualità che la solitudine non potrebbe dare per la mancanza di un confronto alla pari da cui scaturiscono attenzione e condi-visione delle proprie scelte.

4.2 La vicenda di Caino

In un altro testo emerge invece la solitudine quale isolamento, pena della mancanza di rispetto per la vita altrui, ancor di più per quella del proprio fratello. Si tratta del rac-conto di Caino che dopo aver ucciso il fratello Abele, non solo tenta la via della men-zogna per nascondere il proprio delitto, ma si mette in atteggiamento di sfida di fronte a Dio. Ma Dio non vuole la morte di Caino, il suo sangue per ripagare quello del fratel-lo. No, la punizione che riceve Caino è un’altra ed è ben presentata dal testo biblico:

“Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti; ramingo e fuggia-sco sarai sulla terra”.

Caino disse al Signore:

“Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono? Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo ed io mi dovrò nascondere lontano da te; io sarà ramingo e fuggia-sco sulla terra e chiunque m’incontrerà mi potrà uccidere”.

Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontra-to. (Gn. 4,12-15)

La paura di Caino non è solo di venire ucciso, come lui aveva operato nei confronti del fratello, teme qualcosa di peggiore: una vita senza punti di riferimento, senza fami-glia, senza il proprio clan, la propria terra, le proprie sicurezze. In altre parole lo spa-venta il proprio isolamento, l’essere una persona che fugge non solo dagli uomini, ma prima di tutto da se stesso. Non si accetta con l’enormità di male commesso, dispera perfino di ottenere il perdono da Dio, sa che la stessa Divinità da lui ingannata con il tentativo d’imbroglio (“non sono il custode di mio fratello”) ora lo allontana. La solitu-dine diviene non semplicemente mancanza di rapporti umani costruttivi e di affetti si-

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curi, ma orrore di se stesso, disperazione per aver commesso il male che lo allontana e lo rende incapace di un recupero della propria identità. Appunto chi è Caino? É solo l’omicida del fratello Abele colpevole solo di essere più gradito a Dio perché più buono e generoso di lui?

Oppure Caino è colui che avendo commesso il male spinto da un istinto di dominio e da un’incontenibile invidia non sa ritrovare dentro di sé quella pace che solo l’amore vero proveniente da Dio può restituirgli col perdono per rinnovare la volontà di rico-minciare una nuova vita all’insegna del bene per sé e per gli altri?

Lo stato della solitudine diviene occasione per un rinnovato incontro con la stessa Di-vinità che non vuole la distruzione della persona di Caino, anche lui creato a immagine e somiglianza di Dio, ma lo mette in condizione di poter ancora riprendere una vita nuova sia pure all’insegna del vagabondaggio per ritrovare quella pace che aveva per-duto commettendo il male di distruggere una parte di sé nel proprio fratello.

Certamente Caino soffre perché si sente solo e avverte il peso del dolore troppo gran-de: ha ucciso, ma non ha risolto la questione della propria vita, non sa accettarsi in questa condizione.

Caino riflette la persona schiacciata sotto il peso della propria autoaffermazione e in-capace di confrontarsi con la realtà soprattutto umana che non può partecipare alla propria affermazione. Distruggere una persona è dominarla senza coglierne il valore e l’originalità, sciupando la possibilità di perfezionarsi e arricchirsi. Voler eliminare la compagnia, in questo caso del fratello, equivale a condannarsi a una solitudine dram-matica e senza via d’uscita col timore di venire, oltre che ucciso, essere messo da par-te e isolato dal resto dell’umanità. La condizione di Caino riflette quella dell’uomo che, non accettando il confronto diretto con l’altro, afferma solo se stesso sentendosi poi davvero solo perché incapace di accettarsi nella bassezza morale di aver soppresso il fratello suo punto di riferimento. Potremmo dire che non si tratta solo di un’uccisione quanto della mancanza di volontà nel saper costruire la propria vita consapevole della necessità degli altri per stabilire un rapporto che permetta un reale confronto nella propria crescita personale e sociale. La solitudine non consiste immediatamente nel sentirsi soli, come Caino fuggiasco e senza una famiglia, quanto nel non saper trovare modalità adatte a integrarsi con gli altri e provare pace e sicurezza per sostenere il cammino della vita.

4.3 L’esperienza di Mario

La solitudine spesso coincide con l’isolamento non tanto sociale quanto relazionale. Che cosa significa? Semplice, una persona non si sente accolta, non avverte la compli-cità degli altri, percepisce l’allontanamento spesso a motivo delle proprie idee o dei propri comportamenti, oppure per il modo con il quale si pone in relazione. É la vicen-da di Mario assai illuminante per farci comprendere la sofferenza profonda nella quale si può cadere quando non si è accettati dagli altri.

Mario è un giovane di circa trent’anni, laureato in ingegneria meccanica e con un buon

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posto di lavoro presso un’azienda del settore. Ha tanti hobby, tra cui quello della mu-sica e delle immersioni subacquee. Perché diciamo queste cose? Per il fatto che il suo problema principale consiste nel sapersi porre in relazione con gli altri. Avverte che nessuno vuole stare con lui, anzi è evitato e si domanda che cosa possa aver commes-so nei confronti delle persone che ha incontrato e con le quali condivide il lavoro, lo sport e il tempo libero. Facciamo parlare direttamente Mario:

“Io posso dirmi fortunato, ho dei genitori che mi hanno permesso di studiare e di laurearmi con il massimo dei voti avendomi dato tanta fiducia e coraggio, non so-lo, ma ho trovato nel giro di pochi mesi un posto di lavoro adeguato ai miei studi che mi permette di sviluppare sempre più le mie conoscenze professionali con la possibilità di avanzare. Non posso proprio dire che mi manchi qualcosa, avverto però che gli altri mi scansano. A dire il vero all’inizio mi sono stati vicini, ho cono-sciuto tante persone, mi hanno invitato a diversi momenti di feste, uscite, gite, ma poi dopo poco tempo mi hanno come dire “scaricato”. Ancora adesso anche con i miei colleghi, al di là della comunicazione propria del lavoro, non ho costrui-to altri rapporti, ci si saluta come si conviene e poi basta finisce tutto lì, mentre so che tra di loro alcuni si frequentano anche fuori dall’orario di servizio. Mi chiedo che cosa posso aver fatto nei loro confronti e ogni giorno penso a qualche mio modo magari sbagliato di parlare o agire o semplicemente caratteriale, ma dav-vero non riesco a darmene una ragione. Forse sono troppo esigente con le perso-ne, non tollero che possano sbagliare, pretendo troppo”.

La confessione di Mario era già un piccolo passo in avanti, il giovane avvertiva il senso di vuoto, soprattutto quando era in casa da solo senza che qualcuno pensasse a lui che lo facesse sentire coinvolto in qualche relazione dove poteva contare qualcosa e sentirsi amato e cercato dagli altri. Gli pareva che avesse un vuoto dentro di sé perché nessuno lo voleva. Era solo una sensazione o era realtà? Provammo un piccolo espe-rimento visto che diceva di non avere né un carattere pesante, né di sfruttare gli altri per ottenere favori e nemmeno di aver spettegolato e mormorato sul loro conto. Allo-ra perché questa solitudine relazionale? Ebbene il nostro esperimento consisteva nel farlo parlare su un argomento di cui lui era ben preparato e osservare come si poneva verso un ipotetico interlocutore. Quale miglior argomento se non i motori di cui era un grosso esperto sia per professione e sia per passione?

Lasciammo parlare a ruota libera Mario nella sua prolissità. Spesso ripeteva più volte un argomento, quasi per dargli maggior importanza. Diceva le caratteristiche di un motore, il suo rendimento nei confronti con un altro in modo assai dettagliato e anali-tico con modi e termini tecnici ma anche ridondanti come se fosse un libro stampato. Era assai difficile potersi inserire nel suo prolungato monologo pesante e poco fluido. Non solo, quando inoltre si provava anche solo a dire una mezza parola differente dal suo discorso, lui riprendeva ancora con maggior veemenza il suo modo tecnico e anali-tico di conversare. Era molto pesante stare ad ascoltarlo perché era quasi impossibile interagire con altre argomentazioni. Metteva nel parlare una notevole carica di emoti-

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vità e di rigidità sulle proprie convinzioni.

4.4 La monoliticità dei suoi ragionamenti

Provammo a cercare un altro argomento, ovviamente non così professionale, quale lo sport, orientando la discussione sul mare e sulle sue immersioni nei luoghi più signifi-cativi d’Italia e d’Europa. Almeno lì magari si sperava in una conversazione meno pro-lissa e più dialogante. Ebbene Mario accettava volentieri di comunicare su questi ar-gomenti, ma poi alle domande di descrivere cosa avesse visto di bello, rispondeva con informazioni tecniche sui fondali, i pesci, la flora e l’attrezzatura subacquea. In altre parole non cambiava gran che nel modo di porsi a monologo. Forse nemmeno si ac-corgeva, ma il suo parlare così freddo quasi senza sentimento e sempre con interventi lunghi e ridondanti rendeva la conversazione complessa e sfuggente. Chiunque dopo una decina di minuti si sarebbe annoiato e non avrebbe più cercato un interlocutore come lui. Come mai Mario parlava così e poi si lamentava di sentirsi solo? Difficile una risposta, solo con diversi incontri arrivammo a una scoperta interessante sulla storia della sua vita. Lasciamo però a Mario di raccontarsi:

“Quand’ero ragazzo mi sentivo messo da parte dalla compagnia di amici perché un po’ troppo imbranato nei giochi, soprattutto a pallone forse perché non ci mettevo grinta e determinazione. Così valga per qualche altro gioco dove gli altri si prendevano in giro o facevano qualche scherzetto. Io ero sempre in disparte an-zi qualche volta criticavo i modi maleducati di qualcuno. Una competizione con i miei compagni che superavo nel rendimento scolastico, dove non avevo difficoltà a riportare valutazioni molto buone in tutte le materie, soprattutto quelle mate-matiche e tecniche. Anzi ritenevo la scuola il primo e forse unico valore per la mia crescita ed ero molto attaccato ai libri. Studiavo perché mi piaceva conoscere ma anche per affermarmi, per dimostrare a me stesso e agli altri che ci sapevo fare e avevo delle ottime valutazioni dagli adulti. Questo mi bastava e mi dava tanta si-curezza. La stessa Università è stata per me abbastanza agevole. Col mio metodo di studio sono riuscito a dare pressoché tutti gli esami nei tempi stabiliti senza perdere tempo e senza mai venir meno nella mia scelta di laurearmi con il massi-mo dei voti rispettando i corsi accademici. É vero forse ho investito tutto nello studio e nella mia professione, ma questo mi è sempre stato facile e spontaneo, mi permetteva di andare avanti tranquillo e vedere con sicurezza il mio avvenire”.

Mario era convinto di aver dato tutto quello che di meglio poteva, pur soffrendo per la mancanza di un rapporto più costruttivo con gli altri. Era solo parzialmente consapevo-le di sviluppare una modalità relazionale a senso unico dove era solo lui a monopoliz-zare il discorso fino a rendere gli altri spettatori e non protagonisti della comunicazio-ne. Soffriva ora per la mancanza di compagnia e potremmo davvero riprendere il det-to del titolo: “Si sentiva solo in compagnia”, perché la sua conversazione era inadatta a sviluppare dialogo, intesa e relazionalità con le altre persone, specialmente negli ar-gomenti in cui era preparato e documentato. Si aveva l’impressione che il suo orizzon-te relazionale e sociale avesse ancora un’anima scolastica come se fosse sempre sotto

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una specie d’interrogazione da parte del professore al quale bisogna rispondere con discorsi ben calibrati e ordinati senza mai sbagliare una parola. Sì, ma tutto questo sembrava (e lo era) una difesa eretta dalla propria intelligenza e volontà contro gli altri dai quali temeva di non venire accettato. Non solo ma si era solidificato in lui, un io molto sicuro di sé in alcuni risvolti tipici della professione o di ambiti nei quali si senti-va inattaccabile.

Ma così un effetto boomerang, lui fuori da questi ambiti rimaneva solo senza relazioni che potessero sopravvivere e dargli senso e valore. Era la sua sofferenza che ammet-teva ma era più forte di lui. Quando si poneva in relazione ecco che usciva, quasi senza accorgersene l’uomo culturato, estremamente chiuso e troppo difeso. Da un lato ciò lo faceva soffrire soprattutto quando comprendeva che la cultura, la professione o an-che l’erudizione scientifica sugli argomenti non erano sufficienti a colmare il bisogno di amicizia, di compagnia e di affetto che avvertiva dentro di sé.

Era un uomo a una sola dimensione: quella della cultura intellettiva, senza emozioni, passioni e sentimenti, vissuta con sofferenza e desiderio di uscirne. Potremmo dire che aveva la sofferenza di Adamo prima della creazione della donna, aveva tutto ma si sentiva solo senza possibilità di condividere il proprio vissuto. Mario aveva tutto quello che altri desideravano, ma non sapeva mettersi in un tipo di relazione in grado di fargli assaporare la bellezza e la ricchezza dei rapporti umani amichevoli che riempiono l’esistenza e le danno tono. Avvertiva la necessità di sentirsi amato per quello che si è davvero e non per ciò che si vuole mostrare. Una parte di sé rimaneva nascosta anche a lui stesso e diveniva motivo di sofferenza e angoscia continua. Un circolo vizioso dal quale non sapeva come uscirne e quando trovava il coraggio di parlarne emergeva la sofferenza di una solitudine col senso di fallimento, forse più percepito che reale. Ca-piva di aver dato troppa importanza alla dimensione culturale per nascondere la pro-pria inadeguatezza e incapacità a costruire rapporti che andassero al di là delle forme e prendessero la sostanza della propria vita. In altre parole riprendendo Adamo lavo-ratore del suolo e ottimo intenditore della terra e degli animali, la compagnia che de-siderava non era certamente un’altra copia di se stesso per continuare in quest’attività, ma un confronto per potersi misurare per crescere e svilupparsi in pie-nezza.

E il nostro Mario? Certamente anch’egli sentiva questo bisogno, ma era come blocca-to, legato al suo passato che non riusciva a uscirne, tutto diventava difficile, gli sem-brava di non poter fare altro che quello di cui si sentiva sicuro. Gli si diceva che aveva sviluppato il bambino buono, ubbidiente agli adulti, laborioso, studioso, disciplinato. Ma il bambino passionale, intraprendente, scherzoso, un po’ trasgressivo e avventuro-so dove era finito? Era solo rimasto bloccato nel suo passato dalle paure di sbagliare piuttosto che da esperienze negative che l’avevano rinchiuso maggiormente su se stesso. E questa tanto desiderata liberazione come poteva avvenire?

Suggerivamo tre linee di comportamento:

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mettersi in ascolto degli altri senza giudicarli perché non preparati su questo o quell’argomento, basta con le competizioni scolastiche, difesa troppo elevata. Do-veva saper stare in gruppo anche con i colleghi e non fare il puntiglioso;

imparare qualche altra possibilità di trascorrere il tempo libero che non fosse il sub piuttosto che la musica classica ordinata e quasi meccanicamente precisa. Quindi magari iscriversi a una palestra piuttosto che a un club per stare con altri anche senza dire tante cose, per condividere con loro qualche attività e rimettersi in gioco;

auto correggersi nei colloqui dicendo tutto in tempi ristretti di quattro o cinque minuti per lasciare all’interlocutore la possibilità di contro argomentare. Poi ri-prendere la discussione con comunicazioni ancora più brevi e senza lasciarsi travol-gere dal vizio di voler tecnicizzare ogni conversazione con termini troppo complessi e inavvicinabili per gli altri.

Mario era su un cammino di vita che lo stava portando ad accettare se stesso nella so-litudine con il distacco dagli altri dettato dalla paura di venire annullato dalla massa e dal timore di non avere una personalità adeguata a reggerne il confronto. Ma la sua personalità invece non voleva ridursi solo a un professionista o a un buon palombaro. Uscire da questa impasse significava scoprire che gli altri sono un dono non un ostaco-lo dal quale proteggersi. Certamente il cammino era ancora lungo, ora Mario era con-sapevole che tali sforzi l’avrebbero rimesso nella giusta compagnia e la solitudine sa-rebbe stata vinta dall’accettazione di se stesso ma ci voleva consapevolezza e deter-minazione.

4.5 Il racconto di Tarcisia

La signora Tarcisia era prossima alla pensione. Era stata per parecchi anni una giornali-sta esperta delle complesse situazioni del Medio Oriente e in generale dell’Asia tra-scorrendo là parecchio del proprio tempo. I suoi servizi, i suoi articoli e quanto aveva scritto e fatto scrivere le avevano dato una notevole credibilità al punto che aveva ri-cevuto attestati di stima anche ad alto livello. Ora aveva però un grave stato di disagio, avvertiva la solitudine relazionale, che cosa sarebbe stato di lei senza più il suo lavoro oramai prossimo a lasciare, anzi in un certo senso già abbandonato perché sostituita da una collega di nuova generazione. Si sentiva perduta, come se la propria vita fosse improvvisamente cambiata per il fatto di non sentirsi più ricercata e non avere più quel successo che l’aveva resa famosa. Che fare ora? Il mondo sembrava crollarle ad-dosso, com’era possibile passare lunghi giorni senza ricevere telefonate, e-mail, chia-mate per incontri vari? Diceva esplicitamente:

“Possibile che nessuno mi pensa più, non mi vogliono, forse che quello che ho scritto era tutto quello che volevano da me? Io però vorrei ancora qualche rap-porto che almeno mi faccia sentire che sono viva, che posso ancora sperare negli altri. Capisco che il mio lavoro andava lasciato ma è altrettanto vero che avevo o credevo di aver costruito tante relazioni con persone che più volte avevano rico-

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nosciuto il valore del mio impegno e mi avevano detto che intendevano restare vicini. Non capisco perché molti mi stiano solo dimostrando freddezza e tendono ad allontanarmi quasi che io voglia chiedere loro qualcosa, domando a me stessa cosa io abbia davvero costruito in questi anni, quando per lunghi tempi sono stata lontano da casa, non ho potuto curare e sviluppare grandi relazioni ed anche là sul posto in diversi Paesi mi sono occupata solo del mio lavoro professionale. Sono davvero in profonda angoscia mi sento sola non tanto perché non ho nessuno, quanto perché messa fuori dagli altri su cui contavo”.

4.6 Il surrogato della compagnia

Tarcisia viveva una solitudine esistenziale nella quale non riusciva a trovare la piena accettazione della sua nuova realtà e dalla quale in un certo senso voleva sfuggire ma non in quel vizio che stava imparando: bere alcolici in modo smodato senza diretta-mente ammetterlo. Veniva allo scoperto di lei una realtà che l’aveva accompagnata in tutti gli anni vissuti fuori in Paesi lontani, la compensazione a un vuoto che, sia pure con un tacito silenzio, ammetteva:

“Ho avuto molto ma non mi sono accettata fino in fondo, sapevo che dovevo sta-re lontano da casa e dalle persone care per lungo tempo. Ogni tanto però sentivo il bisogno di una presenza, non bastava il telefono piuttosto che le chat così come volevo degli incontri più umani e meno spersonalizzanti finalizzati solo a produrre notizie, a scrivere articoli che poi avevano una resa economica. Mi sentivo usata e da lì ho avvertito il vuoto, la solitudine con me stessa, sembravo una macchina dentro un enorme ingranaggio comandato a distanza anzi programmato”.

Tarcisia è una signora molto credente e sicuramente la componente della fede, con l’abbandono alla Provvidenza divina le è stata di grande sostegno. Credere nel proprio lavoro, impegnarsi in una professione che alla base ha la verità dei fatti e l’interpretazione corretta di notizie senza tendenziosità o strumentalizzazione, costi-tuisce la base etica per la realizzazione personale. Ciò le ha dato sicurezza e soddisfa-zione ed è in linea con una coscienza sensibile e attenta ai valori morali. In questa di-rezione Tarcisia si sentiva tranquilla, mai si era approfittata del suo lavoro con notizie magari pure interessanti che avrebbe potuto fornire ad altri in cambio ovviamente di favori. No, si era mantenuta seria, fedele e corretta in ogni situazione, ma avvertiva da lungo tempo un vuoto esistenziale. Per lei solitudine equivaleva:

“É vero mi sono sentita tante volte sola perché mi mancava qualcuno con cui po-termi confrontare, un ascolto fatto con il cuore e la volontà di darmi anche solo una parola di conforto o semplicemente un gesto di tenerezza che mi facesse sen-tire importante per quello che sono non solo per quello che gli altri mi valutano professionalmente”.

É la chiara ammissione della necessità della cosiddetta compagnia, una dimensione esistenziale della quale non si può fare del tutto a meno, pena rimanere soli con se stessi in modo negativo cercando compensazioni sbagliate sul piano fisico e psicologi-

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co. La dipendenza dell’alcol, prima forse solo parzialmente accennata, diveniva ora, con il lavoro che si chiudeva, un dramma esistenziale per sanare una solitudine sem-pre più pesante: essere sola con se stessa senza accettarsi fino in fondo con la propria storia passata.

Qui ci volle la forte carica di spiritualità di Tarcisia influenzata anche dalle esperienze in Medio Oriente sulla protezione divina nel cammino del deserto. É vero che il deser-to come tale è luogo di desolazione, di aridità ed è simbolo della mancanza di vita ve-getale e spesso animale. Diviene però, grazie all’azione divina, anche il luogo dell’incontro tra l’uomo solo, affaticato, assetato e affamato con la Parola ossia con Dio stesso che proprio lì si rivela per quello che è davvero: Colui che protegge ciascuno perché realizzi il disegno preparato per lui. Non siamo mai soli quando c’è la consape-volezza che Dio è dentro di noi. Tarcisia aveva di fronte come un’icona, il sogno di Gia-cobbe il patriarca del popolo eletto che a Betel quando era inseguito dal fratello Easù al quale aveva usurpato il diritto di primogenitura, si fermò per dormire e lì ebbe una visione divina con queste parole:

“… Ecco io sono con te e ti proteggerò dovunque tu andrai; poi ti farò ritornare in questo paese, perché non ti abbandonerò senza aver fatto tutto quello che t’ho detto”(Gn.28,15).

La certezza interiore di non essere mai abbandonata e di avere le risorse necessarie per affrontare il cammino della vita costituivano per Tarcisia la base per riprendere a vivere e lottare affermando il valore del proprio vissuto, dono meraviglioso nel quale aveva potuto conoscere un mondo straordinario e sentirsi parte di un progetto che andava ben oltre le proprie attese. Dio era non lontano da lei, ma dentro di lei ispirava ogni sua scelta fino al punto da renderla sicura anche da sola, senza né la professione, né i cosiddetti amici colleghi e dirigenti. Sì, poteva farcela ad andare avanti, poteva acquistare pienezza il proprio vissuto fino a farne dono agli altri, alle persone che ora poteva avvicinare senza la difesa o la maschera della sua alta professionalità. Si mette-va in gioco come donna che, accettando se stessa senza il timore d’essere sola, ritro-vava nella solitudine di una lunga riflessione sul proprio vissuto la voglia e lo slancio per una ripresa esistenziale di alto livello.

Era, si può dire, finalmente libera da un mito creato dal suo personaggio per riacqui-stare dignità e intraprendenza per il nuovo percorso di vita. E il bere? Stava iniziando ad accettarsi così senza nascondere questa sua scorciatoia pericolosa per sé e per gli altri e nella consapevolezza che la propria vita stava cambiando. Le era possibile ri-muovere la causa principale del suo disagio: la paura di non essere accettata per quel-lo che non mostrava agli altri: l’insicurezza. Certamente in Tarcisia c’era la componen-te adamitica della lavoratrice molto capace di dare nome a tutto ciò che faceva, così come la consapevolezza che la vita è sempre aperta alla novità.

Il suo solo limite era di aver mascherato per troppo tempo il bisogno reale e consisten-te di una compagnia che gli fosse simile, non tanto nella professione (ne aveva fin

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troppe), quanto nella condivisione del proprio vissuto immettendovi il sentimento, la passione, la carica affettiva che danno alla vita il giusto sapore di un dono e della piena realizzazione delle proprie potenzialità. Sentirsi soli non è semplicemente non aver ac-canto nessuno, quanto accorgersi dell’isolamento affettivo e psicologico nel quale ci si trova a vivere.

Sì è vero, a una giornalista come Tarcisia non mancava certo la compagnia degli altri, ma la vera compagnia che permette ad una persona di aprirsi e mettersi a confronto facendo uscire le proprie sensazioni e il proprio io interiore non era ancora riuscita a trovarla e questa assenza diveniva la concausa di tutti i suoi disagi.

4.7 Gli errori di Gertrude

Abbiamo riportato esperienze di vita assai aderenti alla vicenda dell’Adamo bisognoso di trovare l’aiuto simile per condividere quanto stava vivendo. Ora vogliamo riportare la vicenda di una signora quarantacinquenne caduta in una situazione di errore dal quale intende uscirne.

Gertrude è una signora sposata e madre di due figli adolescenti che vive una situazio-ne davvero drammatica. Attivandosi con investimenti errati e mal consigliata ha di fat-to dilapidato il patrimonio della propria famiglia d’origine con buone risorse essendo entrambi i genitori titolari di una grossa azienda. Lo stesso patrimonio del marito è stato messo a dura prova, poiché Gertrude l’ha convinto a darle un aiuto è si è trovato dentro una situazione disastrosa nella quale ora deve far fronte a un enorme debito che rischia davvero di far precipitare la famiglia in un baratro.

Gertrude sa di aver sbagliato e nella sua realtà d’imprenditrice mal guidata e quindi fallimentare, vive il dramma della solitudine. Dove sono i tanti consiglieri che promet-tevano affari su affari e le dimostravano attaccamento, attenzione se non addirittura amicizia? Sono spariti tutti, quando hanno intuito che la cassa di Gertrude si stava rimpicciolendo e i tanti aiuti ricevuti anche da altri parenti erano oramai verso la fine, hanno preferito “darsi alla macchia”. Gertrude ha provato a cercarli se non altro per domandar loro come uscire da un’impasse economica di queste proporzioni, ma più nessuno si è fatto vivo se non per reclamare qualche pagamento di onorari e rimborsi spese non ancora saldati.

Davvero la signora è andata in crisi non solo sul piano finanziario, ma su quello esi-stenziale al punto che pensava addirittura di voler farla finita, “tanto sono una fallita e più nessuno mi crede e ha fiducia in me”. É vero che a fianco del suo flop economico ve n’è un altro di carattere morale ben più grave e pesante. Lei per tanto tempo ha nascosto la verità, ha minimizzato sulle reali condizioni economiche delle sue attività d’imprenditrice e quel che è peggio ha illuso il marito della possibilità di un sostegno che poi sarebbe stato restituito in tempi brevi senza conseguenze per le finanze fami-liari.

Ebbene lei stessa ammette di aver mentito, di aver voluto agire mossa da un lato da un ipotetico sogno di potenza e dall’altro da consigli dati da altri di cui aveva fiducia e

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sui quali contava per rilanciare l’azienda familiare e per affermarsi professionalmente. Una storia che durava da anni e che l’aveva trovata sempre divisa, da un lato credeva nel suo ambizioso progetto di rilancio aziendale con grossi e sproporzionati investi-menti, dall’altro temeva il giudizio e il conseguente blocco se tutta la verità fosse ve-nuta a galla di fronte ai suoi genitori che si fidavano del suo operato e di fronte al ma-rito, persona buona e disponibile nei suoi confronti.

Ora che è crollato tutto il suo “castello incantato”, Gertrude sperimenta la solitudine dell’abbandono e comprende come le tante persone che aveva intorno fossero so-stanzialmente interessate al patrimonio da prendere piuttosto che a lei persona da guidare con lealtà e diremmo senso di giustizia. Da un lato i cattivi consiglieri se ne so-no andati e con loro tanti cosiddetti “amici” buoni per le feste e le varie iniziative da lei organizzate, ma dall’altra parte anche i suoi familiari e il marito non hanno più fi-ducia in lei e l’hanno proprio messa da parte.

4.8 La solitudine del cuore

Viene direttamente accusata soprattutto da Tiziano, il marito, di essere una rovina e una bugiarda con la quale lui ha vissuto tanti anni senza accorgersene. Gertrude è ca-duta nel baratro non solo economico d’essere allo scoperto di fronte a creditori esi-genti nei suoi confronti, ma quel che è peggio non ha una “spalla” su cui piangere e un viso su cui contare, è sola nella sua sofferenza. Ascoltiamone un passaggio del suo lungo racconto:

“Non ho più il coraggio di guardare in faccia i miei genitori, molto mi hanno dato soprattutto la fiducia a rappresentarli nelle varie operazioni aziendali e io li ho ri-pagati con la bugia e con il fallimento sul piano economico e morale. Come farò a uscire da una situazione come questa, come potrò farmi perdonare i miei errori, in che modo dire loro la mia testardaggine e la mia impuntatura su persone che sicuramente papà non avrebbe preso nemmeno come semplici fattorini. Eppure mi hanno ingannata, o meglio il mio orgoglio non mi ha permesso di vedere la realtà, ho solo inseguito il sogno di divenire una grande e affermata donna im-prenditrice. Non ho saputo dare il giusto peso a tante voci e pareri discordanti con le mie scelte che si sono invece sempre più concentrate su persone scaltre e scor-rette. Non solo ma anche verso Tiziano ho mancato nel presentargli una situazio-ne tranquilla dove avrebbe semplicemente anticipato del denaro che in pochissi-mo tempo avrebbe riavuto anzi gli dicevo con qualche aggiunta, perché grosso af-fare.

E ora come fare a presentarmi di fronte a lui che si è chiuso in un silenzio impene-trabile che mi parla in modo assai potente e decreta la mia uscita dalla sua vita. Davvero non so cosa fare, sono stata abbagliata da sogni e desideri irrealizzabili nei quali ho creduto per lungo tempo e per questi ho mistificato i fatti. Ora avver-to la solitudine più dura, essere sola senza sapermi perdonare di fronte e me stes-sa per aver commesso simili errori e senza poter dire o agire per rimediare al mio

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recente passato. Che senso ha ancora vivere così, il mondo mi crolla addosso for-se l’unica mia speranza sono i miei ragazzi almeno loro forse sapranno darmi an-cora fiducia e credere in me”.

Gertrude aveva necessità di lasciare libero sfogo ai suoi sentimenti negativi, alla gran-de rabbia che portava dentro di sé e al suo disagio esistenziale che la attanagliava im-pedendole una valutazione razionale e ben ordinata dei fatti e delle persone che l’avevano portata fin qui. Diveniva difficile e complesso qualsiasi intervento, conside-rata l’impenetrabilità del suo animo così amareggiato che non voleva ascoltare altro che la voce della colpa e del terribile senso di vuoto della sua vita.

Ci volle qualche tempo, alcuni mesi, prima di poter consigliare a Gertrude di scrivere una e poi un’altra lettera sia ai genitori e sia a Tiziano nelle quali esternare la vera real-tà affermando chiaramente che il male da lei procurato era derivato dall’inganno arti-ficiosamente montato dai suoi consiglieri responsabili della mistificazione nei loro ri-guardi. Non fu facile la stesura di queste lettere sapendo che doveva prima domanda-re perdono per poi riprendere la vita con un’altra opportunità.

Ma prima era indispensabile condividere con le persone care, cui ancora tanto teneva, il disagio e la profonda sofferenza nella quale era caduta:

“in ogni momento della giornata, qualsiasi cosa faccia il mio pensiero è rivolto a voi che vi vedo dietro l’oscura lente dell’inganno, dietro la terribile realtà della menzogna e, quel che è peggio, senza nulla pretendere se non almeno la compas-sione per i miei errori troppo gravi per trovare una giustificazione e troppo evi-denti per essere minimizzati o resi di colpa altrui. Non solo ma il mio tormento che accompagna il tempo che passa è il sentimento di dolore e solitudine per avere perduto il bene prezioso della fiducia delle persone che mi hanno generato e gui-dato, così come quello della persona che mi ha amato fino a voler diventare mio marito e padre dei figli”

É vero in Gertrude la solitudine era riempita come dai fantasmi del proprio passato, ri-vedeva come fossero immagini cinematografiche tutte le sue scelte, i suoi errori e si ripeteva le pesanti storie raccontate un po’ a tutti per giustificare le sue presunte deci-sioni “strategiche” per rilanciare l’azienda. Il ricordo struggente degli incontri, delle parole dette con la maliziosa convinzione di convincere, delle tante operazioni condot-te dissennatamente, divenivano una tortura che faceva male e ma di cui non poteva fare a meno per i ricordi ancora troppo vivi e forti. D’altra parte desiderava una via uscita a una solitudine del cuore pronto ancora a trasmettere amore senza inganni.

In lei il mito della donna forte, in carriera e capace di superare tutti aveva prevalso sul-la donna amabile, generosa, sincera e vera che era stata sepolta sotto una catasta di bugie che mascheravano il suo vero e unico obbiettivo: saper amare e trovare nel la-voro la possibilità di realizzare il suo desiderio di servire gli altri nel bene.

Diciamo pure che Gertrude era stata vittima e carnefice di se stessa, non certamente degli altri, era come se avesse preso una specie di dose eccitante che l’aveva fatta so-

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gnare con l’occhio di una fanciulla e non con l’avvedutezza di una signora laureata e assai preparata per la sua professione. Come mai questo cedimento? Semplice, ed era lei ad arrivarci:

“mi sono illusa di me stessa, avevo lasciato un po’ la famiglia visto che i ragazzi erano oramai grandini e mio marito se la cavava bene e mi ero messa di più in azienda permettendo ai miei di uscirne visto l’età avanzata. Questo era l’antefatto, io sognavo il successo, anzi volevo vincere una sfida su me stessa e dimostrare anche di fronte agli altri le mie capacità sicuramente enfatizzate. Ma alcuni mi hanno convinta che certi passaggi di denaro e alcune operazioni di ac-quisizioni di beni ci avrebbero dato moltissimo e io avrei per prima portato avanti il tutto in modo impeccabile. Erano tutte frottole, ma ben raccontate, sicuramen-te gli affari li hanno fatti gli altri alle mie spalle ed io m’illudevo e volevo diffonde-re tali illusioni. É giusto in me era uscita la bambina sognatrice che non si era mai spenta, aveva solo bisogno che qualcuno raccontasse ancora favole ed io ci ho creduto. Solo che le favole di bambina restano lì nei sogni mentre quelle degli adulti causano disagi, sofferenza e quel che è peggio distruggono ogni bene che una persona in una vita ha costruito. Le aziende e i soldi passano anche in fretta. L’affetto, l’amore e la stima sono insostituibili e senza alcun compenso finanzia-rio”.

Gertrude recuperava la voglia di vivere da adulta sbarazzandosi non tanto della fanta-sia passata quanto invece della paura di presentarsi per quello che era, non semplice-mente un’operatrice che ha fallito economicamente, quanto una persona fragile. Non ha ascoltato il cuore che parla ma solo l’intelligenza che specula ma non riempie il vuoto della persona che non si sente amata e accettata per quello che è. Forse Ger-trude non sarà mai una capitana di industria e nemmeno una geniale stratega di alta finanza, ma è una persona che sa di poter dare amore e riceverlo.

Il suo lavoro è il prolungamento della volontà di confrontarsi con onestà, coraggio e determinazione con gli altri. Non tutti i traguardi sono raggiungibili, ma la grandezza non è superarli ma superarsi nel saper accettare i propri limiti con le risorse modeste che ciascuno possiede senza recriminare e senza cercare obbiettivi “consigliati” da al-tri. Purtroppo vi sono sfruttatori capaci di prendere in mano una situazione senza dare una vera compagnia alla persona caduta ma anzi lasciandola nel vuoto a sperimentare il senso della propria inutilità.

Lì Gertrude era precipitata e la sua risalita è stata faticosissima e piena di sofferenza non solo sul piano psicologico, ma anche su quello sociale. Abituati tutti a valutarla come una persona sicura e piena di risorse, ora, per farsi davvero amare e trovare con-forto, doveva lasciarsi amare per quello che era con i suoi limiti, i suoi errori e la voglia rinnovata di ricostruire un’altra esistenza.

Siamo così lontani dal Caino “distruttore” degli affetti più cari e ingannevoli anche nei confronti della Divinità? Certamente no, anche Gertrude era sprofondata nel baratro

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della solitudine relazionale, era fuggiasca non perché andava per monti e valli, ma perché fuggiva da se stessa, al suo io interiore che la voleva differente dall’immagine che si era costruita e nella quale forse ci aveva creduto vanificando ogni residuo bene nei suoi confronti.

Caino non aveva i consiglieri fraudolenti, ma aveva l’istinto del dominio nutrito dall’invidia verso il fratello migliore. Gertrude voleva anche lei dominare non tanto i suoi familiari ma il progetto di un protagonismo femminile più elevato di altre persone e accarezzava il sogno di vincere sugli altri in quanto ad affari e beni materiali. Ciò, come Caino, l’aveva portata a mancare di umiltà e senso della realtà, anche quando al-tri le avevano fatto notare errori e sbagli nella conduzione delle sue attività, da lì le bugie difensive del proprio operato senza rendersi conto delle conseguenze di questo agire.

Caino era restato senza la propria famiglia oramai lontana anche geograficamente, Gertrude si era allontana con il proprio sentimento perché traditrice della fiducia ac-cordata. La riconquista di questa fiducia era operazione complessa, dura ma alla fine unica via di uscita per recuperare la compagnia vera, unico punto di riferimento per la propria esistenza. Un lavoro che Gertrude si accingeva a raggiungere iniziando dalle lettere scritte nella piena consapevolezza dell’ammissione dei propri errori, con il de-siderio di crescere facendosi aiutare dai suoi più che mai disposti a non lasciarla sola in questo frangente. In ogni caso era molto dura la ripresa di un rapporto sfilacciato nel tempo e che doveva più che mai ricostruirsi sulla base della volontà di cambiare rimet-tendosi in discussione nel reciproco bisogno di ritrovare l’unione tra le persone dopo la lunga pausa di riflessione che la vita in disparte aveva favorito in Gertrude.

5 La solitudine nel sentirsi soli

Sentirsi soli è quanto di più pesante possa avvenire, non semplicemente perché nes-suno ti cerca o ti guarda, ma perché ci si sperimenta l’inutilità. Sembra che il mondo giri senza di me, che tutto si faccia senza la mia presenza, in altre parole si avverte l’inutilità del proprio essere al mondo. É solo una sensazione o è una triste realtà? Prendiamo spunto da due brani raccolti dalla Sacra Scrittura dai quali estrarre una ri-flessione su questi punti.

5.1 Solitudine e compagnia da esperienze bibliche

La vicenda di Giobbe

Persona assai ricca e potente è presentata come una persona di successo che aveva tanti beni materiali soprattutto bestiame e possedimenti. Non solo ma aveva una nu-merosa famiglia, segno della benedizione divina, era considerato giusto e da tutti ri-spettato e ascoltato come persona saggia e assennata. Ebbene Giobbe è messo alla prova e subisce ogni genere di disgrazia dalla perdita dei beni materiali, fino alla rovi-nosa scomparsa dei figli e una terribile malattia fisica simile alla lebbra che lo costringe a vivere isolato in una specie di lazzaretto fuori dal suo villaggio, solo e abbandonato.

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Tutto quello che aveva, le sue sicurezze economiche, familiari e sociali nonché il ruolo di stima e rispetto pubblici vengono meno. Nemmeno più la moglie gli è solidale per-ché gli dice apertamente:

Rimani ancor fermo nella tua integrità? Benedici Dio e muori! (Gb.2,9).

Giobbe avverte il dolore più profondo, il rifiuto, non sa più su chi contare e dall’altra parte comprende che tutti i suoi amici, e gliene rimangono solo tre, che altro non fan-no se non accusarlo e cercare dalla sua vita episodi sui quali concentrare la loro atten-zione per trovare motivi che giustifichino quella che intendono una “punizione” divina. Più che consolarlo tendono a colpevolizzarlo con il senso di una giustizia divina che vede oltre le cose umane:

Felice l’uomo, che è corretto da Dio; perciò tu non sdegnare la correzione dell’Onnipotente, perché egli fa la piaga e la fascia, ferisce e la sua mano risana”. (Gb.5,17-18).

La solitudine di Giobbe diviene fonte di ulteriore dolore quando sente attorno a sé persone che reputava vicine e amiche che altro non fanno se non mettergli dubbi sul-la sua condotta e cercare situazioni nelle quali mostrargli errori per i quali deve espia-re. É la stessa voce di Giobbe che parla:

Pietà, pietà di me, almeno voi miei amici, perché la mano di Dio mi ha percosso! Perché vi accanite contro di me, come Dio, e non siete mai sazi della mia carne? (Gb.19,21-22).

É il grido non solo di un malato vicino alla fine, quanto di una persona che si sente “di-sturbata” nella propria solitudine da altri che vengono non per condividere, ma per trovare a tutti i costi motivazioni che portano a giustificare il suo stato. A un dolore se ne aggiunge un secondo quello del giudizio provocato e pesantemente condotto nei suoi confronti. Sarà soltanto il profondo e mai spento rapporto con Dio a restituire a Giobbe la volontà di affrontare la vita sapendo che la miglior compagnia è quella di Colui che tutto può e guida ciascuno con la Sua mano provvidente. Egli va oltre le atte-se umane e vede quello che l’occhio di ciascuno non è in grado di scorgere. É Giobbe stesso che dopo la lunga esperienza della sofferenza e della solitudine relazionale con gli altri potrà affermare:

Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te. Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo penti-mento sopra polvere e cenere.(Gb.42,2.4).

La solitudine più nera è quella dove non si scorge la minima luce di speranza e dove non s’intravvede una sia pur piccola via di uscita. Giobbe ridotto a malato e fatto og-getto di pesanti valutazioni da parte dei suoi amici avverte la necessità di uscire da questa situazione e si mette nelle mani divine sapendo confidare solo in Colui che riempie la vita di ciascuno a volte in modo misterioso ma reale, occorre non perdere la fiducia in Lui nonostante le tante disgrazie che possono accadere.

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Una donna chiamata Tabità

Molto differente è invece la storia che è riferita negli Atti degli Apostoli durante il mi-nistero di Pietro tra la gente della Terra d’Israele. É bene riportare il brano.

A Giaffa c’era una discepola chiamata Tabità, nome che significa “Gazzella”, la quale abbondava in opere buone e faceva molte elemosine. Proprio in quei giorni si ammalò e morì. La lavarono e la deposero in una stanza, al piano superiore e mandarono a chiamare Pietro. Appena arrivato lo condussero al piano superiore e gli si fecero incontro tutte le vedove in pianto che gli mostravano le tuniche e i mantelli che Gazzella confezionava quando era fra loro. Egli le diede la mano e la fece alzare, poi chiamò i credenti e le vedove, e la presentò loro viva. (At.9,36-41).

Abbiamo malattia e scomparsa di una donna della comunità cristiana delle origini. Di lei brilla la carità, la squisita attenzione verso tutti con opere di solidarietà e sensibile attenzione alle necessità di chi era più bisognoso. Ebbene, attorno a questa donna si forma un circolo non solo di amici, ma diremmo di familiari che oltre a piangere la sua improvvisa e prematura scomparsa si attivano affinché costei possa, se è in volontà di-vina attraverso il primo degli Apostoli, recuperare la propria vita. É il segno di una ca-pacità straordinaria di sostenere una persona perché non abbia mai a sentirsi né sola né abbandonata, ma valorizzata dalla Comunità divenuta il proprio punto di riferimen-to.

É lì che Gazzella vive non solo fisicamente, ma viene come assunta nella dinamica co-munitaria al punto che non possono più fare a meno di lei. Solitudine potrebbe sem-brare sinonimo di abbandono mentre compagnia equivale a inserimento. Sì, Tabità detta Gazzella per la velocità nell’agire a favore degli altri fa parte della vita di un gruppo, è entrata dentro gli altri non sarà mai sola. La stessa sua scomparsa avrebbe solo portato a un ricordo vivo, a una ripresa continua del suo vissuto così intenso, vero e capace di sprigionare il vento dell’amore che diviene il miglior alleato per ogni tipo di compagnia che sia in grado di restituire dignità e rispetto massimo a ogni persona.

Sono molto diverse le situazioni, Giobbe subiva la mancanza di solidarietà, anzi in un certo senso vi era nei suoi confronti un giudizio forse dettato dalla sua condotta di vita irreprensibile ed esemplare capace anche di sviluppare sentimenti d’invidia e cattive-ria verso di lui. Gazzella invece era divenuta familiare a tutti e ciascuno per lei si sa-rebbe dato da fare affinché potesse ancora vivere e ben operare per la Comunità. Ora nelle circostanze che la vita riserva, ci si può trovare a provare gli stessi sentimenti di Giobbe piuttosto che sperimentare la solidarietà di altri per sostenere la propria esi-stenza.

5.2 Le testimonianze dei molti Giobbe d’oggi

L’amarezza di Carlo

É vero che sono molte le persone in solitudine che sperimentano l’abbandono. Ne vo-gliamo riportare tre che attualizzano il messaggio di Giobbe purtroppo anche nella vita

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d’oggi.

Carlo un simpatico anziano non aveva figli e si era dato molto da fare per aiutare un nipote, figlio del fratello. Questo giovane da poco sposato aveva necessità di costruirsi una degna abitazione e chi meglio dello zio lo poteva aiutare, dal momento che per anni aveva diretto un’impresa edile e non gli mancavano le forze nonostante la pen-sione. Per lui poi era quasi un passatempo, avendo perduto la propria moglie qualche anno prima. Almeno si sentiva valorizzato e dava il suo tempo per il bene della fami-glia del nipote.

Così iniziò proprio materialmente a costruire la casa del nipote senza mezze misure e con tanta passione, sembrava un giovane alla sua prima esperienza. Dall’altra parte il nipote non gli faceva mancare niente sia come supporto tecnico che come vicinanza e affetto. Non solo lui ma anche la moglie e la famiglia di lei gli dimostravano ricono-scenza. Passò qualche anno e il nostro Carlo ebbe una malattia che ne riduceva alcune capacità motorie, in altre parole aveva bisogno di un po’ di assistenza per poter bada-re a se stesso in modo adeguato e dignitoso. Su chi avrebbe potuto contare? Eviden-temente sul bravo e generoso nipote, che ora viveva nella bella e ampia casa da lui co-struita tra l’altro non lontana se non qualche centinaio di metri dalla sua abitazione. Le cose andarono così, ne siamo sicuri? Non ci resta che ascoltare direttamente Carlo:

“Nessuno pretende dagli altri, ma come è vero che sono vivo e che mi sono dato da fare, almeno un po’ di attenzione l’avrei voluta nei miei riguardi. Da quando mi sono ammalato mio nipote Rinaldo ha diradato la sua presenza. Sì, in ospedale veniva anche la moglie e mi chiedeva che cosa avessi bisogno, mi hanno portato anche alle visite di controllo, ma quando hanno visto che facevo fatica a muo-vermi e che occorreva assistenza hanno lentamente diradato la presenza pren-dendo tante scuse. Sembra che io sia un peso per loro che in fondo dicono sono solo i nipoti. Che cosa possono fare, ci pensino i servizi sociali.

Loro hanno fatto abbastanza e non se la sentono di mettersi anche a mio servizio. Direttamente queste parole non me le hanno dette, ma parlando così a un altro parente ma è chiaro dove vogliono che arrivi il messaggio. É per me un dispiacere enorme. Avevo contato su di lui se non altro perché mio fratello l’aveva tirato su bene, anzi eravamo molto uniti e adesso per lui non sono più neanche lo zio. É ve-ro i malati danno fastidio, ma io non chiederei nulla se non un po’ di attenzione e una parola affettuosa che mi dia un po’ di serenità. Ho bisogno di poter contare almeno sui miei nipoti. Non mi mancano né i mezzi né le occasioni per trovare qualche brava donna che mi assista e posso anche rivolgermi al Comune, ma i miei cari sono loro e qui ci si dimentica dei legami e della riconoscenza”.

Quali i sentimenti del nostro Carlo? Certamente aveva tanta amarezza verso il nipote, anche se si può dire che poi aveva trovato volontari che nei suoi confronti gli avevano dimostrato solidarietà e amicizia. La sua preoccupazione costante era l’essere solo, passare le giornate senza che i suoi pochi parenti facessero qualcosa per lui e rimugi-

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nava il ricordo del suo lavoro generoso per costruire la casa senza quasi nulla chiedere se non i costi vivi del materiale e di poco altro.

Quante attese e che delusione! Davvero Carlo era caduto in una forma di depressione e la solitudine in cui viveva gli pesava enormemente. É vero, non gli mancavano amici e conoscenti specialmente in un paese dove era conosciuto, ma il conforto di persone su cui hai puntato e ti deludono è assai pesante da sopportare. Carlo si stava rinchiu-dendo in se stesso, capiva la lontananza del nipote e della sua famiglia. Ne avevano sfruttato la parte migliore, le sue energie e ora lo lasciavano a se stesso semplicemen-te per non essere tirati dentro la sua malattia e dover eventualmente interessarsi alle sue cure ed all’assistenza che sempre più sarebbe diventata necessaria e consistente. Non era lontano dai sentimenti di Giobbe, in fondo anche lui si chiedeva il perché e trovava solo una risposta vaga e diremmo deludente nel constatare, a monte di tutto, l’egoistico pensare a se stesso del nipote e il suo senso di opportunismo. Più che di so-litudine dovremmo dire malinconica sofferenza nella difficile accettazione delle man-canze altrui.

La testimonianza di Edgarda

La signora Edgarda era una simpatica anziana ultra novantenne, ancora gagliarda, sa-peva conversare con tutti in modo sciolto e sicuro. Parlava quasi sempre del suo pas-sato, dei suoi familiari, del lavoro nei campi condotto nelle campagne napoletane e di ogni altra passione che l’aveva poi portata nel tempo a divenire una donna di città sposata con due figli e vedova da diversi anni. La sua salute, tutto sommato, buona ne riduceva soltanto la deambulazione piuttosto precaria con la necessità di un girello e in certi momenti per grandi spostamenti sulla sedia a rotelle.

Ma non era poi così sola visto che i due figli continuamente l’assistevano e non le fa-cevano mancare nulla, anzi avevano perfino inserito in casa la governante per darle il necessario aiuto. E allora perché spesso piangeva e si lamentava? Forse effetto della sua malattia o stato di depressione? No, la tristezza che accompagnava Edgarda e l’abbatteva consisteva nella delusione per le persone che aveva favorito in tanti modi. Di che si tratta? Ascoltiamone la testimonianza:

“Sono sempre stata di carattere aperto e quando potevo aiutavo gli altri, anche mio marito era così, faceva del bene e non lo voleva dire a nessuno. Quante per-sone mi hanno chiesto un aiuto anche sul piano economico e dove potevamo glie-lo abbiamo dato e non erano solo i parenti, ma anche amici e perfino vicini. Mai nessuno è venuto a casa mia ed è uscito a mani vuote. Il fatto che avevamo un piccolo negozio di ortofrutta, quanta ne abbiamo regalato ai vicini che venivano anche solo a salutarmi, così come non ci siamo tirati indietro per organizzare fe-ste per i parenti. Anzi mi ricordo che quando qualcuno dei miei compiva gli anni noi eravamo i primi a fare gli auguri e ovviamente il regalo.

Che cosa voglio dire? Niente di più che di un po’ di attenzione. Sono anni, da quando ho perso un po’ le forze, che i miei vicini e amici, a volte i figli dei miei cari

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non mi parlano. Se mi vedono, un saluto formale e nulla di più, mai che qualcuno venga anche solo a fare quattro chiacchiere o semplicemente a chiedere come sto. Hanno forse paura che chieda loro qualcosa, ho tutto: i miei figli non mi la-sciano mai, sono davvero carucci, ma che delusione da vicini, amici e parenti vari! Fanno come se io non ci fossi e quante volte mi sono chiesta che cosa ho fatto di male verso di loro. Non credo di aver mancato nei loro riguardi, mai ho spettego-lato. Sono chiusi in se stessi ognuno pensa ad andare avanti e io è come se fossi morta. Questo mi fa soffrire e sentendomi sola in certi momenti rivedo le mie azioni, il ricordo del mio impegno verso di loro e che cosa ne ho ottenuto? Che mi hanno dimenticato ed è per me un grande dolore”.

Sì, il dolore di Edgarda sembrava non esistere perché era davvero in una buona posi-zione anche sul piano assistenziale ed economico, ed era pure nel suo appartamento in mezzo alla gente conosciuta da lunghi decenni. Eppure viveva ogni giorno una soffe-renza nascosta, il senso di solitudine relazionale, l’abbandono da parte di persone che avrebbero potuto e dovuto semplicemente con un gesto di tenerezza e uno sguardo di affetto darle conforto.

Come a dire che non basta una situazione ottimale sul piano tecnico. Sentirsi soli è ri-manere senza alcun contatto. Da qui la sofferenza e la delusione di Edgarda provata da questa situazione. A differenza di Carlo non bisognava provvedere alla sua assisten-za, ma solo a darle un po’ di conforto e di pace attraverso gesti di solidarietà oggi pur-troppo scarsi per il ritmo di vita intenso e individualista nel quale tutti viviamo. Come non accorgersi della vicina, che si conosce da anni e si è dimostra gentile, affabile e generosa, per offrirle almeno un caloroso saluto e un momento di compagnia?

Forse non ci pensa oppure è si troppo proiettati sui propri bisogni e si dimentica la vecchietta perché non può più dare quello che dava prima ... sì ma la riconoscenza? Siamo allo stesso punto di Carlo. Quando si dà con amore e gratuità spesso si riceve solo indifferenza e freddezza. É triste constatarlo ma è vero, forse dice bene la nostra simpatica Edgarda sulle persone che conosce da anni. Un tempo le dimostravano tan-to affetto, lei mai si era tirata indietro. Ora però sono diventate egoiste, rinchiuse in se stesse, mentre allora potevano prendere e forse anche pretendere. É il ritratto di un modo di vivere oggi diffuso perché comodo e senza l’apparente responsabilità di prendersi cura degli altri anche solo per un consiglio o per l’ascolto paziente di un rac-conto già detto tante volte o per un gesto di affetto fatto solo per amore e non per un interesse. É troppo chiedere tutto questo a qualcuno che finge di non conoscere per-sone come l’Edgarda?

Forse indifferenza e freddezza sono le migliori risposte per una qualità di vita, quando invece la compagnia delle persone potrebbe favorire il superamento della solitudine soprattutto a chi si sente abbandonato, sfruttato e dimenticato perché non ha più nul-la da dare?

É una forte riflessione per i lettori perché pongano attenzione a non essere come i vi-

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cini e gli amici di Edgarda.

La difesa di Piera

Piera è una pensionata settantenne apparentemente senza alcuna difficoltà nella vita perché ha i figli grandi, fuori casa, ben sposati, che vede poche volte perché vivono lontano con le loro famiglie. Ha buona salute, una discreta pensione e la casa di pro-prietà. Non può dirsi certamente una persona in difficoltà e nemmeno sola, e allora perché spesso è triste e quando trova qualcuno gli riversa molto facilmente il suo di-sagio esistenziale facendogli capire che è sfortunata? É solo lagnosa e lamentosa di ca-rattere o gli va di farsi coccolare dagli altri? Ascoltiamone direttamente la voce:

“Passo le mie ore da sola, mi sono organizzata nei vari momenti della giornata, ma vorrei ricevere una parola che mi faccia sentire un essere umano. Perché spes-so, pur avendo ogni comodità in casa, mi sento come una macchina. Mi spiegavo con i miei vicini, che poi sono anche parenti, ma abbiamo avuto questioni per la casa e per gli spazi condominiali. Ebbene da allora non ci si parla e se per caso di-co qualcosa sono subito discussioni a non finire quando poi non volano parolacce e urli. Tutto per questioni che si potrebbero risolvere con la buona volontà e un pizzico di umiltà.

Ma lasciamo perdere, è vero passo il tempo in un centro per anziani, ma anche lì ho notato come tante persone soprattutto donne cerchino solo di impicciarsi negli affari degli altri non certamente per aiutare, ma solo per pettegolare e mormora-re su un fatto piuttosto che su un altro. Non sai mai come parlare perché ogni co-sa che si dice è ripresa, spesso modificata e resa di dominio pubblico, sembra che tanta gente sia lì solo per dare fastidio agli altri e questo mi ferisce perché mi fa perdere fiducia in persone che conoscevo, ma scopro di non conoscere bene, mi sento ingannata ed esclusa se non entro nelle loro conversazioni che a dir poco mi danno fastidio, anzi mi fanno pena.

Però sono così e vanno accettate anche perché tra gli anziani poco si fa per eleva-re la qualità di queste relazioni. É vero che io ci vado per stare un po’ in compa-gnia e magari uscire con qualche gita e visita culturale, ma l’ambiente è questo e davvero non mi sento di parlare di cose di famiglia o di me stessa. Anzi più sto zit-ta e meglio è! Dunque soffro di solitudine? Direi di sì, ma non è lo star sola che mi dà fastidio, in fondo ho la passione per la lettura e spesso vado anche a teatro; no, quello che mi reca fastidio è il fatto che mi debba difendere dagli altri che so-no come i miei parenti freddi e indifferenti o come i colleghi anziani invadenti e giudicanti. La sera quando ci penso mi dico a me stessa: ma che razza di vecchiaia è mai questa, non credevo che perso il marito forse un po’ presto non avessi per-sona o amici tali con cui poter liberamente conversare e sentirmi confortata?”

Piera non è una persona ammalata e nemmeno isolata dal momento che non le man-cano parenti e occasioni per stare con gli altri. É proprio qui il suo punto debole: non riesce a trovare un’intesa adatta con le persone per sviluppare una qualità di rapporto

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tale da darle sicurezza e conforto. La solitudine in questo caso non è essere posta da parte, ma non aver l’inserimento adatto in un gruppo e in una situazione che permet-ta a una persona di aprirsi senza timori e di manifestare direttamente ciò che pensa. Certo uno dei dolori più grossi rimane la freddezza e l’ostilità di parenti che magari fi-no a qualche anno avanti erano affettuosi e disponibili. Purtroppo per motivi spesso legati a interessi economici o a mancanza di sensibilità di fronte a qualche disagio, il rapporto si sfilaccia e tende a divenire pesante e ostile fino a rompersi quasi del tutto come nel caso di Piera. La conseguenza più diretta è la chiusura su se stessi e quasi il rammarico di avere necessità di qualcuno che conosci cui dire qualcosa in certi mo-menti. Invece non si può fare perché ognuno è rinchiuso sui suoi interessi piuttosto che aprirsi agli altri con un rapporto diretto e conciliante.

Certo la sofferenza di Piera è la stessa di molte persone anche in salute che vivono il distacco da altri sui quali vorrebbero contare, ma che sentono lontani soprattutto quando ne avrebbero maggiormente bisogno. Sembra ancora una volta l’icona di Giobbe di fatto rifiutato da tutti, specialmente dai parenti, perché non è più né ricco, né potente e da cui non possono prendere nulla perché non ha più niente da offrire. Come a dire: la parentela diviene un legame assai labile vissuto all’insegna della prete-sa piuttosto che della convenienza sul piano economico.

Il dispiacere della nostra Piera non vuole significare tanto l’essere sola, ma sentirsi messa da parte prima da parenti e vicini e poi da coloro con cui condivide il tempo li-bero che potrebbero rendere più piacevole e serena la loro compagnia. Da qui la ne-cessità di una riflessione sulla nostra massima: spesso si è davvero soli in compagnia quando non si riesce a legare con le persone, anzi quando divengono ostili perché in-vadenti e incapaci di dare affetto con la loro presenza. Certamente Piera si difende sia dai parenti freddi e ostili, così come dai colleghi del centro anziani e così avverte più che mai la solitudine per la diffidenza e la lontananza degli altri.

La generosità di Delio e Giuliana

Dal caso di Giobbe e dei tanti altri messi da parte perché malati o semplicemente poco utili, vogliamo riportare la testimonianza di una coppia di sposi assai vicini allo stile di Gazzella. Delio e Giuliana non hanno avuto figli dalla loro unione, ma non per questo non sono stati fecondi e generosi, anzi hanno vissuto intensamente il loro rapporto prodigandosi per gli ammalati e per le persone sole e senza assistenza a volte perfino dimenticate dai servizi sociali. É bello ascoltarne la testimonianza:

Io e mio marito non credo che siamo migliori degli altri. É vero che forse ci hanno tributato troppi riconoscimenti, compreso un premio potremmo dire di fedeltà proprio verso la conclusione della vita. É altrettanto vero che gli altri a volte pre-miando qualcuno credono di fare anche loro del bene anche se poi di fatto non si sono quasi mai impegnati. Ebbene io e Delio ci siamo dati da fare fin da quando eravamo giovani impegnandoci attivamente nell’assistenza degli ammalati e se-gnalando le situazioni più pesanti sia ai servizi sociali sia ai medici. In un certo

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modo abbiamo iniziato perché ci avevano spinto ad andare a trovare i malati ne-gli ospedali vicini a casa e poi da lì il rapporto è continuato nelle case e poi per molti nelle case di riposo.

Per decenni insieme abbiamo assistito, anche passando delle nottate, persone che avevano necessità di essere semplicemente guardate con l’occhio di chi vuole il bene completo, non solo la cura medica, e non semplicemente un posto in qual-che struttura protetta. No, il nostro impegno è consistito nel darci da fare perché tutti potessero sentirsi seguiti, assistiti trovando in noi un punto di riferimento. Anche politicamente soprattutto Delio si è impegnato a favore di strutture rese fatiscenti dall’incuria pubblica. Quante discussioni abbiamo avuto con assessori, sindaci; e dal prefetto siamo stati perfino più volte. Non ci è mancato il coraggio, nonostante qualche paura all’inizio di essere strumentalizzati da qualche gruppo o partito.

Abbiamo sempre lavorato insieme, le cose degli altri non le abbiamo mai sentite tali, erano le nostre, come fossero state quelle di casa. Ci abbiamo creduto e mai abbiamo detto non ci interessa, è cosa che devono vedere altri. No, se il buon Dio ci ha chiamati a darci da fare per una famiglia allargata dalle persone che ab-biamo incontrato, è segno che non possiamo far finta di nulla, ma anzi ci dobbia-mo mettere in pieno servizio convinti che così abbiamo realizzato la nostra fami-glia.

Non solo ma negli ultimi anni, avendo perso il marito, ho continuato con passione soprattutto verso gli anziani delle case di riposo, dove a volte basta la regolarità di una presenza, spesso per imboccare quanti non ce la fanno da soli a consumare il pasto, piuttosto che fare una visita serale per dare un saluto. Ci si sente come in famiglia perché le persone ti cercano e ti vogliono bene fino a dimostrartelo con gesti di affetto. Credo che abbiamo molto ricevuto dalla riconoscenza e dalla sin-cerità delle persone che abbiamo assistito. Certo a volte abbiamo avuto poco tempo per ferie e divertimenti, ma la nostra vita, il nostro essere coppia e fami-glia è stato prevalentemente a favore di quanti avevano necessità di essere assi-stiti. Se tornassi indietro nel tempo lo rifarei senza la minima esitazione.

Per la cronaca la signora Giuliana provata anche lei dagli anni che passano e dalla ma-lattia che inesorabilmente colpisce, si trovò a essere sola con la sua sofferenza. Ma in realtà non fu sola, poiché le persone alle quali aveva dato moltissimo e forse anche i loro parenti, le furono accanto fino a sostenerla nel delicato passaggio verso la vita eterna.

Nella sua parte finale, nella sua apparente solitudine dovuta all’impossibilità di com-piere tutti i movimenti di prima avvertiva gli altri come parte essenziale di se stessa entrata nella sua vita. Rivedeva il volto di una persona che era stata forte nel saper ac-cettare il dolore, così ricordava la conversazione con qualche anziano sul racconto del-la loro vita. Non era stata vana la sua vita, non aveva avuto familiari di sangue, ma rac-

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coglieva il frutto di una squisita generosità. Ebbe così tanta pace nel consegnarsi nelle mani di Dio. Potremmo dire, come per Gazzella, se alcuni degli assistiti avessero cono-sciuto Pietro forse gli avrebbero fatto la stessa richiesta degli abitanti di Giaffa.

La solitudine spesso prende possesso delle persone quando non hanno saputo o volu-to nella propria esistenza tracciare rapporti con gli altri all’insegna della generosità e della dedizione gratuita. Solo così non si avverte la solitudine se si è uniti ad altri dal legame della riconoscenza e della solidarietà. Chi non avrebbe passato volentieri un pomeriggio per stare accanto a Giuliana nella fase finale della sua malattia, lei che per una vita non si era risparmiata nei confronti delle sofferenze altrui? Potremmo dire che l’amore dato solo per amore e spinto in questo caso dalla forza della fede è davve-ro la base che consente a ciascuno di trovare la propria realizzazione in compagnia di altri senza sentirsi soli e nemmeno abbandonati. Si potrebbe dire che la vita di Delio e Giuliana rifletta la voglia di donarsi, il desiderio di creare comunità e la volontà di ab-bandonarsi con fiducia alla Provvidenza Divina che non lascia mai soli i suoi figli.

5.3 Rielaborando le situazioni

Siamo nel contesto di una solitudine oramai divenuta socialmente pesante. Molte per-sone rispondono purtroppo alla realtà delle testimonianze riportate e quel che peggio sono parecchi soprattutto anziani che hanno paura di essere abbandonati anche dai loro stessi figli. Quel che spaventa è il tempo che passa inesorabilmente e la mancanza quasi totale di rapporti umani. Le ore trascorrono magari anche nella propria abitazio-ne e nessuno ti fa sentire una persona, come diceva Piera, un essere umano con cui in-tavolare un minimo di rapporto.

Ne è segno evidente, e qui potrebbe parlare Giuliana, la volontà di comunicare soprat-tutto di anziani e persone inferme costrette a letto o con movimenti molto limitati. Sì, queste persone. non appena qualcuno rivolge loro la parola e ha del tempo a disposi-zione, subito si raccontano, cercano di coinvolgere l’interlo-cutore con la loro realtà.

Si tratta di messaggi lanciati per la necessità di trovare conforto e attenzione, creare compagnia, non solo per dire qualcosa sugli affari altrui, come facevano quelli del cen-tro anziani, quanto invece per poter condividere il proprio vissuto.

Ci si accorge di quanto sia importante e diremmo inevitabile il bisogno degli altri, con i tre movimenti: ascoltare, stare accanto e stabilire un rapporto che permetta a ciascu-no di sentirsi in qualche modo amato, non abbandonato.

Crediamo che ogni essere umano abbia necessità di aprirsi verso gli altri nonostante delusioni e incomprensioni. L’attesa e la volontà di credere in qualcuno ci sono in ogni momento della vita. Essere soli in certi momenti equivale a nutrire un senso di sfiducia totale verso le persone perché hanno deluso.

La stessa Edgarda altro non faceva che constatare l’indifferenza e la freddezza dei vici-ni, per anni li aveva aiutati fin da quando erano piccoli. Eppure un minino di ricono-scenza da quei rapporti non usciva, o meglio lei non lo percepiva e ancor più si sentiva

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abbandonata, messa da parte perché oramai anziana e pesante.

Forse era anche la sua rabbia a parlare, il sentimento negativo che provava e che ap-pesantiva la realtà, ma in ogni caso l’indifferenza dei vicini era reale. Così come reale era la presa di distanza del nipote di Carlo quando aveva percepito il suo bisogno di assistenza e conforto. Il senso egoistico del pensare solo a se stessi e la condotta di vi-ta, specialmente nell’ambito cittadino, all’insegna dell’individualismo rendono la vita ancor più pesante e isolata.

Certo la società del benessere dove tutto funziona come un enorme ingranaggio nel quale ciascuno è inserito, rischia di far perdere un po’ a tutti il primario bisogno di rapporti umani per vincere non tanto la solitudine, quanto la compagnia indifferente e spersonalizzata di persone che non si cercano ma solo si sopportano perché devono stare insieme e basta. Quasi obbligo del vicino e non piacere di stare accanto per con-dividere qualcosa della propria vita.

5.4 Un fatto interessante

In una casa di cura, un malato, nemmeno tanto anziano, alle tante insistenze dell’equipe medica per una cura più specifica per una malattia del sistema nervoso ri-spondeva spesso:

A che mi serve, anche se vivo ancora qualche anno, non sono più utile a nessuno, è solo tirare avanti.

Davvero rimanevano sbigottiti gli stessi medici, perché il paziente era una persona simpatica, aperta con la gente, sempre pronto a dare coraggio agli altri. Nessuno avrebbe scommesso su una risposta come questa, anzi si chiedevano se fossero dav-vero le sue idee, oppure volesse fingere quasi per farsi consolare. Parlammo della si-tuazione che andava ripetendosi da settimane e si comprese una realtà. Virginio, era il suo nome, aveva bisogno di una forte motivazione per vivere e tale motivazione pote-va solo provenire da qualcuno che volendogli bene credesse ancora in lui. Fu lì che si pensò ai suoi parenti, sì presenti, ma solo formalmente perché dovevano esserci.

Non gli mancava nulla, anzi erano i suoi che volevano le cure più avanzate e gli specia-listi migliori, per farlo guarire, ma lui non avvertiva il sentimento della fiducia, della spinta data da altri nei suoi confronti perché riprendesse a vivere e agire. Come a dire che Virginio iniziò a collaborare più attivamente quando finalmente, anche attraverso volontari, iniziò a parlare di sé e di quello che avrebbe voluto realizzare con una ritro-vata salute.

Mancava ancora qualcosa al suo pezzetto di storia, ma forse i suoi non erano riusciti a condividerlo e a infondergli il coraggio per affrontarlo insieme. Si sentiva solo di den-tro perché nel suo mondo interiore non scorgeva nessuno in grado di sostenere il suo cammino di ripresa e di recupero della voglia di guarire e vivere. Diciamo che i suoi erano più che altro dei consolatori ma non veri ascoltatori dei suoi disagi e della sua indomita volontà di vivere, dimostrando di credere più che mai nelle sue possibilità.

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Trasmettevano più la compassione per la sua malattia che la fiducia nelle possibilità che il malato guarito potesse ancora riqualificare la propria esistenza.

É qui il passaggio davvero interessante tra la persona che subisce e la persona che vuole prendere in mano la propria esistenza per darle significato. Da solo lo si può fa-re? Sì, ma solo fino ad un certo punto, in Virginio scopriamo l’importanza degli altri per confermare da un lato e per sostenere dall’altro la volontà d’impegno e di proget-tare la vita. Forse a volte può essere una forma di auto illusione, ma in ogni caso è la compagnia per uscire dal tunnel del non senso e dalla paura di finire senza aver ulti-mato quanto una persona desidera realizzare.

Stare soli con i propri sogni equivale a metterli nel cassetto e quindi nel dimenticatoio, così, quando i medici curanti vogliono ridare a Virginio la possibilità di restituirgli la sa-lute e tempo di vita, ecco arriva puntuale la sua difesa. Una vita senza il valore del do-no e della fantasia di inventarsela ogni giorno equivale a tirare avanti spinti solo dal dover vivere. Qui c’è il confine tra quando si vive senza pensarci e quando si vuole pensare alla vita come una possibilità mai esaurita di spendersi. Virginio ben rappre-sentava questa concezione e quando qualcuno capì il suo bisogno ecco ricomparire la sua voglia di vivere e superare il non senso.

6 La compagnia che non accompagna

Spesso si sente dire dai ragazzi alle prime armi con le compagnie di amici che si for-mano per qualche uscita:

mi hanno scaricato, hanno fatto tutto e non l’ho saputo, oppure manco mi guar-dano, vedi se qualcuno si fa vivo.

e altre considerazioni con termini meno raffinati. Una delle attese che tutti ripongono nella compagnia di amici, di conoscenti o di colleghi è di essere coinvolti, fatti oggetto di attenzioni e informazioni su ogni iniziativa intrapresa dal gruppo. Gli adolescenti provano grande delusione per una mancanza del gruppo che per loro equivale alla perdita di fiducia di coloro con cui hanno maggior confidenza. Non sono pochi gli sfo-ghi dei ragazzi rivolti a deludenti risultati dalle prime esperienze di socializzazione. Nel-le forme di libertà espresse nelle compagnie giovanili è nelle prime esperienze che si manifestano i segnali di disagio del sentirsi davvero soli in mezzo agli altri, con le sen-sazioni di essere usati e non considerate le proprie attese e le proprie qualità.

6.1 Le delusioni di Paolo apostolo

A questo proposito introduciamo un episodio tratto dalla vita di San Paolo Apostolo. É lui stesso che narra di essere stato portato in giudizio presso il tribunale dell’Imperatore a Roma e lì dove aveva parecchi amici e persone che potevano depor-re in suo favore non ebbe i risultati sperati:

Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno ab-bandonato. Non se ne tenga conto contro di loro. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza. Dema mi ha abbandonato avendo preferito il secondo presen-

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te, Alessandro il ramaio mi ha procurato molti mali. È stato accanito avversario della nostra predicazione. (2Tim. 4,14.16-17).

Paolo è distrutto moralmente per il fatto che suoi amici, con i quali aveva condiviso il suo servizio missionario e la sua attività a Roma l’hanno abbandonato, l’hanno lasciato solo quando sarebbe stato giusto essergli accanto pur correndo dei rischi. Paolo av-verte la solitudine, è di fronte ai suoi accusatori da solo e non può contare su persone che potrebbero difenderlo con altre argomentazioni. Sente di aver combattuto con onestà e coraggio per portare ovunque il Vangelo di Gesù e ora come risultato finale è davvero scaricato dai suoi discepoli principali che potevano presentare una differente immagine dell’Apostolo. Hanno avuto solo paura delle autorità romane oppure non gli erano poi così vicini e amici.

Quando Paolo predicava con successo alle folle era un onore essergli amico e aiutarlo a parlare nelle piazze o nelle case private, ma ora rischiare addirittura la vita per lui era troppo! E il povero Paolo ha dovuto rassegnarsi e provare il senso dell’abbandono e la solitudine di chi deve fare tutto da sé perché gli altri non ci sono quando invece avrebbero dovuto essere presenti. Solo su di lui ora cadevano le responsabilità di azioni costruite con gli altri protagonisti, ma ora solo Paolo stava in giudizio, gli altri si erano messi da parte e al sicuro. Certo in Paolo era solida la fede in Dio, non si scorag-giava anche se intuiva che la sua fine poteva essere vicina.

Solo, sì, ma con Dio accanto, abbandonato, ma con la coscienza pulita e la certezza di avere un sicuro Alleato. Paolo avvertiva il peso di una realtà nella quale era sempre più costretto ad agire da solo con la fede nella presenza di Gesù Cristo morto e risorto come unica forza dentro di Lui. Una risorsa straordinaria che permette a Paolo non so-lo di essere sempre forte e coraggioso ma anche di dare speranza a quanti confidava-no in Lui per la sua straordinaria e misteriosa forza. La compagnia della solitudine di-veniva realtà, ma non quella su cui aveva contato e che l’aveva abbandonato al rischio della condanna del tribunale.

6.2 Illusioni perdute, delusioni avute, soddisfazioni non mantenute

Il cammino di Flora

Tra le tante vicende simili a quella di San Paolo vorremmo riportare la storia di Flora. Il suo cammino inizia fin da quando era abbastanza giovane e desiderosa di trovare due punti di riferimento: qualcuno che l’amasse e qualcosa in cui credere e impegnarsi. Flora appariva fin da subito persona buona, appassionata e molto onesta sul piano dei rapporti con gli altri. Aveva investito tante attese in una storia d’amore forse mai ini-ziata perché lei pur nel desiderio di amore e attenzione si rinchiudeva su se stessa quasi per paura. Come a dire che da una parte s’impegnava a voler stare con gli altri e poter costruire qualcosa con loro e dall’altra temeva d’essere sottomessa perché buona e un po’ troppo ingenua.

Viveva con il grande desiderio di trovare persone, compagnie di cui fidarsi e con cui realizzare progetti di bene specialmente per i più deboli. Fu così che iniziò un percorso

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in un’istituzione dedita ad attività caritatevoli dove si sentì fin da subito accolta con familiarità. La compagnia degli altri le dava tanta carica, si sentiva come inserita in una seconda famiglia e questo la portava a sciogliersi, a non avere paura del giudizio altrui e superare la paura d’essere impreparata e non adatta a stare con persone di elevate qualità morali e culturali. La sicurezza di sé arriva spesso attraverso la conferma di quello che siamo da parte degli altri. Così era stato per Flora che riteneva di aver tro-vato un gruppo davvero adatto e avvertiva la gioia e la sensazione interiore di aver realizzato se stessa nel donarsi agli altri.

Lo spirito di servizio unito alla volontà di mettersi in buone relazioni con le persone le davano tanta sicurezza e tranquillità, in un certo senso aveva trovato il giusto equili-brio tra il proprio ideale di vita e la realtà nella quale era inserita. Si tratta in questo cammino di sondare il mondo interiore, ciascuno di noi vive con una carica ideale, anzi sono proprio le grandi idee che spingono le persone a uscire da un quietistico pensare solo a se stessi e al proprio benessere spesso solo materiale per offrirsi agli altri. Flora viveva una stagione della propria vita davvero straordinaria, le persone che aveva in-contrato la mettevano nella situazione di potersi fidare, di lasciarsi amare e superare la paura di ricevere delle delusioni. Nel bilanciamento, tra la solitudine di chi pensa, ri-flette, pondera le varie possibilità e la compagnia degli altri dove ci s’immette, c’è uno scarto tra quello che uno vorrebbe e quello che poi in realtà trova. In questo spazio si gioca parecchio della vita di ognuno di noi. La stessa scelta della vita coniugale, piutto-sto che di un amico o di ambiente richiede in ogni caso capacità di adattamento ma senza contraddire la carica ideale che ciascuno ha immesso nell’effettuare la sua scel-ta. Così vale per Flora, riteneva sempre più le persone incontrate quelle che idealmen-te aveva desiderato per realizzare se stessa. Lasciamole la parola:

Cercavo un ambito nel quale dedicarmi alle persone più sfortunate di me visto che sono di famiglia agiata e con una discreta situazione che mi ha permesso di stu-diare e lavorare per gli altri. Fin da piccola desideravo fare qualcosa per chi ha più bisogno: dai bambini agli adulti che sono in grosse difficoltà, per vivere una vita dignitosa e serena. Per questo anche quando ho avuto la possibilità di sviluppare un rapporto in vista del matrimonio mi sono quasi rinchiusa in me stessa chieden-domi se davvero quella era la strada giusta per realizzare la mia vita. Ho esitato perché non mi sentivo sicura di poter poi continuare a lavorare anche per gli altri. Avvertivo sì la gioia di sentirmi amata da qualcuno che ti vuol davvero bene, pen-sa a te, ma volevo anche far sì che la mia vita divenisse un dono agli altri. Ero sola nel sentirmi chiamata ad andare avanti nonostante quelli, anche tra i miei fami-liari, che mi scoraggiavano ritenendomi troppo fragile.

Ma fu la spinta notevole della fede in cui noi possiamo scoprire il progetto che Dio ci invita a realizzare. Un segno convincente di questo progetto è stato l’incontro casuale in un corso di perfezionamento professionale con un gruppo di amiche dedite al volontariato. Erano piene di vitalità e mi accolsero subito familiarmente. Da lì è iniziato il mio cammino di liberazione da una situazione ancorata a me

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stessa, ai miei progetti e con le tante paure di venire messa da parte per un nuovo cammino in un altro gruppo che sin da subito mi ha incoraggiata e spinta ad aprirmi sempre più verso tante realtà di disagio e di servizio soprattutto verso i più piccoli. In questo cammino ho ritrovato la fiducia in me stessa e la possibilità di condividere gioie, speranze e difficoltà e mi sono sentita realizzata per la scelta faticosamente elaborata. E, quando mi mettevo in solitudine per riflettere su me stessa e sulla mia storia, ringraziavo il buon Dio per questo incontro con persone con le quali ora potevo condividere il mio cammino.

Tutto sembrava filar via liscio, e Flora avvertiva una pace e una serenità mai avute prima e la scomparsa della paura di non essere all’altezza della situazione anche per la disponibilità e l’aiuto delle altre sue compagne. Il suo grande bisogno d’essere amata andava a coincidere con l’aver trovato calore e accoglienza tra le altre amiche.

Ma le cose non andarono sempre avanti così a causa di eventi assai distanti dalla cari-ca ideale con la quale Flora aveva affrontato la sua nuova vita e che si possono rias-sumere in una sola parola: strumentalizzazione. Flora, assai generosa e disponibile verso persone a cui aveva dato la massima fiducia, si era fatta trascinare in operazioni finanziarie, apparentemente rivolte a persone bisognose, nelle quali aveva messo in gioco se stessa e parecchi suoi beni, che si rivelarono ben presto solo un pretesto per svolgere attività lucrative che nulla avevano a che fare con lo spirito del gruppo che aveva scelto. Non solo, ma essendo Flora persona buona e diremmo ingenua si trovò invischiata a sua insaputa in operazioni intestate a suo nome.

Flora aveva fatto da prestanome in società costituite con scopi apparentemente posi-tivi, ma in realtà aventi l’unica finalità di maneggiare denaro per altri affari. Che fare? Era talmente onesta che non se l’aspettava e non voleva crederci anche di fronte alle evidenze. Flora era delusa, anzi arrabbiata prima di tutto con se stessa. Non riusciva ad accettarsi all’interno di una realtà in cui alcune persone di sua grande fiducia ave-vano compiuto manovre a sua insaputa con scopo diverso da quello del bene verso i più sfortunati. Inoltre la sua firma in calce a documenti e verbali non lasciava dubbi sulla sua apparente condivisione di questi intrighi da lei sconfessati. Flora era come crollata anche a livello psicologico e tornava in lei la voce dissenziente di quanti ave-vano cercato di farla riflettere “sei debole, troppo fragile emotivamente”.

Era caduta a sua insaputa in un gruppo che anziché accompagnala e sostenerla ne aveva utilizzato la bontà d’animo e la facile fiducia.

Ma erano tutti così? Certamente no, ma Flora era incappata in gente con mentalità commerciale e stile imprenditoriale senza umiltà e spirito di servizio verso gli altri. Crollavano i suoi ideali? Forse no, ma era fortemente in crisi la sua stessa identità co-me a dire che noi siamo in fondo anche quello che gli altri dicono e fanno di noi. Flora aiutata a ripensarsi in modo positivo in tutta la vicenda voleva trovare tempi adatti per stare sola e rielaborare i fatti accaduti cercando una via per uscirne:

Sono stata utilizzata per la mia creduloneria, non ho valutato attentamente

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quanto mi veniva proposto perché ero come abbagliata da persone che reputavo serie, generose e piene di idee innovatrici. Mi hanno convinta, ma non ho voluto convincermi che potevano sbagliare soprattutto quando immettevano idee e ob-biettivi al di fuori della nostra portata. Hanno seminato illusioni ed io mi sono la-sciata prendere.

Forse l’attesa di grandi cose per chi ha più bisogno, piuttosto che l’impegno a mettersi a servizio degli altri, mi hanno portato a credere alle grandi realizzazioni dotate di maggiori mezzi e strutture. Ecco i sogni sembrare realizzabili per l’illusoria scenografia ben orchestrata da gente con mentalità affaristica. Per me è stata una pesante scoperta che mi fa ancora soffrire. Ora davvero mi sento sola in mezzo a una compagnia di persone in cui ho creduto e confidato. Ora posso an-cora credere solo in coloro che mi hanno aiutato ad aprire gli occhi e distinguere il nero dal bianco. Certo è pesante la solitudine di chi resta a guardare gli eventi ac-caduti e non sa come porvi rimedio tanto più quando hanno portato conseguenze pesanti, anche se la voglia di confrontarsi e di crescere ha il sopravvento. In fondo ogni azione, anche la più negativa, può divenire occasione per migliorarsi grazie solo alla compagnia di Dio che dà la forza e il coraggio per non perdere la strada.

Flora stava facendo un cammino di purificazione interiore, una vera catarsi nella qua-le ritrovava la motivazione iniziale inalterata unita a una ritrovata fiducia in persone che potevano riempire la sua vita aiutandola a recuperare la certezza di aver agito solo per il bene senza altre finalità. La rettitudine morale era la sua principale linea di con-dotta ispiratrice di tutte le sue scelte anche quando si fidò eccessivamente e senza obiettare dei progetti da sogno. Il realismo di Flora era aderente alla rinnovata carica di generosa dedizione verso gli altri, solo parzialmente scalfita dai deludenti risultati avuti sul piano operativo.

Si potrebbe dire che la giovane aveva ritrovato il valore della vita aiutata da persone amiche che l’avevano fatta riflettere non solo su ciò che non andava fatto, ma anche sulla sua condotta di persona seria, corretta e sempre pronta ad agire per il bene di tutti. La compagnia di amici veri permette una ripresa positiva del cammino di vita an-che in situazioni complesse come quelle vissute da Flora senza mai soccombere sotto le apparenti sicurezze offerte da persone capaci di convincere. Era Flora stessa che, dopo una lunga riflessione così affermava:

Sono stata debole perché bisognosa di essere amata e sentirmi utile a qualcuno, anzi quando mi hanno offerto delle responsabilità mi sono sentita valorizzata. Fi-nalmente pensavano a me che mi ritenevo poco incline a incarichi importanti, non solo ma la loro simpatia e la carica di passione che trasmettevano mi hanno con-vinta della bontà delle loro proposte. Cercavo una buona compagnia nella quale fidarmi e trovare quella pace interiore che proviene dal saper che stai lavorando con persone serie e preparate.

É lì che iniziava la mia ingenua fiducia, nel mettere come a riposo la mia ragione

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per dedicarmi solo alla passione per gli altri. E qui vale anche la pena ricordare che gli aiuti ricevuti da altre mie vicine mi hanno fatto ricredere e mi hanno con-sentito di riprendere la mia vita senza farmi eccessivi sensi di colpa e senza nutrire rancori nel mio animo. Posso ancora continuare il cammino liberandomi da di-pendenze anche affettive che troppo mi avevano condizionato.

Prendendo spunto da San Paolo è bene ricordare che in tanti momenti della vita la so-litudine è quasi d’obbligo, soprattutto quando altri, forse perché troppo coinvolti in vicende pesanti, a un certo punto se ne vanno da un’altra parte e non vogliono aiuta-re, anzi quasi ignorano la situazione nella quale anche loro erano coinvolti. Paolo in fondo cita diversi nomi di suoi collaboratori, avrebbe voluto vederli lì accanto nel mo-mento delicato di un giudizio, ma si sono dileguati, hanno temuto quel momento e l’hanno lasciato solo.

É proprio vero che l’amara solitudine non è essere soli, ma sentire il peso di una re-sponsabilità condivisa e divenuta unica e pesante fardello da portare senza aiuti. Così valga per Flora, anche lei ora era sola, gli altri che si erano approfittati di lei, quando videro la mal parata in un modo o nell’altro non c’erano più, lei invece sì. Assumersi le responsabilità nella consapevolezza di essere i soli è anche segno di maturità e capaci-tà di credere nonostante tutto negli altri con i quali si agisce e ci s’impegna. Ogni male non viene per nuocere e le buone amicizie si purificano come si fa con i metalli attorno al fuoco. Questo fuoco simbolico sono le prove della vita che mostrano i veri amici che rimangono e sanno condividere e accompagnare ciascuno.

Flora ne usciva a testa alta, aveva sperimentato il dolore di essere stata ingannata, ma nello stesso tempo la gioia di aver incontrato amiche preziose per la sua solitudine re-lazionale quando era desiderosa di aprirsi a una vita elevata dalla volontà di dare. Ora aveva scoperto persone che ne favorivano la riflessione su se stessa con la volontà di riprendere il cammino.

Flora di fronte alle sue amiche correva il rischio di venire giudicata e squalificata per colpe non direttamente commesse, così come Paolo di fronte al tribunale imperiale. Ma fino a che punto un giudizio pronunciato in modo prevenuto, parziale o sommario può rovinare una persona? Questa domanda si lega a quanto abbiamo detto su identi-tà e volontà di crescere e di saper raccogliere i giusti e opportuni stimoli.

Certamente possono far male commenti e posizioni a volte molto superficiali, ma la solitudine di chi ritrova il proprio equilibrio esistenziale ed emotivo nella quiete della riflessione e nella serenità delle proprie convinzioni, costituisce la base per la ripresa della propria esistenza in sinergia tra gruppo di amici e solitudine senza mai pretende-re troppo e senza mai fare a meno del confronto con gli altri.

La compagnia del solo benessere

La solitudine in compagnia è spesso minimizzata o quasi dimenticata per dare spazio al solo benessere materiale come unico riempitivo per la propria vita. É una tendenza in aumento e più diffusa nel nostro tempo posto a confronto anche solo con una o due

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generazioni precedenti. Ne è un esempio la condotta tipica dei ragazzi che passano almeno due ore con la tv, internet, social network e chat alla ricerca di cosiddetti amici nelle moderne forme virtuali di socializzazione. Non parliamo poi dei telefonini super dotati, usati ben altro che per telefonare. E così quando si fa in giro per le strade o perfino in montagna, spuntano le cuffiette per ascoltare musica e altro per riempire il vuoto dentro di sé. Ancor di più ora che oltre al computer di casa crescono le dotazioni di portatili o tablet che permettono di continuare a navigare in internet, giocare e di-vertirsi ovunque e in ogni tempo.

Così quello che era una volta il tempo libero oggi è stato occupato dalle moderne sale da gioco dove non esistono più ping-pong e biliardi o altri giochi del genere, ma si tro-va il fantastico mondo dei video games, slot machine, bingo, tele scommesse e altre simili marchingegni.

E se rimane ancora del tempo libero allora ci sono: palestre, piscine e locali per il di-vertimento organizzato come discoteche, pub, night, e altro ancora.

Tutto questo comporta oggi un costo enorme nei bilanci familiari per i vari abbona-menti a internet, sky, telefoni, nonché per tutti gli aggiornamenti tecnologici per ritro-vati elettronici sempre più perfezionati e costosi che rendono i rapporti umani sempre più limitati e rinchiusi in un mondo virtuale assai lontano da quello reale.

Insegnamento dalla Bibbia

A questo proposito abbiamo estratto due testi dal Vangelo dai quali prendere spunto per una nostra riflessione:

il primo testo è raccolto dal vangelo di Luca: “di un uomo ricco, che vestiva di por-pora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente” (16,19)

il secondo sempre di Luca è simile al primo in quanto c’era un giovane che “disse al padre: Padre, dammi la parte dal patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto”(15,12-13).

Sono descrizioni sommarie, ma molto incisive, ricordano uno stile di vita improntato al benessere economico e quindi tendente al godimento massimo con i beni materiali. Entrambe le persone fanno un uso enorme di tali beni cercando di raccogliere il mas-simo da quello che considerano la principale compagnia di quel tempo a noi lontano: banchettare, godersi i piaceri della tavola, organizzare feste e intrattenimenti con amici a loro pari. Uno stile che rifletteva anche pubblicamente uno stato nettamente superiore a quello di chi come il mendicante stava alla porta del ricco a cercare di ri-mediare qualche pezzo di pane e viveva di carità. Era la vicenda di una vita dove la compagnia degli amiconi che divorano le sostanze e cercano di stare bene da soli, co-stituiva quasi uno status symbol del quale ci si poteva vantare e permettere una schie-ra di amici e compagni. Appunto di questi vorremmo parlare perché nel passaggio suc-

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cessivo del Vangelo si parla riguardo al giovane che viveva in modo dissoluto:

quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una carestia ed egli cominciò a tro-varsi nel bisogno. Si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava.(15,14-16).

Sì, la solitudine di questo giovane è quella di sentirsi solo e abbandonato nel momen-to in cui non avendo più beni è costretto, dopo aver cercato aiuti vari, a dover umil-mente guardare i maiali al pascolo mentre a lui non ha cibo a sufficienza, lui che aveva gozzovigliato in feste e ogni tipo di divertimento. E la compagnia che aveva costruito dov’è? Dove sono coloro che fino a poco tempo prima sedevano alla tavola insieme e trascorrevano ore magari a cercare il locale migliore per passarvi la serata? La solitu-dine non è solo isolamento dagli altri simili quale conseguenza di una vita, in questo caso, all’insegna della ricerca del benessere economico e del comodo tirare avanti. No, siamo nel decadimento sociale di una classe elevata mentre il povero ricerca il pa-ne quotidiano senza sapere se lo può ritrovare. Ma è anche scuola di vita perché il gio-vane riflette e comprende:

Rientrò in se stesso e disse: Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. (15,17-18).

Sa che il padre non lo lascerebbe in quella condizione, comprende nella solitudine dell’abbandono che qualcuno ancora l’accetta, può condividere la sua esistenza e re-stituirgli dignità e speranza. Non ha alcun dubbio su ciò che deve fare e quale compa-gnia cercare. Si comprende come star soli abbia come conseguenza una riflessione più elaborata e reale delle proprie condizioni di vita al punto che si desidera un cambia-mento radicale per rimettersi nella compagnia di chi davvero riesce a dare dignità e valore alla vita.

É evidente la considerazione sul perdono divino che ricostruisce una persona, anzi la trasforma perché ci si sente accolti e accettati anche nella propria fragilità con la pos-sibilità di costruirsi una vita nuova. Davvero i rapporti umani tessuti nella volontà di essere dono e solidarietà verso altri possono rigenerare la volontà di vivere e di ben operare. Così è stato per questo giovane, che aveva sbagliato compagnia illudendosi che gli amiconi delle feste e dei banchetti fossero meglio della famiglia dove era valu-tato per quello che era e non per quello che possedeva. Del resto il testo evangelico non è molto più tenero col ricco, tradizionalmente denominato Epulone; dopo la mor-te è posto nell’inferno dove il suo tormento oltre la fiamma è la perduta compagnia delle persone che l’avrebbero potuto rendere differente ossia più attento agli altri e meno egoista e arrogante come ben ricorda il dialogo tra Abramo e il ricco:

Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro (il povero) pa-rimenti i suoi mali, ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti. (16,25).

Il ricco aveva preferito la compagnia degli amiconi con cui condividere i beni materiali

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e nulla aveva fatto per rendersi minimamente utile al povero che cercava il pane ma era anche coperto di piaghe. Come a dirgli che era peggio per lui. La compagnia degli altri che impedisce di andare oltre il benessere materiale, la soddisfazione del proprio corpo è certamente un grosso freno al dono di se stessi nel cercare di andare oltre la pura consumazione del labile benessere materiale.

I tanti beni, anche sottoforma di ritrovati tecnologici, passano in fretta e non lasciano il senso di pace nella piena realizzazione di se stessi di quelli che spendono la propria vita a servizio del bene. Si tratta di una scelta di qualità: o si prendono i soli beni mate-riali come unico scopo, oppure si cerca un orizzonte che va oltre e diviene il dialogo, il servizio, la volontà di mettersi a disposizione di altri partendo non dall’egoismo di per sé, ma dal generoso donarsi.

I figli di Margherita

La signora Margherita era assai preoccupata per i due figli adolescenti di dodici e quat-tordici anni che pur non facendo nulla di male vivevano come se non ci fosse altro al di fuori della medianicità. Margherita parlando di loro diceva:

Valentino, il maggiore, l’ho trovo alle due del mattino su facebook a comunicare con gli amici e poi la mattina faccio una fatica enorme a svegliarlo e mandarlo a scuola. Gli stessi insegnanti dicono che quando lo interrogano le cose più o meno le conosce ma fatica assai a elaborare discorsi adatti a esprimersi in modo scorre-vole; stessa difficoltà per i temi, scarsi nel contenuto e privi di una riflessione sugli argomenti.

In casa è nel suo mondo, a tavola facciamo fatica a mangiare insieme senza che debba o ricevere telefonate o fare dei messaggini per gli amici. E non parliamo quasi mai delle sue cose, dice che tutto va bene e non ci si deve preoccupare. É ve-ro ha il suo bel giro di amici e di compagni, ma sono convinta, sono interessati so-lo a computer, play station e sale giochi senza conversare d’altri argomenti. Mai che una volta si riesca a fare qualche ragionamento sul come vanno le cose o su qualche problema che attraversa la nostra vita di famiglia.

Mio marito da tempo vive nella paura di perdere il lavoro visto che hanno ridotto di parecchio il personale e io temo il rinnovamento del contratto in quanto sono precaria nella scuola. Credo che la compagnia di mio figlio Valentino sia soprat-tutto quella dei computer e di altri apparecchi che abbiamo acquistato anche a caro prezzo a lui e ovviamente anche ad Alfredo, l’altro figlio, che a differenza di Valentino ne è meno attaccato, e preferisce la partita di calcetto, giocare alle car-te con gli amici e andare alle partite. Sono due ragazzi simili ma assai diversi, io noto che Valentino è più attaccato a tutti questi beni come se non se ne potesse fare a meno. Ma dico io, senza tutti questi aggeggi come sarebbe la loro vita? Co-sa stanno costruendo?

Evidentemente la signora Margherita faticava a mettersi in relazione con i propri figli, certo la telematica è alla base di una nuova cultura delle relazioni tra persone, ma qui

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vi era un’altra realtà: la facile concessione a ogni richiesta di beni e confort fatta dai fi-gli. Quasi che li si dovesse comprare accondiscendendo a ogni loro richiesta. É vero che la pubblicità, la moda, il condizionamento degli altri sono assai evidenti, ma alla base occorrono criteri etici in più importanti del quale il principale consiste nel dosag-gio tra i beni necessari, quelli utili e superabili e quelli proprio superflui.

Una giusta graduatoria dovrebbe essere il risultato, non di concessioni e di cedimenti per far star buoni i ragazzi, ma di un dialogo educativo utile a portare a una riflessione sulla qualità della vita derivante dai tanti beni che si desiderano e dal loro reale e ne-cessario utilizzo. Si rimettevano così in discussione molte scelte fatte superficialmente senza un’esatta valutazione della loro portata educativa ed etica.

Ad esempio la compagnia dei tanti oggetti presi in modo quasi automatico senza una riflessione portava alla soddisfazione delle esigenze dei ragazzi in specie di Valentino, ma non riusciva a far comprendere il valore etico di ciò che si possedeva e la priorità, almeno in casa, da accordare al dialogo e alle relazioni domestiche.

Valentino appariva chiuso anche con i parenti, parlava a monosillabi come se gli si do-vesse tirare fuori le parole dalla bocca. Si notava il suo imbarazzo a sostenere qualsiasi discorso, non era abituato a conversare. Quella era la preoccupazione etica per l’educazione! La compagnia dei soli aggeggi elettronici e digitali non basta a dare spes-sore umano alla crescita di giovani, essi vanno abituati alla compagnia dialogante di al-tri amici e anche adulti con i quali mettersi in relazione per imparare a riflettere ed esprimersi in modo sciolto e personale.

Resta evidente la fuga dalla solitudine, dallo stare soli con se stessi, ne è prova per questi ragazzi la musica assordante spesso sentita nelle cuffiette piuttosto che con gli impianti stereo delle loro camere e la non volontà di riflettere sulla scuola. Che signifi-ca? Che forse fa paura la realtà di doversi confrontare con se stessi, di raccogliere sti-moli e rilievi provenienti da altri. In altre parole la difficoltà a costruire nella propria vi-ta legami profondi fino a rielaborare il proprio vissuto e i sentimenti con i quali ci si pone in relazione.

Essere soli non significa necessariamente riflettere e pensare, quanto saper raccoglie-re dalla propria esistenza i tanti messaggi che provengono dalle persone nella quoti-dianità non quelli raccolti solo dal computer o dagli SMS. Compagnia degli altri o la compagnia dei mezzi che intendono sostituire gli altri era il dilemma educativo della signora Margherita, e di molte altre famiglie.

Riprendendo lo spunto evangelico, anche il giovane ricco andato in un paese lontano aveva la vaga sensazione che una vita del tutto nuova e impostata non su rapporti educativi da parte del padre e dei familiari, l’avrebbe sicuramente reso migliore, più contento. Dimenticava una realtà, i beni non sono altro che mezzo, il fine rimane e ri-marrà sempre conoscere se stessi e gli altri con i quali stabilire la giusta compagnia, ma anche imparare a rielaborare nella solitudine le proprie aspirazioni.

Anche lui si era fatto prendere dal consumistico godere dei mezzi che aveva a disposi-

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zione e aveva dimenticato il bene di se stesso fino ad annullarsi nelle mani, non di un computer, ma di persone pronte a sfruttare le situazioni senza alcuna attenzione per lui e i suoi bisogni, nemmeno fosse l’essenziale pane quotidiano. Insegnamento adatto in ogni epoca con la necessità di affiancare alla comodità dei mezzi il bene delle rela-zioni umane condotte con amore, attenzione e senso della realtà, perché ciascuno possa esprimersi e sviluppare un costruttivo rapporto con altri.

Educarsi a dare spazio ai propri sentimenti nella logica del saper mettere in relazione diveniva spunto per dialogare con questi giovani a partire sì dalle loro passioni infor-matiche, ma anche cercando di allargare gli orizzonti culturali. Un cammino che cer-tamente è bene percorrere in famiglia dove la compagnia dei propri cari diviene inso-stituibile punto di riferimento per la più autentica crescita: la capacità di proporsi agli altri e di proporre a ciascuno se stessi senza paure, né vergogne. Saper parlare di sé, delle proprie sensazione equivale a sapersi creare compagnia comprendendosi nella propria solitudine divenuta oggetto di riflessione e comprensione.

La condotta di Ugo

Ugo è un uomo di circa cinquant’anni con un lavoro in proprio che gli permette una di-screta posizione economica e può contare su buone risorse. La sua preoccupazione principale è vivere senza farsi mancare nulla. Anzi senza lasciare cadere le tante occa-sioni che ha per procurarsi beni e servizi e migliorare la propria vita. Ad esempio non sa dire di no agli amici per feste, gite, uscite ecc., come non sa rinunciare al ristorante dove si preparano cibi particolarmente invitanti e rari. Non gli manca la voglia né di viaggiare, né di concedersi pause di riposo in soggiorni esotici, così come non rispar-mia di essere alla moda nel proprio abbigliamento. E questo solo per indicare il suo tenore di vita. Anzi i suoi discorsi sono improntati a cercare sempre qualcosa di meglio al suo già elevato benessere. Che cosa dire? Sono le sue scelte, da rispettare, ma an-che da vedere in senso critico soprattutto su un punto che lui stesso condivide facen-do una specie di panoramica esistenziale:

Mi si chiede quale sia la mia compagnia. Certamente mi viene da rispondere che di amici, o forse di relazioni amichevoli ne ho molte, tante persone ho conosciuto, ho condiviso le diverse mie attività con molti, ma amici veri di cui mi possa fidare forse ne ho solo qualcuno con cui non so se fidarmi fino in fondo. Molti con me condividono le cose che faccio anche i vari miei intrattenimenti, ma non so se mi sono amici. Perché per amici intendo anch’io le persone che ti accettano per quel-lo che sei non per tutte le cose che hai costruito e che metti a disposizione, magari come faccio io per dimostrare le mie possibilità.

No, amicizia è un’altra cosa e a proposito mi ricordo che l’anno scorso non stavo bene, avevo un piccolo problema di salute che mi obbligò a rimandare un paio di viaggi programmati e non andare per più di due mesi alle feste. Ebbene a pensar-ci non è che mi hanno più di tanto cercato, sì le solite telefonate di circostanza, ma non ho sentito una particolare attenzione nei miei confronti come se il mio

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stato di malattia non interessasse più di tanto a nessuno.

L’Ugo che conoscono è quello brillante che sa godersi la vita e non quello malato che magari ha pure necessità di essere consolato. No, credo che il mio sbaglio sia stato quello di pensare gli altri in funzione di me stesso. Non ho mai mancato in rispetto e onestà, ma ho dato un’impostazione alla vita egocentrica forse per na-scondere un senso di solitudine che in certi momenti mi prende come a dirmi: che hai fatto, come hai utilizzato i tanti mezzi che avevi a disposizione, nemmeno ti sei fatto una famiglia. Non è che la volontà di essere generoso era invece pretesa di agire come se fossi tu l’unico a vivere?”

Non si tratta di una confessione, quanto di una ricognizione della propria vita con sen-so di realtà e di onestà morale. Certamente la condotta di Ugo è all’insegna della scel-ta di fondo nel voler materializzare ogni compagnia in modo da poter assaporare ogni utile esperienza di vita. Una compagnia limitata alla ricerca smaniosa del benessere che per anni ha riempito il suo tempo e la sua stessa esistenza, ma lo ha lasciato solo. Una solitudine non relazionale, quanto morale. Senza veri amici e fiducia negli altri, che avverte approfittatori e compagni delle sue varie attività, ma lontani dal suo mon-do e poco inclini a farsi avanti in situazioni differenti da quelle già vissute. In altre pa-role comprende che la solitudine è prima di tutto la mancanza di punti di riferimento sicuri dati da persone che s’impegnano per te.

Non basta stare insieme per un pranzo, una festa, un divertimento, occorre saper riempire la necessità principale di una persona: sentirsi accolta, amata non giudicata e nemmeno strumentalizzata. Ugo non è lontano dalla situazione dell’Epulone fermo ai tanti banchetti e alla porpora e bisso. Certo in lui è scattata l’altra componente, la vo-lontà di rivedere se stesso, di non dare per scontato che il suo modo di vita sia il mi-gliore e sia inattaccabile. Avverte la mancata presenza di altri in una compagnia for-mata da persone capaci di dare valore alla sua stessa esistenza. Che brutta cosa un po’ come l’Epulone, lui nell’inferno, ossia in una situazione insuperabile di sofferenza.

L’Ugo bloccato per qualche tempo da una malattia, isolato e senza attenzione amoro-sa e sincera, lui così apparentemente forte e ricco, ha avvertito la durezza dell’essere solo quando ha avuto necessità, per la mancanza di un po’ di umanità e solidarietà. La compagnia dei soli beni materiali può non permettere di assaporare il bene più prezio-so: la ricchezza insuperabile di qualcuno che davvero ama e condivide la propria esi-stenza.

La vita di Ugo non sappiamo come si sia svolta in seguito, una cosa era oramai certa: aveva capito che doveva operare un cambiamento di rotta, magari meno benessere sociale e maggior attenzione alle persone. Anzi è vero che più si dà e più si riceve, for-se avrebbe dovuto e potuto mettersi in relazione con gli altri anche solo per scoprire la bellezza di una comunicazione sciolta e senza interessi se non il vero bene di ognuno.

Si potrebbe dire: provare per credere o meglio ancora credere provandoci. E qui la strada di Ugo era davvero spianata, forse doveva rivedere qualche compagnia e qual-

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che persona che aveva attorno ma non era ancora abbastanza convinto di riprendere il suo cammino per una giusta risalita verso una migliore qualità di vita.

La cattiva compagnia di Arnaldo

Glielo avevamo detto più volte ma Arnaldo, come guidato da una forza magnetica più potente della sua volontà, non sa farne a meno. Di che cosa stiamo parlando? Della compagnia dei suoi amici per il gioco d’azzardo che già tante volte l’ha rovinato e ha messo la famiglia in condizioni precarie se non disperate. E ora Arnaldo si trova ancora vittima dei suoi amici. Qualche tempo fa l’avevamo proprio fatto riflettere sulle due compagnie della sua vita: la famiglia con una moglie sempre pronta ad accettarlo con i suoi gravi comportamenti e due figli ancora bambini che gli vogliono bene e sempre lo cercano anche quando lui sta a dormire la mattina di domenica dopo una notte gioca-ta a carte.

Questa è la compagnia che dà significato alla sua vita, mentre c’è anche l’altra dei buontemponi che spesso lo richiama e forse lo minaccia per qualche debito di gioco. Che cosa fare? Arnaldo è diviso: da un lato percepisce il valore insostituibile della sua famiglia, gli affetti che non si possono svendere, ma dall’altra è anche attratto dagli amici a cui si è molto legato.

Più volte la moglie l’ha minacciato di lasciarlo per il comportamento inqualificabile ma nonostante le tante promesse è ancora gioco-dipendente. Si cerca di farlo riflettere e presentargli l’opportunità, debitamente aiutato anche dall’esterno, di fare una scelta di qualità. É lui che deve scegliere, anzi deve decidere da che parte vuol stare. Lascia-mogli la parola ora che si è deciso a dire la sua dopo che la moglie per tante volte l’ha incalzato con pesanti considerazioni sulla sua condotta:

Una partitella non è niente, solo che spesso quando si è in compagnia una partita tira l’altra e poi si alza la posta, si scommette sempre di più, a volte anche perché qualcuno ha pure preso un bicchiere di troppo e non si rende conto dei rischi eco-nomici. Poi ci si dice, ma è illusione, che prima o poi ci si rifà delle perdite prece-denti, e invece si vince poco e si perde molto. Ho pensato a lungo, quando mi tro-vo solo, sento dentro di me, il vuoto, come se nessuno mi volesse, come se quello che ho costruito con sacrifici non fosse più mio perché sta crollando. Sento il di-sgusto di me stesso e la mia solitudine di quando penso è quella di non accettarmi per quello che sono diventato.

Come fare a uscirne? Me lo sono chiesto molte volte, ma la risposta è che non ba-sta la mia buona volontà. Certo ora capisco che sono alla fine, o mi rimetto a cre-dere e agire come marito e padre oppure mi troverò presto come un barbone sen-za che più nessuno provveda a me. Devo dare una svolta, la compagnia del tavolo da gioco non riempie, solo stordisce un po’ e poi mi lascia peggio di prima, devo saperla vincere.

Era già un grosso risultato aver aiutato Arnaldo a esternare di fronte alla moglie, fi-nalmente zitta e attenta, le proprie sensazioni interiori, ora avvertiva il bisogno della

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vera e unica compagnia maturata anche in solitudine: voleva riappropriarsi della vita familiare ma aveva necessità di essere sostenuto, l’impatto con gli amici del gioco era travolgente e lui aveva bisogno di sentirsi sicuro con la moglie e con altri che lo stava-no aiutando creandogli un’alternativa più adatta al gioco d’azzardo.

Arnaldo doveva solo scegliere a cuore aperto e con l’animo elevato verso il dono più bello: la compagnia di una famiglia che ancora crede e spera in lui e gli dà la sicurezza di potercela fare a uscire da se stesso per ricrearsi una vita nuova. Qui entra sicura-mente l’aspetto della scelta di credere in Dio molto convinta a parte della moglie Te-resa la quale ammette che il Signore, è il nostro vero compagno di vita interiore, susci-ta nell’animo di ognuno un grande desiderio di bene operare donando una forza mo-rale formidabile per sostenere situazioni pesanti come la sua.

Lei voleva essere per Arnaldo l’alternativa di bene a una vita condotta troppo all’insegna della paura e dell’attrazione verso amici che non facevano altro che allon-tanarlo dal suo vero e unico progetto: donare se stesso alla famiglia. Una battaglia in-teriore stava attuandosi.

Comprendemmo quanto facesse bene ad Arnaldo la compagnia della solitudine; quando sostava solo e aveva utili indicazioni per riflettere si sentiva in grado di ripro-vare a cambiare vita e immetteva il coraggio e la determinazione per riuscirci. Non è da sottovalutare la fiducia in se stessi quando un’altra persona dimostra di credere in te e ti dà la sicurezza non solo d’essere amato, ma anche accompagnato in un delicato percorso. Per Arnaldo significava chiudere una scelta per assumerne un’altra. Ciascu-no cerca a volte in modo misterioso lo stimolo e il giusto incoraggiamento per cam-biare, per rimettersi in discussione e magari migliorare credendo in ciò che sta facen-do.

Non è lontana la vicenda di Arnaldo e della moglie Teresa dalla narrazione lucana del figlio che dopo lunga pausa di riflessione decide di ritornare dal padre che sa capace di perdono e di accoglienza. É il cammino di purificazione interiore, il passaggio da una condotta di vita all’insegna della dissolutezza e senza alcun freno verso il benessere materiale, a una vita dove riemerge il valore insuperabile della compagnia più vera e capace di riempire il vuoto di se stessi, quella genitoriale.

Teresa per Arnaldo svolgeva la stessa funzione, sapeva perdonare e continuare a cre-dere in lui fino a quando fosse lui stesso a essere convinto di dover cambiare vita. “Qualcuno ancora crede in me nonostante le mie malefatte” si domandava, ebbene sì.

Ciò significa che il perdono e la volontà di investire su una persona sono nettamente superiori a qualsiasi errore uno possa commettere e possono rigenerare una vita ap-parentemente perduta. Lo dice chiaramente il padre misericordioso al figlio maggiore:

Questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrova-to” (Lc.15,32).

La compagnia dei beni lascia presto lo spazio al vuoto più che alla solitudine, mentre la

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compagnia di chi vuole bene e crede sempre nelle possibilità dell’altro non solo riem-pie la vita, ma le conferisce valore inestimabile. Arnaldo e come lui molti troppo attac-cati alle illusioni del gioco, aveva bisogno di trovare fiducia non solo in se stesso ma nelle capacità lasciate cadere di cui la prima era la volontà di cambiamento della pro-pria condotta di vita e chi meglio di una moglie ancora innamorata poteva essergli ac-canto?

Compagnia vuole dire in certi momenti uscire da vincoli che portano la solitudine del cuore per trovare il conforto di chi ti ama accetta i tuoi limiti e crede nella possibilità di un cambiamento.

Dulcis in fundo: la compagnia dei curiosi

Parlando con Luca, uomo molto socievole, aperto ai bisogni altrui e sempre pronto ad agire per capire la realtà nella quale si trova, viene da farsi un’altra domanda sulla compagnia dei mezzi più che delle persone. Cosa cercano gli altri da me? E il me può essere esteso a tutte le persone con le quali si sviluppa un contatto. La comunicazione di Luca è assai chiara nella sua sostanza. Arrivato in una zona densamente popolata di un paese, dove tutti si conoscono, pensava che avrebbe facilmente trovato degli ami-ci, persone con cui passare qualche momento in simpatica conversazione e trovare spazio per qualche confidenza.

Sì, era vero che tutti si conoscevano, ma altrettanto vero che tra le persone si era in-staurata una competizione per elevarsi un po’ più in alto in quanto a suppellettili e al-tri oggetti che formavano la decorazione esterna e interna delle case. Una specie di gara condotta con lo strumento più classico del pettegolezzo e vissuta con rapporti tra lo sdolcinato e il melenso per tenere semplicemente la cortesia degli approcci ma svuotati della sostanza di una piacevole conversazione e ancor meno tendenti all’amicizia. Ne è prova direttamente quello che Luca diceva:

All’inizio mi confidavo con qualche vicino, notavo che anche loro mi cercavano. Ho poi capito che, era giusto tenere un’amichevole conversazione e un gentile tratto umano, ma che la loro compagnia non era per condividere ma solo per carpire in-formazioni su di me, sulla famiglia e su ogni altra cosa che potesse loro interessa-re, mancava la volontà di costruire un rapporto vero e sincero. Questo mi ha indi-sposto, non ci sto a un rapporto così formale, ma sostanzialmente distante dal mio bisogno: poter trovare interlocutori con cui stabilire un rapporto sereno e dia-logante.

La stessa propensione a portare in giro informazioni su una persona piuttosto che un’altra come se si trattasse di conoscenze altamente riservate e ora finalmente conosciute dice ancor di più il basso livello di questa comunicazione che va certa-mente superata. Volevo un po’ di conforto o meglio di scioltezza comunicativa e invece ho avuto rigidità e sospettosità. Meglio stare un po’ rinchiusi su se stessi che coltivare queste compagnie.

Comunicazione semplice, ma ancora una volta chiara nel suo concetto di fondo: il rap-

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porto con gli altri quando è viziato dal materialistico possedere o verificare quello che altri hanno quasi in forma di gelosia, snatura il valore della persona e rimette la soli-tudine della non comunicazione. Purtroppo è facile incappare nei vicini di casa di Luca, perché da un lato paura e diffidenza verso gli altri e dall’altro lo spirito di sufficienza quando si crede di possedere molti beni, conduce quasi automaticamente a isolarsi.

Si resta soli con se stessi perché si temono gli altri, non c’è stato il passaggio da una compagnia per procurarsi dei beni a una compagnia con la quale insieme cercare l’amicizia vera per condividere le proprie esperienze. E allora perché questa curiosità perfino morbosa che Luca aveva così bene segnalato? Per una facile scorciatoia, quan-do non si vuole il confronto con le persone si valutano i loro quantitativi di beni posse-duti per voler entrare in competizione e riaffermare il proprio io dominante su di loro. É la sconfitta della capacità di relazionalità a partire dal proprio vissuto per una sorte di relazione all’insegna dei distinguo in senso materialista. Ne consegue la solitudine per la mancanza di solidarietà, per lasciar emergere invece la valutazione e il giudizio solo sulla base di beni e ricchezze. Non si tratta della miglior compagnia.

Essere solo in compagnia

É la massima del nostro testo, che cosa vuole significare? Spesso quando si sta con gli altri, c’è sì una compagnia ma non è detto che riempia la vita e soprattutto le attese e le speranze che ciascuno ripone negli altri ma rimane solo lo spazio personale della propria originalità e irripetibilità che nessuna compagnia o amicizia può riempire.

Esiste un testo biblico dal quale vorremmo prendere spunto proprio su questo argo-mento. Si tratta del racconto di una celebre donna ebrea: Ester, divenuta addirittura sposa di Assuero re babilonese. Ebbene questo re istigato dal suo primo ministro de-cretò lo sterminio del popolo d’Israele e ciò sarebbe avvenuto se la regina Ester non avesse interceduto per il popolo mettendo in chiaro i disegni iniqui del primo ministro. Era un rischio perché il re avrebbe potuto metterla a morte e nemmeno ascoltarla se non con un suo invito. Il testo riporta la lunga preghiera di Ester, la sua angoscia e il timore per il suo popolo. Si sente sola e non può contare su nessuno ma ha fede solo in Dio e a Lui si abbandona:

La regina Ester cercò rifugio presso il Signore, presa da angoscia mortale. Suppli-cò il Signore e disse: “Mio Signore, nostro re, tu sei l’unico! Vieni in aiuto a me, che sono sola e non ho altro soccorso se non te, perché un grande pericolo mi so-vrasta. La tua serva da quando ha cambiato condizione fino ad oggi, non ha gioi-to di nulla, se non di te, Signore, Dio di Abramo (Est.4,17l,17y)

É evidente che la compagnia offerta dalla coorte imperiale, dagli sfarzi, dai divertimen-ti non interessava ad Ester, il suo unico punto di riferimento è il Signore, la fede in Lui, anzi l’abbandono nelle sue mani specialmente quando gli uomini tramano il male.

Da qui la solitudine in compagnia e crediamo che alla regina non mancassero occasioni e persone a suo servizio, eppure si sente sola, sa però di contare sul Signore e sa che quanto lei deve compiere per intercedere a favore del suo popolo non può essere de-

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legato ad altri. C’è l’assunzione personale di una grande responsabilità e non può es-sere condivisa con nessuno, occorre determinazione, convinzione e volontà di andare fino in fondo a rischio della propria vita.

I sacrifici di Elisa

La signora Elisa, madre di tre figli in tenera età, ha vissuto un dramma incredibile: l’abbandono repentino e inatteso del marito Costanzo. Che cosa era successo? Che una sera di sabato invece di vedere Costanzo rientrare in casa magari a tarda ora, visto che diceva sempre di andare con gli amici, non l’ha più rivisto perché era andato a vi-vere con un’altra donna facendo addirittura perdere le proprie tracce. In seguito, quando è stato possibile rintracciarlo, si è sempre negato fino a trovare ogni genere di giustificazione per non sostenere le spese relative ai figli.

Ora Elisa si è trovata improvvisamente sola e senza nessun aiuto, anzi i suoi genitori non hanno potuto più di tanto sostenerla visto che vivevano distanti, con mezzi eco-nomici assai limitati e non in buona salute. E le amiche? Purtroppo a parte una fase iniziale formalmente vicina, tutte in un modo o nell’altro si erano allontanate anche per timore che Elisa si appoggiasse a loro, così come tutti quelli che frequentava col marito, trovarono una scusa per non farsi più di tanto né vedere, né sentire. Elisa do-vette sostenere sia il peso economico trovando un lavoro part time sia quello morale ed educativo di condurre una famiglia con tre figli piccoli di cui il maggiore aveva dieci anni. Una situazione molto pesante e ai limiti delle possibilità, ma Elisa non si volle ar-rendere, anzi era fortemente motivata nel saper sostenere le sue responsabilità con la solidarietà della parrocchia e di volontari vicini e partecipi con il suo dramma. Lei stessa dopo un certo tempo dal trauma della separazione dichiarava:

All’inizio non solo mi sentivo sola, ma anche abbandonata un po’ da tutti, avrei tanto avuto bisogno di qualcuno con cui parlare e dire le mie ragioni, forse cerca-re di capire il perché Costanzo mi aveva fatto una cosa così grave, non solo a me ma anche ai miei bambini privati del padre e senza una ragione. Poi ho pensato, ho chiesto aiuto a Dio e alla Madonna di cui sono devota e mi sono detta:

Se il Signore mi ha dato tre figli è perché devono avere almeno una mamma che si prende cura di loro e se mi ha messo alla prova con un marito fuggito è perché faccia anche la sua parte visto che lui non ne vuole sapere”.

Allora da lì ho iniziato un nuovo cammino, sì sono sola, non ho una compagnia su cui contare, ma dentro di me sono contenta di quello che faccio e percepisco la ri-conoscenza dei miei figli, sì forse gli manca qualche giocattolo in più, qualche og-getto che desiderano, ma hanno me e loro sanno che mi riempiono la vita e non mi fanno sentire sola. Sì è vero avrei anch’io bisogno di affetto e attenzione, ma è bene trovarle in persone sincere e vere che ti sanno accettare per quello che sei e non per quello che eri o vorrebbero che diventassi. In questo ho imparato a cono-scere bene le persone che mi sono state vicine, troppe ne ho avute che mi hanno promesso aiuti e solidarietà e poi più nulla. No, meglio soli che con queste com-

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pagnie. É nel dramma dell’imprevedibile che ti cambia la vita in pochi minuti che conosci davvero chi sono gli altri e chi sono io anche senza di loro.

Elisa aveva oramai compreso la sua nuova situazione e il suo ruolo insostituibile di guida della famiglia. Solo lei poteva e doveva continuare, nonostante la complessa realtà nella quale si trovava. La motivazione era proprio la ridefinizione del suo ruolo essenziale di madre e di donna capace di sapersi adattare a una vicenda molto pesan-te. Lei aveva trovato slancio e sicurezza nel donarsi senza nulla pretendere credendo nelle proprie capacità e nella Provvidenza divina che guida ciascuno sulle strade della vita.

Certamente Elisa avvertiva di essere sola con limitate energie, ma non si arrendeva, anzi nel tempo successivo si stupì delle paure e delle battaglie che aveva condotto su se stessa per migliorarsi e arrivare a saper condurre la casa e l’educazione dei propri figli senza alcun aiuto, solo con la propria determinazione. Solitudine non significa in questo caso perdersi d’animo e nemmeno cercare aiuti qua e là senza valutarne la rea-le consistenza e soprattutto l’affidabilità. Ebbene in Elisa era scattata quella molla che si chiama motivazione interiore, non vi erano ostacoli che potevano fermarne la dirit-tura morale.

Certamente si può farne un parallelo con Ester anche lei sola e senza nessuno di cui potesse fidarsi. Essere soli vuol dire ritrovare e raccogliere energie e capacità nelle quali una persona prima di trovarsi in gravi situazioni, non credeva di possedere. Come a dire, credere in se stessi conferisce un’energia positiva in grado di abbassare i colli, spianare le buca e superare le montagne senza altre compagnie. Certo in Elisa la vita era completamente cambiata, il giorno prima aveva un marito che se non altro prov-vedeva alle spese di casa e parzialmente si occupava almeno dei figli, poi improvvisa-mente tutto è cambiato. Non è però venuta meno la tenacia di lei, la spinta ad andare avanti pronta ad ogni sacrificio, a ogni sforzo pur di poter sostenere il progetto della sua famiglia, della maternità e dell’essere donna realizzata nell’amore che si dona fino in fondo senza temere per il domani.

Essere soli in compagnia! Sì ma di quale compagnia si tratta? Forse che Costanzo era una buona e sicura compagnia, considerato che una notte era fuggito con una nuova compagna? Come poteva dare affidabilità e sicurezza alla coppia? E qui viene il dub-bio: siamo così certi che fino a quel momento non aveva mai dato segnali di ambigui comportamenti e di inaffidabili dichiarazioni contraddette dai fatti concreti?

Come a dire: Elisa si era illusa di avere la compagnia giusta con lui, l’amore della sua vita, ma dentro di sé qualche dubbio se non addirittura timore l’aveva, certo mai chia-rito, mai messo in evidenza. La prima solitudine non è star solo, ma sentirsi solo per-ché con l’altra persona, come il coniuge, non si stabilisce un rapporto all’insegna della trasparenza, della chiarezza e della volontà di sostenere il cammino della vita senza conservare strani e ripetuti dubbi. Come si può trovare una compagnia vera quando il rapporto è spento, si tira avanti solo per inerzia o semplicemente per abitudine e con

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la paura che tutto possa andare male?

Elisa con i suoi sacrifici, con la rinuncia a un progetto che ha visto crollare, si è adattata a una nuova situazione nella quale si è ritrovata raccogliendo energie e risorse che nemmeno lei pensava di possedere, attesta il valore della vita come cammino di cre-scita, con la possibilità di inventarsi il proprio domani accettando l’oggi in cui si vive con uno sguardo rivolto alla Provvidenza di Colui che solo può condurre interiormente ogni persona che in Lui si affida. Non dimentichiamo la forte motivazione verso i figli, offrire loro il calore dell’affetto e il colore di un’educazione vera e sicura conferisce si-gnificato alla propria esistenza favorendo il superando di ogni paura e rabbia per quel-lo che non si è potuto realizzare. Solo l’amore verso aperto e convinto trionfa e riem-pie il vuoto di un’esistenza che sembrava in questo caso crollare senza la presenza del marito.

La vittoria di Graziano

Essere in compagnia di altri significa a volte dover condividere, oltre il rapporto di amicizia o parentela, anche quello di lavoro, con l’impegno di sostenere e dirigere nel migliore dei modi attività economiche indispensabili per la sopravvivenza delle stesse famiglie dei titolari oltre che dei dipendenti. Era così per Graziano un ottimo imprendi-tore con una lunga tradizione ereditata addirittura dal nonno e ora allargata al fratello e al nipote. Davvero una fabbrica funzionante nel migliore dei modi con buona produ-zione di prodotti di qualità e con sicuro mercato, nonostante la crisi e le difficoltà con i clienti per i vari pagamenti.

La credibilità dell’azienda è data dalle persone qualificate che vi lavorano. Era la frase tipica di presentazione. Il sodalizio familiare tirava bene e sembrava che tutto potesse proseguire, anzi rafforzarsi nel tempo quando all’improvviso lo stesso Graziano capì che vi erano delle manovre poco chiare da parte del fratello e del nipote a proposito della contabilità e della consistenza dei fondi. Sul momento pensava a qualche opera-zione condotta dagli altri due e non ancora registrata, poi su delle precise richieste ri-cevette risposte inadeguate oltre a silenzi e chiari avvertimenti a diffidare dei propri soci familiari. A questo punto Graziano aveva capito che gli altri due stavano cercando di prendere l’azienda con manovre varie per sottrarre capitale e reinvestirlo altrove magari con altri nomi. Fu una scoperta pesante, Graziano sembrava incredulo, ma non volle rompere, andare subito in causa e denunciare quanto stava venendo alla luce. Che cosa volle realizzare? Lo sentiamo dalla sua voce:

È vero che una la fai e l’altra te l’aspetti e così è stato per i miei parenti, molto furbi e ingannatori, che meritavano di essere buttati fuori subito e senza tante di-scussioni. Ci ho pensato a lungo, mi sono sentito solo e non avevo nessuno con cui confrontarmi; ecco, mi dicevo con che compagnia di parenti mi sono messo in af-fari! Ma del resto al male si può tentare di rispondere con il bene, per questo non mi sono abbassato ad attaccare e nemmeno a creare grandi discussioni, ho agito pensando a una giustizia più grande della nostra e ho detto loro semplicemente

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che se volevano prendere tutta l’azienda io ero disposto a lasciargliela, ma senza sotterfugi e senza inutili manovre che poi abbassavano la nostra credibilità.

Io volentieri sono disposto a uscire di scena perché per fare un buon gruppo di la-voro occorre fiducia reciproca, stima per gli altri e chiarezza. Visto che queste tre cose insieme con ci sono è bene per me che me ne vada non che mi si sfili l’azienda sotto i piedi. Loro ho visto che hanno cambiato atteggiamento, prima quasi negavano i fatti e minacciavano addirittura querela adesso sono disposti ad una amichevole composizione della nostra situazione per il bene superiore delle nostre stesse famiglie. Se tutti i problemi si legano all’azienda a chi deve avere più soldi o spazi di lavoro, sono pronto a lasciare. Non vale la pena rovinare delle fa-miglie per liti solo economiche, io sono pronto a fare il passo indietro, non m’interessa che posso aver ragione e farla valere nelle sedi opportune e quanto posso realizzare in termini finanziari.

Quando si sa rielaborare la propria solitudine in questo caso parentale e ci si pone nell’atteggiamento di voler superare il male con una rinnovata carica di bene, ecco che si può e si deve agire in favore degli altri se non altro riducendo le conseguenze di un’operazione negativa e scorretta nei propri confronti. Quale compagnia avrebbe avuto per poter proseguire nella sua attività imprenditoriale e quale scelta avrebbe realizzato a contrastare i propri cari con i mezzi tipici delle contese tra soci che non si conoscono e non usano mezze misure per superarsi nella scalata al potere? Davvero una voce fuori dal coro dove ciò che vince è il senso di conciliazione, la decisa volontà di chiarimento senza mai rompere i rapporti tra le persone.

Certo Graziano si sentiva solo in compagnia di fratello, nipote e altri loro alleati in azienda e in famiglia, ma era certa la sua dirittura morale: cercare sempre il bene pos-sibile e non rassegnarsi al male di distruggere i rapporti faticosamente costruiti in tanti anni. Anche su di lui viene da riprendere l’atteggiamento di Ester, quando intuisce che la posta in gioco è assai elevata: la sopravvivenza del suo popolo, non esita a rischiare la propria vita col re spesso imprevedibile nelle sue decisioni. Quando si ama, non c’è misura al donarsi, se le altre persone sono inserite nella propria vita, nessuno può staccarle.

Così valga per Graziano, avrebbe potuto portare il tutto di fronte a un giudizio esterno, ma lui ha preferito la strada conciliante del dialogo anche se faticoso e viziato dalla scorrettezza altrui. Dentro Graziano non c’era solo la rabbia per la delusione avuta con i suoi parenti, ma anche il sentimento del perdono, unito a quello della ricerca della giustizia con il mantenimento del bene superiore: l’unità tra le persone e le rispettive famiglie.

Questa forte motivazione l’ha ispirato nelle sue scelte e l’ha sostenuto nella non facile via riconciliante nonostante pareri differenti ricevuti da altri. I propri familiari fanno parte intrinseca della vita, sono così inseriti che non si possono facilmente distaccare. La compagnia dei propri cari anche se, come in questo caso, ingiusta, è pur sempre

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quella delle persone alle quali siamo chiamati a donare la vita.

Agire d’istinto, essere mossi dal solo desiderio di una giustizia più sommaria e forse più vendicativa non equivale a costruire, ma a restare ancora più soli, con la solitudine di chi ripensando ai propri guai vi aggiunge aggressività, rabbia, rancore e quel che è peggio mancanza di positività. Si è davvero soli e senza speranza quando si rompono gli equilibri dei rapporti familiari, anche se come dice Graziano “costa fatica, ne vale però la pena”.

Non vince il possesso di denaro, non vincono le proprietà di beni più o meno numero-si, vince l’onestà, il dialogo, la volontà di cercare il bene che unisce nonostante il male che può dividere. La vicenda di Graziano è la conferma di una scelta di etica per la propria vita, dove tutti dovremmo cercare la giusta compagnia di persone con le quali saper lavorare nella fiducia reciproca e nella continua volontà di saper ricomporre qualsiasi dissidio con il dialogo, l’ascolto paziente e il senso di rispetto per il bene su-periore dell’unità tra le persone soprattutto della stessa famiglia.

L’isolamento di Mario

Mario è un distinto signore di quasi sessant’anni ha tre figli oramai adulti, è già nonno di due nipoti, si trova bene con loro, rivive quando vede i bambini e si sente cercato da loro. Porta con sé una sofferenza, quella di sentirsi isolato, come se non contasse nulla o ben poco nella vita familiare e si noti che ha oltre trent’anni di matrimonio e si è mantenuto unito alla moglie Edvige senza mai alcuno screzio.

Non ricorda nel tempo trascorso di averle mai mancato di rispetto, così come non ri-corda di aver commesso qualche fatto grave nei confronti della famiglia. Anzi Mario si è comportato correttamente e con tanta disponibilità verso i propri cari. Perché allora si sente isolato e soffre al punto che ogni volta che la moglie con i figli decidono qual-cosa, lui si sente escluso, come se non ci fosse e fosse sopportato? Lasciamogli la paro-la:

Non credo che in casa io abbia mai fatto qualche cosa di grave; si con il mio lavo-ro di rappresentante spesso sono fuori per lunghi tempi perché devo girare l’Italia e l’estero. Non credo sia questo il problema, anche da lontano ho sempre seguito le vicende della famiglia e mi sono fatto sentire da Edvige e dai figli. No, da tanto tempo mi sono accorto che in particolare mia moglie mi sopporta. Credo che alla base ci sia un senso di sfiducia nei miei confronti. Forse non mi ha mai amato ac-cettandomi per quello che sono. É vero a differenza di lei non sono così estroverso e capace di grandi relazioni, ma non solo, mia moglie si è sempre attaccata ai figli senza dubbio più che a me e con loro ha dato il meglio di se stessa e anche adesso che sono fuori casa lei è sempre molto attenta alla loro condizione e si fa in quat-tro per andare incontro a qualche loro richiesta.

Mi fa piacere che qui a casa abbiamo spesso i nipoti perché mia moglie ci tiene che loro siano più liberi e tranquilli. Non capisco però perché mi abbia solo sop-portato, forse ho mancato di tenerezza, io non sono uno che cura tutti i gesti e

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sono piuttosto freddo, come sono una persona che ama la tranquillità. Visto il la-voro professionale che svolgo; almeno a casa vorrei stare un po’ tranquillo. Ades-so che i figli sono grandi e che mi avvicino alla pensione pensavo a un rapporto più intenso, meno tendente a lasciarmi da parte. Perché proprio così io non so mai niente o ben poco di quello che avviene in famiglia, soprattutto nel rapporto con i figli. È, come dire, preoccupazione di mia moglie e basta; io devo solo star lì presente, ascoltare e se anche dico qualcosa spesso più di tanto non viene raccol-to. Diciamo che mi vogliono bene perché me lo devono volere e ciò mi fa sentire solo.

Mario si faceva sensi di colpa e continuava a domandarsi dove avrebbe sbagliato nel suo rapporto con la famiglia, forse nemmeno accorgendosi. Si, poteva essere la strada giusta, ma è anche altrettanto vero che magari loro stessi più di tanto non si accorge-vano della situazione di Mario il quale era apparentemente in relazione, in realtà si sentiva come messo da parte e senza considerazione. É proprio vero che la massima di essere soli in compagnia qui trovava la sua dolorosa attuazione. Dobbiamo però dire che Mario non era persona da arrendersi facilmente e ora che aveva maturato meglio quel senso di chiarezza, aveva avuto finalmente il coraggio di riferirlo ad altra perso-na, voleva ritrovare la propria pace. È vero che poi nel tempo ci si adagia su una situa-zione come questa nella quale le persone di casa pur non avendo nulla di contro re-stano come indifferenti. La solitudine relazionale senza un ruolo e un posto adatto nella vita degli altri a lungo pesa, anzi dà fastidio e Mario lo stava vivendo. Come fare a uscirne, quale via per una ridefinizione della propria posizione diremmo affettiva e re-lazionale?

Mario doveva prima di tutto avere il coraggio di una comunicazione profonda verso Edvige senza temere né di offenderla, né di attaccarla. Era come bloccato da queste paure e da quella di esternare il suo bisogno e necessità di un maggiore coinvolgimen-to nella vita familiare. É vero che Edvige era molto più decisionista di lui poiché per motivi storici era quella che aveva seguito la casa, i figli e tutti i rapporti con i parenti. Questo però non giustificava a lungo la quasi esclusione affettiva del marito, occorreva la volontà finalmente ritrovata di aprirsi, mettere la moglie al corrente del proprio di-sagio e con lei riprendere il suo coinvolgimento nella dinamica familiare. Ci è poi riu-scito Mario?

Crediamo di sì visto che lo rivedemmo dopo qualche mese e oltre a esprimere la sua soddisfazione per i nipotini proprio affezionati al nonno e diceva che con Edvige una cosa era cambiata, la sentiva parte della sua vita non per obbligo morale o per abitu-dine oramai consolidata.

Aveva intuito che era lei a sentirsi in colpa per una condotta rivolta nei suoi confronti solo all’insegna del fare tutto e bene senza però un po’ di anima e di cuore. Il loro amore, la loro relazione andava più che mai rivalutata a partire dal bisogno di en-trambi di aprirsi, parlarsi e mettersi sempre al corrente su ogni evento riguardante la loro quotidianità. Il tirare avanti, pur rispettoso non bastava per dare completezza alla

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necessità di unione che parte, si sviluppa e si completa nell’essere in due senza sentir-si ciascuno solo per proprio conto come se l’altro quasi non ci fosse.

Era il principio guida, anzi l’ispiratore di ogni successivo passaggio. Non saremmo però pienamente soddisfatti se non riportassimo anche la comunicazione fatta da Edvige, la quale voleva dare la sua versione dopo un certo tempo trascorso dall’intervento di Mario:

Io sono stata educata a una vita dove la donna in casa è quella che fa, agisce e si mette sempre a disposizione del marito e dei figli. Anzi quando ho poco da fare mi sento a disagio, il mio rapporto l’ho impostato proprio così, con la volontà di de-dicarmi fino in fondo alla famiglia pronta a dare sempre il meglio di me stessa. Mio marito certo che gli voglio bene e sono convinta di aver sempre agito per dargli il meglio sia nel tempo sia nelle varie vicende di famiglia. Sì ora mi sono ac-corta di aver agito tante volte spinta dalla volontà di decidere, di mettere tutto in ordine, soprattutto i figli ed ora i nipoti anche per non dare troppe preoccupazioni a Mario così impegnato fuori con il suo lavoro.

Certamente il suo bisogno di essere meglio inserito in famiglia è reale, perché poi ti prende l’abitudine ad andare avanti come se non ci fosse altro da fare e non ci si accorge che si potrebbe cambiare qualcosa. É vero Mario me l’ha fatto notare, dobbiamo sentirci più vicini, ci vogliamo bene, manca il modo con il quale dimo-strarcelo, lui è un po’ chiuso mentre io sono più estroversa e rischio di non accor-germi, di trascurarlo. La vita passa in fretta, siamo già vecchietti ed è bello se riu-sciamo a migliorare la nostra comunicazione.

Edvige ammetteva che la necessità di Mario di una maggior comunicazione nella cop-pia, per sentirsi accolto e coinvolto nella vita familiare era reale e come tale la inter-pellava da vicino. La solitudine in due inizia quando uno ignora le necessità dell’altro, ma si può anche concludere quando insieme ci si accorda sulla modalità di stabilire nel dialogo in coppia, la volontà di crescere, proseguire e solidificarsi come si dice per es-sere un “cuor solo ed un’anima sola”.

L’altro fa parte della propria vita e l’altro diviene vita in ciascuno quando se ne avver-tono le esigenze anche a volte inespresse verbalmente ma chiare sia con il non verba-le, sia nella volontà di trasmettere messaggi di speranza e di aiuto per la reciproca cre-scita. In ogni caso tornando alla figura biblica di Ester, solo Edvige poteva recuperare il rapporto con Mario e renderlo adatto a una qualità di vita differente. La compagnia delle persone care è davvero una risorsa indispensabile e insostituibile, per questo non va mai né sottovalutata, né superficialmente intesa.

7 La solitudine dell’abbandono

Abbiamo già riflettuto sulla figura di Giobbe abbandonato dai suoi familiari e giudicato in modo negativo dagli amici. C’è però nella Sacra Scrittura un’altra immagine molto forte e profonda della solitudine dell’abbandono quando si è nella necessità più impel-

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lente. Vorremmo introdurci con un brano evangelico di Luca assai conosciuto per ri-leggerlo nella dinamica dell’abbandono:

Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spo-gliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, lo vide e n’ebbe compas-sione. (Lc. 10,29-33)

Si tratta dell’episodio doloroso dell’aggressione di un viandante in cammino per mano di un fuorilegge in quel tempo fuori ogni controllo. Essere soli di fronte a un pericolo costituisce da sempre paura, angoscia e quel che è peggio senso di abbandono. Ben due persone sono passate accanto, addirittura ministri del culto, senza prestare soc-corso. Il povero viandante in pericolo di vita che cosa avrà pensato? Per quali motivi non mi hanno soccorso e mi hanno lasciato solo?

É lì che si sperimenta il dolore interiore più grande: la sua sorte non solo non interes-sava a nessuno, ma anzi faceva cambiare strada, quasi per paura che guardarlo troppo avrebbe provocato dei sensi di colpa. L’assenza di qualcuno che ti aiuti quando sei nel bisogno ha spesso come diretta conseguenza l’incapacità di affrontare la vita e la sen-sazione di essere inutili. Al povero viandante sembrava di essere stato aggredito una seconda volta, non dai banditi, da persone apparentemente normali ma indifferenti al suo grave stato. Era come sentirsi messi da parte dalla società, perché d’impaccio o fonte di possibile pericolo, come infettarsi per le ferite o rischiare a propria volta l’aggressione dei fuorilegge. Si possono sempre trovare mille motivi per non interveni-re e restare tranquilli e continuare la propria strada senza prendersi cura di una per-sona nel bisogno.

La persona che non l’ha pensata così è addirittura un samaritano, uno di un’altra re-gione, con usi religiosi differenti e considerati scismatici dai sacerdoti giudei passati poco prima. La compagnia dello straniero, il samaritano appunto, fu quella non solo di curare le sue ferite, ma anche di dimostragli attenzione, sensibilità, volontà di pren-dersi cura non solo della sua realtà fisica, ma di quella umana, sociale e psicologica.

Lui solo cambia il suo programma e, perché possa rimettersi al più presto, lo accom-pagna addirittura in una locanda e paga di tasca propria. In altre parole dimostra che lui è presente e si coinvolge con questa persona ferita e sconosciuta, e ne fa parte del-la sua vita per non lasciarla sola. Dall’abbandono alla solidarietà il passo può essere breve ma occorre crederci e metterci il massimo d’impegno. Con la propria presenza si può ridare speranza e vita a chi si trova nel bisogno più drammatico. Quando si è posti di fronte ad una persona che ha bisogno di aiuto, si può fingere di aiutarla o ignorarla e quindi abbandonarla nell’indifferenza, oppure si può prendersene cura. In ogni caso ciascuno deve saper compiere delle scelte precise. Ci può essere di aiuto la storia di Pippo.

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7.1 Il dramma di Pippo

La storia di Pippo, uomo apparentemente vicino ai sessant’anni, riflette da vicino quel-la del malcapitato viaggiatore tra Gerusalemme e Gerico, solo in un altro contesto. Pippo frequenta le strutture della CARITAS e di altre organizzazioni caritative. Non solo è in estremo disagio economico, ma anche morale e sociale, in altre parole lo po-tremmo chiamare dissociato, fuori da quello che è considerata la normalità sociale.

Pippo vive il dramma di essere senza fissa dimora e senza affetti stabili e sicuri. Il suo racconto, non facile da raccogliere perché comunicato in modo frammentato e soffer-to, parte da un fatto grave che lui stesso vuole narrare:

Una decina di anni fa, stavo bene economicamente perché avevo un’attività di ri-storazione con una buona clientela. A un certo punto mi sono accorto che mia moglie non mi era fedele, aveva sicuramente un amante in un mio dipendente con il quale sono certo si trovava parecchie volte fuori dall’ambiente di lavoro.

Che dire? Avrei dovuto chiarire, metterla con le spalle al muro, magari separarmi, oppure semplicemente far finta di niente. In fondo anche altri che conosco tirano avanti così nell’indifferenza totale, ciascuno fa quello che vuole, basta un minimo per mandare avanti la casa e nel mio caso i tre figli che abbiamo avuto. Io invece ho fatto una cosa sbagliata; già avevo qualche difficoltà con il ristorante perché rispetto qualche tempo prima non andava bene la sera, erano diminuiti i clienti e bisognava ridurre il personale, cercare di limitare le spese. Mi decisi a lasciare a casa il suo spasimante, che non aveva un contratto a tempo indeterminato. Mia moglie sicuramente capì il tutto e da quel giorno il rapporto già poco scorrevole divenne difficile con liti e scontri continui. Io da un lato stavo il più possibile nell’ambiente di lavoro e dall’altro stavo zitto per il bene dei figli. Poi iniziai a bere in modo smodato.

Avevo di fronte tanti alcolici e vendendoli ogni giorno potevo facilmente berli. Questo mi dava al momento un certo sollievo anche perché ero capace di non far-lo vedere. Soltanto che un giorno, mi ricordo una mattina, di fronte a dei paga-menti arretrati che volevo estinguere, forse perché ero fuori di me per il troppo alcool, firmai delle cambiali che m’impegnavano in modo eccessivo e in tempi brevi. Il mio stato poi peggiorò per il fatto che mia moglie non contenta di farmi sceneggiate, anche di fronte ai figli sparlava di me e si era accorta che bevevo ac-cusandomi di non saper mandare avanti né casa, né ristorante, da qui la conse-guenza dell’isolamento anche dal personale.

In poche settimane fui costretto a lasciare l’esercizio guarda caso all’amante della moglie che chiese la separazione per colpa mia dovuta all’incapacità di controllo nel bere, come testimoniarono i dipendenti. Mi trovavo davvero in un guaio gros-so e tutta per colpa della mia debolezza, della paura a fare chiarezza con la verità dei fatti per affrontare la situazione quando si era ancora in tempo a fare qualco-sa e poterla migliorare. Cercai un altro lavoro ovviamente nel mio settore, ma

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c’era una specie di brutta fama sul mio conto e fui preso solo per un breve perio-do come barista e poi rimasi sia senza lavoro e sia senza un’abitazione adatta. Quel poco che possedevo cercai di darlo in garanzia per avere qualche prestito e poter almeno affittare una camera, anche in luoghi periferici, ma non ebbi grande successo. Mi era venuta voglia di farla finita, in fondo a chi servivo? Che cosa era diventata la mia vita?

In pochissimo tempo avevo perduto gli affetti della famiglia, il lavoro, la stima e la fiducia degli altri, oltre la mia. Iniziai a non bere più anche perché costava trop-po procurarmi alcool e le risorse erano limitate. Parlai con qualche amico che mi era rimasto e il consiglio fu di rimettermi a lavorare magari cambiando città o addirittura regione. In fondo, mi dicevano se qui non sei andato bene, può darsi che altrove tu possa ricominciare una vita nuova. E questa parola continuava a suonarmi di dentro. Pensai a una vita nuova, ma non in un’altra città.

Mi sono così messo sulla strada. All’inizio ero abbattuto, credevo che non potessi più essere accettato dagli altri. Ho cercato altri come me e ho trovato quello che mai avrei pensato: la solidarietà. Sì, proprio in questi ambienti seguiti da volontari motivati e attenti ho incontrato persone con storie pesanti di abbandono ancora peggiori della mia e mi sono fatto forza, per il coraggio di quelli che mi dicevano: “guarda come sei e come siamo anche noi da anni, abbiamo qualcosa da mangia-re, anche un letto l’abbiamo trovato, ci sentiamo liberi, non abbiamo nulla da perdere, ci vogliamo bene, siamo un gruppo che cerca di andare avanti sostenen-dosi con amicizia e quello che abbiamo sappiamo dividercelo”.

É proprio vero non avrei creduto che nel mondo dei cosiddetti barboni c’è parteci-pazione alle vicende di altri. Qui ho capito che tanti finiscono in questo modo per-ché sono rifiutati dalla gente, perché non gli danno un’altra possibilità e perdono la dignità di persone. In questo mondo nascosto ma presente dove vivo, si sco-prono rapporti veri e quando vado a chiedere qualcosa per avere un minimo con cui andare avanti non mi sento vergogna.

Ho avuto, ho dato, ora non sono solo; molte persone sento attorno che m’incoraggiano ad andare avanti, ad accettare questa realtà. È proprio un’altra vita, certo nessuno la desidera, ma è anche vero che non è poi così brutta e tre-menda, basta entrarci accettando il male subìto e desiderando il bene di una nuo-va condizione. A che cosa penso? Che forse sarei stato un buon padre, magari pu-re un bravo ristoratore.

Sì la mia solitudine è ripensare, e lo faccio quasi in ogni istante della giornata, a tutto quello che avrei potuto fare e che non ho fatto perché altri me l’hanno im-pedito e io ora ho la possibilità di inventarmi una vita completamente differente, un po’ strana ma autentica, certo senza le comodità di prima, senza la famiglia e gli amici di prima, ma tra gente vera, tra persone che riempiono la mia solitudine. Se una sera non mi vedono arrivare all’ora giusta per la cena si preoccupano e

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non passa giorno nel quale non si condivide con quelli con cui dormiamo e pas-siamo insieme la nostra giornata. É vero viviamo spesso dell’elemosina che rice-viamo, ma tra noi siamo uniti, siamo un piccolo gruppo unito per vivere una vita nuova”.

7.2 Che dire?

É certamente una testimonianza di forte effetto, siamo in un tempo nel quale i rap-porti umani sembrano quasi una concessione, un optional perché ci si crede autonomi e autosufficienti. Basta restare di fronte a un computer, chattare, inviare e-mail, scri-vere messaggini, navigare dentro facebook o inviare immagini e filmati su youtube e il mondo sembra ai propri piedi. Questo flusso delle modernissime tecnologie digitali è autentico ma i rapporti umani, le relazioni che danno sicurezza e voglia di comunicare, la bellezza di trovare qualcuno che ti ascolta per conoscere la tua vita e camminare con te dove si trova? Non è certo internet o altri ritrovati di questo tipo a darcela. La storia drammatica di Pippo insegna molto e vorremmo commentarla in tre dimensioni:

Pippo ha incontrato, come nella parabola, i briganti, cioè persone che l’hanno assa-lito e una di queste è stata proprio la moglie che con altri alleati vuoi per una nuova relazione e vuoi per interessi economici;

Pippo non ha avuto subito accanto il buon samaritano per assisterlo e si è dato ad una cura sbagliata, forse l’unica che in quel momento poteva offrirgli qualcosa. Si è messo a bere in modo smodato, ha sfogato la propria rabbia e la non voglia di vive-re e di riconquistarsi dignità, nell’autolesionismo. Si è procurato del male su se stesso escludendosi sempre più dagli altri, dal consesso umano fino a finire nella strada dove in apparenza si è come dei rifiuti, persone di seconda categoria;

Pippo distrutto, messo da parte come se non esistesse, non ha spento la voglia di inventarsi una vita nuova anche se non aveva più le opportunità di prima. Nella sua solitudine, nel suo dolore esistenziale, ha trovato una forza, un’energia che non sapeva di possedere, ha accettato il nuovo ambiente, si è messo in relazione con persone rifiutate come lui, ma capaci di riempire con la loro compagnia la sua vita al punto da darle un significato, un senso di speranza. Ha ritrovato la voglia di lotta-re e di credere in ciò che fa.

Da qui la vita di Pippo è partita verso nuovi obiettivi e uno di questi è stato e lo è anco-ra la capacità di accettarsi e di rimettersi in gioco con altre persone diventate per lui familiari che con le loro attenzioni che gli permettono di andare avanti in modo digni-toso senza paure e senza timori. Ora cosa deve temere di più Pippo? Forse l’imprevedibilità della moglie, la doppia faccia dei dipendenti, i creditori oppure il giu-dizio di amici ben pensanti?

No, Pippo si sente libero di vivere la vita che inventa ogni giorno senza la sicurezza economica e pratica. Domani forse dormirà su una panchina del lungomare con qual-che panino rimediato alla meglio, ma con dentro di sé è ritornata la voglia di ripren-dersi la vita come se fosse nato una seconda volta. Avrebbe forse preferito restare

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nella condizione precedente e affrontare una realtà davvero pesante e dura, ma è an-data così per un insieme di cose e di questo non si rammarica, non si pente. Sì forse una responsabilità si sente di affermarla con le persone pronte a ridargli dignità. Pippo stesso dirà apertamente:

Nelle mie lunghe giornate che spesso passano lungo il marciapiede piuttosto che al lungo mare o a cercare qualche piccolo lavoretto di facchinaggio o altro che con amici riusciamo a trovare come pulire qualche spiaggia o androne, ripenso al-le mie scelte di vita, mi è mancata la determinazione per affrontare quanto mi stava accadendo mi sono troppo in fretta arreso di fronte ai fatti. Sì è vero oggi sono più forte, perché mi sento sostenuto da altri, non avverto la solitudine di non saper su chi contare quando tutte le cose ti vanno male. Non ho perso la speranza nella vita.

Era chiaramente l’ammissione del suo passato di cui in ogni caso non si vergognava, lo sapeva accettare e non sentiva più il bisogno della bottiglia, ma sentiva ora la voglia di combattere la battaglia della vita con l’arma vincente: credere in se stesso, non farsi prendere dalla sfiducia e dallo scoraggiamento. Certo Pippo apparentemente era fuori da quel consesso umano denominato vivere civile, era assistito in strutture caritative e non aveva una fissa dimora.

Era reale la sua rinnovata volontà di affrontare la vita. Per lui il buon samaritano erano gli amici trovati proprio lungo la strada e la carità organizzata che gli fornivano i mezzi indispensabili per vivere e farlo diventare capace di affrontare con i suoi mezzi i peri-coli che il cammino della vita può riservare. I briganti del malcapitato erano ben poca cosa di fronte ai danni da lui subiti da persone in cui credeva e a cui aveva dato molto nel suo impegno profuso in famiglia e nel lavoro.

Essere ingannati o derubati nella fiducia dai propri cari e dalle persone vicine è molto più pesante del danno subito dai borsaioli di strada, quelli fanno solo un assalto di po-chi minuti, quelli hanno distrutto la fiducia dopo avere a lungo ben ponderato e co-struito con malizia nei minimi particolari. Eppure Pippo non nutriva ora sentimenti ne-gativi, era dispiaciuto per il suo stato vita, voleva riconquistare l’affetto almeno dei fi-gli, ma intanto aveva ricominciato a vivere e a lottare e questo lo rendeva sicuro e pronto a continuare il cammino della vita.

7.3 Le amicizie “samaritane” di Armilla

Armilla, una giovane trentenne aveva avuto una vicenda a dir poco straordinaria in cui aveva sperimentato l’abbandono. Ora voleva riprendere il cammino della vita con una rinnovata carica. Che cosa le era successo? La ragazza, quando la conoscemmo, era di-strutta a livello psicologico, morale e fisico e non si curava nemmeno più. Avvertiva forti dolori di stomaco e tanta pesantezza. Non fu facile capire la sua realtà perché temeva di raccontarla. Poi il calore umano, l’attenzione e l’amicizia di un gruppo di preghiera e di fraterno incontro in una parrocchia, riuscirono a metterla in condizioni di raccontare la sua sofferenza per il proprio stato:

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Ho avuto una storia con un uomo che diceva di volere bene a me unica donna del-la sua vita. L’avevo conosciuto attraverso le chat, subito si è dimostrato affettuo-so e pieno di attenzioni. Io avevo un enorme bisogno d’essere amata, cercavo qualcuno che mi mettesse al centro, avevo avuto già altre storie, ma erano poco serie, con ragazzi superficiali, interessati solo al divertimento e al sesso.

No, con Fiorenzo volevo che la storia fosse una cosa seria e ci ho creduto da subi-to. Lo pensavo continuamente, mi vedevo già unita a lui con dei figli e con la no-stra casa. Lui stesso condivideva questi miei progetti, anzi li aumentava d’intensità facendomi sempre credere di essere unica e di aver avuto un grande dono dalla Provvidenza.

Ho continuato con lui per tre anni nei quali nulla potevo sospettare, ci si vedeva all’esterno in differenti luoghi e con tanto affetto. Anzi mi lasciava parlare, mi ascoltava e ricordava bene quello che gli avevo detto. Posso dire che avevo trova-to in lui un punto di riferimento importante per la mia vita. Ma accadde l’imprevedibile? Un giorno senza quasi accorgermi vidi una foto sul suo cellulare che lo ritraeva con un bambino in braccio e un’altra donna. Non solo, ma oltre al-la foto, aveva conservato un nastrino azzurro con la sua famiglia nella sua auto vicino al cruscotto in un posto non molto visibile.

Era insieme, addirittura sposato, con un’altra donna da quattro anni e nonostan-te questo continuava con me a tenere il piede in due scarpe. Il mondo mi crollò all’improvviso e tutta la mia stima, il mio affetto, il desiderio finalmente di forma-re una famiglia andava in frantumi. Fiorenzo era una persona non solo scorretta e disonesta, ma perfino traditore della sua famiglia di cui avrebbe dovuto avere un minimo di rispetto.

Che cosa dovevo fare? Gli chiesi una spiegazione, dapprima cercò di negare, di af-fermare che non era sua moglie, poi alla fine messo alle strette anche da altri di-scorsi fatti e da piccoli segni che ora apparivano chiari e inequivocabili ammise la propria situazione. Io ero in ogni caso per lui la compagna giusta, la moglie l’aveva sposata, aveva avuto un figlio durante la nostra relazione, ma diceva di non amarla. In lui vi erano come due personalità, non potevo né credergli, né dargli dell’altro tempo.

Anche se mi ha spergiurato di amarmi e di aver fatto uno sbaglio a sposarsi con quella donna, e continuava a insistere fino quasi a diventare ossessivo, io l’ho la-sciato e non ve voglio più sapere. Mi ha ingannata e ha pure preso da me del de-naro che mi avrebbe detto utile per iniziare insieme una vita nuova, anzi forse era più interessato a questo che alla mia persona.

Da lì la mia crisi esistenziale, al di fuori di lui non avevo nessun altro punto di rife-rimento, è questo fu forse il mio sbaglio, non ho amiche di particolare fiducia e trovo imbarazzo a raccontarmi, temo di essere giudicata e squalificata come una ragazza ingenua e sciocca che non capisce chi ha di fronte. Portai così la mia ri-

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chiesta di aiuto in una parrocchia dove ho potuto trovare un ambiente accoglien-te e persone che mi hanno ridato la possibilità di ricominciare a vivere.

Armilla arrivata con il suo pesante carico esistenziale, si sentiva fortemente sola, non sapeva riprendersi, cercava una compagnia che potesse aiutarla a riprendersi e riavere fiducia in se stessa. Aveva bisogno di rielaborare la sua storia di sofferenza e trovò l’aiuto in un gruppo che seppe sostenerla con un’amicizia disinteressata. Poi s’impegnò anche in un servizio di volontariato in cui animava il tempo libero di un gruppo di bambini. La mente e la volontà concentrate sui piccoli e la sua capacità di creare legami nuovi nel gruppo parrocchiale, furono per Armilla la migliore via di usci-ta alla sua situazione.

Ora la giovane iniziava a capire il valore della vita aperta non solo a un uomo inganne-vole e capace di sfruttare il suo sogno di essere amata con prospettive illusorie. Aveva di fronte un gruppo di amici che le stavano accanto e uno spazio in cui trasmettere il suo desiderio di rendersi utile a qualcuno.

Non solo anche la sua stessa vita spirituale nel gruppo di preghiera ben guidato, costi-tuiva per lei una forte ricarica e una rinnovata possibilità di non sentirsi né sola, né abbandonata e nemmeno peccatrice per essere stata con un uomo sposato. Il suo stesso senso di colpa così ripensato diveniva occasione per una piena riconciliazione con se stessa. Anzi l’essere rimasta sola per qualche mese, se l’ha rattristata nel ripen-sare a tutta la storia di sotterfugi e menzogne costruite da Fiorenzo, dall’altra parte l’ha aiutata a capire di più se stessa e ad aprirsi al mondo senza dover più concentrare tutte le sue attese in un nuovo rapporto di coppia. Armilla doveva andare oltre Fioren-zo e capire in che modo si era lasciata travolgere nel rapporto con lui.

Stava comprendendo di aver lasciato una prospettiva di vita familiare assai incerta per occuparsi invece di altri inserendosi in un gruppo capace di sostenerla e darle atten-zione in un clima di solida amicizia.

Ora la compagnia dei nuovi amici e la loro accoglienza la rendevano sicura, e la pre-ghiera comunitaria con scambio d’intenzioni la rendeva più serena e pronta a ricomin-ciare senza recriminazioni. Fino allora la sua solitudine le aveva causato rabbia per il rapporto rovinoso con Fiorenzo, ma ora iniziava a capire che forse anche lui era una vittima della sua incapacità di darsi un progetto e di cercare affetto per la sua grave immaturità dovuta alla propria incapacità di prendere decisioni definitive.

La compagnia, che la stava liberando dal suo passato per rilanciarsi in un avvenire più sorridente, riprende la figura del samaritano generoso e attento al bisogno di soccorso del viandante ferito. Anche Armilla ferita, non nel corpo ma nell’anima e per la soffe-renza di non trovare qualcuno che si prendesse cura di lei. Chissà quante volte avrà pensato che il mondo fosse finito con Fiorenzo.

Quando lui si era rivelato nella sua bassezza, il mondo le crollò addosso. Ma ora è pronta ad affrontarlo con le nuove amiche, assai disponibili a darle fiducia e incorag-giamento per non arrendersi di fronte alle prepotenze. Certo può essere difficile tro-

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vare persone come quelle del gruppo parrocchiale di Armilla, ma si possono sempre incontrare situazioni in cui potersi prendere carico dei pesi altrui e dare compagnia solo per amore e senza giudicare le scelte operate da ciascuno. È la spinta che viene oltre che dalla fede, da una volontà ben determinata di condividere per dimostrare una reale attenzione al dramma della più pesante solitudine: sentirsi soli senza fiducia negli altri.

Non bisogna disperare; la razza dei samaritani non è estinta, è solo più difficile da sco-prire, e si possono trovare compagnie adatte a risolvere la paura di se stessi e supera-re il vuoto che si prova quando si commettono degli errori e ci si trova soli e senza punti di riferimento.

7.4 Il silenzio di Guglielmo

Guglielmo è un nonno di una settantina d’anni e da qualche anno fatica a muoversi per vari problemi fisici e spesso ha bisogno di aiuto per uscire da casa. Lui è vedovo da circa tre anni e ha quattro figli sposati con un discreto numero di nipoti. Ebbene i figli più di tanto non ve vogliono sapere di lui, gli pagano la retta per le cure mediche e la badante a tempo parziale, ma non vanno spesso a trovarlo. Possono passare settima-ne se non mesi. Perché? Si chiede Guglielmo, si sente solo, di quella solitudine che è la dimenticanza degli altri, quasi avesse commesso chissà quale scorrettezza. Verso i ra-gazzi non ha fatto mancare nulla di quanto era in suo potere e ora sembra che debba quasi chiedere il favore di qualche visita per vedere come sta. É vero che i suoi figli la-vorano, hanno famiglia e sono presi da molte cose, ma il padre quasi bloccato in casa non può essere dimenticato. Da qui la sua sofferenza per una solitudine che avanza nel tempo e diviene fonte di umiliante attesa di una comunicazione che non c’è o è scarsa. Capisce che si occupano di lui quasi per forza, perché debbono farlo, ma lo vo-gliono per davvero? Così le ore sembrano non passare mai, i ricordi pullulano nella mente con immagini di una vita che non si possano fermare. E allora la tristezza che invade il suo animo. Lui racconta così:

Mi sembra d’essere come un arnese di lavoro messo da parte perché non rende più. Sì è vero che noi vecchi a volte parliamo un po’ troppo della nostra salute e del passato legati come siamo ai ricordi. Ma come faccio a dimenticare le tante cose che ho fatto, quando sono lì solo durante le giornate riaffiorano i ricordi del matrimonio, della nascita dei figli, della loro crescita di qualche preoccupazione che mi hanno dato. Anzi li rivedo bambini pieni di giochi e grandi progetti.

E ora eccomi qui a dipendere almeno in parte da loro che con troppa disinvoltura mi hanno messo da parte pulendosi un po’ la coscienza con qualche rara visita. Perché? Non hanno tempo o non lo vogliono trovare. Sono sempre il padre, anche se con meno risorse di un tempo.

C’è poco da dire. Solo una breve considerazione: la vita non finisce nella solitudine re-lazionale di Guglielmo, certo il ruolo insostituibile dei figli resta la sua angoscia, ma an-che per lui qualche samaritano si trova ed è questo uno dei settori, dove il volontaria-

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to può essere una preziosa risorsa.

Saper condividere la sofferenza e saper restare anche solo a fare un po’ di compagnia a quanti avvertono questo dramma attuale: l’abbandono affettivo non quello effetti-vo. Una realtà che dimostra quanta solitudine procurata esista e si possa superare in atteggiamenti sensibili ai bisogni altrui.

7.5 Il vuoto e il distacco rendono soli

Nel tempo che stiamo vivendo, esiste una realtà ancor più pesante: la scomparsa delle persone, la cessazione della vita, il dramma del lutto. Perché oggi è più pesante di ie-ri? Per la semplice ragione che in una società efficientista, informatizzata e apparen-temente perfetta come l’ingranaggio di un motore, parlare di morte significa pronun-ciare un nome cui non corrisponde una esperienza diretta. La morte o è evento da scenografia filmica o simulata in un mondo virtuale di video giochi, oppure diviene quasi un’operazione mediatica di reportage da luoghi di sofferenza, guerre e rovine.

La società spesso dimentica le tante persone che concludono la loro vita nelle corsie degli ospedali o in altri luoghi di cura, per incidenti o per la povertà che purtroppo di-vora ancora molte vite. Che cosa possiamo dire? Certamente la scomparsa di una per-sona, specialmente se in giovane età, improvvisa o dopo una lunga e sofferta malattia, è causa di ulteriore sofferenza e porta con sé il vuoto, il senso di solitudine che nessu-no può colmare. Perdere una persona è come perdere una parte di se stessi, della propria storia legata a ricordi, esperienze vissute insieme, momenti nei quali la vita sembrava non dovesse mai terminare.

7.6 Le angosce di re Ezechia

Vogliamo riportare una splendida testimonianza raccolta dalla Sacra Scrittura che si ri-ferisce alla preghiera del re di Giuda Ezechia, giusto e saggio. Fu colpito da una grave malattia, sentì venir meno la propria vita e avvertì il dramma della solitudine: di fronte alla morte qualsiasi posizione uno abbia, qualunque compagnia possa avere attorno a sé, resta comunque in totale solitudine, avverte la vita fisica che sfugge e l’immersione in un mondo nuovo che non conosce, dove deve solo fidarsi del Padre misericordioso obbligato a verificare se la sua fede è vera o se è solo superficiale. Il te-sto recita:

In quei giorni Ezechia si ammalò mortalmente. Il profeta Isaia si recò da lui e gli parlò: “Dice il Signore: dà disposizioni per la tua casa, perché morirai e non guari-rai”. Ezechia allora voltò la faccia verso la parete e pregò il Signor: “Su, Signore, ricordati che ho camminato davanti a te con fedeltà e con cuore integro e ho compiuto ciò che a te sembra bene”. Ed Ezechia fece un gran pianto. Prima che Isaia uscisse dal cortile centrale, il Signore, gli disse: “torna indietro e riferisci a Ezechia, principe del mio popolo: Dice il Signore, Dio di Davide tuo padre: Ho udito la tua preghiera e visto le tue lacrime; ecco io ti guarirò; il terzo giorno salirai al tempio. Aggiungerò alla tua vita altri quindici anni. Ed Ezechia proruppe in una preghiera: “Io dicevo a metà della mia vita me ne vado alle porte degli inferi; sono

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privato del resto dei miei anni. Non vedrò più il Signore sulla terra dei viventi, non vedrò più nessuno fra gli abitanti di questo mondo. In un giorno e una notte mi conduci alla fine. Il Signore si è degnato di aiutarmi, canteremo nel tempio del Si-gnore”. (2 Re 20,1-7 e Is.38,10-11.20).

Certamente l’attaccamento alla vita terrena è enorme e questa testimonianza biblica lo sta ad affermare. La paura della morte e l’incapacità a far fronte alla malattia preco-ce e tremenda che aveva colpito il re, attesta quanto sia difficile e pesante accettare la propria fine. Non solo ma Ezechia non sa darsene una ragione dal momento che era vissuto fedele al Signore e pronto ad operare per il bene del suo popolo senza com-mettere gravi errori e senza peccare né di presunzione né di idolatria, posizione invece assai diffusa nei vari re che avevano governato prima di lui. Ci si chiede perché proprio a lui questa improvvisa malattia e quanto vuoto lascia la sua uscita da questo mondo soprattutto nelle persone che gli sono ancora vicine?

7.7 Le angosce di Armando

Armando è un uomo arrivato da poco in pensione dopo una vita molto attiva e con una buona posizione sia economica sia familiare. Ha lavorato con impegno e dedizione per la propria famiglia mantenendo l’unità e la pace con due figli con i quali è molto unito. Improvvisamente scopre di essere gravemente ammalato, una malattia che spesso non perdona. Colpito nella zona ossea deve subito sottoporsi a pesanti cure mediche tra cui alcuni interventi atti a contenere il male e arginarlo per evitarne la dif-fusione nell’intero organismo. Sul momento è come distrutto e sente l’impossibilità a fronteggiare questo evento.

Comprende che tutto gli sta crollando intorno: i suoi progetti per una tranquilla vita familiare oramai da pensionato; il lungo viaggio per trovare i parenti all’estero che lo aspettavano da tanto tempo; l’idea di ristrutturare casa, finalmente ha il tempo neces-sario per potersela meglio godere. Ed ecco la terribile realtà, una grave malattia di fronte alla quale le speranze sono poche. Tutto sembra finire, è vero che la moglie, i figli e anche i parenti più prossimi non mancano né di incoraggiarlo ad affrontare il percorso terapeutico pesante e delicato, né di fargli capire che non mancheranno di stargli accanto. Già nella degenza ospedaliera si alternano per essergli sempre presen-ti a confortarlo e farlo sentire amato. È però avvilito e avverte dentro di sé un senso di scoraggiamento e disorientamento per il crollo di tutte le sue sicurezze. Inizia il per-corso terapeutico pesante, lungo e quasi misterioso con medici seri e ottime strutture sanitarie. Si sente un po’ sollevato fisicamente ma dentro di sé prova sempre angoscia, teme la propria fine, mentre invece i primi risultati sono più confortanti del previsto. Afferma di se stesso:

Sento dentro di me la fine come se dovesse arrivare in ogni momento e ogni volta che mi addormento e sono pienamente cosciente, mi dico: riuscirò a svegliarmi e rivedere i miei figli e mia moglie che mi sono accanto con tanto amore e attenzio-ne? Non è che la farò soffrire ancora di più con la mia scomparsa? Comprendo

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che tutto quello che avevo progettato e volevo realizzare, in un attimo si è fran-tumato e io per primo sono al mondo senza sapermelo spiegare. É vero devo lot-tare, ma dentro sento come il vuoto di una vita che sta lasciandomi e i ricordi riempiono il mio silenzio quotidiano e lo rendono ancora più denso di sofferenza. É vero ho ricevuto molto, ma vorrei ancora fare tante cose. Perché la vita mi si deve chiudere così, proprio adesso che avendo fatto tanta esperienza e avendo capito il valore della mia famiglia e della mia casa cui mi volevo dedicare intera-mente?

Le ore passano lente, mi tiene vivo e motivato solo la certezza che i miei mi sono vicini e vivono per me, per darmi tutto quello di cui ho bisogno, per riuscire a vin-cere la mia battaglia, per non darla vinta alla malattia. Certo di fronte alla mia probabile scomparsa sono solo e sento il peso di una vita nella quale avrei potuto far meglio, essere più disponibile verso gli altri, più generoso e buono. Forse ho sprecato delle occasioni, ma confido nel Signore, Lui può accogliermi nonostante le mie non poche mancanze. Ho però bisogno di qualcuno che mi aiuti a sostenere questa prova dolorosa e pesante, qualcuno che standomi accanto mi dica sempre che ce la posso fare e che non devo smettere di lottare e di crederci. Certo senza di loro non so che cosa avrei fatto e se avrei accettato una terapia così pesante con lunghi ricoveri e tanta assistenza. Ora dopo qualche mese di cura mi sento meglio, e forse comincio a capire quanto riempie la vita una famiglia dove ci si sente amati per quello che si è anche in mezzo a tanta sofferenza e inattività.

Armando non è un uomo che molla, vuole guarire, ama la vita e con l’aiuto concreto e intenso dei propri cari capisce di non trovarsi da solo. La pesante croce della sofferen-za l’intende come prova cui è sottoposto e senza disperarsi lotta con determinazione per raggiungere l’auspicata guarigione o per restituire in serenità la propria vita a Dio. É in ogni caso una sfida, lui si sentiva forte, sicuro di sé, aveva fatto tanti progetti per la sua pensione e la nuova vita con i suoi senza pensare che una malattia potesse col-pirlo e invalidarlo al punto da fargli cambiare completamente i propri progetti e met-terlo in condizione di dover ripensare completamente la propria esistenza.

Non è solo, quante volte ha riflettuto durante la permanenza in ospedale, sul fatto di avere davvero riscoperto il valore della propria famiglia. La dedizione amorosa, capace di infondergli tranquillità della moglie Rosa è un dono meraviglioso. Certo sapeva di avere una famiglia unita e pronta ad affrontare momenti difficili, ma ora ne ha la pro-va concreta e ne capisce l’enorme e insostituibile valore. Non gli manca l’angoscia per il domani, sicuramente lui come altri pensano alla morte che hanno accanto.

Lui stesso aveva detto e più volte ripetuto la sensazione di precarietà quando già si addormentava con la paura di non risvegliarsi. Si sentiva nelle mani di altri, sicuramen-te professionisti qualificati, ma sapendo che la malattia nessuno la controlla fino in fondo e c’è sempre uno scarto tra l’essere gravemente ammalati e la possibile fine che si sente sempre vicina. Tuttavia Armando e, siamo certi tanti come lui, amano ancora la vita, comprendono che l’essere soli, non vuol dire né abbandonati né inutili: fin

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quando qualcuno ti dà fiducia e crede nelle tue capacità ti senti in vita. Questa potreb-be essere la sintesi della sua esperienza, di angoscia mortale, ma anche di speranza autentica. Occorre saper riempire la solitudine dell’infermità che diminuisce ogni ca-pacità organizzativa e motoria ma non annulla la persona e la sua voglia di vivere.

7.8 in compagnia della morte

Certamente riprendendo insieme ad Armando il re Ezechia vorremmo proporre una sorte di dialogo immaginario tra la persona che avverte vicina la morte ed un interlo-cutore ipotetico con cui si intavola una discussione sull’argomento:

Afferma colui che sta per morire: "Ogni creatura sulla Terra quando muore è so-la?”

L’altro lo incalza: “Che cosa hai provato?”

E lui risponde: “Ho pensato a Tim, il mio cane. È morto quando avevo otto anni. Si andò a rintanare sotto il portico”.

E l’altra persona riprende: “Per morire”.

e lui: “No, per essere solo...”

Riprende l’interlocutore: “Tu ti senti solo in questo momento?”

E lui: “Non lo so ... O meglio, vorrei credere il contrario, ma non ... Non ho mai avu-to nessuna prova, quindi ... Ho ... ho anche smesso di discuterne, tanto se ... se ... se anche passassi tutta la vita a ragionare, studiare, valutare i pro e i contro, alla fi-ne non avrei prove comunque, e allora tanto vale non discuterne più. Eh ... è assur-do”.

L’interlocutore: “La ricerca di Dio è assurda?”

Ed il protagonista: “Lo è, se ognuno muore da solo”.

L’interlocutore: “Questo ti spaventa?”

E colui che sentiva vicina la fine disse: “ Non voglio restare solo”.

É un dialogo fantasioso ma assai rispondente alla vicenda biblica e alle angosce di Ar-mando. La morte, la conclusione della vita la avvertono perfino gli animali e cercano anch’essi un luogo dove andare a morire, dove chiudere in modo dignitoso la propria vita, ma nessuno mai si vorrebbe sentire solo. L’abbandono o meglio la solitudine di non avere alcun contatto con gli altri nel momento in cui la vita si chiude è davvero tremendo, un’esperienza che nessuno vorrebbe augurarsi. Per questo, morire fa pau-ra. È un passaggio delicato anche con la compagnia di persone che, come con Arman-do, dimostrano l’importanza della vita. Il timore di essere soli nel trapasso, anche per chi crede e consegna fiducioso la propria esistenza al Creatore, mette paura.

Anche quando si ha nell’animo tanta volontà di dare, progettare e lavorare per rag-giungere la nostra meta in Dio, ci si sente deboli, fragili, e non si riesce a evirate la paura e l’incertezza per quello che ci sarà dopo. Da qui l’angoscia del re Ezechia e di

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Armando, interpreti di un sentimento diffuso in ogni persona: la paura della novità. In fondo al cammino di questa vita abbiamo l’esperienza, ma nessuna certezza di una conclusione e la fiducia di una soluzione definitiva è fuori dalle nostre possibilità. Si comprende ancor più il dramma del pianto di Ezechia per la sua imminente scomparsa in età ancor piena di vigore e di speranze.

Lo stesso Armando faceva più volte chiaramente capire quanto gli sarebbe dispiaciuto morire dopo aver sperimentato nella sua malattia la presenza forte e coraggiosa della moglie e degli altri familiari. Non voleva dar loro anche questo dolore dopo la pesante prova della lunga malattia.

Uscire da una vita dove la sua solitudine di malato ampiamente sostenuta da presenze amorevoli per immergersi in una nuova realtà di speranza e fiducia nel Dio della vita, costituiva in ogni caso un salto di qualità, una circostanza che Armando andava riela-borando ma non aveva ancora accettato fino in fondo. Siamo di fronte al bivio tra la vita che si vorrebbe continuare, amata fino alla fine, e l’aprirsi di una porta che in soli-tudine o meglio da soli (si fa per dire) si varca. L’ingresso è solo per quella persona e nessun altro, come la nascita è solo per chi viene al mondo e nessun altro può sosti-tuirlo. Siamo di fronte al dramma di una realtà nella quale ciascuno è invitato a essere quello che è senza il timore per ciò che altri e le circostanze vogliono.

Armando era sì segnato da una grave malattia invalidante e con un elevato rischio di conclusione della vita, la stessa sorte di re Ezechia, ma nessuno di loro due si arrende-va. Alla loro maniera e in forme storiche differenti combattevano la battaglia della vi-ta. Non volevano morire, ma dall’altra parte continuavano a vivere con i loro progetti e la volontà di realizzarli anche se in altre circostanze e con mezzi ridotti. Questo costi-tuisce la motivazione per la persona: la volontà di vivere e di non ridursi a un corpo di elementi organici, per andare ben al di là del corpo fisico. La vita è dono e impegno a realizzare la propria personalità nella sua originalità. Mai Armando avrebbe rinunciato a questa sua caratteristica capace di dargli l’energia psico-fisica per affrontare il suo complesso itinerario medico ed esistenziale.

Essere se stessi, mantenere le caratteristiche legate al carattere, alla propria storia e alle esperienze che ciascuno ha costruito, rende anche il passaggio dalla vita alla mor-te un transito. Significa varcare la soglia dopo aver vissuto in pienezza il tempo che si aveva a disposizione per far fruttare la vita stessa. Certamente questo tempo non ba-sta mai, così era per Armando ed Ezechia, ma nel tempo c’è una realtà: la pienezza con la quale ciascuno s’impegna a saper estrarre le proprie migliori energie per realiz-zarsi. Nel dialogo immaginario sono chieste delle prove, o meglio è messa in evidenza l’assurdità della condizione umana di fronte alla morte.

La vita che si vive non è creata, scelta e nemmeno programmata da se stessi. Siamo tutti chiamati a vivere in un tempo e in circostanze molto precise, ci si rende conto d’essere in cammino, di procedere verso una meta per una conclusione imprevedibile e ancor meno programmabile. E allora? É assurda o semplicemente indisponibile la

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conclusione, ma la volontà fa divenire pronti a rendere ciò che non ci appartiene alla miglior compagnia. Siamo nella solitudine del passaggio nella speranza di vederla riempita da una compagnia del tutto nuova, imprevedibile e meravigliosa. Questa la speranza con la quale anche il saggio re Ezechia esclamava convinto:

Il vivente ti rende grazie come io oggi faccio; il padre farà conoscere ai figli la tua fedeltà. (Is. 38,19).

Non è quindi il tempo del timore, dell’assurdità e nemmeno del mistero angosciante, ma quello dell’immersione in una dimensione pacificante e familiare dell’immagine del padre accogliente che ispira ai figli la tranquillità interiore. Non ci si sente soli quando ci si apre alla dimensione divina, la conclusione della vita terrena diviene un’apertura silenziosa, reale e profondamente vera con la sua essenza non visibile ma percepibile nell’abbandono fiducioso in Colui che è Creatore, Padre e Guida.

Lo stesso Armando durante il tempo della lunga terapia percepiva che tutto si svolge secondo un piano superiore non per distruggere, ma per dare completezza alla vita stessa. É vero, si ha paura di finire, ma ancor più si avrebbe paura se finire significasse cessare ogni possibilità di dare un significato perenne alla vita stessa restituita al suo Creatore.

7.9 Clara nella solitudine del lutto

La signora Clara ha circa cinquant’anni e da due anni ha perduto il marito Eusebio per un improvviso malore. Non sa darsi pace, non tanto nelle cose da fare perché ha rile-vato il suo lavoro professionale e segue da vicino lo studio di cui il marito era titolare. No, il suo problema, la sua difficoltà principale è la rielaborazione del lutto per il vuoto nel quale ancora oggi si trova. Perdere la persona cara all’improvviso, inaspettatamen-te e senza un’apparente giustificazione è per lei molto difficile da accettare e da com-prendere. Come nella descrizione del re Ezechia il sentimento di Clara è l’angoscia e la rabbia per una situazione imprevedibile e di non facile superamento.

La signora veniva più volte a parlare del suo stato emotivo e delle prospettive di vita con le quali avrebbe voluto ricominciare una volta superata la propria sofferenza. Cla-ra a più riprese diceva:

Trovare mio marito cadavere, all’improvviso e senza che potessimo far niente, è un’immagine che non mi esce dalla mente e rimane impressa come un segno in-delebile dentro di me. Ci amavamo tanto anzi scherzando lui mi diceva che non avrebbe saputo vivere senza la mia presenza. Ora la stessa cosa la dico a me stes-sa. Senza di lui sembra che la vita mi crolli addosso, perdo la motivazione per an-dare avanti.

É vero che continuo a lavorare, anzi ho addirittura aumentato l’impegno lavorati-vo con maggior costanza e disponibilità di tempo per sostenere lo studio che Eu-sebio aveva aperto e faticosamente condotto con tanti sacrifici. Mi sembra, in questo modo di renderlo ancora vivo se non altro a livello professionale e sono

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convinta che è stato proprio il suo lavoro condotto con tanta passione e senza so-ste che ne ha segnato la salute con le molte preoccupazioni che ha avuto e i tanti dispiaceri che gli hanno portato clienti e collaboratori.

A parte questo, vedo Eusebio in ogni momento della giornata, non sono sola, ma nella solitudine della sua assenza c’è come il riverbero della sua presenza e in mil-le azioni e luoghi della casa lo rivedo. É come se fosse ancora qui vicino a me, lo immagino seduto al suo posto a tavola, di fronte al televisore la sera, in poltrona a leggere i libri gialli di cui era divoratore. Lo sento vicino in ogni istante, tutto mi ricorda di lui, sì ma lui non c’è, è come un fantasma che mi porto dentro e attor-no, ma che non mi consola, anzi mi rende ancor più sola e triste, posso dire che mi prende specie durante la notte tanta malinconia.

So che Eusebio non tornerà la sera con la sua suonata speciale e so che non mi sorriderà come quando gli aprirò la porta, so che lui è solo un ricordo che mi tra-volge e m’impedisce di non pensarlo. L’ho sempre davanti. Senza di lui sembra che tutto crolli. Non posso vivere bene con questa interiore sofferenza. Solo io so che cosa provo quando qualcuno me ne parla e mi fa ricordare qualche episodio o momento felice di uno dei tanti. Ma come mai è finito tutto così in fretta? Ora che eravamo così uniti e avevamo raggiunto tanti obiettivi, si iniziava a star bene coi due figli grandi, una posizione sicura! Ma lui se n’è andato ed io sono rimasta sola con un dolore che mi blocca. Non riesco a pensarmi senza di lui e del resto lui for-se non sapeva pensarsi senza di me.

A Clara si poneva la domanda di qual era il modo migliore per rendere gloria e onore al marito prematuramente scomparso, ricordandole che la sua vita era si a due ma rima-neva pur sempre una sua vita personale.

Era forse non fare quasi nulla perché tutto ricordava la sua presenza? Oppure conti-nuare a vivere raccogliendo ciò che Eusebio le aveva lasciato come testamento spiri-tuale? Fu il primo stimolo per indurre Clara a uscire da uno schema di autolesionismo, comprensibile ma sterile. La compagnia del defunto non può riempire la solitudine del vivente si può solo rielaborare i ricordi e afferrarne i contenuti da lui trasmessi. Come a dire lei non stava facendo del bene né a sé stessa né al defunto marito continuando ad affliggersi per tutto ciò che lo ricordava. Riempire la solitudine con la presenza di un defunto è sicuramente operazione di facile presa affettiva ma incapace di rendere viva la realtà quotidiana.

Clara capiva che i ricordi non le arrecavano conforto ma le generavano solo commo-zione e insicurezza. Come doveva ritornare a una vita in cui sentirsi ancora realizzata? La risposta era lei stessa a trovarla:

“Mi sto accorgendo che quando incontro gli amici con i quali abbiamo passato belle esperienze e sento il suo vivo ricordo, dapprima mi commuovevo ma ora di-co a me stessa: sono proprio stupida a non accorgermi di quanta riconoscenza, stima e apprezzamento ha lasciato Eusebio. Il suo ricordo è limpido nelle persone

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che l’hanno conosciuto, è ancora viva dentro di loro la sua presenza. Perché allora debbo torturarmi e sentirmi bloccata dal mondo che è sempre nostro?

Eusebio vive dentro di me perché mi porto molto di lui dentro me stessa e senza accorgermi sono quello che sono anche grazie a lui. Il distacco è stato duro, ma sarebbe insuperabile senza la volontà di ringraziarlo per quello che ha fatto e di continuare a seguire quello che mi ha insegnato. E poi c’è la fede, siamo credenti, e a questo proposito in questi giorni ho trovato il coraggio con amici di rifare uno dei suoi pellegrinaggi più cari al Santuario mariano del paese vicino dove con lui ci andavamo almeno tre volte l’anno per chiedere la protezione di Dio. L’esserci an-data senza di lui era però come andare con lui perché lo sentivo molto vicino, anzi quasi ne avvertivo la voce che mi rimproverava per il mio eccesso di sentimentali-smo e m’invitata a vivere la vita con tanta disponibilità ad andare avanti. Lui ora è sempre con me”.

Non sembrava più la stessa persona, era sempre sola, soffriva dei ricordi di Eusebio, ma era riuscita a dare significato alla sua scomparsa e alla propria vita. L’aiuto, la vici-nanza degli amici e di quanti erano legati alla loro famiglia l’aveva stimolata ad andare avanti convinta. La compagnia della morte non è provare il vuoto dell’abbandono per sempre, ma provare nel distacco permanente da una persona la sensazione che costui viva dentro di noi. Essere in compagnia dell’Eusebio non più visibile, implica la tenacia di credere e il desiderio di lottare per affermare la bellezza e la solidità di una relazio-ne mai interrotta, semplicemente trasformata.

7.10 La vita senza Andrea. Una lunga attesa

Riportiamo la condivisione di Emilio e Flavia, genitori di Andrea, un ragazzo scomparso dopo una lunga e dolorosa malattia. É una testimonianza raccolta dal testo di qualche anno or sono: Vivere il distacco. Il dolore tremendo e devastante per la perdita del fi-glio Andrea lascia un vuoto incolmabile. Non solo ma è l’interruzione della vita, del de-siderio di sopravvivere. I genitori vivono il distacco nella solitudine che li attanaglia e costituisce un blocco emotivo ed esistenziale. Certo il vuoto per la scomparsa di un fi-glio non è paragonabile a nessun altro dolore e trasforma la vita stessa, come diranno Flavia ed Emilio, in una lunga attesa.

C’è la solitudine per la mancanza di un affetto che cementava ancor più la loro unione e costituiva speranza per il futuro della famiglia. Un ricordo struggente è stata la lunga e pesante malattia nella quale entrambi i genitori ricordavano, consolandosi a vicenda, l’amore per la vita unito alla volontà di combattere per cercare la guarigione dal suo male. Andrea è stato un ragazzo davvero solare, ottimista, sempre pronto ad andare avanti con coraggio e determinazione. La malattia ha fatto il suo implacabile corso portandolo al prematuro decesso, ma il suo entusiasmo unito a un carattere sensibile e premuroso verso tutti ha lasciato un prezioso ricordo e un invito a saper andare ol-tre la sua scomparsa. Questo oltre è dato certamente dalla fede nel Dio della risurre-zione e della vita.

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La Divina Provvidenza accompagna i passi di Emilio e Flavia, con Andrea che vive anco-ra in loro, e fa loro amare la vita come lui l’avrebbe amata e li ha spinti a volere il dono di un’altra vita. I nostri cari ci sono sempre accanto perché vivono nel nostro animo. Solo il loro corpo è distrutto mentre la vita viene come depositata dentro gli altri non per rivedere solo il passato, ma per inventarsi il futuro. Ripresentiamo la testimonian-za dei genitori:

Ventisette aprile duemilasette: la nostra famiglia, composta da noi genitori e da tre figli, scompare. Sì, perché Andrea, il primo dei tre, esuberante, scherzoso e spericolato, ci ha lasciato dopo cinque lunghi anni di malattia, e noi ci siamo tro-vati a un tratto amputati di una parte della nostra famiglia. Il dolore nel vederlo soffrire negli anni di cura non ci aveva minimamente tolto la speranza che un giorno sarebbe guarito; forse perché è davvero impossibile, per un genitore, sol-tanto pensare che un figlio possa precederlo nel passaggio alla vita eterna. O for-se perché la sua voglia di vivere superava la nostra paura e l’illusione ci convince-va che tutto ciò sarebbe finito, prima o poi.

Ma la realtà ha cancellato di colpo le nostre speranze e ora ci ritroviamo attoniti, storditi, impauriti e … profondamente diversi. La nostra diversità si evidenzia nel nuovo approccio alla vita terrena e soprattutto a quella eterna. Noi genitori sia-mo ad esempio “meno impauriti” pensando alla morte, e anzi in noi aleggia im-palpabile un sottile desiderio di affacciarci al di là della “barriera” e rivedere An-drea, perché la sua assenza terrena ci sgomenta. Ma tutto questo non è possibile; e ciò non fa che rendere la nostra vita, un’attesa, a volte estenuante, spesso inso-stenibile, di poterci di nuovo riunire.

Andrea è stato un ragazzo felice, con un forte senso della famiglia e sappiamo che lui ci vorrebbe felici; i fratelli, che come noi non accettano questa situazione “as-surda”, hanno il diritto di vivere serenamente la loro vita; quanto a noi genitori, che non potremo mai ritrovare la serenità svanita in un momento, abbiamo il do-vere di stare accanto a loro. Tutto questo ci impone di non cadere nella dispera-zione, ma di cercare con tutte le nostre forze di proseguire il nostro cammino ter-reno. La vita è cambiata, ma non è per sempre; la vita eterna riunirà la nostra famiglia: bisogna solo riuscire ad aspettare.

E nel frattempo? La partecipazione a un gruppo di genitori che hanno vissuto sto-rie come la nostra, sapientemente guidato da una psicologa dell’Università di Roma, ha frenato la nostra caduta verso la disperazione. Condividendo con altri genitori le sensazioni che solo noi possiamo percepire per comprendere meglio i meccanismi del nostro equilibrio mentale, siamo riusciti a “mantenere” un discre-to controllo di noi stessi e nello stesso tempo abbiamo permesso di costituire, con le nostre esperienze, dei modelli per aiutare i genitori che in futuro si troveranno nelle nostre stesse condizioni. Questo ci ha aiutato a cambiare gli schemi mentali e comprendere che è fondamentale comunque vivere. Una considerazione ci ha colpito e fatto riflettere; abbiamo provato a pensare ad Andrea non come il figlio

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sfortunato, ma come un dono che ci è stato dato. Forse Dio ha pensato a noi co-me gli unici genitori capaci di accompagnarlo nel suo cammino di vita di soli 14 anni. Questo modo di vedere le cose ci è piaciuto ed è anche servito per alleggeri-re il dolore che ci accompagnerà per sempre.

Il distacco da Andrea, pur prevedibile dopo una lunga e sofferta malattia, rimane un’esperienza pesante, un dolore che accompagna questa famiglia. Quest’esperienza li ha fatti crescere, ha dato loro la consapevolezza di aver accompagnato nel breve cammino della vita un figlio, affidato dalla Provvidenza divina affinché fosse amato, seguito e educato nel migliore dei modi per sostenere questa dolorosissima prova che gli è stata assegnata. Non è facile arrivare a questa conclusione, solo la tenacia di an-dare avanti, di non lasciarsi prendere solo dallo sconforto e dalle inutili domande del perché a me … unite a una fede sicura danno sicurezza. É bene notare come gli stessi genitori abbiano trovato aiuto nel sostegno di altre famiglie, un gruppo ben guidato da esperti del medesimo ospedale dove Andrea era stato curato con tanta attenzione e competenza. S’intuisce subito quanto sia importante rielaborare il lutto di un’assenza con persone che condividono la stessa situazione per cercare di riempire la solitudine in un sincero confronto di più esperienze, in modo che ognuno sia consolato e diventi nello stesso tempo consolatore.

La vita spesso è imprevedibile, ma in questo caso è salutare condividerla con altri che attraversano la medesima situazione. La compagnia di un gruppo così costituito e di-retto in modo sapiente permette di trovare ascolto e nello stesso tempo sentirsi coin-volti nelle situazioni altrui, per ricevere un rinnovato slancio per affrontare la propria situazione e fornire un valido sostegno ad altre persone coinvolte in momenti di dispe-razione e di solitudine.

In tal modo Emilio e Flavia continuano a impegnarsi affinché altri bambini affetti da gravi malattie possano trovare, oltre il supporto medico e terapeutico qualificato, am-bienti dove si respiri un clima di fraterna condivisione. Hanno ben compreso che, oltre alla perdita del figlio, la causa di tanti malesseri è legata alla mancanza di persone che standoti accanto possano partecipare e condividere i contraccolpi psicologici ed esi-stenziali del lungo cammino di sofferenza dovuto alla malattia e le sue terapie. La con-divisione dei momenti di sofferenza, ha certamente favorito in Emilio e Flavia la riela-borazione del lutto facendo loro intravedere spazi di azione. La perdita del figlio porta vuoto e dolore incolmabili, ma può anche divenire occasione per una rinnovata volon-tà di mettersi a servizio di altri, di dare più tempo a chi soffre per sostenere il delicato cammino che spesso conduce a prematura scomparsa.

Certamente nei genitori di Andrea c’è una domanda, o meglio un desiderio: rivedere il figlio, avere la certezza che vive in una dimensione differente, nella pace e nella felici-tà. É normale desiderio, tutti l’abbiamo, vorremmo poter vedere, toccare, prendere atto che al di là della barriera esista davvero un’altra vita, qui parzialmente vissuta in una breve gioia terrena. Quale prova possiamo portare? Non c’è la certezza diretta di questa realtà dopo la morte, esiste però una convinzione. Emilio e Flavia hanno amato

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Andrea, hanno lottato insieme con lui per tenerlo il più possibile in vita, hanno condi-viso a ogni istante la pesante croce che ha dovuto portare.

Quale ulteriore prova ricercare? Quando a una persona si è dato tutto quanto era pos-sibile offrire, la nostra coscienza può dare una senso di tranquillità interiore che può consolare. Andrea è scomparso, è il figlio che ci precede, la persona che ci attende perché vive ora in un Amore più grande. Sarebbe bello poter constatare de viso tutto ciò, ma siamo nel tempo provvisorio, quello definitivo ci arriverà solo e quando Qual-cuno ce lo farà conoscere.

Vivere in una lunga attesa, ma non con tristezza, angoscia e disperazione, ma animati dalla speranza, diremmo una certezza: Andrea vive dentro coloro che l’hanno amato e più che mai infonde a tutti la volontà di lottare per il bene. Emilio e Flavia hanno spe-rimentato che i figli non sono nostri ma noi dobbiamo dedicarci a loro, per accogliere il dono della loro vita anche se provvisoria, che in modo improvviso e doloroso può ces-sare per essere trasformata, in una condizione di pace e felicità definitiva. Ciascuno vi-ve quest’attesa perché ciascuno aspetta di entrare nella dimensione definitiva, ma non senza aver combattuto per migliorare la qualità stessa della vita credendo e agendo nel Bene.

I nostri due amici con i loro figli non si sono rinchiusi nel loro dolore, e anzi si sono aperti ancor di più alla vita, di cui hanno sperimentato la provvisorietà, per impegnarsi a renderla meno dura e pesante anche ad altri. Il dolore potremmo dire, è in grado di rigenerare amore e solidarietà. Sono molte le persone che riescono a ricevere soste-gno proprio dall’esperienza condivisa e dalla vicinanza fraterna di chi ha sperimentato la durezza e la crudezza degli stessi eventi.

8 Provare la solitudine morale: l’isolamento

L’isolamento si trova spesso negli ambienti lavorativi obbligati a frequentare per moti-vi professionali o economici. É facile in questi ambiti, dove non si scelgono le persone con cui stare, sentirsi isolati, messi da parte perché fuori dal coro perché non si vuole o riesce ad accettare idee o comportamenti comuni alla maggioranza dei presenti. Que-sta esperienza comprende parecchie persone che si sentono sole ma sono obbligate comunque a confrontarsi con gli altri per il lavoro. Un lavoratore in una grande mensa mangiava su un tavolo da solo mentre gli altri normalmente facevano gruppo comune. Uno di loro gli chiese perché preferiva così. La sua risposta fu assai illuminante:

“Anche se tu vivi in una caverna da solo il mondo è pieno di gente comunque, o ti av-vicini tu a loro o loro si avvicinano a te”.

Come a dire che la solitudine non esiste dove le persone la pensano allo stesso modo poiché per loro è naturale avvicinarsi e creare rapporti tra loro.

8.1 La prova di Elia

Abbiamo un piccolo passo della Bibbia che può illuminarci sulla solitudine morale. Si tratta di un grande profeta: Elia lasciato solo a dover combattere contro l’idolatria del

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popolo d’Israele a cominciare dal re e dalla regina portatrice di divinità straniere e fe-roce avversaria del profeta fedele al Dio d’Israele. Elia non si arrende, anche se è rima-sto solo e braccato dalle guardie del re, e sfida i molti profeti delle divinità pagane, ol-tre quattrocento, in una sorta di ordalia, dove chi giudica è solo il Signore. Dichiara a tutto il popolo:

Se il Signore è Dio, seguitelo! Se invece lo è Baal, seguite lui! Il popolo non gli ri-spose nulla. Elia aggiunse al popolo: Sono rimasto solo, come profeta del Signore, mentre i profeti di Baal sono quattrocentocinquanta. (1 Re 18,21-22).

La solitudine del cuore è quella che il profeta Elia. solo e perseguitato provava a moti-vo della sua fede. Gli altri, il coro, erano numerosi, agguerriti e volevano eliminarlo perché dava fastidio. Molto probabilmente metteva il dubbio su tutte le loro ragioni. Farlo tacere significava spegnere una voce differente, una voce che tendeva a riporta-re il popolo all’unico Dio e abbandonare le divinità pagane. Elia richiamava fortemente il valore della coscienza, delle convinzioni personali che mai vanno svalutate per un compromesso con quelle della massa. No, la persona portatrice di determinate idee e morale di vita, non può svendersi anche se le pressioni esterne sono insistenti e pe-santi.

Il profeta sapeva bene il prezzo delle proprie convinzioni, ma non era disposto a fare marcia indietro, nemmeno di un piccolo passo. Anzi sarà la sua caparbietà, la sua forza morale a riportare il popolo verso la retta fede conforme al giudizio divino sulla sfida che il profeta lancia ai sacerdoti di Baal. Non conta avere una compagnia numerosa ma avere una fede certa. Le scelte di vita dei seguaci di Baal erano di tutt’altro genere rispetto quelle dei padri d’Israele a cui Elia voleva ricondurre il popolo.

Ciò significò per lui essere isolato e minacciato di morte, ma lui senza timore procede con coraggio e determinazione e sfida a coloro che volevano seguire una mentalità più comoda, superficiale, ma pubblicamente riconosciuta. Elia è l’uomo della coerenza morale, della linearità senza cedimenti e con la sola forza della fede in Dio sceglie co-me miglior compagnia, la solitudine per non compromettere i valori in cui si identifica.

8.2 Le esclusioni di Enza

Enza è una ragazza sui trent’anni, lavora presso un grosso ufficio commerciale e si oc-cupa di contabilità generale. Ha una buona professionalità acquisita con corsi di for-mazione. È stimata da dirigenti e collaboratori per la sua serietà, laboriosità e affidabi-lità. Fin qui tutto sembrerebbe filare liscio, la giovane però porta dentro di sé un forte stato di ansia che la fa star male perché si sente come una mosca bianca per non esse-re considerata dagli altri colleghi. Addirittura in certi momenti si accorge di essere pre-sa in giro ed essere oggetto di mormorii ostili. Ascoltiamone la voce:

Sono stata educata sia in famiglia sia nella scuola a dare sempre il meglio di me stessa e oggi nell’ambiente di lavoro così complesso e difficile m’impegno al mas-simo. Sì è vero forse appaio agli occhi di altri come una che vuole ben figurare per fare carriera a dispetto di altri. Non è così per me il lavoro viene prima di ogni al-

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tra cosa e quando sono sul posto devo guadagnarmi lo stipendio e la fiducia di quanti lavorano con me. Non ho mai denigrato, né criticato e nemmeno mormo-rato sui colleghi. Faccio quello che mi è assegnato, cerco di non sbagliare e se mi fanno delle osservazioni, le raccolgo. Ma mi accorgo che sono isolata, messa pro-prio da parte.

Da un lato non mi va che gli altri parlino a sproposito di colleghi e dirigenti quan-do questi guarda caso sono assenti. Anzi ho notato tanta falsità nel fare sorrisi ed essere gentili con persone che fino a un attimo prima si sono criticate anche con parole pesanti e volgari. Una falsità che mi dà fastidio e qualche volta a qualche collega in privato l’ho fatto notare. Così come mi piace poco il livello discorsi nei momenti un po’ tranquilli di lavoro dove tra battute stupide e discorsi frivoli si vuole solo riempire il tempo, mai che una volta si sia seri.

Io non approvo che colleghi più adulti di me di dieci o più anni spesso facciano apprezzamenti davvero privi di buon gusto. Che faccio? Non partecipo attivamen-te, ma dall’altra parte sono lì anch’io tra loro e non posso andarmene. É vero si tende a un livello basso di comunicazione nonostante sia un ufficio di prim’ordine per professionalità e importanza per la nostra azienda. Che fanno? Mi evitano, sì ci si parla, ma noto freddezza e quasi mai ho ricevuto qualche invito a feste e vari intrattenimenti fuori dell’orario di lavoro.

Enza avvertiva di essere davvero sola in una compagnia, dove le regole erano molto semplici: saper stare a galla senza dire cose troppo differenti, senza criticare e senza prendersela troppo per il lavoro. Una mentalità che non approvava e nella quale non si ritrovava, tanto che pensava di cambiare lavoro, anche se non era facile. Andare al la-voro era per lei faticoso perché era, suo malgrado, coinvolta in discussioni e discorsi che non approvava ma di fronte ai quali non poteva sottrarsi. Certo era anche valutata in modo invidioso per la sua resa e affidabilità di fronte alla quale i dirigenti le davano fiducia e molta considerazione. Purtroppo nei rapporti umani quando subentra l’invidia vi sono subito cattiveria e voci tendenziose. Enza dichiarava:

Mi accorgo che qualche collega con una battuta mi fa comprendere che prova in-divia perché mi dicono che non sbaglio il lavoro e il direttore chiede a me quando vuole dei dati magari anche elaborati da altri. E da lì ecco il ricamo sul mio conto che sono ruffiana, che faccio la spia per ciò che avviene in ufficio fino a sussurrare che mi lascio fare il filo da qualche dirigente. Tutte voci prive di fondamento, ma che mi danno fastidio e mi scoraggiano, non tanto ad andare avanti, quanto a mantenere rapporti anche minimi con colleghi di questo genere. Davvero in certi momenti vorrei proprio non vedermeli di fronte.

Bisogna subito precisare che l’ambiente di lavoro è comunque ambito nel quale i rap-porti umani sono fortemente condizionati dall’obbligatorietà di procedure e prassi che rendono molto limitata la spontaneità e l’inventiva. In ogni caso emerge la realtà della giovane Enza: l’isolamento. Certamente fatica ad accettare i suoi colleghi, come

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loro ad accettare lei con le sue idee e il suo modo di agire fuori dal coro. Come aiutare Enza? In tre maniere sulle quali ha delineato il proprio programma di vita per andare avanti:

saper evitare inutili discussioni; a volte il modo per mettere sbrigativamente da parte la persone è la provocazione, cioè portare verso un appesantimento dei rap-porti per far raggiungere un elevato grado di tensione e portare qualcuno a reagire per dire che è poco socievole se non aggressivo. Qui è necessario saper difendersi da una compagnia che influisce negativamente sul morale della persona e porta all’esasperazione ogni pur piccolo problema lavorativo;

ma solitudine non significa necessariamente essere isolati, messi da parte e rifiuta-ti. Nel caso di Enza stare sola diviene anche possibilità per riflettere su eventi e si-tuazioni che ogni giorno ha di fronte. La propria capacità di raccogliere, rielaborare e conservare quanto avviene per riordinare ogni dato, costituisce la base per poter davvero rendersi conto della realtà senza lasciarsi prendere dai propri stati d’animo appesantiti da sentimenti di rabbia e tensione emotiva che rischiano di viziare la realtà troppo rivestita da sensazioni negative;

cercare col dialogo il miglior rapporto possibile imparando a smussare gli angoli e raddrizzare le righe storte, come avessi una gomma, con delicatezza per non rom-pere il foglio. Ossia andare avanti con prudenza perché le persone difficilmente cambiano, tutt’al più si possono aiutare a migliorare in qualche comportamento o atteggiamento, specialmente nel linguaggio.

É necessaria la prudenza e il tatto, come a dire che il tono predicatorio, l’apparente patente di ragione per tutte le cose che accadono non serve a nulla se non ad aumen-tare la distanza con i colleghi. In tal senso diviene preziosa l’attività di ascolto per va-lutare quanto influisce sugli stessi colleghi l’ambiente e la compagnia degli altri. Come a dire, le stesse persone prese singolarmente e in altro ambito sono proprio così?

Notevole è l’influenza sugli atteggiamenti di persone fragili e desiderose di essere nel coro per il timore di venirne escluse. Ne consegue il facile compromesso con modi di parlare, idee e altri atteggiamenti non facenti parte del proprio comportamento. S’incontrano difficoltà davvero pesanti per cercare di trovare punti di accordo con cia-scuno inequivocabilmente condizionato dagli altri. Nel lavoro molto influiscono lo stress, la fatica, concentrazione, gli imprevisti.

8.3 Il conflitto dell’io col gruppo

É evidente l’influenza del gruppo e dell’ambiente sulla condotta del singolo. Certa-mente Enza di carattere forte e con un proprio modo di pensare e agire, era assai ma-turata lungo il corso della propria storia, e ora riusciva a essere molto più libera. In ogni caso risentiva della mancanza di rapporti cordiali di cui avvertiva il bisogno. Ovunque esiste il condizionamento degli altri sulla vita dei singoli fatto di dialettica tra l’ambiente e le persone o meglio tra le idee della massa e la personalità di ciascu-no. Essere in compagnia in ambiti di lavoro come quello di Enza, comporta un sacrifi-

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cio tra il proprio modo di proporsi e l’accondiscendenza per gli altri che devono essere accettati per entrare in relazione.

La compagnia di persone che pretendono un canovaccio di comportamento standar-dizzato nel linguaggio, nei discorsi e in ogni atteggiamento, facilita i rapporti se accet-tato, ma se non si è in sintonia la preoccupazione di farsi accettare dal gruppo fa vive-re una dimensione dimezzata, anche se in apparenza si ha una certa relazionalità.

Ma questa è precaria perché non c’è apertura verso il bisogno del singolo, di espri-mersi con spontaneità nei sentimenti, ragioni per vivere le situazioni che s’incontrano. Se la superficialità degli altri, attenti solo a figurare e a stare in linea con il modello quasi preconfezionato tiene, ciò però urta con esigenze della singola persona più at-tenta a volersi proporre con la propria realtà personale.

Il gruppo della vicenda di Enza, è prettamente lavorativo e quindi limitato a un ambito, ma è pur sempre un aggregato umano, una compagnia nel quale manifestare se stessi con la propria storia. Non si tratta di recitare una parte quasi si fosse solo degli attori, quanto invece di ricercare nel contatto con gli altri anche momenti meno stabiliti dal canovaccio nei quali esprimersi liberamente.

Il gruppo e la singola persona non possono cozzare o addirittura opporsi, così da soli in una compagnia. L’obiettivo delle riflessioni di Enza era coniugare moderazione carat-teriale ed elasticità emotiva con queste due esigenze: farsi accettare in un gruppo ed rimanere se stessa nella propria originalità.

La sofferenza di Enza per un ambiente di lavoro ostile la rendeva isolata e triste, ma erano forse sensazioni esagerate? Più volte si era impegnata per mettere in pratica un semplice programmino e qualche risultato iniziava a raccoglierlo. Ma lasciamo a lei la parola:

Ho capito che stavo sbagliando nel prendermela sempre con gli altri e anche con me stessa perché avevo troppe attese da loro. Non ho scelto i colleghi e nemmeno il posto di lavoro, o almeno fino ad un certo punto. Perché soffrire interiormente quando l’ambiente è estraneo alla mia vita dove ho amiche e altri interessi? Così una cosa la faccio da qualche tempo a questa parte, cerco di trasmettere con maggior attenzione alla mia mimica, il senso della tranquillità e della volontà di stare insieme con tutti. Ad esempio non metto il muso, non sto imbronciata come quando mi dicevano una battuta o proprio mi prendevano in giro.

Cerco di essere anche gentile, non falsa, ma sorridente anche nei piccoli gesti sen-za rinchiudermi su me stessa dando l’impressione agli altri che mi sono di peso e non ne posso più. Poi sto mantenendo la promessa che mi sono fatta di non fare mai considerazioni sul lavoro che svolgo nel confronto con quello di altri. Se il di-rettore o chi per lui mi chiede qualcosa non devo andare in competizione con nes-suno e badando a come io mi pongo verso gli altri. Non sono né migliore, né più preparata, do il meglio e non devo nemmeno pensare che altri non facciano al-trettanto. Saranno i principali a valutare le professionalità e che m’importa poi se

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qualcuno si fa avanti con forme meno chiaramente professionali, perché me la dovrei prendere?

Era chiaro che stavano modificandosi non tanto le attese, quanto la modalità con la quale porsi nei confronti degli altri. Soffrire per restare tali e quali nella propria soffe-renza non conveniva a nessuno, specialmente a lei che aveva una sua posizione lavo-rativa ben precisa e riconosciuta da tutti. Enza stava imparando a misurarsi con la real-tà vera senza deformarla con il suo stato d’animo ferito dalle pesantezze cui era stata in un certo senso sottoposta dai suoi colleghi e iniziava a liberarsi dalla paura di non valere niente o di essere come una meteora caduta lì per caso e rifiutata.

La solitudine relazionale non veniva più semplicemente subita e considerata alla stre-gua dell’isolamento negativo, diveniva occasione per un rilancio del proprio modo di proporsi verso la compagnia dell’ambiente lavorativo in un rinnovato clima di mutua collaborazione e accettazione. Non si possono immediatamente trovare amici e forti relazioni dove il rapporto è segnato da percorsi carrieristici e da interessi. Enza di que-sto doveva tenerne ben conto, altrimenti sarebbe risultato molto difficile il confronto con l’ambiente esterno formato da incontri meno artificiali e da persone, compagnie e gruppi liberamente scelti.

Siamo simili all’esperienza del profeta Elia? Beh, qui non ci sono motivi ideologici e re-ligiosi così nettamente divisori e discriminanti tra le persone. Il punto centrale è la propria capacità di saper assumere anche da una compagnia ostile il messaggio adatto a una crescita. Vi sono certamente valori e idee che richiedono fermezza e stabilità, così era per Elia in un contesto dove solo la sua integrità morale poteva scuotere il po-polo attratto verso divinità pagane. Non così per Enza, in gioco sì vi era il valore dell’onestà e professionalità piuttosto che di un linguaggio corretto nei termini e nei contenuti. Gli altri non sono avversari o persone da cambiare, ma occasioni per un confronto in cui imparare a crescere. Aveva iniziato così un cammino in più tappe, la più delicata delle quali era già stata superata: saper accettare le persone che aveva di fronte senza formulare dei giudizi sprezzanti e senza essere nei loro confronti preve-nuta.

9 Una guida per comporre compagnia con solitudine

Le situazioni esistenziali delle varie persone presentante, portano a diverse riflessioni sulla compagnia della solitudine e quindi sulla solitudine in compagnia e sull’essere davvero soli quando ci si trova in compagnia. Le varie casistiche riportate e le sensa-zioni raccolte a volte da colloqui in questa delicata, ma necessaria operazione di inse-rimento, evidenziano una linea di riflessione che dividiamo in cinque per cinque.

Che significa? Cinque riflessioni sulla compagnia e cinque sulla solitudine.

9.1 La compagnia quale ambito di crescita

Abbiamo notato come tutte le persone di cui abbiamo riportato l’esperienza, abbiano in ogni caso desiderato, cercato e spesso avuto rapporti complessi con la compagnia. E

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che s’intende per ambito di crescita? La compagnia è necessità insita nella natura umana, come mostrano i bambini che si cercano l’un l’altro fin da piccoli, per stabilire un contatto, per confrontarsi nel gioco o per osservarsi, magari invidiarsi, per poi cer-care di imitarsi nelle loro abilità per acquisire gli stessi risultati. Così crescono e impa-rano, e per imitazione importano atteggiamenti, idee, modi di fare e di essere, difetti, pregi e virtù che formano un’ossatura morale, la base antropologica con la quale ven-gono misurati e raccolti i messaggi provenienti dall’esterno.

Non potevano certamente fare a meno degli altri anche Enza e Mario nonostante le grosse difficoltà a realizzare un confronto costruttivo e spontaneo. Certamente si cre-sce nella misura in cui si sa confrontarsi con la volontà di essere se stessi e si vogliono mantenere stabili rapporti senza ipocrisie, come Gertrude con i suoi cari, senza cedi-menti al sentimentalismo. La stessa Gertrude resasi conto dei suoi sbagli, e in partico-lare di aver mentito ai suoi cari, desiderava una seconda possibilità per dimostrare la propria rinnovata volontà di crescere nella giusta compagnia. La crescita si misura inol-tre nella capacità di saper leggere la storia che si vive oltre i risultati immediati anche se deludenti. La splendida testimonianza di Pippo ne è una prova più che preziosa. Lui non aveva avuto la seconda opportunità, ma si era come dice, reinventato una nuova condizione di vita totalmente differente dalla prima in una compagnia con altre per-sone prima forse considerati con delle prevenzioni, ma poi scoperte come affidabili per stabilire un’amicizia vera e costruttiva.

A volte la compagnia nella quale si è inseriti costituisce ostacolo o addirittura è in op-posizione al proprio progetto di vita. Da qui la conseguenza di sentirsi esclusi, messi da parte, delusi, non è detto che non vi sia crescita. Riprendendo Pippo, aveva imparato a crescere con gli altri della strada, lì aveva scoperto amici e persone solidali che non so-lo non si aspettava, ma che nemmeno aveva mai sognato esistessero nel mondo sommerso dell’emarginazione e dei dissociati.

Si cresce nella misura in cui si apprezzano gli altri nel mondo nel quale sono immersi senza avere paure, perché tutto è dono, tutto diviene opportunità per crescere in un confronto aperto e diretto. La vicenda di Armilla ne costituisce ulteriore conferma; so-lo aprendosi ad altri ha potuto uscire dal tunnel di una grave depressione. Solo immet-tendosi nella realtà del dono e non della pretesa, ha potuto cambiare il proprio oriz-zonte etico ed esistenziale e percorrere una nuova via.

9.2 La compagnia accompagnata da attese

Ogni persona s’immerge in una compagnia di amici, piuttosto che di familiari, con at-tese e ideali per cercare il significato del proprio esistere. Pensiamo alla storia di struggente passione di Flora, nella quale fidandosi delle persone di un gruppo dedica-to ai più bisognosi aveva dato tutta se stessa. Erano la forte carica ideale e la volontà di donarsi la base e il motore che la spingevano ad andare avanti senza paure e senza dubbi. Ma che delusione e in quale stato di crisi andò a finire! Così pure Armilla con la persona che con abili finzioni l’aveva ingannata. Sono situazioni che fanno riflettere,

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pongono la realtà di fronte alle attese di ciascuno.

É giusto domandarsi: per realizzare i propri progetti spinti da buoni sentimenti e ideali elevati è sempre necessario cercare l’aiuto di altre persone? Se dicessimo di no po-trebbe voler dire difendersi dagli altri perché tutti sono negativi, se invece dicessimo di sì saremmo comunque certi che le delusioni non mancherebbero.

Proprio per questo occorre mettere al centro del proprio progetto di vita la sfida della ricerca non superficiale della giusta compagnia senza cadere nella trappola del pessi-mismo, spesso solo un alibi per non fare. Certamente non mancano colleghi e amici superficiali preoccupati solo di stare a galla e riempire mari.

Non per questo si deve evitare la navigazione o chiudere la porta a incontri con altre persone, potenziali occasioni per una crescita vera e consistente. L’esperienza di Ger-trude può insegnare come raccogliere il frutto di scelte viziate, ispirate da compagini interessate allo sfruttamento economico e dalla spasmodica sete di guadagno che strumentalizzando la sua buona fede hanno mistificato la realtà senza remore morali.

Occorre una ponderata riflessione sul bisogno di compagnia per riempire il proprio tempo con la voglia di confronto senza mezze misure e nell’atteggiamento di massima libertà d’azione dopo una cauta osservazione. È necessario un discernimento, una va-lutazione equilibrata e qualificata della realtà soprattutto mettendo in chiaro il fine di ogni compagnia. Gertrude si era illusa di essere quello che non era, spinta da quello che altri volevano farle credere per alimentare in lei una specie di delirio di onnipoten-za. Molti non cercano il bene del singolo, ma il suo utilizzo per finalità spesso legate solo al proprio tornaconto. É la stessa storia di Fiorenzo con Armilla o dei vicini di casa di Edgarda piuttosto che dei figli - e qui è ancora più grave - di Guglielmo o del nipote di Carlo, che segnalano un degrado esistenziale e morale nel quale si rischia in ogni momento di cadere. Tali compagnie fanno quasi rimpiangere la solitudine dello stare soli, perché almeno si ritrova consolazione nel non avere ricevuto delusioni importan-ti, senza però dimenticare che esiste anche una realtà di generosità come nel caso di Guglielmo, Clara, Delio e Giuliana dove il bene nascosto stupisce e si sprigiona come un vulcano in eruzione divenendo lava che alimenta e rigenera la vita, fa rinascere e apre nuove prospettive.

9.3 La compagnia, guida di se stessi

Tutte le persone che abbiamo riportato con la loro testimonianza e le loro sofferenze dovute a complesse situazioni, cercavano una guida e un punto di riferimento. É la ri-cerca della sicurezza personale, spesso può provenire dalla fede che dà la certezza di non essere mai soli, ma accompagnati da Dio, nella divinità incarnata nel Figlio Gesù. Come non segnalare in Armando gravemente ammalato il senso della presenza del di-vino. Avvertiva la Sua presenza e si sentiva più che mai motivato in tutte le prove dolo-rose e delicate cui era sottoposto. Così come in molte altre persone la forza inesauribi-le della fede apriva e sorreggeva il percorso della vita, anche di fronte alla perdita di persone care come nei drammi di Clara, Emilio e Flavia. La speranza si alimenta su una

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certezza: nessuno che davvero crede in Dio si sente abbandonato o messo da parte, ma sviluppa un rapporto intimo nella propria interiorità fino ad avvertire l’accompagnamento divino durante i momenti più difficili.

La luce della fede è lampada che illumina, faro indicatore della strada da percorrere per non perdere il proprio orientamento. C’è però la necessità di una mediazione umana, che faccia incontrare altri e consenta di affrontare la vita con la certezza di aver qualcuno al proprio fianco a sostenerci e incoraggiarci. É la situazione di Tarcisia, la sua fede non le aveva dato il sufficiente supporto per affrontare il cammino della vi-ta, lei stessa si abbandonava allo scoraggiamento di fronte all’assenza prolungata dal suo habitat e dai suoi interessi e andava in crisi senza il lavoro. Ciascuno non può fare a meno degli altri anche se ha la fede in Dio, anzi credere comporta cerca una giusta compagnia spesso di una sola persona, per dare alla propria esistenza il suo comple-tamento.

É come aprire la porta perché della propria casa a qualcuno che entrando ne apprezzi il valore, la bellezza e la comodità guardandola in tutti i suoi particolari. Noi in certi momenti non sapremmo come muoverci senza qualcuno che, anche in modo indiret-to, ci aiuti a riscoprire il valore di quello che stiamo facendo, pensando e program-mando. Così per le tante storie riportate di anziani soli, che esprimevano la necessità di sentirsi ancora utili per qualcuno che si occupasse di loro e li facesse sentire impor-tanti col calore di una presenza e di un’amicizia. Non dimentichiamo l’episodio riporta-to di Virginio dapprima scoraggiato per una vita senza senso, poi dopo aver ricevuto la compagnia di persone che lo sapevano ascoltare, motivato a guarire, a riprendersi la vita, nonostante le sue difficoltà.

Essere se stessi in relazione con gli altri rende la vita aperta e consente di apprezzare le persone che s’incontrano e di andare oltre le possibili delusioni per trovare nella realtà le opportunità per crescere, come di dice lo slogan:

La solitudine non si cura con la compagnia umana. La solitudine si cura attraverso il contatto con la realtà.

9.4 Il rapporto tra il singolo, la compagnia e la realtà

Costituisce l’ipotetico triangolo della vita nel quale si gioca il destino di ciascuna per-sona. Nessuno è così autonomo da non aver necessità del confronto con gli altri, ma dall’altra parte ogni aggregato umano va inserito in un tempo, una storia, un contesto, una precisa situazione.

Non c’è solitudine peggiore di quella di essere posti in un gruppo di amici o compagni dove non si comunica, si teme il confronto e il giudizio e non è possibile portare ragio-ni al di fuori del coro.

Quando l’originalità di ognuno è annebbiata e bloccata dal gruppo, allora c’è da chie-dersi se questo sia davvero un servizio a chi è desideroso di uscire dalla propria solitu-dine e valorizzare delle proprie qualità.

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Il filo rosso di tutte queste storie è il messaggio lanciato da ogni persona di voler uscire da se stessa per entrare in una nuova dimensione.

9.5 La compagnia e l’originalità di ciascuno

Se pensiamo alla vicenda di Enza, si riprende il discorso sulla dicotomia che spesso esi-ste tra la singola persona e il suo gruppo. Si è spesso motivati a stare con gli altri ma poi capita di vedere adolescenti che stanno insieme, si cercano ma poi non parlano tra loro. Si vuole spesse volte sentire solo il rumore delle voci più che decifrare delle voci con le quali intessere una relazione e stabilire un dialogo. É sempre viva l’immagine della passeggiata in montagna con gli auricolari nelle orecchie per udire continuamen-te il suono della musica e non ascoltare altre voci provenienti dalla stessa natura che lì circonda. Si preferisce spesso lasciare entrare voci piuttosto che dialogare, discutere e condividere le esperienze. Per loro il messaggio è suono, frastuono, rumore o scegliere una comunicazione virtuale dove tutti si promettono amicizia e contatti continui.

A questo proposito una signora notava come persone che le chiedevano amicizia in Rete, poi per le vie del quartiere quasi non la salutavano e non le rivolgevano la paro-la. Aveva ragione Margherita, la mamma assai preoccupata per i figli troppo attaccati al mondo virtuale del loro computer, incapaci di stabilire contatti diretti con i compa-gni e in grave imbarazzo nell’esprimersi perfino a scuola. Mentre Ugo, molto preoccu-pato delle apparenze esterne e del benessere materiale, restava prigioniero di se stes-so e bloccato nello stabilire il rapporto con gli altri. Capì di avere bisogno di loro ma non aveva più cose da condividere.

Importante è l’influsso mediatico, oggi molto intenso, col quale soprattutto i giovani possono facilmente essere condizionati per assumere comportamenti che sono impo-sti da altri e divengono subito modelli per tutti. Questo impone maggiore fatica ai ge-nitori chiamati a educare i figli sin dalla loro giovane età. La realtà virtuale però è un’illusoria compagnia che presto annoia e obbliga sempre a ricercare qualcosa di nuovo per passare il tempo ma non da la capacità di inventarsi qualcosa. Siamo vicini alla stessa spinta che Arnaldo provava davanti al gioco che non voleva ma praticava spinto dalla compagnia e dalla moda. Così per l’incapacità di staccarsi perse il contatto con una famiglia che lo seguiva e gli dava fiducia. In questi casi si nota come la compa-gnia virtuale o reale sia di grande ostacolo alla propria realizzazione, e si frapponga all’io che vuole esprimersi ma viene compresso in schemi preparati da altri.

Non c’è in questo caso solitudine peggiore di quella di essere in un gruppo dove non si comunica e nel quale si teme il confronto perché ci si sente giudicati e andare fuori dal coro.

Il cammino della vita è certamente pieno di sorprese e d’imprevisti, primaria resta la ricerca di un’adatta compagnia con cui confrontarsi. É il primo obiettivo per potersi in-serire e crescere. Certo bisogna porre attenzione se gli altri siano utili alla crescita e non virtuali o addirittura sfruttatori che strumentalizzano gli altri ai loro fini.

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9.6 Accompagnati nelle prove decisive

Nella nostra narrazione una parte è dedicata a persone inferme, anziane e vicine al trapasso. L’essere di fronte a eventi intensi e decisivi quale la propria fine, conferisce a ognuno un’enorme responsabilità e rende l’assistenza di altri non un orpello opziona-le, ma una necessità vera e indispensabile per non sentirsi soli o abbandonati di fronte alla malattia o alla morte.

Era la situazione di Armando, fino a poco tempo prima brillante lavoratore e attivissi-mo padre di famiglia, poi improvvisamente malato con fondati motivi di ritenere im-minente la propria fine. Il suo dolore sarebbe stato non tanto finire, ma lasciare i suoi cari che gli avevano dimostrato un attaccamento, una disponibilità e affetto tali da fa-vorire il decorso della sua malattia, meglio delle terapie. A riprova che quando si tra-smette amore, attenzione, solidarietà la vita di una persona ne esce come trasformata e ciò che poteva essere un dramma, una tragedia, diviene motivo di speranza perché non sono gli eventi esterni a condizionare quanto la presenza di qualcuno in grado di trasmettere vicinanza e partecipazione. Una compagnia ben unita dà sicurezza anche quando non si hanno la capacità di prima.

Quanto è preziosa l’assistenza che riempie la solitudine di quanti aspettano la morte imminente del proprio corpo sempre più prostrato dalla malattia o dalla vecchiaia! Si gioca qui la battaglia della vita per affermare che l’accompagnamento familiare e soli-dale è un valore indispensabile quando tutte le forze si spengono e il pensiero si proietta sui ricordi del passato e sul timore del passaggio verso un’altra vita o verso … forse il nulla e si avverte il senso della propria impotenza, si sente la necessità della presenza di persone capaci di ridare fiducia, speranza, significato e dignità. Così valga per quello ancor più duro della morte.

Qual era la pena di Clara? Non aver potuto accompagnare il marito nel suo decesso improvviso, prematuro e inaspettato. Il suo dolore diveniva rimorso per non essere riuscita a fare quello che avrebbe voluto. Le persone scomparse continuano a essere presenti nei viventi, aiutano a ripensare la loro esistenza, ma generano anche nostal-gia dei bei momenti passati insieme e dolore per il male che si sarebbe potuto evitare. Il dramma di Clara era avvertire la presenza del marito ovunque nella casa, quasi fosse un fantasma. Quanti come lei continuano a vivere in compagnia di un defunto prose-guendo il dolore della scomparsa in una lotta che non riesce a sciogliere il legame e fa considerare la propria vita finita?

Questo legame genera una vera e propria dipendenza, può essere sciolto solo con la compagnia di altre persone capaci di sviluppare il senso della bellezza, il fascino e il bi-sogno di confrontarsi con gli altri per rendere non solo la morte meno dura, ma anche ritrovare la volontà di giocarsi nella propria missione. La morte non è una buona com-pagnia, al massimo è una compagna obbligata che propone solo solitudine e immagini non più ripresentabili, invece di lasciare riprendersi per credere ancora nella possibili-tà di reinventarsi una nuova vita.

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É la scoperta come avevano fatto i genitori di Andrea che, anche se non più giovani, hanno deciso di accogliere una nuova vita senza temere i giudizi degli altri. Era quanto invece temevano Piera e Carlo non più nelle stesse condizioni di pochi anni prima ma ancora pronti a essere utili per gli altri pur avvertendo sofferenza per la freddezza e l’indifferenza altrui. Certo a dolore si aggiunge dolore quando una persona è emargi-nata perché considerata incapace di assolvere tutti i compiti che svolgeva con zelo fino a poco tempo prima.

É proprio quando le forze fisiche, psicologiche e la motivazione vengono meno, che è necessario ricevere il supporto degli altri, la famosa compagnia che non ti abbandona. Certo la dipendenza da altri è dura da accettare, ma tutto si semplifica se s’incontrano persone come i volontari che assistevano Virginio piuttosto che Piera o una coppia come Delio e Giuliana; con la loro voglia di donarsi diventano un riferimento sicuro e risorsa potente per infermi e soli in crisi esistenziale.

La compagnia dell’amore vince la solitudine del cuore e la paura e, come con Graziano, dà la motivazione a vincere ogni male con il bene, rende possibile il perdono, fa com-prendere gli sbagli e fa riscoprire il gusto di vivere anche dopo errori e gravi scorret-tezze come con Gertrude! Non c’è solo la fase terminale della vita che esige un ac-compagnamento per trovare la possibilità di una risurrezione a nuova vita.

10 E sulla solitudine quali le riflessioni?

10.1 La solitudine dell’illusione

La solitudine è il più straordinario mezzo per entrare in intimità con noi stessi. E, para-dossalmente, la solitudine è anche il miglior mezzo per imparare a comunicare. Solo conoscendomi, cioè conoscendo la mia interiorità, posso parlare all'interiorità dell'al-tro. Se vale questo corollario allora vuole dire che essere soli dà la possibilità di capire quello che si vuole e di riflettere su ciò che possiamo realizzare. Certamente soltanto quando si è davvero soli è possibile raccogliere le proprie idee e le proprie esperienze per una attenta riflessione. Anzi non saper mai trovare tempo per stare soli con se stessi è il segnale della paura di cambiare, correre per fare, ma un’occasione per ra-gionare criticamente su quello che si fa anche in rapporto con gli altri.

É significativa l’esperienza di Armilla, contenta di realizzare il progetto della famiglia, scopre che il suo ragazzo l’ha ingannata lasciandola nella solitudine. E così Flora, anche lei delusa e tradita. La solitudine dopo un fallimento porta diffidenza con tutti. In fon-do pur essendo anch’egli illuso Graziano aveva vinto la battaglia contro se stesso e la propria rabbia, aveva saputo perdonare fratello e nipote per le loro scorrettezze eco-nomiche e falsità. Si era come rimesso in piedi dopo una forte delusione senza lasciarsi prendere dall’istinto e senza perdere di vista il punto centrale: la fiducia in se stesso e nel Bene trionfa sempre, sapendo che le illusioni esistono perché gli altri non sono e non saranno mai quello che sembrano.

C’è un cammino di fiducia per quello che può accadere che fa lievitare la solitudine,

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non la lamentazione. Pensiamo a Elisa non si è arresa al tradimento ma ha reagito al male con una rinnovata carica di bene. Si era illusa sul marito, ma era sicura che stava percorrendo la giusta via.

10.2 La solitudine e la mancata pace

Trovare la pace in unione con gli altri e con il mondo è uno slogan sintetico che va nel-la direzione giusta. Essere soli non significa necessariamente isolamento o incapacità relazionale per una tranquillità interiore rispetto il contesto caotico e rumoroso del mondo. Trovare la pace non significa stare zitti o togliersi dalla vita sociale, ma sapersi accettare per quello che si è.

Pensiamo all’esperienza di Mario, che pur capace sul piano tecnico, culturale e lavora-tivo, non aveva trovato la pace interiore, non era accettato e non accoglieva il mes-saggio degli altri. Non si tratta di essere pessimisti: tanto quello che siamo non sarà mai quello che gli altri vogliono, ma di capire che la vera pace, il punto di incontro tra le persone forma la base per un equilibrio tra il sé e gli altri che va sempre rinnovato.

Piera e Carlo non avevano commesso nulla di male, anzi Carlo era stato fin troppo ge-neroso verso il nipote, eppure avvertivano di essere messi da parte. Erano persone che avevano comunicato tanta passione, ci avevano creduto e ottenevano come risul-tato l’essere dimenticati e lasciati soli. La pace con se stessi dipende dalla propria co-scienza che non si rimprovera nulla e ha la conferma dagli altri. Gertrude aveva commesso gravi errori ma aveva il desiderio di riscattarsi e di accettarsi pur con le proprie mancanze.

Enza, e come lei molte persone piuttosto attente ai messaggi degli altri, comprendeva l’importanza di una buona relazione con l’ambiente circostante. Essere soli spesso equivale perdere il contatto con il mondo. Esisterà sempre uno scarto tra quello che ciascuno è e quello che vorrebbe essere ma proprio qui è bene ricordare: la solitudine è una pace in evoluzione.

Non è possibile trovare tale pace se sono compressi sentimenti e idee per stare a gal-la. Ciascuno vuole esistere per qualcuno. E allora si può anche litigare, colpirsi, pur di non essere soli. La pace con se stessi è una conquista che però non deve distruggere.

10.3 Soli e in solitudine

Una dicotomia della nostra trattazione riguarda il rapporto tra l’essere soli e la solitu-dine. Gli stessi testi biblici sono un supporto alle esperienze dell’uomo che desidera non essere solo e ricerca le amicizie con le quali condividere i propri progetti di vita.

Siamo nella realtà dove occorre confrontarsi con gli altri e non rinchiudersi in se stessi nonostante esperienze andate male. Tutte le persone avvertivano la paura di restare sole, come Ugo e Armilla che dopo esperienze negative continuavano a cercare gli al-tri. Nessuno uomo è un’isola, ma è anche vero che nessuno vuole vivere completa-mente isolato senza cercare possibili isole al suo fianco.

La solitudine, condizione innanzitutto positiva permette una riflessione sulla vita e i

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suoi progetti illuminata dalla Provvidenza che permette nella sua rielaborazione di ri-valutarsi, riprendersi, ripensare le proprie esperienze di vita senza alcun condiziona-mento esterno e con la fiducia in se stessi nonostante qualche disavventura. Siano si-gnificative le storie di Armilla e Pippo, che pensavano addirittura di farla finita, invece hanno saputo rielaborare la propria solitudine.

Certamente i volontari di Virginio, Carlo e Pippo sono stati una risorsa per ripensare la propria storia come quella di Pippo, rifiutato dai suoi, allontanato dall’ambiente di la-voro, messo da parte dalla società normale e poi riscoperto come persona da altri di cui non avrebbe mai sospettato l’esistenza. Si comprende come la presenza di qualcu-no che dimostra affetto e attenzione può sprigionare stimoli preziosi per rivedere e ri-qualificare il proprio vissuto. Solitudine è non tanto una condizione, quanto una di-mensione permanente nella quale si ricerca e ci si confronta per capire ed elaborare la propria storia.

Diceva una mistica contemporanea Madeleine Delbrêl:

Molte tristezze umane sono solitudini. Se rendiamo a Dio l'onore della nostra gioia, è perché tutte le nostre solitudini saranno state colmate da lui. La solitudine mio Dio non consiste nel fatto che siamo soli, ma che Tu sei presente. Infatti di fronte a te tutto muore o si trasforma in Te.

Si recupera la dimensione della Provvidenza, la presenza continua del Divino dentro ciascuno. Certo è necessario aprirsi con fiducia a Dio, instaurare un rapporto di sotto-missione al suo volere e di verifica dei propri comportamenti alla luce della sua Parola. Da qui la sensazione di pace e serenità pienamente acquisita da Tarcisia, Flora, Ger-trude e Graziano, avevano capito di poter contare su Dio e non solo su se stessi o sugli altri. Umiltà non significa né resa senza capire, né sottomissione senza esprimere se stessi, quanto volontà di leggere la propria storia alla luce di una Presenza che le con-ferisce il valore di un dono per la missione di collaborare alla costruzione del Regno dell’amore universale.

10.4 Non voler stare soli, e in solitudine

Potremmo riflettere sull’esperienza sofferta e il messaggio di aiuto di Margherita per i due figli adolescenti e di Arnaldo. Che cosa si può dire? Due riflessioni:

Siamo in una società che bombarda di notizie, immagini, suoni, dove in moltissime case nel giro di pochi anni si sono visti entrare computer, video games, telefonini, note book, i pad, ecc. Che cosa ha segnato tutto questo? Quello che diceva Mar-gherita del figlio Valentino, non voleva stare solo ma nemmeno ascoltare la pro-pria solitudine e s’immergeva in una quotidianità fatta di suoni e rumori che lo estraniavano dalla famiglia e creavano difficoltà scolastiche. E inoltre il mondo vir-tuale lo rendeva preda di tutte le più recenti tecnologie per non sentirsi escluso dagli altri. Il mondo virtuale prendeva più consistenza a dispetto del proprio mondo reale.

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In questo spazio Margherita doveva, con l’aiuto del marito, definire gli strumenti edu-cativi per valorizzare il bene dei figli e avere anche il coraggio di dire: basta con gli sms scritti in modo quasi da codice militare. Telefonate, fate sentire il suono della vostra voce e le sensazioni che state provando.

C’è anche la situazione di Arnaldo simile alle persone deboli di carattere, incapaci a dire di no agli altri per la paura di non avere amici o compagnie. Tutti cercano la compagnia per evadere, passare ore liete nella salvaguardia del proprio valore. Non si può essere annullati dagli altri per scambiare la propria persona come se fosse una specie di merce da contrattare. Arnaldo serviva solo perché c’era un gio-catore in più al tavolo e sapeva scommettere. Andava benissimo perché annullava la sua personalità a favore dei compagni di gioco rinunciando alla sua dignità per il timore di restare solo. Ecco perché è necessario essere forti per amare la solitudi-ne. É un’opportunità da difendere, promuovere e realizzare senza cedimenti.

10.5 Solitudine del bene o del benessere?

Nel testo abbiamo voluto mettere in rilievo alcune parabole evangeliche tra cui quella del ricco Epulone e del figlio prodigo, persone amanti della vita gaudente che abbiamo confrontato con la storia di Ugo proprietario di molti beni.

Ma come fare la scelta del bene piuttosto del solo benessere economico individuali-sta e qualunquista? Era la realtà di Ugo sempre alla ricerca del divertimento, della va-canza nei luoghi più impensabili, degli oggetti di maggior prestigio in competizione con le persone per non essere soli. I beni danno la sensazione di benessere, ma fanno ri-cadere nel vuoto di una vita priva di rapporti autentici per la ricerca di sensazioni e di nuovi amici per superare l’abitudine come con le compagnie di Arnaldo. La ricerca del benessere alimentata dagli altri porta verso una posizione solitaria dove non si sa più chi davvero è amico.

E’ in questa linea che va rielaborata la solitudine come riflessione sul vero bene per la realizzazione della propria personalità a partire dalla conoscenza di sé e dalla volontà di donarsi agli altri.

Né il ricco Epulone, né il giovane prodigo erano contenti, tanto è vero che di fronte al-le contingenze della vita, quando il benessere può venire meno, ognuno deve provve-dere a se stesso. Un mondo senza solidarietà e amicizia porta a screditare qualsiasi ri-ferimento etico.

É la situazione nella quale vengono a trovarsi anche i giovani che devono confrontarsi col consumismo a cui si può qui applicare la massima:

la vera, devastante solitudine non è di chi è solo da solo con se stesso, ma di chi è in due o in compagnia di altri e dispera di poter essere di nuovo solo da solo.

10.6 Puntualizzazioni sul bene

Il bene che cos’è? Nel testo, abbiamo più volte presentato persone e compagnie che si sono approfittate degli altri ispirando fiducia con maschere di opportunismo, egoi-

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smo, egocentrismo e prepotenza come con Fiorenzo, i parenti di Graziano, il marito di Elisa, i presunti benefattori di Flora o anche i consiglieri di Gertrude.

Certamente la compagnia di Dio di Gesù per il cristiano significa non tanto non avere necessità degli altri, quanto impegnarsi a scoprire negli altri il volto nascosto di Dio. Questa ricerca motiva e sostiene il proprio impegno atto a far diventare la vita: un do-no, un servizio, un’apertura generosa verso le altre persone spinti solo dal desiderio di creare rapporti veri, sinceri e capaci di raggiungere il Bene della piena integrazione tra tutti. Se si pensa in questa direzione, è rivalutata la stessa unione matrimoniale, piut-tosto che l’amicizia per raggiungere con gli altri la pienezza e la completezza del pro-prio essere.

Se nessuno è un’isola, se nessuno può fare a meno degli altri, è perché tutti dobbiamo cercare con gli altri e in loro la più completa realizzazione di noi stessi nella piena inte-grazione. Essere soli equivale a non nutrire speranza per il futuro, e non avere nem-meno un oggetto o una persona per la quale valga la pena vivere e impegnarsi. In altre parole è davvero solo chi non sa amare in compagnia. Il ricco Epulone e Ugo erano so-li, pur avendo molti mezzi, molte ricchezze, ma cosa amavano davvero? Amare se stessi in modo narcisistico, vuole dire saper trovare sempre una giustificazione a tutto, piuttosto che propendere verso un morboso attaccamento ai beni terreni con tutte le agiatezze che non danno la tranquillità interiore e la pace vera.

E dunque come vincere la solitudine? La solitudine non va vinta, non va combattuta come fosse un avversario di cui dobbiamo sbarazzarci. Non si tratta di una malattia da curare, un agente da sconfiggere, ma la dimensione principale del proprio esistere, è la possibilità di comprendersi e analizzarsi, per riuscire a recuperare la propria identi-tà. Chi non sa riflettere, non definisce in modo chiaro e consapevole la propria identità imparando dai rilievi degli altri e dalle proprie esperienze. Si diviene persone sole per-ché incapaci di crescere, di solidificare il rapporto tra sé, gli altri e la realtà. Il tempo passa, i progetti si evolvono, le persone si conoscono e le compagnie si formano, ma la solitudine di se stessi è l’unica dimensione che consente di far sintesi in tutto con lo scopo di realizzarsi nel Bene.

Basti l’esempio di Mario, il giovane studioso molto diligente che aveva necessità di trovare una modalità comunicativa per permettere agli altri di entrare nella sua vita e mettersi in relazione con loro. Solo rielaborando la propria solitudine in queste com-ponenti gli era possibile il salto di qualità per gustare, apprezzare e integrare se stesso con gli altri.

Più che mai la solitudine è condizione necessaria per la comunione con gli altri, per un incontro più capace di dare pienezza a se stessi e rileggere il messaggio che si trasmet-te con la propria condotta di vita. É il cammino di crescita, la condizione per realizzarsi pienamente non in totale dipendenza dagli altri.

Cercare momenti adatti per leggere la propria solitudine è operazione non solo saggia e intelligente, ma unica per conferire al proprio io il suo significato più profondo

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(l’interiorità) valore mirante ad uscire da se stessi per immergersi nell’alterità che in-terpella e nello stesso tempo completa ed integra se stessi. Abbiamo detto nell’amore, sì di quell’amore che non lascia mai solo chi davvero ci crede, s’impegna e continua ad alimentare la speranza.

11 La collana Itinerari d’amore

È una collana su amore, sessualità e amicizia, che si mostra insolita se non altro per-ché scritta da un sacerdote, don Paolo Gessaga, che non vuole fare del catechismo ma aiutare a comprenderne significati e conseguenze delle scelte di vita in un momento in cui sembra predominare la precarietà.

L’idea è partita dall’imponente documentazione che don Paolo aveva raccolto nella sua attività in un centro di consulenza familiare e dalla sua pastorale parrocchiale e ca-ritativa.

Ogni libro affronta un aspetto della comunicazione soprattutto tra le coppie e con i fi-gli partendo dalla riflessione su casi concreti, cerca di illuminarli con la luce della fede che attraverso il dono di sé stessi aiuta a superate le difficoltà.

Nella collana sono già stati pubblicati:

Scoprirsi e farsi scoprire Cammini personali e di coppia.

Vivere il distacco. Testimonianza di vita di coppia

Dalle coppie alla coppia. Racconti biblici di vita in coppia

Corpo: volontà di donarsi o piacere di consumarsi. La sessualità anche fuori del-la vita di coppia

Educare, educarsi, essere educati

La compagnia della solitudine

Rivivere il distacco

Vivere il vangelo in famiglia, spiritualità del padre nostro

Essere malati o vivere la malattia

12 L’autore

Don Paolo Gessaga è sacerdote paolino, con diverse esperienze pastorali di ascolto e consulenza sulla famiglia e di parrocchia. Ha poco più di cinquant'anni, di origine vare-sina e con studi sulla morale familiare. Attualmente parroco a Legnano e autore di al-tre pubblicazioni sempre sul tema della comunicazione a partire dal vissuto di persone e famiglie da lui incontrate nel ministero.

Per informazioni scrivere a: [email protected]